ISSN 1827-8817 90612
È il valore dell’oggetto proprio della conoscenza quello che determina la superiorità di una scienza, o la sua inferiorità
di e h c a n cro
9 771827 881004
Aristotele
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Una grande folla si è riunita ieri a Roma per dare l’addio al direttore di liberal
L’ultimo saluto a Renzo Foa, esempio di libertà
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
IL DITTATORE CONTESTATO ALLA SAPIENZA
Vattene Accolto con gli onori (e i capricci) di un re, difende il terrorismo e dice che gli Usa sono come al Qaeda. Senza che il governo gli risponda duramente. Sarebbe meglio “respingere” lui, non i disperati… alle pagine 2 e 3
di Luisa Arezzo
ROMA. Si piangeva senza occhiali e senza vergogna, con sobrietà. Passandosi accanto, sfiorandosi, sorridendosi, raccontandosi. Mani in continuo rimestio, parole sottovoce, piccole risate a far franare il muro di quel silenzio ovattato richiesto dalle circostanze più dolorose: il saluto a chi si è amato profondamente. Eravamo in tanti a salutare Renzo ieri, all’ombra del chiostro cinquecentesco di Vicolo Valdina. In quello che in epoca paleocristiana era il convento delle monache basiliane e che oggi è il cuore pubblico della Camera dei deputati. Nella sala del Cenacolo (che bizzarria la vita, che posto perfetto per lui che i sapori amava così come la vita semplice, accogliere i suoi amici nella sala dell’antico refettorio!) è stato data vita a un amarcord. Si coglievano racconti che sapevano di langa e di sudore e parole dai colori assolati del mare di Lido dei Pini. Frasi che raccontavano di tipografie e giornali, discorsi lievi che onoravano l’intellettuale di rango che Renzo rappresentava. «Un uomo la cui scomparsa addolora. Fortissimamente addolora. Nella sua passione per la libertà dell’uomo mi riconoscevo anch’io», così Andrè Glucksmann mi aveva detto al telefono ieri, mentre gli comunicavo la scomparsa di Renzo. Una passione che ieri ha raccolto assieme non solo il presente e il passato di Renzo, ma anche ambienti punto diversi della vita politica e culturale di quell’Italia che lui amava – con forza, discrezione, determinazione – e il cui pensiero critico aveva alimentato senza sosta. Diventandone interprete e protagonista. s eg ue a pa gi na 10
Le elezioni di oggi nell’analisi di uno dei più noti esperti di politica mediorientale
Il mondo guarda al voto in Iran Gli ayatollah vogliono liberarsi di Ahmadinejad. Ci riusciranno? di Michael Ledeen oltanto uno sciocco, o il migliore degli infiltrati, cercherebbe di predire il risultato di quell’elaborato gioco di passioni - anche conosciuto come “elezioni” - attualmente in corso in Iran. Ma è chiaro come l’insoddisfazione e l’odio nei confronti del regime siano attualmente per le strade di Teheran e, presumibilmente, nelle altre città del Paese. I reporter che girano per la capitale persiana usano un linguaggio molto forte per descrivere le dimostrazioni contrarie al governo. Il London Times scrive: «Si è trattata di un’insurrezione aperta, una ribellione come mai si era vista nei trent’anni di storia della Repubblica islamica, un’eruzione di rabbia contro il governo repressivo di Ah-
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gue a p•aE giURO na 91,00 (10,00 VENERDÌ 12 GIUGNOse2009
CON I QUADERNI)
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madinejad. Le diverse migliaia di dimostranti che si sono riunite nello stadio di Teheran hanno intonato “morte al governo”, mentre altri manifestanti - vestiti di verde per segnalare il loro sostegno al candidato Mir Hossein Mousavi, urlavano “morte ai dittatori”». Per il Wall Street Journal, inoltre, «le decine di migliaia di persone unite insieme hanno formato un serpente umano lungo dodici miglia. Una scena che ricorda quelle della rivoluzione del 1979». Questi articoli parlano di due manifestazioni diverse: una nello stadio centrale, l’altra per le strade. Eppure i cori sono simili: “morte al dittatore”,“morte al governo delle bugie”.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Tour. Continuano le vacanze romane di Gheddafi: dalla visita ai senatori alla contestazione all’università
Il dittatore d’Italia
Prima elogia i terroristi, poi dice che gli Usa sono come al Qaeda. Timida replica di Frattini. Ma gli studenti alla Sapienza lo fischiano di Franco Insardà
ROMA. Nei suoi primi due giorni di permanenza a Roma Muammar Gheddafi ne ha fatte davvero di tutti i colori. Il riferimento, ovviamente, non è soltanto alla varietà cromatica dei suoi abiti e delle auto, ma soprattutto alle dichiarazioni e agli atteggiamenti tenuti. Mercoledì ha prima preteso che il presidente Berlusconi lo accogliesse al suo arrivo. Quindi ha ostentato, su un’uniforme plurimedagliata, la foto della cattura di un eroe della resistenza libica contro gli italiani: Omar Al Muktar, noto come il “leone del deserto”. E poi si è fatto ac-
Arriva in ritardo a Palazzo Giustiniani e si scaglia contro il colonialismo per chiedere «risarcimenti, non carità». Per Schifani: «Un incontro storico» compagnare dall’ultimo discendente di Al Muktar, ormai ottantenne. Se non bastasse con la stessa divisa è andato al Quirinale, accolto dal presidente Napolitano. E fortuna che per l’incontro a Palazzo Chigi con Berlusconi ha, invece, indossato un completo nero e un basco dello stesso colore.
I n t an t o i e r i Gh e d da f i avrebbe dovuto parlare nell’aula di palazzo Madama, ma le proteste dell’Udc, dell’Italia dei Valori, degli esponenti radicali, di buona parte del Pd – alle quali si è aggiunta l’iniziativa di liberal – lo hanno impedito. E così Muammar Gheddafi, vestito di bianco e con il basco nero, è stato accolto a Palazzo Giustiniani, sede della presidenza del Senato. Al suo seguito un imponente apparato di sicurezza, composto da poliziotti e carabinieri italiani e da agenti libici, con il quale si è presentato a Palazzo Giustiniani con circa 50 minuti di ritardo rispetto all’orario previsto. Si è fermato con la limousine bianca davanti all’ingresso e siccome l’enorme auto su cui si sposta nella capitale non passava, è dovuto entrare a piedi. Renato Schifani ha parlato di «incontro storico». E poi ha aggiunto: «Dobbiamo investire sul futuro comune, su uno sviluppo congiunto dei nostri continenti che porti pace e sicurezza,
Da quando l’Italia ha cambiato alleati? di Giancristiano Desiderio uammar el Gheddafi è stato ricevuto con onori e attenzioni come si fa con un capo di Stato. Anche qualcosa di più.“Amico”: così Silvio Berlusconi lo ha definito. La parola “amicizia”è usata spesso e volentieri dal presidente del Consiglio: “amico Putin”, “amico Gheddafi”. La politica estera di Berlusconi è caratterizzata spesso e volentieri dalle sue proprie amicizie personali. Recentemente il Cavaliere ha anche teorizzato questa “diplomazia dell’amicizia” spiegando che i rapporti internazionali tra governanti e capi di Stato riescono meglio e si rivelano più proficui se c’è un clima di simpatia e amicizia personale. “L’amico Gheddafi” ha contraccambiato la mano tesa del presidente del Consiglio italiano e appena atterrato a Campino ha ringraziato così: «Sono qui perché l’Italia si è scusata. Ora è una nazione amica». Tanto per essere chiari. Dopotutto, non si dice “patti chiari, amicizia lunga”?
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Il leader libico - se qualcuno l’avesse dimenticato - è un dittatore. Ogni dittatore ha bisogno di un nemico esterno, vuoi del presente vuoi del passato e persino del futuro, per alimentare e soffiare sul fuoco del consenso nazionalista interno. Fin quando tra Libia e Italia “pesava”il passato coloniale di inizio Novecento e del regime di Mussolini, il Colonnello non perdeva occasione per ricordare le colpe degli italiani e regolava i rapporti con i suoi “dirimpettai” chiedendo scuse, ammissioni di colpe, risarcimenti. Ora che con il trattato italolibico - che già ha un anno di vita -
le scuse sono state fatte e i rapporti tra Roma e Tripoli sono stati messi nero su bianco, il Colonnello può e deve mettere da parte il suo spirito nazionalistico. Invece, Gheddafi sembra essere quello di sempre e la “diplomazia dell’amicizia” non sembra su questo punto essere fruttuosa. Il leader libico ha scelto la sua “vacanza romana” per dire che «gli Stati Uniti sono terroristi, come Bin Laden» e «il terrorismo islamico ha le sue ragioni». Un occhio di riguardo per “l’amico Silvio” che, naturalmente, è amico di Barack Obama? Un omaggio alla sua abituale politica nazionalistica che usa la politica estera per motivi di politica interna? Nonostante l’ostentata amicizia, c’è qualcosa che non va tra la Libia e l’Italia. Almeno, c’è qualcosa che non va fino a quando Gheddafi viene in Italia a tenere “lezioni” sul passato e sul presente e né il presidente del Consiglio né alcun rappresentante del governo sente il bisogno di ricordargli che l’Italia è una nazione amica, ma ancor più è amica degli Stati Uniti d’America che non sono terroristi.
Il trattato italo-libico ha le sue convenienze: sia per l’Italia, sia per la Libia. La natura di quel trattato è soprattutto economica, anche se Gheddafi enfatizza ad arte il «revisionismo italiano» in uno strano capovolgimento delle parti: come se oggi fossimo proprio noi i “colonizzati”. Da dove nasce questa strana situazione? Da quella “diplomazia dell’amicizia” che invece di fare e pretendere chiarezza sembra equivoca, fino a essere causa di incidenti internazionali. Il problema, come al solito, è italiano. Non certo libico. Gheddafi fa come ha sempre fatto la sua politica nazionalistica. È la natura stessa del suo potere che lo ”obbliga” a tenere la scena parlando da leader carismatico al suo popolo, anche se i nuovi rapporti tra Italia e Libia in nome del trattato e in nome di un passato che ormai accomuna le due nazioni e i due popoli dovrebbero imporre al leader libico uno stile meno ostile e più aperto e collaborativo. Ma a chi spetta far rispettare il nuovo stile se non all’Italia?
uso razionale delle risorse, governo delle dinamiche migratorie nell’obiettivo di un’armonica convivenza tra i popoli, nel pieno rispetto dei diritti umani riconosciuti dalla Comunità internazionale». Gheddafi nel suo intervento ha citato Berlusconi, Andreotti, Cossiga, Dini e ha parlato di un incontro con «vecchi amici». «L’Italia di oggi non ha nulla a che fare con l’Italia di ieri. Ho sempre detto che l’Italia doveva chiedere scusa per quanto fatto nel periodo fascista e in quello prefascista. Serviva una condanna del passato e un riconoscimento degli errori del colonialismo». Quindi ha parlato di «giustizia di Dio» riferendosi a come Mussolini venne giustiziato in piazza. Eppure poca cosa rispetto a quanto ha detto sul terrorismo e le dittature. Con un azzardato paragone con l’impero romano – «quando Giulio Cesare e Augusto governavano da dittatori con l’appoggio del Senato» – il colonnello ha provato a giustificarli. Premettendo di «condannarli» fermamente, ha finito per definirli forme di «difesa» dalle usurpazioni del mondo occidentale. Questo il suo pensiero: «Si definiscono terroristi quelli con i fucili e le bombe, ma come definire allora le potenze che hanno missili intercontinentali? Qual è la differenza tra azioni di Bin Laden e l’attacco contro la Libia di Reagan nel 1986? Non era terrorismo quello?». Quanto alla politica Usa ha aggiunto che l’Iraq «grazie a loro che hanno ucciso Saddam si sono spa-
All’ateneo romano l’Onda studentesca lo costringe ad andare via prima. Soltanto i tifosi della Roma gli danno il benvenuto lancate le porte ad al Qaeda trasformandolo in un emirato estremista». Dimenticando però fu proprio lui a battersi contro la concessione di un salvacondotto al rais di Bagdad proposto da alcune cancellerie europee (in Italia ne parlò Marco Pannella) per evitare il conflitto. Un gruppo di senatori dell’Idv, guidati dal capogruppo Felice Belisario, hanno accolto Gheddafi a palazzo Giustiniani esibendo un facsimile di un attestato accademico con la scritta «Laurea Horroris Causa» per la violazione dei diritti umani. Gli uomini di Di Pietro avevano appuntata sulla giacca una foto dei resti dell’aereo Pan Am esploso sui cieli della Scozia a Lockerbie, accompagnata dalla scritta “270 morti”.
Alla Sapienza le cose non sono andate meglio. L’arrivo del dittatore è stato preceduto da scontri fra studenti e polizia. E questa volta il tocco di colore lo hanno dato i ragazzi dell’Onda, che hanno lanciato vernice rossa contro le forze dell’ordine, macchiando scudi e divise. L’incontro, che era già slittato dalla tarda mattinata al pri-
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Boniver: scandalo eccessivo, i suoi slogan sono gli stessi di certa sinistra
«Parla al suo popolo» Così il Pdl minimizza di Errico Novi
mo pomeriggio, è stato segnato da una serie di proteste degli universitari. Al grido «Gheddafi e Berlusconi li vogliamo sui gommoni», mostravano quattro canotti gonfiabili che simboleggiano i respingimenti dei clandestini. Il Colonnello è stato accolto dagli applausi di una cinquantina di curdi con bandiere con l’immagine del leader del Pkk, Apo Ocalan.
Le proteste sono continuate dentro e fuori dall’aula magna dove, fra applausi e fischi, Gheddafi ha tenuto il suo discorso. A un signore che gli ha ricordato i rapporti delle organizzazioni umanitarie sulle condizioni delle carceri libiche il dittatore ha risposto: «Se venissero qui milioni di persone dicendo di essere rifugiati politici li accettereste? Se li accetterete io sarò con voi sempre nel rispetto dei diritti dell’uomo». Ha anche annunciato che al G8 di luglio ribadirà che «l’Europa ha rapinato le risorse dell’Africa, e deve risarcire. Non è carità, non è un regalo: è un diritto. È così che si risolverà il fenomeno dell’immigrazione». Ma la sua permanenza alla Sapienza è durata meno del previsto per la contestazione degli studenti. Gheddafi, coperto dal suo staff, che aveva cominciato ad applaudire per coprire i fischi, è uscito e ha lasciato la sala in anticipo. Clima diverso, invece, in Campidoglio dove il rais è stato accolto anche da uno striscione giallorosso con la scritta: «Benvenuto Gheddafi, forza Roma». Quando si dice che lo sport unisce.
ROMA. Deve essere proprio il destino ineluttabile di questo governo e della sua maggioranza: tollerare gli eccessi dei leader che parlano alla loro opinione pubblica. E per questo possono permettersi di tutto, di giustificare il terrorismo e descrivere gli Stati Uniti come avanguardie di bin Laden e al Qaeda. Non c’è alcun particolare sdegno tra gli esponenti del Pdl dopo le bordate del colonnello. Non s’industria la consueta contraerea, e d’altronde sarebbe difficile muoversi su un piano così scosceso come quello dei rapporti Roma-Tripoli. «Non possiamo certo essere d’accordo su tutto», risponde il ministro degli Esteri Franco Frattini a chi lo interroga sulla concione anti-americana del colonnello, aggiungendo che quello sulle colpe degli Usa in Iraq «è stato un discorso forte».Tra i pochi altri titolati a intervenire c’è la presidente del comitato parlamentare su Schengen e l’immigrazione, Margherita Boniver: «Va ricordato che nelle critiche a Washington il leader libico è in buona compagnia: l’opinione pubblica democratica di mezzo occidente, all’epoca della guerra di Bush, si è mobilitata con slogan del tutto simili ai suoi». Ieri infatti è sembrato di ascoltare un discorso sul terzomondismo di Diliberto o Paolo Cento. Forse non ci si aspettava un’uscita così pirotecnica dopo le molte buone intenzioni con cui era stata incorniciata la prima visita ufficiale di Gheddafi in Italia. Ma la Boniver ribadisce di non essere sorpresa: «È un personaggio indubbiamente molto imprevedibile: a lui d’altronde interessa parlare alla propria opinione pubblica interna. E ripeto: dire male oggi di Bush è come sparare sulla croce rossa».
anni Trenta». L’occhio americano non può che percepire positivamente tutto questo: «Gli Usa hanno delegato volentieri agli europei, e soprattutto agli italiani, il confronto con un leader così erratico, imprevedibile e cagionevole nelle sue esternazioni. Gradualmente Tripoli sta diventando per l’Occidente un interlocutore più affidabile».
La pensano tutti così? No, non tutti. Ma chi si distingue dalla Boniver non lo fa in genere per mettere all’indice Gheddafi. Il solo che assumerà questa posiozione sarà quasi certamente il presidente della Camera Gianfranco Fini, che riceverà l’ospite d’Oltremare oggi, dopo che il suo predecessore Pier Ferdinando Casini ha protestato per «le modalità con cui è stato accolto il leader libico , che hanno violato il senso del decoro e della dignità», giacché «bisogna avere rispetto per chi in quel Paese soffre ma bisogna tenere conto anche di cos’è quel regime». Lo sconcerto dell’opposizione – non di tutta, si compiace il deputato Pdl Osvaldo Napoli, secondo cui anzi la contraddizione tra D’Alema e il resto del Pd «è lacerante e umilia il Paese – lascia piuttosto indifferente quasi tutta la maggioranza. Anzi, fonti berlusconiane che da settimane sposano la tesi del complotto obamiano, e che preferiscono restare anonime, così reagiscono di fronte alle notizie delle tensioni alla Sapienza per l’intervento del Colonnello: «La cosiddetta Onda degli studenti dimostra l’incredibile paradosso in cui si sta dissolvendo la sinistra italiana: alla fine è diventata filo-americana. Solidarizza con Wall Street e il Wto, con la globalizzazione dei mercati, vive nel culto obamiano, come la maggior parte della stampa americana, ed è contro il terzomondista Gheddafi: chi lo avrebbe mai detto». Certo è che il presidente del Senato Renato Schifani non mostra alcun imbarazzo nel complimentarsi con Gheddafi per un discorso giudicato «importante» e ad assicurare che lo inviterebbe di nuovo. È in ogni caso difficile, davvero difficile, non condividere lo smarrimento del capogruppo Udc a Palazzo Madama Gianpiero D’Alia quando dice: «È incredibile che al colonnello sia stato concesso di tenere una ‘lectio magistralis’ alla Sapienza, dove le porte rimasero chiuse per Benedetto XVI. Non si possono tollerare discorsi che giustificano il terrorismo».
L’unico a criticare certi toni sarà quasi certamente Fini, che lo incontra oggi. Casini: «È stato accolto con modi che offendono la dignità»
Gheddafi questa mattina incontrerà in Confindustria il presidente Emma Marcegaglia e gli imprenditori. Poi all’Auditorium sarà la volta delle rappresentanze femminili del mondo politico, della cultura e dell’imprenditoria. Nel pomeriggio si vedrà alla Camera con il presidente Gianfranco Fini e poi parteciperà a una tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Italianieuropei. Il Colonnelo sabato riceverà soltanto una delegazione della Associazione rifugiati italiani dalla Libia
C’è un problema: nei giorni scorsi, anche dopo il risultato non entusiasmante delle Europee, Berlusconi è sembrato tornare col pensiero alle preoccupazioni complottiste di qualche giorno prima, quelle secondo cui l’intensissima campagna mediatica (anche internazionale) sul caso Noemi sarebbe stata ordita anche da Murdoch. Se non incoraggiata addirittura da Washington, che alcuni report diplomatici raccolti dal premier avrebbero descritto particolarmente infastidita dal rapporto tra Roma e Mosca. Se davvero fosse così, che cosa potrà mai pensare l’amministrazione Usa di un governo come quello italiano che offre un palco privilegiato alle sparate antiamericane di Gheddafi? Secondo l’ex sottosegretario agli Esteri certi timori sono insensati: «Smentisco nel modo più assoluto qualsiasi accreditamento di questa tesi, fondata sul nulla». Aria fritta sia l’inimicizia di Obama che l’eventuale aggravarsi della situazione per colpa del colonnello: «Primo perché il presidente libico è stato ricevuto da un certo numero di Paesi europei, è andato anche all’Eliseo. E poi nel caso dell’Italia si è trattato di suggellare un accordo di cooperazione. Importante oltretutto per mettere da parte il periodo coloniale, la vergogna di 100mila libici uccisi negli
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Nostalgici. Dopo due anni di indagini, sgominata una banda che voleva riannodare i fili criminali del passato. «Erano le nuove br»; dice il ministro Maroni
I terroristi dimenticati Arrestati sei eredi delle Brigate rosse: volevano colpire il G8 Tra di loro anche un ex militante dell’Ucc degli anni Ottanta di Riccardo Paradisi
ROMA. Un’organizzazione ramificata, pronta a colpire con un’azione eclatante, a grande impatto simbolico, finalizzata a ricostituire il partito comunista combattente sul solco delle Brigate rosse. Il gruppo terrorista scoperto e smantellato tra Roma e Genova dagli inquirenti dell’antiterrorismo si stava preparando a mettere a segno un attentato al prossimo G8, in un primo tempo organizzato in Sardegna sull’isola della Maddalena. A spiazzare i terroristi è stata la decisione maturata dal governo dopo il terremoto che ha colpito l’Abruzzo, di trasferire il vertice a l’Aquila. I neo-brigatisti volevano colpire il cuore della globalizzazione segnando una linea di continuità con le vecchie Br, che nelle loro analisi teorizzavano l’esistenza di uno Stato Imperialista delle multinazionali.
