ISSN 1827-8817 90619
È mai possibile, oh porco
di e h c a n cro
di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane...
9 771827 881004
Fabrizio De André di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 19 GIUGNO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il grande pensatore liberale è morto ieri a 80 anni. Ricordiamolo leggendo uno dei suoi ultimi saggi
IL VERO SCANDALO
Attenti, vedo il rischio di un nuovo autoritarismo
Tante sono le donne dai 16 ai 28 anni minacciate da una crisi contro la quale il governo fa poco o niente. Confindustria denuncia: in due anni un milione di senza lavoro. E Marcegaglia: riforme subito o non ne usciremo
di Ralf Dahrendorf utti i paesi dell’Europa occidentale e del Nordamerica sono ricchi. Poche altre nazioni nel mondo hanno lo stesso reddito pro capite: il Giappone, Singapore, Israele, i paesi produttori di petrolio. Gli ambiziosi paesi emergenti avranno bisogno di un’altra generazione per raggiungere il livello dell’occidente, e di molto più tempo per distribuire la ricchezza nello stesso modo. Gli occidentali, però, sono diventati più insicuri: hanno scoperto che il loro benessere non è affatto scontato. Per la prima volta nella storia, i genitori statunitensi devono dire ai loro figli: «Probabilmente non starete bene come noi». Questa preoccupazione, che a volte è così forte da diventare paura, dipende da molti fattori. Parlare di cicli congiunturali o ricordare che nella vita niente cresce all’infinito sarebbe un discorso troppo astratto.
La foto che circola di più sui media di questi giorni: Patrizia D’Addario a fianco di Silvio Berlusconi
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Ci sono circa quattro milioni di ragazze delle quali Berlusconi non si occupa alle pagine 2, 3, 4 e 5
se rvi zi al le p ag in e 18 -21
Intervista esclusiva a Asif Ali Zardari presidente del Pakistan
Oggi parla la “guida suprema” mentre continua la rivolta (e la repressione)
«La Rete di Osama? È come le vostre Brigate Rosse»
Iran, il giorno di Khamenei In Somalia strage di al Qaeda: un ministro e 50 civili morti
BRUXELLES. I talebani «sono una minaccia per il Pakistan, così come lo erano le Brigate Rosse per l’Italia. Ho intenzione di porre fine a questa deriva esattamente come avete fatto voi». Lo dice a liberal il presidente pakistano, Asif Ali Zardari, che in un’intervista parla del recente viaggio a Bruxelles per il primo meeting con l’Unione europea e dell’India, lo scomodo vicino che «oramai è divenuto una realtà». Gli Stati Uniti, spiega Zardari, «non hanno capito bene la realtà del nostro Paese: ecco perché hanno criticato gli accordi di Malakand». Il presidente critica il fiorire di madrasse nel Paese, ma non parla della situazione in Iran perché non ha «informazioni utili per l’argomento».
TEHERAN. L’onda verde dell’Iran, che ieri ha sfilato in silenzio e vestita di nero in segno di lutto per le vittime della repressione governativa dietro Mousavi, oggi si ferma. E punta gli occhi sulla guida suprema della Rivoluzione islamica, l’Ayatollah Ali Khamenei, che stamattina parlerà nella capitale dopo essere stato a Qom, la città santa dell’Iran, cuore religioso del Paese. Come l’ex presidente Rafsanjani, probabile coordinatore delle manifestazioni.
MOGADISCIO. Un nuovo, violento attacco all’estabilishment somalo. Un kamikaze, con una Toyota carica di esplosivo, si è lanciato contro l’hotel Medina e si è fatto esplodere. L’obiettivo, centrato, era il ministro della Sicurezza di Mogadiscio, Omar Hashi Aden, morto sul colpo insieme ad almeno altre cinquanta persone. È l’ennesimo colpo, sferrato dalle milizie qaediste, a un governo di transizione già debole.
Nella complessa scacchiera mediorientale a volte la situazione diventa più confusa. Questo perché i pezzi sono tutti dello stesso colore. Le recenti elezioni in Iran hanno dimostrato come il Paese sia sostanzialmente diviso tra una classe politica che vuole e deve riprendere il filo del dialogo con l’Occidente e un gruppo dirigente che spinge per sopravvivere.
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L UI S A A R EZ Z O a p a g i n a 1 4
F A C C I O L I P I N T O Z ZI a p a g i n a 8
s eg ue a p a gi na 14
di Sergio Cantone
s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
120 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Lo strano ruolo di Rafsanjani di Andrea Margelletti
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Paradossi. Mentre i Palazzi discutono di Noemi e Patrizia, l’Italia reale affonda nella crisi
Il gossip di Confindustria Il centro studi denuncia il vero scandalo: un milione di disoccupati E Marcegaglia: «Senza mutamenti di sistema il futuro è a rischio» di Francesco Pacifico
ROMA. Senza riforme saranno cinque anni di bassa crescita, pochi decimali sopra lo zero. Se invece si avrà il coraggio di rivoltare la cosa pubblica (la burocrazia come la scuola), allora l’Italia entrerà in una spirale espansiva che potrebbe farebbe schizzare, in 20 anni, il nostro Pil del 30 per cento. Ritmi degni della Germania locomotiva d’Europa. Dopo averle invocate in tutte le salse e in tutte le occasioni, Confindustria chiarisce con i numeri quale sarà per l’Italia il prezzo dell’immobilismo. A politiche invariate, ha spiegato Emma Marcegaglia, ci vorranno «cinque anni prima di tornare a crescere ai livelli di prima della crisi». Parole che fanno un certo effetto nel giorno in cui il governo si dice pronto a prorogare per l’ennesima volta l’entrata in vigore della class action (riforma in verità non amata dagli imprenditori) e tutta la maggioranza deve trovare una soluzione per evitare una sanzione europea sul mancato innalzamento dell’età previdenziale per le dipendenti pubbliche. Come ha spiegato il direttore del Centro studi di Confindutria, Luca Paolazzi, per ottenere questi benefici basta «intervenire su quattro settori: la riduzione della burocrazia, il potenziamento delle infrastrutture, l’allineamento del capitale umano o di cultura verso altri paesi, le liberalizzazioni».
Da notare, quindi, che il boom di 30 punti di Pil in più nei prossimi vent’anni si otterrebbe senza toccare le pensioni. Ma a questi soldi (ai valori attuali sarebbero all’incirca 420 miliardi di euro) se ne possono aggiungere altri 10 con l’elevazione dell’età di ritiro. Questa cifra, e spalmata su sette anni, fu calcolata come perdita dal centro studi della Camera nel 2006 quando il governo Prodi sostituì lo scalone di Maroni e Tremonti (a riposo a 60 anni dal 2008) con gli scalini di Damiano: in quiescenza a quell’età soltanto dal 2013. La strada quindi per muovere l’economia e far tornare competitive le nostre aziende passa per le riforme. E il concetto – nonostante il freni messi dai suoi ministri – dovrebbe essere chiaro al premier che ieri ha vi-
Con la presidente degli imprenditori anche Draghi, Catricalà e Bonanni
Finalmente sta nascendo il “partito delle riforme” di Insider ppur si muove!: non c’è solo immobilismo e gossip nella politica italiana. Le voci, al momento, sono flebili; ma questo dipende anche da una copertura mediatica più attenta al pruriginoso che non alle cose che attengono al vissuto reale. Negli angoli non illuminati dalla potenza della comunicazione si abbozzano, invece, proposte e si cercano vie di uscite. Insomma un “partito delle riforme” comincia a vedersi, seppure in controluce. Ne fanno parte uomini diversi, per ruoli e formazione. Personaggi come Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. Grandi commis d’etat, come Mario Draghi assertore convinto della necessità di una exit strategy dalla crisi finanziaria. O il presidente dell’antitrust – Antonio Catricalà – che nella sua ultima relazione ha di nuovo lanciato un grido di allarme contro il corporativismo imperante. Ma è lo stesso sindacato, per bocca di Raffaele Bonanni – ed è questa una novità da non trascurare – che oggi mostra una seppur cauta apertura. Insomma sono le prime manovre che un governo meno rassegnato dovrebbe prendere al volo per misurarsi con tutta la “fisicità” della crisi italiana.
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Non stiamo criticando la “doppiezza”.Vale a dire una politica che punta a non esasperare i toni del pessimismo. Da che mondo e mondo seminare zizzania o sconforto non ha mai prodotto alcunché di positivo. Ben vengano, quindi, gli inviti all’ottimismo; ma ad una condizione. Che il comunicatore non si faccia catturare dalla sua stessa strategia. Semini quindi fiducia, ma al tempo stesso sia consapevole che dalla crisi non si uscirà, rimanendo con le mani in mano. Al-
trimenti il risveglio sarebbe drammatico: altro che Paese più forte di prima. Come mostrano tutte le previsioni degli organismi internazionali: dal Fondo monetario internazione, all’Ocse alla stessa Commissione europea. Il “che fare?” rimane quindi il grande interrogativo del futuro prossimo venturo. Ed allora qualche piccolo suggerimento.
Il debito pubblico: deve essere aggredito. I dati sono allarmanti. L’Economist, ancora in edicola, parla della «più grande cambiale della storia». Nelle dieci economie più forti del Pianeta, crescerà, da qui al 2014, dal 78 al 114 per cento, con un incremento del 46 per cento, nelle migliori delle previsioni; fino al 150 nelle peggiori. Come ridurlo? Tenendo conto che – sempre secondo l’Economist – la spesa pensionistica, da oggi al 2030, richiederà una spesa aggiuntiva pari a dieci volte le somme spese per affrontare l’attuale marasma finanziario. La crescita: è la via maestra per abbattere il debito. Nell’immediato dopo guerra il debito inglese era pari al 250 per cento del Prodotto interno lordo. Fu prima contenuto e poi abbattuto dallo sviluppo impetuoso di quegli anni. Una riflessione sui mille lacci burocratici che avviluppano la società italiana andrebbe avviata con maggior rigore. Il Mezzogiorno, infine. Forse il centro nord se la caverà con la ripresa del commercio mondiale, ma questa parte importante del Paese è senza prospettive. Eppure i mutati equilibri geopolitici, a livello internazionale, aprono forse una finestra di opportunità. Bisognerebbe saperla cogliere. Sempre che all’ottimismo di maniera si aggiunga qualcosa di più concreto.
sto la “sua” Fininvest annunciare passi indietro non da poco nel 2008: ricavi netti pari a 6.147 milioni di euro e in discesa dello 0,4 per cento, risultato operativo a 1.145 milioni (-13,4 per cento) e un utile netto a 131 milioni (-64,2). Un nuovo modello di pubblica amministrazione, un sistema più articolato di infrastrutture; investimenti in formazione e soprattutto liberalizzazioni per ampliare la domanda e la qualità della produzione. Per evitare che ci siano ancora «interi settori», come ha ricordato la Marcegaglia, dove il mercato non ha spazio sufficiente e c’è tutt’ora una concorrenza sleale». E chiaramente un intervento sulle pensioni per liberare risorse del welfare da destinare all’assistenza.
Emma Marcegaglia ha suggerito al governo e ai suoi colleghi imprenditori di non farsi confondere dai timidi segnali di ripresa. «Non c’è dubbio», ha spiegato, «che la congiuntura mostri segnali di miglioramento come la fiducia dei consumatori negli Stati Uniti, la produzione industriale cinese e l’andamento della borsa giapponese. Ma abbiamo davanti mesi molto difficili». Al riguardo il Centro studi di Confindustria ha confermato le previsioni negative lanciate prima da Draghi e poi da altri organismi internazionali come il Fondo monetario o l’Ocse. Secondo viale dell’Astronomia quest’anno il Pil calerà del 4,9 per cento. Mentre di ripresa si potrà parlare soltanto a metà 2010, che comunque vedrà una crescita soltanto dello 0,7 per cento. Schizzerà ancora più in alto il debito: al 114,7 per cento del Pil a dicembre, al 117,5 dodici mesi dopo. Questa situazione avrà impatti nefasti sull’occupazione: entro il prossimo anno si perderanno circa un milione di posti di lavoro tra cassaintegrati e mobilità. «L’occupazione», si legge nel rapporto del CsC, «ricomincerà a crescere dal secondo trimestre 2010 anche se registrerà una flessione annua dello 0,6 per cento per effetto trascinamento». La chiave per ribaltare la congiuntura sarà l’export. Le attività verso l’estero registreranno un leggero aumento nel 2010 dopo il crollo (-17,3) previsto per l’anno in corso.
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Elogio di Emma, leader dolce Ritratto di una donna diventata autorevole senza perdere femminilità di Roselina Salemi difficile che le donne migliorino con gli anni. Succede ad alcuni uomini (tipo Sean Connery), e ad alcuni grandi bordeaux (tipo Cheval Blanc), raramente alle signore. Eppure, ogni tanto, capita che una donna, perdendo la presunzione e la luce dei venti-trent’anni, acquisti una bellezza riflessiva, una dolcezza carica di forza. È il caso di Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria dal 13 marzo 2008, il 99,2 per cento dei voti - un consenso bulgaro - che sta conquistando simpatie in un momento e in un tempo piuttosto sciagurati. Della sua leggendaria determinazione – a ventun anni la chiamavano Black and Decker – è rimasta appena una traccia, ma sembra, più che altro, orgoglio. La dura ragazza dai capelli corvini, erede di un impero, ma ancora acerba al suo primo ingresso in Confindustria, quando c’erano i Romiti, gli Agnelli, i Tronchetti, i De Benedetti, i Merloni, ha lasciato il posto a una donna di 44 anni bionda e sicura, meno spigolosa, ma non per questo meno tosta. Piace, quando sostiene che «uno dei problemi dello sviluppo in Italia è legato alla bassa occupazione femminile». Piace, quando chiede soluzioni concrete e anche quando non gradisce essere paragonata a una Velina, con tanto di reazione difensiva delle due fanciulle chiamate in causa, le deliziose Federica e Costanza. Piace quando parla di ripresa e sostiene che comincerà a Milano, perché tutti vorremmo crederci e sembra che lei ci creda davvero. L’altro soprannome era Lady Acciaio, troppo facile, persino banale, visto che di acciaio si occupava papà Steno, fondatore del decimo gruppo industriale italiano con solide radici a Mantova
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Se le riforme hanno effetto sul medio e lungo termine, ci sono anche molti passi da fare per attutire i colpi della congiuntura nell’immediato. E su questo versante la Marcegaglia ha indicato come prioritaria la ne-
cessità di intervenire sul «razionamento del credito». Il pressing del governo sulle banche non ha portato i frutti sperati, la leader di Confindustria ha chiesto al governo di rendere operative le garanzie
(fatturato superiore ai 4 miliardi di euro e 6.500 dipendenti in Italia e all’estero).
Forse è stato per contrastare quest’idea di durezza che l’ha accompagnata per anni, in particolare quando, nel ’96 è stata eletta presidente Giovani industriali, a farle scegliere uno stile sbarazzino, decisamente poco manageriale. Non era thatcheriana, rigida, anzi, osava allegre minigonne, definite dai giornali “vertiginose”, e nella sua galleria fotografica c’è un notevole repertorio di scollature, otre a un curioso abito a fiori bianchi su fondo aragosta. Da presidente di Confindustria, si è presentata in tailleur Dolce&Gabbana, stivali Prada, borsa Chanel, doppio filo di perle, e gli stilisti le hanno dispensano ansiosi consigli sottintendendo che anche quel look era migliorabile. Lorenzo Riva le ha suggerito di evitare «i colori sgargianti, le scollature mozzafiato e le minigonne». Fausto Sarli le ha consigliato per il tailleur pantalone, Renato Balestra le ha ricordato l’importanza delle gonne al ginocchio. Ma lei si è sottratta a tutto questo chissà perché un’inviata di guerra, come un presidente di Confindustria devono essere giudicate anche in base agli orli, alla pashmina, alla pettinatura - e finalmente, ammettono che è autorevole. Il bello è che questa autorevolezza nasce dalla normalità, liceo a Mantova, il Belfiore, sezione C, prima della classe («ma faceva copiare», ricorda qualcuno), una sospensione per aver centrato la prof. con un cancellino, anche se non l’aveva fatto apposta, una pazza serata a Capri, finita ballando sui tavoli con la “mossa” (classico, da Anema e Cozze), della quale si è «molto vergognata per anni», diete salutiste e yogurt alternate a escursioni nel pianeta Nutella. Però qualcosa, una certa attitudine al comando, doveva esserci nel Dna, se è vero che il gioco prepara alla vita. Se è vero che Emma e il fratello maggiore, Antonio, da piccoli facevano, a turno, il direttore e il capo del personale delle bambole. Le assumevano, le licenziavano, le organizzavano. E adesso, dopo gli esercizi infantili, sono tutti e due amministratori delegati della Marcegaglia spa. Il curriculum di Emma è quello giusto: laurea in Economia aziendale alla Bocconi (a pieni voti, of course), seguita da un master in Business Administration alla New York University, ottimo inglese. Ed è qui che la sua vita poteva cambiare e prendere tutta un’altra piega. La tentazione della Città di vetro era forte. New York l’aveva elettrizzata. Perché tornare a Mantova?. «Poi, un sabato», racconta l’amica Elisabetta Campana, sua testimone di nozze, «prendiamo due bici, a Gazoldo, e facciamo il giro dello stabilimento. Mentre lei era via era stato ampliato. Erano chilometri, a passarlo tutto. Alla fine si ferma: “Questo l’ha fatto mio papà, e sono stati anche sacrifici. Secondo te potrei lasciar perdere tutto così”?». Ovvio che no. Rimane. Sceglie Mantova. In effetti, non si capisce bene questa sto-
per le banche messe in campo dalla Sace, dal fondo di garanzia e dalla Cassa depositi e prestiti. Ma non ha dimenticato di richiamare il mondo del credito «per aver abbandonato il territorio C’è un vero rischio di
ria senza conoscere la famiglia Marcegaglia. Di loro si elogia l’austerità: si definiscono «imprenditori poveri di un’azienda ricca». Emma vola a Bruxelles in classe economica, giurano. Il padre Steno comincia nel 1959 con un laboratorio di 120 metri quadrati: fabbrica guide per le tapparelle. Dieci anni dopo apre lo stabilimento di Gazoldo degli Ippoliti, che sarà il centro del Gruppo anche in futuro: sostituisce il vecchio laboratorio con l’inserimento di un laminatoio a freddo e nuovi capannoni dove si lavorano 400mila tonnellate di acciaio. E poi avanti, sempre in crescita, senza mai fermarsi. Gli tocca anche la triste avventura del rapimento. Tenuto prigioniero sull’Aspromonte, si libera da solo. Secondo la leggenda, appena tornato a casa, convoca subito una riunione, perché di tempo se ne era perso anche troppo. Nel gennaio del ’90, Steno Marcegaglia chiede a Emma di occuparsi di Albarella, un’isola privata nella laguna a sud diVenezia, posto incantevole, da sempre appuntamento fisso per le vacanze, comprato dalla famiglia: 500 ettari di macchia mediterranea, vocazione turistica, niente a che vedere e con l’acciaio. È la prima sfida e la vince. Da allora è una lenta, lunga, coerente marcia, senza un accenno allo specifico femminile o alla necessità di quote rosa. Solo lavoro? No. Nel ‘95 trova il tempo di innamorarsi sul serio. Un amico di amici, incontrato in piscina: «Però. Mica male». Colpo di fulmine. Era Roberto Vancini, ingegnere informatico. Un mese dopo, il fidanzamento, nel 2001 il matrimonio, nel 2003 una figlia, Gaia. In mezzo c’è la vicepresidenza di Confindustria per L’Europa, lasciata dopo due anni per colpa di uno scontro con Antonio D’Amato, perché la signora, glielo riconoscono, ha carattere.
