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Soltanto una cosa rende
di e h c a n cro
davvero impossibile un sogno: la paura di fallire Paulo Coelho
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 30 GIUGNO 2009
Ieri il Pontefice ha firmato l’enciclica sull’economia destinata a far discutere anche la politica
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
LA SFIDA CONTINUA Una lunga catena umana divide in due Teheran. Mentre gli uomini di Ahmadinejad annunciano l‘ultima beffa. Le schede ricontate hanno dato lo stesso risultato
Il capitalismo ha vinto. E Ratzinger lo sa di Michael Novak uali siano gli effettivi contenuti della nuova enciclica di Sua Santità Papa Benedetto XVI non è ancora dato saperlo. La sinistra cattolica e i “progressisti” fremono nell’attesa. Le frettolose anticipazioni sinora pervenute hanno però evidenziato tre lampanti errori di giudizio. Permettetemi di puntualizzarli subito.
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Parla la scienziata che ha scritto al presidente
«La mia odissea nella ricerca italiana. Ora scelgo Boston»
Eroi
di Francesco Lo Dico oco tempo fa, il più piccolo dei miei tre figli si è fatto serio in volto e mi ha spiegato di avere preso una decisione. “Mamma – mi ha detto –, ho capito che devo fare una scuola facile, perché se ne scelgo una difficile da grande vado a finire come te”. Capisce perché lascio il mio paese?». Le parole di Rita Clementi, una laurea in Medicina, due specializzazioni, e un mucchio di contratti a termine di cui l’ultimo presso l’Istituto di genetica dell’Università di Pavia, spiegano bene i sentimenti che l’hanno spinta a scrivere una lettera d’addio all’Italia indirizzata al presidente della Repubblica.
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Da oggi il rientro delle truppe da Baghdad
L’Iraq è democratico Ecco perché gli Usa ripartono da vincitori di Mario Arpino ome previsto da George W. Bush prima ancora che da Barack Obama, che anche in questo caso sembra percorrere molti dei sentieri del suo predecessore, l’annunciato “cauto” piano di ritiro delle truppe americane è iniziato. Intendiamoci, 130 mila erano e 130 mila restano, con l’ordine di rendersi invisibili. Per il momento si rinchiudono nei munitissimi “forti” – uno è l’aeroporto civile di Baghdad – pronti a intervenire in caso di ritorni di fiamma. Ma tanto è bastato per consentire al volonteroso Nuri al Maliki di dichiarare una giornata di festa nazionale.
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Il mondo non vuole isolare il regime. Gli iraniani continuano a combattere da soli alle pagine 2 ee 3
Appello per tutelare l’immagine del Paese fino al summit
Napolitano, tregua per il G8 E Berlusconi cambia idea: «Rapporto deficit/Pil al 5%» di Errico Novi
ROMA. Non è semplice tenere unito un Paese incline più alla rissa che alla soluzione dei problemi, ma Giorgio Napolitano prova a farlo ricorrendo a tutto il suo senso di responsabilità e alla sua autorevolezza. Interviene nel giorno del suo compleanno: «Sarebbe giusto, di qui al G8, data la delicatezza di questo grosso appuntamento internazionale, avere una tregua nelle polemiche». Il riferimento ai gossip su Berlusconi è chiaro. «Io capisco le ragioni dell’informazione e della
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
127 •
Il bipolarismo da superare
politica, ma il mio auspicio è per una tregua». Il guaio è che ormai Berlusconi talvolta gira a vuoto. Ieri, per esempio, ha spiegato che «in assenza di fatti nuovi, il rapporto deficit/pil per il 2009 sarà del 5%». E pensare che venerdì scorso aveva tuonato contro i «profeti di sventura» che annunciano cifre catastrofiche (facendo allusione a Draghi che aveva parlato proprio di 5% deficit/Pil)!
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L’Udc è l’alternativa. Altro che doppio forno! di Francesco D’Onofrio Si rincorrono, comprensibilmente, le analisi concernenti le scelte che l’Udc ha fatto in riferimento ai ballottaggi per le elezioni amministrative e se ne trae di solito la conseguenza che si è trattato di un esperimento di doppio “forno”. Ma quale doppio forno! L’Udc non è entrato nel Pdl né sta con il Pd perché è l’alternativa.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Testimonianze. Una fonte, anonima per motivi di sicurezza, racconta dalla capitale l’evolversi della protesta e il ruolo dei dissidenti
«Io, dentro l’Onda»
Gli eroi di Teheran, soprattutto giovani, non credono troppo in Mousavi Ecco chi muove veramente la rinascita della nuova “Persia laica” di Antonio Picasso annunciata riconta delle schede non ferma la tensione nelle piazze iraniana. «Le manifestazioni proseguono e per adesso non se ne prevede uno stop», dice un rappresentante del Consiglio Nazionale della Resistenza in Iran (Ncri), che desidera restare anonimo. L’uomo conferma a liberal che a Teheran il clima resta caldo: l’esasperazione nei confronti del regime degli ayatollah “totalitario e integralista” è esplosa con il risultato emerso dalle elezioni ormai tre settimane fa. La popolazione non ha accettato le modalità con sui è stato confermato Ahmadinejad alla presidenza: «La gente - ci spiegano al telefono dalla capitale - non sopporta più le bugie e i brogli elettorali». E alla domanda se le manifestazioni siano nate spontaneamente, oppure se vengano orchestrare da qualcuno la risposta è secca: «Il popolo iraniano è sceso in piazza da solo, perché vuole la democrazia e la libertà. Nessuno sta pilotando i giovani che, nella loro semplicità, si dimostrano i nuovi eroi iraniani». Una risposta che vuole confutare i sospetti formulati dal ministro dell’Intelligence del governo, Mohseni Ejei, secondo cui dietro le proteste vi sarebbero gli Usa e Israele. Ma l’identità tutta nazionale della
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Ora l’Occidente abbandoni la cautela e scelga con chiarezza chi aiutare di Aldo Forbice l Consiglio dei guardiani ha ordinato di procedere rapidamente al controllo del dieci per cento dei voti scrutinati. Ma appare a tutti evidente che questa decisione, che sembrava ormai tramontata, si propone di gettare acqua sul fuoco di una contestazione che non accenna a spegnersi. Infatti ogni giorno, nel nome di Neda (la giovane di 16 anni uccisa dai basij) si susseguono manifestazioni di giovani nelle piazze, nelle strade e davanti alla moschee di Teheran. Spesso si tratta di concentramenti di poche migliaia, ma anche di centinaia di giovani, che agitano bandiere verdi e cartelli di denuncia dei brogli elettorali e delle malefatte di Ahmadinejad e di Khamenei, accomunati negli stessi slogan; spesso organizzano “catene umane”, come i nostri vecchi girotondini, poi fuggono all’arrivo delle moto dei mazzieri, cioè dei pasdaran e basij e della polizia dotata di gas lacrimogeni e di pompe con acqua bollente (e sembra anche con acidi) che irrorano con violenza i ragazzi dell’Onda verde. Nel frattempo il regime rende ancora più rigida la repressione. Si parla di oltre duemila arrestati, fra cui centinaia di studenti, politici e intellettuali, mentre i leader dell’opposizione sono di fatto in clandestinità: non vivono più nelle loro abitazioni, i loro siti web sono stati chiusi, non parlano con i giornalisti stranieri (visto che sono stati tutti espulsi dall’Iran) e i loro messaggi diventano quindi più rari. Senza considerare che non mancano gli ayatollah ultraconservatori che condannano nelle moschee non chi ha manomesso o falsificato le schede delle elezioni, ma chi ne contesta i risultati. L’ayatollah Misbah Yazdi, padrino spirituale di Ahmadinejad, ha lanciato una fatwa (decreto religioso) che autorizza a uccidere i due leader dell’opposizione. Un atto gravissimo che conferma quanto stia diventando rovente e pericolosa la sfida nel Paese delle diverse forze in campo, tutte all’interno del regime islamico. Quando la repressione sarà conclusa, scopriremo che le vittime dei militari, dei pasdaran, dei basij, dell’esercito e della Vevak (la polizia segreta) risulteranno centinaia, forse migliaia: già oggi dalle notizie che corrono su Internet, in quei siti che sfuggono ancora al controllo della polizia, si parla delle sparizioni quotidiane e delle torture ai dissidenti che si trovano nelle carceri. Nonostante la violenta repressione i giovani di Teheran e di altre città non mostrano di cedere: la forza delle armi, della tortura,delle intimidazioni questa volta
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non riesce a piegare la resistenza di un odioso regime autocratico, che ha raggiunto con Ahmadinejad il livello massimo di tirannia e di privazione dei diritti elementari degli esseri umani. Quella dell’Onda verde è la rivolta di massa più estesa dal 1979.
Ora i riformisti appaiono più organizzati e più compatti di fronte al comune pericolo rappresentato dal blocco di potere costituito dalla Guida Suprema Alì Khamenei, dal suo fedelissimo Ahmadinejad, dall’esercito e da una parte dei potenti del sistema economico e industriale. Un “blocco” contestato dall’ex premier Mousavi, forze economiche e sociali e da una parte dello stesso clero. Queste opposizioni hanno una carta importante: il sostegno di Hashemi Rafsanjani, ex presidente della repubblica e leader dell’Assemblea degli esperti, che ha il potere di eleggere e destituire la Guida suprema. Rafsanjani sta lavorando attivamente per raggiungere la maggioranza necessaria per eliminare dalla scena politica il suo rivale Khamenei, ma per il momento sembra che non vi sia ancora riuscito. Nel frattempo il falco al potere ha rispolverato tutto il suo repertorio propagandistico per cercare di accreditare la tesi che le manifestazioni sono fomentate e finanziate dall’esterno. Un’arma difensiva del regime che, ovviamente, non trova alcun riscontro con la realtà. Ma l’Occidente, al di là degli appelli e delle dichiarazioni di condanna della repressione e dei brogli elettorali, che cosa si propone realmente di fare per sostenere la lotta di milioni di iraniani? Per il momento non sembra ancora chiaro. L’Onu ricomincia a parlare di sanzioni più pesanti (anche come risposta al programma nucleare iraniano che non ha subito alcun rallentamento). L’Ue - al solito - si esprime con lingue nazionali diverse, ma non ha ancora preso una decisione convincente, mentre Obama si è reso conto ormai che la strategia del dialogo col dittatore di Teheran non ha più alcun senso e quindi bisognerà sperimentare nuove forme di pressione, diverse da quelle di Bush ma non ancora chiare. Appare più indecifrabile l’atteggiamento, silenzioso e isolazionista, dalla tradizionale resistenza iraniana. Il possente movimento popolare che ha scelto Mousavi come leader ha preso tutti alla sprovvista perché nessuno aveva preso seriamente in considerazione l’evoluzione della resistenza dei giovani, nelle università e nei luoghi di lavoro. È bastata la scoperta dei brogli elettorali per far esplodere la rabbia che covava da anni e che nasce anche nelle moschee e negli ambienti islamici moderati,ma anche nei settori laici della società civile, da anni stanchi del potere teocratico.
Forse le pressioni non hanno molto effetto, ma è evidente a tutti che questa diplomazia non ottiene i risultati sperati. Dobbiamo intervenire insieme
rivolta si percepisce anche dagli slogan. “Morte a Khamenei! Morte ai Velayat-e Faqhih!”: un messaggio che fa capire contro chi siano scesi in piazza i manifestanti.
È contro la figura del giurista esperto della legge emanata direttamente da Dio, concetto cardine della dottrina khomeinista, che si protesta. Ed è proprio questa che i manifestanti attaccano. “Morte al dittatore!” si legge nei loro slogan. Un messaggio rivolto più al regime come entità, invece che direttamente ad Ahmadinejad. Il presidente eletto, infatti, non viene preso di mira in prima persona. Certo, le accuse a lui rivolte sono consistenti. Tuttavia, è il Grande Ayatollah Alì Khamenei il destinatario della protesta. In questo senso, la reazione alla rabbia della folla, da parte di quest’ultimo, è dello stesso livello. Non a caso Ahmadinejad sta occupando una posizione in un certo senso marginale. Non si mostra in pubblico e non fa dichiarazioni. Lascia lo spazio della ribalta all’alto prelato, riconoscendone la superiorità giuridica e religiosa. Allo stesso tempo, permette mano libera alle forze di sicurezza, affinché adottino gli strumenti necessari per reprimere la rivolta. Le sue mosse sono eminentemente politiche. Prima di colpire, preferisce attendere l’eventuale ulteriore conferma della sua nomina, soprattutto alla luce del riesame del voto deciso ieri. D’altra parte, la posizione d’ombra scelta da Ahmadinejad lascia scoperto il sospetto che, in realtà, il regime lo abbia scelto come unico capro espiatorio di tutto. Chi ci parla è possibilista in merito: «Khamenei sa che rinunciando ad Ahmadinejad potrebbe sopravvivere». Tuttavia, in questo momento si trova alle strette. Da una parte c’è la consapevolezza per cui il presidente eletto potrebbe essere sacrificato per il bene supremo della teocrazia iraniana. Dall’altra, sono stati proprio gli ayatollah a proclamare Ahamdinejad vincitore delle elezioni. Se dovessero ritrattare, ci rimetterebbero di immagine e credibilità. A questo punto chiediamo cosa potrebbe succedere se Ahmadinejad fosse messo fuorigioco. Ferma restando la sopravvivenza del regime, le possibilità non sono molte: «La
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Una catena umana divide in due la città. L’esercito cerca di spezzarla Ahmadinejad: «Indagare sulla morte di Neda, i funzionari britannici saranno liberati» di Vincenzo Faccioli Pintozzi blog. Sono loro a filtrare le notizie, loro gli unici a dare segnali di vita da un Iran sempre più lontano dal resto della comunità internazionale. E, proprio secondo i blog, la polizia iraniana in tenuta anti-sommossa ha impedito ai dimostranti di radunarsi lungo Vali Asr, una delle strade principali di Teheran, dove il tam-tam sul web aveva annunciato una catena umana dei sostenitori dell’opposizione. Non ci sono conferme ufficiali, se non un inquietante notizia ministeriale secondo cui da ieri fino a domani l’esercito iraniano compirà «alcune esercitazioni». Secondo i blogger, a piazza Vanak dimostranti e polizia si sono fronteggiati per ore sui lati opposti della strada, mentre sarebbero stati bloccati gli accessi verso piazza Vali Asr, che si trova nelle vicinanze, e piazza Enghelab, che si trova ad una decina di chilometri di distanza. Secondo altre testimonianze, le forze in tenuta antisommossa avrebbero effettuato alcuni arresti. Ma la giornata era iniziata con l’arresto - questo confermato - di sette docenti universitari, due dirigenti di un movimento dissidente e una giornalista. Da Parigi, la
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carta Mousavi, la prima che viene in mente agli osservatori occidentali, perde ogni giorno di più il suo valore». Salutato come l’alternativa elettorale ad Ahmadinejad, l’ex premier è bollato dall’Ncri come un membro del regime, né più né meno: «È uno di loro - dice il nostro interlocutore - è stato per otto anni Primo ministro, quando Khamenei era presidente», aggiunge. «Anni che il popolo iraniano ricorda per la guerra contro l’I-
Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) sosteneva di essere a conoscenza di circa duemila arresti avvenuti dal 12 giugno, giorno in cui si sono svolte le contestate elezioni presidenziali. Tra coloro che sono finiti in carcere, figurano tra l’altro l’ex portavoce del governo del presidente riformista Mohammad Khatami, tre ex vice ministri, tra i quali Said Hajjarian, semiparalizzato per un attentato subito nel 2000, e un ex vice presidente del Parlamento. Se all’interno dell’Iran la tensione continua a essere altissima, nella crisi diplomatica tra il regime degli ayatollah e la Gran Bretagna sembrano esserci speragli di luce.
rilasciati, mentre «gli altri tre erano ancora sotto interrogatorio». Un gesto che però non è sufficiente per il primo ministro britannico Gordon Brown, che ha ribadito la richiesta di un immediato rilascio degli ultimi quattro (secondo il governo di Sua Maestà le persone incarcerate sarebbe infatti nove) funzionari, definendo il comportamento iraniano «inaccettabile, ingiustificato e privo di fondamento». Ma questo non è l’unico segnale di distensione che l’Iran ha voluto lanciare alla comunità internazionale, visto che sempre ieri il portavoce del Consiglio dei guardiani ha detto alla televisione di Stato che il riconteggio delle schede elettorali si concluderà entro la giornata odierna. Sempre nelle ultime 24 ore il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha chiesto alla magistratura di aprire un’inchiesta per trovare i colpevoli della morte della ragazza che è già diventata il simbolo delle proteste popolari in Iran, Neda Aqa-Soltan, af-
Il governo annuncia esercitazioni militari per i prossimi giorni per giustificare la presenza di soldati
Dopo la conversazione telefonica tra il ministro degli Esteri britannico David Miliband e quello iraniano Manuchehr Mottaki, ieri il portavoce di Mottaki ha annunciato che cinque degli otto membri iraniani dell’ambasciata britannica a Teheran erano stati
raq e per la repressione interna. Fu sotto il governo di Mousavi, infatti, che le università del Paese vennero chiuse».
A quello stesso periodo risalgono le iniziative di censura più rigide: «I trentamila prigionieri politici e i dodicimila dissidenti scomparsi in quegli anni - ricorda - ci fanno capire che Moussavi fa parte del sistema dei Velayat-e Faqhih. La sua fedeltà alla repubblica islamica non è
fonte di discussione». L’attenzione, quindi, si sposta su Rafsanjani. Nei suoi confronti, le considerazioni dell’Ncri sono ancora più lapidarie. «Lo chiamano “lo squalo”perché non ha la barba, ma soprattutto per la sua ferocia». Nella lotta evidentemente personalistica al vertice di Teheran, gli oppositori del regime considerano l’ex presidente il vero rivale di Khamenei. «Vuole tutto il potere per sé, non può accettare di dover sot-
fermando che si tratta di un episodio «sospetto». Nonostante abbia condannato quello che ha definito «il baccano e la propaganda fatto dai media stranieri» sulla sua uccisione, Ahmadinejad ha quindi deciso di far chiarezza sulla vicenda. Arash Hejazi, il medico tra le cui braccia è morta la giovane durante la repressione di una manifestazione del 20 giugno scorso a Teheran, aveva infatti dichiarato ai microfoni della Bbc che a sparare era stato un miliziano islamico Basiji.
Fino a oggi le autorità avevano cercato di scagionare le forze di sicurezza e, per bocca dell’ambasciatore iraniano in Messico, Mohammad Hassan Ghadiri, avevano addirittura puntato il dito contro la Cia. Due giornali ultraconservatori avevano anche scritto che era stato il corrispondente dell’emittente britannica a Teheran, Jon Leyne, poi espulso, ad assoldare un killer per sparare sulla folla, mentre l’ayatollah Ahmad Khatami, guidando la preghiera dello scorso venerdì, aveva accusato gli stessi manifestanti di essere i responsabili dell’uccisione di Neda, con lo scopo di fare propaganda.
tostare alle direttive della Guida suprema». Una convivenza che è già avvenuta in passato e che si è rivelata insostenibile.
Da questa prospettiva emerge come il vero scontro al vertice non sia tra Ahmadinejad e Mussavi, ma tra Khamenei e Rafsanjani, i grandi vecchi del regime che non vogliono fare concessioni né al popolo iraniano né ad altri aspiranti al potere.Non resta che capire il ruolo
dell’Ncri e dei Mujaheddin del Popolo, il partito più influente in termini di risorse nella coalizione in opposizione al regime. «Il nostro impegno è trasmettere in Occidente quanto sta accadendo veramente in Iran. In qualsiasi modo andrà a finire questa protesta bisogna riconoscere la vittoria del popolo iraniano. Non è rimasto muto di fronte ai brogli e ha saputo protestare. Di questo il regime dovrà tener conto».
politica
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Scosse. Dopo Franceschini e Bersani, il centrosinistra cerca il terzo uomo per la segreteria. Il sindaco di Venezia si schiera per la rinascita del Nord
«Io voto Chiamparino» Massimo Cacciari sogna una sinistra formato Lega: «Bisogna rompere l’asse romano-pugliese. Questa è l’ultima chance» di Riccardo Paradisi così c’è anche una terza opzione nel Pd sotto stress in vista del congresso di ottobre. A rompere lo schema del derby veltronian-dalemiano, che prevedeva il confronto secco tra Dario Franceschini e Pierluigi Bersani, c’è l’entrata in campo di Sergio Chiamparino, la variabile del nord nel grande gioco romano-pugliese per la segreteria democratica.