Analisi rudimentali che però continuano a produrre semi pericolosi. La stessa composizione di questo nuovo nucleo un impasto di nuove leve e vecchia guardia brigatista, pronta a prendere in mano il testimone e portare avanti “il discorso rivoluzionario” - dimostra che malgrado i duri colpi subiti dallo Stato il mito della stella a cinque punte continua ad arruolare. A capo della cellula dei presunti terroristi ci sarebbe Luigi Fallico, 57 anni, arrestato a Roma, ex esponente degli Ucc negli anni Ottanta già comparso in alcune inchieste su gruppi satelliti che ruotavano intorno alle Br. Attivista della prima ora del Movimento comunista rivoluzionario Nucleo Tiburtino, Fallico, nome di battaglia “Gatto”, dopo la fuoriuscita degli ex Br Adriana Faranda e Valerio Morucci era diventato un punto di riferimento per l’estremismo romano. Uno dei luoghi dove avvenivano le riunioni di Fallico, anche con esponenti della sinistra antagonista, era il suo nego-
Da Luigi Fallico a Pierino Morlacchi, fondatori della lotta armata
Il rivoluzionario con i capelli bianchi ROMA. Tra gli indagati dell’inchiesta sui neobrigatisti che avrebbero ordito un attentato contro il prossimo G8 e che sembra facessero capo al corniciaio romano Luigi Fallico (il “terrorista” con i capelli bianchi: aveva già fatto parte della cosiddetta Unione comunisti combattenti) spunta anche il nome di Ernesto Morlacchi, figlio di Pierino Morlacchi, uno dei primi fondatori, insieme a Renato Curcio, delle Rosse. OrganizBrigate zazione per la quale nel 1970 Pierino mise in piedi la prima brigata milanese nel quartiere Giambellino. Un vecchio militante mai pentito Pierino, un’irriducibile dell’idea rivoluzionaria che ha trasmesso il testimone anche ai suoi dieci figli. Tra questi anche Manolo Morlacchi autore di un libro, La fuga in avanti che attraverso le vicende del padre
Pierino e della madre Heidi Peusch, originaria della Ddr, racconta, come recita la quarta di copertina «la storia di un quartiere di Milano, il Giambellino e il percorso del movimento operaio del Novecento dall’antifascismo, alla resistenza, alle prime spaccature dentro il Pci. Spezzando le mistificazioni storiche e ideologiche. Manolo Morlacchi scrive la storia di un’educazione politica, civile e sentimentale». Un’educazione che sembra avere formato anche Ernesto Morlacchi e la studentessa genovese anche lei implicata nelle indagini di queste ore. Che ha frequentato il centro Borgo Rosso di Genova partecipando ad un seminario sulla Rote Armee Fraktion (il gruppo terrorista tedesco degli anni Settanta noto come banda BaaderMeinhof) ed è stata presente, dicono gli investigatori, proprio alla presentazione del libro La fuga in avanti di Manolo Morlacchi. Il fratello di Ernesto, il figlio di Pierino. Un’educazione sentimentale molto particolare quella della famiglia Morlacchi.
Tutti i membri dell’organizzazione eversiva sono accusati di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, banda armata e detenzione di armi (tra cui una mitraglietta fabbricata in Croazia) zio di cornici a Roma in via Facchinetti, lì dove sono state fatte le intercettazioni ambientali da parte della Digos. Sono stati arrestati a Roma anche Bernardino Vincenzi, 38 anni, e Bruno Bellomonte, 60 anni, dirigente di un movimento indipendentista sardo, mentre si trovava
nella capitale per incontrare Fallico. A Genova sono stati arrestati invece Riccardo Porcile, 39 anni, imprenditore edile incensurato e Gianfranco Zoja, 55 anni, pregiudicato, già appartenente alla colonna geno-
vese delle Br in qualità di armiere. I 5 sono finiti in carcere e un sesto, anziano residente a Roma, presumibilmente un fiancheggiatore, è finito ai domiciliari.
I reati contestati, in base alle diverse posizioni, sono di associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, banda armata e detenzione di armi. Nell’inchiesta vi sono anche 15 indagati, tra questi Ernesto Morlacchi, figlio dell’ex Br Pierino Morlacchi e diversi esponenti dell’area milanese, “autocongelati” una volta partita l’inchiesta del pm Ilda Boccassini sulle nuove Br. Molti incontri del gruppo sarebbero avvenuti, secondo gli inquirenti, nella bottega di Fallico ma le basi erano sparse in tutta Italia. Le perquisizioni eseguite dalla Digos – che han-
no portato al sequestro numerose armi, tra cui una mitraglietta fabbricata in Croazia, bombe a mano e pistole con relativi munizionamenti, micce e detonatori - sono state possibili grazie alla collaborazione della Polizia di Stato di Milano, Genova, Sassari. Un pool nazionale che ha reso possibile tirare la rete al momento giusto. Un successo quello di ieri che viene dopo due anni di indagini, giunte a maturazione dopo pedinamenti,“osservazioni dell’area estremista”, e verifica di ogni possibile elemento emerso con l’inchiesta sul delitto del professor Massimo D’Antona. Indagini il cui scatto finale è arrivato proprio prima che qualcosa di “irreparabile venisse compiuto” e che sono partite dalle carte dell’archivio di Roberto Morandi e della pentita delle nuove Br-Pcc Cinzia Ba-
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Parla Otello Lupacchini, giudice del Tribunale di Roma
«Lo sapevamo, a L’Aquila sarà allarme rosso di Francesco Lo Dico on ci si può appagare di aver disarticolato un gruppo che preparava un attentato. In occasione del G8, all’Aquila bisognerà tenere la guardia alta. Gli arresti di Roma e Genova indicano che lo Stato vigila sulla rinascita del terrorismo, ma allo stesso tempo sono una cartina di tornasole della lotta armata. Seppur ridimensionata rispetto al contesto storico in cui era nata, negli anni ’70, oggi continua a mantenere inalterato il suo potenziale distruttivo e la dirompente violenza del suo messaggio fondato sulla paura. È necessario capire che non importa quanti uomini siano disposti a collocare una bomba in un edificio. Conta solo il fatto che l’edificio possa esplodere. Il terrorismo è un’idra dalle mille teste, e se qualcuno ha progettato attentati sull’isola della Maddalena, ciò significa che più di qualcuno possiede sufficiente organizzazione per portare avanti la guerra con lo Stato». Otello Lupacchini, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, e magistrato di lungo corso che si è occupato fra l’altro dell’omicidio D’Antona, e delle stragi di Bologna e di via Prati di Papa, commenta così l’operazione con cui la Digos ha bloccato sul nascere i progetti criminosi di una nuova cellula Br. È stata appena sgominata una banda armata. Bisogna temere un ritorno agli anni di piombo? Ci sono i segnali di un fuoco mai spento, che cova sotto le ceneri. La lotta armata è l’ultimo grado di un processo di maturazione eversiva, che nasce a partire dalla protesta, si rafforza nell’indignazione, sconfina nella violenza ed esplode infine nella scelta di imbracciare le armi sotto le insegne di piccoli eserciti guidati dalla rabbia. Un tracciato che nell’attualità segnata dalla crisi, dal precariato, da un acuto malessere giovanile, può trovare adesioni. La propaganda armata prolifera nella marginalità, e anche se i giovani disposti a “rovesciare il sistema” sono, a quarant’anni dal Sessantotto, in numero esiguo, ciò non toglie nulla alla pericolosità e al potenziale nocivo di quei pochi che progettano azioni criminose. La forza delle Br non è nel numero, ma nel messaggio e nei mezzi che usa per lanciarlo. In che cosa sono diversi questi nuovi brigatisti, rispetto ai loro predecessori?
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Innanzitutto non vivono più in un clima massicciamente contestatario come quello che ne incoraggiò le azioni criminose nel corso degli anni ’70. In secondo luogo, si tratta di individui che hanno esaurito il mito della Resistenza tradita. Inoltre, portano avanti convincimenti e piani molto meno ideologizzati di un tempo. Negli anni ’70 imbracciavano le armi in maniera prospettica, per scongiurare un futuro che loro paventavano alienante e funesto. Oggi si rivolgono alla violenza, o ai tentativi di metterla in atto in modo organizzato, perché sentono con mano, nel loro presente, il peso schiacciante della precarietà, di un sistema che non ne premia gli sforzi e non assicura loro un avvenire a fronte di studi e sacrifici. Rispetto a trent’anni fa, sono molti di meno, quelli che dall’indignazione e dalla protesta arrivano all’eversione. Sono le schegge venute via da una società che non è in grado di dar loro risposte, che per lo più ha accettato silenziosamente le regole del mercato e del “capitale”, con le sue conseguenze. Oggi ci si indigna molto di meno di un tempo, ma si convive con il malessere e il malessere convive sempre con chi può scegliere di affrontarlo in modo drastico. Lei parlava da molto tempo di cellule terroristiche in sonno. Si legano a queste, gli arresti di Roma e Genova? È indubbio che negli ultimi terribili anni del ’90, la ricomparsa della sigla delle Br ha spalncato di colpo scenari che sembravano apparentemente esauriti. In realtà, se le colonne dell’area romana e fiorentina erano state setacciate a fondo, quelle presenti a Napoli e Milano non sono mai state del tutto identificate. È legittimo pensare che da queste e da altre zone di influenza non mappate, lo schema brigatista abbia potuto covare e rigerminare. Il fatto che tre delle persone coinvolte in quest’ultima operazione della Digos siano due fratelli e un cugino, dice che il marchio familistico della lotta armata continua a mantenere ben presente una tradizione. Si progettava l’attentato su un’isola. Segno di un’organizzazione di alto livello? Senza dubbio il progetto dimostra che la cellula, e l’organizzazione alle sue spalle, possiede competenze logistiche, mezzi, fondi per acquistarli e contatti che glieli procurano. Non va sottovalutato che il terrorismo mantiene a tutt’oggi un assetto transnazionale.
Anche se sventato, il piano dimostra che c’è un’organizzazione in grado di riprendere di nuovo la guerra con lo Stato
nelli, seguendo la pista dei cosiddetti Organismi rivoluzionari. Un’area indistinta che però era in “dialogo diretto e dialettico”con le Br. Un contributo importante era poi emerso dall’ultima inchiesta sulle Br del pm Ilda Bocassini a Milano, ma ad essere decisive sono state le osservazioni dirette sui contatti sistematici all’interno del gruppo di Luigi Fallico, fatti di linguaggi criptati e grande circospezione.
La dinamica di azione del gruppo - fanno trapelare ancora gli inquirenti - era quella del “recupero strategico” e dell’attenzione a quel che si faceva fuoriuscire all’esterno. Nelle intercettazioni ambientali però non sono mancati espliciti riferimenti alla lotta armata, che hanno tolto ogni dubbio agli inquirenti sulla natura dell’organizzazione. Che il gruppo fosse poi compartimentato e impostato su una logica e una strategia militarista spiega anche il perché, come viene confermato a piazzale Clodio, non ci siano mai stati collegamenti con l’area dell’anarchismo o no global: «I soggetti presi oggi non facevano proselitismo, non rendevano note le loro organizzazioni». Anche l’intenzione di
progettare un attentato in occasione del G8 è emersa da una serie di intercettazioni cui sono stati sottoposti gli indagati: la cellula stava studiando i sistemi di videosorveglianza e di sicurezza che si stavano mettendo a punto alla Maddalena per eluderli e agire.
Un rischio sventato, per ora. Il punto dirimente è se da questi arresti potranno scaturire sviluppi sugli omicidi D’Antona e Biagi. E soprattutto se dall’inchiesta di oggi potranno emergere elementi utili per farla finita una volta per tutte con ciò che resta delle nuove Br. Gli inquirenti fanno capire che questa possibilità è molto concreta e forse è anche per questo che il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha dichiarato che l’operazione della Digos «ha impedito la riorganizzazione della lotta armata in Italia». Anche se negli ultimi vent’anni sono stati diversi i titolari del Viminale che hanno usato parole simili, mentre il drago brigatista continuava a porre uova che poi si sono schiuse. «Un brigatista non va in pensione - diceva Luigi Tallarico in una conversazione intercettata dagli inquirenti - un brigatista muore brigatista». Andrebbe presa nota.
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diario
pagina 6 • 12 giugno 2009
L’Europa lancia l’allarme debito Per la Bce la fine della crisi è ancora lontana: «Governi troppo esposti» di Alessandro D’Amato
ROMA. Crollo del prodotto interno lordo nel 2009, possibile ripresa a metà 2010. Ma c’è preoccupazione per una spesa pubblica che fatalmente peggiorerà il rapporto con il debito e quello con il deficit. È un’Europa ancora in chiaroscuro quella che viene dipinta dal bollettino della Banca Centrale Europea di giugno. Un’Europa dove
la crisi si fa ancora sentire e gli spiragli di luce sono rimandati all’anno prossimo. E dove, dice Francoforte, «le prospettive per le finanze pubbliche dell’area dell’euro sono cattive e sarà necessario uno sforzo di aggiustamento ambizioso per assicurare la correzione tempestiva dei disavanzi eccessivi». In più, l’Eurotower lancia l’allarme debito, criticando per la prima volta le misure per l’espansione della domanda: «Le prospettive per la finanza pubblica mostrano un rapido e preoccupante incre-
mento del disavanzo e del rapporto debito/Pil tra il 2008 e il 2010. L’insieme di questi fattori rischia gravemente di minare la fiducia della sostenibilità delle finanze pubbliche e quindi qualunque ulteriore misura di stimolo fiscale potrebbe essere controproducente ai fini della crescita economica».
Nel primo trimestre del 2009, si legge nel bollettino, il Pil di Eurolandia in termini reali si è ridotto del 2,5%, un dato che, insieme alla crescita negativa degli ultimi tre trimestri 2008, ha esercitato un forte impatto automatico negativo, dell’ordine dei 4 punti percentuali, sul tasso annuo di espansione del prodotto per il 2009. La diminuzione
mantenere invariati i livelli di occupazione». L’inflazione è vista in ulteriore calo e, secondo le previsioni, potrebbe diventare negativa durante o subito dopo l’estate, per poi tornare a crescere verso la fine del 2009: i numeri previsti sono lo 0,1-0,5% nel 2009 e 0,6% e 1,4% nel 2010. Al forte calo dell’inflazione si legge nel bollettino - non ha però corrisposto una flessione equiparabile del costo del lavoro. Nel primo trimestre 2009 la crescita delle retribuzioni contrattuali è cresciuta del 3,2%, contro il +3,6% del trimestre precedente. Tuttavia - prosegue il bollettino - le informazioni disponibili segnalano un calo più pronunciato della dinamica dei redditi per occupato per via dell’introduzione di correttivi come la riduzione dell’orario. Gli sforzi per far fronte alla necessità di contenimento della spesa e di riduzione del debito -sottolinea la Bce - hanno più probabilità di successo se sostenuti da istituzioni di bilancio nazionali forti e da una normativa credibile, accuratamente studiata e definita sul medio periodo.
«A questo punto, ulteriori stimoli fiscali potrebbero avere un effetto dannoso sull’economia», dicono alla Banca centrale del Pil dell’area euro, spiega la Bce, rispecchia la brusca flessione delle esportazioni derivante dal crollo del commercio mondiale. E la repentina contrazione delle esportazioni, insieme al basso livello di fiducia e ai vincoli finanziari, ha determinato anche un consistente ridimensionamento degli investimenti delle imprese - sottolineano gli esperti di Francoforte - mentre il decumulo delle scorte ha inciso negativamente sulla crescita. E «in base all’evidenza empirica, dopo la forte contrazione del prodotto alla fine del 2008 e all’inizio del 2009, potrebbe risultare sempre più difficile per le imprese
A oggi, l’aumento cumulato nel 2008 e nel 2009 del rapporto debito/pil dell’area dell’euro, per effetto delle immissioni di capitale e degli acquisti di attività a sostegno del settore finanziario, ammonta al 3,1% del pil. In prospettiva, sottolinea Francoforte, «il rischio di un ulteriore aumento del rapporto debito/pil non può essere escluso alla luce della possibilità che si renda necessario fornire ulteriore sostegno al settore bancario o che siano effettivamente utilizzate le garanzie pubbliche». Anche un periodo prolungato di crescita economica contenuta eserciterebbe un impatto negativo sul rapporto debito/pil.
Chiusa la querelle con gli ex Margherita, nasce un eurogruppo completamente nuovo, denominato Asde
Le due anime del Pd trovano casa in Europa di Francesco Capozza
ROMA. Si chiamerà Asde. Ovvero, Alleanza dei socialisti e dei democratici. Sarà questo il nome del gruppo che a Strasburgo riunirà socialisti e democratici italiani. Il via libera è arrivato ieri dal gruppo dei socialisti al Parlamento Europeo cui ha partecipato anche parte della nuova delegazione italiana accompagnata dal segretario democratico Dario Franceschini. Si conclude così la complessa questione sulla collocazione del Pd in Europa. Tema non da poco, più volte usato dal centrodestra come arma polemica in campagna elettorale. E, allo stesso tempo, motivo di frizione interna ai democratici con gli ex della Margherita ed in particolar modo da Francesco Rutelli, da mesi sugli scudi - nettamente contrari ad un ingresso nel Pse. «Avevano detto e scritto fiumi di inchiostro che sulla collocazione europea il Pd si sarebbe spaccato e invece eccoci qui uni-
ti» si è sfogato Dario Franceschini, al termine della riunione con i nuovi europarlamentari Democratici. Il via libera del Pse, infatti, disinnesca una polemica poco comprensibile alla base del Pd. La strada imboccata, dunque, non è quella dell’adesione al gruppo eurosocialista,
Con l’accordo del Partito socialista europeo, a Strasburgo Franceschini trova la soluzione alle polemiche interne con i rutelliani bensì a un gruppo nuovo, a partire dal nome: Alleanza dei Socialisti e dei Democratici europei.
«Naturalmente - ha sottolineato ancora il leader del Partito democratico io ho il dovere di portare questa decisione agli organi del mio partito, cosa che faremo nei prossimi giorni». Franceschini al termine di un incontro al Parlamento Europeo di Bruxelles con il capogruppo del Pse, il tedesco Martin
Schulz, ha quindi evidenziato che «la portata di questo passo si capirà nel tempo». «Siamo soddisfatti per il fatto che il Partito socialista europeo abbia accettato di seguire questa strada e quindi abbiamo concordato un patto che è molto importante» ha spiegato Franceschini. Che parla della «costruzione di un campo più largo, progressista, che sarà forte al Parlamento europeo e che per noi è un primo passo verso un percorso politico per cui ci vorrà tempo e lavoro». Nel frattempo, però, dal capo delegazione degli eurodeputati della Margherita nei Liberaldemocratici a Strasburgo, Susta, detta precise condizioni: no a una nuova Commissione Barroso, intesa con Verdi e Liberaldemocratici per un’indicazione comune per la presidenza del Parlamento europeo e che il nuovo gruppo non sia solo un allargamento del Pse, ma qualcosa di nuovo «con statuto e simbolo, in cui la componente Democratica abbia larga autonomia, sia colonna portante di un’alleanza».
diario
12 giugno 2009 • pagina 7
“L’Espresso” intervista l’agente che uccise il giovane Sandri
L’organizzazione dichiara il massimo livello di allerta
Spaccarotella: «Io e Gabriele? Siamo entrambi due poveracci»
Nuova febbre: per l’Oms adesso è «pandemia»
ROMA. Luigi Spaccarotella, l’agente che nel 2007 colpì a morte Gabriele Sandri, torna a parlare. E lo fa dalle colonne dell’Espresso (in edicola oggi). «Io e Gabriele?», dice, «due poveracci coinvolti in cose più grandi di noi». Poi: «Lui è morto, io sono qui ad assumermi le mie responsabilità». Il fatto: un ragazzo di 26 anni è stato ucciso in una macchina in movimento per un colpo di pistola sparato da un poliziotto. L’accusa: il proiettile è stato esploso a braccio teso e dopo una mira che, secondo una testimone, varierebbe tra i 5 e i 10 secondi. La difesa: «Ho fatto un gesto per indicare» i ragazzi saliti in macchina e «mi sono reso conto di aver sparato quando ho sentito il colpo». Piccola nota a margine: come si fa, in qualunque caso, a mettersi sullo stesso piano e dichiarare «siamo entrambi due poveracci»?
GINEVRA.
