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Nella matassa della vita corre il filo rosso del delitto. Il nostro compito consiste nel dipanarlo, isolarlo, esporne ogni pollice
di e h c a n cro
9 771827 881004
Sir Arthur Conan Doyle di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 2 LUGLIO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Italia è ormai l’unica a rispettare Maastricht
IN DIFESA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Ministro Tremonti, l’eccesso di virtù somiglia al vizio
Un’iniziativa di “Zapping” e di “liberal” mentre in Iran impiccano i dissidenti
Fermiamo gli assassini
di Carlo Lottieri ll’indomani della crisi finanziaria che ha investito il mondo, molte cose sono cambiate all’interno dell’economia europea. Un universo che si pensava stabile, e che ritenevamo destinato a durare com’è per decenni e decenni, da un momento all’altro ha adottato regole completamente differenti: soprattutto su questioni decisive come la spesa pubblica e il deficit di bilancio. Alcuni dei pilastri fondamentali della costruzione economica dell’Europa, nel corso degli ultimi due decenni, erano tradizionalmente riconosciuti nelle regole economiche e monetarie di Maastricht, che ponevano limiti molto stretti alla possibilità di sforare il bilancio e di aggravare il debito. Ai Paesi virtuosi era chiesto di non peggiorare, mentre alle economie con conti dissestati – come nel caso dell’Italia – veniva preteso di incamminarsi, e con un qualche decisione, lungo la strada del risanamento. Per anni, non tutto è stato gestito con rigore, ma le regole restavano lì: ben chiare e sostanzialmente accettate. La crisi ha però fatto saltare il banco e varie economie del continente, a partire dalla Germania, hanno iniziato a dirigersi verso deficit di una certa consistenza.
A
Da lunedì un drappo verde in ogni finestra d’Italia. Per non lasciare da soli i ragazzi di Teheran alle alle pagine pagine 44 ee55
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Gli obiettivi di Italia futura, think tank di Montezemolo
Un nuovo laboratorio per il “partito delle riforme” di Riccardo Paradisi
Il ministro spiega alla Camera le assurde cause della strage. 17 le vittime
o deciso di aiutare un gruppo di economisti e ricercatori in un “think tank” un po’ all’americana. Fuori dall’ottica e dalle logiche dei partiti della politica, che è sempre così invadente». Così parlava, con stile minimal, Luca Cordero di Montezemolo in un’intervista di un mese fa. Oggi quel think tank, Italia futura, vede la luce sul web (www.italiafutura.it) presentandosi come pensatoio che dovrebbe «cercare di studiare dove vogliamo essere tra cinque anni con obiettivi che non sono né di destra né di sinistra». Obiettivi a cui guarda con molto interesse quell’opinione pubblica che ritiene arrivato al capolinea un bipolarismo incapace di riformare il sistema politico ed economico italiano. «Luogo di ideazione civile, politica ed economica, libero dagli ideologismi, strumento di mobilitazione dell’opinione pubblica» Italia futura dovrebbe dunque essere soprattutto uno spazio dentro il quale immaginare una piattaforma programmatica per “il partito delle riforme”. Una corrente che percorre trasversalmente la politica italiana e che tenta di darsi la mano senza ancor riuscirci dalle due sponde del bipolarismo italiano.
Sono morti per la ruggine
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Matteoli: «La cisterna esplosa aveva un asse rovinato» di Alessandro D’Amato
ROMA. «Un asse del carro cisterna da cui è fuoriuscito il Gpl che ha provocato l’esplosione a Viareggio si è spezzato e la superficie di rottura presenta un aspetto liscio con tracce di ruggine». Queste le parole del ministro dei Trasporti, Altero Matteoli, pronunciate alla Camera durante un’informativa sull’incidente di Viareggio, mentre il numero totale delle vittime sale a diciassette (i feriti sono 25, di cui dieci in gravi condizioni). Il mini-
L’ex presidente di Fs Cargo
stro ha spiegato che sono stati condotti i primi accertamenti su una “sala montata” (vale a dire il complesso composto dall’asse e delle ruote) del primo carro, quello che si è ribaltato. L’asse si è di fatto spezzato nella parte che sporge dalla ruota - detta “fusello”- che è coperta dalla boccola, la quale consente all’asse stesso e alle ruote di girare.