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Certo il sindaco di Torino non ha ancora sciolto la riserva della sua candidatura, ma ha detto già chiaramente che se entrerà in gara lo farà per vincere non per partecipare. Una candidatura di cui è bastato l’annuncio per agitare ulteriormente le acque democrat già solcate dalle correnti. Dietro Franceschini quella degli ex popolari con l’apporto di Fassino e Veltroni e dietro Bersani quelle degli ex Ds con il sostegno di Letta, Bindi e Follini. Ma se appunto ci fosse l’opzione Chiamparino ci sarebbe anche chi, già schierato, riorienterebbe le sue preferenze. Come Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte: «Se può essere un modo per superare le divisioni, sono molto favorevole alla candidatura di Sergio Chiamparino alla guida del Pd. È noto che io sono per Bersani, ma se i candidati fossero tre e ci fosse anche il sindaco di Torino sceglierei Chiamparino. Si intende di economia, e porterebbe ai vertici del partito una concretezza che a volte i segretari non hanno». Massimo Cacciari, sindaco di Venezia e coscienza critica tra le più aspre di questo Pd, è tra i più convinti sostenitori della candidatura del sindaco di Torino alla segreteria. Per motivi di pragmatismo ma soprattutto di “collocazione geopolitica”. «Il Congresso del Pd lo si dovrebbe fare presto e bene – dichiarava Cacciari meno di una settimana fa – con dei programmi chiari da parte dei candidati. Soprattutto per quanto riguarda le ragioni della nostra sconfitta in regioni chiave come quelle del Nord». Dunque la soluzione ai problemi del Pd potrebbe essere per lei il sindaco di Torino? «Con la candidatura di Chiamparino ci
Nessun progetto sostiene il dibattito, tutto interno, sulle candidature
Dietro i nomi, il nulla (politico) di Gabriella Mecucci e ci fosse ancora qualche dubbio sulla pochezza politico-culturale del Pd, basterebbe leggere il dibattito che si sta svolgendo sulla scelta del nuovo leader. Si buttano nella mischia alcuni nomi senza un vero perché. Contenuti zero. Arriva Bersani e dice che vuol rispondere a 150 anni di storia, ai lavoratori e ai ceti produttivi. Accidenti che sforzo culturale! E Franceschini? Candidato perché ha perso molto, ma forse un po’ meno di quello che qualcuno s’aspettava. E poi si narra del dramma di Goffredo Bettini che in un duello fra Bersani e Franceschini non saprebbe chi sostenere. Un problema questo che agita le coscienze di iscritti elettori. E che dire di Chiamparino? Un uomo del Nord, dove Pdl e Lega non hanno dilagato (per la verità è dall’inizio che va così: il Piemonte è sempre stato un’eccezione rispetto a Lombardia e Veneto) e che sembra piaccia ai giovani. E infine, ogni tanto spunta Anna Finocchiaro, i cui meriti sono inesistenti: basti pensare che voleva che il Pci rimanesse tale. Insomma, ha cominciato a sbagliare dall’inizio.
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Al di là delle battute acide, non c’è un possibile leader del Pd che riesca a presentare ai suoi una strategia politica di qualche respiro. Non si chiede la Luna: basterebbe una proposta sul fisco e le pensioni, un’idea solida di riforma elettorale e – se possibile – istituzionale, una scelta netta di politica estera. Non è pochissimo, ma non è nemmeno impossibile. E invece, giù a cincischiare su chi piace ai giovani, chi rappresenta le donne, chi dialoga con il Nord, chi con il Sud, chi con il Centro, chi con gli imprenditori. Non si capisce bene nemmeno quali alleanze politiche i potenziali leader vorrebbero fare. Pd più di Pietro? Pd più Udc più sarebbe un importante novità – dice Cacciari ragionando con liberal – sia per l’esperienza sia per la collocazione geopolitica di questa figura. Che consentirebbe finalmente al nord di affacciarsi su una partita romano pugliese che si sta giocando da anni dentro il Pd e che esclude le regioni settentrionali, con i risultati che abbiamo tutti di fronte agli occhi». Cacciari è convinto che se ci fosse stato un segretario più nordista molte situazioni che si sono decise sul filo di lana, come la provincia di Milano, avrebbero avuto un esito diverso. Ma un Pd con un baricentro al nord, per temi e battaglie, avrebbe rischiato,
sinistra fatta eccezione dei comunisti con tanto di falce e martello? Pd più tutta la sinistra più Di Pietro, il tutto condito in salsa prodiana? Non si sa. Davanti a questo vuoto totale, viene voglia di rimpiangere Veltroni. Ne ha sbagliate parecchie, ma almeno il tentativo di dare un profilo al Pd lo ha fatto: nel discorso del Lingotto qualche contenuto era emerso. Del resto, i gruppi dirigenti del Pd sono figli in larga misura del Pci all’interno del quale hanno vissuto una crisi durata anni e anni senza accorgersene.
Tanto è vero che il Muro di Berlino gli è crollato addosso. Sino al giorno prima, chi lanciava l’allarme veniva preso per una sorta di menagramo. Capacità di analisi, dunque, e di vedere le cose con qualche anticipo pari a zero. Poi, c’è qualche democristiano dossettian-prodiano, una specie però sconfitta, dopo due anni di governo, in modo catastrofico. Ogni tanto, si fa appello ai giovani. Ma chi sono questi fantomatici giovani? Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi? O l’eterna promessa Enrico Letta? Quest’ultimo per la verità è l’unico che ogni tanto tiri fuori qualche contenuto, ma poi... O il silenzioso presidente della Provincia di Roma? O con una capriola anagrafica si vuol far diventare giovane Chiamparino? In realtà, l’unica cosa che consente a Berlusconi di non temere una rapida detronizzazione (dopo tutto quello che gli è capitato non sarebbe impossibile) è l’assoluta, totale pochezza del Pd e la mancanza di un leader che sappia tornare a parlare di politica. Già, la politica, ormai da anni la grande assente.
secondo alcuni interni al Pd, di appiattirsi su posizioni leghiste. «Idiozie al cubo – replica Cacciari – analisi che dimostrano i limiti e l’arretratezza culturale e politica di un settore della dirigenze del Pd. Io, Penati (presidente uscente della Provincia di Milano Ndr) e Chiamparino insistiamo nel dire che con una struttura del Pd al nord si sarebbero portati a casa risultati diversi da quelli che sono stati ottenuti». Chiamparino è un uomo del nord ma non è un ragazzino. Fa parte della generazione che Cacciari dice aver fallito e che ora avrebbe il dovere di fare un passo indietro. Dunque? «È ve-
ro, Sergio non è un ragazzo. Ma non è nemmeno uno che si è consumato e logorato in battaglie d’apparato. E poi io penso che la candidatura di Chiamaparino possa attrarre molte di queste energie nuove e giovani che sono nel Pd. Non credo che Franceschini avrebbe il monopolio di questo settore».
Anche se di Franceschini Cacciari non ha una pessima opinione: «È stato catapultato dalla mattina alla sera, dopo le dimissioni di Veltroni, al vertice del Pd, in una situazione molto difficile. Non poteva fare altro che condurre una campagna per salvare il salva-
bile. Alcune condizioni di contesto lo hanno aiutato. Non le veline, ma la crisi economica, che ha pesato più di Noemi Letizia sul Pdl. Contingenze che hanno favorito una tenuta. Nessuno avrebbe potuto fare di più. Nessuno poteva chiedere a Franceschini di fare di più». Ma adesso la fase dei segretari da campagna elettorale dovrebbe essere chiusa. Ora, secondo Cacciari, servono scelte politiche e programmatiche di consistenza strategica: «Chiamparino è una candidatura positiva in questo senso, che arricchisce l’offerta Pd in termini di immagine e in termini geopolitici. Certo, farcela con le corazzate Franceschini Bersani sarà dura. Ma è importante che Sergio ci sia». Ancora più importante di una candidatura nuova, nordista e dinamica come quella di
politica
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Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, è pronto a scendere in campo
E contro D’Alema nasce il partito del Sud di Ruggiero Capone
BARI. Mentre il sindaco di Bari, Michele Emiliano (responsabile del Pd in Puglia) concorda con Franco Marini e con gli altri leader (Anna Finocchiaro e Francesco Rutelli) dicendo «ora il congresso l’avrei evitato», qualcuno sostiene che questa situazione d’insicurezza giocherebbe a favore di Chiamparino. In questo scenario, la sconfitta di Franceschini e Bersani risulterebbe davvero un rimescolamento delle carte non gradito a una dirigenza fatta di politici di professione? Forse sì, ma di sicuro c’è solo che il Pd è ormai un partito frantumato, regionalizzato, dove contano sempre di più i leader locali. Sindaci, presidenti di Regioni e Province appannano sempre più l’immagine dei vertici romani. Qualcuno obietterà che, quando un partito è in fase d’opposizione a Roma, sono sempre gli amministratori locali a farsi belli, a dimostrare con pratiche amministrative il potere di far passare progetti. E sappiamo quanto sia Emiliano che Chiamparino brillino di luce propria anche grazie all’imprenditoria che li sostiene.
Il fotomontaggio mette accanto Franceschini e Chiamparino. Sotto, Massimo Cacciari. A destra, Emiliano e D’Alema Chiamparino sarebbe per il Pd una cultura politica adatta ai tempi. E tornare a studiare per averla. «Se non si inizia a impostare il problema di una cultura politica ora quando dovremmo farlo? Qual è la nostra idea di Europa? Qual è la nostra posizione sui grandi temi della bioetica? E sulla scuola? A parte denunciare i tagli vogliamo dirlo che tipo di scuola vogliamo, con quali contenuti, con quale criterio di selezione dei professori?». Ma una cultura politica non è un lusso in un momento in cui per il Pd l’imperativo principale è vivere, non filosofare? «Mi pare che sia la stessa gravità della crisi a imporci di salire un po più in alto. Non si tratta di essere filosofi. Si dovrà pure prendere in esame la crisi delle istituzioni democratiche anche in Occidente o vogliamo andare avanti a demonizzare gli effetti di questa crisi come il populi-
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smo? L’augurarsi che il Pd affronti le sue questioni equipaggiato di una cultura politica mi sembra un auspicio intonato al più crudo realismo».
E la cultura politica che Cacciari ha in mente prevede una fuoriuscita definitiva dalla vecchia cartografia politica: «Destra, centro, sinistra: la prima questione da capire è che queste determinazioni spaziali statiche sono naufragate, si trovano ormai soltanto nel vocabolario dell’italietta. È saltato tutto. La sinistra avrebbe potuto capirlo col crollo del muro di Berlino, poi con Tangentopoli. Le occasioni che ti fanno capire che è ora di cambiare non sono infinite». E quella di ottobre in effetti potrebbe davvero essere l’ultima. Prima che il Pd, come dice il sindaco-filosofo di Venezia, si trasformi in un partito appenninico.
Sergio non è un ragazzo. Ma non è nemmeno uno che si è consumato e logorato in battaglie d’apparato. Può attrarre le nuove energie del partito
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in politica, nonostante il Leader Maximo remasse davvero contro.
Così mentre gli addetti ai lavori s’aspettano una resa dei conti tra la fazione “margheritiana” e quella “diessina”(cioè tra Dario Franceschini e Sergio Chiamparino) inizia a farsi largo il dubbio che il «partito degli amministratori» (di cui Emiliano è maggiorente) abbia fatto localmente accordi con la cosiddetta “società civile”per appoggiare il sindaco di Torino. Un patto sottovalutato dalla struttura romana, e che potrebbe eleggere Chiamparino segretario del Partito democratico. Così verrebbe definitivamente affossata l’impostazione “romanocentrica”, tanto cara a Marini e Rutelli, del Pd. Bossi direbbe che «un partito giovane romanocentrico è già vecchio all’atto del parto». Insomma: il popolo dei fatti contro quello delle chiacchiere? Per molti sarebbe riduttivo definirla così. Nella realtà sembra stia accadendo questo. Infatti mentre il partito romano parla, il partito dei fatti vive di vita autonoma e s’auto finanzia. Così mentre il Pd taglia le spese su Roma e nel centro Italia, Torino e Bari (Nord e Sud) hanno sedi sfarzose, organizzano convegni con ospiti pagati e garantiscono eventi che nemmeno la stagione di Veltroni sindaco di Roma può vantare. Non è un mistero che scrittori, registi, musicisti ed attori cari alla sinistra (un tempo di governo) vivano sempre più stabilmente tra Torino e Bari. Chiamparino ha lanciato una “film commission” che finanzia opere in concorso a Cannes e Venezia, mentre l’estate barese ha fatto del capoluogo pugliese la Woodstock d’Italia. Così Chiamparino ed Emiliano fanno a meno della pacca sulle spalle di Franceschini e Bersani.
Si profila un’alleanza strana e inedita tra primi cittadini. Con l’obiettivo di rompere l’assedio di un apparato sempre più potente nel partito
Per il torinese in primis c’è l’ottimo rapporto con la Fiat e il suo corposo indotto (carrozzieri, meccanici, tappezzieri e fornitori d’impiantistica elettrica ed elettronica) per il barese c’è uno stuolo d’imprenditori che da Bari a Foggia a Lecce, passando per Taranto e Brindisi, aiutano e sponsorizzano il sindaco Emiliano e i suoi uomini ai vertici di Fiera del Levante e Camera di Commercio. Lo stesso governatore pugliese Nichi Vendola, ormai senza più un partito con rappresentanza parlamentare, avrebbe rafforzato il suo rapporto con Emiliano e proposto allo stesso un appoggio del suo popolo nelle difficili fasi congressuali del Pd. Una cosa è certa, Emiliano non si candiderebbe mai, ma potrebbe (anche appoggiato da elementi di sinistra esterni al Pd) aiutare la volata di Chiamparino. Lo farebbe se vedesse sempre meno chiare e fumose le linee del duo Franceschini-Bersani. Quest’ultimo è poi uomo di Massimo D’Alema, e vale la pena rammentare come l’ex magistrato sia entrato in politica dopo aver avviato inchieste che hanno gambizzato i “dalemiani”. Una per tutte è certamente l’«operazione Arcobaleno», inchiesta che fece del magistrato Michele Emiliano il principale affossatore dei fornitori di beni nella cooperazione italiana in Albania e Kosovo. L’inchiesta «Arcobaleno» decollava durante il governo D’Alema, mettendo in seria difficoltà degli imprenditori di sicura e dalemiana fede. Emiliano è poi entrato
A remare a favore di Chiamparino ci sarebbero anche i giovani “piombini”(chiamati così perché prima del loro primo raduno a Piombino non erano considerati nel Pd, e solo Emiliano aveva dato loro credito). Così il «popolo dei fatti» e i “piombini”pare non si sentano affatto rappresentati né da Franceschini né da Bersani. Si va incontro ad uno scontro frontale, e qualcuno ipotizza intese sottobanco tra Bersani e Franceschini per azzoppare le velleità di Chiamparino. E gli amministratori locali invece d’appoggiare gli istituzionali giocano a fare i“chiampariniani”. Infatti la frangia contro Franceschini nella corrente “margheritiana” sarebbe capitanata proprio da quel Francesco Boccia (barese ed amico di Emiliano) fino a pochi mesi fa in appoggio ferreo al segretario veltroniano.
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oco tempo fa, il più piccolo dei miei tre figli si è fatto serio in volto e mi ha spiegato di avere preso una decisione.“Mamma – mi ha detto –, ho capito che devo fare una scuola facile, perché se ne scelgo una difficile da grande vado a finire come te”. Capisce perché il primo di luglio salirò su quell’aereo? Non posso permettere che i miei ragazzi crescano in un Paese che non concede neppure la speranza di vedere premiati i propri sacrifici, che calpesta il merito e tiene in un limbo esistenziale i cosiddetti giovani precari, che nel mio caso hanno ad esempio quarantasette anni, un certo numero di risultati dalla propria e neppure un euro di contributi per la pensione, peraltro vicina». Le parole di Rita Clementi, una laurea in Medicina, due specializzazioni e un mucchio di contratti a termine di cui l’ultimo presso l’Istituto di genetica dell’Università di Pavia, spiegano bene i sentimenti che l’hanno spinta a scrivere ieri al Corriere della sera una lettera d’addio all’Italia indirizzata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Vado via con rabbia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedizione non siano servite a nulla», scrive in un passaggio dell’epistola la ricercatrice. Rabbia condivisibile. Perché a Rita, simbolo di altre migliaia di donne e uomini che subiscono sulla propria pelle gli effetti della precarietà, il quasi sistematico disconoscimento del merito a favore del lignaggio vigente nei feudi
«P
Fughe. La ricercatrice Rita Clementi spiega perché si trasferisce a Boston
«Italia senza futuro, ripudia la scienza» di Francesco Lo Dico universitari, e la catastrofica situazione della ricerca italiana che fa miracoli con i fichi (sempre più) secchi, non è bastata neppure un’importante scoperta. Ha individuato l’origine genetica di alcune forme di linfoma maligno, ma la cosa è stata accolta qui da noi con tiepidezza. E così, il primo di luglio si recherà a Boston, dove avrà finalmente la possibilità di continuare il suo lavoro, e quella di potere crescere i propri figli in un luogo che rispetti la sua dignità di studiosa, e di madre. Dottoressa, la sua è una resa. Che ricordi porterà con sé dell’Italia? Magari fosse una resa. Quando uno si arrende vuol dire che ha avuto la possibilità di
Nella foto grande, l’analisi di una provetta. Sotto, Rita Clementi, 47 anni. Ha scoperto l’origine genetica di alcuni linfomi
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Ho deciso quando mio figlio mi ha detto: «Mamma, io scelgo una scuola facile, perché se ne faccio una difficile da grande, poi, finisco come te»
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condurre una battaglia. A me, come a centinaia di colleghi, non è stato neppure concesso di lottare. Storture, compromessi, taciti ricatti. Ho pazientato per anni e subito l’onere della mia fragilità contrattuale. Lascio un sistema in cui per molti non esiste la libertà di fare ricerca, né quella di poterla sviluppare. Un’Italia in cui chi fa il mio mestiere, e magari di-
mostra di saperlo fare bene, dovrebbe stare sul proprio banco di ricerca a lavorare, invece che scrivere ai giornali. Ha voluto rivolgersi alla stampa. Con quali speranze? Prima di partire mi sembrava doveroso lasciare una testimonianza diretta a favore di centinaia di colleghi che subiscono da anni situazioni simili alla mia. So bene che una lettera a un giornale non serve a nulla e non può cambiare le cose. So che io e miei figli ci adatteremo prima o poi alla nuova vita che ci aspetta. Non mi preoccupo tanto per me, quanto per il nostro Paese. Finché lo stato della ricerca resterà quello attuale, l’Italia si priverà di ingegni e risorse essenziali nelle sfide che la scienza pone verso il futuro. Io ad esempio sono un medico, e credo nel mio lavoro sui linfomi. Alcune indicazioni emerse dai miei studi, dicono che esiste la probabilità di salvare delle vite umane. Non è solo per crescere i miei figli, che me ne vado. Vado via perché spero un giorno di far crescere meglio i figli degli altri, grazie alla mia scoperta. Dovesse farla capire a un bambino, come gliela spiegherebbe?
Gli direi che ho studiato per qualche tempo una malattia genetica rara, che colpisce quattro o cinque persone l’anno. E che quando questa malattia inizia a svilupparsi, è molto simile a una brutta malattia che si chiama linfoma. Una brutta malattia che secondo i miei studi, dipende dalla mancanza di un gene. E che perciò, con il tempo, può essere evitata grazie al lavoro di alcuni dottori speciali: i ricercatori. Speciali all’estero. Qui da noi università e ricerca sono da molti anni abbandonati a una drammatica deriva. Si salva chi può, e soprattutto chi deve. Si dimentica che il favore reso al singolo è spesso un immenso torto reso a una comunità intera. Che non perde solo questo o quel ricercatore, ma i frutti del suo lavoro e i benefici enormi che la ricerca può garantire a un Paese intero. Ma lei, piuttosto. Perché non si è scelta una “scuola più facile” come le ha detto suo figlio? Durante gli anni di università, la passione era speranza e la speranza era passione. Due cose che si alimentavano a vicenda e mi facevano pensare solo a studiare al meglio, perché poi i risultati sarebbero venuti. I miei genitori hanno fatto enormi sacrifici per mantenermi agli studi. Con il tempo invece è rimasta intatta la passione e la speranza si è trasformata in ostinazione. E se una persona diventa ostinata significa forse che ha smesso di sognare, ma che non è disposta ad arrendersi. E che vuole combattere in qualunque posto del mondo le sia data anche solo la possibilità di farlo.
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«Chi è contro questo pasticcio non ne sia complice»
«Solo segnali»: aumenta la fiducia dei cittadini
I Centristi ai siciliani: sconfessate Lombardo
Almunia: no all’ottimismo, la crisi non è finita
PALERMO. Che cosa sta succe-
BRUXELLES. «Il peggio è dietro
dendo in Sicilia? A solo un anno di distanza dalle elezioni regionali che hanno portato alla Presidenza Raffaele Lombardo con una coalizione formata dal Movimento per l’Autonomia, dal Pdl e dall’Udc, Lombardo ha pensato bene di azzerare la giunta e con essa la volontà degli elettori e di vararne un’altra, riuscendo a spaccare il partito di Berlusconi e quel che resta in Sicilia di Alleanza nazionale.
le spalle ma non dobbiamo pensare che la crisi sia finita». È questa la sintesi. Nient’affatto ottimista, dell’ultimo rapporto trimestrale della Commissione europea sull’eurozona. Bruxelles ha confermato che ci sono timidi segni di miglioramento in alcune zone, ma l’economia «è tuttora in una fase di contrazione». In ogni caso sono stati evitati gli errori del passato: la risposta europea è stata coordinata. Anche il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia, in un’intervista al quotidiano finanziario ”Cinco Dias”ha detto che nella seconda parte del 2009 l’economia europea non sarà in caduta libera. Almunia
È rimasto compatto solo il partito dell’Udc di Saverio Romano che non ha voluto prendere parte «al mercato delle vacche condotto da Lombardo col metodo della trattativa privata» e quindi il partito di Casini rimane fuori dal governo regionale ma sembra essere in buona compagnia: all’opposizione ci sarebbe anche una parte autorevole del Pdl ossia quella rappresentata dai coordinatori regionali del partito, Castiglione e Nania, lasciati soli a combattere una guerra che non hanno voluto. I due oggi, nonostante l’ottimo successo delle rispettive correnti alle elezioni europee, si vedono sopraffatti dall’asse LombardoMicciché. Il ministro Angelino Alfano e il Presidente del Senato Renato Schifani ci hanno provato a resistere a questo ri-
Appello di Napolitano: una tregua per il G8 E Berlusconi cambia idea sulla crisi: «Siamo a -5%» di Errico Novi segue dalla prima Il presidente della Repubblica è informato dell’incontro con i giornalisti fissato dal premier al porto di Napoli, a bordo della nave “Msc Fantasia” dove si sarebbe svolto il G8 se questo non fosse stato spostato dalla Maddalena in Abruzzo. Di fatto non c’è mistero, da parte del capo dello Stato, sulle esortazioni rivoltegli da Berlusconi riguardo al vertice con i grandi. Nel pomeriggio, quando i cronisti gli chiedono se secondo lui l’invito di Napolitano troverà ascolto, il presidente del Consiglio risponde «speriamo, penso sia logico che il capo dello Stato rivolga un invito del genere e mi sembra anche logico che questo invito sia accolto». Da parte sua, Berlusconi fa di tutto per prendersi la scena e tenerla il più possibile sgombra dal gossip. Anzi fa in modo da occuparla con parole così sorprendenti da non lasciare spazio ad altro. Non esita appunto a contraddirsi quando prima ricorre al tradizionale argomento della fiducia dei consumatori che va preservata e poi si sbilancia nella previsione sul Pil identica a quella di Mario Draghi.
ansie innescate dai gossip. Le preoccupazioni in vista del G8 restano, non da ultime, quelle suscitate dalla Procura di Bari. Fa ancora impressione la frase del procuratore aggiunto che coordina la Dda barese, Marco Dinapoli sull’ipotesi di ascoltare Berlusconi. Deve provvedere il capo dell’ufficio inquirente, Emilio Marzano, ad allontanare i fantasmi: «Noi in genere sentiamo solo le persone indispensabili per chiudere le indagini, e al momento non pare che ci sia la necessità di sentire Berlusconi».
Il fronte più pericoloso e temuto sembra dunque almeno momentaneamente sotto controllo. Da una parte Napolitano che chiede sia alla politica che ai media di non accentuare un clima già pesante, dall’altra il procuratore di Bari che promette un atteggiamento misurato e che ieri ha preteso dai suoi pm un «coordinamento di informazioni» tra i vari filoni aperti. In questa cornice più tranquillizzante si muove Berlusconi, che in conferenza stampa anticipa anche i temi nell’agenda del G8, in particolare il confronto sulle regole che dovranno proteggere il sistema finanziario da nuove speculazioni: «Ne discuteremo insieme con Obama e studieremo il sistema perché non si ripeta più ciò che è successo e non ci siano più paradisi fiscali e prodotti derivati». Quindi ordini del giorno forse non perfettamente in linea con le tesi di Giulio Tremonti («abbiamo invitato il presidente del Wto e daremo impulso a una nuova Doha per arrivare alla completa liberalizzazione del commercio mondialde») e il tipicamente berlusconiano invito alla fiducia. Ma seppure ricomposto dall’intervento di Napolitano il quadro continua ad essere complicato, come si intuisce anche dalle parole di Gianfranco Fini, che non solo evoca le primarie per il Pdl («a scegliere i leader è il popolo, i delfini si trovano solo in mare») ma sconfessa di nuovo Berlusconi, stavolta proprio sulle previsioni economiche: «C’è chi confonde la speranza con la realtà». Liberato forse dallo scandalismo, il ring sembra tutt’altro che chiuso.
Il premier ai giornalisti: «Il mio governo ormai è il più solido d’Europa. Per questo a L’Aquila sarà un vero trionfo»
baltone ma poi hanno dovuto arrendersi al volere del premier e alla «ragion di Stato» che in questo caso è solo la convenienza politica di bassa lega con poltrone, sedie e divani da occupare. Ma su quante divisioni può contare Lombardo? Castiglione dice che «questo nuovo governo nasce debole e senza maggioranza all’Assemblea regionale siciliana» ma incombe lo spettro del trasformismo e della compravendita politica di voti a Sala d’Ercole e «sarebbe bene - come sostengono i vertici Udc - che coloro i quali, nel Pd o nel Pdl, sono contrari a questo governo ne prendessero le distanze, non fosse altro che per fugare il sospetto di esserne complici».
Ma soprattutto Berlusconi fa un passo delicatissimo quando parla della situazione in Iran: «Credo che al G8 ci si muoverà con delle sanzioni verso Teheran». Parole pesanti, considerata la prudenza al limite dell’inerzia esibita dall’Unione europea venerdì scorso. Non c’è dubbio che in questo modo l’attenzione per il gossip possa affievolirsi, ma una spinta certo contraddittoria verso il superamento della guerriglia mediatica in corso arriva quando Berlusconi mostra di essere lui stesso poco attento all’invito di Napolitano descrivendo l’opposizione come «un cadavere che cammina». La sua è un’offensiva a tutto campo, che si intensifica nella seconda parte della conferenza stampa napoletana quando definisce il suo governo «il più stabile d’Occidente», e sembra funzionale a ricacciare feste e questioni private sullo sfondo. D’altra parte è difficile credere il premier sia davvero sollevato dalle
ha sottolineato tuttavia che ci saranno diversi trimestri di crescita negativa per l’economia europea così come aumenterà il tasso di disoccupazione. Secondo il commissario, inoltre, non è arrivato ancora il momento di adottare misure fiscali per l’«exit strategy» dalla crisi, ma è fondamentale discuterne: «È straordinariamente importante che i governi abbiano strategie di uscita». Le previsioni inflazionistiche dell’euro zona sono «ben ancorate», anche se rischi potrebbero arrivare dalla crescita del prezzo del petrolio e delle materie prime. Gli stimoli fiscali, ha concluso Almunia, dovranno continuare a essere applicati e ulteriori pacchetti di aiuti non devono essere esclusi.
Migliora intanto per il terzo mese consecutivo l’indice Ue sulla fiducia nell’economia di imprese e consumatori. A giugno è a quota 73,3 nell’eurozona, con un aumento di 3,2 punti, e a 71,1 nella Ue a 27 membri. È anche in base al segnale che viene da questo importante indice che l’Unione europea si sbilancia a prevedere un allentamento della morsa della crisi. Ma non si nasconde dietro a un dito e ricorda che l’indice rimane comunque ai livelli più bassi dalla fine del 1992.
mondo
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Exit strategy. Gli americani garantiranno supporto logistico e interventi d’emergenza ai 750mila uomini di esercito e polizia di Baghdad
L’Iraq agli iracheni I soldati Usa si ritirano nelle basi locali, da oggi al Maliki ha il controllo della sicurezza interna di Pierre Chiartano ’Iraq volta pagina con l’inizio del ritiro delle truppe statunitensi dai principali nuclei urbani, come previsto dall’accordo per la sicurezza (Sofa). Unavvenimento che il governo del premier Nouri al Maliki ha deciso di festeggiare proclamando il 30 giugno giorno di festa nazionale. In realtà nelle città resterà un piccolo numero di addestratori e consiglieri militari, mentre il grosso delle truppe – 130mila effettivi – verrà trasferito nelle basi fuori dai centri urbani. Le forze Usa potranno comunque intervenire su specifica richiesta delle autorità irachene. Autorità che si dichiarano molto fiduciose nelle capacità delle forze irachene – 750mila effettivi tra esercito e polizia – di garantire la sicurezza, anche nel convincimento che le milizie ribelli intensificheranno il numero di attentati, per minare la fiducia dell’opinione pubblica nel governo. Come dimostrano i recenti attacchi avvenuti a Kirkuk, Nassiriyah o Baghdad e costati la vita ad almeno 150 persone. Nel complesso il livello delle violenze è in netto calo da un anno e lo scorso maggio è stato il meno sanguinoso dall’invasione del 2003. Una calma che ha convinto il governo iracheno ad autorizzare la rimozione delle barriere protettive (antiblast wall) in cemento costruite nella capitale. Di qui al 2011 – data del definitivo ritiro Usa – le forze americane, oltre all’addestramento, offriranno un sostegno logistico, soprattutto nel trasporto aereo, oltre alla consegna di 8.500 humvees. Sotto giurisdizione irachena passeranno inoltre gli undicimila detenuti nelle due carceri militari statunitensi. Da oggi dunque le truppe irachene sono responsabili della sicurezza nel Paese. Ma l’Iraq può essere definito più sicuro?
L
Ci aiuta a capire il generale Fabio Mini, esperto di missioni all’estero e già comandante di Kfor nei Blacani. «Penso che sia più sicuro, anche perché molti provvedimenti presi dagli americani, negli ultimi due anni, hanno completamento rovesciato strategia e atteggiamen-
Anche in questa missione c’è il marchio dei padri fondatori
Una democrazia: ecco la vera vittoria delle truppe statunitensi di Mario Arpino segue dalla prima Il piano proseguirà man mano che l’esercito nazionale e la polizia si dimostreranno in grado di controllare il territorio, per completarsi entro il 2011. Si sa già, però, che su “richiesta” del governo iracheno rimarranno attivi circa 50 mila istruttori, spalleggiati da forze di sicurezza. Non è forse un affrancamento totale, ma certo un passo avanti condizionato, che il Paese deve dimostrare di saper meritare. I 250 sciiti morti negli attentati della scorsa settimana non sono tuttavia un inizio promettente.
Sembra giunto il momento di tentare cautamente qualche bilancio. Ne è valsa la pena? 4.000 caduti americani e 100 mila iracheni uccisi – la maggior parte per lotta intestina – sono un prezzo di sangue sufficiente perché questo martoriato Paese abbia un po’di stabilità? La risposta non è facile, e sicuramente varia a seconda del quadrante di provenienza. Per gli iridati sbandieratori nostrani, quelli che hanno rinfrescato nel sangue americano le loro bandiere di pace ormai stinte, il giudizio è sicuramente negativo. Anche negli Stati Uniti, l’opinione degli speculatori amici di Michael Moore non sarà certo di approvazione. Eppure... Saddam Hussein non c’è più, un nuovo esercito iracheno, con tutte le difficoltà etniche e culturali esistenti, sta comunque prendendo forma e offrendo qualche garanzia di stabilità, gli iracheni hanno imparato ad andare a votare – alla fine lo hanno fatto anche i sunniti più renitenti – e hanno fatto questo esercizio già tre volte nel giro di sei anni. C’è una Costi-
tuzione approvata – pur se alcuni punti sono ancora oggetto di discussione – ed esiste un Governo eletto. Il pluralismo politico, con decine di testate di carta stampata e televisive, è una realtà innegabile. Certo, non siamo ancora a vere e proprie forme di democrazia all’occidentale, ma non è poi detto che siano queste ultime le più adatte sotto ogni profilo. Per un Paese che ha sempre e solo conosciuto dittature, satrapi e tiranni, non è un cattivo inizio.
Torniamo ora all’America. Perché ha scatenato tutto questo? Poteva farne a meno? Direi di no. Forse, però, poteva farlo in modo diverso. Resta che la maggioranza degli americani nella democrazia ci crede, come è anche convinta di essere portatrice di una missione. Basta leggere la loro storia. I padri fondatori hanno impresso sul popolo americano un marchio indelebile, trasmettendo ai discendenti l’idea di un’America protetta dal cielo, cui era stata assegnata l’impegnativa missione di salvare il mondo. Dice Huntington che la cultura degli americani «è stata ed è ancora, principalmente, la cultura dei coloni. Vero o no, in Iraq ritengono di aver svolto la missione e, con circospezione, cominciano ad andarsene. Lasciando un seme nel solco.
le strategia di counterinsurgency». Parliamo di una miscela concettuale tra operazioni militari e «antropologia culturale», ci spiega Mini. «Andava prima compreso l’ambiente umano e poi quello geografico. Altrimenti era difficile capire la politica più giusta d’intervento. Il grande merito di Petraeus è stato quello di riconoscere – primo comandante a farlo –
Il generale Mini: «Politicamente è stato un bilancio positivo. È caduto un dittatore. Dal punto di vista militare è stato una sorta di addestramento sul campo. Si è imparato dagli errori» to del periodo precedente». Un mix tra dottrina Petraeus– dal nome del generale americano che l’ha proposta – e un nuovo approccio che potremo definire «antropologico» alla politica di stabilizzazione. Pratiche antiinsurrezionali, psycological warfare, cooperazione civilemilitare e molto di più ancora, sono la formula che avrebbe dato la svolta alle operazioni in Iraq. Per Mini non è tutto oro quello che luccica. «Non darei tutto questo credito a Petraeus, che ha avuto il grande merito di fare da parafulmine con l’amministrazione centrale. Il generale Usa è riuscito a mettere insieme un certo numero di menti brillanti e giovani. Non ultimo David Kilcullen (già ufficiale australiano, in congedo dal 2005, assunto nel dipartimento di Stato Usa, ndr) che fra l’altro non è più d’accordo con l’attua-
che non era preparato. Un bagno d’umiltà che lo ha portato ad aprire agli esperti e ad uno studio sul campo». Quest’approccio avrebbe condotto alla scelta di Kilcullen, un esperto che aveva studiato in Asia i fenomeni controinsurrezionali.
Da non dimenticare la grande esperienza vietnamita fatta da Washington, a proposito di sofisticate relazioni tra operazioni militari e approccio “culturale”, ben descritta nel libro Fire in the lake di Frances FitzGerald. «Forse l’esperienza vietnamita era più guerra che counterinsurgency, anche se qualcuno l’ha catalogata così. In quel caso gli Usa pensavano di stare in mezzo ad una guerra civile tra Sud e Nord. Lì c’è stata una prima intuizione, ma dopo il 1972. Si accorsero che certe tattiche militari non era-
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Paese in festa per il ritiro, Baghdad blindata Una donna irachena stringe il figlio al braccio mentre i marines americani compiono una missione di ricognizione per le strade di Baghdad. Nella seconda guerra irachena sono morti circa 100mila civili. A destra, le truppe speciali statunitensi controllano la situazione nel corso delle ultime elezioni legislative, che hanno riconfermato il governo del primo ministro Nouri al Maliki. Nella pagina a fianco, una bambina di Kirkuk fissa un mitra
no efficaci come altre, adottate dagli inglesi, ad esempio, nelle rivolte del periodo postcoloniale in tutta l’Asia». In quel caso il parere di MIni è abbastanza critico sul prodotto finale. «In Iraq quando Petraeus si è accorto dello stallo pauroso, si è tornati indietro». Back to the basic direbbero gli americani, intendendo ripartire dall’analisi fondamentale di un’area.
«Si chiama human territory. Cioè capire chi sono le persone che lo abitano? Quali i loro bisogni in fatto di sicurezza, ma anche nel campo economico e sociale. Poi valutare cosa possa essere soddisfatto. Le decisioni prese con il nuovo approccio hanno avuto successo. È un modo diverso di trattare con una popolazione che percepisce di essere occupata. La svolta nella missione ha una collocazione precisa. «A partire dal surge (il rinforzo graduale di truppe, ndr). Un successo che non ha però coinciso con la maggior sicurezza sul terreno. Mi spiego meglio. Petraeus non era sicuro che il nuovo approccio “culturale” funzionasse. Il surge era la ruota di scorta, una sorta d’assicurazione contro il fallimento della nuova politica. Che invece ha funzionato». In pratica il generale Usa temeva che della situazione ne approfittasse l’Iran – per lui il peggior nemico in Iraq – l’incremento di uomini sarebbe servito nel caso la nuova politica fallisse. «Ora il successo prosegue», ma non è stato facile metter mano
a una situazione di vero caos e metter in ordine le priorità. «Il primo presupposto è stato dichiarare sunniti ed ex baathisti (il partito di Saddam, ndr) non più criminali. Poi che gli sciiti non sono tutti dei santi. Terzo sciiti e sunniti non dovevano più stare insieme. Un punto ancora in attesa di verifica sul campo. Baghdad non è mai stata divisa tra queste due fazioni della fede islamica, neanche sotto Saddam. Sono sempre esistite famiglie miste e la diversa fede non è mai stata motivo di separatezza. Gli americani hanno voluto creare delle
zando e rastrellando – senza tanti complimenti – anche solo verso sospetti di attività contro le forze occupanti. I dati statistici mostravano che le perdite di militari erano proporzionali a quelle dei civili, su scala diversa naturalmente». Era l’odio che generava odio. «I militari in quel periodo morivano a centinaia ogni mese. I civili iracheni a migliaia». Più si ammazzava e più si veniva ammazzati . «Allora si è pensato che fosse meglio metterli in galera». Sono gli 11mila detenuti che verranno consegnati ai guardiani iracheni. «Se il sistema funzio-
«La svolta si è avuta in coincidenza col surge (più truppe). Ma non è stata la la chiave del successo. Petraeus ha avuto l’umiltà di ricominciare da zero lo studio dei problemi sul campo» zone omogenee con delle barriere sia fisiche che metaforiche. Per poter adottare le misure giuste per quel specifico tipo di comunità». Insomma, una scelta operativa che semplificasse il lavoro sul campo. Il melting pot religioso avrebbe creato confusione e forse qualche danno nella gestione esterna dei problemi.
«Per il momento questa separazione funziona. C’è la spada di Damocle di una verifica nel medio periodo». La prevenzione del terrorismo è stato un altro punto di svolta determinante. «Prima veniva fatta ammaz-
nerà, bene. Altrimenti questa gente andrà ad alimentare nuova guerriglia». Gli iracheni forse potrebbero farcela anche da soli. «Hanno il sostegno psicologico di aver gli americani ancora pronti ad intervenire. In più sono integrati con le milizie sunnite che prima combattevano». Senza dimenticare le compagnie private di sicurezza. Parliamo di 150mila uomini, di cui 50mila stranieri. Ma il bilancio dell’intervento in Iraq è positivo?«Politicamente, sì. È caduto un dittatore. Dal punto di vista militare è stato una sorta di addestramento sul campo, imparando dagli errori».