Intercettazioni, il ddl approvato alla Camera Con 318 sì, 224 no e un astenuto. Il testo va in Senato di Marco Palombi
ROMA. Il ddl sulle intercettazioni approvato Spera in una «sentenza giusta», Spaccarotella, prevista per l’11 luglio e che l’agente vorrebbe fosse di omicidio colposo perché «non c’era», ha detto, «la volontà di uccidere». Ma è a questo punto dell’intervista che l’agente dichiara una cosa che, a riguardarsi le sue stesse dichiarazioni rilasciate a poche ore dalla morte di Sandri, a qualcuno suona un po’ strana. Dice: «Io nemmeno immaginavo si trattasse di un’aggressione di tifosi, altri-
ieri alla Camera (pure con qualche voto “segreto” di deputati d’opposizione) «cerca di essere funzionale ed armonizzare le necessità della politica e dei cittadini», ma è chiaro che dietro «ogni scelta politica e amministrativa c’è una persona in carne ed ossa». Bontà sua l’ex ministro Mario Baccini, spiegando il suo sì al provvedimento nell’aula della Camera, ha voluto spiegare ai distratti com’è che questo disegno di legge è entrato nell’agenda politica e si è meritato addirittura - a quattro mesi dalla sua uscita dalla commissione Giustizia una richiesta di fiducia da parte del governo. Dietro, infatti, «c’è una persona in carne e ossa» e il suo nome è Silvio Berlusconi. La ratio che ispira l’intero provvedimento è infatti non tanto quella di ostacolare la possibilità per i pm di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali (cosa che, comunque, avviene), quanto quella di impedire che qualunque informazione fornita da fonti giudiziarie quand’anche, s’intende, le fonti siano legali e veritiere - arrivi ai cittadini. Un annetto fa il presidente del Consiglio ebbe modo di far sapere a tutti che «se escono certe intercettazioni (si riferiva a quelle “piccanti”, ndr) me ne vado dall’Italia». Con questo ddl tranquillizza se stesso circa la possibilità di un volontario esilio in tarda età: per farlo non si limita a bloccare i giornali e le tv, cioè a mettere un freno a giornalisti ed editori, ma manda un avvertimento esplicito anche al mondo di internet.
la stampa del 1948: ogni blogger cioè sarà trattato come il direttore responsabile di un giornale, ammenda fino a 13mila euro compresa. «Per i siti informatici - recita il maxiemendamento - le dichiarazioni e le rettifiche sono pubblicate, entro 48 ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono».
Al di là della evidente ignoranza del world wide web (cosa significa, per fare un solo esempio, «stessa metodologia di accesso al sito»? bisognerà smentire anche se si è solo “linkato” il testo?), il punto è la parziale parificazione di ogni sito - anche amatoriale e/o non a scopo di lucro - a una testata giornalistica gestita da professionisti, la minaccia ulteriore che questo sottende, l’autocensura che innescherà automaticamente nella rete. Quanto alla stampa tradizionale se n’è parlato, ma giova ripetersi. Non si potranno più pubblicare intercettazioni, mai, nemmeno quando saranno depositate agli atti e saranno quindi pubbliche. Non solo: sarà vietato stampare notizie sulle ordinanze di custodia cautelare fino a che l’inquisito o il suo legale non ne avranno preso visione (dopodiché se ne potrà citare il solo contenuto). Per i trasgressori la pena è l’arresto fino a 30 giorni o un’ammenda di 5mila euro, che arriva a diecimila però se si tratta di intercettazioni: se poi queste ultime sono state acquisite in maniera illegale è previsto il carcere fino a tre anni. Se non bastasse, comunque, ce n’è anche per gli editori: ogni violazione potrebbe costargli una multa da 465mila euro. Se a questo si aggiunge l’oggettivo ostacolo (tempi brevi, limiti alla spesa, paletti all’autorizzazione, sostanziale azzeramento delle “ambientali”) posto anche alle intercettazioni come strumento d’indagine il quadro è completo. Mancava il web, la terra incognita, ma anche i corsari digitali sono ora avvertiti: d’altronde, sostiene Baccini, dietro ogni legge «c’è una persona in carne e ossa», il problema è che poi le leggi riguardano tutti.
Anche i blogger saranno trattati come i direttori responsabili di un giornale, ammenda fino a 13mila euro compresa
menti mi sarei comportato diversamente». Tra gli amici di Gabriele c’è chi si chiede: “Ma non era stato lui a dire che i colpi in aria li aveva sparati per sedare una rissa tra tifosi”? Ad ogni modo, a fare chiarezza ci penserà la Corte d’Arezzo. Nel frattempo, proseguono le iniziative degli amici e della famiglia di Gabriele, che il prossimo 24 giugno, ore 21 a piazza di ponte Milvio a Roma, organizzeranno la serata “You’ll never walk alone”. Prima, la presentazione del libro di Maurizio Martucci 11 Novembre 2007, poi gli interventi di Giorgio, Daniela e Cristiano Sandri, del consigliere comunale Cassone, dell’assessore allo Sport Cochi e di alcuni rappresentanti di Amnesty International.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la pandemia per l’influenza suina dopo gli ultimi sviluppi della diffusione del virus A-H1N1, che, partito dal Messico dove in aprile sono stati resi noti i primi casi, finora ha contagiato 28.000 persone in 74 Paesi e ha provocato 141 morti. Il livello d’allerta è stato alzato a 6, pari al massimo dell’emergenza. Si tratta della prima pandemia del XXI secolo e la decisione dell’organismo internazionale comporterà il rafforzamento delle misure di sicurezza nei 193 Stati membri. Nei giorni scorsi, il numero due dell’Organizzazione mondiale della sanità Keiji Fukuda aveva affermato che il
Nelle pieghe del testo, infatti, c’è un argomento che non è stato quasi oggetto di pubblica discussione: le modifiche che vengono apportate alle cosiddette “procedure di rettifica” delle informazioni ritenute non vere o peggio diffamatorie dei soggetti coinvolti. In generale si dovranno pubblicare per intero e “senza commento”, ma la vera novità è che anche i siti internet - non solo le testate giornalistiche online, ma anche i blog di singoli utenti - vengono riportati sotto il controllo della legge sul-
mondo è «molto vicino a una pandemia». Fukuda aveva tra l’altro sottolineato la diffusione del virus anche in Paesi dell’emisfero sud.
«La fase 6 non dà indicazioni sulla severità della malattia, ma riguarda la diffusione geografica. Pandemia significa globale, ma non ha alcuna connotazione di gravità o leggerezza», ha detto il portavoce dell’organizzazione Gregory Hartl. Lo stesso è stato sottolineato da Ferruccio Fazio, viceministro italiano per la Salute: il passaggio alla fase 6 «non è legato alla gravità clinica dei sintomi della nuova influenza umana, bensì alla grande diffusibilità di tale virus». Poi ha aggiunto che la decisione è stata presa anche per un altro motivo: «Ormai in numerosi Stati esiste una diffusione di tipo epidemico del virus e si configura per questo una situazione di tipo pandemico». Le ragioni di questa scelta, ha continuato Fazio, sono nella possibile recrudescenza dell’influenza che potrebbe colpire una larga fetta della popolazione. «Più a lungo termine - ha spiegato ancora - è che questo virus possa riassortirsi come ceppi di aviaria e creare quindi una nuova forma di aviaria trasmissibile all’uomo. Questo sarebbe un problema serio».
panorama
pagina 8 • 12 giugno 2009
Partiti. Il Carroccio inizia a penetrare in fortezze “rosse” che sembravano inespugnabili
Una Lega di lotta e di governo di Giuseppe Baiocchi orse il numero più significativo della recente tornata elettorale tra europee e amministrative sta in quel 18,2 per cento conquistato in solitudine dal candidato sindaco del Carroccio alle elezioni comunali di Reggio nell’Emilia. Non è la vittoria a maggioranza come è arrivata in tante amministrazioni locali del Lombardo-Veneto (dove sono state restituite al centro-destra quasi tutte le province e i Comuni che nel 2004 avevano visto sorprendenti ma effimeri successi dell’Ulivo): eppure segnala l’autentico fatto nuovo, ovvero la penetrazione robusta nelle fortezze di sinistra che sono sempre apparse inespugnabili. Si dirà che comunque Reggio è pur sempre in “Padania”: e tuttavia nelle terre storicamente “rosse” il verbo leghista aveva sinora trovato ben pochi discepoli. L’aspetto davvero inedito è che la Lega (il partito più “vecchio” presente in Parlamento) dimostra di avere imparato e di saper applicare con modalità tutte sue le tecniche che
F
per decenni hanno contrassegnato la tendenza favorevole alla sinistra: quelle cioè di sapersi presentare (o forse anche di essere, ma comunque di essere certamente percepiti) come “partito di lotta”proprio quando si è sul territorio soprattutto “partito di governo”.
Il consenso di opinione è arrivato, secondo una tendenza in atto da tempo, sui temi della sicurezza e del contrasto all’immigrazione sregolata e clandestina: la Lega beneficia del disordine e dell’esasperazione provocati dal lassi-
za, sul territorio si è formata una classe dirigente leghista più abituata alla militanza e alla prossimità alle concrete esigenze popolari: e quando è stata chiamata nelle amministrazioni locali alla sfida di governo, ha dato in complesso buona prova di sé. Nella gestione quotidiana ha abbandonato le parole d’ordine provocatorie e scandalose per trasmettere invece una pratica rispondenza ai bisogni concreti della gente, compresa una rassicurazione visibile alle paure di una società preoccupata e spesso smarrita.
Sono gli unici ad essere presenti in zone di disagio che tutti gli altri (ad eccezione della Chiesa e del volontariato) hanno ormai abbandonato
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
smo culturale e dal buonismo pasticcione del passato che ha finito per esporre i ceti più deboli alle conseguenze spesso criminali del mancato controllo del territorio. Cosicché la protesta si è incanalata, ed è questo il paradosso politico del tutto italiano, non verso l’opposizione, ma verso una forza di governo nazionale. D’altronde in questi anni è stato proprio Berlusconi il “più leghista di tutti”, costruendo (anche dal ruolo di governo) le campagne elettorali come “opposizione all’opposizione”. Inoltre, in più di vent’anni di esperien-
Ronde o non ronde, la prosaica realtà è che da anni al Nord i leghisti sono stati gli unici ad essere presenti in aree di disagio sociale che tutti gli altri avevano abbandonato. E trovando a presidio sociale soltanto la Chiesa e le organizzazioni del volontariato soprattutto cattolico, che, per loro intrinseca natura, non sono né potranno essere un competitore politico nella vita civile. La Lega, ultimo partito a struttura leninista e con una leadership carismatica incontrastata, fa soltanto il suo mestiere di efficiente “agenzia politica”, fino al punto di condizionare la linea generale dell’esecutivo: sono molti altri che dovrebbero decidersi in politica a fare fino in fondo il proprio, diverso “mestiere”.
Un rito che sfugge a qualsiasi regola, a volte manipolando la legge elettorale
Antropologia di un voto amministrativo omenica notte, subito dopo il voto, ho scritto questa nota. La consegno al lettore. Anche queste elezioni sono nel passato. I seggi sono chiusi da due ore e finalmente il paese passerà una notte tranquilla. I candidati avranno ancora una notte agitata, ma il paese riprende la sua vita eterna, come era, come è, come sarà. Le elezioni comunali sono diverse. Sono uno rito antropologico che sfugge a qualunque regola ideale per darsi al corpo della comunità. I candidati-sindaco erano tre: Alfonso, capo di un patronato, Pietro, avvocato, Carmine, geometra. Alfonso e Carmine sono stati sindaco e assessore ai Lavori pubblici. Andavano d’amore e d’accordo, poi qualcosa si è rotto.
D
La maggioranza si è spaccata e Carmine - che ricopriva anche la carica di assessore provinciale del centrosinistra, proprio come il suo ex sindaco aprendo la crisi in consiglio voleva il voto anticipato. Ma qui entra in scena Pietro, il capo dell’opposizione iscritto all’epoca a Forza Italia: il sindaco, che non vuole mollare il posto che considera suo come se fosse un piatto di casa, lo avvicina e Pietro diventa vicesindaco
portando con sé altri consiglieri di opposizione che passano in maggioranza ed entrano in giunta. Carmine da assessore si ritrova ad essere capo dell’opposizione. La vita amministrativa va avanti così - a parti invertite rispetto al voto e manipolando la legge elettorale che per i comuni al di sotto dei 15mila abitanti elegge direttamente il sindaco ma vincolandolo alla maggioranza come esce dalle urne - con un clima politico che diventa giorno per giorno più velenoso perché i rappresentanti delle istituzioni dimostrano di non rispettare i patti e di vilipendere le istituzioni. In un clima di delegittimazione il sindaco decide che è ora che si svolgano un po’ di concorsi: è tempo di assumere un po’ di nipoti e un po’ di clienti. L’opposizione grida allo scandalo, la magistratura indaga. Si svolgono le elezioni provin-
ciali: si presentano sia Carmine sia Pietro. Il primo è eletto e confermato assessore, il secondo è bocciato, anche perché il “suo” sindaco non lo fa votare, come avrebbe voluto l’accordo, e favorisce un suo assessore. Il clima si avvelena sempre più e la maldicenza sostituisce totalmente la parola chiara e pubblica. Si avvicina il momento del voto amministrativo e Pietro decide di far cadere il sindaco, che una volta era il suo avversario, esce dalla giunta ma non ha la forza necessaria per farla cadere perché ora nessuno lo segue. Si cominciano a preparare le liste per le elezioni: Alfonso ha la sua lista personale, Carmine prepara l’alternativa e Pietro fa il candidato del Popolo della libertà per opporsi al sindaco di cui è stato vice lasciando il ruolo di capo dell’opposizione. Nel frattempo Mastella si candida con Berlusconi e impone ai suoi, che ri-
luttavano, a passare con Pietro. Così, a un mese dal voto, cade il sindaco perché alcuni dei suoi - che prima erano all’opposizione - lo lasciano e si candidano con Pietro. Il popolo della libertà.
Si apre la campagna elettorale e dopo dieci giorni muore Vito: medico legale, studiai e per pochi mesi abitai con lui a Napoli ai tempi dell’università. Era il fratello di Sandro, candidato della lista di Pietro, anche se prima stava con Carmine. La sua morte ristabilisce l’ordine delle cose e delle idee. Il paese è scosso: aveva 46 anni, una moglie, due figli. Colpito da infarto, di notte, dopo una cena, al centro del paese. Non si era risparmiato. La campagna elettorale è sospesa. Tutto il paese partecipa al dolore della famiglia di Vito. Lo ricorda con affetto. Dopo una settimana la campagna riprende. Alfonso fa venire due pullman da Zurigo per il voto degli emigranti. Tutto deve essere segreto, ma tutto si sa. La notte è un continuo via vai casa per casa. Gli emigranti sono ripartiti, altri partiranno. Ora è notte, poche luci in lontananza. Un cane abbaia. Buonanotte. p.s. ha vinto Carmine. Risultato giusto. Davanti ai seggi, acclamato, ha ricordato Vito.
panorama
12 giugno 2009 • pagina 9
Teologia. Il Papa “forza” il linguaggio. E il fatto di non essere italiano gli dà una maggiore libertà di movimento
Il “radicalismo”semantico di Benedetto XVI di Luigi Accattoli aro direttore, domenica era la festa della Trinità e il papa teologo ne ha parlato con linguaggio nuovo, arrivando ad affermare che ognuno di noi ha nel proprio «genoma» una «traccia profonda» del Dio trinitario. Non è la prima volta che Benedetto XVI scommette sulla forza delle parole e si avventura in motti senza precedenti. Sempre domenica ha detto che Dio è «tutto e solo amore», che è un’affermazione contestata anche all’interno della Chiesa cattolica. In altra occasione aveva proclamato che «in realtà basta amare».
gere nel sito on line della stessa): «Ci si dimentica che Dio non è solo Amore e Misericordia, ma è anche Rigore e Giustizia». La stessa protesta aveva espresso negli ultimi anni, quand’era tornato tradizionalista, il teologo Gianni Baget Bozzo che è morto un mese addietro e che si batteva contro «il pensiero unico del Dio compassione», tema al quale nel 1999 aveva dedicato un libro, Il Dio perduto (Mondadori Editore).
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Il suo linguaggio è dunque nuovo sia per radicalità, almeno quando si affaccia sull’abisso del Dio-Amore, sia per intonazione culturale quando evoca il genoma, o la fissione nucleare, o la «grande mutazione» per parlare dell’Eucarestia o della risurrezione. Queste sono state le parole nuove di domenica: «La prova più forte che siamo fatti a immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione e viviamo per amare ed essere amati. Usando un’a-
Non è la prima volta che il Pontefice scommette sulla forza delle parole per avventurarsi in motti senza precedenti. E continuerà a farlo nalogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore». E queste sono state – tra le parole di domenica – quelle più forti nel contenuto: «Dio è tutto e solo
amore, amore purissimo, infinito ed eterno». Per segnalarne l’audacia – in bocca a un Papa – richiamo un testo intitolato Perché siamo tradizionalisti pubblicato nel settembre del 2007 dall’associazione “Inter multiplices una vox”(si può leg-
Durante la Veglia di Pasqua, l’aprile scorso, il Papa aveva affermato che «la risurrezione di Gesù è un’eruzione di luce». E ancora: «La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del mondo. A partire dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno». In un’altra occasione – il 19 ottobre 2006 a Verona – aveva detto: «La sua risurrezione è stata come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel
Pensioni. Il segretario della Cisl fa marcia indietro sulle aperture alla riforma
Quel patto leonino di Bonanni di Giuliano Cazzola l riformismo è un cammino difficile. Non ammette né scorciatoie né sconti. Raffaele Bonanni aveva preso tutti di sorpresa quando, nella solennità dell’assise congressuale della sua organizzazione, aveva dichiarato di non avere pregiudiziali ad intervenire su uno dei tabù più custoditi e difesi della cultura di una sinistra sull’orlo di una crisi di nervi: l’innalzamento dell’età pensionabile a partire da quella di vecchiaia delle donne. In quella sede, da bravo sindacalista ed abile negoziatore, aveva proposto al governo uno scambio tra l’innalzamento del requisito anagrafico e il miglioramento dei trattamenti, mediante una più adeguata rivalutazione periodica degli assegni.
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sti, infatti, sono specializzati nel “girare la frittata” e nel riservarsi ampie uscite di sicurezza quando vengono al pettine questioni dure e difficili.
Ieri Bonanni ha chiarito il suo pensiero a proposito dell’età pensionabile: i lavoratori andranno in pensione più tardi soltanto se lo sceglieranno volontariamente e se sa-
I sindacalisti sono specializzati nel “girare la frittata”, riservandosi ampie uscite di sicurezza quando vengono al pettine questioni difficili
In sostanza, i risparmi non dovevano servire a fare cassa (ormai lo afferma – improvvidamente – anche il ministro Tremonti), ma a rendere più equo il sistema, nei confronti prima di tutto dei percettori dei trattamenti più modesti. A dire la verità, Tremonti era stato il primo a non fidarsi di tanta improvvisa disponibilità. I sindacali-
ranno incentivati a farlo. Nello stesso tempo ha chiesto al governo di migliorare le prestazioni più basse. Un patto leonino: al sindacato, ai lavoratori e ai pensionati tutti i vantaggi; al governo tutti gli oneri. Dobbiamo, invece, abituarci a convivere con revisioni periodiche dei sistemi pensionistici pubblici. Si tratta del medesimo rapporto che le persone in carne ed ossa hanno con le malattie croniche. Devono tenersele, perché da queste patologie non si guarisce e si portano nella tomba, ma è saggio curarsi con continuità e assiduità per evitare che la malattia si aggravi e di-
venga acuta. Berlusconi è stato attento al consenso elettorale, ma sa benissimo che qualcosa si dovrà fare per tanti motivi. In primo luogo il governo si è impegnato ad ottemperare alla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia che ha condannato il nostro paese per discriminazione di genere. Poi c’è da tener presente che alcune voci della copertura finanziaria della controriforma Damiano non sono poi così sicure. E c’è da comprendere che, senza metter mano alle pensioni non si troveranno mai le risorse per fare la riforma degli ammortizzatori sociali. Dulcis in fundo, esistono sempre le grandi questioni degli andamenti demografici e le trasformazioni del mercato del lavoro, che rappresentano il tapis roulant su cui viaggia ogni sistema pensionistico obbligatorio a ripartizione. Se diminuiscono i giovani ed aumentano gli anziani, peraltro sempre più longevi; se crescono i pensionati e si riducono i lavoratori attivi, tutto ciò avrà ripercussioni anche sugli equilibri pensionistici.
nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé»». Aveva dunque assimilato – nel linguaggio – la risurrezione al Big Bang degli scienziati che indagano sull’origine dell’Universo. Durante la veglia della Giornata mondiale della Gioventù che si fece a Colonia il 21 agosto 2005 aveva proposto un’audace similitudine tra il mistero eucaristico e la fissione nucleare. La notte di Pasqua del 2006 aveva detto forse la parola più spregiudicata in direzione della scienza contemporanea, quando aveva evocato la «grande mutazione» in un contesto teologale: «La risurrezione di Cristo (…) è – se possiamo una volta usare il linguaggio della teoria dell’evoluzione – la più grande “mutazione”, il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuta». Per dire il mistero, Benedetto forza la lingua. Il fatto di non essere italiano gli dà una maggiore libertà, almeno per quanto riguarda la traduzione dei suoi testi nella nostra lingua. Ne sentiremo di straordinarie. www.luigiaccattoli.it
ciao Renzo
pagina 10 • 12 giugno 2009
Ieri i funerali del direttore di liberal
L’ultimo saluto
La politica e il giornalismo italiani si raccolgono con affetto e stima intorno a Renzo Foa di Luisa Arezzo
dalla prima «Il migliore era lui»: così Seriano Collini, l’antico “proto” di quell’Unità che Renzo Foa aveva diretto, giocando con le parole e facendo il verso al titolo di togliattiana memoria, lo salutava sotto il cielo azzurrino. «La prima contestazione l’abbiamo organizzata in famiglia – racconta la sorella Bettina, uno squarcio sulla tela del tempo, fino a farci precipitare nell’intimità dell’infanzia – contro il lesso che sempre si mangiava in famiglia. Una manifestazione con tanto di cartelli: “Basta lesso”». Una manifestazione che ebbe successo, visto che da quel giorno non gli venne più cucinato.
Fra i primi ad arrivare, nel silenzio del mattino, il presidente della Camera Gianfranco Fini. Vogliate perdonare l’incapacità di restituire il ricordo della giornata di ieri con la dovuta carrellata in ordine di importanza dei presenti. Ma sto scrivendo un articolo che non pensavo di dover mai fare e conoscevo l’uomo attorno al quale ci siamo raccolti, che era attento all’essenziale e non dava peso al cerimoniale in senso stretto. Ma che si sarebbe senza dubbio divertito a vedere riuniti – lui, che quell’incontro in vita lo ha sempre cercato, così come liberal - la destra e la sinistra. E allora ecco arrivare Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinotti, Giorgio La Malfa, Walter Veltroni, Fabrizio Cicchitto, Umberto Ranieri, Angelo Sanza, Luciano Violante, Francesco D’Onofrio, Massimo Scalia. Gli amici di Formia, dove viveva suo padre Vittorio, che lo ha preceduto nella morte
solo di una manciata di mesi. I suoi amici dell’infanzia, che raccontavano di quando cercavano le lucertole, mettevano in fila le formiche e giocavano a Risiko (e Renzo i giochi di strategia li faceva con gusto) nelle estati passate assieme al mare da ragazzi.
E di giovani, ieri, ce n’erano tanti: erano venuti per Lisetta, la figlia – o meglio: “figlietta”, come lui affettuosamente la chiamava, nella quiete e serenità del cui sguardo così tanto si vede di suo padre. E se c’era una “razza” che Renzo amava, privo com’era di ideologie e ricco com’era di curiosità, erano i giovani. Era un uomo senza rimpianti Renzo Foa, ma nelle tante altre possibili vite che – come ognuno di noi – avrebbe potuto costruire c’era quella del professore universitario. Non a caso ieri tante persone hanno alluso a lui come a “un maestro”. Ma “maestro”era una parola che a lui non piaceva: semmai un esempio. Di vita, di pensiero, di giornalismo. Un mondo presente compatto, da Paolo Mieli «lo conoscevo fin da bambino – diceva, cercando di enucleare un episodio particolare da raccontare – e ho così tanti ricordi assieme che non mi riesce di trovarne uno solo. Come potrei?», a Giovanni Maria Vian, il direttore dell’Osservatore Romano il cui raffinato pensiero tanto piaceva a Renzo, così come quella ricerca della verità che in questi ultimi anni li ha così avvicinati. E Giuliano Ferrara - un “non”tricheco - con sua moglie Anselma dell’Olio. Una digressione: i trichechi, per Renzo, erano quelli che prese le distanze dal Pci (e qui parliamo davvero di una vita fa) continuano a inseguire i suoi latrando: «attenzione, non andate là che vi infrangete sugli scogli». Un genere che aborriva. E poi ancora, l’amica di una vita, Fiamma Nirenstein: «Quante cose belle potrei ricordare parlando di lui: a me colpiva particolarmente il suo garbo, la sua gentilezza, la vo-
C’erano Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni, Fausto Bertinotti, Giorgio La Malfa, Eugenia Roccella. E poi Paolo Mieli, Stefano Folli, Giovanni Maria Vian, Piero Sansonetti, Sergio Valzania ce bassa; mi soddisfaceva il fatto che una domanda a lui non rimanesse mai inevasa; aveva il coraggio e la cultura
per concentrarsi e rispondere a tutto». E il presidente della Comunità ebraica italiana, Renzo Gattegna: «Era un uomo libero, un giornalista a testa alta, che ha offerto l’esempio concreto di come si possa conciliare, anche in questo Paese difficile che è il nostro, la professionalità e gli ideali, l’identità e l’universalità, le grandi sfide e il rispetto delle regole, l’eredità dei nostri padri e i nuovi orizzonti».
Lucetta Scaraffia, amica attenta e in questi mesi della malattia presenza preziosa e costante, nella sua testimonianza pubblica coglieva «la rara virtù di Renzo di essere attento agli altri prima che a se stesso e la sua tensione a giungere alla sapienza del cuore». Le sue visite erano per Renzo una piacere raro, da as-
ciao Renzo
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Il ricordo “privato” della donna che gli è stata accanto per venti anni
Per me era come l’aria e l’acqua di Gabriella Mecucci er me Renzo era come l’aria e l’acqua: indispensabile. Era un’aria tersa, un’acqua limpida. E la lunga, dolorosissima malattia le ha ulteriormente purificate.
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È stato un periodo difficilissimo ma anche bello. Lui sofferente e coraggioso che sfidava Alien, così chiamava il cancro, senza mai darsi per vinto. «Ce la faremo», gli dicevo. «Certo che ce la faremo», mi rispondeva. Nell’ultimo periodo non ci credeva più, ma non voleva mollare: strappava al male pezzi, anche se brevi, di vita. Con quel sorriso che diventava sempre più tenero. Non voglio parlare dell’uomo pubblico, ma del “mio” Renzo: quello che all’improvviso usciva di corsa di casa per andarti a comprare un libro che non avevi letto, o quello che dopo una bisticciata, tornava con gli astici e lo
Si sarebbe divertito a vedere, lui, che quell’incontro in vita lo ha sempre cercato, riunite assieme la destra e la sinistra. Gli amici di Formia e di infanzia, i colleghi delle “sue” redazioni: liberal, Diario, l’Unità saporare con gioia. Così come gli incontri con Carlo Ripa di Meana e sua moglie Marina. E poi ancora c’erano Claudio Petruccioli, Ernesto Galli della Loggia, Stefano Folli, Paolo Franchi, Annamaria Guadagni, Nicoletta Tiliacos, Massimo De Angelis, Marina Valensise, Elisabetta Rasy. E c’erano le “sue” redazioni, da quella di liberal (sia il nuovo che il vecchio, quando era ancora un settimanale) a quella di Diario a quella de l’Unità: Piero Sansonetti (che abbracciando la compagna di vent’anni, Gabriella, mentre lei gli diceva «Testone, ti sei accorto adesso che era l’ora di piantarla col comunismo», serio rispondeva: «L’ho piantata», rammentando a compimento di questo pensiero una delle ultime e lunghe conversazioni avute con Renzo), Giancarlo Bosetti, Fabrizio Rondolino, Marco Sappino. Tutti si sono stretti attorno alla bara, tutti, silenziosamente, hanno abbraccia-
to Lisetta, Gabriella, le sorelle Anna e Bettina, Marina, la mamma di Lisetta.
champagne per fare la pace come si potrei giocarmi la carriera». deve. E poi c’era il Renzo delle passeggiate Amava viaggiare in tutti i sensi: la ri- sul lago, quello che ti aiuta ad arredare le cerca intellettuale, quella sprituale, di- due case che abbiamo comprato e messo ventata sempre più profonda negli ulti- su negli ultimi tre anni. Quanto le ha mi anni, e amava anche vagabondare amate, soprattutto quella del Trasimeno. per il mondo. Ovunque andassimo vole- Tanto da voler essere sepolto in un piccova lasciare qualche cosa di non visto: lo cimitero di campagna ai bordi del lago. «Ci torneremo – diceva – dovremo pur lasciare qualcosa da fare nella vec- Mi ha riempito la vita, tutta la vita: chiaia». quella passata insieme (venti anni), ma anche quella di prima e quella di dopo. Quanti viaggi di tutti i tipi abbiamo La verità del nostro amore resta indifatto insieme. E lui dava il meglio di sé: struttibile: il dolore, la paura, la fatica di veniva fuori il Renzo attento, raffinato, questo ultimo anno l’hanno resa più colto, protettivo, affettuoso, ma anche forte, più dura, più acuta. Di lui non diquello allegro, divertentissimo con i suoi menticherò nulla. Ogni attimo, ogni ricontagiosi scoppi di risate, con quella cordo mi emoziona. voglia di godere del cibo, di brindare alRiposa in pace, amore mio, e grazie a la bellezza della vita. Dio che mi ha concesso di starti accanAmava molto il suo lavoro: la lettura, to: un grande incontro che mi ha fatto la scrittura, il fare il giornale con le ma- avvertire il massimo della felicità e il ni. Era ironico, autoironico, e un po’ gua- massimo della sofferenza, ora, nel moscone. «Per una buona battuta – diceva – mento del distacco.
Qui sotto, Renzo Foa, giovane inviato di esteri, alle prese con uno dei suoi giornali preferiti, all’epoca: il francese “Le Monde”
rezza di chi con lui, quegli anni difficili e profondamente ingiusti – li ha passati. Fra le immagini che spiccano,
Sedute in ordine sparso, come senza meta ma con un preciso dolore, le “donne” di Renzo hanno raccolto affetto, scaldato le mani che stringevano, testimoniato l’attenzione non solo a ognuno, ma al particolare. Esattamente come faceva Renzo. In disparte, silenziosa ma con una gran voglia di parlare, Marcella, la signora che lo assistito in tutti questi mesi, e che ripeteva, come disco rotto: «Che onore conoscerlo, essergli potuta stare vicino». «Ho ritrovato le sue foto di quando era in Vietnam, sempre intento a scrivere» raccontava a qualcuno Claudio Petruccioli, quel «Vietnam che Renzo ci ha fatto conoscere non solo con i suoi articoli, ma anche nelle sue lettere, in cui smontava l’idea che i vietnamiti avessero la meglio perché perfettamente ordinati e organizzati» – diceva la sorella Bettina. Per poi fermarsi a ricordare gli anni delle critiche, i momenti difficili» a cui trovò la forza di ribellarsi. «Mi criticavano senza leggermi» diceva Renzo, «scrivevo più o meno le stesse cose a proposito dell’Ottantanove sia vent’anni fa su l’Unità, sia dieci anni fa su Il Giornale, sia oggi su liberal. Ma chi mi muove obiezioni non entra nel merito dei contenuti, ma segue solo un metro ideologico». Un metro che ieri si è come frantumato, ma che non per questo lenisce l’ama-
«La prima contestazione l’abbiamo organizzata in famiglia» racconta la sorella Bettina. «Una manifestazione con tanto di cartelli contro il lesso che regolarmente ci veniva servito a casa. Vincemmo»
nel ricordo di ieri, le sue nipoti: Morgana, Nicole e Viviana: tre adolescenti, sempre per mano, sempre vicine, gli occhi pieni di lacrime a farsi forza l’un l’altra. Inginocchiate davanti al feretro, erano intente a salutare lo zio con una dolcezza palpabile. La sua famiglia era “morbida”, passatemi l’aggettivo spericolato, perché mai astiosa, mai chiusa, mai graniticamente triste, mai desolatamente disperata. Era accogliente, aperta, libera, mite, elegante, sincera. E ci viene insegnato che le persone non
si uniscono, non vivono assieme per caso.
Allo stesso modo, senza rincorrere utopie che non ci appartengono, fatemi anche scrivere che la famiglia, qualche volta, fa delle deroghe. E non è solo quella sancita dai legami di sangue. Ferdinando Adornato, da dietro i suoi occhiali e il suo vestito scuro, questo lo ha sempre saputo. Con Renzo ci ha sempre creduto. Per Renzo, lo ha scritto: «Giocavamo a chiamarci “fratello”. Ma non era poi un gioco». È vero. Lasciatemi concludere con le sue parole, lasciatemi piangere in pubblico senza forse quella stessa classe ed eleganza che Renzo (e tutti, ieri, gliela riconoscevano come carattere distintivo della sua personalità) possedeva: «Ciao Renzo, hai sofferto tanto. Ma hai combattuto fino alla fine, come hai sempre fatto. E fino alla fine, anche dal letto di dolore, hai continuato a pensare e a scrivere per liberal, quel quotidiano che tanto avevi voluto, e al quale oggi mancherai come un padre». Ciao Renzo.
ciao Renzo
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Questo saggio di Renzo Foa è apparso la prima volta sul numero 42 di liberal bimestrale, uscito nell’estate del 2007. Ieri l’altro è stato in parte pubblicato dall’Osservatore Romano. Ringraziando il quotidiano della Santa Sede, vogliamo riproporlo integralmente ai nostri lettori.
crivo da profano e ammetto che il «Cristo della storia» mi incuriosisce. Lo riconosco, quando sulla sponda del Lago di Tiberiade entri in un piccolo museo dove è conservata la barca di un pescatore di duemila anni fa, ritrovata nella melma e analizzata in tutti i suoi dettagli, e il reperto archeologico è indicato come «la barca di Pietro», puoi cadere ingenuamente nella tentazione di fare un salto nel tempo e di raffigurarti un pescatore che tira le reti e parla con Gesù, magari con tutti gli altri apostoli. Avverti immediatamente un legame affettivo. Ma sai bene che questo legame non ci sarebbe senza il Cristo deiVangeli. Il link regge perché c’è un messaggio che non appartiene al passato, ma è parte della nostra contemporaneità.
S
A chi non è mai capitato di usare Cristo? Comincio da un ricordo personale, da una giornata di caldo particolarmente opprimente e umido nel bordo più meridionale della piana del Tonchino. L’autista doveva essersi perso e non riusciva a ricevere indicazioni sufficienti dalle rare persone a cui si fermava a chiedere la strada. Finché non vide, in lontanan-
za, la facciata di una piccola chiesa in mezzo alle risaie e la puntò imboccando una pista non asfaltata. Nelle vicinanze non c’era un villaggio e neanche case. Una stranezza, ma la provincia di Ninh Binh era stata uno degli epicentri del cattolicesimo vietnamita e il simbolo era la famosa cattedrale di Phat Diem, costruita in puro stile architettonico orientale, al punto che sarebbe stata scambiata per una grande pagoda se non ci fosse stato il crocefisso sulle punte. Bisognava però parlare al passato, perché dopo gli accordi di Ginevra del 1954 c’era stato l’esodo verso il Sud, con centinaia di migliaia di persone che si erano messe in marcia dietro i parroci, in lunghe processioni dal senso più politico che religioso. Chissà, forse in giro c’era meno gente del solito affollato Tonchino a causa di questo spopolamento di diciott’anni prima. Ci fermammo davanti all’edificio e scendemmo dall’auto. Il portone era chiuso, ma la chiesa era ancora consacrata. Arrivarono dei bambini, ce n’erano sempre e sbucavano dal nulla. Ma nessun adulto. L’autista suonò ripetutamente il clackson. L’interprete si mise a osservare la facciata e cercò un argomento di conversa-
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Da una chiesetta sperduta in Vietnam al senso della croce: una
Cristo, il pri
di Renz zione. Mi disse: «Sembra un po’ barocca e un po’ gotica». A me sembrava semplicemente brutta. Magari in passato non lo era stata, ma la mancanza di manutenzione l’aveva privata di ogni colore e di ogni rilievo. Erano mura umide e basta. Lo dissi, ma il giudizio non fu preso bene. Un vietnamita mediamente istruito era orgoglioso di qualunque vecchio edificio in pietra e ci teneva a mostrare pubblico rispetto per i simboli religiosi. Replicò, la discussione si trascinò per un po’, finché non apparve un vecchio sacerdote in tonaca, un po’sorpreso dall’arrivo inatteso di una macchina e di uno straniero. Si presentò, spiegò che apparteneva alla «Chiesa patriottica», quella che sosteneva il regime e che per questo era rimasto lì, quando gli altri se ne erano andati via. Gli vennero subito chieste le indicazioni e le risposte furono considerate sufficienti per proseguire il viaggio. Ma poi fu lui a domandare. Voleva parlare un po’. Quando gli
Il “prima” e il “dopo” non è solo una data sul calendario è l’inizio di una lezione sulla resistenza dell’uomo alle sofferenze e alle ingiustizie in nome della vita e della verità
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dissi che venivo da Roma, esplose sul suo volto un grande sorriso. Citò San Pietro, pronunciando il nome in uno stentato italiano. Tornò a utilizzare l’interprete per dire che non mi poteva invitare a visitare l’interno, perché era arrivato di corsa e aveva dimenticato le chiavi. Più probabilmente non c’era nulla da vedere. Poi bisbigliò di nuovo qualche sillaba in italiano - «Roma», «basiliche» - e lasciò cadere in un altrettanto stentato latino: «Domine, quo vadis?». Era un modo per dire che c’era stato. O almeno capii così. Facendo finta di rispondergli, spiegai all’interprete che si trattava di una chiesetta sulla via Appia, testimonianza di un mito suggestivo, quando a Pietro in fuga dalle persecuzioni di Nerone apparve Gesù che rispose «Venio Romam iterum crucifigi», lasciando sul marmo le impronte dei suoi piedi. Il vecchio sacerdote ascoltò il mio breve racconto senza alcuna reazione,
avvertì che avevo compreso qualcosa che voleva dirmi, si fermò lì. Era dimenticato fra le risaie della provincia di Binh Dinh e lì sarebbe rimasto, come parroco della «Chiesa patriottica» che gli dava da vivere e che gli consentiva di essere il pastore dei fedeli rimasti. Per comunicare non aveva parlato di Dio, ma di Cristo. Per caso aveva incontrato uno straniero che conosceva bene la chiesetta sull’Appia e che era affascinato da quel lapidario e leggendario dialogo di quasi duemila anni prima, anche se sapeva che con ogni probabilità non si era mai svolto. Era bello in sé e questo bastava. Poi fra sorrisi e reciproci ringraziamenti ripartimmo nel caldo e nell’umidità.
Continuo a scrivere da profano e ho sempre pensato che il rapporto con Dio possa essere relativamente facile, mentre quel che è davvero difficile è il rapporto con Cristo, che è presente dappertutto, che è evocato ovunque. Anche volendo, non riesci a sfuggirgli. La sua figura ha resistito per venti secoli a ogni avversità e continua a resistere, è rappresentata e riproposta in primo luogo dal crocefisso. Con Dio è diverso. O, almeno, così mi pare. Intanto puoi trattenerlo in una dimensione personale e interiore, puoi non credere neppure alla sua esistenza.Ti puoi anche limitare a leggere la «verità» nell’ambito di una regola di comportamento morale. Il famoso «come se Dio esistesse». In altre parole a me sembra soprattutto un problema individuale. Non molto diverso è il discorso da fare quando irrompe nella sfera pubblica. Anche in questo caso c’è linearità, perfino quando sorgono piccoli o grandi conflitti, lungo il confine tra il bene e il male. So che sono argomenti eternamente discussi e molto impegnativi, ma mi vengono in mente almeno due episodi. All’indomani della Shoah, venne posta una semplice domanda, certamente angosciante: «Dove era Dio ad Auschwitz?».Vennero date molte risposte, il dibattito teologico fu intenso, ma non si può non cogliere ancora adesso, dopo tanto tempo, la relativa semplicità del contrasto che può crearsi fra la fede e il destino dell’uomo. Fu quella domanda una «maledizione divina»? In parte probabilmente lo fu. Il secondo episodio - a cui si potè assistere in diretta, anche se la televisione era ancora tristemente in bianco e nero - fu quando Papa Montini celebrando in Laterano la messa
di suffragio in memoria di Aldo Moro, appena ucciso dalle Br, volse lo sguardo al cielo e si rivolse direttamente a «Dio della vita e della morte», declinando il «lamento» perché non era stata «esaudita la nostra supplica per la incolumità di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico». Fu un’omelia straordinariamente poetica, ma mi suonò come una sorta di «maledizione divina», come la manifestazione di un rapporto chiaro, intenso per quanto tormentato, ma capace di esprimere anche la linearità di un conflitto. Per non parlare poi del punto estremo, di quel che accade in questa stagione del mondo, cioè del kamikaze che uccide nel nome di Dio e che rende oggetto di repulsione sia il kamikaze quanto il Dio a cui si riferisce,
ciao Renzo
a riflessione nata dal libro di Benedetto XVI “Gesù di Nazaret”
imo, l’unico
zo Foa
perché entrambi rappresentano la distruzione e la morte. Con Cristo nulla di tutto questo sarebbe possibile. La sua caratteristica è l’unicità nella storia, nella fede, nella filosofia, nel pensiero, nell’arte. La sua presenza è pervasiva. So bene che Cristo e Dio rappresentano nella dottrina la stessa «verità», so ovviamente che per i cattolici il primo è il figlio del secondo, ma so anche che il Dio delle religioni monoteiste va declinato al plurale e che Cristo, al contrario, ha finito con l’essere non solo riconosciuto ma anche amato dai non credenti. È universale. Con lui non riesci ad avere alcun conflitto.