«Un Paese che investe solo sull’asfalto»
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di Francesco Pacifico
ROMA. «C’è aria di smobilitazione. Sarà per questo che alcuni carri sono così obsoleti». Giuseppe Smeriglio, ex direttore generale della divisione Cargo di Fs ed esperto di logistica, denuncia i ritardi e i pochi investimenti per l’intermodalità. «Un’occasione persa».
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I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
129 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 2 luglio 2009
la strage di viareggio
Disastri. Il ripetersi di incidenti ferroviari mostra che occorre un progetto generale per le merci e le infrastrutture
Un Paese di gomma
«In Italia si investe solo nel trasporto sulle strade: questi sono i risultati»: parla Giuseppe Smeriglio, ex-direttore di Fs Cargo di Francesco Pacifico Roma. «Quando c’ero io i controlli si facevano. E credo che si facciano ancora». Giuseppe Smeriglio ha guidato la divisione Cargo di Ferrovie dal 2004 al 2006.Veniva dal mondo della logistica, sperava di creare un sistema integrato con Ferrovie, ma poi è dovuto tornare al suo vecchio amore: sta guidando la nascita dell’Interporto romano. Anche qui con non pochi travagli. «Ci mancano soltanto i binari perché per le Ferrovie la nostra non sembra un’opera prioritaria. In Italia nessuno crede al trasporto merci» Presidente Smeriglio, pare che l’incidente di Viareggio sia colpa di una asse arrugginito. Quel carro, come tutti, l’ho visto soltanto in televisione. Aspetterei l’esito delle indagini. Da quanto ne so, sono moti anni che in Italia circolano sia carri pubblici sia privati ma i fornitori e manutentori sono spesso simili. Se davvero il mezzo era arrugginito, perché nessuno l’ha fermato? È vero che il materiale rotabile è molto obsoleto? Quando ero ancora in Ferrovie ricordo gli sforzi per sostituire locomotive vecchie anche di 50 anni. Sui carri che dire se non che se girano mezzi così poco efficienti questo è dovuto all’aria di smobilittazione che si sente in giro. Nessuno crede più al traffico merci, c’è più attenzione per l’alta velocità. È vero che il grosso dei controlli si basa su autocertificazioni che si scambiano le compagnie? Le autocertificazioni non mancano ma gli addetti delle Ferrovie, per mia esperienza, sono gente responsabile. Se c’è stata una mancanza penso potrebbe anche essere collegabile alla riduzione di personale. Lo dicono anche i duri e puri dell’Orsa. Chiariamoci: io non vedo problemi di sicurezza. Noto soltanto che i continui tagli, quando servirebbero nuovi e innovativi servizi, fanno perdere competitività a Ferrovie su scala europea. Ma su questo ha ragione Moretti: se le Regioni vogliono più treni per i pendolari, li paghino. Quindi? Gli indirizzi in questo
35 treni a rischio al giorno
Tutte le bombe che corrono sulle rotaie di Francesco Lo Dico
In queste pagine, le immagini della tragedia alla stazione di Viareggio. A sinistra, Giuseppe Smeriglio
La ferrocisterna della Gatx che è esplosa lunedì a Viareggio, è solo una di quelle che ormai sono state ribattezzate “bombe su rotaia”. Secondo i dati di Ferrovie, su settecento treni merci che attraversano quotidianamente lo Stivale, trentacinque trasportano sostanze pericolose. La maggior parte di questi, partono dai depositi di Marsiglia, dalle raffinerie di Trecate, da Sannazzaro de’ Burgondi o da Livorno, per concludere i loro tragitti nel Mezzogiorno e nei Paesi dell’Est. Dieci o dodici di questi, nella stagione invernale, trasportano il Gpl, arma letale che ha fatto tredici vittime e trentasei feriti nell’ultimo tragico incidente avvenuto in Versilia. Ma la lista di trasporti a rischio non finisce qui, perché ogni settimana ci sono convogli che portano a bordo materiali delicati. Soprattutto acido solforico (due treni al giorno). E poi ancora carri che ospitano propilene (uno al giorno esclusi weekend), zolfo liquido, benzene, ammoniaca, acido fluoridrico, cloro, toluolo e anche tritolo.Tutti materiali ad altissimo rischio, su cui vige ufficialmente una rigorosa prassi di controlli e verifiche. Una prassi che da tempo era oggetto delle attenzioni dell’Ansf, Agenzia nazionale della sicurezza ferroviaria. Studi delle università di Roma e Bologna computano che il rischio di un incidente legato a merci pericolose sia di uno per ogni cento milioni di anni in ogni chilometro percorso. Ma la tragedia di Viareggio dimostra che per ciascuna di queste trenta “bombe su rotaia” che viaggiano ogni giorno in Italia, il chilometro maledetto è sempre in agguato.
senso li deve dare la politica. Il fortissimo giro di vite di questi anni ha portato vantaggi e svantaggi. Servono regole più serie sul trasporto merci? Credo che le norme ci siano. È chiaro che i controlli vanno fatti dai proprietari dei mezzi e delle infrastrutture, ma se un treno polacco viaggia in Italia, la famosa ispezione del martello va fatta lo stesso. Perché l’Italia preferisce il trasporto su gomma? Chiaramente l’aspetto costi è importante, visto che differenza dei grandi conglomerati industriali di Francia e Germania, il nostro territorio è costellato di piccoli centri produttivi. Di conseguenza il treno resta competitivo soltanto sui 400500 kilometri di distanza, tra Nord e Sud del Paese. Quando si arriva in Sicilia, prima c’è il problema del traghetto, subito dopo quello dei binari... All’estero si risparmia? Da noi l’impatto della logistica sul costo finale è di cinque punti percentuali in più. Quando ero alla guida della Cargo, ricordo bene le promesse del governo e gli obiettivi di Confindustria: l’intermodalità doveva diventare una priorità per lo sviluppo del Paese. Firmammo anche un patto per la logistica. Oggi non c’è neppure una delega ad hoc tra i sottosegretari del ministero. Con l’era Cimoli la Cargo è diventata un po’ la bad company del gruppo. Non ho lavorato con Cimoli, mi chiamò Elio Catania che voleva dare più autonomia alla divisione. Ricordo ancora le difficoltà dovute alla preferenza data al servizio passeggeri: mancavano i macchinisti e li toglievano a noi; Eurostar o regionali che fossero, si dava sempre a loro la precedenza di passaggio. Provammo a offrire valore aggiunti come il magazzinaggio, il delivery fino a casa. Comprammo in Germania la Tx Logistic, oggi fiore all’occhielo del gruppo . Iniziammo a studiare come connettere maggiormente i porti. Però c’erano i debiti. Quando arrivai, si perdevano 500 milioni all’anno. Non poteva essere il contrario con i tanti assunti e i troppi snodi attivi anche se in pochi in funzione. Oggi siamo a cento milioni di passivo. Io la lasciai con un giro di rica-
la strage di viareggio
2 luglio 2009 • pagina 3
«Sono morti per colpa della ruggine» La cisterna esplosa è di una società americana, con sede a Vienna, certificata in Polonia Il ministro Matteoli, davanti al Parlamento, spiega la dinamica dell’incidente di Alessandro D’Amato La sezione di rottura, ha detto il ministro, ha evidenziato una “cricca esterna”, cioè una fenditura sottile e profonda, «che ha portato la sezione esistente a ridursi notevolmente fino al totale cedimento». La superficie di rottura, poi, è «liscia con tracce di ruggine».
È intanto deceduta deceduta la notte scorsa al Bambin Gesù di Roma è Iman Ayad, 3 anni, per salvare la quale ieri è morto il fratello più grande, 17 anni, Hamza. Un sacrificio risultato inutile. La bimba, di origini marocchine, era stata estratta ancora viva dalle macerie della casa di via Ponchielli ma aveva ustioni nel 90% del corpo ed era stata trasferita in elicottero a Roma. Nonostante i tentativi dei sanitari il suo cuore ha cessato di battere la notte scorsa. Hamza era riuscito ad uscire dalle macerie dopo l’esplosione del gas del vagone cisterna deragliato alla stazione di Viareggio. Subito, però, era rientrato in casa a cercare la sorellina. Qui era stato sopraffatto dal gas e dal fumo ed era svenuto prima di essere raggiunto dalle fiamme. Anche Hamza, come la piccola Iman, era arrivato vivo al pronto soccorso, ma è morto poco dopo. Il suo cadavere è stato riconosciuto alcune ore più tardi dalla sorella maggiore, Ibtissam, 20 anni, anche lei ricoverata al Versilia, ma le cui condizioni non sono gravi. Intanto i mille sfollati hanno trovato ospitalità tra amici e parenti, e la tendopoli approntata è stata ridotta. In ogni caso, finché il Gpl vi di 1,5 mliliardi. Credo che oggi si faccia meno. Ma noi eravamo partiti dall’idea di un rilancio, oggi si va nella direzione di tagli e poi tagli. C’è da sperare soltanto che gli spazi persi dall’ex incumbent italiano vengono presi dagli italiani Moretti guadagna in Germania e guarda alla francese Veolia Cargo, gli affari in Italia invece li fanno gli stranieri. Non deve sorprendere perché
non si sarà del tutto volatilizzato, gli abitanti non potranno tornare nelle loro case.
In presenza dell’autorità giudiziaria, ha affermato ancora Matteoli, «è stato aperto il coperchio della boccola distaccatasi, per rilevare la sigla presente sulla testata del fusello, relativo agli ultimi ultrasuoni eseguiti sull’asse». Questi controlli con gli ultrasuoni servono proprio a verificare l’integrità dell’asse, che non può essere accertata. E trova conferma nelle parole dell’assessore della Regione Toscana alla protezione civile, Marco Betti, e dal sindaco di Viareggio Luca Lunardini, che hanno citato l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti. Il quale, intervistato da Sky Tg 24, ha dichiarato che la rete ferroviaria italiana è «la più sicuro d’Europa», e che ci sono «troppi sciacalli che affermano il contrario». «C’è stato un chiaro fenomeno: si è spaccato un asse, ma non si è spaccato lì, ha avuto una storia di fessurazioni progressive che in non so quanto tempo ha portato ad avere una superficie resistente di lavoro in quel momento che è un terzo dell’intera superficie della sezione dell’asse», ha aggiunto Moretti.
segretario veneto della Filt, il sindacato trasporti Cgil, il cargo di Viareggio doveva andare a manutenzione straordinaria nel novembre 2009. «Lo apprendo da Viareggio - afferma il sindacalista -. Il cargo aveva avuto a marzo in Polonia la certificazione che attestava che era a norma, ma la proprietaria è una ditta americana che, per l’Europa, ha sede a Vienna: non c’è da meravigliarsi, i treni che girano per l’Europa oggi sono così. Se la ditta era americana - aggiunge - il locomotore però era di Trenitalia, quindi si tratta di un trasporto privato fatto da Trenitalia a favore di un terzo, una ditta privata proprietaria dei carri». Il caricamento del Gpl, secondo Simonaggio, era avvenuto in provincia di Novara, da una ditta che è uno dei principali rifornitori di Gpl in Italia e fa il 20% di trasporti su ferrovia e l’80% su gomma. Il grosso dei trasporti, secondo le stime del sindacato, «riguarda al 40% il Gpl, per effetto della competitività di questo carburante, l’altro 60% invece tutta una serie di prodotti tra i quali soprattutto quelli altamente infiammabili per i quali bisogna prevedere controlli maggiori su tre elementi: carri, locomotiva e infrastruttura, tenendo ben presente il fattore usura».
Ma questo non serve a placare le polemiche. Per Ilario Simonaggio,
Per il sindacato, bisogna ridurre l’intervallo di sei anni previsto per la
È morta Iman Ayad, la bambina che il fratello diciassettenne Hamza (spirato ieri) aveva cercato salvare
ogni ex monopolista ha a che fare in casa propria con regole rigidissime. A breve partirà il macchinista unico, noi non potevamo parlare di costi che subito scattava uno sciopero. C’è chi studia di portare il cargo sull’alta velocità? Ma sarebbe un errore, non succede da nessun altra parte. I treni merci, con i committenti che non pagano neppure 10 euro al chilometro, non hanno le risorse per pagare le alte royal-
ties chieste da Rfi. Ma le grandi direttrici della Tav passano per i corridoi europei? Ma non puoi far viaggiare un convoglio che viene dalla Russia sui binari dell’alta capacità. Da capo della cargo provai a ragionare con Rfi per treni espressi da far viaggiare di notte, per portare le merci da Milano a Roma in 7 ore. Si sarebbero tolti dalle strade 20 Tir, ma notammo che soltanto le Poste avrebbero
procedura di manutenzione straordinaria. Renata Polverini dell’Ugl ha invece rimarcato che «occorre separare i soggetti controllati dai controllori per garantire più trasparenza e certezza delle responsabilità. Il sindacato più volte ha sollevato il tema della sicurezza, anche a fronte di una stagione caratterizzata da un progressivo abbattimento dei costi con il proliferare di servizi dati in appalto che necessitano chiaramente di norme più stringenti». E in effetti, i dirigenti della Gatx, la ditta americana, affermano che, una volta affittato il vagone, la sua gestione e manutenzione ricadono sotto la responsabilità della. Fs Logistica. Ovvero, sempre le Ferrovie dello Stato, che forniscono il servizio alla casa madre sotto pagamento e, insieme, ne sono una controllata.
E mentre il Pdci chiede le dimissioni di Moretti ed Ermete Realacci del Partito Democratico chiede di «verificare la possibilità di applicare la direttiva Seveso sui rischi di incidenti rilevanti anche nel caso di trasporto di sostanze pericolose», i Cobas e gli autonomi dello Slai proclamano uno sciopero dei trasporti per il 7 luglio: «A difesa della sicurezza e dell’incolumità dei lavoratori e dei cittadini utenti dei trasporti che non possono rischiare o perdere la vita per motivazioni che hanno a che vedere con la mancanza o la carenza di controlli e di misure atte a rendere massima la tutela della sicurezza».
avuto un volume di carico tale per riempire questi convogli. Almeno le merci pericolose non passerebbero nei centri abitati. Tutte le stazioni dell’alta capacità sono o saranno nei centri della città. Casomai si possono valutare percorsi dedicati, con vie preferenziali, per i trasporti di merci pericolose. Senza dimenticare che questo tipo di trasporti si è dimostrato più sicuro sul treno che sui tir.
Scusi la crudezza, ma d’ora in avanti non si dirà che un sistema totalmente pubblico come l’Italia è più sicuro di uno privatizzato come quello inglese. Le Ferrovie erano e sono tra le più sicure del mondo. Detto questo le liberalizzazioni portano sempre un miglioramento del servizio: i privati non sono mai dei dilettanti e i controlli, gioco forza, finiscono per essere fatti da enti terzi.
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Guerra civile. Un’indiscrezione del “Jerusalem Post” annuncia: sei manifestanti giustiziati in piazza dal regime degli ayatollah
Fermiamo gli assassini Karoubi all’attacco: «Governo illegittimo» Da lunedì un drappo verde a tutte le finestre di Antonio Picasso n drappo verde alle finestre, che siano di case o di uffici non importa. Un modo come un altro per segnalare alla popolazione iraniana che l’Occidente, o almeno una sua parte, non l’ha dimenticata. È l’appello lanciato dalla trasmissione radiofonica Zapping e da liberal, nonostante le notizie che arrivano da Teheran siano sempre meno confortanti. Il riconoscimento ufficiale della vittoria di Ahmadinejad presidente, proclamata l’altro giorno dal Consiglio dei Guardiani, non ha infatti sbloccato la tensione in Iran. Anzi, proprio ieri lo scenario si è fatto ancora più complesso. Da un lato le dichiarazioni del riformista Karroubi, dall’altro la decisione di Ahmadinejad di non partecipare come osservatore al summit dell’Unione Africana (Ua) - che si tiene in Libia - non permettono di esporsi in previsioni sul se e come questa crisi giungerà a termine. Mehdi Karroubi è, insieme a Mousavi, l’altro candidato moderato sconfitto alle presidenziali del 12 giugno. Il suo rifiuto di riconoscere la legittimità del risultato ufficiale delle urne è stato seguito a ruota da una dichiarazione simile da parte di Moussavi stesso. Entrambi contestano il riconteggio delle schede dell’altro giorno e proseguono sulla li-
U
nea di non accettare il nuovo mandato attribuito dai Guardiani della Rivoluzione ad Ahmadinejad.
Mantenendo questa posizione, i due sono al momento i soli oppositori capaci di fronteggiare le istituzioni e di ottenere su di loro un’elevata attenzione mediatica interna quanto straniera. Tuttavia, tra loro c’è una differenza notevole. Per quanto Moussavi abbia dalla sua il fatto di essere un laico, Karroubi è riuscito a sapersi costruire un’immagine di riformista all’interno della “lobby”degli ayatollah. Inoltre, a differenza del primo, non grava sul leader di Etemad Melli - il suo partito riformista - un passato di premier macchiato di ombre e di compromessi con il regime. Karroubi, infatti, coerentemente con la sua estrazione di prelato si è dichiarato sempre un fedele seguace delle dottrine di Khomeini. Tuttavia, non ha mai nascosto la propria avversione nei confronti del regime odierno che, a suo giudizio, ha perso l’identità rivoluzionaria che lo aveva portato al potere nel 1979. Secondo Karroubi, infatti, l’Iran attuale non è quello sognato da Khomeini. Da qui la sua posizione moderata e soprattutto riformista, volta a contrastare Ahmadinejad e soprat-
tutto il Grande Ayatollah Khamenei. «Sono pronto a collaborare con il popolo e con i riformisti», ha detto Karroubi, contestando la mancanza di trasparenza delle elezioni e bollando come “illegittimo” il Presidente. Una posizione, questa, che ha portato all’immediata censura da parte del ministero della Cultura di Teheran, del blog e del giornale on line del leader riformiContemporasta. neamente però, si sono dimostrate infondate le voci che circolavano da giorni sul web in merito agli arresti domiciliari ai quali sarebbero stati sottoposti Mousavi e Karroubi stesso. Rumor smentito, ma che rende l’idea di come in Iran la situazione sia più che calda. Al momento il regime ha messo loro “solo” il bavaglio. Per quanto riguarda gli scontri di piazza, invece, il capo della polizia iraniana, Ahmadi Moghaddam, ha reso noto che nel corso delle proteste post-elettorali sono morte circa venti persone e più di mille sono finite in prigione. «La maggior parte di questi ultimi, però, è stata rilasciata», ha tenuto a precisare l’alto funzionario ira-
Gli F15 di Tsahal equipaggiati per missioni a lunga distanza
Intanto Israele si prepara a colpire Teheran? di Pierre Chiartano
niano. «Gli altri, invece, sono stati portati davanti ai tribunali pubblici e rivoluzionari di Teheran».Tra i fermati vi sarebbero anche due dipendenti del Ministero del Petrolio. Le autorità hanno detto di essere riuscite a scoprire una rete sovversiva tra i dipendenti statali e di averla annientata. Questo indica che anche la struttura statale starebbe esposta a scricchiolii interni. Ma, al tempo stesso, gli anticorpi per contrastare eventuali fratture ci sono.
Del resto le dichiarazioni di Moghaddam confermano quanto sapevamo. Il governo non si è fatto minimamente scrupolo a ricorrere a metodi violenti per sopprimere le con-
testazioni. Anzi, si può addirittura ipotizzare che le misure adottate fossero già state pianificate. Nulla esclude il sospetto che il regime, temendo l’ondata che adesso si sta riversando nelle piazze, si sia cautelato in precedenza. Quanto sconcerta, però, è l’ipotesi dei sei sostenitori di Moussavi impiccati. Secondo il Jerusalem Post ieri, la magistratura iraniana avrebbe ordinato di giustiziare alcuni manifestanti arrestati. In questo caso di tratterebbe di un giro di vite nella strategia repressiva adottata dal governo. Oltre allo spargimento di sangue nelle piazze, la censura dei media e gli arresti, si starebbe andando verso le esecuzioni sommarie. Iniziative, queste, che vanno in esplicita controtendenza con la veste democratica di cui
are che Heyl Ha’Avir, l’aviazione militare israeliana, stia guardando oltre l’orizzonte. I caccia F-15 Eagle dell’Aeronautica con la stella di David si stanno preparando per missioni long range. Per obiettivi a lunga distanza dunque, come era già successo per Operation Opera, la missione sulla centrale nucleare irachena di Osirak del giugno 1981. Allora furono gli F-16 Netz e gli Eagle servirono da scorta. E potrebbe essere proprio l’Iran a poter entrare nel collimatore delle squadriglie dei Flying Dragons o degli Hammers.
P
I nuovi equipaggiamenti di cui sarebbero stati dotati i velivoli si chiamano Barad Pelada, in ebraico - cioè Grandine d’acciaio - e Lighting. Ne ha dato notizia il bollettino BaMachaneh dell’Israel defence force (Idf), spiegando come ciò renderebbe gli F-15 pronti per «scenari offensivi complessi a lunga distanza». «Il piano di attacco all’Iran esiste ed è indipendente dagli assetti che gli americani hanno in Medioriente.Viene contemplato il fatto che Gerusalemme possa agire in maniera autonoma», aveva spiegato a liberal il generale Fabio MIni il mese scorso. Il primo sistema, Steel Hail, è un moderno apparato d’arma per bombe ”intelligenti” e il secondo è un aggiornamento di un sistema analogo, già utilizzato nell’operazione Cast Lead su Gaza. Con un’affidabilità del 100 per cento, sostengono le fonti dell’Idf. Una dotazione offensiva che potrebbe essere adatta per le mininuke, le atomiche in miniatura, cosiddete sfonda-bunker, adatte a distruggere siti protetti come silos e shelter. Che l’aeronautica isarealiana abbia deciso di prepare i propri aerei in seguito agli sviluppi della situazione ira-
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2 luglio 2009 • pagina 5
La Rivoluzione iraniana segna un punto di svolta simile a quello del 1989 Scene di violenza dalle strade della capitale iraniana, da cui (grazie alla censura del regime) arrivano sempre meno notizie. A destra il primo ministro Vladimir Putin. Nella pagina a fianco il candidato presidente iraniano Karoubi: ha annunciato di non voler riconoscere la rielezione di Ahmadinejad. In basso, alcuni prigionieri giustiziati in una piazza dell’Iran
il regime si era voluto coprire prima delle elezioni. Concludiamo con Ahmadinejad che ha deciso di non partecipare al summit di Sirte. La scelta merita una riflessione attenta.
Due settimane fa, il presidente iraniano si era presentato al summit del Gruppo di Shanghai a Ekatimburg. In quei giorni i disordini nelle strade di Teheran erano appena scoppiati e la protesta non si era ancora svelata in tutta la sua forza. Sicché Ahmadinejad aveva valutato l’opportunità di mostrarsi in un meeting internazionale per confermare quanto fosse stabile il suo governo. Oggi la sua assenza all’incontro dell’Unione Africana fa capire che le cose sono cambiate. