Il lavoro intellettuale strappa
he di c a n o r c
90701
l’uomo alla comunità. Il lavoro manuale, invece, conduce l’uomo verso gli uomini
9 771827 881004
Franz Kafka di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 1 LUGLIO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
14 I MORTI DI VIAREGGIO
Quattro incidenti in soli trenta giorni. E un dubbio si diffonde tra gli italiani: le ferrovie sono ancora sicure?
I binari della paura alle pagine 2 e 3
Più fondi contro i cervelli in fuga
Mentre in Occidente si parla di sanzioni, a Teheran vince ancora la censura
Ora niente tasse sulla ricerca
«L’Onu incrimini Khamenei»
di Luciano Maiani L’appello lanciato dalla ricercatrice di Pavia che si vede costretta a trasferirsi negli Usa per poter proseguire le sue ricerche, nelle quali ha già ottenuto importanti risultati, non può essere non condiviso e sostenuto perché riguarda tutti i nostri giovani ricercatori. a pa gi n a 1 1
Il sindaco (a sorpresa) non si candida
E Bersani bloccò Chiamparino di Marco Palombi Per il Pd quella di ieri è stata una giornata da brividi. A metà pomeriggio, tutti davano Sergio Chiamparino in pole position per la segreteria, «contro» Franceschini. Poi il colpo di scena: il sindaco di Torino ha annnuciato: «Non mi candido alle primarie». a pa gi na 10
Addio a Pina Baush, Inventò il teatrodanza di Nicola Fano a pagina 21
Un appello della dissidenza iraniana alle Nazioni unite di Antonio Picasso n tribunale speciale delle Nazioni Unite, che coinvolga l’intero Occidente in un procedimento di condanna della repressione attuata dagli ayatollah contro i manifestanti. È la proposta lanciata dalla dissidenza iraniana all’estero, che chiede al contempo un’azione congiunta delle nazioni del blocco occidentale per cercare di migliorare la situazione della dissidenza interna. I “Mujaheddin del Popolo”sono l’asse portante del movimento contrario al regime, rappresenta la cinghia di trasmissione fra il popolo sceso in piazza a Teheran e le forze che possono sostenerlo oltre i confini del Paese. Il loro programma è noto. «Quello che vogliamo è che Europa e Stati Uniti si uniscano concretamente alla nostra lotta e condannino il regime di Teheran per la sanguinosa repressione del popolo Iraniano». Chi ci parla fa esplicito riferimento all’appello presentato dalla signora Mayam Rajavi, presidente dell’organizzazione, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L’Oc-
U
s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
128 •
Ma Mousavi non è all’altezza di questa sfida
cidente deve sostenere la nostra rivolta», aggiungono. Questo per un motivo ben preciso. Dalle informazioni in loro possesso, il regime starebbe applicando una serie di misure repressive molto più rigide di quelle che vengono trasmesse dai media. A Parigi parlano senza mezzi termini di «massacro della popolazione. Per questo è necessario indire una Corte internazionale, per diretta volontà dell’Onu, che processi i responsabili ufficiali della repressione». Nel frattempo, però, l’azione di censura del regime sembra avere la meglio sull’inventiva dei giovani manifestanti: dall’Iran non arriva più nulla, Internet è sempre più lento e i blog spariscono dalla scena. Mentre il Consiglio ribadisce per l’ennesima volta che il voto è stato regolare e che non ci sarà nessun annullamento dei voti che hanno incoronato Ahmadinejad nel suo secondo mandato presidenziale.
abato scorso, in una singolare coincidenza, due ben diverse manifestazioni di dissenso iraniano si sono contemporaneamente svolte in due continenti. In mezzo ad esse, la Repubblica islamica dell’Iran affronta una sfida senza precedenti. Una protesta si è svolta nelle strade iraniane, dove migliaia di manifestanti arcistufi di vivere sotto una tirannide religiosa hanno sfidato il diktat della Guida suprema Ali Khamenei, che ha imposto loro di accettare l’esito delle elezioni presidenziali del 12 giugno con cui il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha apparentemente sconfitto con un margine incerto il suo principale avversario Mir Mousavi.
a p ag in a 4
s e gu e a pa gi n a 5
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Daniel Pipes
S
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 1 luglio 2009
prima pagina
Disastro. A Viareggio sono morte 14 persone e 4 sono disperse. Visita a sorpresa di Berlusconi: la gente lo fischia
Treni Alta Vulnerabilità
Quattro incidenti ferroviari in un mese: è soltanto una coincidenza? La Tav ha finito per assorbire troppi investimenti. A scapito della rete di Francesco Pacifico
ROMA. Il bilancio della sciagura di Viareggio peggiora ora dopo ora. Ieri sera, a quasi 24 ore dallo scoppio del treno merci che trasportava gas, il numero dei morti aveva raggiunto quota quattordici. È salito invece a 36 il computo dei feriti, ma 14 sono gravissimi tanto che è altissima la paura di dover aggiornare quello che pare a tutti gli effetti un bollettino di guerra. Cinque le persone ancora disperse , mentre sono in tutto 1.115 persone le persone. E di queste almeno un centinaio sono destinate a rientrare nelle loro case in tempi non certo brevi.
La procura di Lucca ha aperto un fascicolo per disastro ferroviario e omicidio plurimo colposo. Difficile ricostruire quando è accaduto alle 23,45 di domenica sera. Una prima ricostruzione ipotizza che il primo carro dopo la motrice si è reclinato e ha versato il gas che trasportava. Il combustibile si è diffuso nel terreno circostante mentre anche altri quattro vagoni . Di riflesso anche altri quattro vagoni si sono reclinati, senza però perdere quanto trasportavano. Quindi è bastato il passaggio di un motorino per provocare una scintilla e far divampare l’incendio. Silvio Berlusconi, arrivato nel pomeriggio ieri a Viareggio per coordinare la task force con il ministro delle Infrastrutture Matteoli e il capo della Protezione civile Bertolaso, ha sottolineato che «l’incidente non porta con se’ altri timori e pericoli». Ma sono in molti a interrogarsi sulla sicurezza se l’AD di Ferrovie, Mauro Moretti, ha detto sia che «dalle prime evidenze i macchinisti non hanno fatto errori» sia che il carro dell’incidente «era stato revisionato correttamente a dicembre». Angelo Bonelli, ex parlamentare dei verdi, ha notato che quest’incidente «è stato preceduto da altri tre incidenti gravi sulle linee ferroviarie italiane nell’arco di un solo mese». Lo scorso 31 maggio sulla tratta dell’alta velocità tra Roma e Firenze si è verificato un guasto sulla linea aerea, che ha bloccato la dorsale per 4 ore. Il 6 giugno un incidente è toccato a un pantografo rompersi in una galleria tra Bologna e Firenze. Il 22 giugno un altro stop alla circolazione italiana, con il Paese diviso in due, per un merci deragliato tra Bologna e Firenze. «Ma è sbagliato accomunare tutti quest’incidenti», spiega Ugo Arrigo, economista esperto di tra-
La politica si divide sulle ragioni della tragedia
«Ora basta merci pericolose» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Gli ultimi drammatici incidenti dimostrano che il sistema ferroviario ha subito un deterioramento gravissimo, accentuato dal business dell’alta velocità. Da una parte si fanno investimenti e utili strepitosi a vantaggio di una èlite ristretta di viaggiatori privilegiati. Dall’altra si abbandonano a se stessi migliaia di lavoratori italiani pendolari, costretti a viaggiare in carri bestiame a tariffe non certo economiche. Per capire che cosa sta succedendo, basti pensare che per gli 800 chilometri previsti alla fine dei lavori per l’alta velocità, non si bada a spese. E che per i 16mila chilometri di rete ordinaria, dove si verificano la maggior parte degli incidenti su treni merci e passeggeri, le spese non garantiscono neppure la manutenzione ordinaria. Da una parte il bestiame, e dall’altra i facoltosi. Una doppia velocità inaccettabile che rende il sistema ferroviario metafora dei sempre più accentuati squilibri in cui viene spinto il nostro Paese». Paolo Brutti, responsabile nazionale del dipartimento delle politiche del lavoro dell’Idv, commenta così l’ultimo disastro ferroviario di Viareggio. Ultimo di una strana sequela di incidenti che hanno visto i nostri treni tragicamente protagonisti. «Credo che in qualche caso, le polemiche sulla manutenzione delle linee ferroviarie abbiano qualche fondamento,
ma nel complesso la situazione delle ferrovie italiane è buona, e non mi pare possibile delineare lungo gli ultimi incidenti un filo conduttore legato alla sicurezza. Semmai bisogna ragionare sul trasporto delle merci pericolose, e in particolare di quelle infiammabili ed esplodenti, sia in ordine al materiale rotabile, sia in ordine al livello di manutenzione della rete ferroviaria», osserva invece Angelo Maria Cicolani, presidente della Consulta dei Trasporti del Pdl. Che indica l’agenda per i prossimi giorni:«È necessario e urgente che la neocostituita Agenzia per la sicurezza ferroviaria sviluppi serie proposte migliorative ai fini della sicurezza di questo tipo di trasporto». Prudente anche Luigi Grillo, senatore del Pdl: «L’alta velocità non deve in nessun caso alterare o ridurre gli investimenti sulle linee ordinarie, sia ben chiaro. Ma quello di Viareggio è un incidente dalla dinamica rara, non credo sia possibile desumere da questa sciagura che le nostre ferrovie siano pericolose. È stato investito molto in sicurezza in questi anni, e la percentuale di incidenti sulle nostre tratte non è certo più alta di quelle europee». Di opinione opposta i lavoratori delle Ferrovie dello Stato: «Mentre ci inchiniamo alle innocenti vittime di questa tragedia, non possiamo che rinnovare la nostra denuncia sullo stato in cui sono state ridotte le nostre Ferrovie – fa sapere Ezio Gallori, fondatore del coordinamento macchinisti uniti – avevamo detto che le nozze con i fichi secchi non si fanno. La riduzione da 220mila ferrovieri a poco più di 80mila non può che produrre questo tipo di risultati».
sporti e finanza pubblica e ordinario all’università di Milano Bicocca. Incidenti sui treni ad alta velocità sono frequenti perché abbiamo voluto far viaggiare questo convogli su rete vecchie, non dedicate. Il cargo invece paga l’uso di materiale rotabile obsoleta, vista la scarsa domanda». L’Italia può vantare standard di sicurezza più alti rispetto alla media dei Paesi Europei, nonostante binari e tunnel che per la maggior parte sono stati costruiti cento o cinquant’anni fa. Come previsto dal accordo di programma tra il 2007-2011 Rfi, il braccio di Ferrovie che gestisce la rete, si è impegnato a investire per la manutenzione 26 miliardi di euro in questo lasso di tempo. Di questi , nel periodo 2007-2011. Il ministero annuncia che questo contratto prevede nuove spese per 16,756 miliardi di euro per la rete storica, la stessa sulla quale domenica è avvenuto lo svio di Viareggio. Nel 2007, ultimo anno disponibile, gli incidenti gravi sono 130 contro i 319 della Germania e i 413 francesi. Soltanto la liberalizzata Gran Bretagna ha fatto meglio: 110. Senza contare che il Belpaese – soprattutto con l’Ansaldo – vanta una produzione all’avanguardia nei sistemi di controllo della rete come il Scmt. Tra l’altro, a meno che l’inchiesta non dimostri il contrario, non ci sono stati cedimenti strutturali sulla rete. Di conseguenza bisogna guardare al sistema dei controlli. Notano dal ministero delle Infrastrutture: «C’è da chiarire se il carro sia stato controllato in Svizzera e non in Italia. Perché è indicativo il fatto che una cisterna abbia retto e l’altra no. Il problema poi che, siccome gli standard europei sono comuni, spesso i controlli sono fatte dalle stesse società di trasporto, quando non si riducono in una presentazione di una certificazione». Per Edoardo Zanchini, responsabile trasporti di Legambiente, «questo problema si può risolvere dando all’agenzia per la sicurezza ferroviaria anche poteri sulla concorrenza e superando il conflitto d’interessi tra Ferrovie e la sua controllata Rfi». Marco Ponti, ordinario di economia dei trasporti al Politecnico di Milano e a capo della commissione terza che si occupò del disastro di Crevalcore del 2007, vuole aspettare l’esito delle indagini. Però nota «che negli anni gli incidenti sono calati. Gli standard di sicurezza sono elevati. Il trasferimento poi di parte del trasporto passeggeri sull’alta velocità ha in parte liberato la rete storica, che soltanto in alcuni tratti resta ancora intasata».
prima pagina
1 luglio 2009 • pagina 3
I sindacati puntano l’indice sulla privatizzazione del servizio merci
«Più controlli, ma è stata una fatalità» di Vincenzo Bacarani
ROMA. Si è trattato di una tragedia annunciata per il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani secondo il quale «i primi riscontri effettuati» sul luogo del disastro darebbero ragione «ai tanti allarmi lanciati dai sindacati e su cui l’azienda aveva reagito sbagliando perché – sostiene il leader della Cgil – nelle ferrovie c’è un uso di materiali troppo vecchi». Anche l’organizzazione di categoria del sindacato di Epifani, la Filt, è intervenuta con un comunicato in cui chiede che venga fatta immediatamente «chiarezza sui controlli dei carri ferroviari che circolano in Italia e in Europa». E i delegati Rsu dell’Assemblea nazionale dei ferrovieri criticano la notevole attenzione da parte delle Ferrovie all’Alta Velocità che andrebbe a scapito della sicurezza.
Ricostruisce questo vulnus Angelo Sanza, ex presidente della commissione Trasporti della Camera: «La feroce concorrenza delle compagnie aeree low-cost ha prodotto nel sistema ferroviario italiano numerosi sussulti. È accaduto che si sono concentrati fondi e attenzioni nella rete ad alta velocità, inserite in un contesto concorrenziale, a scapito delle linee tradizionali quasi costantemente in perdita, ormai relegate a un ruolo marginale». Conosce invece bene la tratta dell’incidente, quella tra Pisa e Viareggio, Oliviero Baccelli, esperto di trasporti della Bocconi: «È ineccepibile: 4 binari, tra l’altro nuovi, in un terreno pianeggiante». E aggiunge: «Rispetto al passato sono aumentati gli investimenti e la manutenzione sulla rete storica. Certo, in alcune gallerie manca il segnale telefonico Gsm, ma oramai i treni si comandano dalle sale macchine con strumenti all’avanguardia. Preoccupiamoci casomai del cargo». La divisione merci è storicamente in rosso, tanto che si maligna che alcuni ex amministratori di Fs l’abbiano trasformata nella bad company del gruppo. Al riguardo spiega Marco Ponti: «Questa situazione non cambierà fino a quando il trasporto su gomma si mostrerà più conveniente, visto che consente di portare a destinazione le merci che circolano da noi: computer e vestiti, non certi legname o ferro»
Nelle foto, alcune immagini del catastrofico incidente avvenuto nei pressi della stazione di Viareggio. Secondo le ricostruzioni, cinque vagoni di un treno merci che proveniva da La Spezia in direzione Pisa sono deragliati attorno alla mezzanotte in stazione dando luogo all’esplosione di due cisterne cariche di gas. Uno scoppio di enormi proporzioni, che ha provocato quattordici vittime e trentasei feriti
Ma secondo altri sindacalisti, apparirebbe troppo semplicistico e fuorviante, e forse anche sbagliato, addossare tutte le colpe a Trenitalia. I problemi più importanti sono ben altri, secondo alcuni rappresentanti dei lavoratori delle ferrovie italiane, e non di poco conto. A parere di Dario Del Grosso, segretario generale della Uiltrasporti, c’è stato negli ultimi tempi, soprattutto nel settore del trasporto su ferrovia, una sorta di “cedimento” dei controlli. «L’entrata nell’Unione Europea dei Paesi dell’Est – afferma – ha inevitabilmente abbassato mediamente lo standard qualitativo dei controlli. E nel caso di Viareggio siamo di fronte a una ditta austriaca che ha fatto omologare il carro in Polonia. E non c’è dubbio che omologare un carro in Polonia significa sottoporsi a norme meno rigide di quelle che vengono applicate in Francia, in Germania e in Italia». Dal 2003 – gli fa eco Giovanni Luciano segretario generale aggiunto della Fit-Cisl – il traffico merci è stato totalmente liberalizzato. Aspettiamo gli accertamenti ufficiali, ma credo che a Trenitalia non si possa dir nulla perché, anche e soprattutto per i nostri continui interventi e le nostre continue proteste, l’azienda ha elevato notevolmente gli standard di sicurezza ponendosi ai primi livelli in Europa. Non a caso l’incidente ha riguardato un carro di privati e non un carro delle nostre ferrovie». Occorre però ricordare che circa una settimana fa un analogo incidente, e cioè un deragliamento di un carro merci, si è verificato nel tratto appenninico Bologna-Firenze, precisamente a Vernio, provocando il blocco delle comunicazioni in Italia per quasi due giorni. «E anche in quel caso – sottolinea Luciano – l’incidente è stato provocato
da un carro di privati e per puro caso non ci sono state vittime».
Secondo la maggioranza dei sindacati, la liberalizzazione totale che si è verificata negli ultimi tempi per quanto riguarda il trasporto merci andrebbe quanto meno rivista. «Gli standard richiesti in Italia – prosegue il segretario della Fit-Cisl – sono elevatissimi, non mi risulta che lo siano altrettanto in altri Paesi dell’Unione». «Le norme sulla sicurezza – aggiunge Roberto Panella, segretario dell’Ugl Trasporti – devono essere rispettate in tutta Europa, non ci possono essere sicurezze di serie A e sicurezze di serie B. Un Tir che parte da Crotone e va in Olanda è tenuto a rispettare, e le rispetta, le normative di Italia e Olanda soprattutto se il trasporto riguarda materiale infiammabile o a rischio di esplosione. Gli standard ci sono e sono molto severi. Trenitalia ha investito tanto nel settore della sicurezza per quanto riguarda la rete del nostro Paese. Ma le norme devono essere rispettate non solo in Italia, anche negli altri Paesi». Ieri pomeriggio, inoltre, in un comunicato congiunto le segreterie regionali della Toscana di Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uilt-Uil hanno affermato, facendo riferimento al deragliamento di un altro treno merci nella settimana scorsa, che «questi due incidenti non possono e non devono essere considerati fatali coincidenze, ma esigono una rigorosa attenzione sulla sicurezza e sulla manutenzione del materiale rotabile con un programma di revisione dei carri e delle vetture ancora più intransigente dell’attuale normativa». Secondo i sindacati, i controlli «non possono essere circoscritti alla sola flotta della Ferrovie dello Stato, ma devono interessare anche i mezzi delle aziende private, soprattutto alla luce di un mercato, quello del trasporto merci, totalmente liberalizzato. Questi due incidenti stanno a dimostrare che la sicurezza non può essere patrimonio di pochi, ma deve essere un vincolo e un valore per l’intero sistema ferroviario». Per Filt, Fit e Uilt, «è necessario che l’Agenzia ferroviaria sulla sicurezza decolli definitivamente con personale e strutture adeguate». Oggi intanto il personale ferroviario di tutta la Toscana sciopererà per un’ora, dalle 11 a mezzogiorno per solidarietà, per protesta, ma anche per sollecitare investimenti sulla manutenzione del «materiale rotabile a partire anche da assunzioni di personale specializzato».
Solo il leader della Cgil Epifani parla di «tragedia annunciata». Tutti difendono gli standard di sicurezza di Trenitalia
mondo
pagina 4 • 1 luglio 2009
Caos. Il Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana lancia la proposta: un Tribunale speciale delle Nazioni Unite contro la repressione
L’Onu processi Alì La dissidenza di Teheran chiede all’intero Occidente di unirsi per accusare Khamenei di crimini contro l’umanità di Antonio Picasso n tribunale speciale, che dia la caccia ai colpevoli della repressione in atto a Teheran. È la richiesta dei dissidenti iraniani all’estero, che chiedono all’Occidente di intervenire con forza per fermare il massacro in atto. La conferma di Ahmadinejad alla Presidenza della Repubblica iraniana, in seguito alla parziale revisione delle schede elettorali, era sostanzialmente scontata. Dopo aver concesso la riconta dei voti per un 10 per cento di schede elettorali estratte a caso, il Consiglio dei Guardiani ha emesso un verdetto che convalida il risultato del 12 giugno. “La questione è chiusa”, hanno detto con laconica determinazione. Tuttavia, i manifestanti a Teheran e il loro sostenitori all’estero avevano mantenuto accesa una fiammella della speranza che lo stesso regime fosse capace di rivedere le proprie posizioni. Così non è stato. Quindi la protesta va avanti. Da un certo punto di vista, la rivolta in Iran sta assumendo sempre più la fisionomia di quella che, nel 1979, portò alla deposizione dello scià. Nelle strade di Teheran si sentono i canti e le preghiere dei giovani. Gli slogan del tipo “Morte al dittatore!” - lo stesso adottato contro la
U
ull’onda delle dichiarazioni di ieri mattina del premier Silvio Berlusconi che annunciava un giro di vite contro Teheran per il G8 dell’Aquila, sarebbe utile sapere cosa ne pensano oltre Atlantico delle sanzioni. Visto che non vogliono assolutamente interrompere il dialogo su Iraq e nucleare. Ne abbiamo parlato con il direttore del prestigioso think tank del Centro studi americani di Roma, Karim Mezran. «La proposta di nuove sanzioni mi sembra più un’iniziativa di facciata che una realtà efficace. Le sanzioni, fino ad oggi, non hanno funzionato. Dubito che lo faranno in questo momento di ulteriore radicalizzazione del regime iraniano. La pressione diplomatica deve essere mantenuta costante e tenuto sempre aperto un cana-
S
monarchia persiana trent’anni fa - si intervallano con le invettive ad Allah. La convivenza tra laicismo e religione è indicativa. I manifestanti non ripudiano il Corano.Tutt’altro, il loro nemico sono gli ayatollah che hanno strumentalizzato l’Islam sciita per creare un regime di oppressione. «La gente vuole liberà e democrazia», ci spiegano dall’ufficio di Parigi del Consiglio Nazionale della Resistenza in Iran (Ncri). In realtà, l’intervento della coalizione di opposizione al regime, in appoggio ai movimenti di protesta, è ancora marginale. Quanto sta accadendo nel Paese, infatti, appare come un fenomeno privo di un’iniziativa politica da parte di un soggetto specifico e che sia identificabile. Questo però rappresenta un punto debole per l’onda delle manifestazioni. La mancanza di un leader al quale fare riferimento rischia di fare della rivolta stessa un fenomeno dispersivo e offre lo spazio alle istituzioni di Teheran di effettuare un’azione di contrasto ben più efficace. In merito, l’eventualità di far riferimento al Grande Ayatollah Hossein Montazeri, famoso per le sue posizioni di critica verso il governo - al punto che gli sono costate sei anni di carcere - è ap-
parsa fin da subito poco realizzabile. Effettivamente l’alto prelato, al di là dei suoi 87 anni, avrebbe potuto rappresentare il valido compromesso tra la Guida Suprema, Alì Khamenei, e un regime del tutto nuovo. Un interregno di riassestamento per la costruzione di un nuovo Iran. «Non è l’età a essere un problema, bensì il fatto che sia stato messo da parte ormai da anni», dicono ancora da Parigi. «Il suo peso politico e il consenso in seno alla popolazione sono nulli». A questo punto il testimone della leadership potrebbe passare all’Ncri.
Il raggruppamento, del quale i “Mujaheddin del Popolo” sono l’asse portante, rappresenta la cinghia di trasmissione fra il popolo sceso in piazza a Teheran e le forze che possono sostenerlo oltre i confini del Paese. Il loro programma è noto. «Quello che vogliamo è che Europa e Stati Uniti si uniscano concretamente alla nostra lotta e condannino il regime di Teheran per la sanguinosa repressione del popolo Iraniano». Chi ci parla fa esplicito riferimento all’appello presentato dalla signora Mayam Rajavi, presidente dell’organizzazione, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L’Occi-
Poliziotti iraniani pregano prima di pattugliare le strade. In basso, scene di tensione a Teheran. Nella pagina a fianco, il leader dell’Onda verde Hossein Mousavi
dente deve sostenere la nostra rivolta», aggiungono. Questo per un motivo ben preciso. Dalle informazioni in loro possesso, il regime starebbe applicando una serie di misure repressive molto più rigide di quelle che vengono trasmesse dai media. A Parigi parlano senza mezzi termini di «massacro della popolazione. Per questo è necessario indire una Corte internazionale, per diretta volontà dell’Onu, che processi i responsabili ufficiali della repressione». Il loro obiettivo primario è, logicamente, Khamenei, il quale appare come l’incontrastato regista di queste tensioni e soprattutto colui ha ordinato il ricorso alla violenza per disperdere i dimostranti. «I governi occidentali devono interrompere tutti i rapporti politici, diplomatici ed economici con il regime fin quando non si svolgerà una libera ele-
zione sotto la supervisione dell’Onu». Una strategia di intervento sostanzialmente chiara, ma non completa. Al momento, infatti, manca una prospettiva di lungo periodo che lascia la prosecuzione delle proteste in sospeso. Perché queste non potranno proseguire più di tanto finché non ci sarà una guida espressa dall’Nrci o da un altro soggetto politico nazionale - che sappia opporsi al regime attuale. Al carisma di Khamenei va contrapposta una figura dello stesso peso, se non maggiore.
Nel frattempo riappare la questione diplomatica con Teheran. «Il G8 sarà l’anticamera di nuove e più dure sanzioni contro l’Iran». Ad annunciarlo era, ieri mattina, il premier Silvio Berlusconi durante la conferenza stampa di Napoli in cui presentava i temi all’ordine del
Sull’efficacia delle sanzioni all’Iran parla il direttore del Centro studi americani di Roma
La guerra dei nervi di Obama di Pierre Chiartano le di dialogo con Ahmadinejad e il suo governo che, di fatto, è il governo iraniano. Le pressioni devono continuare almeno nella parte formale». Quindi pragmatismo e real politik nel perseguire gli obiettivi della politica estera di Washington. Sembrerebbe essere tornati nell’era Kissinger, quando il segretario di Stato di Richard Nixon tesseva la tela delle relazioni mondiale come un novello Metternich. «Le misure economiche hanno un problema di fondo: colpiscono le popolazioni. Abbassano la qualità della vita, ma non infi-
ciano governi ed elite al potere. Queste ultime trovano sempre il sistema per aggirare le sanzioni, magari guadagnandoci sopra. Scaricando malcontento e crisi sulle classi più deboli». E poi gli embarghi sono benzina nel motore della propaganda. «Anche in Iraq il regime di Saddam Hussein rimase fortissimo, nonostante interventi molto più pesanti di quelli inflitti a Teheran». Un quadro che sembra dirci che le dittature prosperano sugli embarghi. «Prosperano o quantomeno non ne soffrono come vorremmo. Essendo regi-
mi fortemente repressivi, le popolazioni non riescono a ribellarsi. L’arma delle sanzioni è un’arma spuntata». E poi serve rimanere con i piedi per terra, troppi problemi per i diplomatici di Foggy Bottom. «Non dimentichiamo che gli Stati Uniti stanno uscendo dall’Iraq. Avrebbero bisogno di un rapporto con l’Iran per stabilizzare il Paese e non di uno scontro. Mi rendo conto perfettamente che governo ed elite americane e anche quelle europee si trovano di fronte a un problema serio. Uno scontro con Teheran farebbe scoppiare anche Bagh-
mondo
1 luglio 2009 • pagina 5
Sono i giovani il vero punto focale della rivolta contro il regime
La piazza ha coraggio. Hussein Mousavi no di Daniel Pipes segue dalla prima
giorno del summit in programma all’Aquila. Quanto sta accadendo in Iran spiegava il premier rispondendo ad una domanda su possibili sanzioni internazionali «sarà il primo argomento che tratteremo al G8». «Il premier si riferisce a sanzioni efficaci» più sofisticate di natura finanziaria sottolinea a liberal il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica. In questo momento «è importante non compiere passi che possano diventare il pretesto per far saltare il processo negoziale» sul dossier nucleare tra l’Iran e la comunità internazionale. Così l’ambasciatore russo in Italia, Alexey Meshkov, si esprimeva ieri in tarda serata buttando acqua sul fuoco delle sanzioni. Stando alla dichiarazione del presidente del Consiglio, il progetto sarebbe frutto di consultazioni con gli altri capi di Stato. All’Aquila si
dad, per cui bisogna trattare con i mullah cercando di non creare un problema più grosso di quello che già esiste». Una quadratura del cerchio che vede Occidente e sue istituzioni, come il G8, in piena crisi di credibilità: una somma di armi spunate. «È una situazione veramente complicata».
L’orizzonte oltre il Meshraq (la Mesopotamia) non è molto chiaro. «Prima o poi le ribellioni verranno sedate e il regime di Ahmadinejad verrà riconsolidato, anche se la sua delegittimazione interna e internazionale aumenterà. Dovrà gestire una situazione solo un po’ più complicata». Intanto alla Casa Bianca nelle riunioni ristrette, quelle del mattino, con in consiglieri del National security council, i mal di pancia aumenteranno. «Difficile fare previ-
cercherà di affrontare una delle più scottanti e attuali incognite della politica internazionale. Fino a oggi sia gli Stati Uniti, sia l’Europa hanno mantenuto un atteggiamento di estrema cautela nei confronti dei brogli elettorali, esprimendosi più chiaramente contro la dura repressione ai danni dell’opposizione. Alla base di tante cautele vi è il timore di chiudere i ponti con Teheran e inficiare i negoziati sul nucleare ipotizzati fino a qualche settimana fa da Barack Obama. L’anticipazione del nostro presidente del Consiglio fa capire che quel negoziato sarebbe già consegnato agli archivi della storia. Di fronte all’imbarazzo di trattare con un presidente sospettato di aver vinto con brogli e di un regime colpevole di gravissime violazioni dei diritti umani gli otto grandi punterebbero alla contrapposizione.
sioni. Comunque nel mondo arabo succede spesso che ci siano risultati elettorali non graditi ai regimi in carica. Magari contestate da opposizioni islamiste, che a noi piacciono meno, per cui ci appassionano poco. Vedi il caso dell’Egitto o dell’Algeria. E dove il governo attesta dei risultati delle urne assai dubbi. Non puoi prendere posizione. Puoi solo protestare per la repressione e condannare la violenza. Poi con il potere dovrai trattare, sull’Iraq come sul nucleare. Nei prossimi mesi forse Ahmadinejad avrà più bisogno di una sponda occidentale e potremo sperare che conceda qualcosa». Uno schema dove gli equilibri e la nuova mappa del potere internazionale non sono ancora definiti. Dove forzare la mano può diventare pericoloso. Una guerra di nervi per Washington.
I dimostranti e Mousavi hanno mostrato coraggio, ma i primi sembrano più radicali del secondo. Il sito web di Mousavi annuncia che egli non cerca uno scontro con i “fratelli”delle forze di sicurezza iraniane né vuole sfidare “il sacrosanto sistema”istituito dall’ayatollah Khomeini. Piuttosto, il sito web dichiara: «Facciamo fronte a brogli e bugie. Cerchiamo di apportare riforme che ci facciano tornare ai puri e semplici principi della Repubblica islamica». Questa timidezza è in contrasto con l’ardita posizione dei dimostranti che sono scesi in piazza gridando: “Morte al dittatore” e perfino “Morte a Khamenei”, un’eco dei perenni slogan del regime: “Morte all’America” e “Morte a Israele”, che implicano non solo un desiderio di emendare “il sacrosanto sistema” di Khomeini, ma altresì un’aspirazione a porre fine al regime dominato dai mullah (i clerici iraniani). L’altra protesta si è svolta in un grande salone d’un padiglione espositivo appena a nord di Parigi, dove il più nutrito gruppo di opposizione iraniano conosciuto come Mujahedeen-e Khalq o Mujahedeen del Popolo dell’Iran (MeK o Pmoi) si è unito a gruppi più piccoli per l’annuale incontro. Erano presenti circa 20mila persone, me incluso. Il momento più emozionante del raduno è stato quando la folla preoccupata è venuta a sapere che le pacifiche controparti scese in strada in Iran erano state uccise o ferite. In quel momento, la libertà di associazione in Francia ha cozzato fortemente con la negazione di esercitare tale diritto in Iran. Qualche ora più tardi in quello stesso giorno è arrivata la conferma delle ossessive paure del MeK da parte del regime, quando il vice capo della polizia, Ahmad Reza Radan, ha incolpato “i teppisti” del MeK degli atti di violenza perpetrati dallo stesso governo contro i pacifici dimostranti. Il MeK ha organizzato un’imponente manifestazione in Francia – come fece nell’ultimo raduno al quale presi parte nel 2007 – con la partecipazione di personalità, uno sfarzoso spettacolo confezionato per la televisione, ed un efficace discorso pronunciato dal suo leader, Maryam Rajavi. Come i dimostranti scesi in piazza, quest’ultima ha chiesto la fine del regime khomeinista. In un discorso di 4.000 parole, la Rajavi ha fortunatamente evitato gli attacchi agli Stati Uniti o ad Israele ed ha preferito non fomentare le teorie cospirative così usuali riguardo alla vita politica iraniana, piuttosto aa messo in ridicolo il regime per aver ritratto i dimostranti come agenti occidentali. Si è accoratamente lamentata del fatto che i corpi dei manifestanti sono stati “avvolti in bandiere americane” e poi calpestati. Ha condan-
nato i “crimini” del regime in Iraq e la sua “esportazione del terrorismo” in Libano, nell’Autorità palestinese ed in Afghanistan. Ha predetto che “l’inizio della fine” della Repubblica islamica dell’Iran è in corso. Ha criticato l’amministrazione Obama per aver dato ancora un’altra chance al regime, osservando che l’amministrazione Bush aveva incontrato invano i suoi rappresentanti per ben 28 volte.
La Rajavi ha giustamente invocato una politica americana più forte verso Teheran, spiegando in una recente intervista che “l’Occidente può fermare il programma nucleare iraniano, se si oppone ai mullah”. Purtroppo, tenere testa ai mullah non è mai stata una linea politica americana. Jimmy Carter ha accettato docilmente la loro autorità. Ronald Reagan ha inviato loro armi. Per guadagnarsi la loro benevolenza, Bill Clinton ha inserito il MeK nella lista delle organizzazioni terroristiche. George W. Bush non ha vanificato il loro progetto di corsa al nucleare. E Barack Obama spera di ottenere delle concessioni da Teheran sulla questione delle armi nucleari, prendendo le distanze dai dissidenti. Invece, il cambiamento in Iran dovrebbe invitare all’audacia e all’innovazione. È arrivato il momento per una risoluta politica americana che incoraggi coloro che inneggiano slogan del tipo: “Morte a Khamenei” e che sfrutti l’eccessiva paura che il MeK desta nei circoli dominanti iraniani (primo passo: porre fine all’assurdo inserimento del MeK nella lista delle organizzazioni terroristiche). Come osserva il repubblicano Peter Hoekstra (repubblicano del Michigan), il cambiamento di regime in Iran diventa ancora più urgente se i mullah presto dispiegheranno armi nucleari. Il vitale e potenzialmente vittorioso movimento che si è sviluppato nelle strade iraniane e nelle sale europee rappresenta meglio non soltanto i valori occidentali, ma anche gli interessi dell’Occidente.
Il movimento delle strade rappresenta non soltanto i valori occidentali di libertà e vera democrazia, ma può aiutarci nei nostri interessi di pace
diario
pagina 6 • 1 luglio 2009
Fini si scopre filo-Zapatero A Madrid parla di immigrazione: ingiusti i respingimenti dei migranti di Riccardo Paradisi opo l’incontro con l’ex leader dei popolari Josè Aznar il presidente della camera Gianfranco Fini incontra nella sua seconda giornata spagnola il premier Luois Zaptero. Un incontro durato più del previsto, un’ora e un quarto invece della mezz’ora canonica del protocollo, un colloquio cordialissimo e pieno di feeling, tanto che Zapatero ha accompagnato personalmente Fini all’uscita del Palazzo della Moncloa. Una cortesia quella che ha caratterizzato gli incontri del presidente della Camera in terra spagnola che ha prodotto impegni comuni da calendarizzare.
D
Da quanto è emerso dal colloquio tra il presidente della Camera Gianfranco Fini e del suo omologo spagnolo Jose Bono Martinez infatti la Camera dei deputati italiana ed il Congresso dei deputati spagnolo terranno nel prossimo mese di settembre un incontro bilaterale sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione e controllo dei clandestini: «Il bilaterale, ha spiegato Fini, si terrà in parallelo al vertice Italia-Spagna. Le nostre politiche in materia di immigrazione del resto hanno molti punti in comune; il che di-
mostra che se si depone l’arma della propaganda e ci si confronta, ogni Paese, al di là della maggioranza che lo governa agisce secondo precise coordinate». In passato, pochi mesi fa, il governo spagnolo, riferendosi agli arresti dei clandestini, aveva addirittura accusato l’Italia di xenofobia, sottolineando la differenza tra la politica sull’immigrazione messa in atto da Madrid e quella del governo Berlusconi: «il governo spagnolo respinge la violenza, il razzismo e la xenofobia e, pertanto, non può condividere ciò che sta succedendo in italia. La Spagna lavora a una
- deve esserci per la sussistenza dei requisiti per chiedere asilo.Tuttavia sarebbe immorale dire subito ”Sei clandestino, ti rimando al tuo Paese”. Sarebbe in alcuni casi come condannare quella persona a morte. Con i clandestini vale il principio base della nostra cultura occidentale: sono prima uomini e poi immigrati». Siamo lontanissimi non solo dal Fini amico del leader dell’estrema destra francese Jean Marie Le Pen ma dal Fini già leader moderato che firmava con Bossi la legge sull’immigrazione tuttora vigente. Del resto Fini si definisce ormai un politico post-ideologico: «Le ideologie in Italia sono sepolte nel sentimento popolare. Rimangono soltanto nella mente di qualche nostalgico. Destra, centro e sinistra oggi vogliono solo dire il posto in cui ti siedi nelle aule parlamentari. Io oggi sono molto post ideologico. Le grandi correnti culturali non sono alternative ma complementari». Post-moderno, post-ideologico, situazionista Gianfranco Fini.
Il presidente della Camera ai giornalisti: «Il Cavaliere? Non va amato né odiato. Ha il diritto di essere rispettato da tutti» politica dell’immigrazione legale e ordinata, che permetta il riconoscimento di diritti e doveri». Ai socialisti spagnoli dall’Italia si era risposto che l’esecutivo di Zapatero aveva fatto sparare sui barconi che trasportavano migranti verso le coste iberiche. Uno strappo ora sembra ufficialmente ricucito da Fini che sull’immigrazione ha esternato a lungo in terra spagnola. Partecipando a un forum del quotidiano El Mundo il presidente della Camera ha detto che non si possono respingere gli immigrati senza controlli, pregiudizialmente: «È assolutamente indispensabile distinguere chi chiede asilo politico. I rifugiati non possono essere automaticamente equiparati al clandestino. La equiparazione automatica farebbe venir meno la dignità della persona umana». Una stoccata alla Lega e al ministro dell’Interno Roberto Maroni. «Certo, un rigoroso controllo nazionale - dice Fini
Posizioni – soprattutto quelle relative all’immigrazione – che in Italia hanno trovato un grande plauso, a sinistra però: «La verità dei fatti e la forza dei valori, evidentemente, sono destinate a prevalere: è bello constatare che il presidente Fini stia da questa parte del dibattito – dice il vicepresidente dei deputati del Pd Gianclaudio Bressa – Speriamo che questa forte consapevolezza non sia patrimonio solo del presidente della Camera ma che possa essere una bussola per orientare il prossimo voto del Senato sul ddl sicurezza». Chissà che ne pensano Lega e destra del Pdl.
La Corte di Cassazione ammette l’errore. Al Pd sono stati sottratti 50mila voti rispetto ai conti del Viminale
Europee: i voti di Siena non sono pervenuti di Federico Romano conti dei voti delle ultime elezioni europee non tornano. Ma stavolta non si tratta di brogli presunti o denunciati, quanto di un errore tecnico nel conteggio e nel computo delle schede. Ci sono infatti discordanze rilevanti tra i voti attribuiti alle varie liste alle ultime europee dal Viminale e quelli certificati dalla Corte Cassazione. Discrepanze tali da modificare il nominativo di almeno uno degli eletti.
I
della Suprema Corte a proposito delle notizie di stampa sulla diversa attribuzione dei seggi. «L’Ufficio elettorale Nazionale - si legge nel comunicato - precisa di aver proceduto, secondo quanto previsto dalla legge elettorale per il Parlamento Europeo, al conteggio dei voti sulla base dei dati che sono stati allo stesso comunicati dal competente Ufficio Elettorale Circoscrizionale presso la Corte di Appello di Roma. A seguito di
Dal verbale risultavano sparite in tutto circa 100mila schede: c’è stato un errore di comunicazione fra Roma e la Toscana
All’origine del problema ci sarebbe un errore di comunicazione di dati tra Siena e Roma che avrebbe prodotto la differenza tra i voti conteggiati dal ministero dell’Interno per la circoscrizione dell’Italia Centrale per le elezioni del Parlamento Europeo e i voti conteggiati per la medesima circoscrizione nel verbale approvato dall’Ufficio Elettorale Nazionale presso la Corte di Cassazione. A renderlo noto è l’ufficio stampa
accertamenti immediatamente disposti – prosegue il comunicato – è risultato che si è verificato un errore di comunicazione di dati tra l’Ufficio Elettorale Provinciale presso il Tribunale di Siena e l’Ufficio Elettorale Circoscrizionale presso la Corte di Appello di Roma. Le conseguenti rettifiche sono già in corso
e sulla base delle medesime l’Ufficio Elettorale Nazionale procederà con urgenza alla conseguente rettifica dei dati riportati nel verbale approvato».
Dal verbale della Cassazione risultavano infatti spariti circa 100mila voti, conteggiati dal Viminale nella Circoscrizione Centro all’indomani della consultazione. Metà dei quali appartenenti al Pd. Che perciò perdeva un seggio. Attribuito inizialmente al dalemiano esponente del Pd Roberto Gualtieri. E che, nell’ultimo verbale della Suprema Corte era portato nel Nord-Ovest, dove risultava incaricato per Strasburgo il democratico Francesco Bonanini, presidente del Parco delle Cinque Terre. Tra l’altro il Partito democratico non era stato l’unico a perdere voti circa 28.000 li aveva persi anche il Pdl, senza contare i 6.273 dell’Italia dei Valori i 4240 dell’Unione di centro i 4141 della Lega e i 5114 di Rifondazione Comunista-Partio dei comunisti italiani.
diario
1 luglio 2009 • pagina 7
Così ieri il presidente di Unicredit Banca di Roma
Secondo i dati dell’Istat, siamo tornati ai livelli del 1968
Crisi, Savona: «Gli effetti? Sulle nuove generazioni»
L’inflazione resta bassa: a giugno è a +0,5%
ROMA. «C’è il rischio che gli ef-
ROMA. Il tasso di inflazione a
fetti della crisi economica possano spostarsi sulle spalle delle nuove generazioni». Ad affermarlo, ieri, è stato il presidente di Unicredit Banca di Roma, Paolo Savona, intervenendo a un convegno sulla crisi che si è svolto a Roma.
giugno è sceso al +0,5% annuo, rispetto al +0,9% registrato a maggio. Lo ha comunicato l’Istat, sulla base di una stima provvisoria. Su base mensile, i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,1%. Il tasso tendenziale rappresenta il livello più basso dal 1968, quando si fermò allo 0,4%. L’inflazione acquisita per il 2009, che si avrebbe, cioè, se si continuasse a registrare lo stesso livello rilevato a giugno (+0,5%), è pari al +0,7%. L’indice armonizzato (quello utilizzato come parametro per il calcolo dell’indice europeo da Eurostat) registra nel mese di giugno una variazione di +0,2% rispetto al mese prece-
La crisi economica attuale ha avuto origine nel mercato dei mutui subprime e si è diffusa attraverso il mercato finanziario mondiale interconnesso. La sua complessità e incertezza segnalano il fatto che c’è poco consenso sulle cause effettive, sui meccanismi di contagio sulle conseguenze per i Paesi sviluppati e le regioni del mondo, e sulle risposte politiche che imprese, governi e istituzioni stanno approntando: sono stati questi nella sostanza i temi esaminati da “Research Group on Global Finance”, che con il supporto di Unicredit, del G8 Reserarch Group, del Centre for International Governance Innovation e i loro partner ha organizzato una conferenza dal titolo “Global Financial Crises: national economic solution, geopolitical impact”. La conferenza ha messo insieme esperti mondiali dall’Italia, dai Paesi del G8 e dai Paesi emergenti per esaminare la dinamica, la risposta e le innova-
Sulle entrate, Tremonti corregge Berlusconi «Non è vero che mancheranno all’erario 37 miliardi» di Alessandro D’Amato
ROMA. Ventitre miliardi di euro “sbloccati” per pagare le imprese creditrici della pubblica amministrazione, detassazione degli investimenti. E una smentita delle parole di Berlusconi sulle minori entrate fiscali. Mentre dal taglio delle commissioni delle banche, aziende e famiglie ricaveranno risparmi per altri due miliardi. La conferenza stampa del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che serviva a presentare il decreto legge anticrisi e il bilancio di assestamento, varati entrambi venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, porta finalmente qualche buona notizia per il sistema economico italiano. «Abbiamo fatto un po’di conti – ha spiegato il ministro – e il risparmio da questo provvedimenti per famiglie e imprese, in linea di massima, può essere stimato intorno ai 2 miliardi di euro». Anche la norma sul massimo scoperto, ha aggiunto Tremonti, «dovrebbe avere un risparmio, sommando tutto ci sembra che il provvedimento sia sostenibile per le banche ma soprattutto positivo per famiglie e imprese». E poi, «sulla detassazione degli utili reinvestiti in macchinari i benefici finanziari si vedranno già nel 2010 e non nel 2011 (valida per la metà). Al primo periodo di imposta utile se ne ammirerà l’utilità». Inoltre, «per la prima volta nella storia dell’Iva non ci sono più arretrati, sono stati ridotti in modo drastico», sottolineando che l’arretrato sui pagamenti è stato azzerato: »è un modo per immettere liquidità nell’economia».
ri entrate per lo Stato per un ammontare di 37 miliardi di euro: «I dati forniti ieri dal presidente del Consiglio erano comparati col vecchio Dpef: l’andamento delle entrate è in linea con le nostre previsioni e in linea con quanto previsto per il deficit corretto per il ciclo». E le previsioni italiane sui conti pubblici rispettano comunque gli accordi europei, secondo il ministro.
Ma c’è anche da osservare che alcuni punti di criticità non sono stati risolti. Il provvedimento sugli utili è sì una boccata d’ossigeno al sistema delle imprese che sono in gravissima difficoltà, con cali degli ordinativi e della produzione tra il 35 e il 50%. Ma è troppo poco, perché è una misura temporanea: dura solo un anno. Perché per detassare gli utili ci vogliono gli utili, e di questi tempi non ce ne sono molti in giro. Perché vengono posti dei tetti e delle limitazioni ai benefici che, in un periodo come questo, rischiano di scoraggiare gli imprenditori, perché i benefici fiscali si avranno solo a partire dalla prossima primavera, e la crisi morde oggi. In più, c’è da ricordare che la bozza, a proposito dei crediti delle imprese, diceva che «i crediti esigibili nei confronti dei Ministeri (non i Comuni, né le Asl, quindi) iscritti come residui passivi per il 2009 sono accertati straordinariamente con decreto del MEF, e resi liquidabili nei limiti delle risorse a tal fine stanziate con la legge di assestamento del bilancio dello Stato». In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è necessario ricordare che il problema dei ritardi di pagamento non è di competenza, ma di cassa: un comune o un ministero non pagano i fornitori non perché se ne dimentichino, o perché non hanno i soldi iscritti in bilancio: nessuna PA può acquistare senza un formale impegno di spesa, altrimenti si viola la legge di contabilità. Non serve lo stanziamento di competenza, il problema è avere anche il denaro in cassa. Ed è quello che ora scarseggia dentro le PA. Soprattutto nei Comuni, a causa all’abolizione dell’Ici.
Il superministro annuncia: «Abbiamo da coprire qualcosa sul 2009, per esempio dovremo intervenire per l’Abruzzo»
zioni che stanno avendo luogo in Nord America, Asia, Europa, nei Paesi emergenti (Bric) e nella global governance. Come ha sottolineato durante la conferenza il presidente di Unicredit Banca di Roma, «le politiche fiscali europee non sono coordinate e questo porterà ad un aumento del debito pubblico». Un altro limite, ha ancora affermato Paolo Savona,«è la frammentarietà del sistema bancario per quanto riguarda la supervisione e la vigilanza». Quanto alle manovre messe in atto nei vari Paesi, Savona ha espresso dubbi sulla loro effettiva efficacia: «In questo modo si sposta la crisi sulle spalle delle nuove generazioni».
Anche se i conti dello Stato sono in rosso: «Abbiamo da coprire qualcosa sul 2009, per esempio qualcosa per l’Abruzzo, arretrati di pagamenti, per esempio il contributo alla Banca Mondiale, per un fabbisogno di 1-1,5 miliardi e sul 2010 un aggiustamento di 3-4 miliardi, un po’ più, un po’ meno», anche se la situazione dei conti pubblici è «assolutamente controllabile e gestibile». La manovra di aggiustamento sul bilancio pubblico è di 11,5 miliardi di euro nel 2009 e di 3-4 miliardi nel 2010. Poi Tremonti corregge il premier Silvio Berlusconi, che aveva parlato di mino-
dente e una variazione di +0,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nel complesso, un’inflazione così bassa non è da considerare un dato positivo, perché sta a significare soprattutto che i prezzi non salgono per via di una contrazione nei consumi dovuta alla crisi economica.
Gli aumenti congiunturali più significativi dell’indice per l’intera collettività si sono verificati per i capitoli trasporti (+0,9%) e ricreazione, spettacoli e cultura (+0,6%); variazioni nulle si sono registrate nei capitoli bevande alcoliche e tabacchi e istruzione. Variazioni negative si sono verificate nei capitoli comunicazioni (-1,2%), servizi sanitari e spese per la salute (-0,5%), prodotti alimentarie e bevande analcoliche e servizi ricettivi e di ristorazione (-0,1%). Gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli bevande alcoliche e tabacchi (+4,9%), altri beni e servizi (+2,4%) e istruzione (+2,1%). Variazioni tendenziali negative si sono verificate nei capitoli trasporti (-4%), comunicazioni (-0,9%) e abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-0,1%). Frena decisamente la corsa degli alimentari: su anno +1,9%.
politica
pagina 8 • 1 luglio 2009
Alleanze. Si moltiplicano le avances della maggioranza in vista di un rinnovato rapporto con il partito di Casini
Il corteggiamento Il premier vuole recuperare l’Udc: è una nuova strategia o solo convenienza per le Regionali? di Errico Novi
ROMA. Un riflesso condiziona-
Stavolta il nodo è più profondo. Riguarda l’identità del Pdl, che si sente esposto a un rischio del tutto analogo a quello concretizzatosi per il Pd dopo l’accordo con Di Pietro: il pericolo cioè di essere continuamente scavalcato a destra dal populismo e dalla propaganda anti-immigrati del Carroccio. Ci vorrebbe un profilo di destra autonomo dalle scorciatoie demagogiche, che però sembra difficile da integrare: il più credibile epigono di una simile evoluzione, Gianfranco Fini, MAURIZIO è neutralizzato dal GASPARRI proprio ruolo istituzionale, il che mortiUn nuovo patto fica la “competiticon l’Udc vità” del Pdl su un è l’unico tema terreno tipicamente politico vero di destra. Non è un del centrodestra, caso che anche un consentirebbe esponente dell’eterodi consolidare geneo filone post un’area non di aennino come Ansinistra destinata drea Ronchi sia nela governare lo stesso tempo poco per sempre persuaso dal riavvicinamento ai centri-
to potrebbe far archiviare gli slanci che dal Pdl muovono verso la rinnovata alleanza con l’Udc come una fiammata estiva, e null’altro. Non è detto che sia così. Il dubbio è suscitato da almeno un paio di segnali. Innanzitutto dal fatto che a sbilanciarsi su questa ipotesi non è più qualche voce isolata com’era capitato un anno fa con Fabrizio Cicchitto: sulle stesse posizioni ci sono stavolta
uno dei tre coordinatori di via dell’Umiltà, Denis Verdini, entrambi i capigruppo al Senato, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, lo stesso Cicchitto, e seppur con sfumature diverse, Sandro Bondi, Claudio Scajola, Gianfranco Rotondi e praticamente tutte le prime file del partito di maggioranza che abbiano una qualche ascendenza democristiana. In passato le episodiche profferte di ricongiungimento arrivate dallo stesso Silvio Berlusconi si sono dissolte in fretta, mostrando una matrice soprattutto tattica: servivano più che altro a tenere buona An, con lo spauracchio di un riallargamento della coalizione che avrebbe dovuto ridurre le pretese dei finiani. Oggi si potrebbe intuire un meccanismo analogo, ossia l’ansia di scoraggiare l’avanzata della Lega con la minaccia di riequilibrare l’alleanza al centro. Se non fosse che la convergenza di posizioni sul riavvicinamento all’Udc è davvero troppo vistosa. E che un problema politico oggettivo, visibile, c’è davvero ed è assai più consistente dei pregressi bisticci tra via dell’Umiltà e via della Scrofa.
sti e nello stesso tempo dica che «c’è poca An in questo Pdl».Non c’è dubbio che la sola possibilità, per il partito di maggioranza relativa, di sottrarsi al gioco a perdere con la Lega è in una definizione del proprio carattere moderato. Il che però spinge fatalmente il baricentro verso lo spazio saldamente occupato da Pier Ferdinando Casini. Dalla consapevolezza di un simile meccanismo – chiaramente distinto dalle mere preoccupazioni tattiche del passato – deriva appunto l’idea di ricomporre la vecchia alleanza. Idea resa esplicita da diversi colonnelli ma suggerita innanzitutto da Berlusconi, seppure in occasioni riservate.
C’è dunque il riconoscimento di un errore, da parte del Pdl e dei suoi vertici? Non in maniera esplicita. Ma è difficile non leggere una qualche ammissione in considerazioni come quelle fatte da Denis Verdini con il Corriere della sera di sabato scorso: «Auspico che si possa arrivare a un nuovo accordo con l’Udc, dopo
anni di alleanza e uno solo di rottura». Come se la decisione presa nel 2008 di escludere il centro dalla coalizione fosse stata un’eccentricità. «Visto che entrambi facciamo parte del Ppe mi auguro si possa tornare ad allearsi per modernizzare il Paese», dice Verdini. Perviene così a una consi-
GAETANO QUAGLIARIELLO Le regionali sono una tappa del processo: siamo bipolaristi, ma l’essenziale è l’ancoraggio alla sovranità popolare: poi sono i partiti a scegliere il grado di semplificazione
Rocco Buttiglione risponde alle offerte di alleanze dal centrodestra e dal centrosinistra
«Ma nel Pdl hanno ancora idee confuse» di Francesco Capozza
ROMA. Andrea Ronchi è rimasto solo: «È meglio non allearsi di nuovo con l’Udc in vista delle Regionali del 2010. Non possiamo correre dietro con chi in Europa sta con il Ppe e a Brindisi con i Ds», ha detto il ministro ieri, in un’intervista. A quanti nel Pdl auspicano un’alleanza con il partito di Pier Ferdinando Casini alle regionali, Ronchi risponde: «per noi il bipolarismo è un valore assoluto per la modernizzazione delle nostre istituzioni. Non penso sia coerente ragionare in materia di alleanze in modo disomogeneo rispetto al quadro nazionale». E ha aggiunto: «Lo dico davvero con rispetto per Casini, cha ha una sua strategia. Forse qualche dirigente del mio partito non l’ha capita bene. Io credo che dobbiamo andare avanti per la nostra strada, anche a costo di prendere qualche assessorato in meno». Sul fronte opposto, dalle parti di largo del Nazareno, si scaldano i motori in vista delle Regionali del prossimo anno e sono diversi i maggiorenti del Pd che guardano a Pier
Ferdinando Casini e all’Udc come eventuale alleato per quell’appuntamento elettorale. Tra i democratici, così come d’altronde anche a via dell’Umiltà, sanno bene che in dieci/undici regioni l’Udc ha un peso rilevante; addirittura fondamentale, per la vittoria, in 4/5. Per il presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti «abbiamo vinto in molti grandi Comuni, anche grazie ad un lavoro che abbiamo costruito sin dal primo giorno della mia giunta con l’Udc. Anche grazie al “modello Roma”siamo andati quasi dovunque insieme alle elezioni». Presidente Rocco Buttiglione, dopo l’ottimo risultato alle Europee e alle elezioni amministrative sembra che tutti gli occhi siano puntati su di voi. Come si sta nei panni di Giulietta con tutti questi Romeo sotto al balcone? Se posso parlare a titolo personale le dico che io trovo sia stata un’ottima scelta quella di andare da soli. Al momento, come sempre daltronde, siamo disponibili
a dialogare con tutti, tuttavia credo che nella vita non ci si debba sposare a tutti i costi. Kierkegaard diceva: «meglio impiccato bene che maritato male», ecco, diciamo che la penso esattamente come il grande filosofo. Ha letto però la dichiarazione di ieri del ministro Ronchi? Sembra stridere un pò con quella di molti colleghi del Pdl che nel riavvicinamento con l’Udc vedono l’unica speranza per vincere nel 2010 in parecchie Regioni chiave. La dichiarazione del ministro Ronchi mi convince sempre di più che prima è il caso si mettano d’accordo loro. Che facciano un pò di chiarezza sulle loro posizioni e che, soprattutto, capiscano che noi per collaborare con il governo vogliamo vedere una svolta profonda del suo operato. In particolar modo sul concetto di unità nazionale, sviluppo economico, idea di nazione. Sono certo che nel Pdl sanno che non torneremo indietro con il
politica Sarebbe arrivato direttamente da Silvio Berlusconi l’input politico a recuperare il rapporto del Popolo della libertà con i centristi di Pier Ferdinando Casini. Del resto, l’alleanza con l’Udc risulta fondamentale, sia per il centrodestra sia per il centrosinistra, per vincere in almeno 5 regioni. Il problema, secondo il presidente dei centristi Rocco Buttiglione, è capire se si tratta di una nuova strategia politica del centrodestra o solo della richiestra di una alleanza per le regionali
DENIS VERDINI Ci sono stati molti anni di alleanza e uno solo di rottura: enrambi facciamo parte del Ppe, auspico che si possa tornare ad allearsi per modernizzare il Paese
derazione che un anno fa appariva scontata a tutti, tranne che a Berlusconi, a Fini e ai loro dirigenti. Il coordinatore del Pdl rafforza il suo ragionamento con una particolare rilettura su quanto avvenuto in occasione del voto per Comuni e Province: «Solo alle amministrative può avere senso la politica di
1 luglio 2009 • pagina 9
un argomento da affrontare per consolidare una vasta area Se di accordi non di sinistra che si deve parlare sarebbe destinata a tra Pdl e Udc, governare ‘forever’». può essere solo Una simile evoluzioper le Regionali. ne sembra intaccare Il percorso è gli stessi presupposti lungo, il partito sui quali era stata di Casini guarda condotta la campaad alleanze che gna elettorale delsi decidono l’anno scorso: semin Parlamento plificazione estrema, riconoscimento del Pd come unico conalleanze diversificate, la rottura traltare e dell’alleanza con la Letra Pdl e Udc non differenzia gli ga come sola possibile eccezioelettori ma i dirigenti». C’è chi ne. Ma Gaetano Quagliariello sul suo stesso fronte lo invita ad corregge una simile interpretaessere conseguenziale con il di- zione, e dice con chiarezza che scorso e a scongiurare l’anoma- un accordo con l’Udc non dolia siciliana: nella regione messa vrebbe limitarsi alle Regionali sottosopra dagli strattoni di Raf- del prossimo anno: «La prospetfaele Lombardo, dice Maurizio tiva è più ampia, può essere cerGasparri, «avevamo un patto to costruita con passaggi intercon l’attuale governatore ma an- medi e uno di questi potrà essere che con l’Udc, con questo patto proprio il voto per i governatori ci siamo presentati alle elezioni e del 2010. Noi rimaniamo sempre abbiamo vinto: ora perché biso- una forza bipolare a tendenza gnerebbe stracciarlo e fare una bipartitica», dice a liberal il vicepresidente del Pdl al Senato, giunta senza centristi?». «ma mentre sul primo punto non Il presidente dei senatori del esistono margini di trattativa, sul Pdl a Palazzo Madama spiega, in secondo ce ne sono: nessuno ha un’intervista pubblicata ieri dalla StamITALO pa, di non comprenBOCCHINO dere «l’interesse ad appoggiare un’opeLe alleanze si razione politica che fanno sulla base punta sulla diversità di programmi del Mezzogiorno». comuni, su Secondo Gasparri questo cerchiamo «l’unico tema politiil più vasto co che c’è nel centroconsenso, ma la destra è quello di vapolitica dell’Udc lutare se è opportunelle Regioni non no ricomporre, in va nella direzione prospettiva, l’area giusta che fa riferimento al Ppe anche in Italia: è
IGNAZIO LA RUSSA
mai pensato a un bipartitismo chirurgico, draconiano». capo sparso di cenere, ma non pensino nemmeno di riportarci con loro alzando la posta in gioco. A noi interessano i contenuti e i valori non le poltrone. Anche sul fronte opposto, dal partito democratico principalmente, si guarda con un certo interesse a via dei due macelli. Ai ballottaggi nelle ultime amministrative pare vi siate spostati con più facilità verso il centrosinistra piuttosto che verso le alleanze, già sperimentate in passato, col centrodestra. Per quale motivo?
“
Sempre sul fronte del centrosinistra, tuttavia, c’è chi, come Di Pietro, che troverebbe irragionevole un’alleanza del Pd con l’Udc e sprona il partito di Franceschini a fare una scelta precisa tra lui e voi. Che ne pensa? Credo che Di Pietro abbia ragione. Da parte nostra siamo disponibili a dialogare con tutti, ma mi pare difficilmente ipotizzabile una coalizione di centrosinistra con noi e l’Idv. Con quale progetto poi? Presidente, tra gli appassionati della fantapolitica c’è chi, da un lato parla di Casini candidato premier nel 2013 per il centrosinistra e dall’altro chi pensa sia uno dei probabili successori di Berlusconi. Sono solo chiacchiere da salotto o pensa che Casini avrebbe le carte in regola sia per l’una che per l’altra prospettiva? Mai dire mai. Prima di tutto, però, io penso che il Pd debba capacitarsi del fatto che il progetto è fallito. I cattolici del Pd dovrebbero venire con noi e costruire un grande centro al di là del quale dovrebbe esserci un partito della sinistra in grado di unire posizioni riformiste e massimaliste. Solo in quel caso potrebbe esistere un nuovo centrosinistra.
Kierkegaard diceva: «Meglio impiccato bene che maritato male». Ecco, diciamo che non dobbiamo sposarci a ogni costo: la penso esattamente come il grande filosofo
Abbiamo valutato caso per caso e candidato per candidato come siamo soliti fare. Anche nel Pd dovrebbero fare chiarezza. Le dichiarazioni di Bettini e Zingaretti che lei mi ha letto mi sembrano abbastanza confusionarie. Confrontiamoci su cose concrete, per esempio sull’ultima enciclica del pontefice. È una sfida, ma credo sarebbe interessante.
”
Non si può dire dunque, secondo Quagliariello, che verrebbe così cancellato il veto sulla sopravvivenza dell’Udc e del suo simbolo, giacché quel veto non è mai stato sostanziale. «Naturalmente il bipolarismo va difeso con l’ancoraggio del sistema alla sovranità popolare», ossia con un sistema elettorale che preservi l’immodificabilità delle coalizioni, «ma nello stesso tempo si può lasciare alla convenienza dei partiti il grado di semplificazione che si vuole raggiungere». Secondo Quagliariello la strada, anche dal punto di vista del sistema elettorale, non è così stretta: «In sistemi a tendenza bipartitica come quello britannico ci sono tre, quattro, anche cinque partiti: in passato capitava che conservatori e unionisti andassero a volte insieme, altre volte divisi. L’importante, ripeto, è l’ancoraggio alla sovranità popolare». Che si tratti di un ripensamento sostanziale o di una semplice rilettura, stavolta la teoria del riavvicinamento non sembra confinata solo nei tatticismi usa e getta.
panorama
pagina 10 • 1 luglio 2009
Democratici. Il sindaco di Torino sembrava in pole position per le primarie. Poi, il dietrofront
Chiamparino, due ore da segretario di Marco Palombi
ROMA. Sergio Chiamparino rinuncia a correre da segretario. La decisione del sindaco di Torino filtra, da ambienti a lui vicini, nel pomeriggio di ieri e chiude una querelle di difficile decifrazione per gli elettori e persino per gli iscritti del Partito democratico. Per far sì che io mi candidi, aveva detto al Giornale, servirebbe un «evento straordinario». Non si è verificato. Il fatto è che Chiamparino non voleva correre per fare il terzo uomo, il testimone democratico contro i candidati d’apparato che lottavano per la poltrona.Voleva vincere, Chiamparino, e per farlo gli serviva un «evento straordinario»: magari la decisione di Dario Franceschini di ritirarsi dalla corsa. A quel punto il gioco era fatto: il sinda-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
co di Torino era il candidato acclamato dai quarantenni, l’uomo chiamato a rappresentare il partito del Nord e i delusi del Lingotto contro l’ennesima tentativo del potere romano di bloccare il cambiamento. Il tutto nella persona di Pierluigi Bersani. Ieri mattina in molti davano la candidatura del sin-
candidatura. È una carognata, dicevano a via del Nazareno. Di più: stai a vedere che alla chetichella si schiererà col “terzo uomo” (vale a dire proprio Chiamparino, erede quindi - in questa ipotesi – anche delle truppe cammellate veltroniane). Resta il mistero del no del sindaco di Torino, seguito alla
Quando era data per certa (forse anche vincente) la sua candidatura, il leader del Nord ha rinunciato: hanno vinto le pressioni di Bersani daco come cosa fatta, poi è accaduto qualcosa: oggi Chiamparino parteciperà a un happening bersaniano all’Ambra Jovinelli di Roma, mentre ieri Enrico Letta – che sostiene l’ex ministro delle lenzuolate – parlava delle necessità di “valorizzare” il ruolo dell’attuale presidente dell’Anci all’interno del partito.Evidentemente Franceschini ha resistito alle pressioni: per giorni s’è detto che il segretario del Pd era amareggiato dal trattamento riservatogli da un partito che ritiene di aver salvato dalla catastrofe e, in particolare, dalla retromarcia di Veltroni sul sostegno alla sua
sicura decisione di candidarsi annunciata ai suoi lunedì sera. Pare che qualcuno (Bersani?) gli abbia fatto presente che in caso di candidatura avrebbe dovuto lasciare la carica di sindaco di Torino... Con il cerino in mano restano i famosi quarantenni: «Questi sono pazzi» era il commento più gentile che circolava ieri tra i giovani parlamentari che nel week end hanno partecipato all’incontro del Lingotto. Eppure Chiamparino aveva già innescato un salutare terremoto nel partito, mettendo in crisi le vecchie correnti ereditate dai partiti fondatori: gli avevano già an-
nunciato il loro appoggio due fassiniani come Francesco Tempestini e Fabrizio Morri (l’ex segretario Ds è schierato con Franceschini), quarantenni veltroniani come Andrea Orlando e Andrea Martella, un uomo vicino a Prodi come Sandro Gozi e l’ex Lotar dalemiano Marco Minniti. Da presidente dell’Anci, poi, avrebbe potuto sfruttare i suoi rapporti con buona parte di quella enorme massa di manovra che sono gli amministratori locali del Partito democratico.
Chiamparino però, a sorpresa, non si candida. C’è già chi lo vuole accasato con Bersani, come ha già fatto l’ altro “ribelle” nordista Filippo Penati (dirige la campagna dell’ex ministro). Quest’ultimo, peraltro, oltre che i settentrionali, s’è accaparrato anche un pezzo di mitologia ulivista: accompagnato da Enrico Letta e Rosi Bindi, ieri ha inaugurato la sede del suo comitato elettorale a piazza S.S. Apostoli, luogo prodiano quant’altri mai. Sarà, comunque, una corsa lunga: solo per presentare candidature e mozioni c’è tempo fino al 23 luglio.
Meltemi manda in stampa il nuovo libro del filosofo “Addio alla verità”
Vattimo, l’ultimo marxista (heideggeriano) I l “pensiero debole” di Gianni Vattimo è un pensiero forte e il filosofo del debolismo è l’ultimo marxista. L’ultimo suo libro è intitolato Addio alla verità, pubblicato dalla casa editrice Meltemi (che pubblica l’opera completa di Vattimo), oltre a cose nuove presenta anche delle rielaborazioni di scritti già noti. Il libro non aggiunge nulla al “pensiero debole” che era e rimane una valorizzazione del nichilismo come filosofia che emancipa l’uomo dal bisogno di avere una verità con cui dominare l’essere. Detto in parole più povere e semplici in questo mondo tutto cambia e non c’è una verità oggettiva che ci dà un ordine razionale e morale a cui improntare non solo la nostra vita privata, ma anche la vita politica. Insomma, non solo “Dio è morto”, ma sono morte anche quelle ideologie - in realtà si è sempre trattato di un’unica ideologia - che riconoscevano un senso universale alla storia e, per utilizzare la stessa formula di Nietzsche, “Marx è morto”. Come è possibile allora che Vattimo, il papà del “pensiero debole” e dell’emancipazione nichilista, sia l’ultimo marxista? Ogni filosofo è sempre tentato dalla politica. Ci sono casi così famosi che
si possono tranquillamente non nominare e dare per scontati. Anche Gianni Vattimo è stato a più riprese tentato dalla politica. Ha tentato di fare il sindaco di un paese della Calabria, San Giovanni in Fiore. Ha fatto l’eurodeputato con il Pds. Sembra che ora sia ascoltato da Antonio Di Pietro (cosa questa, in verità, davvero curiosa perché il partito dipietrista si chiama Italia dei Valori e tutta la filosofia di Vattimo è improntata al tramonto dei valori tradizionali che, appunto, tramontando, cioè finendo o esaurendosi storicamente sono l’inizio della emancipazione degli uomini da una logica di dominio che proprio nell’esistenza di una struttura stabile e razionale aveva la sua origine). La fase politica del filosofo nichilista italiano è la vera novità filosofica della sua opera.
Il motivo è abbastanza semplice: perché rispondendo all’“appello” della politica il filosofo non si preoccupa più di dire la verità sul mondo o di interpretarlo e basta, ma si propone di introdurre nel mondo una cosa nuova che prima non c’era e - senza girare troppo intorno alla cosa il suo programma è quello di cambiare o trasformare il mondo. Se si ha la pazienza di leggere un po’ tutti i libri di Vattimo (non è una irriverenza: lo stesso Vattimo, che con ironia cita non solo Aristotele e Platone e Hegel, ma anche Totò, sa bene che la lettura è un esercizio di pazienza) si vedrà che proprio il suo “impegno” politico crea uno spartiacque: c’è un prima e c’è un dopo. Il dopo dipende inevitabilmente da questa domanda: qual è il ruolo del filosofo in politica in un mondo senza verità?
La risposta di Vattimo, sulla quale ci piacerebbe ascoltare il pensiero di Di Pietro, è questa: «La comprensione del paradigma non è altro, in fondo, che lo sforzo di comprendere dialetticamente la totalità sociale in cui siamo gettati; anche e soprattutto nel senso del materialismo storico di Marx. E l’ascolto dell’essere come non detto è l’attenzione alla voce - da sempre messa a tacere dei perdenti della storia di cui ha parlato Benjamin».
Uscendo dall’autocompiacimento linguistico di Vattimo possiamo tradurre: dobbiamo capire la storia in cui siamo il paradigma - e dobbiamo sapere che la situazione nella quale ci troviamo è giustificata da una falsa coscienza - secondo il modello di Marx - e dobbiamo ascoltare ciò che l’ideologia della falsa coscienza non ci dice - le ragioni degli sconfitti - perché dal non-detto dipende la sua stessa vittoria e la “sua” verità. Ma una volta che abbiamo interpretato il nostro mondo, lo dobbiamo trasformare: «È necessario un conflitto per stabilire le condizioni del dialogo». Vattimo passa così dall’emancipazione nichilista a quella che egli stesso chiama «emancipazione rivoluzionaria».
panorama
1 luglio 2009 • pagina 11
Proposte. Il presidente del Cnr affronta il caso del polemico addio all’Italia della scienziata Rita Clementi
Contro i cervelli in fuga, ricerca senza tasse di Luciano Maiani appello lanciato dalla ricercatrice di Pavia che si vede costretta a trasferirsi negli Usa per poter proseguire le sue ricerche, nelle quali ha già ottenuto importanti risultati, non può essere non condiviso e sostenuto. L’ambizione espressa nell’intervista rilasciata a liberal da Rita Clementi - di far crescere i propri figli in un Paese che conceda «la speranza di vedere premiati i propri sacrifici» alle sue migliori risorse, senza lasciarle oltre ogni ragionevole limite anagrafico nel limbo dei «cosiddetti giovani precari» - è quella di tanti nostri validi ricercatori, i quali si muovono a fatica in un comparto penalizzato da scarsità di risorse e da normative inadeguate a garantire loro i dovuti ingressi e progressioni di carriera.
stato fatto troppo poco. La «fuga dei cervelli», intesa come sintomo dell’incapacità della ricerca italiana di valorizzare le proprie eccellenze, è purtroppo un leitmotiv da molto tempo. Oggi è più che mai urgente passare dalle parole ai fatti. L’attuale crisi economico-finanziaria deve costituire non un alibi per rimandare ma, come si sta facendo in molti paesi, una spinta ad agire, investendo nei ricercatori, soprattutto nei giovani, dando loro sviluppi di carriera e, non ultimo, potenziando le infrastrutture di ricerca che permetteranno la realizzazione dei loro talenti.
L’
Proprio per questo, però, la situazione va affrontata guardando al di là dei singoli casi, che hanno il merito di porre all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni il problema del futuro della nostra ricerca scientifica, ma per i quali è difficile pensare a scor-
Una vera solidarietà non può che passare per un cambio di rotta: servono maggior rispetto e maggiore attenzione per chi costruisce il futuro ciatoie in deroga alle regole generali. Scarsa meritocrazia e eccessi di burocratismo costituiscono l’arcinota, atavica patologia del sistema della ricerca italiana. Si tratta di malattie che stanno pregiudicando un settore strategico per il futuro del Paese e per il quale negli anni, anzi nei decenni scorsi, è
Secondo l’European Innovation Scoreboard (Eis), l’Italia sta scivolando tra i Paesi a moderata innovazione, dietro a nazioni che un tempo ci seguivano a distanza. I numeri europei tratteggiano una realtà nazionale ambivalente, che affossa l’eccellenza del sapere, pure diffusa, sotto l’incapacità di at-
trarre e gestire i finanziamenti disponibili. Le risorse pro capite conquistate in Europa dai nostri ricercatori sono superiori alla media, ma nel complesso i fondi intercettati dall’Italia si fermano al 9%, a fronte di contributi versati pari al 14%. Un divario notevole, dovuto alla minore consistenza numerica di ricercatori e tecnologi. Stabilizzare i nostri cervelli, dunque, sarebbe una intelligente misura volta a evitare il paradosso per il quale i contribuenti italiani finiscono con il sostenere i ricercatori dei Paesi comunitari più abili nel fare sistema. Occorre agire subito, per invertire un trend che altrimenti ci relegherà al ruolo di meri spettatori del progresso, dell’innovazione e del futuro. Alcuni passi sono stati compiuti dal Governo in carica. Sono segnali incoraggianti, ancorché insufficienti. Nel processo che deve portarci alla stregua dei nostri concorrenti europei e internazionali devono sentirsi coinvolti anche i privati, cioè le imprese italiane che oggi finanziano la ricerca per appena un terzo di quanto facciano le aziende europee. Una misura ineludibile per ot-
Polemiche. Il ministro delle Politiche comunitarie cerca di contrastare la fondazione Farefuturo
Parla Ronchi. A titolo personale di Riccardo Paradisi icordate la polemica sul cesarismo? L’accusa che nemmeno troppo velatamente l’attuale presidente della Camera Gianfranco Fini muoveva a Silvio Berlusconi dopo il pronunciamento del predellino e la fondazione unilaterale del partito unico del centrodestra?
R
Bene, dopo l’ultima sortita del webmagazine finiano Farefuturo viene il sospetto che dalle parti di ciò che fu An quella polemica non sia mai rientrata. In un articolo titolato “Contro il nuovo culto”che il webmagazine vicino al presidente della Camera dedica a un libro di Gene Healy, The cult of presidency si sostiene che nelle democrazia contemporanee sia germinata «una nuova vecchissima tendenza politica: il culto del presidente» e i riferimenti storici che vengono presi sono Caligola, Eliogabalo e Nerone: «Come noto Caligola fece senatore un cavallo, Eliogabalo si mise contro il popolo e le famiglie dei patres inscenando un matrimonio con una vestale, Nerone si guadagnò il risentimento della corte costringendo gli ospiti ad ascoltare i suoi ver-
si». E qui siamo sulle generali, ancora. È il passaggio ulteriore dell’analisi di Farefuturo che per espliciti riferimenti e allusioni è probabilmente riferibile al presidente del Consiglio: «Nonostante la presa sull’immaginario collettivo del mito del presidente “salvatore”, dell’unto dal Signore che risolverebbe i problemi mediante la sola imposizione delle mani la storia insegna che
Nel Pdl c’è chi comincia a stancarsi del «fuoco amico» del think-tank di Fini.Anche perché è ancora aperta la ferita della guerra alle veline in lista i grandi cambiamenti sono sempre avvenuti grazie alla cooperazione volontaria degli individui». Non basta: «La tradizione politica occidentale è molto più rappresentata dalla sobrietà del numero 10 di Downing Street piuttosto che da fantasmagoriche residenze degne di altre tradizioni e di altri “Cari Leader”qualsiasi». «Farefuturo spesso parla a titolo personale», si affretta a spiegare il ministro Andrea Ronchi preoccupato evidentemente del fatto che qualcuno nel Pdl possa cominciare a stancarsi di questo simpatico fuoco amico. Una difesa un po’
debole però quella di Ronchi e pure un tantino goffa. Debole perché non si capisce come il magazine di una fondazione possa parlare a titolo personale. Un’istituzione, un giornale non sono una persona, seguono una linea editoriale e politica non personale.
Forse Ronchi voleva dire che tra le posizioni della fondazione di Gianfranco Fini e Gianfranco Fini non c’è una cinghia di trasmissione così rigida? Benissimo, viva la libertà, ma allora dovrebbe dirlo chiaramente Fini, come ai tempi delle veline in lista, che non è d’accordo con il magazine di Fare futuro. A meno che quei riferimenti tardo imperiali e decadenti dell’articolo non abbiano nessun riferimento a Berlusconi. Ma allora dire come fa Ronchi che Farefuturo parla a titolo personale è un ammissione che quei riferimenti ci sono e sono rivolti proprio a Berlusconi. Insomma come la metti, la metti male.
tenere ciò, considerando il nostro particolare scenario imprenditoriale, è la defiscalizzazione degli investimenti in Ricerca e sviluppo. La defiscalizzazione potrebbe essere utilmente estesa agli Enti di ricerca, che potrebbero essere vincolati a usare le risorse corrispondenti per la promozione del trasferimento tecnologico e della collaborazione con le imprese.
La stessa vicenda della ricercatrice da cui prendiamo le mosse si inserisce in un settore, quello della genetica, e in un’area, quella lombarda, di comprovata competitività tecnico-scientifica. Affinché questi studiosi meritevoli non siano costretti ad andare all’estero a raccogliere i frutti del lavoro svolto in Italia non basta la solidarietà, alla quale aggiungo la mia personale, ma serve una decisa sterzata, volta a ottenere risorse e infrastrutture sufficienti per combattere una battaglia dalla quale dipende gran parte del futuro del nostro Paese. L’autore è presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche
pagina 12 • 1 luglio 2009
il paginone
Vita, morte e meraviglie del santo che la Chiesa ha appena c
San Paolo
di Osvaldo on visse con Gesù, non fu apostolo in senso stretto (anche se ad honorem è l’apostolo delle genti), non fu mai Papa. Eppure è una figura chiave del cristianesimo. Se oggi sentisse quelli che, per denigrare la Chiesa gli attribuiscono l’“invenzione” della fede cristiana, risponderebbe con una certa accorata durezza che era del suo carattere: la chiesa non è di Paolo, come non è di altri, se non di Cristo. Un anno davvero eccezionale per San Paolo quello a lui dedicato dalla Chiesa cattolica e appena conclusosi. Oltre all’attenzione particolare dedicata al personaggio, alla riflessione sul suo messaggio e all’approfondimento degli studi, in conclusione si sono registrati due “colpi” di grande rilevanza storica: l’annuncio del Papa della sonda inserita nel suo sarcofago e capace di individuare resti che confermano la tradizione, e la scoperta di una sua immagine nelle vicine catacombe che sarebbe la più antica e quindi anche la più attendibile come verosimile ritratto. Una buona occasione per fare il punto su diverse tradizioni importanti ma oggigiorno spesso obliate sulla venerazione di san Paolo a Roma.
N
È una storia fantastica e suggestiva quella della tomba di Paolo. È sempre stata lì, la tradizione ha conservato una devozione ininterrotta per duemila anni, la Basilica vi sorge proprio per questo motivo, eppure la tomba era stata in qualche modo dimenticata, trascurata.Tanto che il sarcofago (forse) non è mai stato aperto né esplorato prima dell’annuncio fatto domenica da Papa Benedetto XVI. «Nel sarcofago che non è mai stato aperto in tanti secoli - ha raccontato il pontefice - è stata praticata una piccolissima perforazione per produrre una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree.
Inoltre - ha proseguito - piccolissimi frammenti ossei , sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza sono risultati appartenere a persona vissuta tra il primo e il secondo secolo». L’impresa scientifica non deve essere stata facile, dato che lo spessore del sarcofago è di 25 centimetri, incastrato nella confessione sotto l’altare papale e il baldacchino di Arnolfo di Cambio. Stesso motivo per cui è da considerarsi molto complicata (ma probabilmente allo studio) l’ipotesi di aprire l’antica cassa per una completa ricognizione dei resti.
Dunque veramente quel luogo conserva venerati resti antichi. Ma sono davvero quelli di San Paolo? Proviamo a raccogliere alcuni elementi per dare un quadro generale della situazione e provare a fornire spunti di riflessione. Primo punto a favore della veridicità dell’identificazione è proprio la tradizione perpetuata per venti secoli e il culto ininterrotto. Molte fonti antichissime raccontano che il corpo di Paolo dal luogo del martirio presso le acque Salvie
sepoltura più venerati: le tombe di Pietro, Lorenzo, Agnese e altre, prima fra tutte quella di San Paolo. L’imperatore Valentiniano, nel 368, la sostituì con una basilica grandiosa a cinque navate.Teodosio proseguì l’opera e suo figlio Onorio la terminò. Di-
La tomba del santo è sempre stata lì, richiamando una devozione ininterrotta per duemila anni: la Basilica vi sorge proprio per questo motivo, eppure il sarcofago non era mai stato esplorato era stato portato a due miglia circa da Roma, sulla via Ostiense e ivi era stato sepolto. Sul luogo della sepoltura fu prima costruito un oratorio attribuito generalmente a papa Anacleto. Il presbitero Gaio nel II secolo documenta che già da allora si pregava sulla tomba di Paolo, e ricorda i trofei identificativi posti sulle tombe sua e di Pietro. Il luogo è rimasto sempre segnato e venerato, e il cimitero molto frequentato, specie poi in età cristiana nel V e VI secolo quando la sepoltura vicino agli apostoli era la più ricercata: nell’area di San Paolo sull’Ostiense sono state ritrovate 1.100 epigrafi sepolcrali e si stimano almeno 6 mila tombe, tra cui quelle del Papa Felice III e di suoi familiari. Costantino nel 313 liberalizzò il culto cattolico e avviò la costruzione di basiliche sui luoghi di
strutta da un incendio nel 1823, la Basilica di San Paolo fu ricostruita a metà ottocento, con molte variazioni anche di orientamento, ma mantenendo nel suo cuore la tomba cui deve l’esistenza. Tra l’altro, tra quelle fiamme l’altare maggiore del 1285 rimase illeso sopra il sarcofago. Ed è uno dei motivi che segna la storia della tomba: essa infatti è rimasta sepolta sotto antiche, preziose e complesse opere d’arte come l’altare, il baldacchino e lo stesso pavimento, motivo per cui non venne mai ricercata. Si dava per scontato che fosse là, ma nessuno pensò di “disturbarla”. Il sepolcro è rimasto nascosto sotto al pavimento fino ai sondaggi archeologici condotti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi. Entrano ora in gioco gli altri elementi della vicenda forse po-
il paginone
celebrato e i cui resti sono stati identificati definitivamente
Superstar
o Baldacci tiere? Ricordiamo intanto che San Paolo morì decapitato (a differenza di Pietro crocifisso a testa in giù), e questo, se ce ne fosse bisogno, facilita il “distacco” della reliquia del capo dal resto del corpo. Se mai sarà possibile aprire la tomba o comunque analizzarne il contenuto, vedremo se all’interno c’è o meno anche un cranio. Va comunque detto che delle due tradizioni quella che appare più seria, lineare, continua è proprio quella della tomba, un dato certo, noto a tutti fin da subito, a prova di contraddizione. Le
1 luglio 2009 • pagina 13
cristiani a Pietro e Paolo. Secondo una tradizione consolidata (ma di recente messa in dubbio) il 29 giugno 258, sotto l’imperatore Valeriano (253260), le salme dei due apostoli furono trasportate nelle Catacombe di San Sebastiano (era infatti uno dei periodi di persecuzione imperiale dei cristiani e si voleva salvaguardare le reliquie dalla furia distruttiva dei persecutori), e solo quasi un secolo dopo papa Silvestro I (314335) fece riportare le reliquie di Paolo nel luogo della prima sepoltura. Dalla data di questa traslazione deriverebbe la festa dei due santi. Anche al 25 gennaio il martirologio geronimiano menziona una Translatio S. Pauli Apostoli.
Tirando quindi un po’ le somme. È possibile che la tomba di San Paolo sia rimasta intatta da duemila anni e contenga davvero i resti del santo, conservati intoccati dal giorno stesso del martirio. La tradizione in proposito è continua e molto attendibile, e non c’è nulla di strano nel fatto che un condannato a
Esistono anche altre sue reliquie. E ci sono tradizioni che forniscono elementi che deviano dalla semplice linearità di un sepolcro rimasto sotto terra per duemila anni e appena riscoperta
La faccia della Basilica di San Paolo, a Roma, che fu costruita sulla tomba che custodisce i resti del santo. Qui accanto, Peter Ustinov nei panni cinematografici di Nerone, l’imperatore che condannò Paolo al martirio
co noti al grande pubblico. Esistono cioè altre reliquie di San Paolo, ed esistono tradizioni che forniscono elementi che deviano dalla semplice linearità di una tomba rimasta sotto terra per duemila anni. Elementi che potrebbero non essere veri, o che al contrario potrebbero modificare il senso di quanto si potrebbe scoprire aprendo il sarcofago. Oppure, per una interessante concomitanza di indizi e situazioni, potrebbero far quadrare i conti e aiutare a ricostruire meglio la storia delle venerate spoglie. Per prima cosa occorre ricordare che esiste un’altra importantissima e venerata reliquia di Paolo di Tarso: la sua testa infatti è conservata insieme a quella di San Pietro in cima all’altissimo baldacchino gotico sopra l’altare, realizzato dal senese Giovanni
di Stefano poco dopo il 1362 per incarico di Urbano V che vi traslò le reliquie nel 1369. Il 23 luglio 1823 il cardinale Antonelli fece una ricognizione di quelle reliquie trovando effettivamente frammenti ossei di mandibole, denti e porzioni di crani. I resti furono deposti nei nuovi reliquari realizzati da Giuseppe Valadier. Anche la memoria di queste teste è abbastanza antica, in quanto sono ricordate fin dall’VIII secolo nel Sancta Sanctorum, la cappella –scrigno in cima alla Scala Santa nell’antico palazzo patriarcale di San Giovanni in Laterano. Sono quindi almeno due i luoghi più illustri e accreditati per la venerazione delle reliquie di San Paolo: la tomba nella basilica ostiense e la testa nella basilica lateranense. Possono essere entrambe tradizioni veri-
teste invece, per la loro maggiore mobilità e la comparsa più tarda, potrebbero certo essere vere, ma potrebbero anche essere frutto di quegli equivoci sulle reliquie cui il grande fervore di certi periodi storici andò incontro.
A questo punto però entra in gioco un ulteriore elemento, che scombussola un po’ il quadro, prima forse di indicare una via per rimetterlo in ordine. Si è detto che la tomba di Paolo ha riposato intoccata sotto terra per due millenni. Non è esattamente così. O almeno ci sono elementi seri per mettere in dubbio l’assertività di questa affermazione. Ci sono dati archeologici e racconti della tradizione. Gli scavi archeologici ci dicono che il sarcofago paolino fu poggiato sul pavimento della basilica ricostruita dai tre imperatori Valentiniano, Teodosio e Onorio, sopra un’enorme massicciata che obliterò la prima basilica costantiniana, situata circa 1,6 metri più in basso, ha raccontato il rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana Vincenzo Fiocchi Nicolai in una relazione. Quindi nel IV secolo la tomba non era più esattamente nella sua posizione originaria, ma quantomeno più in alto. Veniamo ora alla tradizione: nelle Catacombe di San Sebastiano esiste una Memoria degli Apostoli che ricorderebbe il culto prestato qui dai
morte a Roma potesse essere regolarmente sepolto e ricevere onori funebri e venerazione dai suoi seguaci. In questo caso non si esclude che anche la testa del Laterano possa essere autentica, confluita per strade diverse dopo la decapitazione. Ma sono i tessuti contenuti nella tomba come emersi dal nuovissimo sondaggio che hanno attirato la mia attenzione: insieme ai frammenti d’osso, infatti, ci sarebbero grani d’incenso e soprattutto «tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino». Che l’apostolo delle genti possa essere stato sepolto con indosso un abito prezioso non è da escludere, visto il riguardo che gli si prestava e il fatto che comunque non era un pauperista. Ma certo suona un po’ strano nelle comunità dei primi cristiani, mentre era appena stata eseguita la sua condanna a morte e infuriavano le persecuzioni neroniane. Meno strano suonerebbe se i preziosi abiti dal richiamo imperiale (la porpora e l’oro) fossero stati devotamente aggiunti in un periodo successivo, magari in quel quarto secolo costantiniano, epoca della realizzazione della basilica e poi della sua riedificazione. Questo avrebbe potuto essere anche una nuova opportunità per prelevare la reliquia della testa, in un periodo in cui la devozione per tali elementi fisici era maggiore di
quanto accadeva tra i primissimi cristiani. È solo una suggestione, fermo poi restando che le reliquie poco cambiano alla fede.
E a proposito di testa chiudiamo con l’altro sensazionale ritrovamento di quest’anno paolino. Sembra proprio che Saulo di Tarso abbia voluto cogliere questo giubileo per mostrarcisi: durante lavori di restauro nelle catacombe ostiensi di Santa Tecla è stato ritrovato il ritratto più antico di San Paolo, un’effige proprio del IV secolo che si aggiunge ai ritratti già noti ma li arricchisce per antichità, precisione ed espressività: si confermano caratteristici il volto allungato, l’ovale asciutto, la fronte spaziosa con rughe profonde e un’incipiente calvizie, gli occhi grandi e intensi, la barba a punta. In conclusione, ora che lo conosciamo meglio, di Paolo ricordiamo che le sue lettere risultano essere i documenti più antichi del Nuovo Testamento, e in esse è contenuta tra l’altro la formula della consacrazione dell’Eucaristia così come il primo annuncio della Risurrezione. Dei 5.621 versetti del Nuovo Testamento, 2300 sono certamente di Paolo – 11 o 13 lettere. Inoltre negli Atti degli Apostoli si parla a lungo di lui. Col nome ebraico di Saulo nacque a Tarso, in Cilicia (Turchia sudorientale) verso l’8 d.C., da cui l’anno giubilare a lui dedicato. Fervente ebreo, si distinse nella persecuzione dei cristiani partecipando alla lapidazione di Santo Stefano. Sulla via da Gerusalemme a Damasco ebbe la visione di Gesù e si convertì. A sua volta perseguitato (spesso dovette scappare da città che volevano ucciderlo) girò tutto il Mediterraneo per predicare il Vangelo anche ai non ebrei (per questo è detto l’apostolo dei gentili, cioè dei pagani) e per fondare comunità cristiane con cui rimase in contatto tramite le sue lettere. Venne martirizzato a Roma nel 64 o 67 d.C. sotto Nerone. Con i suoi viaggi missionari è diventato una specie di patrono del Mediterraneo. Nato a Tarso, fu molto attivo a Gerusalemme, Damasco, Antiochia, nella Turchia Occidentale (Efeso, Galazia), in Grecia (Atene, Corinto, Salonicco), Cipro, Malta, Sicilia fino a Roma passando per molti altri luoghi. A Roma secondo consolidate tradizioni abitò presso San Paolo alla Regola e Santa Maria in via Lata, frequentò la casa di Aquila e Priscilla ora chiesa di Santa Prisca all’Aventino dove lavorò come tessitore. Fu imprigionato nel Carcere Mamertino, e decapitato sulla via Laurentina presso quella che ora è l’Abbazia delle Tre Fontane, scaturite secondo la leggenda dai tre rimbalzi della sua testa. Fu sepolto lungo la via Ostiense dove sulla sua tomba venne costruita la Basilica di San Paolo.
mondo
pagina 14 • 1 luglio 2009
Energia. Il ministro per il petrolio è nell’occhio del ciclone: il calo del prezzo del carburante ha generato un buco nei bilanci
Un pieno per l’Iraq Dopo 30 anni riaprono agli investimenti esteri i giacimenti iracheni. Fra guerra e terrorismo di Gina Chon er la prima volta da quando, più di tre decenni or sono, l’Iraq prese la decisione di nazionalizzare il proprio settore petrolifero, il governo ha deciso di mettere all’asta i contratti per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi a compagnie estere. Se tutto dovesse andare come predisposto, le compagnie petrolifere straniere avranno l’opportunità di fornire aiuto all’Iraq al fine di ravvivare la produzione in sei sviluppati campi petroliferi che hanno patito le conseguenze di anni di conflitti ed abbandono. Ma il panorama politico alquanto instabile che l’Iraq odierno offre ha complicato i piani. Alcuni tra i legislatori e i funzionari del settore hanno chiesto di rinviare l’asta. La mente dietro a tutto ciò, il ministro per le Risorse Petrolifere Hussain al-Shahristani, ha riferito in Parlamento la scorsa settimana; e in quella sede alcuni tra i legislatori hanno espresso i propri dubbi circa la legalità dei contratti e riguardo a ciò che essi hanno definito come condizioni d’acquisto agevolate per le compagnie straniere. Ma l’asta sembra godere di consensi politici sufficienti a garantirne la prosecuzione nei tempi stabiliti; Shahristani ed altri esponenti governativi hanno affermato di voler proseguire con le trattative. Gli
P
accordi di sfruttamento dei giacimenti petroliferi pianificati da Shahristani rappresentano uno snodo cruciale per l’economia di un paese martoriato dal conflitto. Si stima che l’Iraq, con una quota di 115 miliardi di barili in riserve accertate, possa diventare il maggior produttore mondiale di greggio. Ma l’apporto del know-how straniero è ritenuto fondamentale al fine di accrescere la produzione giornaliera dagli attuali 2,4 milioni di barili a 4 milioni in un arco temporale di 5 anni. Malgrado i rischi dal punto di vista della sicurezza, le compagnie petrolifere occidentali scalpitano per assicurarsi le concessioni. Il sotto-
PLC, l’italiana Eni SpA, la russa Lukoil e China Petroleum & Chemical Corp., o Sinopec.
Si suppone che i sei campi petroliferi in ballo contengano riserve petrolifere pari a più di 43 miliardi di barili. Gli acquirenti stranieri non otterranno in ogni caso il pezzo più pregiato della collezione - le quote di partecipazione nelle riserve ma dovranno corrispondere delle somme per poter accrescere la produzione. Solo 20 degli 80 giacimenti sinora individuati in Iraq sono stati completamente o parzialmente sviluppati, e la maggior parte della produzione petrolifera del Pae-
Si stima che il Paese, con una quota di 115 miliardi di barili in riserve accertate, possa diventare il maggior produttore mondiale di greggio. Ma l’apporto del know-how straniero è fondamentale suolo iracheno è ancora relativamente inesplorato, ed offre alle grandi compagnie una fonte di crescita a portata di mano. In molti vedono l’Iraq odierno come la frontiera principale dello sfruttamento petrolifero sin dalla scoperta nel 2000 dell’imponente giacimento petrolifero di Kashagan, nei fondali del Mar Caspio. Secondo quanto afferma il ministero del petrolio, circa 120 compagnie hanno espresso l’interesse ad assicurarsi le concessioni che verranno messe all’asta tra il 29 ed il 30 giugno. Trentacinque compagnie con le carte in regola per avanzare un’offerta, tra cui spiccano Exxon Mobil Corp, Royal Dutch Shell-
se è il frutto dello sfruttamento di tre giganteschi giacimenti, North e South Rumaila e Kirkuk. Poiché buona parte dell’oro nero è considerato di facile estrazione, gli esperti in ambito petrolifero stimano che il costo dell’esplorazione e dello sviluppo dei giacimenti iracheni possa aggirarsi tra gli 1,50 e i 2,25 dollari al barile, a differenza dei 5 medi dei giacimenti della Malaysia o dei 20 del Canada. «Stiamo parlando di un enorme quantitativo di greggio che scorrerà attraverso il sistema delle compagnie che si aggiudicheranno le licenze di sfruttamento» afferma Samuel Ciszuk, analista di questioni energetiche. «D’altro canto l’Iraq ha un disperato bisogno di acquisire nuove tecnologie, e queste compagnie possono fornirle». Ma Shahristani, deus ex machina del progetto, deve affrontare critiche provenienti da più settori. Il calo del prezzo del petrolio ha generato un buco nei bilanci, e al ministro viene imputata la colpa di non aver incrementato la produzione in misura sufficiente da compensare le perdite. Nel frattempo legislatori e funzionari del settore petrolifero affermano che l’asta garantirà agli acquirenti stranieri un accesso enorme alle risorse del Paese.
Shahristani è stato poi invitato a riferire in Parlamento di presunta corruzione e cattiva gestione del ministero: «Non dovrebbe continuare - afferma Jabber Khalifa al-Jabber, politico locale - facciamo spazio a qualcuno con i requisiti necessari ad assolvere tali compiti… Finora risultati concreti non ne ho visti». Il portavoce del primo ministro Nouri al-Maliki ha espresso la propria fiducia nell’operato del ministro e ha riconfermato che l’asta avrebbe avuto luogo secondo il calendario prestabilito. In un’intervista rilasciata di recente, il 66enne ministro Shahristani sostiene di non aver commesso nulla di illecito, e che i legislatori che si dichiarano critici nei suoi confronti hanno in mente un disegno politico ben preciso.
E ha aggiunto di essere pronto a riferire in Parlamento circa le accuse di corruzione e cattiva amministrazione mosse nei suoi riguardi. «Non sono un animale politico, ed i politici non mi piacciono - afferma l’unico motivo per cui ho accettato e per cui continuerò a svolgere i compiti che mi stati affidati è per proteggere la ricchezza dell’Iraq dalle bramosie di mani poco pulite». In Iraq, gli accordi vengono spesso siglati sorseggiando del buon tè a tarda notte, ma al ministro Shahristani non piace chiacchierare. Nell’ambito di un capitale costruito sul clientelismo, egli ha negato favolosi incarichi ad amici di lunga data. Si è guada-
gnato la reputazione di ferreo difensore delle regole, al punto da emanare farraginosi regolamenti giudicati da altri funzionari del settore petrolifero come un ostacolo allo sviluppo dei giacimenti del paese.
Egli afferma di aver rifiutato anche i doni più insignificanti, come cravatte, a lui elargiti dai dirigenti delle compagnie petrolifere. In questi tre anni come ministro delle risorse petrolifere, Shahristani è emerso come uno dei principali luogotenenti di al Maliki. Dopo che nel 2008 l’Iraq si è liberato dalla spirale di violenza che ne aveva caratterizzato i primi anni di vita democratica, al Maliki, Shahristani e un gruppo di altri ex esuli iracheni hanno dato il via ad un pacchetto di ambiziose riforme in campo economico. Le compagnie petrolifere occidentali furono estromesse dall’Iraq nel 1972, nell’ambito di quell’ondata di nazionalizzazioni che caratterizzò i paesi dell’area mediorientale. Un giorno prima che l’Iraq invadesse il Kuwait nel 1990, la produzione di petrolio raggiunse una quota pari ad almeno tre milioni di barili, per poi diminuire bruscamente a 300mila barili alla vigilia dell’invasione statunitense del 2003. I legislatori iracheni si sono scontrati per anni su un progetto di legge per lo sfruttamento delle riserve petrolifere che definisse un quadro normativo per le compagnie straniere che intendessero intraprendere nuovamen-
mondo era a questo vincolato. Stando a quanto affermano sia Shahristani che altri due scienziati presenti all’incontro, il Rais gli suggerì di concentrarsi sulla scienza e di lasciare a lui la politica. Alcuni giorni più tardi, nel dicembre 1979, i funzionari dei servizi di sicurezza lo condussero nelle strutture del Servizio di Sicurezza Interna dell’Iraq, dove Shahristani afferma di essere stato torturato per tre settimane.
Egli inoltre sostiene che i suoi aguzzini gli offrirono ponti d’oro per tornare sui suoi passi ed avesse acconsentito a lavorare allo sviluppo di un arsenale nucleare. Shahristani declinò però l’offerta e venne rinchiuso in isolamento dove, stando a quanto afferma, rimase per 10 anni. «Ma non ho mai perso la mia forza di volontà, non ho mai smarrito la fede» racconta. Nel 1990 ebbe fine l’isolamento. Un anno più tardi, il bombardamento statunitense su Baghdad nel corso della prima Guerra del Golfo seminò il panico nella prigione. Un altro detenuto rubò delle uniformi di soldati dell’intelligence e pianificò la fuga in auto. Una sera, Shahristani e due altri individui riuscirono ad eludere la sorveglianza delle guardie, infilarsi dentro un magazzino ed indossare le uniformi rubate. Dopo essere te le operazioni di trivellazione. Stanco dell’attesa, nel 2008 Shahristani invitò con atto unilaterale le compagnie petrolifere ad avanzare offerte per assicurarsi le licenze di sfruttamento. Poiché le compagnie internazionali si dichiarano restie ad esplorare campi petroliferi non sviluppati in Iraq in assenza di una legislazione chiara al riguardo, il ministro Shahristani ha cercato di guadagnarsi il sostegno degli operatori stranieri al fine di ottenere il massimo dai campi petroliferi esistenti. «Abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere con le nostre risorse nazionali, ed ora abbiamo bisogno di aiuti dall’estero» afferma.
Shahristani sostiene che i contratti di sfruttamento non necessitano della ratifica parlamentare, sebbene insista sul fatto che questi ottemperino alle condizioni delineate nel progetto di legge per la gestione delle risorse petrolifere, il quaUn operaio al lavoro in uno dei giacimenti attualmente in funzione in Iraq. Nella pagina a fianco il ministro per le riserve petrolifere, Hussain al-Shahristani. Ha rifiutato il ruolo di primo ministro e prevede il ritiro dalla politica
le è ora oggetto di ristesura da parte dell’esecutivo. Alcune delle condizioni, egli afferma, apporterebbero enormi benefici all’Iraq: i vincitori dell’asta dovranno infatti elargire centinaia di milioni di dollari di prestiti anticipati al governo iracheno. Shahristani, cresciuto a Kerbala in una famiglia religiosa di spicco, è per formazione uno scienziato nucleare. Dopo aver studiato a Mosca ed aver trascorso del tempo a Londra, ha conseguito una laurea ed un dottorato di ricerca in chimica nucleare presso l’università di Toronto. Nel 1978 divenne capo consulente della Commissione per l’Energia Atomica dell’Iraq. Saddam Hussein aveva consolidato il proprio potere ed era diventato presidente. Secondo quanto affermano Shahristani ed altri, il dittatore ambiva a possedere armamenti nucleari. In un faccia a faccia con Saddam, Shahristani gli ricordò che l’Iraq aveva siglato un trattato di non proliferazione ed
1 luglio 2009 • pagina 15
si come uno dei principali contendenti per la carica di primo ministro, egli declinò però l’offerta in quanto affermò di non aver ricevuto un mandato popolare, optando infine per la carica di vice presidente del Parlamento iracheno. In quel periodo Mohammed Baqir, un amico di famiglia che aveva aiutato Shahristani ad evadere di prigione, gli chiese aiuto per sistemare vari parenti con incarichi governativi. Shahristani si rifiutò. «Il problema di Shahristani è che è troppo onesto e pulito - afferma Baqir - ma una delle qualità principali di un politico è l’elasticità». Dopo la formazione di un nuovo esecutivo guidato da al Maliki nel 2006, il primo ministro lo nominò Ministro per le Risorse Petrolifere. Il suo ministero, come altre agenzie governative del tempo, venne preso di mira dai membri della milizia, e la corruzione cominciò a dilagare, stando a quanto affermano Shahristani stesso ed altri attuali ed ex funzionari del ministero. Nel corso dei due anni successivi, centinaia di dipendenti ministeriali vennero assassinati o rapiti. Alla fine del 2007, molti tra i migliori tecnici avevano riparato all’estero, e vari partiti politici avevano riempito il ministero di raccomandati, stando sempre alle affermazioni di Shahristani e di altri funzionari.Shahristani
L’asta avrà luogo entro luglio. In sostanza, Baghdad pagherà alle compagnie una tariffa fissa per l’innalzamento della produzione. I contratti durano 20 anni e non prevedono altri benefici rimasti nascosti per molte ore, strisciarono silenziosamente alle spalle di alcuni ufficiali dell’intelligence in visita intenti a giocare a carte e sgattaiolarono fuori dal cancello della prigione. Essi ritrovarono quindi le rispettive famiglie ed attraversarono furtivamente il confine con l’Iran. Negli anni successivi, Shahristani fornì aiuto ai dissidenti ed ai rifugiati iracheni. Nel 1995, lui e la moglie canadese istituirono il Comitato di Aiuto per i Rifugiati Iracheni. Divenne quindi uno dei più ferventi critici del regime di Saddam Hussein e della proliferazione nucleare. In seguito all’entrata a Baghdad delle truppe statunitensi nel 2003, Shahristani fece ritorno in patria. Indicato dalle autorità statuniten-
licenziò 250 membri del personale di sicurezza del ministero sospettati di affiliazione con i membri della milizia, e sostituì i capi dei servizi di sicurezza con suoi uomini di fiducia. Egli fece emergere le prove di attività illegali di fronte all’ispettore capo del ministero, e licenziò o fece trasferire coloro su cui si additava il sospetto di illecito. «In precedenza l’intromissione dei partiti negli affari ministeriali era molto forte, ma lui ha fatto piazza pulita» afferma Abdul Mahdy al-Ameedi, capo dell’ufficio contratti del ministero. L’epurazione ha generato risentimenti.
Alcuni dipendenti affermano di essere stati presi ingiustamente di mira. Altri accusano Shahristani di essere eccessivamente rigido. Egli ha deciso il pugno di ferro contro l’assenteismo e ha introdotto un sistema di accesso scannerizzato mediante tessera magnetica. E ha ridotto i bonus. Ma aumentare la produzione petrolifera si è dimostrato alquanto difficile. Gli insorti sferravano attacchi contro le condotte e le raffinerie. In assenza di un quadro legislativo, le compagnie straniere si mostravano riluttanti ad operare in Iraq. La legge sullo sfruttamento delle risorse petrolifere
languiva in parlamento. Un impaziente governo nella semiautonoma regione kurda del nord decise infine di muoversi senza Baghdad. Nel 2007, i funzionari kurdi siglarono un accordo con la texana Hunt Oil Co. Shahristani criticò aspramente l’accordo, affermando che questo non aveva alcun valore legale. Il governo kurdo lo accusò di lentezza nel prendere decisioni, e spinse sull’acceleratore per la stipula dell’accordo. Un funzionario occidentale a Baghdad che ha avuto a che fare con Shahristani sostiene che lui ed altri consulenti del ministero si trovarono ad un certo punto concordi nell’affermare che il ministro stesse procedendo con eccessiva lentezza.
Le quotazioni del petrolio erano alle stelle, e gli amministratori delle compagnie petrolifere estere erano impazienti di sfruttare i giacimenti iracheni. Il Paese aveva bisogno di un “intrallazzone,” afferma il funzionario. Di recente però Shahristani ha finalmente messo da parte le proprie riserve e permesso al governo kurdo di iniziare l’esportazione di petrolio. Il ministro ha ceduto dopo che i kurdi hanno acconsentito che il governo centrale di Baghdad riceva i pagamenti delle esportazioni. Nell’asta di questo mese, le compagnie occidentali sono in competizione per lo sviluppo di due campi di gas naturale. Tutti questi accordi sono i cosiddetti contratti di assistenza tecnica. In sostanza, l’Iraq pagherà alle compagnie una tariffa per l’innalzamento della produzione. I contratti avranno durata ventennale. I magnati del petrolio avrebbero preferito la formula dell’accordo “production sharing”, che avrebbe garantito alle compagnie una quota dei profitti, e avrebbe consentito a queste di accaparrarsi nuove riserve. Ciononostante esse si rivelano impazienti di farsi strada nel deserto iracheno. Shahristani sostiene che le compagnie che garantiranno i costi inferiori ed i profitti più alti per l’Iraq si aggiudicheranno le concessioni. Se l’asta avrà successo, i vincitori inizieranno i propri lavori in novembre. Il Ministero per le Risorse Petrolifere sta predisponendo una seconda tornata di offerte, per assegnare anche quei campi petroliferi che sono stati esplorati ma che non sono stati ancora completamente sviluppati. Nove delle 38 compagnie che hanno richiesto di poter partecipare sono state scelte come offerenti. I contratti di sfruttamento saranno assegnati l’anno prossimo. Il mandato del ministro Shahristani si concluderà con la formazione di un nuovo governo in seguito alle elezioni previste per l’inizio del 2010. Egli progetta di fare ritorno all’Accademia Nazionale delle Scienze, da lui fondata nel 2003: «Non sono un politico».
quadrante
pagina 16 • 1 luglio 2009
Pronto a rientrare il presidente Zelaya In Honduras scontri in piazza, dalle Nazioni Unite unanime sostegno per il leader deposto di Massimo Ciullo l presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, deposto da un colpo di Stato dell’esercito domenica scorsa, ha annunciato che tornerà domani nel suo Paese, per “riprendere”il suo posto. «Andrò a Tegugicalpa giovedì prossimo, dopo aver presenziato alla riunione di Washington dell’Oas (Organizzazione degli Stati Americani)» ha detto il leader defenestrato. «Io terminerò il mio mandato quadriennale, che voi siate d’accordo o meno» ha ribadito Zelaya, incontrando il leader del Gruppo di Rio, lunedì a Managua. Al presidente destituito ieri è stato concesso di parlare prima della 192esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha manifestato l’unanime “disapprovazione”per il golpe e chiesto «l’immediato ritorno dello stato di diritto e il ripristino delle funzioni del Presidente». Il 56enne leader populista era stato “deportato” da un commando dei militari in Costa Rica, dopo che il Congresso lo aveva sfiduciato a causa della convocazione di un referendum che avrebbe dovuto modificare la Costituzione vigente, per permettergli di presentarsi per un altro mandato. La Corte suprema aveva sentenziato, una settimana fa, che la consultazione popolare era illegale e aveva
I
IL PERSONAGGIO
chiesto, «quale garante della carta fondamentale», un intervento dell’esercito per deporre il presidente. Da parte della comunità internazionale, oltre a Hugo Chavez che continua a gettare benzina sul fuoco minacciando un intervento armato, sono arrivati gli inviti alla distensione del presidente Usa.
Barack Obama ha esortato le parti a comporre il conflitto tramite una risoluzione pacifica della crisi. Ieri, disordini ed incidenti si sono verificati nella capitale, dove si è registrata la prima vittima negli scontri tra militari e sostenitori di Zelaya. «Il presidente Zelaya è stato eletto democraticamente. E non ha ancora completato il suo mandato» ha detto il presidente statunitense dopo aver incontrato il suo omologo colombiano Álvaro Uribe, alla Casa Bianca. «Sarebbe un ter-
sa opinione Roberto Micheletti, portavoce del Congresso, che è stato votato dai deputati come presidente ad interim. In un discorso molto applaudito da quasi tutti i parlamentari, il capo provvisorio dello Stato ha affermato che la sua sostituzione di Zelaya è il «risultato di un processo di transizione assolutamente legale». Micheletti ha ribadito che la deposizione di Zelaya ha salvato l’Honduras dallo chavismo e da una deriva verso la sinistra più radicale, come è già successo in altri paesi latino-americani per la nefasta influenza della “rivoluzione bolivariana” propugnata dal regime venezuelano di Chavez. «Il presidente Zelaya stava portando il Paese verso lo ‘chavismo’, stava seguendo questo modello che non è accettato dagli honduregni», ha detto Micheletti, dopo il suo giuramento. Il presidente “usurpatore” è un membro del Partido Liberal, la stessa formazione di Zelaya. Micheletti, presidente del Congresso, ha guidato la fronda al Presidente della Repubblica, convincendo la maggior parte dei deputati liberali ad opporsi al referendum imposto da Zelaya per assicurasi nuovamente la poltrona presidenziale. Se Zelaya avesse portato a termine i suoi piani «avremmo avuto la mala sorte di precipitare il paese nell’anarchia e avremmo dovuto seguire gli ordini del presidente e non quelli della legge» ha chiarito Micheletti. Il leader liberale ha ribadito che la sua è “una successione costituzionale”alla quale si è pervenuti “ per le intenzioni” di Zelaya “di trascinare il paese in una situazione critica con enorme irresponsabilità”. L’Oas ha però lanciato un chiaro avvertimento a Micheletti: «Nessun governo scaturito da questa interruzione incostituzionale sarà riconosciuto».
Gli Stati americani avvertono: illegittimo il colpo di Stato. Obama si allinea e parla di «terribile precedente all’indietro» ribile precedente se iniziassimo a fare un passo indietro verso l’era in cui abbiamo visto colpi di Stato presentati come transizioni politiche più delle elezioni democratiche. La regione ha fatto enormi progressi negli ultimi 20 anni nel gettare le fondamenta di tradizioni democratiche nell’America Centrale e Latina», ha detto ancora Obama. «Crediamo che il golpe sia illegale e che il presidente Zelaya rimanga il Presidente dell’Honduras, l’unico Presidente eletto democraticamente. Su questo siamo d’accordo con tutti gli Stati della regione, incluso la Colombia e l’Organizzazione degli Stati Americani» ha concluso il presidente Usa. Non è della stes-
Francisco de Narváez. Astro nascente della politica argentina, ha umiliato la coppia presidenziale partendo da una solida base di affari
L’uomo che ha sconfitto i Kirchner di Maurizio Stefanini n suo trisonno, José Manuel Marroquín, fu presidente di Colombia. Ma non è un ricordo particolarmente glorioso: fu infatti colui che perse Panama per una rivolta separatista, e poi cercò di cavarsela con la battuta «non è da tutti insediarsi presidente di un Paese e congedarsi con due». Forse anche per questo Francisco de Narváez, l’astro nascente della politica argentina che ha umiliato i Kirchner, nella prima parte della sua vita ha preferito alla politica gli affari: anch’essi d’altronde ben presenti nei suoi cromosomi. Karel Steuer, il suo nonno materno, aveva aperto a Praga nel 1933 un negozio di giocattoli in breve diventato un piccolo impero commerciale. Ma quelli non erano anni tranquilli in quella zona del mondo, e così la famiglia scappò a Buenos Aires, dove nel 1946 Steuer e il socio Federico Deutsch poterono riparire il negozio praghese: con lo stesso nome di Casa Zia letteralmente tradotto dal ceco allo spagnolo. Di transito per l’Argentina gli Steuer erano però passati per la Colombia, dove pure avevano stabilito una rete di interessi e contatti. E in Colombia la figlia di Karel, Doris, si sposò con Don Juan Salvador De Narváez Vargas: facoltoso coltivatore di caffè discendente appunto da un presidente. E Francisco nacque appunto a Bogotá nel 1953, anche se andò a abitare a Buenos Aires a tre anni. Conservò però la cittadi-
U
Il fenomeno, rieletto per tre mandati, non può però puntare alla Casa Rosada. Infatti non ha il passaporto argentino
nanza colombiana fino al 1983, quando volle prendere il passaporto argentino per poter votare il presidente della transizione alla democrazia, il radicale Raúl Alfonsín. Attivo negli affari di famiglia, a metà degli anni Novanta una lite con i parenti lo porta alla liquidazione, e poco dopo alla separazione dalla prima moglie, con cui aveva avuto tre figli. Ma nel decennio successivo si è formata una fortuna, oggi stimata a 500700 milioni, estesa dal giornale Ámbito Financiero alla América TV, alla radio La Red, ai fondi di investimento nella New Economy D&S, fino al grande centro di esposizioni La Rural. Nel contempo, costruisce anche una nuova famiglia con la modella Agustina Ayllón, da cui ha altri due figli. Nel 2003 decide di entrare in politica appoggiando la candidatura alla presidenza del peronista di destra Carlos Saúl Menem. Ormai però ci ha preso gusto: nel 2005 è eletto deputato in una lista peronista; nel 2007 si candida a governatore per la provincia di Buenos Aires, prendendo come vice il leader emergente del centro-destra Mauricio Macri e arrivando terzo; infine si ricandida a deputato sempre a Buenos Aires e sempre con Macri, ottenendo la straordinaria vittoria contro Kirchner. La sua carriera in ascesa, però, non arriverà mai alla Casa Rosada, che come la Casa Bianca è riservata solo a chi è nato sul territorio nazionale.
quadrante
1 luglio 2009 • pagina 17
Il governo riconosce la crisi e lancia unità speciali
Lo sostiene la stampa israeliana. Al Qaeda minaccia la Francia
Nepal, oltre 20 sequestri di industriali in 7 giorni
Sarkozy a Netanyahu: «Liberati di Lieberman»
KATHMANDU. In Nepal au-
PARIGI. Tempesta diplomatica tra Francia e Israele dopo che si è avuta notizia che il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha chiesto al premier israeliano, Benjamin Netanyahu di sostituire il suo ministro degli Esteri, il falco Avigdor Lieberman. «Se la ricostruzione è corretta si tratta di un’inaccettabile interferenza negli affari interni israeliani», ha fatto sapere l’ufficio di Lieberman.Anche Netanyahu è intervenuto con una nota per riferire di aver ribadito «la piena fiducia» in Lieberman nel corso di un incontro con gli ambasciatori dell’Ue. La ricostruzione dei media israeliani, da Haaretz al Canale 2 della tv, era molti accurata. Nel colloquio di merco-
mentano i rapimenti e le violenze contro gli uomini di affari. Nell’ultima settimana i sequestri sono stati oltre una dozzina. Kush Kumar Joshi, direttore della Camera di commercio del Nepal, afferma che «più dell’80 per cento dei rapimenti nel Paese colpiscono i componenti delle famiglie di uomini d’affari» e invoca «immediate iniziative del governo per garantire piena sicurezza altrimenti saremo costretti a chiudere aziende e fabbriche». Nella sola città di Birgunj, al confine sud del Paese, più di 20 uomini d’affari indiani hanno deciso di tornare in patria per proseguire le loro attività. «Come possiamo curare le nostre imprese - afferma Surendra Malakar, uomo d’affari nepalese - se non abbiamo nemmeno la garanzia di tornare vivi dal lavoro. Ci sparano mentre andiamo in azienda o sulla strada verso casa. Siamo a rischio ovunque e non c’è nessuna certezza».
Il governo cerca di correre ai ripari davanti all’escalation di delitti e crimini. Bhim Rawal, ministro degli Interni, riconosce “la situazione critica” in cui si trova il Paese e aggiunge: «Se non prenderemo per tempo provvedimenti
Niente funerali solenni per le vittime dell’Airbus Soltanto il maltempo fra le cause della tragedia di Nicola Accardo
PARIGI. Una nuova tragedia aerea scuote la Francia e il mondo intero. Non ci saranno funerali solenni a Notre Dame di Parigi e neppure a Notre Dame de la Garde a Marsiglia, ma sono cittadini francesi 66 dei 153 passeggeri (11 erano dello staff di bordo), molti di origine comoriana, che nella notte di lunedì erano sull’Airbus 310, precipitato al largo delle Isole Comore dopo un atterraggio fallito a Sanaa, capitale dello Yemen. Non si conosce invece l’identità dell’unica persona sopravvissuta, secondo alcuni un bambino di 5 anni, o forse una ragazzina di 14 secondo un portavoce dell’unità di crisi dell’aeroporto di Moroni, tratta in salvo in mezzo ai cadaveri galleggianti in mare. Parigi-Marsiglia-Sanaa-Gibuti-Moroni. Questa è la rotta del volo 626 di Yemenia, la compagnia nazionale yemenita, “la meno cara”, fanno notare gli immigrati delle Comore in Francia, che cambia velivolo una volta fatto scalo nello Yemen. Lunedì alle 20 e 45 a Parigi-Charles de Gaulle 40 passeggeri sono saliti su un Airbus A330, come quello sfortunato protagonista della tragedia del volo Rio-Parigi del 1 giugno scorso (228 vittime). Poi lo stesso A330 si è posato a Marsiglia, facendo imbarcare altre 61 persone, provenienti dalla più vasta comunità di immigrati dell’ex colonia francese (circa 70.000 vivono infatti a Marsiglia). Il volo si è fermato a Saana, dove è cominciato l’inferno di quello che l’associazione “Sos viaggio alla Comore”a Marsiglia chiama “aereo-spazzatura”: tutti ammassati, senza posto assegnato e senza cintura, con bagagli che cadono dalle cappelliere, i wc intasati, dentro un velivolo più piccolo, un Airbus A310. Un aereo che non aveva più il permesso di sorvolare la Francia in quanto la Dgac (Direzione generale dell’aviazione civile) lo aveva ispezionato nel 2007 constatando numerosi difetti. L’aereo era stato costruito nel 1990, era utilizzato dalla compagnia yemenita dal 1999 e aveva 51.900 ore di volo. A mezzanotte e 51 di Parigi di ieri ha perso contatto con le torri di sicurezza andandosi a schiantare contro un mare molto agitato.
«Le condizioni metereologiche erano pessime, con venti fortissimi che soffiavano fino a 61 nodi», ha dichiarato Mohammed Abdel Kader, responsabile dell’aviazione civile dello Yemen. «Qualche raffica di vento, ma senza temporali», ha precisato Jean-Marie Carrière, direttore delle previsioni a Meteo France.
«La situazione non è chiara. Si parla di un atterraggio, di un rifornimento e di un altro atterraggio non riuscito», ha detto il segretario francese ai trasporti Dominique Bussereau. Infatti l’aereo, dopo aver fatto scalo a Gibuti, era quasi atterrato a Moroni quando è successo l’inspiegabile: secondo un poliziotto dell’aeroporto di Moroni «era a 50 metri dal suolo della pista, poi ha deviato dalla direzione della pista prendendone un’altra anormale, verso il mare». L’ufficio di Inchieste ed Analisi (BEA) del Governo francese ha mandato a Comori «una squadra di investigatori». La rabbia e la tristezza sono andate in scena all’ aeroporto di Marignane dove la comunità comoriana di Marsiglia è andata in escandescenza per la lunga attesa della lista dei nomi dei passeggeri.“Non siamo dei cani, adesso rompiamo tutto!”, hanno gridato alcuni in collera contro la compagnia Yemenia, prima di essere calmati dalla polizia. Nella sala dei parenti delle vittime c’è stata una lettura collettiva dei nomi, “perché nelle Comore ci conosciamo tutti e ciascuno aveva un familiare su quell’aereo”, ha spiegato Farid Soilihi, portavoce dell’associazione “SOS viaggio alla Comore”, creata l’anno scorso per denunciare le cattive condizioni di volo da Sanaa a Moroni. «Noi siamo francesi, chiediamo alla Francia di fare luce su questo incidente», ha aggiunto il portavoce. Anche Nassardine Haytari, vicesindaco di un arrondissement di Marsiglia e di origine comoriana, ha detto che la tragedia ”era prevedibile”.“Le autorità francesi non ci hanno ascoltato. Il risultato è che oggi ci sono dei morti”, ha detto a nome della sua comunità.
L’aereo era stato costruito nel 1990, era utilizzato dalla compagnia yemenita dal 1999 e aveva 51.900 ore di volo
la situazione ci sfuggirà di mano». Tra i casi più eclatanti di rapimento c’è quello della 17enne Khyati Shrestha, sequestrata il 5 giugno a Kathmandu. Nonostante i genitori avessero pagato il riscatto, 1 milione di rupie (oltre 9 mila euro), la ragazzina è stata violentata, uccisa e parti del suo corpo sono state trovate in diversi luoghi attorno alla capitale. Il fatto ha scatenato violente proteste tra la popolazione. Nonostante il 21 giugno la polizia abbia arrestato i due rapitori le critiche all’immobilismo del governo sulla sicurezza crescono di giorno in giorno insieme al ripetersi di violenze, rapimenti e assassini.
ledì scorso a Parigi, il titolare dell’Eliseo avrebbe invitato Netanyahu a «sbarazzarsi» di Lieberman e a richiamare Tzipi Livni alla guida della diplomazia. E all’osservazione del premier che in privato Lieberman «è un pragmatico», Sarkozy ha rincarato: anche Jean-Marie Le Pen è simpatico in privato. Un’allusione, quella al politico che definì le camere a gas “un dettaglio”, che ha fatto infuriare il premier del Likud il quale ha negato che vi siano le basi per un simile paragone. Lieberman, un ex colono, ha sempre difeso i nuovi insediamenti ebraici criticati dall’Occidente e ha fatto sapere di voler cedere ai palestinesi i villaggi della minoranza araba in cambio del mantenimento delle colonie in Cisgiordania. Un’ultima annotazione: il riserbo sui colloqui europei di Netanyahu appare un optional, visto che era già filtrata alla stampa una presunta dichiarazione del premier italiano Silvio Berlusconi a Netanyahu sul fatto che Obama «è debole sull’Iran». Intanto a Parigi arrivano anche le minacce di al Qaeda, dopo le dichiarazioni di Sarkozy che hanno definito il burqa un ospite non gradito. La rete di Osama bin Laden ha fatto sapere che la Francia «pagherà per quello che ha detto».
cultura
pagina 18 • 1 luglio 2009
Allori & Salotti. Domani sera al Ninfeo di Valle Giulia sarà proclamato il vincitore del trofeo più prestigioso. Una partita chiusa tra colossi editoriali
Una vita da Strega I premi letterari italiani sono in crisi da molti anni. Ma perché tutti cercano, comunque, di vincerli? di Gabriella Mecucci erano una volta i premi letterari. Serate di gran gala, gente elegante, colta, raffinata, riunita in circoli superesclusivi, che segnalava al grande pubblico i romanzi o i saggi più belli, le “penne” più creative e raffinate. Vincevi e diventavi uno scrittore conosciuto: vendevi, vendevi, vendevi. Bene, i premi letterari ci sono ancora, ma sono profondamente cambiati. Alcuni sono stati affossati dagli scandali, altri funzionano ancora ma sono al centro delle polemiche, e poi ci sono quelli azzoppati o che non contano più niente o quasi.
C’
Una mappa della crisi dell’istituzione “premio letterario” non può che cominciare dal più importante: lo Strega. No, non è finito. E il libro che sceglie è destinato ad avere un enorme successo: spesso raddoppia le sue vendite. Le cose vanno così: in genere le case editrici candidano romanzi che hanno già avuto un successo commerciale notevole: per esempio, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, che vinse l’anno scorso, prima dello Strega aveva già macinato migliaia di copie, ma dopo è arrivato a quota un milione. Insomma, un “botto”. Non va sempre così bene, ma non c’è dubbio che la “creatura” di Maria Bellonci aiuta sempre e comunque a piazzare molto bene sul mercato il prodotto. Male che vada, superi di slancio le cinquantamila copie. E allora perché prendersela con un’istituzione tanto benemerita proprio alla vigilia dell’assegnazione del premio 2009 prevista per domani sera? Lo Strega funziona e anche molto bene. Ha anche uno sponsor irreprensibile, il celebre liquore di Benvenuto, che continua a metterci volentieri i soldi ed è un imprenditore del Sud specchiato, di qualità. Eppure la polemica c’è stata e c’è. Ed è dura. Si dà il caso infatti che lo Strega rischia di essere vinto sempre dagli autori dello stesso gruppo editoriale. E cioè una delle case editrici della galassia Mondadori. A scegliere il vincitore sono infatti i famosi
«Amici della Domenica» che ormai sono diventati quattrocento. Sono in genere romanzieri, saggisti, giornalisti, organizzatori culturali e comunque personaggi che gravitano intorno alle case editrici. È ovvio dunque che la più potente di queste, e cioè l’arcipelago Mondadori, controlli il più corposo pacchetto di voti. C’è qualcuno, vedi Feltrinelli, che ha deciso addirittura di non partecipare più. Tanto, contro certi giganti non la spunterebbe mai. I tre grandi dell’editoria, infatti, oltre all’impero di Segrate, sono Rizzoli con annessi e connessi, a partire da Bompiani, e Gems, gruppo
Il Ninfeo di Valle Giulia a Roma dove viene assegnato il premio Strega. A sinistra, le copertine dei cinque libri finalisti di quest’anno. Sotto, Paolo Giordano, vincitore della scorsa edizione. Nella pagina a fianco, Natalia Ginzburg, vincitrice nel 1963. Sotto, l’assegnazione del Campiello a Venezia e il manifesto del Viareggio con Cesare Garboli
Al Ninfeo di Valle Giulia il successo di solito se lo contendono il gruppo Mondadori (Einaudi compresa) e i vari marchi Rizzoli: è un riconoscimento che vale da solo almeno cinquantamila copie in più. A meno di soprese ulteriori editoriale Mauri-Spagnol che controlla parecchie sigle, a partire da Longanesi, Guanda, Garzanti, Salani, Ponte alle Grazie, ecc.
Insomma, se proprio la Mondadori dovesse fallire l’obiettivo – e non succede quasi mai – ci sono solo altri due validi concorrenti. Per il resto, lo Strega, con tutto il suo carico di fama e vendite, te lo scordi. Il voto – per usare una categoria politica – è infatti di “appartenenza”. E il “partito” fa premio anche sulla qualità. Sia chiaro: i giurati sono tutti uomini d’onore e scelgono sempre dei buoni libri. La promozione dei quali non è certo uno scandalo. Resta il fatto che se scrivi un gran libro, pubblicato però da una casa editrice che non rientra nelle tre “galassie” principali, puoi anche entrare in cinquina, ma vincere è impossibile. Stando così le cose – come si suol dire – qualcuno ha deciso di aprire il dibattito. Ed è diverso tempo ormai che si discute su come riformare lo Strega. Le proposte si muovono lungo due possibili vie di cambiamento. Mutare la composizione della giuria e fare in modo che ogni gruppo editoriale non concorra con più di un titolo. Per il momento però il presidente del Premio,Tullio De Mauro, si è li-
mitato a dire soltanto che non verranno accettati i pacchetti di voti raccolti dalle case editrici, i giurati dovranno recarsi a votare di persona. Un po’ pochino. Una misura parziale che potrebbe funzionare solo se accompagnata ad altre. E quindi anche quest’anno ci sarà uno scontro fra giganti.
Infatti in testa alla cinquina di finalisti, nel ruolo di favorito, c’è Tiziano Scarpa con il suo Stabat Mater, edito Einaudi (ossia Mondadori). Ci sono poi Antonio Scurati, Bompiani (gruppo Rcs) che ha presentato però il suo libro a titolo personale con due sponsor d’eccezione, Umberto Eco e Angelo Guglielmi. E poi c’è Andrea Vitali con Almeno il Cappello, Garzanti (Gems). Le polemiche però qualcosa hanno prodotto. Gli «Amici della Domenica» hanno messo al secondo e al terzo posto della cinquina due autori fuori dalle megaconcentrazioni. Al secondo posto c’è Massimo Lugli con L’istinto del lupo, Newton Compton. Ma non è peregrino osservare che l’autore è un importante cronista di nera di un “giornalone” come Repubblica e che la Newton Compton è una media casa editrice che dispone di un discreto numero di “voti di appartenenza” in giuria. Al terzo po-
sto c’è la bravissima Cesarina Vighy con L’ultima estate (Fazi). Quest’ultimo è un editore piccolo ma molto vivace e anche molto polemico nei confronti delle modalità con cui viene assegnato lo Strega. Vedremo chi la spunterà, ma se vincesse Scarpa, per la terza volta in tre anni trionferebbe un libro del gruppo Mondadori. E proprio questa particolarità potrebbe frenare i giurati. Tre vittorie in tre anni sembra un po’ troppo anche a parecchi di loro. Il risultato lo sapremo domani, ma c’è scommettere che la scelta non farà cessare diatribe e polemiche perché il pro-
cultura
1 luglio 2009 • pagina 19
mio che fa vendere: se la spunti, conquisti venti-trentamila copie in più. Il meccanismo è diverso da tutti gli altri. Prima c’è una giuria di esperti che sceglie i finalisti, ma ad assegnare il SuperCampiello è una giuria popolare fatta per lo più di studenti. La cinquina in genere segnala opere di qualità, ma nella fase finale accadono cose discutibili come quando Fruttero, scrittore prestigioso e raffinato, rimase inchiodato al quinto posto mentre un autore semisconosciuto si aggiudicò la posta. Stando così le cose, ci sono parecchi scrittori e più di una casa editrice che preferi-
blema resta quello di una riforma più radicale del modo in cui viene assegnato il premio.
Lo Strega, dunque, naviga fra le polemiche, ma rimane fortissimo. Se la giuria e le modalità di scelta sono discutibili, resta comunque il fatto che il premio non è mai stato nemmeno sfiorato da scandali o scandaletti, che invece hanno affossato una istituzione ricca e importante come il Grinzane Cavour. C’è stata un’età dell’oro in cui il Grinzane era di gran moda: inviti alla stampa e agli
autori in luoghi lussuosi, soggiorni deliziosi, una sacco di soldi a chi vinceva. Ma riassumere così l’istituzione sarebbe ingeneroso: c’erano anche delle idee e soprattutto un tentativo di sprovincializzazione degno di nota. Tanto è vero che sono stati premiati grandissimi autori stranieri, parecchi di loro dopo un po’hanno preso il Nobel. La giuria poi era prestigiosissima. Insomma, un’istituzione culturale di prim’ordine sino a quando, violento e inaspettato, è arrivato il crollo e quindi la successiva scompar-
sa. Il presidente Giuliano Soria, infatti, è stato accusato di serissime malversazioni: dall’uso privato dei fondi del premio sino alle molestie sessuali. Era stato proprio lui, fine linguista, il fondatore del premio e lui ne è diventato – suo malgrado – l’affossatore. Come sempre in questi casi è la magistratura a dover parlare e le sentenze hanno valore definitivo solo quando sono state passate in giudicato anche dalla Cassazione. Fatto sta che sul Grinzane è caduta una pioggia di cenere e lapilli come su Pompei. Ormai riguarda più l’archeologia di questo genere di eventi che il presente. Le malversazioni sono state una pietra tombale. E non è mancato chi ha fatto ricadere le responsabilità indirette del fallimento sulla sinistra e sul suo modo di intendere la cultura. Una forzatura? In larga misura sì.
Chi invece regge e regge bene, pur tra qualche notevole stravaganza è il Campiello. Dopo lo Strega è l’unico altro pre-
Gli altri premi importanti sono il Campiello e il Bagutta. Una volta, nel gruppo c’era anche il Viareggio che però, ormai, da anni ha perso il suo fascino scono non esporsi alla bocciatura. In genere ad essere promossi sono libri “popolari”, quelli che piacciono al grande pubblico e questo spesso accade a scapito della qualità. Niente trame oscure, niente manovre, niente alleanze pelose fra gruppi editoriali, al Campiello la sciocchezza – se viene fatta – è figlia delle modalità di scelta.
C’è poi un premio che è sul viale del tramonto da parecchio tempo, ma che comunque riesce a resistere. Si tratta del Viareggio. Un tempo aveva un valore enorme: basti fare il no-
me del fondatore, Leonida Repaci. E aggiudicarselo significava vendere parecchie copie in più, almeno alcune migliaia. Non era come lo Strega, ma chi vinceva guadagnava in vendite e in credibilità. Il suo ultimo grande animatore era Cesare Garboli, grande critico letterario e uomo di straordinario fascino e bellezza. Uno che aveva legami stretti con la cultura, ma anche con i migliori salotti, quelli che contano davvero: è stato, tanto per fare un esempio, anche uno dei grandi amori di Susanna Agnelli che egli aiutò nella stesura di Vestivamo alla marinara. Con Garboli in piena attività, il Viareggio non aveva nulla da temere, alla sua morte però è iniziata la discesa. E dal declino si è passati alla caduta quando la politica ha tentato a più riprese di metterci le mani. Ora si continua a consumare il rito annuale dell’assegnazione, ma il premio ormai dà poca fama e nulle copie.
Dulcis in fundo c’è il Bagutta, un’istituzione tutta milanese, che vede i suoi animatori riunirsi in un vecchio ristorante del capoluogo lombardo. Il suo funzionamento è abbastanza simile a quello dello Strega, ma del premio romano non ha né la forza né la fama. Se vinci il Bagutta infatti, puoi al massimo sperare in un pezzetto sul “Corriere” e in una notizia sui giornali. Per il resto, pochi si accorgono dell’evento e il mercato non ne viene nemmeno sfiorato. Insomma, la grande crisi dei premi letterari non è iniziata certo quest’anno. Anche dieci o quindici anni fa se ne parlava. Il 2009 però è stato particolarmente pesante fra le polemiche sullo Strega e la catastrofe del Grinzane. Due eventi fra loro molto diversi che pongono però un identico problema. Come rinnovare queste vecchie istituzioni? Sullo sfondo c’è questa grande domanda, mentre davanti a noi ce n’è una più piccola, ma alla quale tutti vorremmo saper rispondere prima della sera del due giugno: chi vincerà lo Strega 2009? Vivremo ancora una notte dei giganti dell’editoria? Oppure spunterà un novello David capace di battere Golia?
cultura
pagina 20 • 1 luglio 2009
Tra gli scaffali. La storia di Bruno e Gilberto nel romanzo-specchio (e postumo) di Carbone “Per il tuo bene”, edito da Mondadori
Rocco e i suoi «gemelli» di Francesco Napoli
Sotto, lo scrittore calabrese Rocco Carbone, scomparso un anno fa a causa di un tragico incidente. In basso, la copertina del suo romanzo postumo “Per il tuo bene”, appena pubblicato dalla Mondadori. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace
e non si fosse certi della sua identità, Rocco Carbone potrebbe essere uno pseudonimo perfetto per quello scrittore e per quell’intellettuale che è stato. Lo mette in evidenza Emanuele Trevi in apertura della sua commossa introduzione all’ultimo romanzo appena edito postumo Per il tuo bene (Mondadori) che rintraccia questa consonanza ricordando come l’amico Rocco «era una di quelle persone destinate ad assomigliare al proprio nome».
S
In “Rocco” si cela la durezza minerale dell’ostinazione nelle idee dello scrittore e dell’uomo, nel tempo sempre più spiccata; in “Carbone” certa ombrosità, anche questa dell’uomo come dello scrittore, che sempre l’ha pervaso perfino nella fisiognomica di un volto cinto da una chioma folta e nera in un carnato tipico della sua gente. Originario di uno sperduto paesino dell’entroterra calabro che oggi ha meno di mille abitanti residenti, Cosoleto, Carbone negli anni Ottanta si smuove dalle arretratezze del sud per approdare nella stimolante capitale che lo vede esemplare studente di Lettere e da subito convinto assertore delle teorie strut-
turaliste come se, lo ricorda sempre Trevi, quel metodo scientifico applicato alla letteratura potesse porre un argine al suo inquieto ennui de vivre, a quel “Caos” che lo accompagnerà nella sua breve esistenza, stroncata un anno fa da un tragico incidente. E se ci si attendeva da lui una brillante carriera di accademico, Carbone ha sorpreso tutti con una scelta etica spiazzante, trovan-
dosi un ruolo alquanto particolare come insegnante nella scuola del carcere femminile di Rebibbia. Lo incuriosiva il rapporto adulto-adulto, non avendo, come lui ha più volte detto, una vocazione pedagogica, e da questo interesse vivo e concreto, trasformato quasi in uno studio analitico, scaturirà la capacità di generare nei suoi romanzi riuscite relazioni tra i protagonisti, pressoché sempre
zione (2002), si compie il salto di qualità anche editoriale che la sua opera precedente, da Agosto (Theoria, 1993) a L’assedio (Feltrinelli, 1998) aveva in qualche misura sofferto e lui con essa. «Si scrive di quello che si conosce» affermava qualche anno fa Rocco Carbone, ma cosa sa lui di Bruno e Gilberto, i protagonisti di Per il tuo bene? Sembra proprio tutto: sono le metà di uno stesso frutto, di quell’uomo odierno dimidiato tra il raggiungimento di un apparente benessere retto sulla posizione sociale (Bruno) pagato con un’estraneità agli affetti più cari, anche quelli famigliari, e un istintivo anelito quasi francescano al bene (Gilberto). È il contrasto sempre vivo tra bene e male a dar fondo alle pagine di questo romanzo, al quale ben s’addice l’aggettivo duale, tanto forte è il pedale spinto da Carbone nel far ruotare tutto attorno a Bruno e Gilberto, a un possibile bianco o nero esposto senza infingimenti retorici e senza prender parte per l’uno o l’altro e, in qualche misura, rispecchiandosi. Povero ma tenace e ostinato il primo, ricco ma debole e incline a un ingenuo senso del bene il secondo. Coetanei, tra i due cresce un’amicizia solida negli anni durante il quale il primo protegge il secondo dai bulletti del paesino dove d’estate si incontrano. So-
Era una di quelle persone destinate ad assomigliare al proprio nome: in “Rocco” si celava la durezza minerale dell’ostinazione; in “Carbone” l’ombrosità che sempre l’ha pervaso adulti. Dalla conoscenza appresa in carcere della condizione delle detenute, trae più di uno spunto il penultimo romanzo, Libera i miei nemici, tormentata analisi psicologica che declina il tema del terrorismo con quello più privato di un articolato rapporto tra un uomo solo e senza amici che insegna volontariamente in un carcere e una donna, terrorista irriducibile, della quale ha saputo a fatica conquistarsi la fiducia. Con Libera i miei nemici, una volta entrato nel novero degli autori della Mondadori con L’appari-
no metà speculari anche nell’esser orfani: infatti c’è un solo padre, quello di Gilberto, un ricco imprenditore, e una sola madre, quella di Bruno, dolce e affettuosa. Si perdono di vista prima di rincontrarsi ormai adulti, a parti invertite per condizione sociale: Bruno benestante e con famiglia, Gilberto spiantato e afflitto da una malattia degenerativa inesorabile.
Avvince questa narrazione allegorica di Carbone eretta per particolari minimi ma sintomatici, dove l’ambientazione dei fatti è tanto vaga quanto ineludibilmente universale; non ci sono macroavvenimenti ma minimi episodi inanellati con un procedere ellittico sapientemente costruito su passato e presente, ben integrati e alternati, e grazie al quale emergono poco alla volta i reali perché della condizione dei due protagonisti. L’autore ha qui conservato quel linguaggio essenziale, scarnificato, che è forse il suo più marcato timbro espressivo, e i dialoghi tra Bruno e Gilberto in realtà appaiono più un monologo interiore di un soggetto lacerato tra opposti modi d’essere. La morte, infine, pervasiva presenza nelle precedenti prove, e penso all’attacco di Il comando, qui striscia lentamente tra le righe, arrivando quasi inattesa, ma “shockante”, nelle ultime pagine, forse perché si muore e basta anche quando la morte lascia i vivi increduli e più soli.
cultura ina Bausch ha cambiato la storia del teatro del Novecento: un privilegio toccato a pochi. Ora che è morta, improvvisamente, a 68 anni dopo una malattia terribile e fulminante, molti si interrogheranno forse sulla sua eredità e probabilmente la paragoneranno ad altri grandi maestri dello spettacolo del secolo passato, da Piscator a Max Reinhardt, da Copeau a Strehler, da Grotowski a Kantor. Giusto. Salvo che Pina Bausch ha fatto qualcosa di più: ha inventato un genere che prima non c’era. Lei lo aveva chiamato Tanztheater, teatrodanza, con una certa modestia, come a singificare che la sua era una semplice contaminazione fra il teatro e la danza. In realtà era proprio un genere autonomo, un modo nuovo e inedito di procurare emozioni che, certo, aveva qualcosa in comune con la danza tradizionale (c’era comunque un rapporto stretto tra movimento e musica) e con il teatro-immagine degli anni Settanta (l’irruzione del colore e della materia in scena), ma il risultato era qualcosa d’altro.
1 luglio 2009 • pagina 21
galia inventò il termine di «regista» dopo aver coniato le varianti «regissore» e «corago»: forse Pina Bausch avrebbe dovuto avere un suo personale Bragaglia a inventare un neologismo in grado di esprimere la sua invenzione.
P
All’inizio degli anni Ottanta arrivò anche a Roma il suo spettacolo più celebre, Café Müller e per noi giovani spettatori appassionati di nuovo teatro fu una rivelazione. Era uno spettacolo in bianco e nero, anzi in grigio e nero, con una sequenza di volti dolorosi e scavati che ricordava da vicino le immagini inquietanti di Tadeuzs Kantor, ma che colpiva per il suo silenzio. I corpi e le facce degli attori-ballerini erano come delle sculture mute, che reagivano più alle loro pulsioni interiori che non alla musica di Henry Purcell che, secondo tradizione ballettistica, avrebbe dovuto guidarle. L’impressione fu quella di un teatro muto, affogato nel dolore. Perché doloroso è stato tutto il teatro di Pina Bausch, anche quel-
Il personaggio. Ritratto di Pina Bausch, la grande artista morta ieri
Quando il teatro fece scena muta di Nicola Fano
Il suo nome resta legato all’invenzione del «Tanztheater», quasi un’eredità naturale della sperimentazione poetica di Beckett lo colorato e vispo, che forse la registra coreografa immaginava felice e spensierato, come nel caso di Viktor o la serie Tanzebend. Anche la sua faccia esprimeva quello stesso dolore
eterno, ancorché venato di dolcezza: qualcuno la ricorderà in un ruolo felicissimo, per esempio, nel film E la nave va di Federico Fellini: e il grande regista disse di averla scelta proprio per questo, perché esprimeva naturalmente ambiguità. Ambiguità era forse la parola chiave del suo teatro. A cominciare dalle definizioni: né solo teatro né solo danza; lei non era né solo regista né solo coreografa (alcuni segnarono il suo
debutto nel segno di Carolyn Carlson, ma l’americana era solo coreografa). Era qualcosa di più. Quando ci fu da inventare un nuovo genere spettacolare (sulla spinta delle avanguardie europee degli anni Dieci/Venti), Anton Giulio Bra-
In alto, un ritratto di Pina Bausch, grande regista e coreografa morta ieri improvvisamente. Sopra e a sinistra, due suoi spettacoli: a sinistra, in particolare, una scena di «Viktor», dedicato a Roma
Che, torno a dire, era molto teatrale. Ripartiamo dal «teatro muto» per capire. L’ultimo testo importante di Samuel Beckett, Catastrophe, è del 1982: annotate la data e confrontatela al 1979 di Café Müller. Ebbene, Catastrophe prevede otto, nove minuti di rappresentazione (ne circola su YouTube un’edizione interpretata da Harold Pinter, non perdetela perché è splendida), poche parole e un attore protagonista muto. Beckett lì arrivò a raschiare il fondo della comunicazione verbale, dopo aver tentato la strada della pantomima a tutto tondo (Atto senza parole I e II). La strada della rappresentazione di un’umanità prosciugata non poteva arrivare altro che al silenzio. Ebbene (torniamo alle date) non sto dicendo che Pina Bausch abbia anticipato l’ultima stagione di Beckett ma che del teatro del grande irlandese rappresenti la naturale evoluzione. Teatrale, appunto. E muta. Ma con un vestito tutto politico. Da sempre Pina Bausch aveva la sua compagnia a Wuppertal, anche se con il suo Tanztheater aveva girato il mondo, dal Metropolitan di New York alla Scala di MIlano (per il quale avrebbe dovuto creare un nuovo spettacolo, all’inizio del prossimo anno). Ebbene le sue radici “operaie” nella piccola cittadina tedesca erano rimaste intatte e lei ripeteva sempre che non si rivolgeva a un pubblico “colto”quando dava corpo alle sue creazioni ma al pubblico semplice: se avete visto almeno un suo spettacolo sapete che è così, che il bello dei suoi spettacoli è che avevano un livello primario di comprensione emotiva assolutamente “semplice” (nel senso migliore del termine). Sabato prossimo, al festival di Spoleto debutterà in Italia il suo spettacolo che ormai dovremo ricordare come l’ultimo: Bamboo blues. Sarà l’occasione migliore per renderle omaggio, per consegnarla ancora una volta alla passione dei suoi interpreti e dei suoi spettatori. E per capire - come si diceva all’inizio - che la sua è stata non una variante sul genere teatrale, ma una vera e propria invenzione. Come dimostra il fatto che non lascia eredi, non una scuola, ma solo uno stuolo di imitatori. Da vent’anni il mondo è pieno di «teatrodanza», ma è solo una moda sterile, perché nessuno ha saputo dare allo spettacolo l’ambiguità muta che sapeva creare Pina Baush.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”New York Times” del 30/06/2009
La rivoluzione verde di Obama di Leslie Kaufman rimi passi verso un’economia verde. Il signor Edward Really, trentacinquenne di Portland, era dai tempi del college che guardava la televisione dallo stesso apparecchio. Un vecchio Mitsubishi completamente superato da un punto di vista tecnologico. Alla base di questo istinto “conservativo” di Edward c’era il concetto di responsabilità ecologica. Buttare un televisore, avrebbe provocato dei danni ambientali, anche perché non avrebbe saputo come smaltirlo in maniera adeguata. E nel dubbio, il signor Really aveva continuato a guardare partite di football, i telegiornali e gli show da quel pezzo da museo.
P
«Si sa che se lo butti in una discarica il rischio che le sostanze che lo compongono possano contaminare le falde è alto. È inquinamento chimico». Quello che Edward non sapeva è che dal 12 giugno, in tutto il Paese, c’è stata la conversione al sistema digitale. Ragion per cui, oggi, può approfittare di una serie di agevolazioni per l’acquisto di un nuovo apparecchio, con la garanzia che il suo vecchio verrà riciclato. Infatti lo ha consegnato in un sito di raccolta, vicino alla propria abitazione. Subito si è sentito «in pace con se stesso». Nello stesso giorno altre settecento persone, residenti a Portland nel Maine, hanno fatto lo stesso. Dal 2004 128 Stati più la citta di New York hanno emanato leggi che rendono responsabili i produttori per il riciclo di televisori e di tutti i prodotti dell’elettronica di base. Entro la fine di quest’anno, normative simili verranno introdotte in altri 13 Stati. Leggi che servono ad arginare la dispersione di un torrente di sostanze tossiche legate ai prodotti dell’elettronica come tv, stampanti, monitor, fax e compu-
ter. Nelle discariche tutta questa massa di oggetti creerebbe un percolato pericoloso per le falde d’acqua. Insomma, un pericolo per la salute pubblica. L’Enviromental protection agency ha calcolato che in tutto il Paese ci siano circa 99 milioni di televisori parcheggiati in garage, cantine e sgabuzzini. La risposta dei cittadini alle agevolazioni per il riciclaggio – dove introdotte – è stata enorme. Come è successo a Babs Smiths di Seattle che ha portato alla rottamazione una collezione di vecchi pc. La signora Smith ha caricato la sua Subaro con i residui di tre computer. Per anni avevano languito nella cantina di casa, per essere cannibalizzati dai figli che cercavano pezzi per assemblare un loro pc fatto in casa. Da gennaio nello Stato di Washington, privati ed imprese sono stati autorizzati a depositare il loro “ciarpame” elettronico in uno dei 200 punti di raccolta attrezzati. La risposta, tradotta in peso, è stata una montagna di 5 milioni di chilogrammi. Se la tendenza dovesse continuare, il dato statistico sarebbe di circa due chili e mezzo di immondizia elettronica per ogni uomo, donna e bambino dello Stato. L’assalto ai punti di raccolta è stato così massiccio che le autorità hanno lanciato un appello per rallentare le consegne fino a primavera. I punti erano costretti a svuotarsi diverse volte al giorno per riuscire a far fronte al materiale che veniva consegnato continuamente. I dati delle associazioni no profit del settore sono chiare: il trend resterà alto, quindi un comportamento ecologicamente responsabile è nel
dna dei consumatori. È il parere un po’ di tutti gli esperti. Ora i produttori dovranno riutilizzare tutte le parti utili del vecchio per assemblare il nuovo. Tutto viene smontato e recuperati i metalli preziosi e il vetro. La plastica che non può essere riciclata viene spedita all’estero per lo smaltimento. Le leggi variano da Stato a Stato, ma obbligano i produttori a riciclare di tutto, anche stampanti e fax. Alcune più restrittive come quelle nella Grande Mela proibiscono di buttare questo genere di materiale nei cassonetti.
I produttori si lamentano perché con il riciclaggio non coprono ancora le spese. Il trattamento di questi rifiuti costa dagli 80 centesimi al dollaro e venti per chilogrammo. Qualche problema sta nascendo per le materie plastiche spesso irrorate di sostanze chimiche anti-fiamma. Il loro smaltimento nei Paesi in via di sviluppo ha già sollevato alcuni problemi di ordine etico.
L’IMMAGINE
Il capitalismo moderno nasce nell’inganno della rottamazione Guardavo una scena di per sé normale, una famiglia immobilizzata in un auto attonita di fronte alla rottura del motore, mentre un carroattrezzi la trasportava insieme all’auto. Riflettevo sulle difficoltà della vita, sulla qualità del domani e sul fatto che con tutti questi chiari di luna dobbiamo affrontare anche un imprevisto meccanico che ci costerà svariate centinaia di euro solo per il trasporto a casa, quelle centinaia di euro che molti, che non possono permettersi un auto efficiente, si erano conservati per la villeggiatura. Poi ho letto dell’enciclica del Papa contro il capitalismo, che dovrebbe attaccare non lo sviluppo della tecnologia ma l’uso delle forme spregiudicate con il quale lo sfruttamento veloce dei beni di consumo, impone al sociale delle condizioni di vita a volte impossibili. Ho capito che oggi aggiustare una cosa è sconsigliato, perché il capitalismo moderno impone sempre il modo migliore per rottamare ciò che non va, considerato che un buon artigiano, un buon meccanico può riparare tutto ma con una parcella improponibile.
Dimenticatevi jeans e maglietta. Per visitare il Chelsea Flower Show, la fiera del giardinaggio che si tiene a Londra, è meglio optare per un abbigliamento “a tema”. Come questo cappellino che ben si abbina alle rarissime piante esotiche in mostra. Anche se il vero protagonista dell’ultima edizione è stato l’abbigliamento intimo
Daniele Consoli
E MICHAEL SE NE ANDÒ Michael Jackson, la stella del soul, è stato stroncato dallo stress e da una vita che molti hanno definito “sconsiderata”, ma che in effetti ha seguito le orme tipiche di tutti i grandi del rock, che per andare avanti hanno dovuto fondere stupefacenti, trovate eclettiche e l’inseparabile vanità. Anche la sua unione con la Presley fu all’insegna del manierismo spinto all’eccesso, di chi ha amato soprattutto la musica. Stava per preparare un tour europeo che ancora una volta doveva magnificare la sua personalità ammaccata dalle recenti vicende, agli occhi di milioni e milioni di fan, che avevano già fatto la ressa per assicurarsi un biglietto. Molti lo ricordano per il successo “thriller”che esprimeva l’ultima fa-
se del cantante, quella della bestia che vuole venire fuori a tutti i costi per raccontare le storture del mondo; altri come me, lo ricorderanno invece per una vecchia canzone degli anni ’70, “Rock whith you”, che esprimeva appieno la comunanza di due cuori, amplificata nella musica vissuta insieme. La primula d’oro dei Jackson five, la sua famiglia musicale, vagherà comunque nei destini musicali, di chi ascolta e di chi produce, tra i mostri pubblicitari pronti a ricavare soldi anche da un’icona assente, e tanti giovani che ricorderanno il suo fisico snodarsi sul palco, mandando in visibilio le miriade di anime represse, desiderose di esprimersi. Le sue beghe giudiziarie, non interessano, e ciò dovrebbe essere di esempio per molti, perché
Tenuta da giardino
almeno nel suo mestiere, la musica copre ogni sospetto, e forma un corpo per niente virtuale che continua immortale, ad esprimere sensazioni.
Armando Trillini
IL MEDIOEVO DI FRANCESCHINI Franceschini non solo ha le idee chiare per il presente, ma predice anche il futuro, vista l’affermazione “quando questo governo sarà un triste ricordo”: cosa può costruire uno che parla così? Mi viene voglia di richiamare quella tra-
dizione moderata anche nella sinistra che non si è mai espressa in modo così spoetizzante e distruttivo, anche perché la vera tristezza almeno per quanto mi riguarda è vedere che l’Italia politica è fatta, adesso che il governo è saldo, solo da conciliatori e untori.
TREMONTI TRIS
Bruno Russo
Il Tremonti tris, il pacchetto di provvedimenti a sostegno dell’impresa, commentato con toni incoraggianti dalla Signora Marcegaglia, è l’ulteriore spinta che il go-
verno vuole imprimere alla crescita del Paese, sopperendo alle mancanze di coloro, che dovevano collaborare e che invece sono ancora ai nastri di partenza della gara, con chiaro riferimento alle Banche naturalmente. Piace soprattutto la possibilità, per le aziende in pericolo, di usufruire di bonus, in cambio del mantenimento sacrosanto di quei posti di lavoro oggi a rischio, che per molti , rappresentano l’unico sostegno familiare e personale.
Rosa Norbu
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sei colta, d’animo gentilissimo, di modi cortesi… Hai mai contemplata una farfalla svolazzante intorno a un lume? L’hai mai vsta bruciarsi le ali? A me è accaduto su per giù lo stesso: io t’ho voluto bene, ed ora il bene è cresciuto, cresce e crescerà, ne sono sicuro. Tu non sei una donna come tante altre, te lo ripeto: sei colta, d’animo gentilissimo, di modi cortesi, sei bella... Mi vuoi bene? Dimmelo: mi vuoi bene? Io ho bisogno di te, di una donna come te: ci sono certe delicatezze, certe sfumature di sentimento che un amico non può comprendere interamente: tu le comprendesti, sei donna, Vedi, per esempio, quando io sarò lontano, avrò mille volte un bisogno prepotente di piangere, mi sentirò mille volte una dolcezza, una mollezza insolita nel cuore. In quei momenti ti scriverei; ricostruirei la tua immagine; parlerei con te. Mi sarebbe di conforto, lo sento. Tu saresti la mia Willie, la mia ombra dorata; t’inseguirei nel verso, a te darei i suoni più voluttuosi, le immagini più rosee, più opaline. Linda, tu ti chiami Linda; quel Teodo avanti è pesante, non è vero? Mi vuoi bene? Dimmelo: mi vuoi bene? Mi vuoi bene come a un fratello? No, come a un fratello no! Il nostro amore deve essere diverso dagli altri. Come? Lo sento, ma questa penna maledetta rilutta ad esprimerlo. Gabriele D’Annunzio a Teodolinda Pomarici
ACCADDE OGGI
LA SCUOLA NON SI FERMA La manifestazione nazionale dei precari della scuola del 15 luglio sta ricevendo ogni giorno sempre più adesioni. Come organizzatori siamo soddisfatti che si colga finalmente l'importanza di far sentire la voce di chi nella scuola statale lavora e investe le proprie energie, schierandosi con chiarezza contro i progetti di dismissione, privatizzazione e aziendalizzazione voluti dalla ministra Gelmini e dalla maggioranza che sostiene questo governo. Crediamo fermamente che la lotta per la difesa della scuola pubblica statale, contro i tagli e il progetto di legge Aprea debba avere un carattere unitario e inclusivo, ma questo non si traduce in una rinuncia rispetto ai contenuti e alle parole d’ordine con cui è stata indetta la manifestazione. Intendiamo, quindi, richiamare l’attenzione sui punti della piattaforma su cui i comitati autorganizzati dei precari hanno convocato la manifestazione. 1. Chiediamo il ritiro di tutti i tagli (circa 8 miliardi di euro) disposti con la legge 133/2008. La scuola pubblica statale italiana è stata vittima di un pesante ridimensionamento negli ultimi 15 anni a vantaggio delle scuole private e confessionali. Riteniamo che sia necessaria una inversione di tendenza nelle politiche di finanziamento della scuola, e in questo quadro non accettiamo mediazioni al ribasso. Nell’immediato risulta urgente il ripristino del “modulo” e delle compresenze nella scuola primaria; il riconoscimento del pieno diritto all’integrazione per i ragazzi diversamente abili, senza nessuna riduzione alle ore di sostegno; il rispetto della normativa sulla
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
1 luglio 1963 Le poste statunitensi introducono il codice di avviamento postale (zip code) 1968 Il trattato di non-proliferazione nucleare vene siglato a Ginevra da circa sessanta nazioni 1972 Andreas Baader, JanCarl Raspe e Holger Meins della Rote Armee Fraktion, vengono catturati a Francoforte dopo una sparatoria con la polizia 1980O Canada diventa ufficialmente l’inno nazionale canadese 1987 Entra in vigore l’Atto unico europeo 1988 Bologna: ultimo concerto pubblico del Quartetto Cetra 1991 Viene disciolto ufficialmente il Patto di Varsavia 1997 Il Regno Unito cede la sovranità su Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese 2000 Joris Vercammen è consacrato arcivescovo vetero-cattolico di Utrecht. 2002 Il volo 2937 della compagnia Bashkirian Airlines si scontra con un Boeing 757 cargo Dhl sui cieli di Überlingen, Germania del sud, uccidendo 71 persone
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
sicurezza; un’inversione di marcia rispetto all’aumento degli alunni per classe e alla diminuzione del tempo scuola. 2. Chiediamo l'assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari della scuola sui posti vacanti e disponibili in organico di fatto e di diritto. Non basta richiamarsi al programma – mai attuato – del governo Prodi di assunzione di 150 mila insegnanti e 30.000 Ata in tre anni, che tra l’altro avrebbero coperto poco più dei pensionamenti. Quello che chiediamo è che tutti i precari che lavorano da anni su posti vacanti, con contratti fino al 30 giugno o al 31 agosto, abbiano un contratto a tempo indeterminato. 3. Chiediamo il ritiro del disegno di legge Aprea. Non accetteremo nessuna mediazione su un progetto che comporta la fine della libertà d’insegnamento, garantita dalla Costituzione, in funzione della chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici; la totale aziendalizzazione dell’istruzione, attraverso la trasformazione delle scuole in fondazioni; la gerarchizzazione della classe docente, con l’introduzione di distinte figure professionali, la cui carriera sarebbe costantemente sottoposta alla ricattabilità di dirigenti e finanziatori privati. Su questi tre punti chiari chiamiamo alla mobilitazione tutte e tutti i precari della scuola, i cittadini e le organizzazioni della società civile che vorranno essere con noi davanti al Parlamento il 15 luglio prossimo, e alle iniziative proposte per l'autunno dall'assemblea nazionale dei precari della scuola. Il movimento non si ferma, la Gelmini non passerà!
COSTRUIRE BUONA POLITICA Si può immaginare di fare politica in mille modi, sotto qualsiasi bandiera e con una o mille facce, ma non si può, né si deve mai e poi mai smettere di costruire buona politica. A tutti i livelli di governo, sia ben chiaro. È parimenti importante come la qualità della politica anche ai livelli più periferici, prepari le classi dirigenti del futuro e il futuro rapporto tra cittadino, utente, elettore e i dirigenti o Consiglieri Comunali, Provinciali di oggi. Si sviluppano cosi di pari passo le reciproche aspettative,ed insieme il ruolo, il costume che, la politica in quel contesto assume, rappresenta dentro e fuori dalle istituzioni. Lo stile insomma di chi rappresenta e di chi è rappresentato. La buona politica non è di destra né di sinistra e per definizione guarda e lavora per il bene comune, per l’interesse generale, per la legittimità e le aspirazioni di chi la cerca, la pratica e tenta così di attuarla. La buona politica dispensa dalle inutili spiegazioni, sono i fatti a parlare, accorcia le distanze conferendo autorità ed autorevolezza al politico di turno. La buona politica però non nasce spontaneamente nei campi, va generata e rigenerata. Va alimentata e promossa dai veri leader, creando e facendo con favore crescere classi dirigenti, scuole e momenti di formazione politica e sociale. In fondo è stato così per molti anni, fino a quando “l’apparire” della mai nata seconda Repubblica ha distrutto “l’essere” della prima, consegnando alla storia del nostro Paese uomini e donne (quasi tutti noi) impegnati in politica non per la “vera” politica. Non per il bene comune, ma per il gossip mediatico e salottiero, per lo slogan da luogo comune, per il gusto di apparire. Insomma la politica sostituisce il “tresette” al bar da dopo lavoro e i politici di oggi si attrezzano per fornire argomenti e motivazioni valide all’esercizio del gioco ai propri giocatori. La restante parte è rissa, contrapposizione di interessi, gestione del potere per il potere, insomma guerre infinite tra bande “politicamente armate” che occupano la fantasia e il tempo di chi dovrebbe invece utilizzarlo per produrre idee e progetti per il bene comune o almeno per il bene della politica. In ordine cronologico Sicilia docet! Allora fa bene oggi l’Unione di Centro a stare lontana dal modello di gestione “Mpa-Sicilia”, ad insistere sulla buona politica, sui valori, la famiglia, i problemi del Paese e della gente comune che vive il Paese. La politica, signori, è altra cosa e presto tornerà. Immagino come il fiume che torna nel suo alveo dopo lo straripamento, lascerà fuori quello che naturalmente non gli appartiene. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Il Comitato Promotore
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Marco Staderini Amministratore delegato: Angelo Maria Sanza Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Emilio Lagrotta, Gennaro Moccia, Roberto Sergio Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30