È il soggetto di un’appassionata e costante ricerca. Lo è da sempre. Lo è il suo essere stato
uomo, lo è nei Vangeli, lo è nella dottrina della fede. Lo è nella nascita, nella predicazione, nella passione, nella resurrezione. Credo che su nessun altro siano stati scritti e pubblicati tanti libri. Non c’è bisogno di statistiche, che probabilmente ci sono e che non conosco. È la storia del pensiero a dirlo. È la frequentazione delle librerie a confermarlo, se perfino un best-seller come il Codice da Vinci di Dan Brown ha avuto come trama la controversa fiction su Gesù dopo Gesù, con tutte le polemiche che ne sono seguite. Ma al di là dei diversi punti di vista, qualunque ricerca, qualunque testo sottolinea i vari fili che continuano a dipanarsi dopo duemila anni e che evidenziano, direttamente o indirettamente, la centralità di un messaggio e la sua indistruttibilità. I fili, appunto. Sempre da profano, non mi è facile scrivere dell’ultimo libro di Papa Ratzinger, il Gesù di Nazaret. Mi fermo su un dettaglio, su un passaggio dedicato ai manoscritti di Qumran e al movimento degli esseni descritto come «un gruppo che si era staccato dal tempo erodiano», che «aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione» e che - sembra «Giovanni il Battista e forse anche Gesù e la sua famiglia fossero vicini a questa comunità». In ogni caso, «i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatti con l’annuncio cristiano». Lo stesso dettaglio che mi aveva colpito, quando in Ladri nella notte, Arthur Koestler aveva raccontato delle interminabili discussioni nel kibbutz della Torre di Esdra, dove nel 1937 giovani ebrei in fuga dall’Europa passavano le ore libere a macerarsi e a dividersi non solo sul socialismo laburista e sul comunismo, non solo sul conflitto con gli arabi, ma anche sul modello comunitario ed egualitaristico degli esseni, di cui tra l’altro si sapeva ancora meno di quanto si sappia oggi. Era la stessa terra dove avevano vissuto e predicato duemila anni prima quegli uomini vestiti di bianco, spazzati anch’essi via da Tito e dalla diaspora. Sarebbero rimasti a bocca aperta quei giovani sionisti se solo avessero immaginato che, settant’anni dopo, un Papa romano avrebbe parlato dei possibili punti di contatto di quel modello con «l’annuncio cristiano».
Non sono un grande consumatore di testi sul «Cristo storico». Ma ho scoperto, leggendo Processo e morte di Gesù di Chaim Cohn che, appena fondato lo Stato di Israele, mentre era in corso la prima guerra per la sua sopravvivenza, la Corte suprema appena istituita venne subissata di richieste di revisione del processo più famoso e controverso della storia, che per discrezione, visti i cattivi rapporti del cattolicesimo con l’ebraismo, venne avviata un’inchiesta riservata e non ufficiale, ma che non si rinunciò ad affrontare l’argomento. Così come ho scoperto - grazie allo studio di Èric Edelmann dal titolo Jésus parlait araméen - che è ancora usato in Siria un Vangelo scritto in aramaico, che quasi certamente è all’origine dei quattro testi «ufficiali» da lì tradotti in greco. Fa anche una certa impressione riprendere in mano il Gesù ebreo di Riccardo Calimani, dopo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ricomposto sul piano teologico la «famiglia giudaico-cristana» che, sul piano politico, è stata rapidamente assunta a unica tradizione. Non sono neanche un grande esperto di tutti i tentativi di appropriazione compiuti nella storia della figura di
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messaggio, nella dottrina e nella fede. Ma anche venti secoli di storia dell’arte e della letteratura testimoniano che la raffigurazione del bello e della perfezione, tanto nella serenità quanto nella sofferenza, portano la sua effige. Lui è l’essere umano, il Creato e la verità sono lo sfondo. Mi vengono in mente due sole somme eccezioni, La divina commedia e il Pater noster. Quel Pater noster che si può leggere anche come la poesia più coinvolgente mai ascoltata e recitata. Ma il resto - e non è poco, dai mosaici della cattedrale di Aquileia fino al cantiere della Sagrada familia di Antoni Gaudì - testimonia la costante attrazione ora verso il bambino, ora verso il predicatore, ora verso il sofferente testimone della passione, ora verso l’uomo crocefisso. Non c’è nulla di simile, da nessuna parte, in nessuna altra epoca. So che per i cattolici tutto questo ha delle implicazioni più complesse, ma a me sembra che si tratti essenzialmente dell’immagine più completa della resistenza dell’uomo alle avversità, alle sofferenze e alle ingiustizie in nome della vita e della ricerca della verità.
Una domanda forse banale. La Chiesa di Roma ha potuto esistere tanto a lungo per la capacità e la cultura dei chierici o per la forza del messaggio trasmesso dai Vangeli e del pensiero che vi si è alimentato? Non sarebbero stati solo dei passanti nella storia San Paolo e Costantino, Sant’Agostino e San Benedetto, San Francesco e San Tommaso? C’è una stratificazione di idee e di opere che coniugano passato e presente e che sono capaci di rappresentare qualcosa
Da 2000 anni siamo in presenza di una figura inclusiva, la più importante della storia, che parla a tutti. Anche venti secoli di letteratura e di arte sono segnati dalla sua effige Cristo, a cominciare dal momento in cui Maometto lo assunse tra i profeti del Corano, anche se gli storici hanno sempre avvertito la parzialità dell’operazione di sincretismo. Quello che mi ha sempre colpito, invece, è stata la facilità con cui è stato definito «il primo socialista». Camillo Prampolini, il fondatore del «riformismo padano», ha lasciato una sua celebre Predica di Natale in cui proprio Cristo veniva definito come l’iniziatore «della grande rivoluzione sociale». Ho solo da constatare che da duemila anni siamo in presenza di una figura inclusiva, la più importante della storia, che per i cattolici è il figlio di Dio e che parla a tutti gli altri.
Continuo a scrivere da profano. Ma proprio per questo mi è difficile non notare che Cristo è davvero ovunque, è un’immagine che sovrasta quella di Dio. So che è impossibile distinguerne il
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in più di una religione, qualcosa in più del misticismo, qualcosa in più del rapporto con Dio. So bene che tutto ciò si chiama «civiltà». So anche che questi duemila anni di storia sono stati complicati, spesso implacabili, segnati da fratture, lacerazioni, scontri, dal potere e dalla politica. Mi è capitato di assistere a una messa celebrata con il vecchio rito tridentino, quello della controriforma, di vedere l’officiante che volgeva le spalle ai fedeli per rivolgersi a Dio come se fosse solo lui a poterlo fare, come se fosse depositario di una funzione esclusiva. Mi è servito stare in quella fredda chiesa, dove si ricordavano le vittime della rivoluzione ungherese del 1956 e si pregava per le loro anime, perché, facendo un rapido raffronto, ho avuto la conferma di quanto invece Cristo abbia trasmesso un messaggio universale. Perdipiù essendo stato il primo a far-
lo, introducendo il concetto di persona, che da allora è sempre riemerso nonostante tutti i tentativi di cancellarlo, fino al Novecento dei totalitarismi con il paganesimo nazista e con l’ateismo e il collettivismo sovietico. Quando mai, prima di lui, un pescatore o un falegname o una prostituta erano stati considerati degni di nota, degni di entrare nella memoria, uguali agli altri?
Confesso di aver capito male, per molti anni, il significato del crocefisso. Confesso anche che nella mia prima scuola, una Montessori, non ci avevo fatto caso. Alle maestre si dava del tu e si passava la giornata in un allegro clima di uguaglianza. Mi accorsi della sua esistenza quando, cambiando casa e quartiere, scoprii che al maestro bisognava rivolgersi con il lei. La cattedra rappresentava l’autorità e sulla parete dietro la cattedra, nell’ordine dell’aula, era appeso il crocefisso che mi sembrava appartenere a una sfera lontana e separata, a un’altra gerarchia. Lo si vedeva anche male, non si distingueva il volto, era poco più di un’abitudine. Era la stagione precedente al Concilio giovanneo. Devo invece a Natalia Ginzburg la più bella lezione che ho sentito, molti anni dopo, sul senso di quella croce. In occasione di una delle tante polemiche sui simboli religiosi nei locali pubblici, scrisse che il «il crocefisso è il simbolo del dolore umano», che «fa parte della storia del mondo» e che «rappresenta tutti coloro che «sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future» per una ragione molto semplice. Questa: nessuno prima di Cristo «aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini». Il prima o il dopo Cristo non è solo una data sul calendario. Non è solo la definizione temporale di una religione. È piuttosto l’inizio di una lezione. Si dimentica troppo spesso, ma quel «date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio» è l’atto fondativo della laicità. Si tende a dimenticarlo, ma la forza di una fede (e di una cultura) è misurabile anche in dettagli come questi. Perché nessun altro, prima di lui, aveva introdotto una simile distinzione? Una distinzione che ancora oggi viene indicata come la prova della modernità, spesso sbagliando bersaglio polemico. E il concetto di bontà nella condotta privata e pubblica a chi si deve? Per non parlare del capitolo più importante, quello della libertà e della responsabilità. *** So che Cristo può appartenere a tutti, al di là della fede, ma so anche che senza la fede non ci sarebbe.
ciao Renzo
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LE TESTIMONIANZE DI AFFETTO ARRIVATE A LIBERAL
Un amico, un esempio CARLO RIPA DI MEANA
Quelle sere a parlar di futuro D
egli ultimi dieci anni, che poi sono gli anni della mia amicizia con Renzo Foa, ho tre capitoli. Il primo è la traversata di un decennio enigmatico e per me incomprensibile compiuta con Renzo che mi ha teso più volte la mano e che mi ha permesso di raccapezzarmi. Unico tra gli ex comunisti con il mio caso,
anche quello di ex comunista, nello spiegare, interpretare, ricostruire le passate passioni, le scelte, insomma il vissuto senza quella nota presente in tutti gli altri, come lui e come me, del rancore e del rimorso. Ho il ricordo di una sera a Belluno con il gruppo che svolgeva lì un grande lavoro, illuminato ed efficace. Si parlò non solo delle sue idee ma anche della gentilezza e della forza della persona. Il secondo capitolo che mi ha preso e rapito è stata la sua passione per la scrittura. Ha dedicato ai grandi eretici della sinistra degli anni Trenta e poi dei decenni dopo la seconda guerra mondiale, dei testi di alta letteratura raccolti nel libro In cattiva compagnia, dove si trovano memorabili ritratti di Koestler, della Buber-Neumann, di Nina Berberova. Il terzo capitolo è quello della totale disponibilità a misurarsi con quanto è nuovo e arriva senza preavvisi nella nostra vita. Questo l’ho sentito nell’amore per la casa voluta con Gabriella sulla riva che guarda il lago Trasimeno, vicino a Panicale. E nell’attenzione e nel riguardo prima forse un po’ estraneo, poi più intenso, espressi nel rapporto con il vescovo Rino Fisichella, che era pari o forse ancora più profondo e vasto di quello verso André Glucksmann. L’ho visto nella sua casa a Trastevere, magro, con il volto di un hidalgo, tanto che per lui mi torna in mente quell’omaggio al poeta incaico peruano Garglaso de la Vega che bene lo interpreta: Ilustre en sangre, perito en letras, valente en armas.
EUGENIA ROCCELLA
Ci rimane la sua lezione N
on sono molte le figure di intellettuale come Renzo Foa, e nemmeno le persone come lui. Difficile separare le due cose. Colpiva la sua straordinaria innata signorilità, la sobrietà che non era mai riducibile a cifra stilistica, ma esprimeva un tratto personale essenziale. Con qualunque interlocutore sapeva mantenere una calma perfetta, un’ironia raffinata; la semplicità di eloquio rifletteva la chiarezza e consequenzialità del suo ragionare. Un tempo si sarebbe detto: un vero signore, e in questo portava su di sé il
segno della parte migliore della cultura torinese. Il suo distacco dalla sinistra, da cui proveniva per ambiente culturale e familiare, non è stato l’allontanamento dell’apostata, la brusca fine dell’illusione: a lungo aveva tentato, anche dalla posizione di direttore dell’Unità, di fecondare una cultura politica chiusa e impermeabile, arrogante e priva di curiosità verso il nuovo, perché convinta di rappresentarlo. Il tentativo fallì, Renzo se ne andò. Ma oggi la sinistra post-comunista avrebbe ancora bisogno di imparare dalla sua lezione.
GIORGIA MELONI
Un vero intellettuale pprendo con sincera tristezza la notizia della scomparsa del direttore Renzo Foa. La Fondazione e il quotidiano liberal perdono un punto di riferimento insostituibile, l’Italia perde un grande, vero intellettuale, non come i tanti sedicenti che riempiono i mass media. Il suo percorso politico e culturale è stato lungo e ricco, certamente da apprezzare.
A
PAOLO GUZZANTI
Noi, insieme “dall’altra parte” È
tristissimo che Renzo se ne sia andato così giovane e a così poca distanza da suo padre, vissuto fino a 98 anni. Mi ricordo di averlo intervistato, credo per Repubblica, quando era direttore de l’Unità. E rimasi sorpreso nello scoprire una persona mite, intelligente, ironica, colta e molto, molto simpatica. Molti anni dopo, ci siamo ritrovati insieme a Il Giornale, dopo i percorsi diversi ma paralleli di due persone che si erano trovate “dall’altra parte” pur restando se stesse. Abbiamo fatto tante cose insieme, abbiamo discusso a lungo delle difficoltà che avevamo dovuto incontrare per superare il linciaggio degli ambienti d’origine. Lui mi parlava della serenità con cui il padre aveva accettato le sue scelte, io gli parlavo dei miei figli. Renzo Foa era (e mi sembra così strano doverne parlare al passato) uno dei pochi giornalisti che invidiavo, che scriveva gli articoli che avrei voluto scrivere io. Era un
giornalista di prima classe, documentato, di lettura, oltre che una persona dotata e capace, dall’intelligenza limpidissima. Siamo di fronte a una perdita gravissima per la cultura e il giornalismo italiani.
GIUSEPPE BAIOCCHI
Le chiacchierate qui a liberal E
ra toccato a lui, il giorno della caduta del Muro di Berlino, dover trovare le parole oneste per esprimere la voce di un grande partito come il Pci diventato nei suoi vertici politici improvvisamente muto, se non disertore. E, pur con la crisi interiore sull’ideologia che da anni viveva, si era caricato sulle spalle la direzione de l’Unità, in quegli anni drammatici, per assolvere uno scomodo dovere di responsabilità verso quella sinistra che era stata la sua casa-madre, anche se da tempi non sospetti ne era già spiritualmente lontano. Il racconto (volutamente modesto e strappato al suo pudore) di quel tormento umano e professionale, individuale e collettivo, rivelava tutta la natura di Renzo Foa e la sua intima coerenza, anche se era poi approdato ad altri lidi. E cioè il desiderio sincero di comprendere le ragioni dell’“altro”. Negli incontri e nelle conversazioni di questi anni di liberal, colpiva felicemente la sua curiosità istintiva (e non solo educata), la sua voglia di confrontarsi apertamente e la sua disponibilità a mettere in gioco le proprie opinioni e a lasciarsi amabilmente convincere da prospettive alle quali magari non aveva pensato. Come accadde per il numero speciale della rivista su Gesù Cristo dopo il libro del Papa, quando, nella sua laicità, sapeva sfidare con dolce determinazione a quel “di più” di riflessione e di scavo che costringeva l’interlocutore a dare con rigore il meglio di sé. Un atteggiamento, che pure non escludeva la mite difesa del proprio pensiero, che è così raro e tipico dell’uomo davvero “libero dentro”. È un tesoro che la morte non disperde e che semmai affida al futuro. Là dove si trova adesso, so che non gli dispiacerà la preghiera di un povero cristiano per lui, che in vita si è meritato da Dio solo tanta misericordia.
ciao Renzo ENRICO CISNETTO
Un viaggiatore controcorrente C
aro Adornato, giunga a te e a tutta la famiglia di liberal il mio profondo cordoglio per la prematura scomparsa di Renzo Foa. Ho letto le tue parole di ricordo dell’uomo e dell’intellettuale, e le condivido pienamente. Renzo era un’eccezione – e che eccezione – nella mediocrità che ci circonda: un raffinato intellettuale che navigava controcorrente senza per questo essere uno dei tanti volgari professionisti dell’anticonformismo. Mancherà al giornalismo e al dibattito politico la sua voce serena e acuta. L’Italia perde un altro dei suoi uomini migliori.
NICOLETTA TILIACOS
Quando ci fece amare Koestler R
enzo rivendicava il suo sentirsi affratellato agli ex, ai “rinnegati”, a“coloro che sapevano, che testimoniavano, che scrivevano per essere creduti in primo luogo dai loro vecchi compagni”, aveva scritto nella prefazione al Bar del crepuscolo, un libretto perduto dell’amato Arthur Koestler che, grazie a lui e a Paolo Franchi, era stato ripubblicato da liberal. Per Koestler, Renzo aveva coniato definizioni che appaiono adatte a descrivere quello che lui stesso è stato: un «maestro d’inquietudine», rimasto «se stesso cambiando idea». Per Renzo – che scherzando diceva di essere socio del club di Buio a mezzogiorno, ma non era uno scherzo – amare Koestler e ciò che aveva rappresentato era possibile soltanto a chi era stato comunista, a chi, a partire da quell’esperienza, «ha provato a spiegarsi l’errore e a farci i conti». C’era un orgoglio e una tenerezza quasi dolorosa, in questo atteggiamento di Renzo, che si trasformava in un’inesauribile vena di aneddoti e di storie dimenticate e – dopo che lui te l’aveva raccontate – indimenticabili. Ho avuto la fortuna di essere stata sua amica e anche di aver lavorato con lui, imparando ogni giorno qualcosa di importante. La sua ultima lezione, la più grande, è stata la prova di coraggio nella malattia. E l’affetto protettivo verso le persone che Renzo ha amato e lo hanno molto amato, perché se lo meritava.
MASSIMO DE ANGELIS
Le nostre eresie parallele C
aro Renzo, a pensarci, noi due, pure così diversi in tante cose, abbiamo condiviso due scelte di vita. La prima:
quella da “rivoluzionari di professione”; nella “effegici”, come si diceva, poi nel Pci e nel giornalismo di partito (con una fase per me a Botteghe Oscure). La seconda, quella “oltre la sinistra”. Dico così e non, come è stato scritto, dall’“altra parte” perché a un certo punto quello che ci ha respinto è stata proprio la partigianeria, quello che ci ha attratti è stato un possibile spazio di libertà di pensiero e comportamento. Una libertà di pensiero che la sinistra da noi non ha mai annichilito (ma certo lo ha fatto in Europa e nel mondo) e che però ha anche da noi compresso e oggi più che altro banalizza e svuota di passione umana. Tutto ciò tu ed io, grazie a Dio, abbiamo saputo rivedere. E ci siamo rincontrati a liberal. Dove, insieme a Nando, abbiamo fatto tante cose belle e importanti. Certo Koestler è un autore su cui abbiamo a lungo conversato. Ma ho sempre pensato che il libro più “tagliato” sulle nostre sensibilità fosse Deserto rosso di Renato Mieli, il racconto tormentato di una uscita da una dissipazione divenuta insopportabile. Chissà, troveremo il modo di parlarne! Ricordo ora in particolare la tacita passione con cui organizzammo il convegno sull’Holomodòr: la strage di sei milioni di ucraini voluta da Stalin e silenziata dal conformismo antifascista. Era la nostra testimonianza revisionista che ci ricollegava a quella passione per l’uomo e la sua libertà che un tempo ci aveva fatto proprio aderire all’antifascismo e quindi al Pci. Come è complessa la storia! Non c’era lì una intenzione retrospettiva, da resa dei conti che ci animava ma il desiderio di guardare avanti, con la passione di un tempo e con occhi nuovi. Una passione concentrata sul valore irriducibile della persona come condizione della dignità di tutti e non viceversa. La stella polare, credo, del nostro cammino di un decennio. A proposito di passione: ricordo una conversazione sul film The Passion e su Gesù. Fu uno dei dialoghi per me più affettuosi fra quelli avuti con te. Scoprii allora che avevamo anche quella amicizia, in comune.
GIORGIO ISRAEL
I nostri anni al liceo Visconti L
a morte di Renzo mi lascia sconvolto e incredulo e mi riporta ai ricordi più lontani. Già, perché io e Renzo ci conoscevamo da più di quarant’anni, da quando eravamo entrambi studenti al Liceo Visconti. Lui di un anno e mezzo più giovane di me frequentava un’altra classe ma ci eravamo presto conosciuti perché facevamo parte dello stesso circuito di studenti di sinistra del celebre
12 giugno 2009 • pagina 15
Una foto antica e particolarmente significativa: Vittorio e Renzo, padre e figlio (Renzo qui ha poco più di dieci anni) insieme al Parco leggono i rispettivi giornali quotidiani
liceo romano. All’uscita da scuola andavamo spesso a piedi fino alla Stazione Termini, dove ci separavamo: lui prendeva l’autobus verso la sua casa sulla via Cristoforo Colombo ed io tornavo nella mia, vicino a Via Nazionale. Al Visconti, assieme ad altri due amici, Stefano Giolitti (il figlio di Antonio) e Franco Cataldi, avevo messo in piedi un giornale scolastico intitolato Argomenti e pareri, su una linea di sinistra molto moderata. Presto Renzo si aggregò alla “redazione” assieme ad altri ragazzi, tra cui alcuni figli di note famiglie di sinistra, come i Lombardo Radice e gli Ingrao. Argomenti e pareri divenne la nostra prima esperienza politica e prese un tono sempre più orientato a sinistra, conformemente all’evoluzione di quegli anni che vide l’ingresso nella sinistra comunista di legioni di giovani genericamente antifascisti, come gli aderenti a “Nuova Resistenza”, la quale fu anche un’esperienza comune a me e Renzo. Di recente con Renzo abbiamo rievocato un esilarante episodio avvenuto durante la fondazione a Firenze di “Nuova Resistenza”. Eravamo tutti in un albergo dove alloggiava anche una comitiva di turisti spagnoli. Durante la cena Renzo si levò in piedi gridando in modo stentoreo: «Que viva España roja!». Uno dei poveri turisti si alzò sconvolto e sibilò: «Usted está loco»… Ci siamo fatti molte risate sul nostro estremismo di adolescenti di allora, un estremismo da cui ci allontanammo rapidamente, pur continuando a militare nella sinistra comunista. Per molti anni ci siamo persi di vista. Quando, nel 1990, Renzo divenne direttore de l’Unità, io ero uscito dal Partito Comunista da dieci anni. Pur a distanza, apprezzai subito la linea moderata e aperta con cui intendeva gestire il giornale e concepiva la sua militanza nella sinistra. Di recente mi raccontò del gelo con cui la vecchia guardia del Partito aveva accolto la sua nomina. Qualcuno – mi raccontò gli tol-
se persino il saluto. E già da alcuni anni era iniziato il suo cammino verso una posizione di riformismo liberale su cui ci ritrovammo e riprendemmo una frequentazione suggellata da una cena a Trastevere. Fu l’occasione di rivisitare tanti anni passati alla luce di un percorso che aveva tanti punti in comune e di inaugurare iniziative in comune, tra cui ricordo soprattutto un viaggio assieme a Berlino nel 2006 per la Giornata europea della cultura ebraica. È un grandissimo dolore per me che Renzo sia venuto a mancare, proprio dopo che da parecchi anni si era ravvivato un sodalizio non più soltanto legato alle memorie della prima gioventù, ma alla condivisione di idee e prospettive. Con la sua vita condotta con sincerità e onestà che certamente gli sono costate molte sofferenze se ne va anche un pezzo della vita di chi gli è stato amico.
ALDO FORBICE
Quando scoprì la radio C
aro Renzo, eri ritornato a Zapping e sembravi attivo, pieno di vita, con idee e riflessioni sempre originali e stimolanti. Ora il vuoto assoluto. Mi ricordo quindici anni fa quando cominciasti questa esperienza di opinionista nel programma radiofonico di Radio Uno, le tue lucide analisi, i tuoi interventi appassionati, ma anche sempre misurati, mai esasperati, perché non esprimevi mai condanne radicali e definitive su chi non la pensava come te. Un equilibrio nei tuoi ragionamenti che raramente si trova negli interlocutori, un rispetto profondo per le tesi e le opinioni che non coincidevano con quelle tue. Mi ricordo anche i tuoi incoraggiamenti, la tua attiva partecipazione con le due edizioni di “Umanitaria”, la manifestazione sui diritti umani nel mondo che abbiamo realiz-
zato a Valmontone. Non ti sottraevi mai quando ti invitavo ai dibattiti, agli incontri sulla fame nel mondo, sui diritti umani violati in Cina, in Iran e negli paesi africani e asiatici, sulle violenze sugli esseri umani in ogni parte della terra. I tuoi interventi, le tue riflessioni erano sempre puntuali, aggiornati sui fatti, mai scontati e mai influenzati dai luoghi comuni. Il tuo metodo era la riflessione, la ragione, la scelta laica per ogni risposta che ti chiedevano. E questo metodo lo si riscontrava sempre nei tuoi editoriali sui giornali in cui scrivevi e nella tua direzione di liberal. Mi ricordo, sempre a “Umanitaria”, quando ti ponevano quesiti, pensando di metterti in imbarazzo, sulla guerra in Medioriente, sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Ho apprezzato il tuo equilibrio, la forza dei tuoi ragionamenti, che valevano sempre molto di più di ogni scelta acritica o fanatica di schieramento politico, ideologico, religioso. Mi ricordo, caro Renzo, quando stavi maturando, con sofferenza, la stimolo culturale e politico a iniziare esperienze diverse, che rifuggivano dalla demagogia, dall’ideologismo marxista di altri tempi. È stato difficile, molto difficile, quell’approdo politico, sempre caratterizzato dal riformismo e della laicità. Una scelta nel campo della democrazia e nell’ottica delle forze politiche moderate ma progressiste. Sei rimasto sino alla fine legato a idee di progresso, di rinnovamento della società e delle istituzioni, di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti fondamentali degli esseri umani. Questi principi, di cui parlavi spesso, rappresentano forse la più importante eredità culturale del tuo grande padre, Vittorio, nonostante le differenti scelte politiche. Non è retorica affermare, caro Renzo, che ci lasci una grande vuoto. Per tutti noi, amici ed estimatori, rappresentavi un punto di riferimento culturale, di equilibrio e di profonda umanità. Grazie Renzo.
mondo
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Elezioni. Oggi l’Iran elegge il suo nuovo presidente. Favorito Mousavi, che grazie alla moglie ha conquistato il popolo
Rivoluzione nelle urne Gli ayatollah di Khamenei vogliono fermare gli eccessi di Ahmadinejad di Michael Ledeen segue dalla prima Entrambi dimostrano con chiarezza cosa voglia la popolazione: la fine di un regime opprimente. Il loro candidato è l’ex primo ministro, Mir Hossein Mousavi, un architetto che ha progettato alcuni degli edifici più opprimenti nel corso del regno della Guida suprema Ali Khomeini e che poi è sparito dalla vita pubblica per circa vent’anni. Tutti i resoconti sulla sua persona lo definiscono una figura “non ispiratrice”, un noioso oratore e un combattente senza armi. Due giorni fa, è stato malamente battuto dal presidente Ahmadinejad nel
corso di un dibattito televisivo. Quindi, su cosa può contare? Prima di tutto sul fatto che lui non è Ahmadinejad, che al momento attuale ha accumulato contro di lui l’odio popolare.
Attualmente, il circo in corso prevede e si rafforza con una serie di operazioni improntate sull’incremento della repressione: fra queste spiccano le esecuzioni pubbliche di molti giovani (alcuni accusati di omosessualità); arresti di massa; chiusura sommaria di quei pochi, semi-indipendenti giornali; accresciuta censura contro telefono e internet e moltissime azioni legali contro quei ragazzi che non rispettano il rigide codice d’abbigliamento e le regole di decoro pubblico imposte dalla dittatura teocratica. Il fatto che così tante persone abbiano apertamente dimostrato contro un regime di questo tipo è certamente un fattore significativo, così come è giusto che i reporter occidentali che vi hanno assistito definiscano le proteste “rivoluzionarie”, o almeno “insurrezionali”: la loro visione è corretta. Dico da molto tempo che il popolo iraniano non apprezza il regime,
non vuole una Repubblica islamica e vorrebbe far parte del mondo occidentale. Sicuramente non vuole essere coinvolto in un sistema che sostiene il terrorismo anti-americano e anti-israeliano, che nega l’Olocausto e inneggia al martirio. In questo senso, Mousavi può essere accostato al fallito “riformatore” Mohammad Khatami, che venne inaspettatamente eletto presidente nel 1997. Una volta ho scritto che Khatami era il vaso vuoto in cui gli iraniani avevano versato il loro desiderio appassionato di libertà. Khatami in effetti non riformò molto, e molti iraniani arrivarono a definirlo il “caval-
La signora Rahnavard, moglie dell’architetto riformista, ha arringato le folle riunite nello stadio di Teheran e ha lasciato intravedere un Paese libero. Anche soltanto un fatto del genere è sorprendente lo di Troia” inviato dagli estremisti del regime, che in quel modo fecero uscire allo scoperto i dissidenti per poi emarginarli, torturarli, incarcerarli e infine ucciderli. Io però credo che Mousavi sia diverso. E che la grande differenza sia rappresentata dalla moglie. Come dice il Times: «Il più entusiasta fra gli applausi è stato quello che ha accolto l’oratrice principale, Zahra Rahnavard, la moglie di Mousavi. Che ha detto ai presenti “siete qui perché non volete più una dittatura, perché volete un Iran libero, perché sognate relazioni pacifiche con il resto del mondo”. Lo stesso candidato era difficile da Il vedere…». fatto che la signora Rahnavard sia divenuta una figura centrale nello show della campagna elettorale è una grande sorpresa, forse rivoluzionaria persino così com’è. Come sappiamo tutti, il ruolo delle donne nella Repubblica islamica (come in gran
parte del resto del “mondo islamico”) è incredibilmente ridotto, a un livello incomprensibile per degli osservatori occidentali. Le donne valgono ufficialmente la metà degli uomini, non hanno diritti di proprietà, hanno pochissima (e formale) voce in capitolo sull’educazione dei propri figli, hanno accesso limitato alle opportunità di lavoro (Khomeini usò per molto tempo come arma il fatto che lo Scià permetteva alle donne di insegnare ai ragazzi maschi), e ovviamente sono obbligate a coprire il loro corpo - capelli compresi - dato che essere guardate potrebbe corrompere gli uomini virtuosi.
Persino Shrin Ebadi, vincitrice del premio Nobel per la Pace, viene messa a tacere o costretta con regolarità agli arresti domiciliari quando il regime si stanca di sentirla parlare di diritti umani. E adesso, all’improvviso, la signora Mousavi è divenuta una figura politica nazionale. Altre donne sono emerse, di tanto in tanto, nella storia per giocare un ruolo pubblico nel melodramma politico, ma nulla di simile a questo era mai successo nella Repubblica islamica. Il semplice peso politico di questa donna è di per sé esplosivo. In molti modi, esso
minaccia le fondamenta del sistema: se alle donne vengono garantiti eguali diritti rispetto agli uomini (e questo è uno dei messaggi chiave di Mousavi, dimostrato dalla presenza della moglie, dalle parole che usa e dall’entusiasmo che ispira) l’intera struttura del regime khomeinista potrebbe essere messa in dubbio. Tutti in Iran riconoscono questo fatto. Il mistero riguarda il perché le sia permesso farlo. Per dirlo in parole crude, il leader supremo Ali Khamenei avrebbe potuto decidere di interrompere bruscamente la campagna elettorale di Mousavi sin dagli inizi. Ma non l’ha fatto. Perché? Sostiene segretamente una seria minaccia all’esistenza della Repubblica islamica? Oppure si tratta di un trucco diabolico, un nuovo tentativo per fare uscire allo scoperto e massacrare i dissidenti? Molti mesi fa mi hanno detto che Khamenei è molto preoccupato per il futuro del regime, così preoccupato dall’odio accumulato nella popolazione da ritenere impossibile un nuovo governo Ahmadinejad, la cui aggressiva politica estera e interna mette a rischio tutto ciò che è stato costruito nel corso degli ultimi trent’anni. Sono stati degli amici di Mousavi a dirmi queste cose, gli stessi amici che mi hanno predetto la sua partecipazione alla campagna elettorale e il sorprendente sostegno popolare che poi ha puntualmente ricevuto. Mi hanno anche detto che è stato lo stesso Khamenei
mondo loro desideri (e non importa che molti mullah, e molti ayatollah, siano contrari ad Ahmadinejad). Il problema di questa spiegazione è che spiega troppo. A dire il vero,“spiega” tutto, così come secondo gli iraniani in patria e della diaspora - tutto si spiega con la mano della Cia e della Regina Elisabetta.
I sostenitori del presidente in carica sono maestri nella manipolazione del voto. I loro nemici hanno i numeri per contrastarli. Oggi più che mai il Paese rischia una nuova, violenta rivolta sociale a incoraggiare Mousavi a partecipare: il leader religioso sarebbe pronto a dare maggiore libertà al suo popolo e a normalizzare i rapporti con l’Occidente. All’epoca mi apparve molto strano, ma da allora Khamenei si è gravemente ammalato e ha iniziato a fare uso di una quantità considerevole di oppio per calmare i dolori provocati da un cancro incurabile.
In circostanze del genere, prese di posizioni sorprendenti diventano può credibili rispetto alle situazioni “normali” (uso le virgolette perché c’è molto poco, in Iran, che qualcuno di noi potrebbe considerare normale). Fino ad oggi, Khamenei non ha sostenuto alcun candidato. Si è limitato a dire che i pretendenti si devono comportare in maniera corretta, che tutti devono votare e che il voto dovrebbe andare a quel politico che meglio incarna le virtù musulmane. Un possibile indizio della simpatia nei confronti di Mousavi potrebbe venire dal fatto che la Guida suprema della Rivoluzione non ha mandato a sprangare i manifestanti per le strade di Teheran. In altre occasioni, chi dovesse gridare “Morte al regime delle bugie”in territorio iraniano finirebbe ammanettato e picchiato sul
posto. Ma questo non è avvenuto. D’altra parte, è arduo pensare che il regime si metterà semplicemente di lato, lasciando a Mousavi la libertà di trasformare l’Iran in un Paese tollerante con amichevoli relazioni strette con il resto del mondo. Ci sono forze potenti - i banditi noti come Basij e significativi settori delle Guardie rivoluzionarie - che vivono con un genuino fervore religioso e che senza dubbio sono pronti a combattere per la propria sopravvivenza, non importa quante persone possano manifestare in strada. In Iran è molto facile, inoltre, controllare le “elezioni”: i fondamentalisti (per la maggior parte sostenitori di Ahmadinejad, anche se si contano alcuni elettori di Rezai, ex comandante dei pasdaran), sanno come manipolare i meccanismi di voto e di spoglio delle schede. Fa tutto parte di un trucco? Questa “spiegazione” è favorita da coloro che pensano che i mullah siano così scaltri e così capaci di controllare le cose da giustificare qualunque cosa succeda con i
Non si prende neanche in considerazione l’ipotesi che i mullah abbiano sbagliato, oppure che non sappiano bene cosa sia successo. Eppure i mullah hanno compiuto moltissimi errori. Sono stati sconfitti dagli Stati Uniti e dai suoi alleati in Iraq. Sono appena stati umiliati dalla popolazione libanese, che ha votato in maniera diversa da chi pensava che Hezbollah avrebbe vinto. E in qualche modo sembra che non abbiano ancora ottenuto la bomba atomica, dopo circa vent’anni di tentativi e l’aiuto di amici in Pakistan, Cina, Russia, Georgia, Corea del Nord e persino Germania. Sono riusciti a distruggere l’economia nazionale nonostante una pioggia di petrodollari. Si tratta di un impressionante raccolta di fallimenti. La popolazione iraniana ha sofferto per questa incompetenza, e vuole metterle un freno. E questo spiega, secondo me, perché Mousavi - fuori dai giochi di potere per venti anni - sia il più apprezzato fra i quattro candidati alla presidenza. Mousavi è chiaramente il favorito, ma se cercate l’outsider votate per Rezai, ex Guardia rivoluzionaria. Se ci saranno sorprese verranno da lui, che è in grado di creare una coalizione per fermare l’architetto. C’è poi un’altra questione su cui il destino dell’Iran potrebbe scontrarsi: cosa accadrà dopo le elezioni? L’odio per il regime è tornato nelle strade, ma i difensori del governo sono tanti e ben armati. I
A destra il candidato riformatore Mir Mousavi. Nella pagina a fianco il presidente in carica, Mahmoud Ahmadinejad
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due schieramenti sono pronti ad accettare il risultato di un’urna conosciuta per essere tanto corrotta? Coloro che oggi chiedono la morte per il governo sono pronti a tornarsene a casa se Mousavi sarà “sconfitto”? E coloro che hanno investito vita, carriera e religione nell’odio per l’Occidente sono pronti ad accettare la sua “elezione”? Oppure l’Iran è pronto per un conflitto interno e aperto? E in quel caso, cosa dovrebbe fare l’Occidente? Io credo che sia molto probabile un ritorno alla violenza, sin dalla notte di oggi. Infatti, non penso che nessuno sia pronto a mettersi da parte graziosamente.
Sono convinto che quella polizia oggi assente dalle strade sia pronta per tornare in azione, contro i manifestanti che gli verranno indicati come nemici. Le forze di sicurezza hanno manette, pistole e camere di tortura. Le forze anti-governative hanno dalla loro parte soltanto il numero. Ma questo potrebbe bastare: Gorbaciov aveva il Kgb dalla sua parte, ma l’Unione sovietica è crollata lo stesso. L’Iran ha una tradizione rivoluzionaria (tre, forse quattro rivoluzioni nel ventesimo secolo), e la nazione è certamente in una condizione che autorizzerebbe una rivolta. È sempre una sorpresa quando
scopppia una rivoluzione, ma oggi - e in Iran - non sarebbe poi così sorprendente. Credo che una rivoluzione non violenta era già pronta a partire nel 2003, quando l’allora Segretario di stato dell’Amministrazione Bush Colin Powell disse agli iraniani che non avremmo fatto nulla per aiutarli, facendo uscire l’aria dal palloncino. Oggi le condizioni sono diverse: gli iraniani non si aspettano alcun aiuto dal mondo esterno. Bush, a suo disonore, non li ha aiutati e nessuno crede che Obama alzerà un dito per loro. Sono lasciati a sé stessi, esattamente come i libanesi. Io credo che abbiano deciso, prima di perdere tutte le speranze, di cercare la libertà. Se la violenza dovesse esplodere, cosa farà l’Occidente? Probabilmente nulla se non esprimere preoccupazione e chiedere ragionevolezza. Buona fortuna! Cosa invece dovrebbe fare? Sostenere la libertà in Iran. Niente trasformerebbe di più la regione mediorientale rispetto a un governo democratico e libero, con buone relazioni internazionali. Un governo del genere potrebbe smetterla con le spese relative al finanziamento del terrorismo, dedicando quei fondi ai problemi interni. Hamas, la Jihad islamica, i talebani e gli altri estremisti sarebbero estremamente indeboliti. Assad, leader di Damasco, perderebbe un fratello. Se sognate la pace in Medioriente, un Iran libero è il cuore della vostra utopia. Non c’è speranza di pace, finché Teheran continua a sostenere il terrorismo: se i terroristi sono costretti a trovare armi e denaro da soli, ci sono maggiori possibilità di pace. Certo, la vita è piena di sorprese. Khamenei potrebbe sostenere il presidente in carica, Ahmadinejad potrebbe essere rieletto e fermare le proteste, velocemente e con efficienza. Ma ne dubito.
quadrante
pagina 18 • 12 giugno 2009
Il pressing di Obama su Gerusalemme Domenica il premier Netanyahu potrebbe accettare la road map per lo Stato palestinese di Pierre Chiartano no Stato palestinese dai confini provvisori. Almeno inizialmente. Forse questa sarà la sorpresa di un possibile accordo tra Washington e Gerusalemme. In attesa delle dichiarazioni sull’argomento, annunciate per domenica prossima dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, l’agenda diplomatica della settimana ha visto una serie di incontro serrati. E anche qualche schermaglia interna al governo Netanyahu. Martedì scorso l’inviato speciale della Casa Bianca per il Medioriente, George Mitchell, aveva incontrato la triade che più conta. Dopo il premier era venuta la volta del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman rappresentante della destra laica israeliana e infine del ministro della Difesa, Ehud Barak, laburista e generale, da poco tornato da una missione a Washington.Viaggio focalizzato proprio sulla Cisgiordania, di cui il suo ministero è responsabile per la sicurezza. Barak è un pragmatico che crede in un accordo che risolva i problemi delle colonie, non altrettanto ottimista invece un altro generale nella squadra di governo. Moshe Yaalon, mercoledì, aveva attaccato proprio il ministro della Difesa, giudicando «irrealistico» il progetto di costituzione dello Stato palestinese, secondo le linee guida proposte da Washington.Yaalon è il ministro per gli Affari strategici ed esponente del Likud (destra, il partito del premier). «Se non accettiamo la soluzione dei due Stati ci ritroveremo confinati in un apartheid politico sulla scena internazionale», aveva ribattuto Barak in una succesiva intervista. Mostrandosi fi-
U
IL PERSONAGGIO
ducioso - all’indomani degli incontri con Mitchell - di poter convincere anche il premier: «questo governo - aveva affermato - riserverà delle sorprese». Secondo Yaalon - che come Barak è un generale ed ex capo di Stato maggiore - il piano di pace, attribuito dai media a Obama, per giungere alla creazione di uno Stato palestinese in due anni, sarebbe, come minimo, «precipitoso». «La pace istantanea è destinata a fallire», aveva sottolineato, sostenendo che provare a imporla in tempi brevi significherebbe creare le condizioni per «la nascita di un Hamas-stan in Cisgiordania», oltre che a Gaza.
Il presidente Shimon Peres, sembra aver preso le parti di Barak, con la dichiarazione ripresa ieri dal quotidiano israeliano Haaretz. Affermando che Israele dovrebbe tro-
al Cairo, Obama ha aperto un credito enorme nel mondo arabo e ora dovrebbe incominciare a raccoglierne i frutti. Dopo le parole il primo passo riguarda la questione palestinese che dovrebbe presto avere una conclusione. Netanyahu ha capito che il fattore tempo è capitale e dopo gli accordi di Londra che prevedevano lo smantellamento di 22 colonie illegali, sa che serve dell’altro. Mercoledì il gabinetto sulla sicurezza del governo di Gerusalemme ha affrontato il problema della riapertura dei valichi a Gaza. Forse rammentando bene le parole di Mitchell «voglio essere chiaro. Queste non sono discussioni tra avversari. Gli Usa e Israele sono e resteranno amici e fedeli alleati», Netanyahu ha capito che non fosse più tempo di schermaglie. A Peres, l’inviato di Obama aveva ribadito l’obiettivo di una «immediata ripresa e una rapida conclusione» dei colloqui per la costituzione di uno Stato per il popolo palestinese «fianco a fianco, in pace e sicurezza con lo Stato ebraico».
Dopo il viaggio di Mitchell, sale la tensione nel governo di Gerusalemme. Yaalon contro Barak: «Il suo è un progetto non realistico» vare subito l’accordo per la costituzione di uno Stato palestinese «dai confini provvisori». E «con la promessa che nel breve periodo questi confini diventino permanenti» aveva aggiunto, scatenando una reazione politica. La dichiarazione era stata fatta durante l’incontro avuto con il rappresentante della politica estera della Ue, Solana, ieri in visita in Israele. Peres ha fatto riferimento alla road map legata al piano del 2003 voluto da Washington. Un piano sottoscritto dall’allora premier Ariel Sharon. Secondo Haaretz ci si aspetta che domenica prossima durante un discorso all’Università Bar-llan, Netanyahu appoggi questa road map. Dopo l’intervento
Ma non tutto sembra ancora risolto. Secondo fonti israeliane, il primo ministro, domenica, potrebbe affermermare che gli insediamenti in Cisgiordania non rappresentano un ostacolo alla pace e per questo non ne annuncerà un congelamento, come invece ha richiesto Barack Obama, nel discorso pronunciato al Cairo il 4 giugno. Secondo l’emittente Channel 2, Netanyahu sta in realtà valutando alcuni modi per attuare il congelamento, tra cui uno stop temporaneo alle nuove costruzioni, in cambio di alcune concessioni da parte dei palestinesi. Ma queste iniziative non dovrebbero essere menzionate nel suo discorso all’Università Bar-llan.
Sebastián Piñera. Il candidato del centrodestra che sfida la Bachelet è in testa nei sondaggi. E potrebbe farcela senza ballottaggio
Il tycoon cileno che punta alla Moneda di Silvia Marchetti
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uesta volta potrebbe farcela. Tutti i sondaggi lo danno in testa nelle preferenze degli elettori cileni. Se i pronostici tengono, a dicembre l’imprenditore, economista ed ex senatore del Cile Sebastián Piñera dovrebbe sfilare la poltrona presidenziale alla Bachelet. Già nel 2005 ci aveva provato, senza successo. Ma lui sa cosa è la tenacia e oggi il panorama socio-politico del paese è cambiato. Colpa (o merito) del credit crunch. Per la prima volta dal 1990 quando la coalizione di sinistra Concertacion salì al potere, un conservatore si trova in testa alle classifiche e ha tutte la carte e gli appoggi necessari per mettere fine all’egemonia della sinistra in Cile. Un vento di modernità e cambiamento soffia nel Paese e Piñera incarna, come spesso accade nei paesi del Sud America, quel pizzico di “successo” e “ottimismo” tipici dell’imprenditore fatto da sé. Un’immagine positiva di cui la gente ha bisogno, in questo duro momento di crisi economica. Da sempre membro del partito conservatore Renovación Nacional oggi all’opposizione, Piñera è già stato indicato come il candidato della destra alle presidenziali.
Sebastián Piñera è uno che nasce bene (suo padre è stato ambasciatore cileno in Belgio e negli Stati Uniti) ed è un esperto di economia con tanto di master a Harvard. I suoi interessi economici spaziano un po’ ovun-
que. Tycoon dei media è proprietario assoluto del canale nazionale Chilevision, della squadra di calcio Colo-Colo e della compagnia di linea Lan Airlines. Poi ha altre mille partecipazioni sparse qua e là. Il suo portafoglio, sia azionario che fisico, è davvero notevole. La rivista Forbes lo ha inserito tra i miliardari del pianeta – ha una fortuna che ammonterebbe a circa 1.3 miliardi di dollari Usa – grazie ai proventi ottenuti da un’idea geniale.
Esperto di economia (master a Harvard), è proprietario di una televisione e della squadra di calcio di Santiago
Piñera ha fatto parte della cordata di imprenditori che a metà degli anni Settanta spinsero per l’introduzione della carta di credito in Cile. Poi si comprò una megasocietà statale, per la quale fu addirittura accusato di insider trading. È stato anche coinvolto in molti scandali politici, ogni volta che si candidava alle elezioni veniva accusato di spionaggio e cospirazione a danno dei suoi avversari. Ma in fondo si è pur sempre in America Latina. Per lui i soldi sono importanti, ma non si tratta solo di affari. Dice di essere ispirato da un “umanismo cristiano” che lo spinge ad applicare nel campo della politica e della società un mix di logica economica ed etica. Se vincerà le prossime presidenziali sarà il primo miliardario del paese a diventare capo di Stato. E stavolta potrebbe farcela addirittura senza ballottaggio.
quadrante
12 giugno 2009 • pagina 19
L’agguato contro i paracadutisti di stanza a Farah
Secondo il Palazzo, gli esuli ancora un anno senza casa
Attacco contro i militari italiani in Afghanistan: tre feriti
L’Onu accusa Colombo sulla situazione degli sfollati
KABUL. Sono tutti fuori pericolo, coscienti e hanno parlato con le rispettive famiglie i tre paracadutisti italiani rimasti feriti ieri a una ventina di chilometri da Farah, nell’ovest dell’Afghanistan, vittime di un agguato, l’ultimo di una lunga serie, avvenuto nella regione sotto comando italiano. Obiettivo dell’attacco, una pattuglia mista di forze militari afghane e di paracadutisti della Folgore. «L’azione degli insorti - spiega una prima ricostruzione del comando militare italiano di Herat - pare essere stata meticolosamente preparata, in modo da colpire le nostre unità al termine di una attività di rastrellamento in un’area nota per la presenza di consistenti milizie ostili».
COLOMBO. La maggior parte degli sfollati in Sri Lanka potrebbe tra un anno rimanere ancora nei campi gestiti del governo. Lo ha denunciato un responsabile delle Nazioni Unite. Ma l’esecutivo ha rispedito al mittente questa tesi, garantendo che il suo obiettivo è trovare una sistemazione alternativa alla maggior parte della popolazione entro la fine dell’anno. Circa 250mila persone sono fuggite dalla sanguinosa fase conclusiva della guerra civile tra autorità e ribelli delle Tigri Tamil. È nelle settimane finali della guerra che centinaia di migliaia di civili sono scappate dall’esigua striscia di territorio ancora controllata dalla guerriglia. Sono stati alloggiati nei
I militari afghani e i paracadutisti del 187° Reggimento Folgore, con il supporto dei carri“Dardo”del 1° Reggimento bersaglieri, continua la ricostruzione, «hanno immediatamente risposto al fuoco, manovrando le forze contro il fianco avversario». Durante lo scontro «sono state inflitte perdite non quantificate agli insorti, sono rimasti feriti tre paracadutisti». I tre si trovano presso l’ospedale militare di Farah: un è stato ferito a un piede, l’altro ad una mano, il terzo il più grave - ad un’ascella. La provincia di Farah è una zona non facile da tenere sotto con-
Il criminale di guerra a passeggio per Belgrado Mladic nei filmati-choc trasmessi dalla tv bosniaca di Maurizio Stefanini atko Mladic a passeggio per Belgrado. L’ex-generale serbo-bosniaco, super ricercato dal Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, è stato mostrato in esclusiva dalla tv pubblica bosniaca nel corso del magazine politico 60 minuti, in una serie di riprese amatoriali che sono state girate negli ultimi 12 anni, e che lo ritraggono in scene quotidiane con la propria famiglia. La maggior parte dei filmati è stata ripresa a Kosutnjak, nei pressi di Belgrado. Non manca però la partecipazione a una festa di matrimonio che sarebbe stata girata nella Srpska: la repubblica serbo-bosniaca confederata alla Federazione croato-musulmana della Bosnia-Erzegovina.
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Ufficiale di carriera, Ratko Mladic era di stanza a Pristina nel Kosovo quando nel 1991 scoppiò la guerra. Subito mandato come generale comandante del 9° Corpo dell’Esercito Federale a Knin, profittando di questa posizione aiutò i locali serbi a staccarsi dalla Croazia, proclamando quella Repubblica della Krajina Serba di cui Knin fu appunto la capitale. Poi, nel maggio 1992, si mise al servizio di quella Repubblica Sprska che aveva raccolto i serbi della Bosnia-Erzegovina, collocandosi alla testa del loro esercito. Sulla sua testa il governo statunitense ha offerto una taglia di 5 milioni di dollari: come massimo responsabile militare dei serbi di Bosnia, infatti, è accusato per i 10.000 morti dell’assedio di Sarajevo e per gli 8100 musulmani massacrati dopo la resa a Srebrenica l’11 luglio 1995. Le imputazioni nei suoi confronti sono dunque di genocidio, complicità in genocidio, crimini contro l’umanità e violazione di leggi e costumi di guerra. Dopo che fino al novembre del 2005 aveva ricevuto una regolare pensione, anche il governo serbo l’11 ottobre 2007 ha messo su di lui una taglia di un milione di dollari. Ma tutti sanno che sta ancora nascosto in Serbia. Nel marzo 2000, in particolare, era stato visto allo stadio di Belgrado a guardare la partita di calcio Jugoslavia-Cina dalla tribuna vip, scortato
da 8 guardie del corpo.Varie testimonianze riferiscono pure di suoi viaggi in Russia, in Grecia e in Montenegro, e nel 2006 si parlò ripetutamente sia di un suo arresto da parte delle autorità serbe, sia di una sua morte per infarto. In tutto questo tempo, invece, Mladic non sembra essersela passata male. «Qui è come il Paradiso», dice alla moglie durante una partita a tennis, all’interno di una caserma dell’esercito jugoslavo. Adesso, dal suo arresto dipende in teoria lo stesso futuro della Serbia, dal momento che l’Olanda ha posto la sua cattura come conditio sine qua non per il proseguimento del cammino d’integrazione europea di Belgrado. Per questo, il direttore dell’ufficio per la cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale di Belgrado, Dusan Ignjatovic, ha assicurato che le immagini della tv bosniaca sono al vaglio degli investigatori, ma ha aggiunto che probabilmente si tratta di filmati vecchi.Va detto che i Paesi Bassi con questa intransigenza cercano in parte di rimediare a una figuraccia che portò addirittura a una crisi di governo, quando a Srebrenica tre compagnie di Caschi Blu olandesi non impedirono che tra circa diecimila bosniaci venissero giustiziati dai serbi di Mladic in una zona che l’Onu aveva dichiarato sotto la propria tutela. Addirittura, i Caschi Blu incaricati di proteggere i civili finirono per collaborare alla divisione tra uomini e donne previa alla mattanza, «per tenere la situazione sotto controllo». Per non buttare tutta la croce addosso agli olandesi bisogna ricordare che erano armati in modo pessimo, che avevano regole d’ingaggio sconclusionate, e che quando era stato da loro chiesto un intervento aereo di sostegno questo fu rinviato fino a quando non fu troppo tardi. D’altra parte, anche il governo serbo di Mirko Cvetkovic si trova in una posizione complicata. Da una parte, il punto principale del suo programma è l’adesione all’Ue. Dall’altra, il suo governo si basa su una coalizione molto ampia che va dagli europeisti del G-17 al Partito Socialista già di Milosevic, che cerca di proteggere i criminali di guerra dei vari conflitti in Croazia, Bosnia e Kosovo.
È ricercato per genocidio, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi di guerra. Ma si “nasconde” ancora in Serbia
trollo, come quella di Bala Morgab, sempre di responsabilità italiana, dove mercoledì nel corso di una battaglia erano stati colpiti due elicotteri Mangusta (nessun ferito tra gli italiani, ma ingenti perdite tra gli insorti). L’aumento degli attacchi contro le truppe italiane in Afghanistan, assicura il ministro della Difesa Ignazio La Russa, non cambia nulla riguardo alla missione. «La missione non è solo di ricostruzione, ma richiede anche uso della forza giusta quando è necessario. Forse prima si tendeva di più a sottacere le occasioni in cui i nostri militari erano stati costretti all’uso della forza giusta. Io ho sempre detto che è corretto essere assolutamente trasparenti».
campi gestiti dal governo nel distretto di Vavuniya. Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la natura permanente dei rifugi allestiti in questi campi. Il responsabile, Mark Cutts, ha affermato che non è stata creata niente di meno che una nuova città a Manik Farm, il complesso di campi dove ha lavorato lo scorso mese come coordinatore responsabile. Ha denunciato che i bulldozer hanno distrutto la vegetazione nella giungla e che sono state costruite linee telefoniche, scuole, banche e bancomat. Ha definito tutto questo “fenomenale”ma ha chiarito che i progetti del governo di rimpiazzare le tende con strutture più permanenti una «grande preoccupazione». «Autorevoli fonti militari ci hanno detto che non prevedono di assistere ad alcun consistente rientro nei prossimi sei mesi - ha spiegato Cutts - al contrario, alcuni importanti responsabili ci hanno detto proprio ieri che prevedono che non più del venti per cento di queste persone sarà tornato a casa il prossimo anno». Il ministro per i Diritti umani dello Sri Lanka, Mahinda Samarasinghe, ha però dichiarato che è «assolutamente falso» sostenere che ci voglia così tanto tempo, e ha chiarito che la responsabilità della situazione è dell’esercito.
cultura
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Tra gli scaffali. Storie di Dèi e demoni, fantasmi girovaganti e vortici sapienziali nel nuovo libro della scrittrice svizzera Jaeggy
Le «visioni» di Madame Fleur di Mario Bernardi Guardi
leur Jaeggy ha cari gli “incipit” che folgorano e spiazzano, i passaggi rapidi, bruschi, inquietanti, le concatenazioni concettuali affidate a una logica ambigua che ti pone faccia a faccia col “perturbante” e ti impone di legittimarlo. Del resto, il titolo stesso del suo ultimo libro (Vite congetturali, pp. 52, euro 5,50) è una immediata, ispida dichiarazione di guerra al “bon ton” del documento biografico: qui, o accetti la sfida del possibile-impossibile, evitando minuziose verifiche, o ti dài subito per vinto. Ma se ti intrigano le ipotesi “in limine”, mescolate al dato obiettivo con grazia sopraffina, allora godile e soffrile queste “congetture”, queste “biografie compendiose” dall’aura borgesiana, e inoltrati senza soverchi affanni nel viaggio e nei suoi lampi. Perché drammi e tragedie, affidati a una linda, algida scrittura, che riverbera all’improvviso, diventano “rappresentazioni”. La vita colta nell’atto (e nell’anima dei protagonisti), come in quell’intenso e imperturbabile resoconto dell’“età del malessere” che resta I beati anni del castigo (Adelphi, 1989), storia di una “amitié amoureuse” tra due adolescenti, femmine “assolute” e “trascendentali”, in un collegio svizzero immerso nel gelo silenzioso.
te, strana asimmetria”». Pietre, specchi, extravaganti asimmetrie, talismani alieni, dispendi onirici segnano anche l’esistenza di Marcel Schwob, autore di quelle Vite immaginarie che Borges tanto amava, perché trovava nella prosa di Marcel le suggestioni del bizzarro e le divaganti delizie dell’ironia.
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Adesso, Fleur ci racconta tre vite - De Quincey, Keats, Schowb - all’insegna dell’irregolarità: effusione di ingegno e dispersione di emozioni, fiori e furori, Dèi e demoni che vengo-
preso dai pirati; gli altri erano melanconici».
«Melanconia, ninfa gentile/ la vita mia consegno a te./I tuoi piaceri/ chi tiene a vile/ a piacer veri/ nato non è», cantava Ippolito Pindemonte negli anni in cui De Quincey si arrampicava sulle fantasie propiziate dall’oppio. Certo, è gentile la Ninfa
Melanconia, ma avvolgente e turbinosa come tutte le ninfe: e dissemina follia. Visitò De Quincey, insieme a una stralunata felicità che «scherzò con lui, poi si alterò, quasi che il dolore fosse una felicità in collera, una leggiadra convulsione della natura». Dunque, l’abisso? Sì, insieme ai picchi visionari, come per Keats e Schowb. Di John - sin troppo caro o sin troppo inviso agli Dèi, visto che morì a ventisei anni - conserviamo nell’archivio adolescenziale “To a nightingale” e “On a grecian urn”, con qualche verso religiosamente mandato a memoria. Ne avevamo un’immagine esuberante, febbrile, tempestosamente romantica e con una limpida, classica sovranità di stile come mèta, e Fleur ci dà conferma dell’“invasato” («Talora il suo sguardo era quello di una sacerdotessa deifica in preda alle visioni») e del cercatore di bellezza squassato dalla vita, dalle malattie e dai mali oscuri. Dunque, del cercatore di morte. Keats, visitando un cimitero, disse che «sentiva crescere i fiori sopra di lui». L’amico Jo-
In “Vite congetturali” (Adelphi), immediata e ispida dichiarazione di guerra al “bon ton” del documento biografico, l’autrice racconta di tre vite all’insegna dell’irregolarità no e vanno, sovraccarico immaginativo e fobico, fantasmi girovaganti, vortici sapienziali e demenziali. Thomas De Quincey, o dell’elezione oppiacea: il fantastico, il bizzarro e il grottesco amorosamente avvinti; la letteratura come avventura eccentrica. Fleur racconta il rigore di un delirio, cogliendone i segni nelle non incantate meraviglie dell’infanzia, nel ben impresso marchio di famiglia: «Thomas De Quincey divenne visionario nel 1791, all’età di sei anni. Il fratello maggiore William cercava il modo di camminare sul soffitto a testa in giù come le mosche; Richard, detto Pink, si imbarcò su una baleniera e fu
Sopra, Fleur Jaeggy. A sinistra, la copertina del suo libro “Vite congetturali” (Adelphi). In alto, un disegno di Michelangelo Pace
seph Severn «colse una rosa appena sbocciata, una rosa invernale». E John, «nel guardarla tetro, disse: “Spero di non essere più vivo in primavera”.
Volle concludere la sua esistenza, “postuma” l’aveva definita, con un ultimo verso, l’iscrizione sulla sua pietra tombale: “Here lies one whose name was writ in water”. Le sue parole si posarono sulla pietra come su uno specchio, toccando tutto e non toccate da nien-
Echi ebraici che scorrevano nel sangue insieme a tanta, tanta storia? Fleur fissa genealogie, per la carta d’identità e la mappa congetturale: «Mayer-André-Marcel Schwob apparve in una famiglia di rabbini e di medici. La madre, Mathilde, era una Cahun, discendente di Caym de SainteMenehould, che aveva seguito Joinville oltremare e, dicevano, lo aveva curato e guarito dal colera, innanzi a San Giovanni d’Acri. Dal nonno di sua madre, Anselme, rabbino della comunità di Hochfelden, Schwob aveva preso l’ampia fronte, la bocca sensuale e un mezzo sorriso triste negli occhi. Marcel aveva l’orgoglio della sua stirpe, e spesso preferiva non frequentare alcune persone della sua stirpe. Il suo cervello era ingombro di nomi, di parole, di leggende». Era inevitabile che diventasse scrittore, incamminandosi lungo i sentieri più occulti della storia e della letteratura per respirare il mistero. Le vite “immaginarie” sono le vite delle immagini sepolte in noi: le evochiamo e le portiamo allo scoperto,“incarnandole” non solo in personaggi illustri di cui cogliere questa o quella sfumatura, ma nelle mille “marginalità”di chi non è stato protagonista, ma comunque “ha vissuto”: un goliardo, un brigante, un filosofo di strada, una merlettaia, un’ignota santa o una altrettanto ignota strega. Sulla “nave dei folli” ci fanno tutti la loro bella figura. Schowb si imbarcò, sulla rotta di Stevenson, per un «viaggio di memorie verso le ombre degli incanti». Ma poco trasse dal lungo vagare: incontrò «impostori lacrimosi che si trascinavano per proporre affari, rovine ciarlatane, calchi tarlati dei briganti e dei criminali che conosceva così bene da sempre. In quel bagno di moltitudine bramò la sua stanza di Parigi». Per la vita residua e per la morte. Congetturale?
spettacoli iù volte, nel 1731 e ancora a fine novembre 1732, la terra tremò a Napoli. Sino a quel momento, in caso di terremoto la città usava affidarsi a Santa Irene, quale delle tante battezzate con questo nome non saprei dire. Giudicata tuttavia costei poco efficace, dato il ripetersi dei sismi, per volontà dei notabili partenopei fu senza indugio rimpiazzata con Sant’Emidio, «glorioso martire e primo vescovo», indi patrono di quella stessa Ascoli nel 1703 miracolosamente (?) risparmiata da un violento terremoto, che aveva seminato morte e distruzione in tutte le Marche. L’annuale ricorrenza del nuovo «special Protettore», comprendente una «divota orazione al Popolo, […] Te Deum con scelta musica, e sparo de’ mortaletti, [...] Messa, ed offerta delle cere al Santo» presso la chiesa di S. Maria della Stella retta dai padri minimi di S. Francesco di Paola, venne fissata il 31 dicembre. Già in quello stesso 1732 o piuttosto l’anno dopo, Giovanni Battista Pergolesi (1710-36) compose i salmi da cantare ai vespri e una messa che una nota in calce all’autografo attesta essere espressamente dedicata al santo piceno d’adozione (era nato a Treviri, in Germania).
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Per un caso fortuito, o forse no, domani Claudio Abbado, insieme all’Orchestra Mozart, al Coro della Radio svizzera (direttore Diego Fasolis) e a quattro soliste di canto (Cangemi, Harnisch e Romano i soprani, Mingardo il contralto), terrà un concerto all’Aquila, nel quale figura anche la Messa di Sant’Emidio (Auditorium della Guardia di finanza, frazione di Coppito, ore 17, ingresso gratuito). L’iniziativa è indirettamente anche finalizzata alla raccolta di fondi per dotare il capoluogo di una tensostruttura da destinarsi alle attività musicali (chi voglia può effettuare un versamento sul conto bancario IT53 T063 8502 4011 0000 0008 890, intestato a: Associazione Orchestra Mozart per l’Abruzzo). Lo stesso programma previsto all’Aquila, Abbado l’ha già offerto in giro per l’Italia, a Bologna (sede della Mozart) e a Jesi, nelle Marche, ad apertura delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita di Pergolesi, che lì ebbe vita; celebrazioni che ovviamente toccheranno un culmine l’anno prossimo, con ben cinque convegni di studi in giro per l’Europa e la messinscena, sempre a Jesi, di tutti i lavori teatrali composti dal Nostro lungo una breve ma fitta carriera. Nell’attesa della grande abbuffata, è pronta la IX edizione del festival Pergolesi Spontini (anch’egli nato in zona): dal 4 al 13 settembre svariati concerti e l’opera seria Il prigionier superbo (1733), a complemento
Eventi. Il grande direttore d’orchestra porta a L’Aquila lo spettacolo di Jesi
Claudio Abbado (invece) lo ripete di Jacopo Pellegrini comico della quale furono ideati gli intermezzi arcinoti della Serva padrona. Da qualche tempo, Abbado si è riavvicinato al repertorio musicale settecen-
posizioni dirette e repentine. L’indagine del direttore milanese intorno a Pergolesi è ripresa giusto un paio d’anni fa a Bologna con una memorabile lettu-
ra di un’altra pagina celeberrima, lo Stabat Mater: per toccare con mano la distanza tra l’ieri e l’oggi, basterà confrontare le due vecchie incisioni del cita-
Da qualche tempo, il maestro si è riavvicinato al repertorio musicale settecentesco frequentato sin da ragazzo, quando sedeva al pianoforte o al cembalo nell’Orchestra d’archi di Milano, capitanata dal padre Michelangelo tesco frequentato sin da ragazzo, quando sedeva al pianoforte o al cembalo nell’Orchestra d’archi di Milano, capitanata dal padre Michelangelo. E l’ha fatto attingendo alle prassi esecutive d’epoca con inusitato fervore ed esiti non di rado altissimi: diapason abbassato, corde di budello per gli strumenti ad arco, corni e trombe naturali, legni secondo la foggia antica, suono poco o nulla vibrato,“messe di voce” (daziano al forte e ritorno) su alcuni attacchi (in altri invece si opta per drastiche accentuazioni) o sulle note tenute, dinamica cosiddetta “a terrazze”, ovvero basata su op-
Sopra, un’immagine artistica di Claudio Abbado. In alto, il maestro mentre dirige l’Orchestra Mozart
to Stabat (l’una con i complessi della Scala, l’altra con la London Symphony) con quella di prossima uscita per la Deutsche Grammophon e registrata appunto nel 2007. Il rinnovato contatto si avvantaggia anche di uno stretto legame con la Fondazione Pergolesi Spontini, dispensatrice di edizioni musicali attendibili sotto il profilo filologico. L’Orchestra Mozart, a ranghi ridotti e con qualche ombra nell’intonazione dei violini I, e il coro ticinese, giusto un tantino acre nei soprani, sono cera malleabile nelle mani di Abbado, trasfondono in concretezza di suono il suo pensiero con co-
scienziosità e adesione gioiosa. L’ordito sonoro conserva sempre la massima trasparenza (una specialità del maestro), così da mettere in rilievo le figure d’accompagnamento e i singoli timbri (fastoso il basso continuo, col chitarrone, strumento schiettamente partenopeo, in primo piano), e da conferire leggerezza agli episodi polifonici, laddove il contrappunto di scuola antica viene riprodotto da Pergolesi in forma assai meno “severa”che nei modelli cinquecenteschi di riferimento (Palestrina), anche quando, come nella Messa di Sant’Emidio, si tratta di scrivere per doppio coro a 10 voci e doppio complesso orchestrale. La gioia espansiva del dettato (che in qualche episodio del Laudate pueri per soprano coro e orchestra, rammenta, o meglio, anticipa lo Handel degli oratori), ossia la patetica introspezione delle oasi liriche (aria dall’oratorio san Guglielmo duca d’Aquitania, “Gloria Patri” nel Laudate, vari episodi della Messa e della Salve Regina in fa minore, trasposizione non d’autore ma comunque coeva di un’altra Salve Regina, in do minore), vengono entrambe investite da un’energia gagliarda, che non teme di mettere in discussione euritmia e medietà espressiva di solito attribuite alla cosiddetta Scuola napoletana.
Niente galanteria o pastorellerie, anzi; non affetti convenzionali, ma sentimenti concreti, evidenziati attraverso la pittura musicale di alcune parole-chiave, che veicolano il senso ultimo dei testi intonati (più che per le decantate blandizie melodiche, Pergolesi andrebbe celebrato per la forza e l’audacia della sua armonia, non di rado accompagnata da una scrittura ritmica incisiva). In realtà, non saprei dire se questa di Abbado possa essere definita una visione di Pergolesi in tutto e per tutto moderna (cioè antica, visto che punta a ricostruire un quadro storicamente attendibile); lo è certo, per quanto attiene alla limpidezza dell’insieme, ai rapporti fra le voci, perfettamente dosati, all’evidenza del parametro armonico; resta però come l’impressione che tale esuberanza vitale discenda, in maniera inconscia, da tesi critiche non proprio di primo pelo (penso in particolare a quella, tutto spontaneismo lirico, formulata da Luigi Ronga, studioso ben noto ai tempi del giovane Abbado e stranamente citato anche nel programma di sala, peraltro pregevole, a firma Davide Verga). Peccato che, eccettuata la sempre impeccabile nobile sensibilissima Sara Mingardo (a lei spettava la splendida Salve regina), le altre soliste lasciassero un po’a desiderare dal lato della tecnica e della dizione.
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da ”Asharq Alawsat” dell’11/06/2009
Cercasi alleati disperatamente di Abdul Moneim Said bama l’ha fatto! Ha mantenuto una delle sue promesse fatte in campagna elettorale. Dopo meno di un anno dall’insediamento alla Casa Bianca, ha fatto visita a un Paese musulmano, lanciando un messaggio a tutto il popolo islamico. Può dunque spuntare nel lungo elenco delle 500 promesse fatte a se stesso, in campagna elettorale, e delle 29 giudicate come prioritarie per i primi mesi di governo. Ma mantenere fede agli impegni non è solo un modo per cercare popolarità o semplicemente il rispetto di chi lo ha votato. È parte di una più ampia strategia che potremmo così riassumere: gli Usa hanno toccato il fondo, sia da un punto di vista economico che in tema d’influenza internazionale, con l’ultima parte dell’amministrazione Bush. Una situazione molto pericolosa per Washington, perché potrebbe peggioriorare e diminuire ulteriormente l’influenza americana nel mondo. È pericoloso per il resto del mondo, perché essere governati da una superpotenza in arretramento può aprire le porte al caos e all’avventurismo. Se gli Usa e il resto delle nazioni sapranno superare questo momento difficile, se Washington tornerà ad avere la levatura politica di un tempo, se la globalizzazione tornerà ad essere come al suo inizio, sarà comunque necessaria una correzione strutturale dell’economia americana e del capitalismo più in generale. Questo compito ha bisogno che gli Usa abbiamo meno impegni di ordine strategico in giro per il mondo. Una prospettiva che potrebbe essere percepita con apprensione in Pakistan come in Afghanistan, dove il fondamentalismo, il radicalismo e il terrorismo hanno orma raggiunto livelli estremamente pericolosi. Un pericolo che potrebbe ampliarsi nel caso l’Iran dovesse raggiungere la ca-
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pacità nucleare, espandendo l’influenza dell’islam radicale in tutta la regione. Per questo il potere militare, politico ed economico statunitense dovrebbe essere utilizzato al meglio, costruendo un’alleanza con le forze regionali a partire dal suo ritiro dall’Iraq. C’è però un fattore che lega le mani di tutti gli stati musulmani moderati, come Egitto e Arabia Saudita, ad essere alleati con Washington in questo grande progetto di stabilizzazione del Medioriente. È la questione palestinese. Poi sarebbe necessario trovare un sistema che lenisca le ferite inferte dall’era del post 11 settembre. Così l’America potrebbe costruire la struttura di un’alleanza regionale che possa proteggerla dai pericoli di chi vuole distruggerla e gettare il mondo nel caos.
Un’analisi che ci aiuta a capire le tappe di Obama a Riad e al Cairo e l’importanza che gli ha attribuito la Casa Bianca. Prima di tutto il presidente Usa è venuto di persona, utilizzando uno degli strumenti più importanti che costruiscono il suo carisma politico. Non capita tutti i giorni di vedere seduto nella Stanza Ovale un afroamericano. Barack Hussein Obama suona come un nome familiare. Non è un bianco, non è Clinton o Carter, che pur sono stati degli ottimi presidenti. Nella storia della sua rapida ascesa Obama è una persona che ha conosciuto l’islam nei tre continenti, prima ancora di mettere piede nella terra d’origine delle tre religioni adamiche. Ma la cosa più importante è che Obama rappresenta l’establishment della costa orienta-
le americana, quello che nasce alla Columbia University e ad Harvard, abituato al melting pot culturale e che soprattutto ha come faro la politica liberal. Un approccio da sempre venato d’ottimismo verso il mondo e verso il futuro dell’America e le sue capacità di stare nel mondo. Un’eredità nata dalla politica di Francis Delano Roosevelt e dalla vittoria americana nella seconda guerra mondiale. In secondo luogo, Obama è venuto a dirci che quei giorni potrebbero tornare, ma questa volta non sarà possibile senza l’aiuto del resto del mondo. Ma come lui ha bisogno di noi, così anche noi abbiamo bisogno di lui. Non c’è dubbio che i gruppi di pressione interni all’America favorevoli ad Israele non vogliano ingaggiare un confronto con un presidente così popolare, per cui diventa fondamentale il fronte economico. Se Obama dovesse riuscire nell’intento di portare fuori dalle secche della crisi il Paese, allora potrebbe raggiungere la statura di Roosevelt, riaprendo una speranza per tutti e per il Medioriente.
L’IMMAGINE
Le moschee sono centri di lavaggio del cervello, dove si predica l’odio e la violenza È scoppiata la moscheamania. Bilanciamo l’amore per gli altri con l’amore per noi stessi. Non elargiamo diritti e libertà, senza l’ottemperanza dei doveri e il rispetto delle regole. Basta con la cappa conformista, il buonismo interessato, la moscheamania, l’islamicamente corretto e la ricerca affannosa del voto di scambio. Le moschee in Italia erano 400 nel 2000 e sono ora oltre 800 (troppe), con un eccezionale tasso di crescita. Prima di costruire nuove moschee, accertiamo che le esistenti rispettino appieno la legge e i valori fondanti della nostra civiltà: non è così, secondo esiti di processi e indagini delle forze dell’ordine. Spesso le moschee - più che luoghi di culto - sono centri di lavaggio del cervello, dove si predica l’odio e si istiga alla violenza, anche mortifera come ci dice Magdi Allam nel suo Cristiani, riscopritevi cristiani.
Gianfranco Nìbale
TAGLIARE SENZA SVILIRE È da tempo che si cerca di diffondere a tutti i livelli notizie riguardo l’esagerato dislivello tra gli stipendi dei parlamentari e quelli di tanti onesti impiegati e operai, aggiungendo anche l’inutilità della presenza di tanti politici nella stessa sede parlamentare. Perché allora scandalizzarsi di fronte alla proposta del premier di diminuire il numero dei parlamentari per snellire le procedure? Non si può trovare un sistema per tagliare senza svilire il ruolo di chi resta a rappresentare il popolo?
Bruno Russo
ESECUTIVO DEBOLE La Costituzione italiana è considerata una Carta pressoché perfetta dalla sinistra. Nel timore di nuove esperienze tiranniche, i costituenti depotenziarono enormemente l’e-
secutivo, a vantaggio dei poteri legislativo e giudiziario. Nel pletorico Parlamento italiano, una Camera è il doppione dell’altra. La formazione delle leggi è lenta: commissione, aula, discussioni estenuanti, emendamenti, eventuale ostruzionismo, rischio di franchi tiratori, assenze di parlamentari, doppia approvazione dell’identico testo. La pronta azione governativa può essere impedita, in Italia, da arenamenti, lungaggini e bizantinismi. Il presidente della Repubblica può intervenire sul Governo e sul Parlamento, nonché rinviare alle Camere una legge, per chiedere una nuova deliberazione. Le leggi promulgate possono essere cassate e quindi eliminate dalla Corte costituzionale, che è un organo politico, un superparlamento. L’ambiguità di tali e altre norme rischia di trasformare la “certezza
Che cos’è questo? Che cosa vi sembra? Il dorso di un porcospino? Il riccio di una castagna? Sbagliato! Provate a indovinare. Ecco alcuni indizi: può crescere fino a 9 centimetri di lunghezza; quando “matura” perde parte delle sue funzioni; alcuni artisti molto abili se ne servono in particolari tecniche pittoriche; da addentare con cautela; in alcuni casi, può suscitare una certa irritazione
del diritto” in “incertezza del diritto”o “certezza del rovescio”. Quindi, l’attività governativa – espressione della volontà del popolo elettore – può essere frenata da organi di garanzia costituzionale (presidente della Repubblica, Consulta) e, di fatto, anche da membri della
Magistratura, specie se di diverso orientamento. Nei confronti internazionali, la Magistratura italiana concentra il massimo di potere, per indipendenza, autonomia, prerogative, automatismo di carriera, sostanziale illicenziabilità, elevatezza di emolumenti e ferie, quasi
irresponsabilità: il magistrato è soggetto a giudizio di colleghi (diversamente da ogni altro cittadino). Nella superpoliticizzata Italia, il magistrato ideale sta lontano dalla politica: è imparziale e lo dimostra.
Franco Niba
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quegli splendidi giardini di castagni e cedri Quando mi manderai le piccole acqueforti Christus Consolator e Colui che premia, che mi hai promesse? Scrivimi non appena possibile, ma spedisci la lettera a papà, poiché probabilmente cambierò presto d’indirizzo e lo farò subito sapere a casa. La scorsa settimana sono stato a Hampton Court a vedere gli splendidi giardini con lunghi viali di castagni e di cedri sui quali hanno fatto il nido molti corvi e cornacchie, e anche il palazzo e i quadri. Fra l’altro, ci sono molti bellissimi ritratti di Holbein; due magnifici Rembrandt (il ritratto della moglie e di un rabbino); bellissimi ritratti italiani di Bellini e Tiziano; un quadro di Leonardo da Vinci; cartoni di Mantegna; un bel quadro di Ruysdael; una natura morta (frutta) di Cuyp. Avrei voluto averti con me: è stato un piacere rivedere dei quadri. Istintivamente pensai a coloro che avevano vissuto a Hampton Court, a Carlo I e a sua moglie (fu lei a dire: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi fatta regina, ma regina infelice»), sulla cui tomba Bossuet parlò dall’intimo del suo cuore. Hai le Oraisons Funèbres di Bossuet? Vi potrai trovare il discorso di cui parlo. E pensai anche a Lord e Lady Russel, che devono essere stati spesso a Hampton Court. Devi leggere anche Love in Marriage. Vincent Van Gogh al fratello Theo
ACCADDE OGGI
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO L’ossimoro “si stava meglio quando si stava peggio” è parzialmente vero. Lo sanno – per esperienza diretta – gli anziani, che vissero gli orrori della guerra e la povertà generale, protratta fino all’immediato dopoguerra. Normalmente la miseria era vissuta con dignità, decoro, semplicità e serenità, senza tanti piagnistei e geremiadi. Chi si contenta gode (felix sua sorte contentus): ci si appagava spesso degli scarsi o scarsissimi mezzi disponibili, per cui il grado di “felicità”(o serenità) non era inferiore a quello dei tempi attuali, economicamente più prosperi. Anche per la minore popolazione, le aree verdi abbondavano e l’inquinamento (pure acustico) era moderato. Per la limitatezza dei veicoli circolanti, era piacevole muoversi a piedi e in bicicletta, moto, auto. Il rischio di sinistri era contenuto. Le città, le periferie e i borghi erano godibili, specie per il modesto affollamento. Ora tali luoghi sono eccessivamente ammassati e accalcati - quasi fiumane, formicai, alveari, greggi -: si apprezzano meglio quando sono semideserti, durante la notte, le ferie e le vacanze. Per proteggersi, il ciclista deve o dovrà rassegnarsi a indossare il casco. L’incremento demografico e l’eccessiva concentrazione umana possono determinare carenza d’affabilità e incremento d’aggressività. Si lamenta la scarsa fertilità italiana, mentre le persone presenti nel Belpaese sovrappopolato continuano si-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
12 giugno 1986 Il Sudafrica dichiara lo stato di emergenza nazionale 1987 Il presidente americano Ronald Reagan sfida pubblicamente Mikhail Gorbachev ad abbattere il Muro di Berlino 1990 Il Parlamento della Federazione russa dichiara formalmente la sua sovranità 1991 I russi eleggono Boris Yeltsin come presidente della Repubblica 1992 In una lettera al Senato statunitense, il presidente russo Boris Yeltsin dichiara che nei primi anni cinquanta l’Unione Sovietica aveva abbattuto nove aerei americani e trattenuto 12 sopravvissuti 1994 Nicole Brown Simpson e Ronald Goldman vengono assassinati nella casa di lei a Los Angeles 1996 A Filadelfia un gruppo di giudici federali blocca la legge contro l’indecenza su internet 1998 La Compaq computer paga 9 miliardi di dollari per l’acquisto della Digital equipment corporation
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
stematicamente a crescere. I cordiali saluti che si scambiavano i paesani sono fortemente ridotti nella città massificata. “Là dove c’era l’erba ora c’è una città: solo case su case, catrame e cemento” (Celentano, Beretta, Del Prete, Il ragazzo della via Gluck). “Nella città i motori delle macchine già ci cantano la marcia funebre” (Celentano, Un albero di trenta piani). Oggigiorno la qualità della vita appare particolarmente insidiata: spazi ristretti, inquinamento molteplice, rumore anche notturno, parcheggi insufficienti, pigia pigia in mezzi pubblici, tensione e sinistri nel traffico. E inoltre, riduzione della libertà; repressione di personalità, originalità e anticonformismo; ansia, stress e insonnia crescenti. Scarseggia la meritocrazia; declina l’etica del lavoro; si accentua la propensione godereccia e parassitaria; si accrescono lo statalismo, il burocratismo, la politicizzazione e il torchio fiscale. Gite scolastiche e viaggi analoghi sono graditissimi (alla faccia dello «studio matto e disperatissimo» di Giacomo Leopardi). L’immigrazione clandestina (a elevato tasso di criminalità) avanza, mentre i “generosi a carico altrui”accusano l’italiano medio di scarsa disponibilità all’accoglienza. Il clero cattolico perdonista ci esorta a distinguere l’errante dall’errore e ad amare perfino l’assassino che squarta il cadavere della vittima. Strumentalmente, va per la maggiore la caccia al “razzista” (dopo quella al “fascista”), anche dove non c’è.
SEGUIAMO IL PROGETTO POLITICO DELL’UNIONE DI CENTRO Ci vuole, ancora, il coraggio di eliminare tutto quello che sta tenendo ferme, al palo, le nuove generazioni: il permanente stato di sfibrante attesa. Non possiamo ignorare il disagio che avvolge il nostro popolo, i nuovi poveri, le famiglie fatte di donne e uomini delusi, di volti a noi cari, noi stessi, le necessità delle nostre comunità civili ed ecclesiali, i problemi dell’intera regione, quanti vedono con preoccupazione la Basilicata indebolirsi, svuotarsi di energie giovanili, per effetto della denatalità e dell’emigrazione giovanile e intellettuale. Sarebbe ingenuo ridurre la povertà ai dati dei rapporti Istat che, comunque, sono impietosi. In Basilicata è in atto una rivoluzione silenziosa: 3000 giovani all’anno, solo negli ultimi dieci anni, si sono spostati al Nord; con gli attuali tassi di natalità e con il saldo migratorio fortemente negativo, l’attuale generazione giovanile sarà, forse, l’ultima generazione della Basilicata: la regione diventerà un territorio in deciso declino, sempre più vecchio e arretrato. L’accesso al lavoro avviene, in un caso su tre, in via informale, senza rispetto della meritocrazia, con forte vantaggio per i figli di dirigenti e dei garantiti, a riprova della propensione del sistema a proteggere chi è già privilegiato; ciò crea una forte disparità, attestata dai dati sulla insufficienza della mobilità sociale, e alimenta l’intermediazione politica, che diventa l’unico “vero” canale di accesso lavorativo. Se non siamo consapevoli che la sfida è a questo livello, conviene desistere. Se ne siamo consapevoli, cominciamo a dare al nostro impegno un colpo di reni. L’alternativa è un progetto aperto, positivo, impegnativo, al quale sono chiamate tutte le forze sane della regione, senza pregiudizi o preclusioni di sorta. Si è parlato di illusione che sta svanendo; per tanta gente quell’illusione era semplicemente speranza, appunto: una speranza caduta, che non deve diventare sfiducia e disimpegno. La speranza, la speranza viva, quella che non si macchia, non si corrompe, non marcisce: consapevoli, come ci ricorda la Gaudium et spes, che «il futuro dell’umanità è riposto nelle mani di coloro che sono in grado di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza». Dunque? Il progetto politico. E cercheremo di farlo. Bisogna intanto accendere la politica, mettere su tutto questo un’idea, un nuovo programma, uno strumento operativo. Quale? Si lavori sull’esempio dell’Udc di Casini, per la costituzione di un partito di centro nazionale ed europeo delle forze moderate, di ispirazione cristiana. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Franco Padova
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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