A 21 anni la chiamavano “Black and Decker”. Oggi, incarna la sintesi della donna d’acciaio e di seta
Il resto lo sanno tutti. Ritorna con la presidenza di Luca Cordero di Montezemolo (delega su energia ambiente e territorio) e poi prende il suo posto. Si abitua a vivere, in un certo senso, sotto i riflettori. Non che si conceda tanto, specialmente ai giornali. Non dà interviste ai femminili, non si mette in posa con la famiglia, non fornisce materiale per eventuali gossip. Le indiscrezioni sono inconsistenti. In tempi di confusione tra pubblico e privato, fa sorridere che di lei si conosca soltanto un vezzeggiativo (“Emy”) prerogativa delle amiche storiche, una passione autentica per gli orologi scovati anche sulle bancarelle dei mercatini, una certa bravura a tennis, una preferenza per la montagna, piuttosto che per il mare. Chi la conosce davvero, assicura che il matrimonio e la maternità l’hanno arricchita e addolcita, che vista da vicino è una mamma deliziosa per la piccola Gaia, capace di giocare sotto i tavoli e di affrontare subito dopo, un’agenda da mal di testa. La sintesi migliore è, forse, nella prima copertina avuta su Madame Figaro: «Femme d’acier, femme de soie». Donna d’acciaio, donna di seta.
asfissia che può essere letale per le aziende più deboli». Sempre per venire incontro alle Pmi, la Marcegaglia ha chiesto sgravi fiscali per l’innovazione e la ricerca, incentivi a favore degli investimenti, miglio-
ri automatismi meccanismi sul credito di imposta destinati al R&S evitando «tagliole». Utile poi accompagnare al piano casa un piano di piccole opere pubbliche per dare ossigeno all’edilizia.
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Ascese. Ha accumulato molto potere, ma anche diverse inimicizie: «Ottimo legale, ma come politico vale poco», dicono
Si scrive Silvio, si legge Ghedini È lui l’uomo che, fin dall’inizio, ha in mano le sorti della legislatura Più che un avvocato è ormai un premier-ombra. Con tanto di oppositori... di Marco Palombi
ROMA. Chi pensa ai due decenni di potere di Silvio Berlusconi come a un monolite incistato nel conflitto d’interessi e nella guerra giudiziaria, non solo coltiva con voluttà una certa rozzezza di giudizio, ma evidentemente non ha chiara la natura del potere e, in particolare, il rapporto dialettico che corre tra il Re e la sua Corte. Quest’ultima fase di governo del Cavaliere, che diremmo imperiale, è segnata infatti da due anomalie relativamente recenti: l’ingresso di Mediaset in Mediobanca (con lo spostamento di equilibri che questo ha comportato, non ultimo nel settore editoriale) e il peso crescente di Niccolò Ghedini. Giuliano Ferrara, in un articolo di qualche anno fa, definì Gianni Letta il «Gran Visir» di palazzo Grazioli: alludeva alla sua attitudine mediatoria, agli ottimi rapporti trasversali, al moderatismo conservatore che ama esercitare dietro le quinte, al riparo dei pesanti tendaggi aggrappate ai quali, le attrici dantan, fingevano la morte per tisi o altra consunzione. Oggi che il ruolo del “dottore”, eufemizzando, non è più così centrale, un’altra strana figura l’ha sostituito nei pressi delle orecchie del sovrano: Niccolò Ghedini appunto, l’avvocato spilungone e un po’ sgraziato che senza darlo a vedere ha giubilato tutti i colleghi che s’affannavano attorno a Berlusconi. Tra le sue vittime, vuole una leggenda assai smentita (almeno da Ghedini), c’è anche Gaetano Pecorella, l’uomo che lo introdusse in Mediaset e oggi però non ama lo spirito un po’ grossier con cui il nostro oppone e mescola attività legale e legislativa. È lui oggi l’interprete più fedele del potere berlusconiano nel momento in cui si crede senza freni nell’establishment italiano, è lui l’uomo che gestisce il premier, il Guardiano della Porta: staziona stabilmente a palazzo Grazioli e decide chi può e chi non può essere ammesso alla presenza della luce, è lui che seleziona ciò che può o non può essere soffiato all’orecchio del Capo. Lui che non ha mai amato il calcio, dicono, adesso non si perde una partita quando il Cavaliere decide di vedersene una a casa. Ha accumulato molto potere, l’avvocato
maggiordomo della Famiglia Addams, e lui tutto sommato concorda: si ritiene «orrendo» e se potesse farebbe velare tutti gli specchi «come la Contessa di Castiglione».
Ghedini, e molte inimicizie: gente che lo incolpa di mancati avanzamenti di carriera, semplici invidiosi, cortigiani scavalcati dalla sua irresistibile ascesa e pure un gruppo nutrito di maggiorenti che pensano non sia in grado di stare così in alto: «Ottimo avvocato ma come politico vale poco», è un giudizio diffuso tra gli alti dirigenti della Forza Italia che fu.
Il Guardiano della Porta però non ha intenzione di cedere: sono 400 anni d’altronde che la sua famiglia frequenta e custodisce potere, almeno da quando cioè venne insignita del patriziato veneto «per particolari
meriti resi alla Serenissima Repubblica», legali ovviamente. Da allora i Ghedini hanno pure uno stemma profetico: un orso arrabbiato con una spada sguainata in mano. Titolare ne è attualmente Niccolò, nato giusto cinquant’anni fa, orfano di padre quando ne aveva tredici e titolare (lo ha raccontato lui stesso a Barbara Romano di Libero) di un’infanzia scapestrata: «In prima media precipitai da un’impalcatura su una banda mentre cercavo di sputare in testa agli orchestrali… Mia madre voleva uccidermi». Nel Fronte della Gioventù di Padova a 12 anni, un lustro dopo si iscrive al Pli, ma
la giovinezza passa soprattutto tra nuoto, sci, ippica e la scuola: diventa penalista ed entra nello studio di famiglia, fino ad allora retto da due delle sue tre sorelle e da Piero Longo, suo maestro e oggi senatore del Pdl.
Ha una moglie con cui sta da 30 anni e un figlio di 11, due splendide case con relative tenute (una a Padova, una nel senese) e spende i suoi soldi «in arredi, auto d’epoca - l’hangar in cui tiene la sua considerevole collezione è ormai leggenda, ndr - nelle mie aziende agricole e in gioielli da regalare a mia moglie». In rete dicono che è la reincarnazione di Lurch, il
È anche simpatico, Niccolò Ghedini, guardare per credere la video intervista con Piero Ricca (quello che insegue il premier per urlargli dietro qualche improperio e l’invito a farsi processare) del luglio 2008: l’avvocato ne esce da dio. Il suo problema è che ha accumulato troppo potere senza avere la forza per gestirlo: Ghedini non è una controparte di Silvio Berlusconi, non ha la capacità di arginarne gli “spiriti animali”e - guardando ai risultati - è da un po’ che non ne azzecca una. A problema giudiziario oppone modifica normativa (lodo Alfano, ddl intercettazioni), a critica politica o attacco mediatico alzata di toni e minaccia di querela, col risultato che sono un paio di mesi che il clima attorno a palazzo Chigi è surriscaldato e che, come non era mai accaduto in quindici anni, il premier si fa imporre l’agenda da stampa e opposizione. Berlusconi è sulla difensiva e non ha veramente accanto nessuno dei vecchi “consigliori”, primo tra tutti Gianni Letta, umiliato sul decreto Abruzzo e sostanzialmente messo sul banco degli accusati dalla autodenuncia della mancata protezione di villa Certosa (sarà audito al Copa-
Emma Bonino: dietro l’alibi dei complotti c’è un esecutivo che teorizza l’immobilismo
«Sono solo incapaci di governare» di Errico Novi
ROMA. Fermo. Immobile. Ispirato da una sorta di atarassia ideologica. Così appare il governo davanti al pressing di Confindustria. E così appare anche agli occhi di Emma Bonino, tra i leader di opposizione meno inclini a parlare di veline e più ansiosi di interventi strutturali. Sulle pensioni per esempio. Un’attesa vana. Verrebbe da credere che a frenare l’iniziativa dell’esecutivo sia anche il pode-
roso dispendio di energie sul fronte scandalistico. È un’ipotesi, ma rischia di diventare un inaccettabile alibi, secondo la vicepresidente del Senato. Perché, presidente Bonino, non c’è il rischio, secondo lei, che le polemiche suscitate dall’inchiesta di Bari allontanino ancora di più il governo dai problemi reali? Non sono tanto convinta da questa teoria della distrazione. Sa perché?
Dica. In campagna elettorale Berlusconi è stato presente in maniera ossessiva. Su qualsiasi cosa ci si sintonizzava, appariva lui, anche se accendevi il boiler, se rispondevi al citofono… a parte gli scherzi, io credo che a fronte di una consolidata abilità nelle campagne elettorali, questa maggioranza e il suo leader accusino una sostanziale incapacità di governare. Eppure le riforme che ieri
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Cita “Il deserto dei Tartari” e denuncia la delegittimazione reciproca tra avversari
Fini contro il complotto «Un nemico che non c’è» di Franco Insardà
ROMA. Il Palazzo come la Fortezza Bastiani. Con l’ansia si materializza un nemico, che però non esiste. Termini tanto duri, Gianfranco Fini, non li aveva mai utilizzati contro Silvio Berlusconi. Ieri, aprendo il primo di una serie di convegni promossi da Montecitorio sul “Patriottismo costituzionale e cittadinanza nazionale”, si è affidato alle parole di Dino Buzzati e ha detto: «In Italia stenta ad affermarsi una mentalità da democrazia matura, è diffusa una mentalità di emergenza continua, quasi che fossimo sempre all’ultima spiaggia».
Nelle parole di Fini molti Sopra il presidente della Camera, Gianfranco Fini; a sinistra l’avvocato del premier Niccolò Ghedini e in basso l’ex ministro radicale e vicepresidente del Senato, Emma Bonino sir la prossima settimana). Pure il direttore del Foglio ieri ha fatto sentire il suo “basta”: non si può vivere in un continuo 24 luglio, ha scritto Ferrara lasciando intravvedere al Cavaliere il fantasma del giorno successivo, quello del fascismo senza Mussolini, del berlusconismo senza Berlusconi.
zia D’Addario apparsa sul Corsera insieme a frasi che mettono insieme le parole “presidente del Consiglio” e “prostituzione”(da cui, per altro, il delizioso “utilizzatore finale” di Ghedini) vuol dire ben altro.
Significa che un intero, italia-
Il consiglio di guerra di ieri sera - Alfano, Ghedini, il pugliese Fitto - è l’esemplificazione iconica del trionfo delle nuove leve e del loro stile: un complotto dei servizi stranieri, hanno soffiato nella notte ai cronisti le fonti di palazzo Chigi. Secondo altri, però, l’intervista di Patri-
nissimo, assetto di potere che si credeva addomesticato - dal Vaticano agli ex poteri forti - ha dato il suo “avvertimento”al Cavaliere. La domanda ora è: basterà tornare alla gestione curiale di Letta, sacrificando Ghedini, o il discredito gettato su Berlusconi è talmente non emendabile che è partita la caccia grossa?
Confindustria è tornata a invocare non sembrano cose rivoluzionarie. All’inizio la crisi è stata sottovalutata: è passato giusto un anno dal varo di una manovra triennale espansiva. Poi la crisi è diventata finanziaria, economica, quindi sociale. Adesso, come giustamente teme Confindustria, rischiamo di trovarci con una massa enorme di disoccupati. Lo studio diffuso ieri parla di un milione in due anni, noi Radicali abbiamo diffuso l’allarme a fine 2008 e siamo stati anche più pessimisti. Ma avete per caso visto un passo avanti sulla riforma degli ammortizzatori sociali? La risposta è sempre la stessa: le riforme non si
fanno in tempo di crisi. Un po’ contraddittoria, direi: il governo si è attribuito una delega sul welfare, che avrebbe dovuto essere assolta entro luglio ma che è destinata a restare sul tavolo. Perché va così? Non si considerano prioritari questi temi, manca la necessaria attenzione. Lei dice che la distrazione non dipende dagli scandali. E infatti: di cose il governo trova pure il tempo di proporne, basta guardare al massiccio uso che si fa dei decreti legge. Ma il più delle volte si tratta di provvedimenti sulla sicurezza, che poi in realtà generano insicurezza, ma non di riforme essenziali.
hanno letto un chiaro riferimento al premier, che citando Il deserto dei Tartari ha parlato di «una delle pulsioni che più ci caratterizza si traduce nel paventare l’aggressione di chissà quale nemico, interno o esterno». Il presidente della Camera ha ricordato come il protagonista del romanzo, il tenente Drogo nella «asserragliato Fortezza Bastiani vive nella perenne attesa dei “barbari”. E quando i Tartari effettivamente verranno, egli non li vedrà, perché avrà consumato la propria giovinezza in una tensione vana e sfibrante». Da qui l’accusa al «frequente ricorso alla delegittimazione reciproca tra avversari politici». Il presidente della Camera non nega «l’esistenza di gravi difficoltà nella vita nazionale, a
partire dalla crisi economica, ma al di là della doverosa considerazione delle debolezze strutturali del nostro sistema e di nuove criticità, dobbiamo riconoscere che non si tratta di questioni molto diverse da quelle che interessano qualsiasi altro paese europeo. Eppure la tenuta complessiva della società, la sua interna coesione, la sua convinzione di avere un futuro migliore del presente appare perennemente precaria. Stenta ad affermarsi una mentalità da democrazia matura. È debole la percezione dei valori e degli interessi che uniscono gli italiani». Con la convinzione che di fronte alle tragedie o alle emergenze vere l’Italia si scopra unita, solidale ed effi-
A quanto si è appreso finora il sostituto procuratore Pino Scelsi, attualmente in ferie, avrebbe già ascoltato la D’Addario prima ancora della pubblicazione dell’intervista al Corriere della Sera di mercoledì, nella quale si faceva riferimento a feste a Palazzo Grazioli con la partecipazione di ragazze che sarebbero state pagate. Altre cinque donne sono state già ascoltate e altre lo saranno nei prossimi giorni insieme ai testimoni che, a detta delle ragazze, avrebbero partecipato alle feste.
Sulla vicenda barese si sono registrate tantissime reazioni. A difesa del premier si sono schierate molte donne del suo partito come Elisabetta Gardini, Margherita Boniver, Iva Zanicchi, Beatrice Lorenzin e Isabella Bertolini. «Forse non è un complotto – ha detto la Boniver – ma ogni giorno che passa è sempre più evidente il disegno eversivo di screditare il premier. Oggi si preferisce guardare dal buco della serratura e delegittimare Silvio Berlusconi, l’uomo politico più popolare e più votato». E la Lorenzin è intervenuta in difesa anche dell’avvocato del presidente del Consiglio: «Al Pd non basta più l’attacco a Berlusconi, ora c’è anche il linciaggio dell’avvocato Niccolò Ghedini. A quando ci dobbiamo aspettare anche l’aggressione al medico personale?». Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, invece, riferendosi alle parole di Fini, ha detto: «Le elezioni devono essere combattute con armi politiche, su programmi contrapposti, culture e ideologie diverse. Non credo che possa e debba tornare la politica che usa la magistratura a orologeria. Persino tra un turno e l’altro, persino sui ballottaggi, mi sembra un imbarbarimento. È bene che tutti facciano una riflessione su questo: mettere in mezzo inchieste, magistrature, connessioni mi sembra non degno di un Paese civile». Da segnalare la posizione distaccata del presidente del Ppe, Wilfred Martens: «Non faccio nessun commento politico sulla vita privata di qualcuno». Uno stile sicuramente diverso rispetto a quello dei politici italiani. In Europa i Tartari sono più lontani.
La procura di Bari ha acquisito e sigillato in un plico, per evitare “fughe di notizie”, le audiocassette che Patrizia D’Addario avrebbe registrato nelle due feste a Palazzo Grazioli
Forse il punto è che la Lega ha iniziativa politica, il Pdl no. Che la Lega faccia bene il proprio mestiere è vero. Sul Pdl va detto che alcuni ministri, e penso proprio a Sacconi, sono stati molto attivi su vicende come quella di Eluana Englaro, mentre se si tratta di pensioni, dicono che non vanno toccate. C’è una vera e propria teoria dell’immobilismo. È questo il problema. Solo che così andrà a finire come teme Confindustria: terminata la crisi, risalire sarà più faticoso. È sorprendente scoprire che il partito della rivoluzione liberale si dimostra più conservatore del governo Prodi. Almeno nella scorsa legislatura c’era
ciente i primi a stupirsene sono gli stessi italiani. È accaduto a Nassiriya come per il terremoto in Abruzzo».
Intanto a proposito di complotti e di inchieste la procura a Bari ha acquisito le audiocassette che Patrizia D’Addario avrebbe registrato durante due feste a Palazzo Grazioli, di cui una nell’ottobre scorso. Le audiocassette sono state sigillate in un plico. la giustificazione di una maggioranza conflittuale. Io non sono sorpresa. Anche nel quinquennio 2001-2006 la maggioranza aveva numeri forti, cento seggi in più alla Camera e cinquanta al Senato. All’inizio si fecero in effetti grandi proclami, si esibiva una forte determinazione per il cambiamento. Poi si è visto che di riforme ce ne sono state pochine, nel campo economico come in quello della giustizia, soprattutto della giustizia civile che incide di più sull’economia. Al massimo si è privatizzato l’ente tabacchi. Ho l’impressione che si ripeta lo stesso schema. E che si limiteranno a fare ‘cucù, la crisi non c’è più’ senza aiutare davvero il Paese.
diario
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Il mezzo flop dei fondi pensione Rallentano le adesioni e calano i rendimenti, ma per la Covip ci sono «speranze» di Alessandro D’Amato allentano le adesioni, calano vorticosamente i rendimenti, speranze per il 2009. Ma la previdenza complementare, nonostante abbia «fondamentalmente tenuto» alla crisi, continua a non essere nel cuore dei lavoratori. Nella relazione annuale di Antonio Finocchiaro, presidente della Covip, per i fondi pensione «i segnali di miglioramento stentano ad emergere e l’inversione del ciclo è ipotizzata per il prossimo anno. Da gennaio 2008 si è rilevato un rallentamento nelle adesioni, ma a marzo 2009 sono 4,9 milioni gli iscritti alle forme pensionistiche complementari, ovvero il 50% in più rispetto al periodo preriforma».
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In particolare, fa sapere l’autorità di vigilanza, le adesioni sono pari al 26% del totale dei lavoratori dipendenti del settore privato, percentuale che sale al 30% se si limita il calcolo ai lavoratori che possono conferire il Tfr in forma tacita. Nel lavoro autonomo le adesioni coprono il 18% mentre risultano ancora marginali tra i lavoratori del settore pubblico. In alcuni settori, secondo l’authority, «la previdenza complementare mostra difficoltà di sviluppo: i giovani, le donne, i lavoratori autonomi so-
no sottorappresentati, così come le piccole imprese e, se si considerano le aree territoriali, le regioni meridionali. Nel pubblico impiego, il secondo pilastro previdenziale è assente, ad eccezione della scuola, peraltro con adesioni modeste: con un platea potenziale stimata in circa 1,6 milioni di aderenti, i fondi pensione già previsti per alcuni comparti pubblici registrano notevoli ritardi». «La crisi dei mercati finanziari ha sottoposto i fondi pensione a una prova severa, ma il sistema della previdenza complementare ha tenuto», fa sapere Finocchiaro, che sottolinea che «la sostanziale adeguatezza del quadro normativo, l’ampia articolazione dell’offerta e il rafforzamento dei flussi contributivi, hanno reso il sistema pensionistico complementare sostanzialmente solido, capace di reggere l’urto». Ma oggi «la previdenza complementare si sta sviluppando lentamente e, a dieci anni dall’avvio, necessi-
ziaria». E ha indicato qualche strumento per rendere più attraente il sistema della previdenza complementare. Per esempio della necessità di superare la rigidità della scelta (non è possibile recedere dopo aver scelto il fondo pensione), di reversibilità e di nuove norme fiscali ancora più favorevoli ai fondi pensione. Non è escluso – ha detto Sacconi – che il governo decida di lanciare per il 2010 un nuovo semestre di silenzio-assenzo per permettere ai lavoratori che non lo hanno ancora fatto di aderire ai fondi pensione.
«Un contributo in tal senso - ha concluso Sacconi - potrebbero darlo già oggi i genitori iscrivendo quando possono i figli a carico a un fondo di previdenza complementare; ne ricaverebbero un vantaggio mentre nei ragazzi comincerebbe a radicarsi l’idea di un futuro previdenziale meno legato alla previdenza obbligatoria, cui provvedere fin dalla prima fase lavorativa». Soddisfatti i sindacati: dalla Cgil, per bocca di Morena Piccinini, arriva comunque la richiesta di costruire un sistema di investimenti che rafforzino la garanzia e la protezione finanziaria per i lavoratori. Cisl e Uil condividono le parole del presidente della Covip, e sottolineano la proposta di prevedere la possibilità per i Fondi pensione di investire in infrastrutture e a sostegno dello sviluppo economico del paese».Viviana Dabusti, responsabile dell’Area Previdenza e Soluzioni Applicative dell’Irsa, che ha scritto insieme a Giuliano Cazzola e Domenico Comegna il libro Il vademecum della previdenza, non è così ottimista: «Un altro semestre di silenzio/assenso senza la necessaria diffusione di una cultura previdenziale sarebbe inutile. Oggi soltanto il 20% dei lavoratori italiani accede alla previdenza complementare, e questi numeri dovrebbero farci riflettere su cosa dovremmo battere: la maggiore informazione tra i lavoratori».
Sacconi non esclude che il governo possa lanciare, per il prossimo anno, un nuovo semestre di “silenzio-assenso” ta di ulteriori impulsi».Le cause? Quelle che vengono tutte sottolineate dagli esperti del settore: tassi di crescita lenti, gestioni in ottica di breve periodo che non offrono rendimenti superiori a quelli del Tfr, grado di adesione fortemente differenziato per settori, aree geografiche e dimensioni aziendali, concorrenza poco incisiva nel contenimento dei costi.Tutti fattori di criticità del sistema su cui intervenire.
Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha lanciato qualche proposta: «Oggi prevale l’analfabetismo finanziario e la paura. Devono essere i giovani e le piccole imprese il target di riferimento perché è necessario sviluppare la cultura finan-
Mario Mauro e Jerzy Buzek si contendono la presidenza del Parlamento europeo. Il Ppe cerca una mediazione “indolore”
Strasburgo, ormai è scontro Italia-Polonia di Guglielmo Malagodi
BRUXELLES. Dalla riunione del Ppe che si tiene a margine del Consiglio europeo di Bruxelles, Silvio Berlusconi ha avanzato ieri la candidatura dell’italiano Mario Mauro per la guida del Parlamento di Strasburgo. «Siamo convinti sia la migliore», ha detto il Cavaliere che pure ha spiegato come l’Italia non ponga veti sul proprio candidato e che va trovata una soluzione in seno al Partito popolare europeo verso il quale, ha aggiunto Berlusconi, «siamo leali». Ma al nome di Mauro si contrappone con forza crescente - quello del polacco Jerzy Buzek, sempre del Ppe. Il rappresentante di Varsavia alla riunione di Bruxelles ha auspicato una soluzione consensuale, senza cioè andare alla conta con il rischio di rompere l’unità del partito.Tra i due concorrenti, la folta delegazione tedesca composta dagli eletti Cdu-Csu, formalmente ancora
senza un candidato e gli spagnoli di Josè Maria Aznar forse chiamati a una mediazione.
Forte del 35 per cento raccolto alle recenti europee e del più alto tasso di partecipazione al voto registrato nell’Ue, il governo italiano avrebbe forse i numeri per reclamare la presidenza dell’Aula di Strasburgo. Mercoledì il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva spiegato
Per Frattini, i 10 milioni di voti raccolti dal Pdl “pesano” più dei 2 milioni ottenuti dal partito dell’ex primo ministro di Varsavia che la candidatura di Mauro «pesava di più» in termini di voti poiché il Pdl ha alle spalle oltre 10 milioni di elettori contro i circa due milioni di voti raccolti dall’omologo partito polacco. Roma non può invece chiedere la presidenza della Commissione europea, guidata in tempi relativamente recenti da Romano Prodi. E
dunque ha optato per un rinnovato sostegno al presidente uscente dell’esecutivo comunitario, il portoghese Josè Manuel Durao Barroso. Il Trattato di Lisbona, tuttavia, prevede l’istituzione di nuove cariche per dotare l’Ue di una presidenza “semipermanente” (due anni e mezzo) e per il rafforzamento della figura dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza (Mr Pesc) che sarà anche vicepresidente della Commissione europea. L’istituzione di queste due figure è legata al successo dello stesso Trattato che deve essere sottoposto a nuovo referendum in Irlanda, dopo una prima secca bocciatura. Altri Paesi non lo hanno ancora ratificato oppure, come la Germania, stanno aspettando le pronunce delle proprie Corti supreme in materia o, come la Repubblica Ceca, l’eventuale “sì”di Dublino. Lasciare la presidenza di Strasburgo per puntare su uno di questi incarichi, per il quale sembra si stia già “scaldando” l’ex premier britannico Tony Blair, potrebbe essere un gioco rischioso.
diario
19 giugno 2009 • pagina 7
La corte d’Assise di Roma riduce la condanna da 10 a 5 anni
La Cassazione: «Non si possono utilizzare per motivi personali»
Uccise due adolescenti sulla Nomentana: pena dimezzata
Auto blu vietate a parenti e amici
ROMA. Non più omicidio volon-
ROMA. Le auto blu non possono essere “consegnate” ai parenti e nemmeno dirottate dal loro percorso “di servizio”per motivi personali. Con due diverse sentenze la Cassazione torna sulle limitazioni imposte a dirigenti e funzionari dello Stato e ad esponenti politici nell’uso delle vetture di servizio. I giudici della sesta sezione penale con la decisione 25537 hanno respinto il ricorso dell’ex prefetto di Livorno,Vincenzo Gallitto, condannato a 4 mesi di reclusione per abuso d’ufficio, e con la sentenza 25541 hanno confermato la condanna a 9 mesi per peculato di un consigliere comunale. Nel primo caso Gallitto, che negli anni scorsi è stato anche coinvolto in un’inchiesta su abusi edilizi all’isola d’Elba, ha destinato l’auto
tario ma colposo. Riduzione da 10 a 5 anni della pena inflitta a Stefano Lucidi, 35 anni di Roma, che il 22 maggio 2008 investi e uccise in via Nomentana a Roma, Alessio Giuliani e Flaminia Giordani. La sentenza è stata emessa dalla prima sezione della Corte di assise di appello di Roma, i cui giudici hanno trasmesso il fascicolo processuale al pm per valutare l’ulteriore contestazione di omissione di soccorso.
«La giustizia è sotto zero. Non ci avrei mai creduto. La conferma della sentenza di primo grado sarebbe stata un messaggio importante di rispetto della dignità della vita umana», ha detto Teresa Chironi, la mamma di Flaminia Giordani, la ragazza investita mortalmente sulla via Nomentana. Friedrich Vernarelli, che la notte tra il 17 e 18 marzo 2008 (circa due mesi prima del duplice omicidio dei fidanzatini di via Nomentana) ha travolto e investito con la sua Mercedes due turiste irlandesi all’altezza di Lungotevere degli Altoviti, si è affacciato nell’aula della prima corte d’assise d’appello nella speranza di salutare Stefano Lucidi, approfittando di una pausa del processo. Vernarelli voleva salutare l’amico con il quale ha condiviso la cella per alcuni mesi. Speranza vana, perchè Lucidi,
Preti pedofili, il Papa: «Mai deplorati abbastanza» Così nella lettera per l’inaugurazione dell’anno sacerdotale di Francesco Capozza
CITTÀ DEL VATICANO. Le «infedeltà» dei sacerdoti non sono «mai abbastanza deplorate»: è «la Chiesa stessa a soffrirne ed è il mondo a trarne motivo di scandalo e di rifiuto». Ma, ricorda il Papa chiamando tutti i preti cattolici a una «forte e incisiva testimonianza nel mondo di oggi», ci sono anche tanti preti veri e non «è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri che può giovare alla Chiesa». Benedetto XVI ricorda così la «fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione». Nella lettera che ha indirizzato a tutti i sacerdoti del mondo in occasione dell’Anno sacerdotale che inaugurerà oggi, papa Ratzinger ha sottolineato anche «le numerose situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi della esperienza del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare - scrive il papa - i tanti saoffesi cerdoti nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?». La lettera ai preti di tutto il mondo serve al Papa per tracciare l’identikit del parroco e della sua missione e giunge dopo che nelle scorse settimane Benedetto XVI ha tenuto due vertici in Vaticano, con la Chiesa irlandese e con quella austriaca, in cui sono state affrontate alcune “infedeltà” dei sacerdoti, in particolare la pedofilia per l’Irlanda e i preti concubini per l’Austria. Oltre al ricordo dei preti «martiri» e alla condanna delle infedeltà (la pedofilia non è mai citata esplicitamente) papa Ratzinger, a partire da ricordi personali come l’incontro con il suo primo parroco che aiutò dopo l’ordinazione e dal confronto con la figura del curato d’Ars, evangelizzatore della Francia dell’Ottocento, definisce «doveroso estendere sempre più gli spazi di collaborazione ai fedeli laici, con i quali - rimarca - i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale...».
Se il Concilio, ricorda il pontefice, ha chiesto di riconoscere «la dignità dei laici», i preti «siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi della attività umana, in modo da poter insieme riconoscere i segni dei tempi». Solo preti “incarnati” e capaci «di una profonda vita spirituale», raccomanda il pontefice, possono «trasformare il cuore e la vita di tante persone», facendo loro percepire «l’amore misericordioso di Dio». A un buon prete, suggerisce, non deve mancare la Parola di Dio, unica in grado di evitare che «nasca un vuoto esistenziale in noi e sia compromessa la fiducia nel nostro ministero». E, come disse Paolo VI, «ricordiamo che il mondo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Nella lettera, il papa accenna anche alla necessità che i preti vivano in comunità, accolgano con fiducia i movimenti ecclesiali e siano obbedienti ai vescovi. Chiede anzi una «fraternità sacerdotale effettiva e affettiva. Solo così - commenta - i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo». Ma Ratzinger va oltre, affermando che «i sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli» verso il sacramento della confessione. Anche questa raccomandazione è messa nero su bianco dal papa nella lettera ai tutti preti del mondo in occasione dell’anno sacerdotale che inaugurerà oggi. Benedetto XVI, invitando i preti a ispirarsi all’esempio del curato d’Ars, patrono dei parroci, (che stava in confessionale fino a 16 ore al giorno, ndr) chiede ai sacerdoti di imparare, di «mettere al centro delle nostre preoccupazioni pastorali» il sacramento della confessione, imparando dal curato «una inesauribile fiducia nel sacramento della penitenza».
Il Pontefice accenna anche alla necessità che i sacerdoti vivano in comunità,accolgano con fiducia i movimenti ecclesiali
ancora in stato di detenzione, era stato portato dalla polizia penitenziaria nella stanza di sicurezza in attesa che la corte riprendesse il dibattimento. «È una sentenza corretta ed equilibrata quale noi auspicavamo», ha detto l’avvocato Franco Coppi, legate di Stefano Lucidi. «Il mio assistito è stato condannato per omicidio colposo con colpa cosciente con l’aggravante della previsione dell’evento - ha aggiunto il penalista - I giudici correttamente hanno bilanciato questo con le attenuanti generiche fino ad arrivare alla condanna che c’è stata». Diverso il commento dell’avvocato Francesco Caroleo Grimaldi il quale ha sottolineato che è stato fatto «un passo indietro rispetto al primo grado».
blu alla propria moglie in occasione di viaggi che la donna a fatto a Montecatini e a Follonica.
Nel secondo giudizio la Cassazione ha respinto il ricorso di Simeone Cenname, un consigliere comunale di Camigliano, un comune in provincia di Caserta con meno di 2.000 abitanti, condannato dalla Corte d’appello di Napoli perché aveva adoperato l’auto comunale per motivi personali. L’esponente politico si era difeso affermando che si era trattato di un caso eccezionale motivato da “ragioni di particolare urgenza”. Ma la Corte ha ribadito che l’auto blu non può mai essere adoperata per motivi personali o mettendola al servizio di passeggeri diversi da chi ne ha diritto. In altre parole, un conto è dare un passaggio ad un amico o un parente senza fare deviazioni rispetto al percorso di servizio, altra storia se si dà ordine all’autista di mettersi a disposizione degli “ospiti” per i loro spostamenti personali. Al prefetto Gallitto erano inoltre contestati anche altri episodi di abuso, tra i quali l’aver utilizzato personale della pubblica amministrazione per eseguire lavori di rimessaggio sulla propria barca. Ma in questo caso i reati sono stati dichiarati prescritti e l’originaria condanna a 9 mesi di reclusione è stata ridotta, già dalla Corte d’appello di Firenze nel 2008, a 4 mesi.
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Somalia. L’attentato è stato rivendicato da al Shabab, braccio locale di al Qaeda. Il presidente Ahmed: «Siamo in guerra»
Attacco allo Stato Un kamikaze uccide un ministro e 50 civili È un colpo letale a un governo già debole di Vincenzo Faccioli Pintozzi n attacco diretto al governo, un modo come un altro per dire che la milizia islamica non ha intenzione di cedere il comando del fondamentale snodo della Somalia. È il messaggio lanciato al mondo dall’attacco suicida lanciato ieri a Beledweyne, vicino al confine con l’Etiopia, che è costato la vita al ministro della Sicurezza somalo, Omar Hashi Aden. Un attentatore suicida, presumibilmente collegato ad al Qaeda, ha fatto esplodere una Toyota imbottita di esplosivo vicino all’hotel Medina, circa 400 chilometri a nord di Mogadiscio. Nell’esplosione sono morti anche l’ex ambasciatore in Etiopia, Abdi Karin Lakanyo, e almeno altre 50 persone. Secondo l’emittente islamica al Jazeera, i feriti sarebbero centinaia. Aden era un personaggio chiave nell’offensiva del governo contro i ribelli islamici, che vogliono rovesciare il presidente Sharif Sheikh Ahmed per instaurare una rigida versione della sharia nel Paese del Corno d’Africa. Il colonnello era sul posto con l’incarico di guidare le operazioni contro i fondamentalisti islamici guidati da al Shabab, un gruppo considerato vicino ad al Qaeda e nelle cui file mili-
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tano molti miliziani stranieri. Commentando e confermando in televisione l’accaduto, il presidente ha detto: «Si è trattato di un atto di terrorismo e fa parte degli attacchi terroristici lanciati contro il nostro popolo. Al Qaida ci sta attaccando».
Due giorni fa, sempre per mano delle milizie islamiche, è morto anche il capo della polizia della capitale Mogadiscio. La Somalia è il teatro di conflit-
pali oppositori del governo sono i militanti di al Shabab - la “Gioventù”- un gruppo radicale considerato il braccio locale di al Qaeda: si tratta degli eredi dell’Unione delle Corti islamiche, la coalizione spazzata via dall’invasione etiope del 2006. Il gruppo, all’interno della lista nera del terrorismo statunitense, controlla la maggior parte del meridione del Paese: dopo aver conquistato con la violenza anche alcuni capoluoghi del
La pirateria, le Corti islamiche e il temuto tandem con lo Yemen. Mogadiscio non ha la forza per contrastare le minacce alla sua autorità: le sue concessioni ai miliziani non sono servite a nulla ti armati di matrice diversa sin dal collasso dell’ultimo governo centrale stabile, avvenuto nel 1991. Molti riponevano le proprie speranze nell’elezione a presidente - avvenuta lo scorso gennaio - del musulmano moderato Sheikh Sharif Ahmad. Incaricato di formare un governo di transizione e di allontanare le truppe etiopi dal Paese, Ahmad non è riuscito a fermare l’aumento degli attacchi compiuti dalle milizie islamiche, che quasi ogni giorno squassano la Somalia. I princi-
centro, ha imposto la sharia (la legge coranica) nelle zone sotto il proprio controllo.
Al Shabab considera il presidente - un tempo leader dell’Unione - un “venduto” che ha abbandonato il vero islam per ottenere il potere con l’ausilio della comunità internazionale. La stessa opinione dei membri di Hisbul Islam, altra formazione paramilitare nata subito dopo l’elezione di Ahmed e guidata da Sheikh Hassan Dahir Aweys, che comandava insie-
me all’attuale presidente le Corti islamiche. Fondamentalmente, questi gruppi vogliono il potere per imporre la legge coranica su tutto il territorio nazionale: l’introduzione delle leggi islamiche da parte dell’attuale governo non li ha soddisfatti perché “troppo tenere”, e hanno fatto di questa insoddisfazione la propria bandiera. Le milizie sono infatti seguaci della setta wahabita dell’islam, che promulga un’interpretazione più rigida e letterale dei testi islamici, e quindi in contrasto con la maggioranza sunnita del Paese. Inoltre i terroristi chiedono l’immediato abbandono del territorio da parte dei peacekeeper dell’Unione africana, che al momento fanno base a Mogadiscio. Dallo scorso 8 maggio, i gruppi islamici hanno sferrato un’offensiva contro il Governo Federale Transitorio.
Il gravissimo attentato fa seguito a un giorno di violenti scontri tra i ribelli islamici e le forze governative, in cui sono morte almeno 26 persone.In settimane di violenze, il bilancio è di più di 400 morti e 117mila sfollati, in fuga da Mogadiscio a causa dei combattimenti. L’attentato, dunque, scuote con forza la sopravvivenza del governo già messa a dura prova dalla massiccia diserzione, in corso da almeno tre mesi, di numerosi membri dell’esercito regolare a favore degli estremisti. Secondo alcune stime indipendenti, il rap-
porto di forza sarebbe al momento di quattro soldati regolari contro sei militanti. Da parte sua, la comunità internazionale è restia a intervenire nella questione: il recente e deludente sviluppo della crisi del governo di tre anni fa, che condusse direttamente all’invasione delle truppe etiopi, brucia ancora a molte delle diplomazie occidentali e africane in campo.
L’intervento straniero, infatti, era stato ampiamente caldeggiato dal Dipartimento di Stato Usa, che vedeva nella situazione in corso un “brodo di coltura” di un nuovo fronte del terrorismo islamico. Le Nazioni Unite, forse proprio per questo, hanno appoggiato esclusivamente un processo di pace che si è concluso con l’elezione di Ahmed. Tuttavia i recenti avvenimenti dimostrano il fallimento di tale politica, e a farne le spese sono in maggioranza gli esponenti della società civile. Gli ultimi combattimenti, dice un rapporto dell’Onu, hanno costretto almeno un milione di persone a evacuare le proprie zone di residenza: sono centinaia di migliaia i somali che legalmente o meno - hanno varcato i confini nazionali per trovare rifugio in altre nazioni. La siccità frequente e l’assoluta carenza igienico-sanitaria peggiorano ancora di più la situazione: il Paese non può in alcun modo garantire la sicurezza delle Organizzazioni internazionali o di quelle non governa-
mondo Uno dei feriti nell’attentato avvenuto ieri all’hotel Medina viene portato via da un furgone. Sarebbero almeno cinquanta, secondo fonti di al Jazeera, le vittime dell’esplosione: un centinaio i feriti in gravi condizioni. A destra, l’onorevole Margherita Boniver, membro della Commissione esteri della Camera dei Deputati italiana. Nella pagina a fianco, membri delle milizie islamiche di al Shabab. I guerriglieri, nella lista nera del terrorismo pubblicata dal Dipartimento di Stato Usa, combattono per instaurare una rigida legislazione islamica nella Somalia e definiscono il presidente un “traditore” della causa islamica tive, che di conseguenza hanno serie difficoltà a creare centri ospedalieri o di istruzione.
Non va poi dimenticato l’annoso problema della pirateria, che rende il Paese ancora meno sicuro. Secondo un rapporto pubblicato ieri dall’Ufficio marittimo internazionale, i pirati somali hanno spostato i loro attacchi verso le zone a sud del mar Rosso e a largo dell’Oman, per approfittare dell’assenza di navi militari in queste aree. Noel Choong, direttore del centro di sorveglianza del Bmi con
menti del golfo di Aden. Secondo le informazioni in nostro possesso, sono almeno 14 le navi in mano ai pirati somali nel golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, con a bordo più di 200 uomini, di cui un quarto filippini». Ovviamente non vanno dimenticati i membri dell’equipaggio del Buccanneer, i dieci italiani di cui non si hanno notizie da settimane.
L’ultimo aspetto, forse il più importante da considerare, riguarda la vicinanza con lo Yemen - da cui la Somalia impor-
Nell’esplosione dell’hotel di Beledweyne è morto anche l’ex ambasciatore in Etiopia, Abdi Karin Lakanyo. Dal 1991 è in corso una guerra civile che sembra destinata a continuare nell’indifferenza base a Kuala Lampur, spiega: «Le due nuove zone sono localizzate intorno a Bab Al Manded, a sud del mar Rosso e nel Mare Arabico, a largo dell’Oman. La Bmi ha infatti registrato otto attacchi in queste zone nelle ultime due settimane, di cui alcuni avvengono durante la notte». Secondo Choong, inoltre, «i pirati allargano il loro campo d’azione al di là del golfo di Aden. Le cattive condizioni meteo nella costa est della Somalia, dovute ai monsoni, li spingono ad attaccare in nuove zone». Inoltre, ha sottolineato presentando il testo, «approfittano dell’assenza di navi militari, impegnate nel pattuglia-
ta guerriglieri islamici e armi e il controllo incrociato che gli estremisti islamici esercitano in quei due Paesi. Nel Corano è scritto che ogni buon musulmano deve lottare fino a che non vedranno di nuovo la luce i due Califfati, d’Oriente e d’Occidente. In Yemen è nato Osama bin Laden e la guerra all’Occidente, con il massacro derivato dall’attentato allo USS Cole ancorato nel Golfo di Aden. E in Yemen, pochi giorni fa, sono stati barbaramente trucidati dei turisti colpevoli di essere occidentali. Un tandem estremista sul Corno d’Africa potrebbe essere la nuova Grenada del nostro mondo.
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L’analisi dell’onorevole Boniver, ex sottosegretario della Farnesina
«Vogliono creare un nuovo Califfato» di Massimo Fazzi attentato avvenuto ieri in Somalia «è di una gravità inaudita. La situazione del Paese è gravissima, e non si sa bene cosa fare per poter dare nuova speranza al governo provvisorio. L’Italia farà la sua parte, ma queste notizie portano pessimismo nella comunità internazionale». È l’opinione dell’onorevole Margherita Boniver, membro della Commissione esteri della Camera e per cinque anni sottosegretario della Farnesina, che a liberal parla della «situazione raggelante» del Paese del Corno d’Africa. La Boniver conosce molto bene la situazione dei Paesi africani e in più occasioni ha svolto un cruciale ruolo di mediazione nei casi di rapimento dei nostri connazionali all’estero. Onorevole, alla luce della sua lunghissima esperienza in campo di affari esteri, cosa rappresenta l’attentato di ieri? L’uccisione del ministro della Sicurezza Omar Hashi e di altri cinquanta innocenti ad opera delle milizie di al Shabab rappresenta un fatto di una gravità inaudita, che si aggiunge a una situazione sempre più precaria. L’ultimo governo provvisorio, costituito all’inizio dell’anno, aveva suscitato consenso, speranza e anche una certa fiducia nella comunità internazionale. Lo dimostra il fatto che, durante l’ultima Conferenza dei donatori per la sicurezza in Somalia del 27 aprile scorso, gli Stati hanno donato un terzo dei fondi in più di quelli richiesti dalle Nazioni Unite. L’Italia, tra l’altro, è risultata una delle nazioni più generose con quattro milioni di dollari stanziati per il Paese.Tutte queste speranze oggi vacillano, anche se la situazione non è ancora data per persa, visto che il governo controlla a malapena una parte del territorio nazionale. A Mogadiscio ha autorità soltanto in alcuni quartieri. La situazione è tanto più grave perché non si sa bene che cosa fare, se non cercare di rafforzare questa fragile realtà istituzionale in un territorio che è rimasto abbandonato negli ultimi 18 anni. L’ultimo politico riconosciuto in Somalia era Siad Barre, poi costretto all’esilio: da allora, la Somalia è caduta nel caos più totale. È una situazione raggelante perché, come spesso accade in queste particolarissime situazioni - e la lezione afgana lo insegna - questi territori diventano poi preda di gruppi estremistici che si stanno infiltrando in territorio somalo da altri Paesi. Sembra che arrivino non soltanto da Pakistan e Afghanistan, ma addirittura - lo scrive l’Economist - dall’Italia. Lo scopo di questi estremisti è quello di impadronirsi definitavemente anche di questo fragile territo-
L’
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L’Italia ha fatto e farà sempre la sua parte, ma cose come questa portano pessimismo nella comunità internazionale. Ora si deve evitare il ponte con Sana’a, dove è nato l’estremismo islamico e lo stesso Osama bin Laden
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rio per istituire una sorta di Califfato estremista. Questo allarme è talmente alto che sono scesi in campo per difendere il governo persino gli studiosi sufi, un gruppo che in genere si tiene distante dalla politica. Secondo lei è possibile un tandem con lo Yemen, che negli scorsi giorni è stato teatro di un eccidio tremendo a danno di turisti occidentali? Certo. Parliamo di territori poverissimi: lo Yemen, che conosco bene, è destituito da qualunque materia prima e vive nell’indigenza. Il collegamento potrebbe avvenire: d’altro canto, con gli orribili fatti di cronaca dei giorni scorsi abbiamo visto riemergere anche nello Yemen quell’estremismo islamista che ha dato i natali a bin Laden. Inizia proprio in territorio yemenita, con l’attacco alla nave americana USS Cole, avvenuto nel Golfo di Aden nel 2000, questa concezione di violenza. Sono molti anni ormai che questi filoni, mai del tutto estinti, si auto-alimentano: oggi potrebbero trovare nuova linfa vitale nella situazione disastrosa della Somalia. L’Italia può avere un ruolo nel sostenere il governo di Mogadiscio? L’Italia ha sempre svolto un ruolo per quanto possibile concreto per tentare di aggiustare una situazione francamente impossibile. Siamo sempre stati in prima linea, con l’Onu e la comunità internazionale, per tentare di dotare il governo somalo di un’istituzione forte e condivisa. Continueremo a fare la nostra parte, anche se le ultime notizie ci inducono a un certo pessimismo.
panorama
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Unioni. I due leader politici di nuovo insieme per sostenere Pierluigi Bersani alla segreteria del Pd
Il ritrovato asse Prodi-D’Alema di Antonio Funiciello l colpo di teatro del prossimo congresso del Pd è senza dubbio l’asse D’Alema-Prodi. I due leader che più si sono combattuti in passato, con opposti tatticismi e a reciproco danno diretto, e che oggi si ritrovano sorprendetemente l’uno fianco all’altro. In realtà il colpo di teatro è stato preparato per tempo. Un soggetto e una sceneggiatura riscritte molte volte e attori che hanno preso a recitare insieme a fine 2005 quando, dopo cinque anni di governo Berlusconi, il centrosinistra si ritrovò a scegliere un candidato premier. Veltroni, giunto a naturale e trionfale scadenza del primo mandato sindacale, sembrava la soluzione naturale per battere Berlusconi. Ma pur di bloccarlo D’Alema e
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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
Marini riportarono in pista il detestato (da loro) professore bolognese. Di lì in poi, anche sulla scorta dei comuni rapporti con gli invertebrati e sempiterni apparati del sistema-paese, Prodi e D’Alema si sono ritrovati insieme, presidente e vicepresidente del medesimo Cdm. Insieme hanno cercato di
incassando molto più della metà dei suoi consensi nella dalemissima Puglia.
Oggi rappresentano insieme il nerbo politico-programmatico della candidatura Bersani alla segreteria del Pd. Il nome di Bersani accostato a quelli di Prodi, D’Alema e Letta, sono l’i-
Con la confusione che regna tra chi dovrebbe avversare questa “alleanza”, l’ex ministro parte in pole position per la conquista del Nazareno tenere in piedi un esecutivo che non ha mai potuto contare su una vera maggioranza in Senato. Insieme hanno subito le conseguenze della caduta del governo. Insieme hanno assistito impotenti alla veloce ascesa di Veltroni. E hanno lavorato a fare in modo che anche la sua discesa fosse altrettanto veloce. Insieme hanno avuto la meglio. Costituita l’associazione dei parlamentari dalemiani ReD, a presiederla è stato chiamato il senatore ultrapordiano De Castro. Che, a Veltroni fatto fuori, è stato imposto da D’Alema come capolista nella circoscrizione Sud per il Pd alle Europee,
dentikit dei capofila democratici del governo dell’Unione, un quartetto dal profilo robusto, molto caratterizzato sia nei contenuti che nella strategia politica. Iper-concertazione confederale contro riforme del mercato del lavoro, politica fiscale su disegno Visco e attacco alle medie imprese del Nord che non pagano le tasse, guerra ai tassisti e difesa dell’Eni, modello tedesco contro tentazioni Scelte semipresidenzialiste. coerenti su un’idea di Paese da prospettare che denotano una compattezza, al momento, ignota ad altri nel Pd. Se poi passiamo al dibattito politicista tutto
interno al Nazareno, gli elementi di comunanza aumentano. D’Alema e Prodi hanno avversato con forza la vocazione maggioritaria predicata da Veltroni, contrapponendole la politica delle alleanze. A un Pd che pretenda di competere direttamente con il Pdl e, solo in conseguenza di ciò, produca un progetto di alleanze per il governo, essi ne prediligono uno che si faccia asse “riformista”di una coalizione che tenga dentro estrema sinistra e componenti di centro. Una crescita del Pd non è perseguita in ragione della constatazione di fondo, di carattere sociale e quasi antropologica, che l’Italia sia una nazione irrimediabilmente di destra, che solo le alchimie parlamentari possono lasciare governare al centrosinistra. Dalla desistenza di Bertinotti del ’96, passando per il ribaltone di Mastella di due anni dopo, fino alla tenacia dei senatori a vita della stagione 2006-2008. Con la confusione che regna tra chi (Franceschini, Fioroni, Veltroni, Fassino) dovrebbe avversare l’asse D’Alema-Prodi, si può dire senz’altro che Bersani parte oggi in pole position per la conquista del Nazareno.
Discettando di poesia, religione e ideologia. Lettera aperta all’amico Guarini
Caro Ruggero, chi è il tuo Dio?
L’
divini disegni” che “decifrare a noi non tocca” si sente - perché la poesia si sente - quel sentimento religioso, vitalistico e anti-ideologico, che è la fonte umana del “vasto acquitrinio”.
Caro Ruggero, quando l’altro giorno mi hai dato, a sorpresa, il tuo libro di poesie, l’ho sfogliato con la diffidenza con la quale sono solito scorrere le raccolte di versi. Un tale diceva che in un secolo i poeti si contano sulle dita di una sola mano e siccome di libri di poesie se ne pubblicano non pochi, anche se se ne vendono di meno, la diffidenza è quasi un obbligo morale. È vero che l’uomo nasce poeta, ma è altrettanto vero che una volta cresciuti, il poeta che è in noi ci saluta e ci abbandona alla prosa della nostra vita adulta. Il poeta che è in te non ti ha abbandonato. Può darsi che i tuoi versi siano solo un gioco e che tu li abbia immaginati e fermati sulla carta solo per passare il tempo alla bene e meglio; eppure, leggendoli e gustandoli e seguendo le immagini del “vasto acquitrinio” e “l’ascosa logica dei
Si può parlare di Dio parlando di un vermettino? È quello che fai raccontando la storia della redia - il vermettino che “vive nei nostri stagni” e “naviga senza posa come se stesse cercando qualcosa” ossia la lumaca d’acqua o lumacuzza nei cui polmoni “come in ricca provvida casa” il vermettino si conficca nutrendosi del sangue della lumacuzza “che intanto langue” e cosi il vermettino si tramuta - cosa arcana e terrificante - e genera nuovi micidiali infinitesimali animalucci tutto “sesso e fame”. La lumaca d’acqua muore e i vermetti vivono e in questa “girandola mor-
articolo che segue vorrei scriverlo come una lettera. Una lettera pubblica, ma pur sempre una lettera. Ci sono cose che sono dette meglio se sono dette con lo stile del colloquio epistolare. La lettera è indirizzata a Ruggero Guarini del quale l’editrice “il notes magico”ha pubblicato il poemetto Chiunque tu sia.
tale”, che crea e distrugge e crea attraverso la distruzione, “il dio degli acquitrini” non ha ancora compiuto tutti i suoi “disegni divini”, così mentre la lumacuzza, moribonda, col suo guscio affonda, i vermetti vanno verso la “silente riva” e qui “una pecora arriva” bruca e ingozza anche i perfidi vermetti e la “girandola mortale” continua a far girare la ruota dell’eterna vita mortale. Il dio degli acquitrini è il tuo Dio?
Sembra anzi è il Deus sive Natura di Spinoza o quella natura lucreziana e leopardiana che non solo è indifferente al destino degli uomini ma lo ignora del tutto e gli uomini, poverini, che ritengono di pensare e avere così nelle loro mani la ragione del tutto e il segreto dell’universo, altro non sono che vermettini e lumacuzze e pecorelle. Ma perché stare qui a
fingere di fare la critica testuale del tuo poemetto? Più semplice è goderselo, qualunque cosa esso sia.
La poesia e la filosofia, anche nelle loro rivelazioni disumane e oltreumane, portano con sé un dono: quello di addolcire e dunque umanizzare le cose arcane e terrificanti. L’umanità - dice Nietzsche da qualche parte e se non lo dice fa lo stesso - è una malattia della pelle delle terra. La vita dell’uomo vista con occhi che vanno al di là del bene e del male è una cosetta naturale che gira nell’indifferenza della “girandola mortale”. Tuttavia, la possibilità che abbiamo di dire l’arcano e di “bisbigliare la parola dio” - chiunque tu sia ci dà la benefica illusione che la nostra umana condizione non sia del tutto priva di buona sensazione e miglior cogitazione. “Ma se sapessi, Signore, chi sei/ e chi son io e cos’è questo e quello,/ che cosa, dimmi, potrei/ fare di brutto o di bello?”. Nel mondo, certo, non tutto va come dovrebbe, ma tu, Signore, fa che io non lo faccia sembrare più scemo e brutto sprecando il fiato con cui potrei, lodandoti, rifare me stesso e ingentilire il creato.Valga per me, Ruggero, quel che dice per te.
panorama
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Mercati. Negli ultimi anni, la produzione di vetture ha subito un netto declino: dal 2000 al 2008, un decremento del 53,8%
Il Lingotto ha bisogno di produttori stranieri di Andrea Giuricin incontro tra i vertici Fiat e il governo, tenutosi ieri a Palazzo Chigi, sembra confermare la vocazione sempre più internazionale del gruppo automobilistico italiano; mentre le vendite del produttore italiano continuano a migliorare, tanto che la quota di mercato in Europa è salita al 9,2 per cento nei primi 5 mesi dell’anno rispetto all’8,2 per cento dello stesso periodo dell’anno precedente, la produzione è sempre più delocalizzata.
te, essendo il secondo mercato dietro la Germania, con oltre 2,1 milioni di immatricolazione nel 2008. La prima lezione dai dati di produzione è quella che non è tanto importante avere un marchio nazionale, quanto sapere attrarre produttori che vogliano investire per sviluppare un business molto difficile.
L’
Per comprendere bene il dialogo instaurato tra governo ed azienda, è bene studiare il fenomeno di abbandono della produzione di automobili dall’Italia da parte di Fiat e la non sostituzione con altre case automobilistiche straniere. Andando ad analizzare i dati di produzione, si nota come la produzione di automobili in Italia, abbia subito un declino importante negli ultimi anni; se nel 2000 il nostro Paese produceva 1,42 milioni di autovetture, nel 2008, secondo i dati Acea, ne produceva meno di 660 mila con un decremento del 53,8 per cento.
La responsabilità non è tanto quella del gruppo Fiat, quanto della politica che non è stata in grado di attrarre gruppi industriali dall’estero Confrontandoci con gli altri Stati europei, si vede quanto sia poco importante la nostra produzione; nel 2008 in Germania sono uscite dalle aziende automobilistiche circa 5,5 milioni di autovetture, mentre in Francia oltre 2,1 milioni di vetture. Anche in Spagna ed in
Gran Bretagna che non hanno delle grandi case automobilistiche nazionali, si sono prodotte rispettivamente 1,9 e 1,4 milioni di auto.
L’Italia rimane uno dei maggiori Paesi per quanto riguarda il numero di vetture vendu-
L’Italia produce meno autovetture del Belgio e della Polonia. La responsabilità non è tanto quella del gruppo Fiat, quanto della politica che non è stata in grado di attrarre produttori non italiani. La produzione di autovetture in Italia è totalmente dipendente dal gruppo Fiat; l’azienda torinese nel 2000 produceva il 95 per cento delle auto “italiane”, mentre nel 2007 la quota era salita al 97 per cento. La totale dipendenza dell’Italia da Fiat è certamente un punto debole. Analizzando i dati tra il 2000 e il 2007, la Fiat ha deciso di spostare i propri centri di produzione, laddove la tassazione è meno forte e soprattutto le regole sono più certe. I dati sono inequivocabili; nel
2000 delle 1,42 milioni di auto prodotte in Italia, 1,36 milioni erano del gruppo Fiat. Nel 2007, a fronte di una produzione italiana di 910 mila autoveicoli, circa 890 mila erano di marchio Fiat Automobile. La caduta è stata di circa il 35 per cento sia della produzione italiana che della produzione italiana di Fiat. Questi dati dunque evidenziano quanto l’incapacità dei diversi governi di non aver saputo attrarre case automobilistiche estere e di conseguenza si sia resa l’Italia “automobilistica” dipendente da Fiat; ma la produzione italiana e quella Fiat, sono in realtà piccola cosa rispetto a quella che si registra in altri Paesi europei.
È bene dunque che il governo Italiano, al posto di aiutare con una cassa integrazione mirata Fiat, rischiando di andare incontro all’ennesimo aiuto di Stato, ripensi totalmente la propria politica in campo automobilistico e finalmente cominci ad attrarre nuovi produttori stranieri sul nostro territorio, eliminando tutti quei vincoli che ingessano il nostro mercato.
Partiti. Si allarga la crisi regionale del Popolo della Libertà. E Miccichè fonda un “raggruppamento”
Il Pdl siciliano si spezza in cinque di Ruggiero Capone è ulteriormente allargata la crisi in seno al Pdl siciliano. Mentre da più ambienti romani del centrodestra piovono appelli per una riconciliazione, Lombardo gongola per gli insuccessi del Pdl. Così due giorni fa, dopo il vertice dei deputati del partito all’Ars, convocato dai coordinatori regionali Castiglione e Nania, il presidente della Regione ha commentato: «È stato un flop alla grande, continuando di questo passo finiranno con estinguersi». Il commento ha letteralmente compromesso ogni intesa tra Lombardo e Alfano. Ma la cosa non dispiace affatto al presidente della Regione Sicilia che, a quanto pare, vorrebbe chiarirsi personalmente solo con Berlusconi. «Andrò avanti - dice Lombardo - invito una parte del Pdl, corrente Castiglione-AlfanoNania, se vogliono ragionare, ad affidarsi a Berlusconi, con il quale dovrò incontrarmi prima o poi».
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Nel frattempo il sottosegretario Gianfranco Miccichè, in rotta col vertice regionale del partito, ha raccolto nel trapanese 300 fedelissimi per fondare il “raggruppamento sicilianista”. Schierato contro il Pdl ed a fianco del governatore. È già stato ribattezzato Pgm (Partito di Gianfranco Miccichè), può contare sull’apporto di tre assessori regionali, 10 consiglieri regionali, una manciata di sindaci e cir-
Almeno 20 deputati dell’Ars (su 34) sarebbero ormai, più o meno segretamente, iscritti alla “fronda” di Lombardo e del sottosegretario
Lombardo ha le idee chiare, e pare voglia completare la sua giunta con uomini non certo graditi a Nania, Alfano, Schifani e Castiglione. La cosa è chiaramente una totale chiusura al dialogo con i referenti siciliani del Pdl.
ca 50 fra presidenti di enti, manager ospedalieri, assessori e consiglieri comunali e provinciali. Notizia che ha letteralmente gelato Schifani ed Alfano. L’unico che spera ancora in un dialogo con Lombardo e Miccichè è Domenico Nania. Invece Castiglione pare cerchi di compromettersi il meno possibile, riversando così le colpe dell’accaduto sui suoi capi (Alfano e Schifani). Una situazione che, se durasse fino a settembre, potrebbe condurre nuovamente i siciliani alle urne. Il fatto che solo 14 deputati su 34 abbiano partecipano alla riunione voluta dai coordinatori regionali Castiglione e Nania fotografa come Lombar-
do e Miccichè non vogliano assolutamente un chiarimento con Alfano e Schifani.
In mancanza di un interessamento personale di Silvio Berlusconi, il Pdl siciliano s’è spezzato in almeno cinque formazioni (gruppi) nell’Ars. Soprattutto l’assenza dei cinque deputati del gruppo Miccichè testimonia la volontà d’affondare gli intermediari. Che Alfano e Schifani non abbiano più presa sugli eletti emerge soprattutto dalla latitanza dei parlamentari dell’area Stancanelli-Briguglio: Scilla, Incardona, Currenti e Falcone. Anche due deputati di An (Aricò e Marrocco) fanno ormai parte della fronda Lombardo-Miccichè. E mentre Castiglione ha invitato a non dare peso alle assenze, qualcuno ha sottolineato come ben 20 deputati regionali su 34 siano ormai (più o meno segretamente) iscritti al partito di Lombardo-Miccichè.
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il paginone
Con la sua poesia, ha lambito tutte le grandi regioni del Continente unifica
Shakespeare
opo l’esito per molti versi disastroso delle elezioni europee, e ci riferiamo al più grande astensionismo registrato nella storia di tali consultazioni, crediamo sia doveroso chiedersi se esistano autentiche prospettive politiche nel Vecchio Continente. Il vincitore è proprio il “partito che non c’è”, che in questa occasione si è più che mai imposto come vero problema europeo. È significativo che il nostro Paese sia fra quelli che registrano da sempre una fra le più alte percentuali di votanti, che comunque si è abbassata del 7%. Se poi si pensa ai soldi e alle energie che sono state investite per tali elezioni, allora è lecito chiedersi: sarà possibile ricercare una vera Europa politica? Che senso potrà avere una Unione europea ferma alla moneta unica e a un mercato comune, senza un sufficiente connotato politico?
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È evidente che si tratta anzitutto di un problema politico-culturale: se soltanto il 43,39% ha votato per l’Europa, è chiaro che una identità europea è ancora lontana, e le frange estremiste potrebbero apparire come gli strascichi di una seconda guerra mondiale, l’ultima guerra civile continenta-
le. In tal senso un grande supporto potrà provenire dal fondamentale retaggio culturale che l’Europa, memore della propria storia, è tenuta a ricercare e rimarcare anche come essenziale programma politico. E se parliamo di Shakespeare ci riferiamo anche a Shakespeare and Company, intendendo per questi ultimi semplicemente i più grandi autori e artisti di ogni tempo, quindi la grande arte e cultura europea. Tuttavia riteniamo sia giusto e opportuno un focus peculiare su Shakespeare. Non perché sia latore di una ideologia da seguire, ma al contrario perché ci stimola verso una interrogazione etica ed estetica: siamo certi che Shakespeare, più che ogni altro grande poeta e (abissale) filosofo, possa rappresentare un viatico di straordinaria importanza per le nostre prerogative politiche e culturali, artistiche e sociali. Perché? Semplice: Shakespeare è l’autore più letto e seguito del mondo, in particolare nell’Occidente, il «centro del suo canone» come ha scritto Harold Bloom. È l’autore teatrale più rappresentato nel mondo, e nei suoi testi scorgiamo una modernità che supera lo stesso secolo XX, anche dal punto di vista politico. E noi italiani siamo in tal senso privilegiati, anche per quello che è realmente l’epicentro storicogeografico del teatro shakespeariano, certamente il nostro Paese. Non solo per quello che riguarda le radici della Roma antica (con le 4 grandi tragedie romane e le due appendici Cimbelino e Re Giovanni), ma ancor più per l’Italia medioevale e rinascimentale che – tra Milano e il Veneto, Napoli e la Sicilia – rappresenta la vera grande ambientazione della maggior parte dei suoi lavori, se si escludono i drammi nazionalistici. Ma è noto come anche nelle tragedie nordiche - si pensi ad Amleto, Macbeth e Re Lear il retaggio dell’Italia e della romanità (con Plauto e Seneca, Dante e Boccaccio) risulti fortissimo. Così con le sue propaggini, che hanno influenzato semplicemente tutto il teatro, la letteratura e la filosofia occidentale, Shakespeare arriva direttamente a noi spaziando per tutta la storia e la geografia europea: dalla grecità del Sogno, di Pericle e di Timone d’Atene alla fine della
È stato anche un autore squisitamente politico, moderato. In tal senso contiene quello che dovrebbe essere interpretato come il vero teatro politico del XXI secolo civiltà ellenistica decantata in Antonio e Cleopatra. Dalla crisi della cultura cristiano-medioevale, di cui massima espressione è Riccardo II, all’indagine cristiano-borghese e religiosa del Mercante di Venezia e di Romeo e Giulietta.
Con Troilo e Cressida, poi, il Bardo di Stratford sembra anticipare tutte le avanguardie del Novecento, in quella geniale parodia ed esplicita dissacrazione dell’Iliade. Nel suo straordinario senso geografico Shakespeare ha lambito tutte le grandi regioni europee, dalla Grecia alla Gran Bretagna, dalla Spagna del Pene d’amor perdute alla Francia (Tutto è bene quel che finisce bene, Come
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andole culturalmente. Un suo “ritorno”, forse, può riaccomunare le coscienze comunitarie...
salverà l’Europa? di Franco Ricordi
È per l’Europa di oggi quello che ha rappresentato Verdi per l’Italia risorgimentale: una forza etica ed estetica che ci aiuta a concepire le diverse possibilità del «VecchioNuovo Continente» A sinistra, nella pagina a fianco, un’immagine di Shakespeare; in alto, un’illustrazione di “Romeo e Giulietta”; qui sopra, Kierkegaard e Kleist; sotto, Goethe e Schlegel
vi piace) alla Polonia, Danimarca e Scandinavia (Amleto), toccando l’Est Europeo anche con l’Illiria e la Boemia (La dodicesima notte, Il racconto d’inverno), e intravedendo anche Cipro (Otello) e avvertendo il problema africano (La Tempesta) come quello dell’Asia minore.
E in questa maniera ci ha fornito la prima grande cartina e problematica geo-politica dell’Europa. Ma Shakespeare è anche un autore squisitamente politico, e in tal senso moderato, che contiene quello che dovrebbe essere interpretato come il vero teatro politico del XXI secolo: dopo la crisi storica dell’ideologia marxista, il teatro politico (che la sinistra
oggi non chiama più così, tentando di alleggerire il duro termine in teatro civile) si è ormai inevitabilmente ridotto in un minimalistico rimpianto alla “grande freddo”, ovvero in un nostalgico avamposto da vero e proprio comizio scenico, come accade ancora oggi nelle non sempre esaltanti pièce del grande attore Dario Fo. Quella che il regista Massimo Castri scriveva dover essere l’unica dimensione del teatro politico - la sinistra per la sinistra, in cui il teatro doveva addirittura annientarsi per il raggiungimento della società senza classi - non solo è fallita, ma si è purtroppo tramutata in una arrogante e burocratica occupazione di postichiave nel teatro del nostro paese, in particolare sul settore pubblico. Tanto più risulta lecito paventare oggi la possibilità di una cultura o teatro della destra, che voglia imporsi magari esaltando lo show business universale, e che minaccia di sostituire 24 secoli di teatro occidentale attraverso la spettacolarità mediatica. È invece la straordinaria potenza del teatro politico shakespeariano che sprigiona una visione super partes, come scriveva Coleridge a proposito del Coriolano e come rilevato recentemente anche da Krippendorff nel libro Shakespeare politico. Ma al contempo non può sfuggire il grande discorso etico-estetico sul peculiare senso della misura e della moderazione che promana da quasi tutte le sue tragedie e commedie, e che si sublima tematicamente in quella che consideriamo il vero capolavoro politico della maturità, il cui titolo è appunto Misura per misura. La folgorante ambientazione viennese di tale dark comedy, quasi una premonizione di una moderna biopolitica che passa per la lezione di Freud, ci apre gli occhi sopra una problematica est-europea, una Oestpolitik ante-litteram, che certo rappresenta più che mai il futuro delle nostre possibilità di Unione. Shakespeare è per l’Europa di oggi quello che può aver rappresentato Giuseppe Verdi per l’Italia del Risorgimento: una forza etica ed estetica che ci aiuta a concepire le possibilità del Vecchio-Nuovo Continente. E se Verdi infiammò gli animi del Risorgimento col suo anelito alla libertà italiana, non possiamo fare a meno di pensare al Bardo di Stratford per la nostra nuova coscienza e libertà europea. Del resto Verdi è stato il primo grande interprete di Shakespeare in
Europa, non soltanto con le sue straordinarie opere direttamente tratte da lui (Macbeth, Otello e Falstaff), ma anche attraverso il senso più profondo della sua drammaturgia musicale che, anche quando ispirata dagli altri suoi principali autori – che sono stati Schiller e Victor Hugo – non si è sottratta alla vera e propria lezione shakespeariana che promanava direttamente da costoro. Dobbiamo in tal senso rivalutare Verdi come l’autentico “Shakespeare italiano”, e l’occasione del 2013 come bicentenario della sua nascita potrebbe aggiungersi a tale programma politico-culturale.
Così teatro e cinema (e anche la decima musa è stata molto ispirata), melodramma e poesia, sedimentano ancora oggi la grande drammaturgia shakespeariana che estende la propria influenza a tutta la storia del pensiero moderno-contemporaneo, soprattutto in area centro-nordica: da Lessing a Herder, da Kierkegaard a Goethe, da Kleist a Schlegel e Strindberg, ma anche nei filosofi dall’idealismo all’esistenzialismo (Hegel, Schelling, ma in modo particolare Nietzsche, in cui Shakespeare ritorna costantemente ispiratore nelle tre diverse fasi del suo pensiero), per finire a tutti i più importanti pensatori contemporanei, fino a Jaspers, Levinas e Cioran, l’ascendenza shakespeariana è stata potentissima. Comprendere questa grande sedimentazione di Shakespeare dell’età in cui viviamo non rappresenta per noi europei soltanto un esercizio estetico tanto meno stilistico, ma un fondamentale viatico etico-politico che siamo chiamati ad interpretare. In questo senso Shakespeare e il suo retaggio possono garantire una autentica presa di posizione culturale, che ci potrà aiutare a definire l’identità dell’Europa. Una Europa politica che non esiste ancora, che tarda a rendersi conto dell’importanza strategica che i beni e le attività culturali rappresentano per essa, anche perché spesso gestiti da persone e da strutture assolutamente incompetenti. Ma se perderà quest’occasione l’Europa non avrà mai coscienza di sé: diventerà Eurolandia, terra dell’Euro come moneta unica, quello che è oggi; ma la vera Europa è tutt’altro. E lo dimostra il fatto che, pur avendo in realtà l’Euro tenuto assai bene alla crisi finanziaria d’oltre Oceano, nella coscienza politica dell’Europa l’astensionismo ha segnato il record del vuoto politico. Ciò dimostra come la questione politica europea sia anzitutto questione culturale. È una question, come quella di Amleto, dalla quale non ci si potrà sottrarre: L’Europa è Amleto, scriveva Paul Valéry. E allora seguiamo Shakespeare per la sua Unione, e prepariamoci ad una sua interpretazione non superficiale e mediocre, come quella che spesso viene suggerita dai tempi che corrono.
mondo
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Iran. Oggi l’onda verde si ferma. I pasdaran invitano tutti ad ascoltare le parole (decisive?) della “Guida Suprema” del Paese
Il giorno di Khamenei Ancora centinaia di arresti. La partita del potere ora si gioca nella città santa di Qom di Luisa Arezzo a “rivoluzione verde” dell’Iran, che ormai da una settimana scuote le strade di Teheran al grido di “dov’è il mio voto”, e che ieri, guidata da Mousavi, ha sfilato in silenzio in segno di lutto per la morte di alcuni manifestanti nei giorni scorsi, oggi si ferma. E punta gli occhi sulla guida suprema della Rivoluzione islamica, l’Ayatollah Ali Khamenei, che stamattina parlerà nella capitale durante la preghiera del venerdì. E che probabilmente chiarirà quale sia la posizione del clero islamico nei confronti della contestazione del voto che ha visto eletto il presidente Ahmadinejad. Non a caso, l’Ayatollah arriva da Qom, la città santa dell’Iran. E non c’è dubbio che la questione centrale per capire quale sarà l’esito delle manifestazioni di protesta in Iran è proprio definire la posizione dei religiosi di Qom. I mullah, infatti, sono finora rimasti in maggioranza silenziosi, con poche eccezioni a favore dei sostenitori del leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi. D’altronde, sotto la direzione dei mullah di Qom, nei seminari della città santa vi sono migliaia di studiosi di teologia di orientamento conservatore che ricevono generosi sussidi dal governo. E che si presume siano nettamente a favore di Ahmadinejad.
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Non a caso, nei giorni scorsi Mousavi gli ha inviato una lettera per chiedergli di appoggiarlo sulla revisione del voto, un modo sottile per ricordare che Khamenei non ha un solido curriculum religioso essendo stato nominato in tutta fretta ayatollah prima della sua investitura come leader supremo. A rispondergli, fino a questo momento, solo due ayatollah: Youssuf Sanai, che ha detto di appoggiare l’idea di «proteggere e assicurare il rispetto del diritto e del voto del popolo», e Asadollah Bayat Zanjani, che parlando di «gravi ingiustizie» ha deplorato che negli ultimi anni «i valori della rivoluzione siano stati defor-
mati». A perorare la causa di Mousavi presso i religiosi, tuttavia, e questo potrebbe essere il colpo di scena, potrebbe esserci il mullah, nonché ex presidente, Alì Akbar Rafsanjani, la cui longa manus - e sono molti gli indizi che vanno in questa direzione - potrebbe allungarsi fino a farne il coordinatore dell’onda verde che agita il Paese. «Uno dei misteri dietro le manifestazioni di massa di questa settimana - scrive anche il New York Times per mano del suo inviato Neil MacFarquhar - è chi le coordina». E la maggior parte degli analisti puntano il dito contro Rafsanjani, la cui figlia è stata peraltro vista alle manifestazioni pro Mousavi. Non a caso, proprio ieri alcune organizzazioni di studenti fondamentalisti hanno promosso un raduno davanti alla Procura della Repubblica di Teheran per chiedere l’arresto e un processo pubblico per Faezeh e Mehdi Hashemi, i suoi due figli. Perché Faezeh ha tenuto martedì un discorso a decine di migliaia di oppositori di Ahmadinejad che si erano radunati sulla Piazza Tajrish, nel nord di Teheran. E Mehdi ha sfilato in piazza poco dietro Mousavi.
Secondo la Fars «è chiaro il ruolo di Faezeh e Mehdi Hashemi nelle provocazioni, nell’organizzazione di manifestazioni illegali e negli incidenti» avvenuti in Iran da quando, sabato, il ministero dell’Interno ha annunciato il risultato ufficiale del voto. E benché l’arresto non sia scattato, per i due figli di Rafsanjani è scattato il divieto di espatrio. Ma c’è di più: Rafsanjani è apparso stranamente silenzioso in questi giorni e vi sono speculazioni sul fatto che si trovi a Qom (alcuni sostengono di averlo visto) con l’intento di riunire un’opposizione clericale contro il presidente Mahmoud Ahamdinejad. Secondo gli analisti, il messaggio di Rafsanjani all’establishment religioso è che rischiano di venir eclissati dai militari, principali sostenitori di Ahmadinejad e
del leader supremo Ali Khamenei. Rafsanjani, sconfitto da Ahmadinejad alle elezioni presidenziali del 2005, è da allora diventato il capo dell’Assemblea degli Esperti, un organo di 86 persone il cui compito è il controllo dei poteri del leader Supremo e che in teoria potrebbe anche destituirlo. Al momento, il mullah controlla un terzo dell’assemblea, mentre circa un quarto è ritenuto fedele all’ayatollah Mesbah Yazdi, mentore di Ahmadinejad. Gli altri sono considerati indipendenti. E fino a questo momento hanno scelto il silenzio. Ecco perché tutti gli
La questione centrale per capire quale sarà l’esito delle manifestazioni di protesta è definire la posizione dei mullah. Non a caso, l’erede di Khomeini è reduce da un viaggio nella capitale sciita sguardi sono puntati sul discorso che sarà pronunciato oggi dalla guida della Repubblica islamica iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, in modo del tutto eccezionale al posto dello stesso ex presidente Rafsanjani, capo del Consiglio per gli interessi del regime, che avrebbe deciso di
non tenere il discorso perché a favore del candidato perdente alle presidenziali Hussein Moussavi.
Nel suo discorso , Khamenei esprimerà il suo punto di vista sulla controversia riguardante i risultati delle elezioni. E i pasdaran hanno
chiesto ai propri aderenti di partecipare alla preghiera di oggi a Teheran avvisando i candidati alle presidenziali che contestano la rielezione di Ahmadinejad di «dissociarsi esplicitamente dai rivoltosi». La stretta del regime, dunque, potrebbe oggi fare la sua ufficiale comparsa. Anche perché ieri, dopo aver convocato sabato una riunione di tutti e quattro i candidati, il Consiglio dei guardiani della rivoluzione, che vigila sulla regolarità del voto, e che dovrà esprimersi
L’ex presidente è il probabile coordinatore delle manifestazioni e mediatore presso i mullah
La longa manus di Rafsanjani Andrea Margelletti segue dalla prima Ma questo è quello che è apparso a tutti, ai media occidentali, agli spettatori sunniti al di là del Golfo Persico e soprattutto alle decine di migliaia di manifestanti nelle piazze iraniane. Ma la realtà ha anche altre chiavi di lettura, la più importante delle quali è la lotta all’interno del clero sciita: Rafsanjani e Khamenei. Due volti profondamente diversi della stessa medaglia. Nei giorni scorsi l’ex presidente si è rifugiato a Qom. Sembrava il segno di una sconfitta, l’ultimo atto di un uomo che avendo perso la visione del proprio futuro, si rifugiava nelle certezze del proprio passato. Non è stata però una fuga, piuttosto un intelligente passo indietro strategico. Nella città santa al clero sciita ira-
niano, dove ha abitato per lunghi anni l’ayatollah Khomeini, Rafsanjani ha ripreso a tessere i rapporti, ben sapendo in mano a chi sono le vere leve del potere in Iran. Sono il clero e i maestri della legge a dettare ancora oggi i tempi della vita politica, sociale e religiosa in Iran. L’esponente sciita, con un’azione silenziosa ma non meno efficace, è riuscito a portare dalla sua parte numerosi esponenti. In questo insinuando il seme del dubbio di quanto possa essere pericolosa una spaccatura all’interno del fragile mondo iraniano e di quanto il Paese abbia bisogno di unità. L’Iran è a un bivio, l’ennesimo nella sua tormentata storia. Da una parte il desiderio di rappresentare il faro di quella sorta di Rinascimento sciita che è diventato evidente sia
mondo
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Al diplomatico, contrario alla politica della mano tesa, il dossier Iran
Obama sceglie il mastino Ross di Pierre Chiartano otrebbe essere la quadratura del cerchio in Medioriente, almeno per la politica di Obama. Tra la paura d’Israele di non essere più nipote prediletto di zio Sam e la necessità di cambiare l’immagine americana nel mondo musulmano. Sembra proprio che Dennis Ross si stia avvicinando a grandi passi verso la Casa Bianca. Potrebbe essere lui a dover gestire il delicatissimo dossier Iran. Martedì scorso l’anticipazione sul Washington Post, a nome di uomini dell’amministrazione Obama, che annunciavano il trasloco di Ross dal dipartimento di Stato agli uffici prossimi alla Stanza Ovale.
P
sul ricorso presentato dagli oppositori di Ahmadinejad (Mir Hossein Mousavi, Mehdi Karrubi e Mohsen Rezaei) ha detto che «I nemici dell’Iran cercano di creare disordine perché sono arrabiati per la grande partecipazione del popolo alle elezioni». Non si ferma, intanto, l’ondata di arresti, tra i quali Ebrahim Yazdi, ministro degli Esteri nel primo governo dopo la rivoluzione del 1979. L’agenzia di stampa Isna, citando funzionari provinciali, parla di 500 persone.
In apertura, un mullah nella piazza centrale della città santa di Qom. Dall’alto: manifestanti iraniani ieri a Roma, l’ayatollah Alì Khamenei e l’ayatollah Mesbah Yazdi, mentore di Ahmadinejad. Sotto: l’ex presidente Rafsanjani, indicato come il coordinatore dell’onda verde
in Iraq che in Libano. Dall’altra la necessità di rappresentarsi come superpotenza regionale in continua antitesi con lo storico nemico di sempre, l’Arabia Saudita, governata dall’ultraortodossa sunnita casa regnate. Per fare tutto questo, e contestualmente influenzare il processo di stabilità in Afghanistan, non è sostenibile provarci esclusivamente con le risorse dei servizi segreti o con l’aiuto della Corea del Nord. Per realizzare i propri obiettivi Teheran deve dotarsi di alleanze strutturate e non occasionali. Per questo occorre un serio cambio di marcia. Questo ha intuito Rafsanjani che, in maniera assolutamente straordinaria, con la saggezza e la sagacia di chi ha vissuto molte stagioni, ha accusato il presidente iraniano di modernismo occidentale. Questa è la chiave del suo successo. Essere riuscito a convincere importanti elementi del clero che la vittoria di Ahmadinejad, sostenuto proprio dalla realtà religiosa maggiormente oltranzista, sia macchiata dal delitto del laicismo occidentale. E questo una nazione manifestatamene teocratica non può proprio permetterselo.
Già a Foggy Bottom (sede di Washington del dicastero Esteri americano) l’inviato speciale era l’uomo di punta per Iran e Medioriente. Evidentemente solo una tappa intermedia. Il suo trasloco sarebbe giustificato - sempre secondo le fonti ufficiali - «per attuare un miglior coordinamento della politica presidenziale» dalla postazione del National security council, l’organo consultivo più vicino alla stanza dei bottoni di Obama. Iran, Paesi del Golfo e Sudest asiatico sono le competenze di un consigliere che già ai tempi dell’amministrazione Clinton sia era fatto notare, soprattutto nella delicata vicenda israelo-palestinese. Poi era passato anche alla gestione di Gorge W. Bush, a dimostrazione che le sue qualità diplomatiche fossero universalmente riconosciute, almeno a Washington. Percepito vicino a Paul Wolfowitz - lavorò con lui sotto Carter e Reagan - era considerato non lontano dagli interessi di Gerusalemme. Negli scorsi giorni erano trapelate voci su una sua rimozione proprio dalla stampa israeliana, poi smentite dall’amministrazione Usa. Proprio questa sua sensibilità verso Israele era stata uno dei motivi che avevano scatenato qualche polemica, nel gennaio scorso, quando Obama aveva deciso di nominarlo inviato speciale per il Medioriente. Rientrava così al dipartimento di Stato, lasciando l’incarico specifico sul processo di pace tra palestinesi e israeliani, per un ruolo di «ambassador-at-large» su di un ventaglio di temi più vasti che comprendeva anche il delicatissimo dossier iraniano. Da sempre molto critico verso Hamas e fautore di una politica antinucleare per Teheran. Dialogare sì, ma tenendo lontane le mani dei mullah dall’arma atomica. Ed è convinto che sia una delle più alte aspirazioni non di Ahmadinejad, ma del ledaer supremo l’ayatollah Khamenei. Forse un messaggio di Obama a Gerusa-
lemme dopo le aperture del Cairo fatte al mondo arabo. Un modo per lanciare segnali di fumo agli israeliani e tranquillizzare quei democratici, ma non solo, che sponsorizzano un cambiamento radicale nella politica estera Usa in Medioriente. Ross conosce bene il mondo arabo e la diffidenza di certi ambienti, dove si porta sempre ad esempio Fouad Sinora, il premier libanese e Mikheil Saakashvili, presidente georgiano, per criticare Washington e il suo pre-
Cambio di rotta: sarebbe vicino il trasloco di Dennis Ross da Foggy Bottom alla Casa Bianca sunto vizio di lasciar soli alleati nei guai, come ebbe modo di scrivere lo stesso Ross su Neewsweek qualche mese fa. Per l’inviato speciale «l’Iran ha proseguito nel suo programma nucleare perchè l’amministrazione Bush non aveva esercitato una sufficiente pressione». Le sanzioni dell’Onu negli ultimi tre anni avrebbero il difetto di essere concentrate sull’industria nucleare e missilistica e non «su tutta l’economia», secondo l’analisi dell’ex esperto di «casa Russia» che vede la soluzione nel compattamento dell’azione della Ue, Giappone, Cina e Arabia Saudita, pensando un po’meno all’Onu.
«Più Washington si farà vedere impegnata sulla questione iraniana, più questi alleati premerranno su Teheran». Quindi il messaggio di Obama, dopo le grandi aperture al dialogo e la recente vicenda delle manifestazioni di piazza in Iran, è doppio. Sì, alla mano tesa, ma senza illusioni. Il ”mastino”Ross è pronto a mordere.
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Esclusivo. Il presidente del Pakistan racconta a liberal come ha intenzione di battere i talebani
«Al Qaeda? come le vostre Br» di Sergio Cantone
BRUXELLES. Nel primo vertice fra Ue e Pakistan, mercoledì il presidente pachistano Asif Ali Zardari ha “portato”a casa 65 milioni di euro per aiutare gli sfollati delo Swat che, secondo l’Onu, sono almeno due milioni e mezzo. «Siamo determinati ad andare avanti. La sconfitta è un’opzione che non consideriamo», ha detto il presidente del Pakistan, vedovo di Benazir Bhutto. Che in questi ultimi due mesi ha rotto quello che sembrava essere un (nemmeno troppo) ambiguo atteggiamento verso i terroristi di al Qaeda asserragliati nella Valle dello Swat. E visti più come un possibile alleato che una vera minaccia. Da due mesi però la musica è cambiata. E sia gli attacchi militari contro la roccaforte islamica, sia la recente mano tesa al nemico di sempre, l’India, indicano un’inversione di rotta. Presidente, chi teme di più: l’India o i talebani? Prima di tutto non ho paura di nessuno. L’India è una realtà, così come lo è il Pakistan, ma i talebani sono una minaccia. Di più: una minaccia internazionale per il mondo e per il nostro stile di vita. Ecco perché sono concentrato su di loro. È una deriva che sta andando avanti da troppo tempo ed è diventata incontrollata durante la dittatura dell’ultimo presidente, Musharraf. Ho intenzione di porre fine a questa deriva, così come voi italiani avete messo fine alla lotta contro lo Stato lanciata negli anni passati dalle Brigate Rosse.
“
Se non affrontiamo il problema delle madrasse, temo che la situazione possa sfuggirci di mano e investire l’intero Occidente. L’Ue lo ha capito
”
Pensa che anche gli Stati Uniti abbiano commesso degli errori? Credo che errori siano stati compiuti da entrambe le parti e che ognuno abbia imparato da essi. È giunto il momento di andare oltre. Gli accordi di Malakan rappresentano una soluzione per contrastare i talebani? Penso che gli accordi di Malakan ci abbiano dato l’occasione di esser seguiti dalla popolazione. Dopo l’accordo, la gente di Malakan ha respinto i talebani, perché sapevano che il governo era disposto ad andargli incontro, cercando la pace, visto che l’aggressione e l’attacco militare non sono di per sè soluzioni. Sicchè abbiamo avuto un dialogo politico, abbiamo parlato a tutti quelli che avrebbero dovuto abbandonare le armi, i «riconciliabili» come li ha definiti il resto del mondo. Ma naturalmente non erano poi cosí disposti a diventare «riconciliabili». E allora perché gli Usa hanno criticato questo accordo? Perché non hanno capito le dinamiche locali della situazione, che ci dicono che dobbiamo vivere con questa gente e loro devono vivere con noi. Ci apparteniamo a vicenda. La persone che abitano in quest’area sono stranieri al 30% e“indigeni”al 70%. Ecco perché bisogna parlare con loro e farli diventare quanto più possibile«riconciliabili ».
Allude che la Guerra contro I talebani passa attraverso la concessione dell’applicazione della Sharia in regioni intere di un Paese laico come il Pakistan? Non si è mai trattato della Sharia. Ecco dov’è il fraintendimento. Era semplicemente accesso a una giustizia più veloce, altroché Sharia. Teme che i talebani possano sottrarle il potere? Se la situazione ci sfugge di mano e la guardo da un’altra angolazione, sì. Il cancro della talibanizzazione si va diffondendo e non solo in Pakistan, ma anche nel resto del mondo, questa è una minaccia autentica e bisogna esserne consapevoli Condivide la preoccupazione dell’Unione europea sulle madrasse nelle aree tribali che stanno diffondendo l’interpreatzione religiosa talebana? Sì, la condivido e proprio per questo ho chiesto aiuto, perché secondo i calcoli più recenti, ce n’erano circa ventimila. Per me è un fenomeno del tutto nuovo, che non esisteva finché l’Occidente non ha comincia-
to a combattere quella guerra. Quando hanno cominciato a combattere, è stato immediatamente creato il modello di reclutamento delle madrasse che adesso è andato oltre ogni immaginazione. Abbiamo bisogno di appoggio dalla comunità internazionale per combattere il fenomeno delle scuole coraniche. Che genere di aiuto volete? Abbiamo bisogno di aiuti economici per offrire gli stessi servizi offerti dale madrasse, con scuole moderne. Loro accettano i bambini e pagano i genitori per inviare i figli nelle madrasse. Dobbiamo fare la stessa cosa.
“
Cosa penso della situazione in Iran? A dire il vero, al momento non sono abbastanza informato. E dunque niente in particolare
”
Cosa pensa della strategia della Nato in Asia meridionale, Afghanistan e Pakistan? Devono diventare più responsabili, devono essere più comprensivi, perché questa non è né la Corea, né il Vietnam. Questa guerra deve essere combattuta lí dove si trova, altrimenti i terroristi li seguiranno (gli occidentali) fino a casa loro. Considera ancora l’India una specie di minaccia militare? La questione non è di considerare l’India una sorta di minaccia militare o meno, la questione è che l’India ha un potenziale. E questo è quello che conta. Per quanto riguarda le intenzioni, penso che entrambi ne abbiamo. E sono buone. L’India è estremamente preoccupata per le oragnizzazioni terroriste basate in Pakistan. Una di queste organizzazioni si è resa responsabile dell’attacco terroristico di Mumbay, nello scorso novembre. Pensa che sia una preoccupazione giustificata? Penso che abbia un certo fondamento, ma non riguarda certamente il governo attuale. Noi non diamo alcun appoggio a questa organizzazione. L’abbiamo messa al bando. La preoccupa la situazione iraniana? Mi preoccupa la situazione mondiale E l’Iran ? Mi voglia scusare, ma non sono abbastanza informato.
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Per gli esperti e i medici legali i segnali sono inequivocabili
Generico il programma presentato ieri dal presidente Ue
Air France: l’airbus si è spaccato in pieno volo
Barroso bis ecco il piano. Ma si decide il 9 luglio
BRASILIA. L’AF447 di Air France si sarebbe spaccato in pieno volo: è quanto sostengono gli esperti sulla base dei risultati delle autopsie effettuate su alcuni dei corpi delle vittime. Un portavoce della squadra medico-legale brasiliana - in condizione di anonimato - ha spiegato che i corpi delle vittime presentano fratture multiple alle gambe, alle anche e alle braccia. Secondo Frank Ciacco, esperto medico legale che ha lavorato in passato per l’Ufficio americano per la sicurezza dei trasporti (Ntsb), queste condizioni lasciano supporre che l’aereo si sia spaccato in pieno volo. Una tesi alimentata anche dal ritrovamento di grandi pezzi dell’Airbus A330 di Air France inabissatosi al largo del Brasile con 228 persone a bordo nella notte fra il 31 maggio e il primo giugno. Frank Ciacco osserva che i corpi e i rottami sarebbero più frammentati se il velivolo si fosse disintegrato all’impatto con l’acqua. «Normalmente, il ritrovamento di corpi intatti con fratture multiple - a braccia, gambe e anche - è un buon indizio che l’aereo si sia spaccato in volo, soprattutto se si hanno anche rottami di grandi dimensioni». Il quotidiano di San Paolo O Estado de S. Paulo ha scritto ieri, citando inquirenti anonimi, di fratture multiple e del fatto che le vittime sarebbero state ritrovate
BRUXELLES.
Un asse mediterraneo contro i Paesi del Golfo Vertice “a sorpresa” fra Mubarak, Gheddafi e Bouteflika di Antonio Picasso n cartello nordafricano per contrastare quello arabo-saudita. La visita al Cairo di mercoledì, da parte del leader libico Gheddafi e del presidente algerino Bouteflika, era volta a rendere omaggio al loro omologo egiziano, Hosni Mubarak, in seguito alla morte del nipote 12enne di quest’ultimo. Tuttavia, al di là delle motivazioni personali, il summit ha assunto soprattutto un valore politico. Nel momento in cui l’attenzione del mondo è concentrata sui disordini in Iran e sull’eventuale ripresa del cammino di pace nella questione israelo-palestinese, nel cuore dell’Islam si stanno delineando nuove alleanze e nuovi centri di interesse. Da una parte il Paesi del Golfo, sotto l’opulento ombrello della monarchia saudita, si stanno affermando sullo scacchiere internazionale per la loro intensa attività diplomatica. L’esempio del Qatar, che ha saputo gestire e risolvere crisi difficili come quella libanese, è il più evidente. La forza degli emiri poggia sulla loro ricchezza economica, ovviamente legata alle inestimabili risorse di petrolio. Ma non si può dimenticare quanto la stessa posizione geografica di questi Paesi sia favorevole. Di fronte a quell’Iran che, prima con Bush oggi con Obama, resta la fonte delle maggiori preoccupazioni per l’Occidente, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi e soprattutto Arabia Saudita rappresentano una forza di mischia compatta, sulla quale in primis gli Stati Uniti possono contare. L’alleanza con Washington e la reciproca intesa, infatti, non sono fonte di discussione. Ricordiamoci che il sovrano saudita, re Abdullah, è stato il primo Capo di Stato mediorientale incontrato dal Presidente Usa nel corso della sua recente visita nella regione. In questo senso, il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) costituisce il consesso formale al cui interno i ricchi emiri locali si confrontano e decidono una politica comune. Questa collegialità manca totalmente tra gli altri grandi leader arabi, per esempio Algeria, Egitto e Libia. Anzi, i governi di questi Paesi si sono spesso trovati su posizioni contrastanti, sia in seno alla Lega Araba, sia in merito alla
U
gestione delle politiche energetiche in cui sono coinvolti. Tuttavia, i tre regimi condividono una serie di fattori che permetterebbe loro di creare un fronte comune, uguale e contrario al Gcc, se non in termini formali almeno sostanziali. Algeria, Egitto e Libia sono Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Una posizione geograficamente strategica che facilita le relazioni con l’Europa. Ma soprattutto sono governati da istituzioni laiche - ormai anche la Jahamayyriha libica può classificarsi come tale - con un rais molto forte al potere. Questo permette di entrare in relazione con i governi occidentali senza che sulle loro spalle gravi il pregiudizio di regimi islamici troppo inclini alla teocrazia. L’Arabia Saudita, il cui sovrano è il custode della Mecca e di Medina, soffre proprio di questo limite.
Ma non è la condivisione di caratteristiche, bensì la necessità di far fronte comune che potrebbe portare Algeri, Il Cairo e Tripoli ad avvicinarsi e a definire un progetto in concorrenza con l’influenza di Riyadh nella Lega Araba. In questo senso, il precedente storico sul quale appoggiarsi c’è ed è più che solido. Nel 1958, il leader egiziano Gamal Abdel Nasser propose la formazione di una Repubblica Araba Unita (Rau), capace di contenere l’influenza delle potenze occidentali, nonché di svincolare il mondo arabo dalle alleanze a suo giudizio eccessivamente vincolanti della guerra fredda. All’iniziativa aderirono soltanto Egitto, Siria eYemen del Nord e abortì dopo soli tre anni. Oggi però il contesto internazionale è cambiato. Ciononostante, l’unità dei governi locali, o almeno una loro maggiore cooperazione, sembra essere una priorità. Le ambizioni iraniane appaiono molto più pericolose alla Lega Araba piuttosto che all’Ue e agli Usa. La necessità di giungere a una soluzione per la questione israelo-palestinese è ormai improcrastinabile. Altrettanto appare inevitabile definire una strategia collettiva per lo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio. Queste sono le ragioni del summit del Cairo.
Algeria, Egitto e Libia definiscono una strategia per lo sfruttamento di gas e petrolio. E dettano le proprie condizioni
senza o con pochi vestiti addosso. Questo stesso giornale in precedenza aveva riportato che i corpi non presentavano segni di ustioni. Jack Casey, consulente della sicurezza aeronautica ed ex inquirente, ha confermato che l’assenza totale o parziale di vestiti costituisce un indizio significativo. «Se l’aereo si spacca in pieno volo, i vestiti vengono strappati», afferma, aggiungendo che il tipo di fratture rafforza questa ipotesi. «Essere sbalzati fuori è come sbattere contro un muro di mattoni. Anche se si resta attaccati al seggiolino, è come essere schiacciati», ha spiegato l’esperto che ha aggiunto: «Penso che la maggior parte di loro siano morti prima dell’impatto con l’oceano».
Il Parlamento europeo deciderà il 9 luglio se votare per la riconferma di Josè Manuel Durao Barroso alla presidenza della Commissione Ue nella sua seduta inaugurale del 15 luglio. A dirlo il presidente uscente dell’Europarlamento Hans-Gert Poettering, parlando a margine della riunione dei leader del Ppe. «La questione resta aperta. La decisione sarà presa il 9 luglio durante la conferenza dei presidenti di tutti i gruppi» ha detto Poettering. Dal canto suo, ieri Barroso ha condensato la sua Europa che verrà in meno di due pagine. Senza particolari spunti, in una lettera ai leader europei, Barroso ha declamato i sei punti chia-
ve che caratterizzerebbero il suo nuovo mandato: le risposte per far fronte alla crisi economica, gli interventi a favore dell’occupazione, la ristrutturazione dei mercati finanziari, la lotta ai cambiamenti climatici in vista della conferenza di Copenaghen, l’immigrazione clandestina e il nodo del Trattato di Lisbona, con le garanzie giuridiche da offrire all’Irlanda in vista del nuovo referendum di ottobre. «È più che mai il momento per agire - ha scritto Barroso -. Il mondo non aspetterà l’Europa». Nulla di fatto, invece, al vertice del Ppe, tenutosi poco prima della cena del Conisglio. Nel negoziato a tre fra il premier polacco Donald Tusk, l’italiano Silvio Berlusconi e il capogruppo del Ppe, Joseph Daul, durante il quale si sarebbe dovuta cercare “una soluzione politica” per decidere una candidatura unica dei popolari alla presidenza dell’Europarlamento. Restano in campo, dunque, sia il candidato italiano del Pdl Mario Mauro che quello polacco di Piattaforma civica, Jerzy Buzek, con la prospettiva che si decida con un voto quale dei due sarà ufficialmente sostenuto dal Ppe, durante la riunione del gruppo del 7 luglio prossimo.
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dahrendorf 1929-2009
Si è spento ieri, all’età di 80 anni, Ralf Gustav Dahrendorf, uno dei massimi pensatori del Novecento. È stato professore ad Amburgo, Tubinga, Costanza e Berlino, membro del Parlamento tedesco e della Commissione europea, direttore della London School of Economics
Filosofo, politologo, saggista e sociologo. Considerava Kant, Weber e Popper le sue principali fonti d’ispirazione
Il Lord della libertà di Gabriella Mecucci
ifficile raccontare la personalità di un intellettuale poliedrico quale è stato Ralph Darhendorf, morto ieri all’età di ottant’anni. La sua vita e le sue elaborazioni si muovono su piani diversi: dalla politica in senso stretto, alla politologia, alla sociologia, alla filosofia. Ebbe come nemico principale l’idea di eguaglianza e scelse la via del liberalismo contribuendo in modo determinante ad arricchirlo e rinnovarlo. Considerava Kant, Weber e Popper i suoi “maestri”, ma non restò mai fermo, non fu mai pago né tantomeno ripetitivo. Si confrontò con Marx, con grande finezza, ma senza cedimenti di sorta.
D
La sua biografia già di per sé ci dice della vivacità e mobilità continua di quello che è stato uno dei più grandi intellettuali del secondo Novecento. Nato ad Amburgo, oltre che ai suoi studi, si dedicò in prima persona alla politica: fu parlamentare del Partito liberale tedesco e nel 1970 fece parte della Commissione europea. Nel 1988
cambiò nazionalità e diventò suddito di sua maestà britannica che nel 1993 lo nominò Lord con il titolo di “Baron Dahrendorf of Clare market in the city of Westmister”. Numerose le sedi universitarie dove ha insegnato: da Amburgo, a Tubinga, a Oxford. Sir Ralph fu un critico feroce del comunismo, ma non risparmiò nemmeno la socialdemo-
politica vengono depauperati, la società si irrigidisce e diventa incapace di creare quel mondo variegato in cui cento fiori fioriscono».
Accolse dunque il 1989 con la caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti come un momento fondante, anzi rifondante. Non a caso intitolò uno dei suoi libri più importanti e famo-
natura, il suo mutare hanno costituito il punto centrale della ricerca di Darhendorf. «La società – questa la sua definizione più famosa – è nello stesso tempo un sistema integrato e un sistema in conflitto». A partire da qui l’analisi appunto dei conflitti sociali fu continua, anche a rischio di parcellizzarsi, ma senza mai smettere di guardare con l’occhio del liberale a questi
Si confrontò con Marx, con grande finezza ma senza cedimenti intellettuali di sorta, tanto che non risparmiò neppure la socialdemocrazia. Soprattutto, pensava che l’idea di eguaglianza fosse un grave errore crazia e soprattutto – come si diceva – pensava che l’idea di eguaglianza fosse un grave errore. Scriveva: «Nella misura in cui l’uguaglianza domina sia l’agire di coloro cui competono le decisioni, sia il pensiero di coloro che su esse riflettono, si vengono a perdere di vista le differenze che sole possono dare le più grandi chances di vita al maggior numero di persone; e nella misura in cui, a questa maniera, il pensiero e l’azione
si La società riaperta. Chi scrive allora lo intervistò e ricorda una previsione poi verificatasi: la caduta del totalitarismo comunista trascinerà con sé anche una crisi verticale della democrazia. E, non a caso, l’unico uomo di sinistra che portava come esempio di intelligenza e lungimiranza era Tony Blair, colui cioè che più radicalmente aveva riformato il suo partito e il rapporto con i sindacati. Lo studio della società, della sua
movimenti sociali. Al centro di tutto c’era sempre e comunque l’individuo.
«Poiché l’elemento morale del liberalismo – scriveva - è la convinzione che lo sviluppo delle possibilità dell’individuo rappresenti il fine fondamentale del progresso, allora ne consegue che i gruppi, le organizzazioni, le istituzioni sono mezzi finalizzati allo sviluppo individuale». Difficile leggendo que-
ste parole negare – come qualcuno ha voluto fare – che Sir Ralph sia stato un liberale. Resta invece vero che non fu mai indulgente con certi eccessi del conservatorismo, e che, pur credendo nella superiorità dell’individuo e della società sullo stato, dava un valore e un peso importanto anche allo stato. Non mancò nemmeno di criticare certi processi oggi in atto. Aveva ben chiari i problemi della “democrazia sotto pressione”: l’autoritarismo strisciante, il populismo, le burocrazie che strozzano la società, e soprattutto il regionalismo etnico, l’idea delle “piccole patrie” xenofobe. Vedeva rischi per la stessa democrazia. Ha scritto: «I paesi dell’Ocse hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare la coesione delle rispettive società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a re-
dahrendorf 1929-2009
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Per lui il mercato non era una condizione fondamentale per la democrazia
Quel liberalismo “dimezzato” di Carlo Lottieri on la morte di Ralf Dahrendorf, è un intero mondo che se ne va. Già intellettuale di punta del liberalismo politico tedesco prima di trasferirsi in Inghilterra (dove insegnerà per molti anni e infine sarà pure fatto Lord nel 1993 dalla regina Elisabetta), l’autore di Classi e conflitto di classe è stato uno degli intellettuali europei più influenti della seconda metà del Novecento e uno tra i pochissimi che abbiano davvero sentito l’Europa come loro Paese. Formatosi a Londra ed Amburgo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, Dahrendorf è stato un elemento di primissimo livello di quella cultura tedesca che, con la fine della guerra e l’inabissarsi del nazismo, ha progressivamente riannodati i legami con la Germania del passato, precedente l’avvento di Adolf Hitler.
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strizioni delle libertà civili e della pòartecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo. O almeno questo sembra essere il dilemma: quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica».
Ci sono poi quelli che considerava «i miti da sfatare»: primo fra tutti l’idea che la globalizzazione fosse sempre e comunque positiva, così come la vede, fra gli altri, Antony Giddens. Forse proprio posizioni come queste hanno reso Darhendorf il teorico liberale meno inviso alla sinistra che spesso ha cercato, senza riuscirci, di tirarlo dalla propria parte. Per difendersi dai rischi della globalizzazione, il grande studioso pensava che occorresse utilizzare i parlamenti e gli stati nazionali che dovevano essere rilanciati (perché quello è il solo livello in cui hanno trovato attuazione autentica la democrazia e l’ordinamento liberale). Dietro queste parole c’è anche una non troppo velata critica alle istituzioni europee. Del resto Darhendorf non faceva mistero di essere «un europeista scettico». Sir Ralph è stato uno studioso e uno scrittore molto prolifico. Fra i suoi libri più importanti vanno ricordati: Classi e conflitto di classe, Libertà attiva, Quadrare il cerchio ieri e oggi, Libertà che cambia, Erasmiani. Numerosissimi poi i
suoi saggi e interventi su riviste e quotidiani. Ormai ottantenne restava uno dei più acuti analisti della società e della politica. Capace di dire cose impopolari e che da lui non ti saresti mai aspettato: un vero intellettuale anticonformista, perennemente
in movimento. Un “erasmiano” (da Erasmo da Rotterdam), come lui stesso aveva definito quelle personalità come Popper, Berlin, Arendt, Orwell completamente immuni dalle subdole tentazioni dell’illiberalità.
In particolare, sul piano intellettuale con lui torna ad essere incisiva una prospettiva che guarda a Max Weber e al tempo stesso si confronta con il marxismo. Lo stesso titolo del testo più famoso, che alla questione delle classi dedica un’attenzione rilevante, è in tal senso significativo. Per quello che riguarda la militanza politica (egli fu sempre un intellettuale di riferimento del partito liberale tedesco di Hans-Dietrich Genscher), in lui fu sempre evidente il segno di una prospettiva volta a rilanciare il ruolo – numericamente limitato, ma non per questo insignificante – della borghesia industriale illuminata, laica, sostanzialmente progressista. Quando alla fine degli anni Settanta la scena internazionale vede apparire Margaret Thatcher e Ronald Reagan, diventa chiaro a molti, ad ogni modo, quali sono i limiti stessi della prospettiva dahrendorfiana, in qualche modo “prigioniera” di un universo che i processi di liberalizzazione e privatizzazione stavano un po’ alla volta mettendo da parte. Di fronte alla rinascita del mercato, Dahrendorf opporrà la resistenza che uno studioso intriso di sociologia weberiana era facilmente portato ad esprimere. D’altro canto, nel suo “liberalismo”non c’è mai stato davvero spazio per le ragioni dei diritti naturali individuali di tradizione lockiana e neppure per l’articolata riflessione austriaca (da Mises a Hayek) sulla complessità delle logiche competitive. Sarebbe forse eccessivo – come faceva qualche giorno fa Francesco Perfetti – ricondurre per intero un autore come Dahrendorf entro la cultura socialista,
ma certo non è sorprendente che il suo partito liberale abbia per molti anni convissuto al governo con la Spd tedesca, e che egli abbia sempre trovato molte giustificazioni a tutto ciò. In fondo la sua enfasi costante sulla “cittadinanza” ne fa più un teorico democratico che un autentico liberale.
In particolare, la sua visione della politica come universo conflittuale (anche se utilmente conflittuale) e per questo bisognoso di essere collocato su ben precisi binari l’ha spinto a riconoscere ai poteri pubblici una funzione “integratrice” che nessun autentico liberale gli avrebbe mai attribuito. Ai suoi occhi la società è divisa in classi e questa stratificazione delinea rapporti di potere (ed è facile ritrovare qui un’eco di Marx) che soltanto l’azione statale è in grado di gestire, permettendo che tutto questo non conduca ad esiti disgregativi. Nel paradigma di tale studioso l’universo normativo – sostanzialmente inteso in termini statuali, quale frutto di decisioni politiche – svolge insomma la funzione di rendere il conflitto un qualcosa di fecondo, evitando esiti catastrofici. Per certi aspetti, la parabola di questo studioso è allora un poco da associare alla parabola stessa della sociologia: una disciplina che è stata al centro della scena nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, e che però da tempo sta perdendo prestigio e credibilità. La stessa nozione di “potere” che al cuore dei suoi studi più seri è priva della cristallina chiarezza che conosce nella teoria liberale di quanti connettono strettamente libertà e proprietà, e quindi riconducono il carattere oppressivo del potere ad ogni forma dei tassazione, coercizione, pianificazione ed esproprio. Nel “liberalismo progressista”di Dahrendorf, ovviamente, le cose sono molto diverse e questo spiega perché, in innumerevoli casi, egli abbia sostenuto l’esigenza di interventi pubblici e di azioni statali finalizzate ad ampliare la libertà “effettiva” dei singoli. D’altra parte, in alcuni interventi successivi al crollo del Muro di Berlino egli non mancò di denunciare i rischi di un individualismo sfrenato, affermando perfino che «il nuovo economicismo dei capitalisti è non meno illiberale di quello del vecchio marxismo». Il mercato concorrenziale non era certo, agli occhi di questo studioso, la condizione fondamentale di un ordine giuridico in grado di servire al meglio la dignità degli uomini: e questo ha limitato alquanto la sua capacità di comprendere le autentiche ragioni del liberalismo.
Sostenne spesso l’esigenza di azioni statali e interventi pubblici per ampliare la libertà effettiva degli individui
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dahrendorf 1929-2009
Documenti. Marzo 2009: uno degli ultimi saggi del grande pensatore sui possibili effetti della Grande Recessione
Tramonto della democrazia? «Stiamo in guardia: la crisi può favorire l’avvento di un nuovo autoritarismo. Non una dittatura, ma uno svuotamento strisciante dei diritti civili» di Ralf Dahrendorf utti i paesi dell’Europa occidentale e del Nordamerica sono ricchi. Poche altre nazioni nel mondo hanno lo stesso reddito pro capite: il Giappone, Singapore, Israele, i paesi produttori di petrolio. Gli ambiziosi paesi emergenti avranno bisogno di un’altra generazione per raggiungere il livello dell’occidente, e di molto più tempo per distribuire la ricchezza nello stesso modo. Gli occidentali, però, sono diventati più insicuri: hanno scoperto che il loro benessere non è affatto scon-
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tato. Per la prima volta nella storia, i genitori statunitensi devono dire ai loro figli: «Probabilmente non starete bene come noi».
Questa preoccupazione, che a volte è così forte da diventare paura, dipende da molti fattori. Parlare di cicli congiunturali o ricordare che nella vita niente cresce all’infinito sarebbe un discorso troppo astratto. Meglio limitarsi a constatare che i paesi occidentali hanno avuto una fiducia eccessiva nelle loro forze. Il reddito è aumentato senza sosta, ma allo stesso tempo sono cresciute le pretese nei confronti dei servizi dello stato, cioè quello che chiamiamo welfare state. Così le nuove generazioni devono pagare i costi del benessere delle generazioni precedenti. La conseguenza è un aumento preoccupante dell’indebitamento pubblico. A questo punto la ribellione dei più giovani è solo una questione di tempo. Inoltre ci sono intere zone del pianeta abitate da nuovi ricchi che vogliono partecipare ai vantaggi del benessere. I Paesi occidentali sono costretti a misurarsi con un mercato globalizzato molto competitivo e hanno capito che è più facile creare il benessere che mantenerlo. Già nel decennio scorso è comparso un fenomeno preoccupante, la jobless growth, cioè la crescita caratterizzata dall’aumento del pil ma dalla creazione di pochi posti di lavoro spesso malpagati. I lavori ben retribuiti so-
no sempre meno e molti rifiutano di adattarsi a un’occupazione precaria. A volte, inoltre, l’eccesso di regolamentazione rallenta la creazione di nuovi posti di lavoro. Il risultato è che oggi la perdita di benessere e la disoccupazione non minacciano solo chi è già svantaggiato ma soprattutto la classe media, limitando drasticamente le possibilità di ascesa sociale. I disoccupati della classe media rappresentano una potenziale minaccia per una società libera (...).
A parte il malcontento della classe media, questa situazione può mettere a rischio la libertà. L’appello dei cittadini a fare qualcosa, diventa subito una richiesta di leader “forti”. Nella confusione generale, la domanda di legalità e di ordine diventa sempre più forte. Alcuni arrivano a dire che quando le persone non accettano i lavori offerti, bisognerebbe costringerle attraverso forme di servizio obbligatorio, il workfare, cioè l’accettazione di certi lavori come condizione per godere di una serie di diritti sociali. La dissoluzione del vecchio mercato del lavoro indebolisce innanzitutto le forme tradizionali di controllo sociale. Cosa verrà dopo? Uno stato più forte che punisce severamente chi getta per strada i mozziconi d isigaretta? Uno stato che controlla tutti i cittadini attraverso un’organizzazione capillare, condominio per condominio? Non si tratta di esempi inventati, ma della realtà di Singapore, dove i giornali devono dare conto di ogni minima critica e i parlamentari dell’opposizione possono essere arrestati per qualsiasi manifestazione di protesta contro il governo. La società ricca, la società buona e la società libera – cioè la concorrenza, la solidarietà sociale e la democrazia liberale – non sono la stessa cosa. è un’illusione credere che il benessere possa garantire da solo la libertà e la solidarietà. La ricchezza di pochi o anche di molti non raggiunge automaticamente tutti gli altri: privilegi ed esclusione sociale restano. La libertà è una conquista continua. Può esserci benessere senza libertà e anche libertà nella povertà. Da queste premesse molti ricavano, esplicitamente o
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implicitamente, brutti presagi. Dobbiamo deciderci, dicono: si può essere ricchi e liberi, ma non essere anche buoni. Si può essere buoni e liberi, ma allora dobbiamo rinunciare al benessere. E possiamo essere ricchi e buoni, o quanto meno socialmente giusti, ma allora bisogna fissare dei limiti alla libertà. Insomma, si possono soddisfare due condizioni alla volta, ma tutte e tre no. E si fanno gli esempi degli Stati Uniti (il capitalismo anglosassone), della Germania (l’economia sociale di mercato), di Singapore (il capitalismo asiatico). Il capitalismo puro esiste solo nei manuali di economia delle università americane. Nella realtà ci sono tante forme di capitalismo. In Europa, per esempio, c’è il capitalismo familiare italiano, che ha dato prova di una grande capacità di adattamento e potrebbe perfino rappresentare un modello in grado di coniugare mobilità economica e solidarietà sociale, e c’è l’economia sociale di mercato della Germania, che di certo non sarà cancellata dalla globalizzazione. Non bisogna farsi intimidire dai modelli dei manuali. È proprio questa la straordinaria conseguenza della caduta del Muro di Berlino: non viviamo più in un mondo caratterizzato da sistemi antagonisti, ma in un mondo aperto in cui economia di mercato e democrazia sono compatibili con tutte le particolari tradizioni della cultura economica e politica locale.
Il malcontento dei cittadini è diventato una richiesta di leader “forti”. Nella confusione generale, la domanda di ordine diventa sempre più diffusa
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Proviamo allora a delineare cinque direttrici socioeconomiche da cui partire per ottenere la quadratura del cerchio, cioè una società ricca, buona e allo stesso tempo libera. E la prima è proprio la particolare cultura, anche economica, di ogni paese. Ci sono almeno due categorie di persone interessate allo sviluppo delle imprese. La prima è quella dei soci, che cercano di far crescere il valore delle partecipazioni. Il loro interesse è il cosiddetto shareholder value: vogliono che le imprese valgano molto in borsa, non solo per incassare ricchi dividendi, ma anche per poter vendere le quote con una sostanziosa plusvalenza. La seconda categoria è quella di chi non possiede delle partecipazioni in un’impresa ma è comunque interessato alla sua stabilità. Ne fanno parte i dipendenti, i comuni in cui operano le aziende, i fornitori, i clienti. Questi sono gli stakeholder, che hanno un interesse indiretto ma al tempo stesso molto concreto: gli stipen-
dahrendorf 1929-2009 di per i dipendenti, le imposte per il comune, il fatturato per i fornitori. Le culture economiche si differenziano nettamente tra loro per il signiicato che attribuiscono a queste due categorie. Nelle economie degli stakeholder conta il volume d’affari, in quelle degli shareholder conta il profitto.
La Germania è un’economia di stakeholder, come dimostrano la partecipazione dei lavoratori all’amministrazione delle aziende, i legami tra imprese e comuni, gli accordi di fornitura di lungo periodo, il valore attribuito alla fiducia dei clienti. La Gran Bretagna, invece, è un’economia di shareholder. Ma a Londra, oggi, i politici discutono se si debba dare più peso agli stakeholder. Ogni volta che il tema viene rilanciato dalla sinistra, però, la destra ripete puntualmente una critica: in questo modo si danneggia il benessere economico britannico. Quello che conta sono gli azionisti, gli shareholder, soprattutto perché molti cittadini hanno un interesse diretto al valore di borsa delle imprese attraverso i fondi pensione e le società di assicurazione. Per questo,quindi, in alcuni Paesi l’economia privilegia i risultati a breve termine e in altri quelli a lungo termine. In certi paesi i profitti vengono distribuiti e in altri vengonore investiti. Un’economia degli stakeholder, però, può risultare anche dispendiosa e rigida. Nonostante le molte resistenze, infatti, è inevitabile che in futuro anche le imprese tedesche si orientino di più verso il profitto. Bisogna chiedersi fino a che punto si può spingere questo processo senza rischiare di perdere i vantaggi indubitabili della cultura degli stakeholder. Il problema è che per essere competitivi sul mercato globale il costo del lavoro deve essere conveniente. Questa è la seconda questione. Tredici mensilità di stipendio, le ferie, i giorni di malattia, la settimana corta e i costi diretti della rete di previdenza sociale rendono la vita difficile alle imprese tedesche. Ma questi diritti sono allo stesso tempo l’asse portante del benessere nazionale: in Germania è impossibile modificarli senza scatenare ondate di protesta. Per questo è necessaria innanzitutto una concezione chiara di come dovrà essere lo stato sociale in futuro e di come costruirlo senza distruggere tutto quello che sta a cuore a molti cittadini. Si tratta di un nuovo equilibrio tra prestazioni garantite ai singoli e obblighi verso la collettività. Per essere più precisi, per il welfare di domani sono importanti tre pilastri: dovrà essere statale, cioè le prestazioni dovranno essere pagate con le entrate fiscali; i diritti dovranno essere finanziati dai datori di lavoro e dai dipendenti; i contributi dovranno essere individuali e volontari. Il primo e il secondo di questi pilastri si ridurranno, mentre il terzo crescerà. Studiosi come Walter Lippmann, Robert Bellah e Amitai Etzioni si sono concentrati sul concetto di comunità. Questo è il terzo tema centrale per la quadratura del cerchio. Si è parlato di valore borsistico anglosassone e di economia familiare italiana. In Germania l’asse portante della forza economica e sociale è la Gemeinde, il comune, in particolare le città piccole e di medie dimensioni. Ogni indebolimento della Gemeinde penalizza sia il benessere sia la solidarietà sociale. Oggi la globalizzazione sta riducendo la forza delle piccole comunità, al punto che molti hanno lanciato lo slogan “pensare globalmen-
te, agire localmente”. Sarebbe molto rischioso, infatti, se continuassero le tendenze accentratrici di questi ultimi anni e se la capacità finanziaria dei comuni fosse ulteriormente indebolita. Purtroppo le comunità locali non hanno molti mezzi per difendersi: in Germania i Länder possono rivolgersi al Bundesrat (il senato federale), mentre i consigli comunali possono al massimo puntare sui parlamentari dei singoli collegi elettorali. Il nesso tra economia e comune è particolarmente evidente nel sistema bancario tedesco. Senza le banche cooperative e quelle comunali, la struttura decentrata dell’economia tedesca crollerebbe. Inoltrei comuni tedeschi possono puntare sulle casse di risparmio per molti progetti che in altri paesi sono faticosamente realizzati attraverso finanziamenti misti pubblici e privati. I comuni sono anche il luogo dove è più forte la presenza di quelle attività che possiamo definire volontarie. E questo è il quarto tema. Il cosiddetto terzo settore, o settore del volontariato, dovrà diventare, accanto allo stato e alle imprese private, un elemento centrale di una società ricca e allo stesso tempo buona.
Gli esempi più efficaci del “comunitarismo” di Amitai Etzioni si trovano in quelle società dove i singoli sostituiscono lo stato nelle attività che l’amministrazione pubblica non può più sostenere. Come l’assistenza agli anziani malati. Il finanziamento delle ong attraverso lotterie o concerti ha raggiunto ovunque proporzioni notevoli. Il fatto che le persone donino volontariamente tempo e denaro sta diventando un elemento fondamentale della società buona. Anche qui vale la pena di accennare alle differenze culturali. Nelle società stataliste del continente europeo, soprattutto in Germania e in Francia, il terzo settore ha più difficoltà di quante ne incontra nelle vecchie società borghesi del mondo anglosassone. Spesso le grandi fondazioni finanziano le iniziative pubbliche insieme allo stato invece di agire per conto loro. Ma in questo campo stanno cambiando molte cose. E il punto di partenza sono ancora una volta le comunità locali: una garanzia contro la lacerazione del tessuto sociale è la partecipazione dei cittadini alle associazioni, dai vigili del fuoco volontari agli enti sportivi e di beneficenza. (...) Le iniziative spontanee e volontarie ci portano – e questo è il quinto punto – al tema degli esclusi dalla società, che sta diventando particolarmente urgente nelle economie moderne. Oggi, in un’economia in crescita, non è più necessario includere tutti, né come lavoratori né come consumatori. Prima la diseguaglianza era un grande tema della riforma sociale, perché si partiva dal presupposto che tutti fossero necessari. Oggi la diseguaglianza è diventata relativamente sopportabile perché colpisce chi è meno integrato nel tessuto sociale. Chi fa parte del mercato del lavoro, della comunità politica, della società può spesso migliorare le sue condizioni con le proprie forze. Ci sono però molte persone che non ne fanno parte: disoccupati di lunga data che hanno perso l’accesso al mercato del la-
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voro, stranieri che non godono dei diritti politici. Ci sono fin troppe persone che non osano neanche entrare nei ristoranti o nei supermercati e vivono in disparte, ai margini, spesso di stenti. L’esclusione sociale può essere sopportabile per l’economia, ma non per la società. Una società che esclude non crede davvero nei suoi valori, cioè i diritti civili fondamentali per tutti (...). Una società ricca è caratterizzata da un alto reddito pro capite unito a una distribuzione della ricchezza che garantisce a tutti delle opportunità e alla maggior parte dei cittadini un tenore di vita decente. Una società buona, invece, è più difficile da definire: è complicato applicare categorie morali alle società.
Si può pensare a una società che vive dell’iniziativa spontanea delle persone, che non esclude e in cui prevale una solidarietà sufficiente a non lasciare cadere nessuno, in linea di principio, attraverso le maglie della rete. Ma oltre alla società ricca e a quella buona, la quadratura del cerchio che abbiamo proposto è composta da un terzo elemento: la società libera. È proprio questo oggi il terreno più rischioso. Alcune società sono disposte a sacrificare le libertà politiche per raggiungere obiettivi economici e sociali. In questo modo si diffonde la convinzione che il sia cambiamento possibile solo limitando la libertà. Il pericolo di un nuovo autoritarismo è evidente. (...) Questa tendenza è rafforzata dalla difficoltà di trovare risposte democratiche a problemi evidenti. Non si potrebbero costringere i disoccupati a lavorare invece di sprecare il denaro dei contribuenti con i sussidi? Quando alcuni reati diventano più frequenti, non bisognerebbe stabilire pene più severe, soprattutto se a commetterli sono i giovani? La reazione inorridita dei progressisti non basta: chi vuole una società buona, oltre che libera, deve farsi venire in mente qualche idea. (...) Stare in guardia contro il nuovo autoritarismo è importante, perché non si presenta apertamente come una dittatura. Può consistere nello svuotamento strisciante dei diritti e delle libertà civili, e non necessariamente per opera di partiti estremisti, ma anche dei partiti dell’arco costituzionale. E probabilmente con il consenso dei cittadini. Faccio solo un esempio. In un’intervista su un giornale ho letto: «Non è una città aperta, ma è pulita e non ci sono tossicodipendenti». E la libertà? «Al 90 per cento delle persone interessa più una vita migliore dal punto di vista materiale che il diritto di voto». (...) L’esempio serve a evidenziare le tentazioni esercitate da un mondo ricco e socialmente controllato, ma senza libertà di parola e di associazione, senza elezioni e senza la garanzia dei diritti fondamentali. Il compito di cui stiamo parlando, quindi, non è affatto facile. Risolvere la paralisi del cambiamento senza ricorrere alla coercizione, competere sul mercato globale senza distruggere la solidarietà sociale: sono obiettivi a cui aspira in modo particolare chi ama la libertà. Forse non li raggiungeremo pienamente, ma dobbiamo fare del nostro meglio se vogliamo vivere in società ricche, buone e libere.
Risolvere la paralisi del cambiamento senza ricorrere alla coercizione, competere sul mercato senza distruggere la solidarietà: questo deve essere l’obiettivo
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opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale oice of America (VoA) trasmette ogni sera uno show dedicato ai giovani iraniani. Dentro c’è un po’ di tutto, dalle notizie su Hollywood, alle videoclip musicali alle notizie sugli ultimi gadget ad alta tecnologia. L’ultima settimana è stata però caratterizzata da un argomento più importante. Come eludere il blocco iraniano sulla libertà d’espressione. «Stiamo assistendo a una nuova fase della cyber-war» ha affermato il responsabile della produzione del programma televisivo, Gareth Conway. Il riferimento è al giro di vite di Teheran contro i social network, la posta elettronica e i siti internet in genere.
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«Stiamo cercando di dare ai nostri videoascoltatori quelle notizie su tecnologie utili per aggirare i sistemi di controllo e continuare a scambiarsi messaggi e informazioni». Con le proteste scoppiate dopo il contestato risultato delle urne per le presidenziali iraniane, sia il canale tv di VoA in lingua farsi che un simile servizio della Bbc sono emersi come elementi fondamentali per la diffusione delle notizie per gli iraniani. È sicuramente il momento del riscatto del servizio VoA dedicato all’Iran. Cresciuto durante l’amministrazione Bush era stato afflitto per diverso tempo da problemi di varia natura. Al contrario di altri servizi televisivi di news per il Medioriente e l’Iran prodotti dal governo Usa, VoA – secondo molti analisti – è l’unico diretto a un pubblico più vasto. È un programma veramente popolare. Nell’ulti-
dal ”WashingtonPost” del 18/06/2009
Voice of Iran di Mary Beth Sheridan ma settimana gli iraniani hanno bombardato il network con chiamate, e-mail e video amatoriali sulle manifestazioni. A dimostrazione di come preoccupi le autorità questo fenomeno, è stato fatto un tentativo di oscurare sia VoA che il servizio della Bbc, creando un buco informativo per circa 16 ore. «Avrebbero potuto fare un lavoro decisamente migliore», invece il parere di Mehdi Kalaji, un esperto d’Iran del Washington institute for Middle East policy, che un tempo lavorava nel programma del governo Usa di Radio farda, iniziativa in lingua iraniana. «Penso che a Teheran non abbiamo capito la portata della novità». La rete di in trasmissioni Iran è un residuo della guerra fredda, quando gli esperti Usa cercavano, attraverso
trasmissioni a onde corte, di contrastare l’influenza sui media dei predicatori del radicalismo islamico. Negli ultimi due anni le trasmissioni sono passate da una a sette ore giornaliere, quadruplicando il personale coinvolto. Oggi sono circa in 200 a lavorare al progetto. La rete ha potuto contare nel 2008 su di un bilancio di 16 milioni di dollari, ha una pagina su Facebook, su YouTube e numerosi blog. In Iran le antenne paraboliche sarebbero illegali, dove i canali televisivi iraniani sono quasi completamente controllati dallo Stato, ma ce ne sono tantissime. Secondo una ricerca dello scorso gennaio, almeno il 30 per cento degli iraniani adulti si collega alle tv satellitari una volta la settimana. A VoA sono convinti che questi dati, negli ultimi giorni, siano schizzati verso l’alto. «Il fatto che stupisce di più e che molte persone sono disposte a parlare, facendosi identificare» afferma Alex Belida, direttore della rete. È stato molto evidente questa settimana durante un talk show in diretta, Straight talk. Uno dopo l’altra, arrivavano nello studio di Washington telefonate di iraniani che descrivevano quello che stavano vedendo nelle strade. «Oggi molte persone si sono radunate in centro.Vogliono che la loro protesta si veda e si senta. La polizia ha tentato di impedirlo» la telefonata di una donna che si è identificata come Saidi da Ahvaz.
Ramin, studente universitario di Isfahan era ancora più convinto: «Gli studenti sono in attesa di poter dimostrare, in difesa i loro diritti». Descriveva una situazione di caos puro, con la polizia impegnata in tutta la città. Durante il programma, in un ora, sono arrivate più di 2mila e-mail. VoA è in piena competizione con la Bbc che ha assunto molti giovani iraniani come reporter di strada, mentre la rete Usa non ha più inviati da anni. Il pubblico iraniano considera il broadcast inglese più obiettivo. Tutti d’accordo però, in Iran quella che si sta scrivendo è una grande storia.
L’IMMAGINE
Bisogna recuperare «quel bene prezioso che è il prestigio della magistratura» Giorgio Napolitano nel suo discorso al Plenum ha apertamente invitato la magistratura ad interrogarsi su sue corresponsabilità dinanzi al prodursi o all’aggravarsi delle insufficienze del sistema giustizia e su quanto abbiano potuto e possano nuocere alla sua credibilità tensioni ricorrenti all’interno della stessa istituzione magistratura. Il Capo dello Stato ha affrontato un tema concreto su cui ha evidenziato come anche nello svolgimento dell’attività del Csm occorra adoperarsi al fine di recuperare pienamente quel «bene prezioso che è il prestigio della magistratura», inteso come «il più valido presidio dell’indipendenza della magistratura» .Vi è stato quindi l’invito ad un’aperta e seria riflessione autocritica, con conseguente apertura alle necessarie auto-correzioni, il modo migliore per «prevenire tentazioni di sostanziale lesione dell’indipendenza della magistratura».
Cosimo Maria Ferri componente del Csm
IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO D’Alema segretario del Pd? Il lupo perde il pelo ma non il vizio, non c’è che dire, anche perché è il meno allineato con il Pd, neanche quando si è trattato di prendere posizione per la presenza del leader libico nella capitale. Del resto ricordiamo che egli, nel precedente governo, quando si trattò di incontrare il Dalai Lama, disse: «non siamo tenuti a farlo». La sinistra continua a non capire che i suoi elettori desiderano la conformità con vecchi principi popolari, mentre la destra ha compreso che il rinnovamento è passare dagli interessi nazionali all’Europa delle Nazioni libere, che guardano ai giovani, al futuro e ad una ritrovata sensibilità
umanitaria. Il nostro premier ha dimostrato doti di diplomazia non indifferenti, che sono state notate e apprezzate dallo stesso Gheddafi, anche se non si può criticare l’amarezza di chi osserva l’accoglienza ad un dittatore e quella che siamo costretti a fare a tutti coloro che proprio da lui scappano.
Gennaro Napoli
Iguane benedette «Andiamo a farci benedire!». Quando la loro proprietaria le ha così apostrofate, queste due iguane non ci potevano credere. La signora se le è caricate in spalla per portarle alla benedizione degli animali di Los Angeles. In fila con cani e gatti, tartarughe, maiali, criceti e serpenti, le due hanno atteso la loro spruzzatina d’acqua santa, impartita da un vero sacerdote
NAPOLI È RISORTA
TREMONTI BACCHETTA LE BANCHE
Napoli è risorta, molti sorrisi in più, molte porte sbattute per sempre dagli sconfitti che non avevano i requisiti per risollevare la città. Adesso si attendono che due poltrone siano liberate per lasciare il posto a responsabilità diverse, come richiesto anche dalle alte cariche del Pd.
Bene fa Tremonti a bacchettare le banche, anzi le dovrebbe ammonire severamente perché esse hanno evaso lo spirito prima che l’intento, che stava alla base dei bond elargiti. Che la produzione sia in ripresa è conseguenza logica del periodo di crisi che, come accadde nel ’29 in America, costituì una rampa di
Salvatore Aveta
lancio successiva per la ripresa economica; ma essa non può essere portata a lungo da pochi settori dell’imprenditoria e sincrona con le esigenza di una piccola fetta di italiani, che sono quelli che riescono in un modo o nell’altro ad arrivare a fine mese. Esiste una categoria che non può più rivolgersi alle banche, perché esse hanno disatteso le
regole di molti contratti che riguardano il rapporto con i privati, e adesso hanno ridotto ulteriormente la mandata del credito. Di questo passo la povertà aumenterà e sarà la base di un diffuso scontento popolare, che altri fenomeni di controtendenza non riusciranno più a tenere a bada.
B. R.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quel calore intellettuale nella mia testa Mi piace avere la mente ben organizzata, ma ci riesco di rado. Ora i fili di idee ricordate a metà, i frammenti di fatti ricordati a metà, mi volano per la testa. Oggi riesco a scrivere solo goffamente e con difficoltà, con la penna che si piega su se stessa. E vorrei scrivere in modo così diverso: prosa chiara, senza affettazioni, con tutto il calore del mio cuore o, se fosse freddo, con tutto il chiaro calore intellettuale della mia testa. Non c’era segno di sforbiciate nella mia ultima lettera per la ragione che non avevo tagliato nulla. Non lo farò mai nelle mie lettere, per quanto il materiale non tagliato, col senno di poi, mi danneggi parecchio. E quanto è orribilmente facile essere danneggiati. Io sono danneggiato tutto il giorno, e danneggiato dalle cose più piccole e sottili. E così si indossa l’armatura quotidiana, e l’io, persino l’io ferito, è nascosto a tanti. Se abbasso la guardia, non sparare, cara. Nemmeno con un sorriso o con un sorriso piacevole o con un sorriso ben studiato. (Come una battuta in una commedia russa. Guarda, piccolo Ivanivic, ci sono dei corpi nel Volga. Uno è zietta Pamela. Va’ a darle un bacio freddo come la neve. No, piccolo disgraziato, quello è il postino morto. La tua zietta è quella con la poesia fra i denti). Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
PERCHÉ BISOGNA ANDARE A VOTARE AL REFERENDUM Ho sempre avuto forti perplessità relativamente all’esistenza del quorum per quanto concerne i referendum. Lo trovo una vera e propria presa in giro nei confronti degli elettori-contribuenti e poco importa se è previsto dalla Costituzione. Intendiamoci: che cosa si direbbe se si introducesse un quorum per le elezioni politiche? Se non si raggiungesse la metà più uno degli aventi diritto al voto che cosa si farebbe? Elezioni annullate? L’anarchia? Il caos? La dittatura? Non è serio e stupisce davvero che, quando si parla di riforma della Costituzione,non si pensi mai all’unica cosa veramente da abolire in quanto indecorosa: la presenza del quorum nei referendum. O una persona vota per il Sì o vota per il No. Altre scappatoie sono mere furbate della classe politica nazionale. È sempre stato così in questi ultimi anni e, personalmente, a questo gioco non ho mai accettato di starci. Mi dispiace che moltissimi esponenti politici a me vicini - persone preparatissime e che stimo profondamente - dell’area liberale e repubblicana e relativi partiti, preferiscano aggregarsi in un comitato unitario per battere il referendum del 21 giugno mediante il non voto. Si può essere o meno d’accordo sui singoli quesiti, ma il voler far fallire un referendum significa aver buttato danari pubblici dalla finestra. Specie se a vincere saranno i Sì: indipendentemente dal numero degli elettori. È già successo con il referendum sulla procreazione assistita, allorquando la
e di cronach di Ferdinando Adornato
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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
19 giugno 1860 Luisa di Orange-Nassau sposa re Carlo XV di Svezia-Norvegia 1865 Due anni dopo il proclama di emancipazione, gli schiavi di Galveston (Texas) vengono finalmente informati della loro libertà 1885 La Statua della Libertà arriva nel porto di New York 1912 Istituzione della giornata lavorativa di 8 ore negli Usa 1919 A Salerno nasce l’Unione sportiva salernitana che inizialmente gioca con le magliette a righe verticali bianche e celesti 1934 Istituzione della Federal communications commission negli Stati Uniti. La Fcc regola le trasmissioni radiofoniche e televisive 1938 A Parigi l’Italia batte 4-2 l’Ungheria nella finale dei Mondiali di calcio e si laurea per la seconda volta Campione del Mondo 1970 Firma del Patent cooperation treaty 1976 Re Carlo XVI Gustavo di Svezia sposa Silvia Sommerlath 1978 Prima apparizione del fumetto Garfield
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Chiesa cattolica ed i suoi accoliti fecero campagna per l’astensione e mi ricordo gli amici repubblicani, liberali e radicali schierati a dire che no, chi faceva campagna elettorale per l’astensione rifiutava il confronto aperto. Ora sono io che affermo: cari amici e compagni, ora siete voi che temete l’esito delle urne! E francamente non capisco nemmeno perché, visto che non è l’attuale legge elettorale che riuscirà mai a rappresentarvi in Parlamento. E non è nemmeno vero che i tre quesiti referendari del 21 giugno peggioreranno la situazione, in sé. I primi due quesiti stabiliscono semplicemente che alla Camera e al Senato vincerà il partito che ha raccolto più voti. Non mi pare ci sia nulla di scandaloso in sé, visto che ciò accade già nei Paesi anglosassoni. Posso contestare al massimo la presenza comunque degli sbarramenti – 4% per la Camera e 8% per il Senato – ma essi esistono anche nell’attuale legge elettorale. Il problema dell’attuale legge elettorale e che il referendum vuole cancellare, è che favorisce due soli partiti: la Lega Nord ed il partito di Di Pietro. Due partiti populisti ed estremisti che condizionano pesantemente le coalizioni. In particolare, se passasse il Sì ai due quesiti referendari, la Lega Nord vedrebbe definitivamente sbarrarsi il passo e non sarebbe più legittimata a governare e dunque a bloccare le riforme dell’attuale governo come quella dell’abolizione degli enti inutili. Province in testa.
I RISULTATI ELETTORALI EUROPEI Le elezioni europee hanno dato il loro verdetto. Lo si aspettava con trepidazione, come al solito più per verificare gli equilibri politici nazionali che per prospettare progetti di respiro europeo, cioè mondiale. Attenendoci quindi ad una lettura tutta interna dei risultati europei, si può facilmente commentare la sostanziale tenuta del Partito democratico, che pur arretra di 7 punti percentuale rispetto alle politiche del 2008; il Pdl non sfonda ma anzi perde un paio di punticini rispetto al 2008; Lega e Idv sono considerati i veri trionfatori: il partito di Bossi guadagna quei punti che il Pdl perde e allarga la sua influenza oltre il Po guadagnandosi un 11% anche in Emilia Romagna, mentre Di Pietro fa il “grande salto” duplicando i consensi in poco più di un anno. Già così si può azzardare una diagnosi della percezione politica avuta dagli elettori. L’iniziale entusiasmo mostrato verso il nascente Pd ha iniziato ad incrinarsi fin da subito con la pesante sconfitta alle politiche, dopo le quali la discesa è stata praticamente costante, complice anche la “morbidezza” dei toni nei confronti degli scandali che hanno attraversato le recenti vicende politiche di Berlusconi e del Paese: attacco alla magistratura, lodo Alfano, caso Mills, candidature discutibili ma, soprattutto, il Pd ha pagato l’imbarazzo sui temi della laicità col caso Englaro, volendo insistere piuttosto sul, pur sgradevole, caso Noemi, troppo spesso rasentante il gossip e su di una crisi che, seppur reale, non ha ancora raggiunto, in Italia, la soglia di criticità che invertirebbe i rapporti di forza tra i due maggiori schieramenti. L’Idv, al contrario, ha martellato sull’anti berlusconismo che, indubbiamente, qualcosa paga ancora, ma, soprattutto, ha martellato sulla giustizia e sull’eguaglianza, valore questo che, se da sempre patrimonio della sinistra. La Lega abbandona parzialmente l’elemento territoriale per sfruttare il cavallo di Troia della “sicurezza”, con il quale tenta di conquistare l’intero territorio nazionale. Più in generale, il risultato europeo è già usato per dichiarare morta e sepolta l’idea del bipartitismo “perfetto”, dando per spacciato il quorum al referendum del 21 giugno e riconfermando piuttosto la forma del bipolarismo “ristretto”, mentre, dal punto di vista della comunicazione politica efficace, il risultato ci informa che il populismo vince sempre: vince quello della Lega che demonizza lo straniero, vince quello di Di Pietro che demonizza l’avversario. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 OGGI, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca Bagatin
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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