Il Giorno dell’orgoglio
di Mario Arpino iorno della sovranità nazionale». Così il governo iracheno ha deciso di chiamare la giornata di oggi, quando i soldati americani si ritireranno nelle loro basi lasciando tutte le città del Paese mediorientale. I festeggiamenti voluti dal governo di Nouri al Maliki sono cominciati nel tardo pomeriggio di ieri nel parco Zawraa di Baghadad, dove si sono esibiti cantanti e poeti per celebrare l’evento. Oggi, inoltre, è stata dichiarata “giornata di vacanza” in tutto il Paese. Il ritiro degli americani dai centri abitati è stato preceduto da una ripresa degli attentati, il più sanguinoso dei quali risale a mercoledì scorso e ha provocato 74 morti in un mercato del quartiere sciita di Sadr city a Baghdad. Per evitare nuovi attacchi in vista delle numerose celebrazioni (anche organizzate dai privati della capitale irachena), la sicurezza è stata rafforzata a Baghdad e in tutto il Paese: la polizia ha istituito numerosi posti di blocco dove le automobili vengono attentamente perquisite. «Tutte le truppe sono in stato di massima allerta. Non sono possibili giorni di congedo. È in corso un massimo dispiegamento in tutto il Paese», ha affermato il generale Abdul Kareem Khalaf, portavoce del ministero degli Interni. L’acquartieramento delle truppe americane è il
«G
primo grande passo nell’ambito della strategia decisa dal presidente americano Barack Obama in vista del ritiro dall’Iraq, che si completerà entro il 31 dicembre 2011. «Questo è il giorno dell’Orgoglio iracheno», titolava ieri il giornale di stato iracheno al Sabah, in un duro commento sull’imminente ritiro delle truppe statunitensi dalle strade delle città irachene: ieri era «l’ultimo giorno d’arroganza per soldati americani nelle strade delle nostre città». Ma atten-
Sono migliaia le feste pubbliche in atto sin da ieri, quando i soldati Usa hanno iniziato il ritiro dalle strade. Oggi è giorno di ferie per tutti zione - precisa l’editoriale «la nostra non è ingratitudine verso chi ci ha liberato dal più sanguinoso despota nella storia, l’ex presidente Saddam Hussein. Tuttavia troppo alto è il prezzo pagato dagli iracheni: «Troppo sangue innocente versato e nessun rispetto per la vita da parte dei liberatori». Senza nascondere la paura dalle imminenti insidie, il giornale di Stato si fa quindi coraggio e lancia il suo appello alle forze politiche irachene: «Nessuna minaccia di terrorismo, nessuna paura delle mire dei paesi limitrofi per destabilizzare il nostro paese, dovrà distrarci dall’impegno di difendere la sovranità conquistata». Anche «per dimostrare al mondo intero che ce la siamo meritata».
panorama
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Poltrone. Il Popolo della libertà deve indicare tutti i dirigenti locali: e i triumviri litigano sui nomi
La carica dei centomila Berluscones di Marco Palombi
ROMA. Centomila nomine, dirigente più dirigente meno.Tante sono quelle che si apprestano a fare i traballanti triumviri del Popolo delle libertà in queste settimane. Trattasi della spina dorsale del partito che, tra congresso frettoloso e tornata elettorale, è stata finora affidata alla sommatoria tra il personale politico preesistente di Forza Italia e di Alleanza nazionale. Più precisamente vanno indicati venti coordinamenti regionali da 50 persone l’uno, oltre cento organi provinciali da 30 componenti, più le ottomila e dispari strutture comunali con dieci persone a testa. Centomila nomi per cui nel partitone berlusconiano sono in corso da settimane lotte intestine e qualche significativo rimescolamento di posizioni.
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
A via dell’Umiltà, ad esempio, si dice che Denis Verdini e Ignazio La Russa abbiano stretto un’alleanza di ferro per gestire questa fase così delicata, mettendo di fatto in minoranza Sandro Bondi, che pure sarebbe il coordinatore della troika del predellino, il quale è a sua volta tornato a
anno non ha mai fatto toccare palla) abbia fatto circolare la voce di un suo ritorno alla gestione del partito, incarico che assolse già negli anni Novanta, quando si fece molti nemici trasformando Forza Italia in una macchina organizzativa pesante dal comitato elettoral-aziendale che era. Voce
Verdini e La Russa avrebbero già deciso regole e persone, senza consultare il ministro Bondi. Ma il premier non vuole più delegare le decisioni chiedere al Cavaliere il permesso di lasciare il governo per occuparsi solo del partito. Il ministro dei Beni culturali, peraltro, in questo momento ha il vantaggio di essere assai vicino al cuore del Capo, soprattutto perché è l’unico fra i tre ad aver incrociato pubblicamente la sciabola col gruppo Espresso su prostitute, minorenni eccetera. Che il momento sia cruciale per i futuri assetti del centrodestra – massa di manovra da un lato e vicinanza al Re Sole dall’altro – lo dimostra il fatto che Claudio Scajola (ministro a cui il collega Tremonti per tutto un
priva di fondamento perché, semmai Scajola dovesse lasciare il governo, sarebbe per una bocciatura e non certo per una promozione alla guida del Pdl. Silvio Berlusconi, infatti, è ad oggi diviso tra due opzioni: lasciare tutto com’è puntando sulla sua capacità di generare consenso oppure avviare una ristrutturazione di governo e partito nella direzione di un ritorno alle origini. Alcuni tra i suoi consiglieri, infatti, spingono per un Berlusconi versione 1994: rivoluzione liberale, meno tasse, guardia pretoriana di alto profilo a sostenerlo.
Qualunque cosa decida il premier – o sarà costretto a decidere – resta il fatto che sia assai irritato coi “gestori” del Pdl, gente che considera alla stregua di amministratori di una sua proprietà. «M’hanno lasciato solo a spingere la carretta», disse all’indomani delle europee, quando s’accorse che la sua creatura aveva perso punti rispetto alle politiche e lui stesso era rimasto parecchio al di sotto dei 3 milioni di preferenze che aveva fissato come soglia per dichiarare vittoria. Se la prese in particolare con Ignazio La Russa, reo di apparire troppo in tv ai danni degli azzurri e di avergli sottratto preferenze nel Nord Ovest. Ma è tutto il partito ad essere sotto accusa: secondo Berlusconi gli uomini del Pdl – distratti da beghe interne e ambizioni private - non si sono dati da fare abbastanza per garantirgli quello straordinario successo personale che lo avrebbe reso inattaccabile.Voleva cacciare pure i triumviri, il Cavaliere, ma mercoledì scorso li ha più o meno perdonati: a ballare, adesso, sono i coordinatori regionali, appena nominati e già a rischio “licenziamento”.
La sua morte resterà sempre avvolta nel mistero. Anche se il mistero non c’è
Comincia la seconda vita di Jacko ulla morte di Michael Jackson c’è una sola certezza: non si saprà mai come è morto. Anzi, per essere super precisi: si saprà, ma sarà un fatto secondario o addirittura insignificante perché ciò che conterà realmente - e ciò che già conta adesso - è unicamente il mistero della sua morte. Medici e magistrati potranno fare benissimo il loro lavoro e arriveranno a una conclusione certa, chiara e verificata, circostanziata, ma tutto quanto faranno sarà sempre insufficiente perché tutti hanno già deciso che la morte di Michael Jackson dovrà essere un mistero per alimentare il suo mito. Jackson come Elvis, come Marylin. Sono morti, ma sono vivi. Vedrete, da qui a qualche tempo si dirà anche che in realtà Michael Jackson non è morto e vive, nascosto, un’altra vita. E’ già successo, succederà ancora.
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Effettivamente, bisogna riconoscere che un che di immortale in questa storia c’è (vedete che la cosa comincia subito a prendere forma). Aveva solo cinquant’anni, dunque è morto giovane. La vecchiaia non ha avuto il tempo di presentargli il conto e chi muore prematuramente è un po’ come se non morisse.
È uno strano paradosso, ma è così: la morte, ossia quella ultima e prima possibilità che azzera tutte le altre nostre possibilità di vita, è come se uccidesse se stessa. L’immortalità è la permanenza nella memoria. Le star - le stelle sono immortali perché la loro icona si impone a milioni e milioni di esseri umani e, in questo caso, non solo alla memoria collettiva ma anche alla memoria discografica, televisiva, cinematografica, informatica, web. È la civiltà dei mezzi di comunicazione di massa che ricorda un suo figlio che ha partorito, cresciuto, amato e infine ucciso. Ma ora lo ricorda. «Sono un uomo finito». Questa frase disperata gli è stata attribuita - dunque, non si sa se è stata veramente pronunciata dal “re del pop”, ma tutto ora appartiene al regno del mistero e tale deve essere per-
ché la leggenda e il mito richiedono che tutto sia misterioso, anche la storia, soprattutto la storia e la vita dell’immortale - questa frase, dicevo, gli è stata attribuita e sarebbe stata pronunciata una settimana prima della sua morte misteriosa. La sua fine è la sua rinascita. I suoi dischi sono in cima alle classifiche e i suoi dischi futuri, quelli che arrida veranno qui a un po’ e un po’ saranno noti e un po’ saranno inediti, scaleranno regolarmente ogni volta le mondiali. classifiche Non era più in grado di cantare e avrebbe dovuto iniziare da Londra un grande tour. Come avrebbe fatto? La morte lo ha soccorso: adesso canta contemporaneamente in tutto il mondo. La morte coincide con la sua “seconda vita” o con l’altra vita di Michael Jackson. Chi lo ha visto negli ulti-
mi tempi e negli ultimi suoi giorni racconta di un uomo che era diventato scheletrico: era vivo, ma era morto. Invece, ora che è morto è vivo. Forse, Michael Jackson non è stato mai così vivo come è vivo oggi che è morto. Eravamo abituati a vederlo con quella sua faccia diventata una impressionante maschera, mentre ora in televisione e sui giornali lo vediamo finalmente come era prima, quando era giovane e bello. La morte gli ha ridato ciò che la vita gli aveva tolto: la bellezza.
La vera vita di Michael Jackson comincia soltanto ora. Ora che la sua arte è completamente separata dal suo corpo, ora che la sua bravura è indipendente dal suo fisico, ora che la sua immagine è divisa dalla sua carne. Adesso che è morto non può più morire e la morte ha perso su di lui ogni potere. Adesso Michael Jackson vive una vita separata che sarà molto più lunga - anche se non imperitura, verrà un tempo in cui le memorie umane entreranno definitivamente nel niente, ma non ditelo a Emanuele Severino - delle sue leggendarie cinquanta primavere. La seconda vita di Michael Jackson è appena cominciata.
panorama
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Programmi. Si moltiplicano le analisi (da parte di Pdl e Pd) della politica centrista. Ma sono letture sbagliate
Altro che “due forni”! L’Udc è l’alternativa di Francesco D’Onofrio i rincorrono, comprensibilmente, le analisi concernenti le scelte che l’Udc ha fatto in riferimento ai ballottaggi per le elezioni amministrative e se ne trae di solito la conseguenza che si è trattato di un esperimento di doppio “forno”. Ma quale doppio forno! L’Udc ha infatti deciso di non entrare nel Pdl e di non passare al Pd proprio perché ha affermato ed afferma di essere alternativo ad entrambi: al Pdl e al Pd infatti si chiede con insistenza di dire che cosa essi siano perché fino ad oggi non lo ha compreso nessuno.
S
Nelle ultime settimane si è votato per le elezioni Europee con un sistema proporzionale e sbarramento nazionale al 4%; per il referendum sul sistema elettorale; per le elezioni amministrative. L’Udc ha affrontato tutti e tre questi fondamentali turni elettorali con la propria identità di partito liberalpopolare come si conviene per un partito che non si limita soltanto ad essere nel Partito Popolare Europeo perché si tratta di un partito che è soprattutto erede dei fondatori stessi del
Serve un impegno culturale di fondo per rifiutare sia la tentazione di un ritorno al passato sia l’idea di un progetto legato solo al presente Partito Popolare Europeo , ossia di un progetto che operava in Europa molto prima di Pd e Pdl. L’Udc a sua volta non si è voluto rinchiudere nella semplice nostalgia del passato, perché ha promosso la Costituente di Centro che è aperta a tutti coloro che si sentono culturalmente e politicamente al-
ternativi a Pd e Pdl. Non si tratta pertanto della ovviamente stanca riproposizione di un passato che si è esaurito, ma dell’affermazione di un futuro da costruire nella piena consapevolezza che le risposte fino ad ora tentate dal Pd e dal Pdl si iscrivono tutte nella lunga transizione iniziata con la fine
della cosi detta Prima Repubblica. Quel che sorprende nel Pdl è proprio la mancanza di qualunque analisi politica concernente il passato e l’assenza totale sul futuro dell’Italia nel mondo contemporaneo: è come se il Pdl vivesse di uno smisurato presente senza passato e senza futuro. Quel che sorprende a sua volta nel Pd è l’assenza di una radicale rottura almeno con il passato comunista perché non si costruisce nulla se prima non si afferma di avere strategicamente sbagliato su questioni fondamentali per l’Italia, l’Europa Il mondo. Con la Costituente di Centro non si intende pertanto dar vita ad un altro piccolo partito italiano destinato ad oscillare da una parte o dall’altra dei due presuntuosi e sedicenti poli. Piena coerenza rispetto ai valori costitutivi della storia italiana dell’800 e del 900; dura autocritica per quel che concerne la trasformazione dell’ispirazione popolare sturziana in cultura e prassi di Partito-Stato; assoluta consapevolezza delle novità sociali italiane ed europee nel contesto della globalizzazione, guardando pertanto al futuro dell’I-
Lotte. Il leader della Cgil e gli operai Fiat di Termini Imerese contro la chiusura dello stabilimento
Epifani e la fabbrica impossibile di Vincenzo Bacarani
ROMA. Sempre più tesi i rapporti tra i sindacati e la Fiat dopo le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. «Termini Imerese – ha detto il numero uno del Lingotto – non ha ragione di esistere» e dunque lo stabilimento siciliano sarà riconvertito, non produrrà più auto (attualmente dagli stabilimenti esce solo la Lancia Y), farà qualcos’altro a partire dal 2012, ma non si sa che cosa e forse seguirà il mesto destino dello stabilimento Alfa di Arese. «Le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat sono incomprensibili» ha però risposto subito il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, che ha aggiunto: «Se questa scelta dipende dalla domanda di auto, prima vediamo come va la domanda. È una decisione contraddittoria rispetto a quanto fatto e detto dalla Fiat fino a qualche giorno fa. Una scelta, anche dal punto di vista del tempo e del metodo, priva di senso».
Troppo distante, isolata dalle grandi vie di comunicazione, quella fabbrica. Per Marchionne, Termini Imerese rappresentava e rappresenta tutt’ora un enorme e irrisolvibile problema di logistica. Ieri, di fronte a questa funesta prospettiva, si sono svolti i primi scioperi e i primi picchettaggi sia nello stabilimento Fiat sia nelle aziende dell’indotto. Occupata la stazione ferroviaria, bloccata
Ieri ci sono state nuove manifestazioni di protesta per spingere Sergio Marchionne a recedere dalla sua decisione di ristrutturare la produzione
Ma lo stesso Epifani e tutti i sindacati sapevano benissimo da tempo che il destino dello stabilimento siciliano era appeso a un filo di lana e ben prima dell’operazione Chrysler.
l’autostrada Palermo-Catania: è il caos. I lavoratori Fiat interessati, tra operai e impiegati, sono circa 1400, quelli dell’indotto circa 800. La Regione Sicilia è intervenuta nei giorni scorsi soltanto per dire alla Fiat che a Termini Imerese si devono fabbricare auto e nient’altro. Il Lingotto vorrebbe invece che l’ente pubblico intervenisse in maniera più concreta e propositiva per risolvere, almeno in parte, il problema. Per i sindacati, un nodo difficile da sciogliere. Bruno Vitali, responsabile del settore auto della Fim-Cisl, dice a liberal: «Non abbiamo ancora dati ufficiali, cerchiamo di capire com’è realmente la si-
tuazione». Una strategia – sembra di capire – non è pronta al momento. «Noi – prosegue Vitali – abbiamo un programma un incontro mercoledì per avere maggiori dettagli e per capire bene qual è l’orientamento dell’azienda. Un incontro iniziale cui dovrà seguire un confronto al ministero del Lavoro con l’azienda e con gli enti pubblici interessati. Quello che preoccupa di più è l’indotto. È necessario coinvolgere le istituzioni».
«A questo punto – dice a liberal Enzo Masini, responsabile settore auto della Fiom-Cgil – è assolutamente necessario un incontro con il governo perché la questione di Termini Imerese non può essere considerata locale. È un problema di carattere nazionale. E gli scioperi nello stabilimento continueranno con l’adesione pressoché totale dei lavoratori».
talia in termini alternativi a quelli sommariamente affrontati da Pd e Pdl.
Si tratta di un impegno culturale e politico di fondo perché occorre saper rifiutare sia la tentazione di un ritorno purché sia al passato sia l’illusione che la politica ormai consiste di solo presente. Seguiremo con grande attenzione il dibattito che si è aperto nel Pd in vista del suo Congresso ed affronteremo in termini non moralistici il rapporto esistente tra Berlusconi e Pdl, consapevoli come siamo che si tratta di governare l’Italia o non soltanto di vincere o perdere le elezioni politiche. Le prossime scadenze elettorali riguarderanno molte regioni italiane: affronteremo anche questa stagione con lo sguardo rivolto al bene comune dell’Italia, a differenza di quanto sembra aver fatto il Pdl e non solo il Pdl in Sicilia nel corso dell’ultima crisi di governo regionale. L’Udc non è entrato nel Pdl e non è passato nel Pd per convinzione e non certo per convenienza. Continueremo in questo cammino certi che gli italiani vorranno scegliere una strada nuova perché utile al paese e non solo perché nuovista.
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segue dalla prima Un’accurata analisi delle reali dinamiche che informano il sistema capitalistico presuppongono quantomeno tre basilari affermazioni: 1) I mercati funzionano adeguatamente solo nell’ambito di un sistema di leggi, e solo sulla base di ben specifiche regole del gioco. 2) Nell’attuale pratica capitalista, l’amore per la creatività, l’inventiva e l’intraprendenza erede della migliore tradizione imprenditoriale si ergono di fronte alla mera cupidigia. 3) Le fondamentali logiche sistemiche che costituiscono l’essenza del capitalismo sono racchiuse nell’imperativo di liberare gli indigenti del mondo dall’onnipresenza di stampo premoderno della povertà più misera.Tale è la logica che ha consentito alle teorie di Adam Smith circa l’incombente benessere (invece che fame) che avrebbe beneficiato gli strati più bassi delle società di prevalere sulle catastrofiche previsioni malthusiane.
UNO SGUARDO ALLE STATISTICHE Sin dall’avvento del moderno capitalismo intorno al 1780, più di due terzi della popolazione mondiale si sono liberati dal giogo della povertà. Nelle sole Cina e India, più di 500 milioni di individui sono usciti
giore attenzione all’urgente necessità di liberare il mondo dalla povertà. Reese considera tali posizioni come anticapitaliste. E ciò suona ridicolo. Affermazioni quali quelle di Benedetto XVI affondano le proprie radici nei paradigmi in virtù dei quali il capitalismo è riuscito a liberarci dalla miseria, prima negli Stati Uniti e in Europa quindi in un continente dopo l’altro, come ora sta avvenendo - e a ritmi sostenuti - in Asia (quantunque non in Corea del Nord). Padre Reese sostiene che il Papa attribuirà la colpa dell’attuale crisi finanziaria globale alla “cupidigia” dei banchieri statunitensi. Sebbene molte istituzioni, istituti bancari compresi, non siano state in grado di adempiere ai propri basilari doveri, il principale colpevole per il tracollo a cui stiamo assistendo è sicuramente il governo e le misure da questo messe in campo. Esso ha infatti costretto le banche statunitensi a concedere mutui sub-prime a famiglie con reddito modesto (che si sapeva non sarebbero state in grado di restituire con una certa regolarità le somme prestate). E sempre il governo minacciò gli istituti di credito che non investivano nei pacchetti azionari resi “tossici” proprio da tali mutui. Il governo ha persino garantito la liquidità di due grandi istitu-
Sin dall’avvento del moderno libero mercato, due terzi della popolazione mondiale si sono liberati della povertà. Nelle sole Cina e India, più di 500 milioni di individui sono usciti dalla soglia dell’indigenza dalla soglia della povertà negli ultimi quattro decenni. Praticamente in ogni nazione l’aspettativa di vita ha conosciuto un considerevole innalzamento, e conformemente a ciò la popolazione appare ovunque in aumento. L’assistenza sanitaria ha compiuto significativi progressi sotto ogni aspetto, e le politiche di alfabetizzazione hanno raggiunto i luoghi più remoti e impensabili. Qualsiasi siano le ragioni che animano la pratica quotidiana dei singoli individui, il sistema ha sollevato le genti dalla condizione di indigenza come mai prima aveva fatto. La sinistra contemporanea rifiuta sistematicamente di confrontarsi con tali innegabili dati di fatto. Padre Thomas Reese, della Compagnia di Gesù, uno dei più affidabili capibastone della sinistra, ha recentemente opinato che la nuova enciclica di Sua Santità Benedetto XVI chiederà a gran voce “regole”più rigide piuttosto che “mercati liberi da vincoli”. Inoltre, il Papa esprimerà una condanna dell’avidità. Da ultimo, Joseph Ratzinger invocherà una mag-
ti quasi-governativi specializzati nell’emissione di mutui (“Fanny Mae” e “Freddy Mac”), che nel corso di quei fatidici anni hanno erogato più della metà del totale dei prestiti. Naturalmente, quando il castello di carte è crollato, Washington non ha fornito le opportune garanzie in termini di liquidità, né tanto meno ha ammesso le proprie responsabilità per le maldestre azioni sino ad allora intraprese. Per almeno dieci anni prima che il disastro si manifestasse in tutta la sua tragicità, i miei colleghi dell’American Enterprise Institute avevano avvertito circa gli abusi governativi che ci stavano sprofondando nel baratro. I partigiani dell’azione governativa fecero orecchie da mercante. Per i moralisti risulta essenziale capire con quale frequenza (ma non sempre) il governo abbia peccato gravemente nei confronti del bene comune, per una mera volontà di potere e di dominio sul prossimo. In aggiunta, i legislatori tendono spesso (ma non sempre) a definire regole sciocche e distruttive, e spesso dispensa
In occasione della pubblicazione dell’enciclica di Benedetto XVI, un
Elogio del c
di Michae
una giustizia che ammicca a qualcuno piuttosto che chiudere un occhio. L’azione governativa rappresenta sovente l’elemento attraverso cui si inquina il bene comune, più di quanto
possa fare la consueta e legittima attività dei liberi cittadini. Nel corso del XX secolo, i vari governi succedutisi hanno troppo spesso depauperato il bene comune dei propri citta-
dini per gli anni a venire. Negli Stati Uniti, il Code of Federal Regulations che regola i settori produttivi è enorme. Il Titolo 12 “Banks and Banking” (Istituti e affari bancari) è un
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Arriva “Caritas in veritate” Ieri la firma di papa Ratzinger È stata firmata ieri da Benedetto XVI la nuova e attesissima enciclica sociale dal titolo Caritas in Veritate, che verrà poi presentata pubblicamente nei prossimi giorni. Dunque “la carità nella verità” è il tema di questa terza enciclica di Ratzinger, in cui il Papa affronta un testo economico-sociale che, da tempo in gestazione, si dice dovrebbe contenere un attacco al capitalismo, o quanto meno alle sue forme più spregiudicate. Del testo papale, che ufficialmente porta la data del 29 giugno (cioè la solenne festività dei Santi Pietro e Paolo), di certo si sa ancora poco se non appunto che il Pontefice chiederebbe “regole” più rigide piuttosto che “mercati liberi da vincoli”. Quel che è sicuro, è che è passata attraverso vari rifacimenti e stesure, che fino all’ultimo hanno lasciato Benedetto XVI insoddisfatto. A differenza dell’enciclica sulla speranza, che il Papa aveva scritto personalmente dalla prima riga all’ultima, e dell’enciclica sulla carità, la cui prima metà è anch’essa tutta di suo pugno, alla Caritas in veritate hanno lavorato molte menti e molte mani. Di esperti, probabilmente, ma anche di consiglieri non addetti alla materia ma particolarmente vicini alle corde del Pontefice. Benedetto XVI, com’è ovvio, non lascerà che siano queste voci a prendere il sopravvento, ma vi lascerà in ogni caso la sua impronta. Che, d’altra parte, è già chiaramente visibile nelle parole del titolo che coniugano indissolubilmente carità e verità.
n saggio che sfata le critiche della sinistra all’economia di mercato
capitalismo
el Novak documento che consta di 4.786 pagine, il Titolo 15 “Commerce and Foreign Trade” (Commercio e scambi con l’estero) 1.941 pagine, il Titolo 16 “Commercial Practices” (Pratiche commerciali) 1.600 pagine, il Titolo 17 “Securities and Exchange Commission” (commissione per i titoli e le contrattazioni di borsa) 2.708 pagine, il Titolo 31 “Money and Finance: Treasury” (Risorse monetarie e Finanza: Ministero del Tesoro) 1.917 pagine. Il computo totale delle pagine di tale codice è 12.592. Da un capo all’altro, i volumi del Codice sarebbero lunghi 2,35 miglia. Se si contano le pagine nell’unità di misura del piede, (30 pollici per piede lineare è la misura giornalistica standard), il Codice avrebbe una lunghezza di sei miglia lineari. Un “mercato privo di regole” dunque! Non di certo nel vero capitalismo all’americana, che appare più come un moderno Gulliver imprigionato da migliaia di funi. Molti di quei regolamenti sono, è vero, anacronistici, obsoleti, costosi, distruttivi, e nei loro reali effetti si pongono in antitesi alle ragioni per cui furono
concepiti. Ma le regole esistono, le regole devono esistere. In assenza di regole non si potrebbe nemmeno giocare a baseball.
SULL’AVIDITÀ… Per quanto riguarda l’avidità, Weber affermò che essa si palesa in ogni epoca e in ogni sistema della storia umana. Tuttavia la cupidigia assunse connotanti incisivi a livello socia-
antitetici rispetto all’avidità. Le grandi università del Middle West e del Far West furono fondate con l’esplicito proposito di fungere da sprone per nuove invenzioni in settori quali il minerario, l’agricolo ed altri ambiti tecnici. Università quali Texas A & M, Iowa State, Wisconsin State, Oklahoma State e molte altre hanno rappresentato una fucina di idee per ciò che attiene la geologia, il setto-
I principali colpevoli della crisi economica sono il governo statunitense e le misure da questo messe in campo. Perché è proprio l’azione governativa l’elemento attraverso cui si inquina il bene comune le, e svolse un ruolo sicuramente più determinante, più nelle epoche antiche che non in quella attuale. Oggigiorno, l’avidità rinviene un terreno fertile in special modo dove il potere esecutivo è concentrato nelle mani di pochi individui. Al contrario, nelle società imprenditoriali quali quella statunitense è possibile arricchirsi, anche a dismisura, con metodi
ri minerario e quello delle trivellazioni, l’agricoltura, l’ingegneria e l’elettronica - idee tramutatesi in realtà grazie all’opera di imprenditori creatori di colossali fortune. Con tutte le proprie energie questi pionieri hanno reso servizio al bene comune tanto degli americani quanto dell’intera specie umana. Come Giovanni Paolo II fece saggiamente notare nella
sua enciclica Centesimus Annus (#32), nel mondo attuale la conoscenza pratica è la principale fonte di ricchezza. Le idee più che le grandi proprietà terriere costituiscono la maggiore fonte di ricchezza del mondo odierno. Come sia Cesare sia Cicerone osservarono secoli or sono, sebbene la comunione dei beni appaia agli inizi come il metodo migliore per preservare il bene comune, nella realtà dei fatti tali compiti vengono assolti dall’istituzione della proprietà privata. Tale diritto è stato a lungo giustificato in virtù del suo superiore servizio alla causa del bene comune. E almeno negli Stati Uniti molti, molti imprenditori sono pronti a mettere a rischio tutto quanto è in loro possesso al fine di creare qualcosa di nuovo, che renderà migliori le vite dei loro simili. Henry Ford fallì ripetutamente in vari campi prima di rendere la Ford Motor Company quell’emblematico esempio di grande imprenditoria che tutti ricordiamo (lo stabilimento Ford fu il primo a corrispondere ai propri lavoratori un salario pari a 5 dollari al giorno, una remunerazione più che ragguardevole per l’epoca. Al tempo infatti, gli avvocati guadagnavano una cifra annua pari a circa 1.500 dollari. E non era di certo l’altruismo ad animare Ford, bensì la volontà di far acquistare ai propri lavoratori quelle auto che essi stessi contribuivano ad assemblare). Come Oscar Handlin fece notare, nel XIX secolo praticamente ogni imprenditore del settore ferroviario che diede il proprio contri-
buto alla costruzione di linee a nord e a sud fece fortuna. Quasi ogni magnate che attraverso i binari ferroviari tentò di unire l’est all’ovest perse del denaro. Ciò che li spinse ad andare avanti non fu cieca cupidigia, bensì puro romanticismo - il desiderio di conquistare i deserti e le Montagne Rocciose. L’elemento romantico negli affari non è assolutamente sfiorato dal materialismo dialettico.
FALSE, VUOTE CRITICHE In sintesi, quasi tutte le critiche provenienti dalla sinistra circa il capitalismo tanto nella variante americana quanto sotto (alcune) altre forme risultano empiricamente false. Esse non collimano con la realtà dei fatti. E le tre critiche di cui sopra la mancanza di regole nei mercati, l’avidità e l’idea che il capitalismo renda i poveri della terra ancora più indigenti - sono particolarmente fastidiose, e ben distanti dalla realtà. E tutti quei cattolici di sinistra di buon cuore che annunciano la propria entusiastica “preferenza per i poveri” ci aiuteranno mai a liberare quegli stessi poveri dal giogo della miseria, anche solo un po’? La storia ci fornisce prove scarse al riguardo. E tuttavia dovunque si diffonda un capitalismo sano e ricco di inventiva, ecco che i poveri si rialzeranno a milioni dalla loro sventurata condizione, godranno di una maggiore tutela della propria salute fisica, avranno accesso ai livelli superiori dell’istruzione. È sufficiente dare uno sguardo alle statistiche.
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Crisi. Accolto dal sodale Chávez, il “presidente in pigiama” contesta il colpo di Stato. L’Onu denuncia la crisi umanitaria
Honduras, ultimo stop La cacciata di Zelaya porta il Paese sull’orlo di una crisi senza ritorno di Maurizio Stefanini anuel Zelaya, presidente dell’Honduras che dopo essere stato eletto col Partito Liberale aveva sterzato con mossa a sorpresa in direzione del “socialismo del XXI secolo” di Chávez, è stato destituito. Cristina e Néstor Kirchner, la coppia succedutasi alla presidenza argentina sulla base di un modello di peronismo furbastro anch’esso pronto a farsi finanziare da Chávez ma salvando qualche forma, sono stati duramente sconfitti alle elezioni di mezzo termine. Daniel Astori, il candidato moderato considerato il delfino del presidente socialista Tabaré Vásquez, ha perso le primarie del Frente Amplio in Uruguay a favore dell’ex tupamaro Pepe Mujica: un leader carismatico, ma dal pro-
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filo troppo estremo per non rendere quasi sicura la sconfitta nei confronti del candidato del Partido Nacional Luis Alberto Lacalle. E se non proprio il prossimo 25 ottobre, di certo quasi sicuramente al successivo ballottaggio. Insomma, è stata una domenica che ha in qualche modo confermato il carattere di giro di boa che avevano avuto in America Latina le elezioni del 15 marzo in El Salvador e del 3 maggio a Panama. In El Salvador, con l’elezione del giornalista indipendente Mauricio Funes sulla lista degli ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martí: punto di mas-
punto essere il 25 ottobre in Uruguay, il 29 novembre proprio in Honduras, l’11 dicembre in Cile e poi nel 2010 in Brasile e nel 2011 in Argentina. Ma non è un normale pendolo elettorale del tipo di quelli dei quali vive la democrazia in Europa.
Prima di tutto, c’è il particolare che queste alternative tendono a avvenire ai danni delle amministrazioni di sinistra più moderate alla Lula, piuttosto che di quelle radicali. Lo stesso Zelaya, malgrado la sua stravagante evoluzione, poteva difficilmente essere assimilato a un vero e proprio
Nel continente rischia di sparire l’importante “fattore tampone” che ha finora evitato il muro contro muro e che è servito allo stesso Dipartimento di Stato Usa come preziosa massa di manovra sima espansione dell’ondata a sinistra iniziata nel 1999 con l’insediamento di Chávez alla presidenza venezuelana. A Panama, con l’elezione del miliardario Ricardo Martinelli: primo segnale di un ritorno dei moderati le cui prossime tappe potrebbero ap-
estremista. Rischia dunque di venir meno quell’importante “tampone” che ha finora evitato il muro contro muro, e che è servito allo stesso Dipartimento di Stato di Washington come preziosa massa di manovra. E poi la stessa meccanica del pijamazo, l’arresto e espulsione in Costa Rica del presidente honduregno ancora in pigiama, corrisponde poco allo scenario di ricambio fisiologico di cui l’America Latina avrebbe bisogno. Intendiamoci: con tutti i suoi aspetti discutibili, specie nell’arresto dei ministri e nell’esilio al Presidente, il voto della Corte Suprema che ha ordinato il pijamazo e quello del Congresso che ha poi sostituito a Zelaya il presidente dello stesso Congresso Roberto Micheletti offrono un aspetto di legittimità molto maggiore che non la maggior parte degli scombussolamenti istituzionali che negli ultimi anni hanno agitato il panorama politico regionale, e che pure sono stati riconosciuti dalla comunità internazionale senza troppi problemi. Da una parte, quello scenario
che Zelaya ha ora cercato di imitare da Chávez, Morales e Correa, ma che in effetti era stato iniziato da Fujimori nel 1992: un presidente, cioè, che a colpi di referendum by-passa Congressi e Corti Supreme, creando una nuova legittimità costituzionale che finisce per mettere in mora quegli stessi Congressi e Corti Supreme, creando nuove istituzioni che poi gli permettono di fare tutto quello che vuole.
Dall’altro, però, comunità internazionale e Organizzazione degli Stati Americani hanno pure accettato senza troppi problemi l’opposto scenario di cui esempio classico sono gli eventi in Guatemala del 1993. Quando, cioè, il Congresso aveva risposto al tentativo di golpe bianco alla Fujimori del presidente Serrano destituendolo, ed eleggendo al suo posto un sostituito: evento che si era comunque già verificato in Brasile nel 1992, e che si sarebbe ripetuto con variazioni nel 1997 in Ecuador, nel 1999 in Paraguay, nel 2000 di nuovo in Ecuador e in Perù, nel 2001 in Argentina, nel 2003 in Bolivia, e nel 2005 per la terza volta in Ecuador e per la seconda in Bolivia. C’è ovviamente di mezzo anche lo scenario del 2002, quando la piaz-
Scene dagli scontri violenti che in questi giorni colpiscono l’Honduras. A sinistra, Hugo Chávez. Nella pagina a fianco, Cristina Kirchner za rimosse Chávez e una contro-piazza lo riportò al potere in capo a 48 ore: un caso in teoria diverso, perché nessun voto congressuale sancì lì il rovesciamento del presidente, e anzi i decreti del capo dello stato provvisorio Pedro Carmona si misero ad abrogare ogni tipo di istituzionalità, in modo sì integralmente golpista. Allora, però, erano stati in molti in campo internazionale a compromettersi in favore dell’effimero nuovo regime: dalla diplomazia spagnola a quella cilena. Ed è questo il motivo per cui oggi non solo Chávez e sodali ma un po’ tutti dicono ora di continuare a ritenere Zelaya il legittimo presidente: da Obama a Frattini, passando per il cileno segretario dell’Osa José María Insulza. Magari non durerà, ma per intanto stanno tutti a vedere come la situazione evolve… Guardiamo questi precedenti però. In base a essi, se Zelaya fosse riuscito a fare il referendum i suoi esiti sarebbero stati legittimi: malgrado la violazione della Costitu-
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Netta sconfitta della coppia presidenziale argentina alle Parlamentari
Ma il voto punisce la Casa Rosada di Massimo Ciullo e elezioni argentine di medio termine hanno decretato la sconfitta della presidente in carica Cristina Fernandez Kirchner; il suo Partito ha perso la maggioranza nelle due camere ed è stato sconfitto nelle cinque principali circoscrizioni. La debacle ha irrimediabilmente indebolito la capacità del governo della Fernandez di adottare qualsiasi provvedimento legislativo attraverso il Parlamento, a due anni dalla scadenza del suo mandato. Dopo il voto per il rinnovo del Congresso, che ha aggiornato metà della Camera e un terzo del Senato, la moglie dell’ex presidente peronista Nestor Kirchner (2003-07), l’anima di centro-sinistra del Partito giustizialista, si è ritrovata senza maggioranza in tutte e due le camere. La coppia presidenziale argentina ha ceduto terreno alle opposizioni in genere, ma soprattutto all’ex compagno di partito, “dissidente” di centro-destra Francisco de Narvaez. Il governo si ritrova così a non avere più il controllo del Parlamento (dai 15 ai 22 deputati in meno). La Fernandez e il marito, che si è speso totalmente per la moglie in campagna elettorale, avevano fatto delle elezioni di medio termine un referendum personale e avevano deciso di anticipare la scadenza elettorale di quattro mesi, per evitare di affrontarla il prossimo ottobre, prevedendo un risultato ancora meno buono di quello ottenuto ieri, a causa di un prevedibile peggioramento della crisi economica. Pur battuta dallo schieramento dal rivale de Narvaez di soli 5 punti percentuali su scala nazionale, lo schieramento facente capo alla presidentessa Kirchner ha perso nella capitale e nelle altre quattro principali province: Buenos Aires (la cintura attorno alla capitale), Santa Fe, Cordoba e Mendoza. Cristina Kirchner sarà costretta a venire a patti con l’opposizione in parlamento, che rappresenta ora il 70 per cento dell’elettorato, seppure divisa fra peronisti di destra, socialdemocratici, socialisti, radicali e liberali e piccoli partiti di sinistra. Il volto della sconfitta lo ha incarnato il marito dell’attuale capo dello Stato: Nestor Kirchner si è presentato per primo davanti alle telecamere e ha cercato di minimizzare, ammettendo una sconfitta “di misura” del partito al potere. In realtà, l’ex-presidente nel suo collegio è stato superato per due punti percentuali dal giovane Francisco de Narvaez, candidato dello schieramento del sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macri, che nella capitale ha eletto anche Gabriela Michetti. Kirchner però, ha insistito dicendo di aver perso solo «per un punto e mezzo o due punti e non abbiamo alcun problema a riconoscere la vittoria dei nostri avversari. Nei prossimi giorni ognuno potrà valutare le proprie scelte e gli errori che sono
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Il vero rischio è che, invece di un fisiologico pendolo democratico tra progressisti e moderati, l’effetto della radicalizzazione a sinistra sia quello di innescare un’opposta radicalizzazione a destra zione e l’opposizione di Congresso e Corte Suprema. Ma nel momento in cui Corte Suprema e Congresso hanno fatto in tempo a deliberare, anche la destituzione del Presidente dovrebbe essere in sé legittima: anche se questa legittimità, va ripetuto, non si estende agli arresti di membri del governo.
Ma come mai Zelaya invece di essere detenuto è stato semplicemente accompagnato fuori dalla frontiera? Probabilmente, perché la sua presenza pur da prigioniero in territorio nazionale avrebbe potuto conferire legittimità a un suo appello a un intervento militare del Venezuela e/o di altri membri dell’Alba. Il che ci fa capire una volta di più quale elemento di disturbo sia diventato l’esempio di un regime dove Hugo Chávez si fa dare pieni poteri, chiude le tv avversarie, trova cavilli per indire di nuovo referendum già persi fin quando non li vince, fa colpire gli oppositori dalla magistratura ordinaria con accuse più o meno capziose, cambia le
leggi apposta per togliere potere alle amministrazioni locali che l’opposizione ha conquistato, fa espropriare le proprietà private in modo arbitrario e fa schedare i cittadini a lui non conformi. Chi scrive è fermamente convinto che, con tutti i suoi chiari limiti, Zelaya non fosse il tipo da arrivare a certi estremi; ma si può ben capire l’allarme di chi in Honduras ci vive e ci ha i suoi interessi, ha voluto dunque in tutti i modi troncare una tale possibile evoluzione sul nascere.
E tuttavia, se pure si decidesse che tornare a metodi alla Pinochet per evitare Chávez fosse un male minore, sempre di un male si tratta. Appunto, il rischio sempre più pesante è che piuttosto di un fisiologico pendolo democratico tra progressisti e moderati l’effetto della radicalizzazione a sinistra sia quello di innescare un’opposta e altrettanto deleteria radicalizzazione a destra: col rischio, così, di riportare l’intera regione alle tragedie degli anni Sessanta e Settanta.
stati compiuti». Un raggiante Francisco De Narvaez invece, ha dichiarato dal suo quartier generale, tra i sostenitori ebbri di gioia, «ho detto che un giorno avremmo cambiato la storia e quel giorno è oggi».
La cattiva politica dei vecchi, ha aggiunto, «è stata sconfitta». Il governo di Cristina Fernandez, eletta trionfalmente due anni fa sull’onda del boom economico, ha sofferto un calo di popolarità, precipitato al 30 per cento, messo a dura prova dalla crisi economica, da un’inflazione elevata, dalla crescente violenza e logorato da una lunga battaglia con i contadini per le tasse sulle esportazioni. Inoltre, aver insistito, come ha fatto il marito, sui meriti del passato, presentandosi come il salvatore della Patria ha avuto un effetto boomerang. Gli argentini
Gli elettori non hanno gradito troppo l’alternativa presentata dai due Kirchner del “o noi o il caos” e hanno indirizzato la fiducia altrove. Punita anche la simpatia per Chávez non hanno gradito l’alternativa presentata dai Kirchner del “o noi o il caos” e hanno indirizzato la loro fiducia altrove. Anche l’appiattimento da parte della Fernandez sulle posizioni del presidente venezuelano Hugo Chavez, sui temi di politica estera, se ha prodotto qualche consenso tra la sinistra estrema, ha anche allontanato non pochi moderati dai peronisti “kirchneriani”. La stampa argentina ha riservato toni caustici alla sconfitta della coppia Kirchner: El Liberal ha parlato di «fine di un’egemonia», mentre Clarin parla di «nuova mappa politica dopo la forte sconfitta subita dal kirchnerismo». Le consultazioni di domenica infatti sono servite anche a capire chi potrà correre alle prossime elezioni presidenziali del 2011. La Fernandez dovrà guardarsi, all’interno dello stesso movimento giustizialista, dal vicepresidente del partito, Julio Cobos. In pole position, è proprio il caso di dire, anche l’ex pilota di Formula Uno e governatore di Santa Fe, Carlos Reutemann che ha dichiarato di aver vinto lottando «contro tutto e tutti».
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I socialisti in attesa del loro Sarkozy Valls, stella nascente del Ps, si candida per dare nuova vita al partito dopo il flop europeo di Nicola Accardo o chiamamo il “Sarkozy di sinistra”, perché come il Presidente parla schietto, a volte le spara grosse, sprizza energie da tutti i pori e soprattutto guarda dall’altra parte, a destra. Manuel Valls ha riunito ieri sera in un teatro di Parigi intellettuali, sindacalisti e politici attorno a una tavola rotonda dal titolo “Sinistra ottimista”, che lancia ufficialmente la sua candidatura alle presidenziali del 2012. Contro quel Nicolas Sarkozy che lui stesso prende ad esempio «perché in pochi anni ha ridato respiro alla destra francese». Manuel Valls ha 47 anni, è nato a Barcellona dal pittore Xavier Valls e dall’insegnante ticinese Luisangela Galletti, ed è naturalizzato francese dal 1982. Massone “non più attivo”, allievo dell’ex primo ministro Michel Rocard e deputato dal 2002, da qualche anno cerca, invano, di dare scosse elettriche al Partito Socialista. Dopo il 16 per cento alle Europee del 7 giugno ha messo l’acceleratore: vuole le primarie, e sarà il primo candidato. Basta con questo vecchio nome, Partito socialista: «Partito rimanda alla lotta di classe, socialismo a un progetto ereditato dal XIX secolo». Meglio un “movimento” (guarda caso l’Ump di Sarkozy si chiama Unione per un Movimento Popolare) e un
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IL PERSONAGGIO
ancoraggio al nome “sinistra”. Basta con l’antisarkozysmo - il cosiddetto “voto sanzione” è andato a svantaggio del Ps e a solo vantaggio degli Ecologisti di Daniel Cohn-Bendit - basta con gli “elefanti” che dirigono il partito da 20 anni e che hanno portato alla nomina di Martine Aubry come segretario del partito: «È una generazione che non è più capace di dare speranza. Ci vogliono idee nuove portate da uomini nuovi», ha spiegato ieri alla radio Europe1. «Se pensiamo ancora una volta che si sia trattato di un incidente», ha detto a Libération, «rischiamo di scomparire. Perché tutti i partiti, come tutte le organizzazioni umane, sono mortali. Dal 21 aprile 2002 (data della sconfitta alle presidenziali del candidato Lionel Jospin), non abbiamo trovato la soluzione a nulla: né alla que-
mercato delle pulci», ha poi spiegato Valls per dare un senso al suo politicamente scorretto. A parte la gaffe deplorata dai suoi colleghi di partito, Manuel Valls non parla certo la “lingua morta” che lui stesso attribuisce al Ps. Rigenerare, ricostruire, rifondare, tutti verbi pronunciati a ripetizione in congressi, riunioni, seminari, di cui i protagonisti sono sempre gli stessi. «Piuttosto che parlare di noi stessi, mettiamo l’individuo nel cuore del nostro progetto. Mettiamo insieme le idee per rifare la scuola, la fiscalità, il sistema pensionistico». Ed anche in quegli ambiti, il giovanotto che dice di aver rifiutato un posto da ministro proposto da Sarkozy nel governo di “ouverture”, strizza l’occhio al liberalismo: allungamento dell’età pensionabile e versamento di contributi per 41 anni, attenuazione della pressione fiscale, aumento del salario per gli insegnati migliori da mandare, però, nei quartieri più difficili. Infine, sì alle quote di immigrazione. Sarkozy ruba gli argomenti alla sinistra, Manuel Valls è pronto a rubarli alla destra. «Io il salvatore? Perché no. Sarkozy in poco tempo ha ridato forza e unione alla destra francese, Tony Blair in tre anni ha cambiato nome e struttura al Labour, Barack Obama in un anno ha permesso alla società americana di ritrovarsi intorno ai valori comuni». Il PS - o come si chiamerà - ha tre anni da qui al 2012, e prepara per l’anno prossimo le elezioni regionali. Alleanze a centro, col Modem di François Bayrou, suggerisce Manuel Valls. Un altro punto non negoziabile, secondo la direzione del Partito. Il piccolo Manuel Valls ha parecchi elefanti che gli sbarrano la strada.
Vuole cambiare nome alla formazione e strizza l’occhio a politiche fino a oggi considerate di destra, comprese le pensioni stione della leadership, né a quella della rottura con le classi popolari, né a quella della divisione della sinistra».
Il 7 giugno scorso, durante un mercato delle pulci a Evry (estrema banlieue sud di Parigi, la città di cui è sindaco), Manuel Valls passeggiava con un collaboratore e si preparava a un reportage televisivo che lo avrebbe ritratto tra i suoi abitanti. «Bella immagine diamo della città di Evry. Non puoi mettermi qualche bianco per favore?», ha detto ridendo incurante della telecamera che lo seguiva. «La mia città ha diversi strati sociali ed etnici, non si riduce a quel
Barry Tannenbaum. Spacciandosi per benefattore ha convinto oltre 400 privati a finanziare le sue farmaceutiche fino alla bancarotta
Il sudafricano che truffava con l’Aids di Mauro Frasca uo nonno era stato il fondatore della Adcock-Ingram, colosso dell’industria farmaceutica sudafricana; suo padre uno dei più generosi filantropi del Paese. E cosa poteva fare un erede di tycoon della farmaceutica e di filantropo in un paese come il Sudafrica, dove oltre un cittadino su nove ha l’Hiv? Il 43enne Barry Tannenbaum si è dunque messo a importare componenti farmaceutiche che poi rivendeva ai fabbricanti di medicamenti generici: in particolare, di retrovirali destinati appunto ai malati di Aids. Solo che adesso è saltato fuori che il business benefico sarebbe stata in realtà una copertura per la più micidiale truffa nella storia del Paese. La stampa locale parla di cifre tra i 900 milioni e gli 1,3 miliardi di euro. Per finanziarsi infatti il Madoff sudafricano, così l’hanno ribattezzato, invece di rivolgersi alle banche si faceva prestare soldi da privati attraverso l’intermediazione di due avvocati di Johannesburg. E in cambio offriva rendimenti spettacolari: dal 15 al 20 per cento ogni tre mesi, alla scadenza dei quali si poteva scegliere se reinvestire la somma o ritirarla. Chi ha insistito, è arrivato a guadagnarci sopra il 216 per cento in un anno. Come faceva Tannenbaum, ad assicurare una cuccagna del genere? Utilizzando lo stesso sistema già praticato dall’ex presidente del Nasdaq Bernard Madoff, e prima di lui da altri ancora, fino a risalire al ca-
postipite: quell’emigrato romagnolo negli Usa Charles Ponzi che per qualche mese nel 1920 fece sognare gli americani, prima di finire dentro per truffa; e che da allora è universalmente definito “Schema di Ponzi”.
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Le sue industrie sono ora sottoposte ad amministrazione controllata, ma lui accusa la crisi per il fallimento
Dare ai primo sottoscrittori semplicemente i soldi versati dai sottoscrittori successivi, fino a quando i rimborsi non diventano superiori ai versamenti e il sistema salta. Oltre 400 le vittime del raggiro: non solo negli Usa, ma anche in Europa e in Australia. Sebbene la società di Tannenbaum fosse reale, il montante degli ordini ricevuti era stato falsificato apposta per rassicurare gli investitori sulla serietà del progetto nel momento in cui i pagamenti iniziavano a ritardare. Probabilmente la cosa sarebbe potuta andare avanti per un pezzo, se l’arrivo della crisi non avesse provocato un fatale aumento delle richieste di rimborso. Adesso le autorità sudafricane hanno messo le società Frankel International Frankel Chemical Corp sotto amministrazione controllata, ma risiedendo in Australia Tannenbaum ha per ora evitato l’arresto. Anzi, l’investitore che ha chiesto la sua bancarotta ha denunciato senza mezzi termini che se l’è squagliata quando ha visto che tirava una brutta aria. Da Sydney, lui spiega però che è tutto un equivoco, e che a creare problemi non è stata una truffa. Ma la crisi.
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L’opposizione e l’Anp accusano: così la pace è impossibile
Il finanziere di Wall Street al giudice: «Non ho scuse. Ho mentito a tutti»
Israele: 50 nuovi insediamenti in Cisgiordania
Maxi-truffa in Usa, Madoff condannato a 150 anni
TEL AVIV. È polemica aperta tra l’Autorità nazionale palestinese e il governo israeliano, che ha informato l’Alta corte di voler costruire 50 nuove unità abitative nell’insediamento di Adam, in Cisgiordania. «Questa decisione distrugge l’intero processo politico», ha affermato il ministro palestinese per Gerusalemme Abd al-Qadir secondo il quale «non c’è alcuna possibilita’ di sedere a un tavolo negoziale». Lo stesso presidente del’Anp, Mahmoud Abbas, ha ribadito la propria contrarietà alla ripresa del negoziato in presenza di nuovi insediamenti. L’esecutivo di Benjamin Netanyahu difende la propria scelta motivando la con la necessità di ospitare le persone che saranno allontanati dall’insediamento illegale di Migron, vicino Ramallah. Forti critiche sono giunte al governo da parte dell’opposizione e dai movimenti pacifisti che hanno chiesto, tra l’altro, l’annullamento della visita negli Stati Uniti, iniziata nella serata di ieri, del leader laburista e ministro della Difesa Ehud Barak. Ad attendere Barak a New York c’era George Mitchell, l’inviato speciale del presidente Usa Barack Obama. Mitchell è reduce da una riunione del Quartetto per il Medio
NEW YORK. Bernard Madoff, il finanziere autore della più grande truffa della storia di Wall Street, è stato condannato nel pomeriggio di ieri a 150 anni di carcere. Il collegio della difesa aveva chiesto 12 anni, mentre l’accusa ne pretendeva 150, ossia il massimo della pena. «L’ammontare, la durata e la natura dei reati commessi da Madoff - aveva scritto il procuratore Lev Dassin - fanno sì che egli meriti, in via eccezionale, la massima punizione ammessa dalla legge». Il giudice distrettuale Denny Chin, che ha letto la sentenza a New York, ha definito la frode «stupefacente», sottolineando che ha coperto un periodo superiore ai vent’anni. Il giudice
Speranze di pace per l’Irlanda del nord I gruppi protestanti annunciano la smobilitazione di Lucio Frascaro l processo di pace in Irlanda del Nord si arricchisce di un nuovo importante capitolo. Dopo la rinuncia alla lotta armata da parte degli indipendentisti cattolici dell’Irish Republican Army, avvenuta il 28 luglio 2005, ora è la volta dei gruppi paramilitari protestanti. Le due maggiori organizzazioni terroristiche unioniste hanno annunciato infatti di aver distrutto i propri arsenali. Ieri, il responsabile della Commissione per il disarmo dell’Irlanda del Nord ha confermato di aver assistito personalmente alla consegna del maggior quantitativo di armi mai visto da parte dell’Ulster Volunteer Force, un’organizzazione armata fuorilegge che per decenni ha seminato il terrore tra i cattolici irlandesi. Il generale John de Chastelain, militare canadese in pensione incaricato di monitorare le operazioni di riconsegna o distruzione delle armi, ha affermato di non poter dire se quello consegnato dall’Uvf fosse tutto l’arsenale a disposizione del gruppo paramilitare protestante. Nel documento sottoscritto da de Chastelain e dai suoi assistenti statunitensi e finlandesi si conferma di aver assistito «alla più grande distruzione di armi, munizioni, esplosivi e detonatori appartenenti all’Ulster Volunteer Force e al Red Hand Commando». Il commando della Mano Rossa è un gruppo scissionista degli stessi Uvf, che ha come simbolo, appunto, la mano che compare sulla bandiera non ufficiale dell’Irlanda del Nord. Le dichiarazioni di de Chastelain arrivano due giorni dopo l’annuncio del comando dell’Uvf di Belfast, che comunicava la distruzione del suo intero stock di armi, avvenuta durante una celebrazioni ufficiale il 12 giugno scorso, in una località segreta dell’Irlanda del Nord. Dopo 15 anni dalla prima fragilissima tregua unilaterale annunciata dall’Uvf, il gruppo ha deciso di deporre definitivamente le armi, sostenendo che la lotta armata tra la comunità protestante e quella cattolica non ha più ragione di essere in Irlanda del Nord. Il generale non conferma però che il materiale distrutto rappresenti tutto l’arsenale a disposi-
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zione dei paramilitari protestanti. De Chastelain ha detto che i vertici militari dell’Uvf lo hanno «informato che tutte le armi e il materiale messo fuori uso» in sua presenza, costituivano l’intero arsenale a disposizione. Il militare però non si è voluto sbilanciare per confermare quanto sostenuto dai combattenti unionisti. Di quanto avvenuto, de Chastelain dovrà rendere edotti, tramite un circostanziato report, i governi del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda.
Potrebbe essere il suo ultimo rapporto da quando, nel 1997, è stato incaricato di supervisionare il processo di disarmo dei vari gruppi armati nord-irlandesi. De Chastelain ha guidato tutte le operazioni di disarmo del gruppo più organizzato e meglio equipaggiato dell’indipendentismo cattolico, i Provisional dell’Ira, dal 2001 al 2005, anche se ancora esistono nuclei di irriducibili che continuano la lotta armata. Un paio di mesi fa, coloro che si ritengono gli unici eredi dell’esercito repubblicano irlandese hanno ucciso due soldati e un poliziotto. Il militare canadese ha anche confermato di aver preso parte insieme ai suoi colleghi, il 16 giugno scorso ad un altro atto di parziale disarmo da parte dell’Ulster Defence Association, la formazione paramilitare protestante più restia ad abbandonare le armi. Le due organizzazioni fuorilegge, Uvf e Uda, sono responsabili della morte di quasi mille persone, in maggioranza civili cattolici, dagli anni Sessanta in poi. Entrambi i gruppi hanno osservato il loro cessate il fuoco unilaterale proclamato nel 1994, ma negli ultimi anni hanno posto ostacoli al loro disarmo, adducendo come scuse gli attentati e gli omicidi compiuti dai dissidenti dell’Ira. Secondo gli esperti, entrambi i gruppi hanno accettato di deporre le armi a causa della minaccia da parte del governo britannico di porre fine alla Commissione presieduta da de Chastelain, che offre ai membri delle organizzazioni fuorilegge di consegnare gli armamenti senza dover subire arresti e detenzioni.
Il responsabile della Commissione per il disarmo conferma: consegnato il maggior quantitativo di armi mai visto
Oriente che si è tenuta a Trieste a margine della riunione dei ministri degli Esteri del G8. In quella occasione è stata chiesto a Israele di congelare l’espansione, anche quella legata alla cosiddetta “crescita naturale” di tutti gli insediamenti in Cisgiordania. Attesa anche per il previsto piano di tre mesi «senza insediamenti» che il ministro - da molti considerato il vero mediatore degli Stati Uniti - dovrebbe presentare all’amministrazione Obama. Presentato in anteprima dalla stampa israeliana, dovrebbe contenere una parte delle proposte presentate dal presidente americano nel corso di colloqui privati con le autorità israeliane.
ha poi osservato che il «danno alla fiducia (fra i risparmiatori, ndr) è stato massiccio». Bernard Madoff, 71 anni, si era riconosciuto colpevole di aver truffato celebrità e piccoli risparmiatori per circa 65 miliardi di dollari e ieri, poco prima di conoscere il suo destino, girandosi verso le vittime del crack ha chiesto perdono: «Non ci sono scuse per il mio comportamento, per aver ingannato gli investitori e i dipendenti». «Ho mentito a mio fratello e ai miei due figli. Vivo in un stato di tormento. Ho commesso un errore di giudizio», ha ammesso il finanziarie. Dopo che il giudice Danny Chin ha pronunciato la sentenza in aula sono partiti diversi applausi. La truffa portata avanti dalla sua “Bernard Madoff Investement Securities”ha rappresentato uno dei capitoli più drammatici della crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti lo scorso inverno, quando l’11 dicembre 2008 gli agenti federali lo arrestarono. Nel corso degli anni, il finanziere aveva ideato una sorta di gigantesca catena di Sant’Antonio con la quale truffare gli ignari clienti attraverso il sistema della piramidi finanziarie. «Abbiamo perso la nostra libertà», avevano detto al giudice le vittime della maxi-truffa.
cultura
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Kermesse. Per il 40esimo anniversario il Teatro India ospita la storica rassegna «Urania», interamente dedicata all’evento
E la Luna bussò (alla Terra) Mostre, teatro, cinema e fantascienza: «L’Estate Romana» celebra l’allunaggio di Giusy Cinardi
ROMA. Era molto soddisfatto la scorsa settimana l’assessore alla Cultura di Roma, Umberto Croppi, nel presentare la rassegna “Urania, stregati dalla Luna nella Città delle storie disabitate”, evento inserito nel già ricco cartellone dell’Estate Romana 2009, che si terrà a partire da oggi fino al prossimo 18 luglio al Teatro India della Capitale. L’evento «è un il fiore all’occhiello di questa Estate Romana 2009», ha dichiarato Croppi, «una rassegna interamente dedicata all’astro Lunare». Anche perché, ci ha rivelato, lui della fantascienza è anche un vero appassionato. Ma, gusti personali a parte, anche perché ricorre quest’anno il quarantennale della discesa dell’uomo sulla Luna, evento che, ha ricordato ancora Croppi «ha segnato la vita di molti, almeno di quelli che hanno la mia età. Ed ha del resto cambiato i costumi: insomma, uno di quegli eventi epocali che possono essere presi come cesura storica». A dire il vero, l’idea di dedicare, se non l’intera Esatate Romana, quanto meno una rassegna interdisciplinare e ben articolata alla suggestione lunare, circolava già da un po’ nelle menti degli organizzatori, prima tra tutti la direttrice del Teatro di Roma Giovanna Marinelli: «Silvana Natoli un anno fa mi parlò di questa sua passione per la fantascienza e di questo desiderio di renderla protagonista in un anno, come il 2009, in cui in qualche modo le stelle, la luna, Galileo, l’astronomia, tutto congiurava acchè in qualche modo alzassimo gli occhi verso il cielo». E finalmente quest’anno, grazie a tutta questa concomitanza di intenti e soprattutto all’impegno dell’assessorato alla Cultura della Capitale, del Teatro di Roma, della Fondazione Fossati e di Zètema Progetto Cultura, la cosa è stata resa possibile. E, verrebbe da dire, nel migliore dei modi. La particolarità di questa rassegna, infatti, è di riuscire a rappresentare un oggetto simbolo come la Luna nelle sue più svariate suggestioni: letterarie, filmiche, teatrali, poetiche, una varietà di espressioni artistiche
che partendo dal contesto lunare riescano a portare pubblico di appassionati e esperti e attrarre chi molte cose le conosce solo in modo marginale. E la cosa che ha reso tutto ancora più suggestivo è stata la scelta della location: il Teatro India. «Uno spazio - ci racconta la Marinelli - che ha qualcosa, soprattutto nelle ore notturne che può in qualche modo consentirci di aspettare davvero gli alieni che atterrino».
E tutti gli spazi, enormi, verranno utilizzati: è stato costruito un palco esterno, nel foyer
teatro dove verranno proiettate in loop immagini di film d’epoca. Questi 20 giorni saranno quindi ricchi di una serie di interventi interdisciplinari al massimo grado: una mostra imperdibile curata dalla Fondazione Fossati, dedicata alla memoria dello storico vicedirettore di Topolino, personaggio che fu centrale nella vita dei fumetti italiani negli anni Settanta e Ottanta; proiezioni di film cult come Blade Runner di Ridley Scott, Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis e l’immancabile 2001: Odisea nello spazio di
«Il 19 luglio 1969 ha segnato la vita di molti» ha spiegato l’assessore alla Cultura Umberto Croppi. «Un passo epocale al quale abbiamo voluto ispirare le manifestazioni dell’intera estate della Capitale» verrà allestita la mostra “Stregati dalla Luna” che comprende videoproiezioni, film e incontri, opere di artisti come Crepax, Pratt, Thole, edizioni uniche come Buck Rogers del 1935 n° 169 o Vojage dans Lune di de Bergerac. Ci sarà poi la possibilità di vivere i nuovi spazi del teatro: la libreria “Indiateca”, l’esterno stesso del
Kubrick. Molto interessanti anche le visioni dei telefilm che il curatore Pier Luigi Manieri ha voluto in parte dedicare a Gerry Anderson con la proiezione di alcuni episodi della serie Ufo e con l’episodio pilota di Spazio 1999. E da non perdere la visione di cartoni animati spesso dimenticati e invece antesignani di quelli
moderni come Tekkaman, Daitarn 3 e altro ancora. E soprattutto, rappresentazioni teatrali che inizieranno già oggi: Attrazione terrestre con Giuliana Lojodice e Arnaldo Ninchi, un testo molto curioso e suggestivo, un dialogo appassionato tra un meteorite deciso a
schiantarsi sulla Terra ma che comincia ad avere dei dubbi nel momento in cui stabilisce un dialogo con un astronomo, che quasi riesce a fargli cambiare idea.
E poi ancora traduzioni e riduzioni, anche a tratti molto ra-
A tu per tu con Giovanna Marinelli, direttrice dello Stabile e curatrice di “Stregati dalla Luna”
«A Roma, un teatro come base spaziale» ROMA. Abbiamo incontrato il direttore del Teatro di Roma Giovanna Marinelli alla presentazione della sua rassegna “Urania, stregati dalla Luna nella Città delle storie disabitate”, organizzata in collaborazione con il Comune di Roma e con la Fondazione Fassani, ma che Giovanna Marinelli sente particolarmente vicina «sia per una reale passione per la letterautra di fantascienza», sia perché «già un anno fa Silvana Natoli fa mi parlò di questa sua passione. Ci è subito venuto il desiderio di organizzare una rassegna articolata e mutlidisciplinare in un anno, come il 2009, in cui in qualche modo tutto congiurava acché alzassimo gli occhi verso il cielo». E poi, non ultimo, quale direttore del Teatro di Roma, Giovanna Marinelli è oltremodo soddisfatta di aver trovato proprio al Teatro India il luogo ideale perché la manifestazione potesse svolgersi nella sua interezza. «La scelta del Teatro India come location per questa manifestazione sulla fantascienza, le stelle, la Luna, l’astronomia è senza dubbio il luogo perfetto: un luogo di architettura industriale enormemente sugge-
stivo, isolato da canneti che lo circondano di un silenzio quasi assoluto, uno spazio totalmente particolare, segnato da questo monumento, il gazometro, che sembra quasi poggiato dall’alto dentro lo spazio di India. Diciamo che è stato fin troppo facile, una scelta subito azzeccata: sembra davvero di stare su una base lunare, su un container».
Senza contare che veranno sfruttati anche tutti gli spazi esterni. «Proprio così. Le sale per le proiezioni, i palchi esterni per le rappresentazioni dove non verranno dimenticati autori italiani come Calvino, Manganelli,Ariosto e ovviamente Galilei; il bar per bere e mangiare con gusto. E soprattutto “Indiateca”, la nuova libreria specializzata in spettacolo ma che poi, scoprirete, diverrà mercatino dell’usato e dello scambio dei collezionisti di Urania». Possiamo dire allora che questa è la prima vera rassegna multiculturale dell’estate che si svolge in uno dei luoghi più suggestivi della Capitale... «Certo, e il nostro scopo è proprio quello di dimostrare che l’India è più di un teatro, è un luogo, nell’accezione più ampia del termine. È proprio questa la nostra prova». (g.c.)
cultura
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In un libro, la creatura del fratellastro del regista
Quando Monicelli inventò «Urania» Alcune immagini del Teatro India, che quest’anno ospiterà la storica rassegna di fantascienza “Urania”. La manifestazione è inserita nell’ambito dell’Estate Romana, nel 2009 interamente dedicata ai quarant’anni dell’allunaggio
dicali, del tempo lungo del romanzo di fantascienza, messo in campo per una forma orale sulla terra di testi come Blade Runner di Philip K. Dick, di Il Gigante Annegato di James G. Ballard e ancora poi Bradbury, Herbert, Simak e tanti altri di cui ci parlerà in dettaglio Lisa Natoli, assieme a Silvana Natoli, l’ideatrice. Non mancheranno discussioni, aperte al pubblico, tra cui ricordiamo quella dell’11 luglio di Gianfranco de Turris su “Fantaspaghetti: ovvero il cinema e la letteratura di fantascienza italiana”. Ultimo ma non ultimo, anche perché più caratteristico e bizzarro, il mercatino dei collezionisti di Urania che si terrà all’interno del nuovo spazio “Indiateca”: collezionisti da tutta Italia si sono dati appuntamento qui, chi di persona chi magari solo in corpo astrale, per scambiare libri, spulciare vecchie edizioni, condividere una mania che spesso è difficile da controllare.
Andreina Negretti, per decenni unica collaboratrice di Giorgio Monicelli, ideatore e curatore di Urania, fece un suo personale identikit del pubblico della collana: «Si è evoluto e
smaliziato, ma non è mai cambiato. Io credo che i lettori di fantascienza siano i più fedeli che esistono. Di appassionati ce ne sono tanti anche di gialli, però c’è una grossa fetta di pubblico che fluttua, molti più lettori saltuari e occasionali. Mi spiego con un esempio ba-
parole, la fantascienza la segue e la “compra”solo chi la conosce già e l’apprezza. Non esistono lettori occasionali, come ci sono invece, a miriadi, nel giallo».
La speranza dei curatori ovviamente è che questa rasse-
Per l’occasione, verranno organizzati incontri, convegni ed esposizioni di alcune opere di Crepax, Pratt, Thole, edizioni uniche come “Buck Rogers” del 1935 o “Vojage dans Lune” di Cyrano de Bergerac nale. Una persona che non sia già un lettore di fantascienza, se deve fare un viaggio è molto probabile che acquisti qualcosa da leggere in stazione, e di sicuro non acquisterebbe mai una pubblicazione di fantascienza; può però acquistare tranquillamente un libro giallo, anche se non è un lettore abituale. Ma se una persona, dovendo fare un viaggio, compra proprio un fascicolo di fantascienza, allora potete esser certi che è una persona che già da anni conosce bene il genere, anche se magari non è un fedelissimo di Urania. In altre
gna riesca a conquistare anche quel pubblico che magari «un libro di fantascienza alla stazione non lo comprerebbe mai». E chissà che non ci si riesca. E poi il tutto, come ha ricordato l’assessore Croppi, si concluderà il 20 di luglio a piazza del Popolo, per festeggiare proprio i primi passi sulla Luna. L’ultimo appuntamento di Urania, invece, sarà il 18 luglio con Il grande bluff con la proiezione di Capricorne One: l’uomo davvero sarà arrivato sulla Luna nel lontano 1969? Ma questa, è tutta un’altra storia.
La numero 1. La nascita della fantascienza in Italia viene fatta coincidere con l’apparizione nelle edicole nel 1957 del numero 1 della collana Mondadori I Romanzi di Urania col libro Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke. A dire il vero la collana curata da Giorigio Monicelli per l’editore Arnoldo Mondadori non è stata la prima pubblicazione specializzata ad uscire nel nostro paese ma è stata sicuramente quella di maggior durata e cha ha richiamato un maggior numero di affezionati . Durata. Dal 10 ottobre 1952 a oggi, a periodicità variabile, vengono editati oltre 1400 fascicoli editi, alcuni oggi rarissimi. Ideatore. Fino al 1962 Giorgio Monicelli, ma nel tempo anche Fruttero e Lucentini. Monicelli pubblica in prevalenza testi americani, diversi inglesi, molti francesi, alcuni tedeschi, qualche russo e una dozzina di italiani. Fanta-scienza. È proprio a Monicelli che si deve il neologismo fanta-scienza (prima col trattino, poi senza) negli anni ’50, nel tentativo di italianizzare il termine americano “science fiction”. Monicelli curatore. Giornalista e traduttore di professione, fratellastro del regista Mario da parte di padre, convince l’editore Mondadori a tentare il lancio di questa nuova forma narrativa. Nasce così Urania, dal nome della musa greca dell’astronomia. È il 1957, ma all’inizio nessuno in casa editrice sembra avere fiducia nella nuova creatura: non viene costituita una redazione e le tariffe editoriali sono le più basse di tutta la Mondadori. Monicelli non viene riconosciuto direttore ma curatore: Urania rimarrà l’unica pubblicazione della Mondadori priva di un direttore ufficiale.
La rivista nasce nel 1957 per Mondadori da un’idea di Giorgio, spesso solito firmarsi con gli pseudonimi Tom Arno e Il Selenita
Fino agli anni ’80. La redazione era una piccola stanza in una specie di depandance in fondo a una serie di uffici, dove avevano sede anche Segretissimo e i Gialli. Poi il trasferimento a Segrate. Le fughe scarpe in mano. Si racconta che Monicelli fosse poco ligio a orari e obblighi aziendali e così non era raro per Zavattini, suo supervisore alla Mondadori, vederselo andar via scarpe in mano prima della fine dell’orari di ufficio. Tom Arno. Finché ha curato Urania Monicelli riguardava tutte le traduzioni e molte le eseguiva personalmente con lo pseudonimo di Tom Arno (omaggio al padre Tom a al paese dell’amico fraterno Enrico La Stella), preparava i redazionali, istruiva gli illustratori e sceglieva i titoli da pubblicare. Il Selenita. Su Urania Rivista (durata 14 numeri) Monicelli rispondeva anche alla posta dei lettori con lo pseudonimo de “Il Selenita”. Il mostro immortale. I romanzi più vecchi tra quelli apparsi su Urania nell’era Monicelli sono Il pianeta dimenticato e Il mostro immortale. Dal libro L’era di Giorgio Monicelli di Luigi Cozzi (Profon(g.c.) do Rosso Edizioni).
cultura
pagina 20 • 30 giugno 2009
Tra gli scaffali. La casa editrice Scheiwiller manda in stampa la nuova raccolta “Scrivo per te, mia amata e altre poesie”
Manacorda, o del pensiero emotivo di Matteo Marchesini fogliando Scrivo per te, mia amata e altre poesie, la nuova raccolta di Giorgio Manacorda uscita per Scheiwiller, ci imbattiamo in una traumatizzante Nota autocritica. «Considero questo il mio unico libro di versi» afferma l’autore, «il resto oggi mi sembra solo (...) un faticoso e un po’ cieco apprendistato». Poche, lapidarie parole in cui sono racchiusi i tratti salienti di un carattere piuttosto raro nelle patrie lettere. Manacorda è nato nel 1941 e ha alle spalle quasi una decina di volumi poetici. Quanti suoi coetanei metterebbero nero su bianco un bilancio così spietato su se stessi? Spietato e compromettente, se si considera il ruolo decisivo che nell’industria culturale ha acquisito l’autopromozione. Del resto, il suo giudizio non riguarda solo una vicenda privata. Negli ultimi quindici anni l’autore non ha risparmiato invettive alla propria generazione, quella del ’68, schiacciata tra i modelli castranti delle neoavanguardie e un rifiuto ideologico della letteratura spesso rovesciatosi in esaltazione orfica. Attraverso un annuario critico, ha castigato con la verve umorale del Boine di Plausi e botte i manierismi irriflessi e le derive kitsch della nostra poesia recente. E ne ha avuto in cambio un silenzioso ostracismo, alimentato da quei coetanei che anziché dilapidare come lui le esperienze di gioventù hanno capitalizzato anche le briciole, occupando gli scranni più alti del potere editoriale.
S
Manacorda è stato insomma il contrario di un buon manager: anziché promuovere la propria officina e coinvolgere nella pubblicità un milieu di alleati, ha minato l’una e l’altro. E non certo perché non avesse elementi con cui costruirsi un attendibile profilo. Ha esordito a vent’anni su Paragone con una silloge empaticamente introdotta da Pasolini e tutta pervasa da un pathos guascone vicino a quello di Massimo Ferretti. Poi, nelle raccolte degli anni Settanta, di cui nel nuovo libro restano alcuni lacerti, questo pathos oratorio e intimista è stato sommerso da un nichilismo lacaniano che lascia galleggiare sulla pagina solo frammenti irrelati. È negli anni Ottanta e Novanta, con L’esecutore e Soldato
Sotto, la copertina della nuova raccolta di Giorgio Manacorda “Scrivo per te, mia amata e altre poesie” (Scheiwiller editore). Sopra, un disegno di Michelangelo Pace segreto, qui intelligentemente antologizzati, che i due registri della poesia di Manacorda hanno iniziato a evolversi, e talvolta a coincidere nell’analisi straniata di un retroterra borghese ridotto in poltiglia.
Da una parte l’autodonchibiografismo sciottesco ha oggettivato i traumi originari di una fisiologia cronicamente malata: «Un bimbo abbandonato in una sala/bianca. Lo torturano: ha le vene/calcificate. Sieri e veleni/non passano più...». Dall’altra una forma lirica per nulla psicologica e tutta psichica, fatta di «pietre dure» o di emulsioni alla Gottfried Benn, ha reso meno arbitrari i suoi violenti tagli metaforici: «Percorsi pericolosi, rose/potate malamente: monche (...) La villa è abbandonata agli invasori.//Il fiume come un olio,/l’odore dei treni al mattino//e, vicino, il tonfo degli otturatori». Il parallelo e ossessivo lavoro di riscrittura ha reso intanto più perspicua l’escursione stilistica di una vena al tempo stesso materica e onirica, lontana sia dal realismo narrativo che dalle eredità simboliste.
Di questa vena il miglior compendio è il poemetto eponimo della nuova raccolta, in cui viene alla luce il nucleo generatore di entrambi i registri. Manacorda tenta sempre di rappresentare la genealogia o
za: e ce li invia da un deserto salmastro che forse ospitò un tempo gli spettri della Waste Land o di Arsenio, ma che ora appare come una gigantesca pelle abrasa, combusta, nuovamente preistorica. «Siamo
L’immaginario dello scrittore romano, nato nel 1941, si nutre senza dubbio dell’oggettivismo tedesco, di Brecht e forse di motivi heiniani. Eppure nasce e si sviluppa da una fonte tutta fisiologica e più misteriosa... la consistenza di certe forze cieche e bestiali che si agitano nella mente, ma che restano impensabili senza il grave peso corporeo che le fa cozzare in battaglie potenzialmente omicide. L’io di Scrivo per te declina questo tema in chiave erotica: è un maschio vergognoso e nudo cui la sfinge femminina offre come solo scampo la redenzione poetica di una memoria comune. I suoi endecasillabi agili e grezzi coincidono per lui con la sopravviven-
un banchetto, un grande pasto antico», chiosa la donnasfinge.
In questo deserto da incubo volponiano precipita un’Italia insieme topica e anonima, affogata in una pasta bituminosa che ricorda i quadri di Ennio Morlotti o del tardo Mattioli: «Antichi fuochi,/depositi di polveri, passioni,/sedimenti, sclerosi, dinamite». Se una delle vette della raccolta sta nella lunga composizione iniziale, l’altra è costituita
dagli epigrammi per il padre allineati in coda al volume. Questo membro illustre di una famiglia che ha fatto la storia della cultura comunista italiana viene inquadrato mentre si spegne nella demenza, quasi come l’emblema di un mondo intero che scompare: «Se ti vedo che leggi sei un’icona/d’altri tempi, lì sulla poltrona/col tuo giornale in mano e il libro accanto,/il cuore mi fa festa, tu ci sei!/Sei tu, ma leggi contromano/e allora piano piano torna il pianto». Ma se questo libro trabocca di cimeli novecenteschi, il suo autore, cresciuto tra una Mitteleuropa da ultimi Törless e la Roma purulenta del Dopostoria, somiglia poco ai poeti della nostra tradizione: non è infatti né iperletterario né antiletterario.
Il suo immaginario si nutre senza dubbio dell’oggettivismo tedesco, di Brecht e forse di motivi heiniani (si veda l’uso della rima facile, “automatica”). Eppure nasce da una fonte più misteriosa, tutta fisiologica: circostanza che giustifica pienamente, nel caso di Manacorda, quell’idea della poesia come «pensiero emotivo» da cui lui pretende di trarre una teoria universale.
sport
a quante storie si son fatte sulla visita di Gheddafi in Italia e sul campo beduino allestito a Villa Pamphili per accondiscendere alle manie di questo capo di governo! E che delegazione s’è portato dietro, comprese le“amazzoni”, la celebre guardia del corpo tutta al femminile con baschi rossi e divise militari. Una abitudine che quasi quasi suscita l’invidia di altri capi di stato. Ma, d’altro canto, si vede che in Libia si porta così: il gran capo si tiene una scorta al femminile ma le donne poi non possono e non devono fare sport; nei paesi occidentali capita l’inverso: il gran capo ha i corazzieri e le donne praticano qualsivoglia sport desiderino, dai più nobili ai meno conosciuti. Paese che vai usanze che trovi, cosa vogliamo farci? Così non mi sembra che abbia suscitato gran scalpore che nella delegazione sportiva della Libia ai Giochi del Mediterraneo, una sorta di olimpiadi de noantri in corso in quel di Pescara, la città dell’Adriatico salso secondo D’Annunzio, ci siano solo sette donne con quaranta uomini e che alla cerimonia di apertura, durante la consueta passerella delle squadre, andavano avanti un po’nascoste, alcune con il velo, salutando e sbracciandosi solo quando vedevano il loro presidente del Comitato Libico per lo sport ,guarda caso un Mohamed Gheddafi figlio. Per quasi tutte loro questa di Pescara è la prima gita fuori porta, la prima volta che vedono come è fatta l’Europa. Auguri a loro tutte.
M
Passerelle finite, si inizia a gareggiare e lo si fa con il nuoto, la disciplina che apre sempre questo tipo di manifestazioni a squadre, forse perché si svolgono d’estate e
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Gli antieroi della domenica. Il Mediterraneo, aspettando i Mondiali
Quando la piscina mette il velo di Francesco Napoli
d’estate ci si tuffa molto volentieri. A lanciarsi in acqua, tra le Pellegrini e le Alessi, brave, bravissime, clap clap, ma basta ora -, anche due sorelline, Laila e Asmahan Farhat, le due perle del nuoto libico che sono per l’appunto due delle sette privilegiate di cui sopra. E privilegiate doppiamente perché nate negli Stati Uniti. La storia è di quelle che val la pena di raccontare nel dettaglio. Il babbo Kamal vive in Libia e ha due pallini: lo sport e
metter su famiglia. Si sposa e desidera tanto avere almeno due figlie. Ma poi si guarda intorno, vede in quali condizioni le donne nel suo paese vivono, e già gli basta. Se poi vogliono anche praticare una qualsivoglia disciplina sportiva, meglio lasciar stare in partenza e metterci una pietra sopra. Ma lui non s’arrende: allora decide di emigrare negli States, pensa al futuro delle figliole, e parte, direzione Ohio. Qui finalmente la sua casa è allietata dalla nascita ravvicinata di due bimbe, belle rotondette. Si sa, nel satanico Occidente tante crescono così, e allora cosa fare per sfinarle? Un po’ di nuoto è l’ideale: è un’attività davvero completa, mette in esercizio tutti i muscoli del corpo e, soprattutto, allunga e fa metter giù i fiancotti. Via, subito in acqua sin dalla tenera età. Poi s’accorge che le figlie scivolano in vasca abbastanza veloci e allora diventa il loro coach: ma che soddisfazione queste due ragazze. Asmahan, poi, riesce perfino a strappare il tempo per andare alle Olimpiadi di Pechino. Che
gioia in famiglia e Gheddafi figlio, lungimirante, nonostante la piccola abbia il passaporto Usa le molla una bella borsa di studio per sostenere la sua attività sportiva. «Lui è aperto – dice il padre di Asmahan riferendosi a Gheddafi figlio, e ci credo che dica così – da sette anni è alla guida dello sport in Libia e le cose cominciano a cambiare anche per le donne. Si sta dando davvero da fare». «E per fortuna che non sono rimasto in Libia avrà poi pensato fra sé e sé -
mica a tutte può capitare la fortuna di avere un padre atleta di grido e campione di sollevamento pesi, come quello di Nagah Zutani, saltatrice in lungo, consapevole di essere una mosca bianca nel proprio paese dove le donne, escluso quelle della scorta del gran capo, devono solo restare a casa (“a fare la calzetta”si diceva sciovinisticamente un tempo in Italia); o come Ebthal Abboud, lanciatrice del disco, figlia di un triplista e di una karateca. Anche loro due ora sono con le mie piccole a Pescara e buon per loro. Ah, le mie piccole – continua un po’ trasognato – pensa che mi hanno detto che prima di tornare vogliono veder Roma e il Colosseo. Che carine!».
A parlar del padre mi scappava la figlia Asmahan alle Olimpiadi di Pechino. È stata la seconda donna a rappresentare il suo paese nel nuoto olimpico e ha preso parte alle batterie dei 100 metri rana il 10 agosto 2008. Ha fermato il cronometro, con il suo record personale, a 1:21.68 giungendo 47esima e neppure se lo rammenta bene, approssima il suo piazzamento nell’euforia di poterlo raccontare: «Sono arrivata cinquantesima – ha detto ricordando la sua performance – ed ero felice». Guardarla come marziana per noi occidentali è il minimo, dopo parole del genere; ma le sue poche colleghe convenute a Pescara la guardano allo stesso modo ma per ragioni diverse: vorranno saper tutto del Satana occidentale, che è così attraente da far fatica a non esser indotte in tentazione. Ne son certo, sciovinisticamente parlando.
Ormai il nuoto è uno sport da passerella: lo dimostrano anche le due sorelle libiche in gara in questi giorni a Pescara
Qui sopra, Francesca Segat. A sinistra, Federica Pellegrini indica i suoi sette record. Al centro, Alessia Filippi. In alto, Massimiliano Rosolino e il francese Alain Bernard (al centro della polemica con Filippo Magnini a causa delle nuove tute)
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da ”Haaretz” del 29/06/2009
Una pace «a Dio piacendo» di Bradley Burston utti coloro che vivono qui condividono la condizione di ostaggio.Tutti gli isrealiani lo sanno, anche se ogni tanto sono sorpresi da ciò che affermano le persone che ci tengono in questa condizione. Nel caso specifico parliamo di quelli che ostacolano il processo di pace e che rifiutano la mano tesa di Obama. Alcuni li conosciamo fin troppo bene, naturalmente. Fra i nostri rapitori c’è gente che ha lavorato in maniera così intensa e costante contro la pace, che ormai fa parte del paesaggio quotidiano, come in un grande manifesto, dove coesistono anche i graffiti che scriviamo noi.
T
Sottolineando anno dopo anno, decennio dopo decennio, le occasione intenzionalmente perdute e le vite umane perse inutilmente. C’è un elemento abbastanza strano che unisce i fondamentalisti di entrambe le parti: la preghiera. Ripete che la pace con Israele si potrà fare «a Dio piacendo». Anche in Medioriente ci sono dei sostenitori dei palestinesi che, in fondo, vorrebbero prima vedere Israele punita e poi assistere alla costituzione di uno Stato palestinese. Fra questi possiamo annoverare i membri della diaspora di Hamas, guidata da Khaled Meshal. Giusto la settimana scorsa dichiarava che «i leader del nemico spingono per il riconoscimento di un cosiddetto Stato ebraico, che è un richiesta di natura razzista, né più né meno di ciò che veniva fatto dai fascisti italiani e dai nazisti tedeschi». E anche fra noi ci sono degli ebrei ossessionati dal West Bank (Cisgiordania, ndr) che preferirebbero vedere Israele punita piuttosto che vedere risolto il problema degli insediamenti. Dopo tutti questi anni, le preghiere contro la pace sono più facili da comprendere. Per
entrambe le parti, la pace comporterebbe dei compromessi inaccettabili, delle terribili ammissioni, delle guerre intestine. E sia per i fondamentalisti islamici che per quelli ebraici, la pace è intesa nella sua accezione massimalista. O c’è la pace assoluta, oppure il suo assoluto contrario. Quando si parla di radicalismo sappiamo bene chi ci troviamo di fronte a persone che vogliono farci credere che la pace tra Israele e i palestinesi è l’ultima cosa che Dio vuole. Ma ci sono anche altri personaggi che tengono come ostaggio, noi e la pace, e che sono molto più difficili da comprendere. Prendete ad esempio Ehud Barak. È alla testa, almeno nominalmente, dei fautori della pace in Israele. È a capo del partito (i laburisti, ndr) che per primo ha concluso un accordo di pace con i palestinesi.
È anche il leader israeliano che dalla postazione del mistero della Difesa ha presieduto una decisione, il mese scorso, che è stata premiale rispetto ai gruppi di squatter di Migron (si tratta di alcuni coloni abusivi, ndr) il più popoloso e importante fra tutti gli insediamenti illegali in Cisgiordania, dove si continuano a costruire nuove abitazioni. Una maniera sofisticata, ma non meno grave, per dare uno schiaffo alla mano tesa del presidente americano. Una bomba ad orologeria questa decisione, che in maniera abbastanza inopportuna è stata ratificata poi dall’Alta corte di giustizia, lunedì. Proprio quando Barak stava partendo per Washington per discutere – guarda caso – del congelamento
delle colonie.Tralasciando anche il fatto che il progetto per le nuove abitazioni dovrebbe prendere forma ad Adam, nella parte nord di Gerusalemme, che si pone al di fuori della mappa degli accordi. Dove Washington ammetteva alcune annessioni di territorio a Israele, come contropartita per un futuro piano di pace. E non importa neanche che il piano sembra essere parte di una strategia più ampia che tende ad allargare ancora di più le annessioni adiacenti Gerusalemme.
Un piano che i palestinesi avversano, perché potrebbe inficiare l’unità territoriale di un nuovo Stato. Per non dire del fatto che appare come un premio ai comportamenti illegali degli squatter e mina l’autorità dello stesso governo d’Israele. La cosa peggiore di tutta questa faccenda è che né il ministro della Difesa e neanche gli altri colleghi di governo, percepiscano la vicenda come un vero problema.
L’IMMAGINE
Non si parla più del governo ombra perché era solo un capriccio tollerato Siamo un Paese strano, sotteso dalle mille vergogne e dalle moralità di costume, facciate precarie di sodalizi oscuri. Certe volte mi sembra che in presenza di un governo veramente efficiente e ben equilibrato come il nostro, ci sia quella forza negativa che si oppone alle stabilità prolungate perché in qualche modo contrastano le faccende oscure che attanagliano da sempre tutti gli Stati. Forse, tale forza va anche oltre l’inefficienza e la pochezza di una opposizione che non sa costituirsi raggruppamento unito, così essa adopera l’ostilità che la sinistra ha mostrato dall’inizio alla voce del Cavaliere, come un’esca facile per costruire mancanza di sinergia tra le parti. Di governo ombra non se ne parla più, perché era una sorta di capriccio, tollerato bene dal premier e poi caduto anch’esso nell’inutilità che lo contraddistingueva. Sono contento che due destre si sono fuse per il bene degli Italiani, spalleggiate da una Lega che è dalla parte degli Italiani più di quanto lo era all’inizio.
Bruno Russo
INFLUENZE PERICOLOSE Quando penso alle differenze tra l’Europa e l’America, mi viene sempre in mente l’affermazione di molti che il nuovo continente è da sempre privo di cultura e arte al paragone della grandiosità esistente nel vecchio continente. E la democrazia dove la mettiamo? Prendiamo in esame la storia e l’arte quando ci fa comodo, ma non sappiamo indagare sulla fragilità politica che da sempre ha interessato l’Europa, erede delle vecchie diatribe tra imperi. Diatribe che ora si sono trasposte sui mercati. Indipendentemente dalle valutazioni legittime, abbiamo molto da imparare sul pensiero conservatore statunitense che ha con quello democratico le distanze che a noi mancano e che sono tutte a carico dell’influenza co-
munista che si è avuta in Occidente per tutto il Novecento.
Gennaro Napoli
IL DANNO PRESENTE Le scosse di terremoto della politica, preannunciate da D’Alema, non so se ci sono state ma sicuramente ci sono state nuovamente quelle reali in Abruzzo, a dimostrazione che un fenomeno del genere non s’addormenta per sempre. La sinistra dovrebbe darsi una moratoria seria sul suo modo di esprimersi per gli italiani, anche perché fu la prima a criticare fortemente l’istituto referendario quando molti anni fa era influente sui cittadini e i referendum erano cavalcati soprattutto dalla destra riformista. Credo che per cancellare il danno che la sinistra fa ancora ci vorrà molto tempo, fino a
Stelle al fresco Soffrite il caldo? Pensare che a 4.200 anni luce da noi, c’è un posto rinfrescante. Si chiama RCW120 ed è una delle regioni più fredde del cosmo: la temperatura al suo interno è di circa meno 250 gradi! All’origine di questo fresco c’è forse una stella che, emettendo radiazioni ultraviolette, forma intorno a sé una “bolla” d’idrogeno che interagisce con la materia circostante creando strati di nubi fredde
quando inizierà ad essere democraticamente propositiva e collaborativa, occupandosi dei problemi reali del Paese.
Clementina Pipoli
LA LEGA DEGLI INNOCENTI Il Pd, specialmente al Sud, sta perdendo identità, causa la fuoriuscita
di parecchi personaggi in disaccordo con la linea del partito, che cercano di riconfigurare se stessi, parlando di strane leghe del sud. Non credo che si possa fare in politica come con la moda, nel senso che un titolo, una sigla o un marchio, si può imitare o copiare solo quando si hanno poche idee origi-
nali e concrete, tranne che lampi di facili successi. Non capisco le persone che restano nonostante tutto ancorati alle proprie poltrone, con la giustificazione di mantenere il ruolo della propria bandiera, per poi abbandonarla al successivo giro di ruota elettorale.
Sara Cuomo
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
È sempre un errore pensare che gli altri siano stupidi Voglio ripeterti, in merito all’informazione che ti hanno dato su di me, che è interamente falsa, come dirti che anche la «persona rispettabile» che ha dato questa informazione a tua sorella o si è inventata tutto quanto e dunque, oltre che bugiarda, è pazza; oppure che questa persona non esiste e tua sorella se l’è inventata (non dico che abbia inventato la persona, ma che abbia inventato che una certa persona, abbia detto una cosa che nessuno poteva dirle). Senti bene, amore mio: è sempre un errore, in queste cose, pensare che gli altri sono stupidi. Su questa tale «persona» e su quanto di lei mi hai detto, avrei due osservazioni da fare: 1. che essa «sa» che io sono innamorato di te; 2. che «sa» che sono innamorato di te con idee poco serie. Ora cominciamo da questo: nessuno può sapere se io sono innamorato di te; perché io non ho mai fatto confidenze a nessuno. Supponiamo tuttavia che questa «persona rispettabile» non sappia ma immagini che io sia innamorato di te. Poichè la sua immaginazione deve basarsi su qualcosa, questa persona avrebbe colto qualche nostro sguardo o avrebbe notato qualcosa fra noi. Si tratta quindi di una persona di questo ufficio oppure che riceve informazioni da chi viene qui spesso. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz
ACCADDE OGGI
CHE PREVALGA IL PRINCIPIO DELLA LIBERTÀ Bisogna riconoscere che scene del genere dall’Iran, non si sono mai viste. Che esistesse una dissidenza al regime, moderata, lo si sapeva, fatta soprattutto di donne che nel sotterraneo o nella cultura hanno invaso i media per presentare al mondo la vera coscienza del popolo musulmano di quelle zone. Ma che il popolo scendesse in massa per protestare come in una sorta di piazze rosse invase da giovani e studenti, ma non solo, non lo si era mai considerato e resterà, indipendentemente da come andranno le cose, una grande svolta per il futuro. Parallelamente la Somalia resiste all’attacco talebano al regime, come una diametralmente inversa reazione alle opportunità della globalizzazione che hanno offerto fumo in patria e ricchezza altrove. In Iran la questione è più complessa, perché la religione a differenza di molti popoli africani, è prettamente a favore del fondamentalismo, attraverso costumi e diarchie locali che abbiamo ben conosciuto dall’informazione. Ancor più la protesta risulta allora un evento storico, che non può essere disatteso dalle coscienze mondiali, che restano piuttosto inermi, come le organizzazioni internazionali che mai come in questo periodo hanno presentato lacune un po’ ovunque. Occorre augurarsi che il principio della libertà e della autodeterminazione dei popoli sappia prevalere sull’odio, che nasce dalla mancanza di accettazione di un risultato politico, che in Iran a differenza che da noi, non è og-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
30 giugno 1990 La Germania Est e la Germania Ovest uniscono le loro economie 1992 L’ex premier britannico Margaret Thatcher diviene membro della Camera dei Lord col titolo di Baronessa di Kesteven 1993 Azerbaijan: a seguito di un colpo di stato militare Surat Huseynov diventa primo ministro e Haydar Aliyev presidente 1994 Incidente aereo a Tolosa. Un Airbus A330 precipita durante un volo di collaudo. Morte le sette persone a bordo, tra cui il capocollaudatore Airbus, Nick Warner, e due piloti Alitalia: Alberto Nassetti e Pier Paolo Racchetti 1996 Germania campione d’Europa. I teutonici sconfiggono a Londra la Repubblica Ceca per 2-1 al golden gol 1997 Esce nel Regno Unito il primo volume di Harry Potter in lingua inglese, scritto da Joanne K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale 2004 La sonda Cassini/Huygens entra nell’orbita di Saturno
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
gettivamente validato dalla folla immensa che conosce bene ciò che non è andato per il verso giusto.
Giacomo Trevi
A PROPOSITO DI MORALITÀ Coniugare bellezza, politica e prostituzione è un processo mediatico che stizza alquanto, specialmente quando convergono in tv, dando la sensazione di essere manipolate come un lievito con la farina, per costruire dei fatti la cui vera essenza è più virtuale, scavata, che reale e moralmente riproducibile. Più avvengono queste cose e più la gente deve convincersi, come spero, che quando una persona è politicamente efficiente e irreprensibile, la si può combattere solo sul campo della privacy. Indipendentemente dal giudizio su Clinton, che non è neanche paragonabile alle nostre vicende, resta però il fatto che si è cercato di riprendere la moralità di un politico per poi creare una star, la Levinsky, che ha girato il mondo come immagine distorta del puritanesimo moderno, che nasconde ben altre cose al suo interno.
Simona Servili
LA QUESTIONE IRANIANA Secondo me Khamenei ha ragione: chi perde le elezioni deve accettare la sconfitta come avviene in tutti i Paesi del mondo. Invece Moussavi continua ad aizzare la folla, a creare disordini e violenze affinché si possa realizzare un “ribaltone” o un colpo di Stato a sua favore.
Riccardo Del Sole
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
LA REPRESSIONE IN IRAN Suscita molta perplessità ed apprensione il silenzio dei partiti italiani sulla dura repressione in atto a Teheran ed in Iran, dopo una elezione, con tutta probabilità falsata nei risultati, che vedeva contrapposti il presidente Mahmud Ahmadinejad ed i suoi avversari moderati, primo fra tutti Mir Hossein Mussavi, in un quadro reso ancora più fosco dalla cappa di tetro silenzio scesa su quel Paese, dal ferreo ed occhiuto controllo della oligarchia religiosa sui mezzi di informazione, dalla espulsione o dall’imprigionamento dei giornalisti stranieri, dal divieto di qualsiasi pacifica dimostrazione, dagli avvertimenti minacciosi alle Democrazie occidentali. La repressione in atto a Teheran, per il Circolo Liberal della Provincia di Lucca, deve essere denunciata e condannata con forza ed in ogni dove perché lede il diritto-dovere di protesta, il diritto alla libertà di pensiero, per mezzo di aggressioni perpetrate contro l’integrità fisica e psicologica e contro la vita: morti, teste rotte, braccia spezzate, arresti in danno di uomini e di donne, che in questa insurrezione stanno esercitando un ruolo di primo piano. Emblematica la dichiarazione rilasciata dal Movimento delle donne iraniane per esprimere la contrarietà ad un governo basato sulla differenza di genere: «Noi, sottoscritti attivisti del movimento per i diritti delle donne, condanniamo la violenza e l’umiliazione perpetrate contro le donne e gli uomini iraniani con l’obbiettivo di reprimerli. Ribadiamo il nostro impegno per raggiungere gli obbiettivi del movimento per i diritti femminili, che ha avuto un ruolo centrale nell’educare il pubblico e nelle battaglie civili degli ultimi anni». Una dichiarazione a cui il Circolo Liberal della Provincia di Lucca si associa e che la coordinatrice invita a leggere, attentamente, perché diventa parte integrante del nostro patrimonio emotivo e culturale, unitamente a quella storia fatta di donne per lo più rimaste sconosciute, che hanno lottato per la libertà e l’amore per la vita, spesso sacrificando quest’ultima. Una giovane donna, Neda Soldan, uccisa perché coperta da un foulard poco coprente, suo malgrado, il simbolo dell’opposizione a Teheran, per l’immagine lancinante che grazie ad internet ha superato il muro della censura di regime - che la raffigura sanguinante in mezzo alla strada per avere esercitato il diritto di non condividere il regime politico che imperversa nella sua terra. La violenza del regime ha ferito uomini e donne, spaccato teste e braccia spezzato esseri umani, arrestato uomini e di donne che, con grande dignità hanno marciato in silenzio e messo a repentaglio la loro vita stessa perché i voti fossero ricontati e le loro voci ascoltate, ma «eminenti politici e religiosi riformatori, leader degli studenti, giornalisti e blogger locali, dirigenti di partiti riformisti, avvocati dei diritti umani e attivisti», come denunciato dall’Organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw). Per Neda, per i giovani e le donne dell’Iran invitiamo tutti i cittadini a indossare al polso un “nastro verde”in segno di solidarietà ed amicizia. Micaela Muttini C O O R D I N A T R I C E CI R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I LU C C A
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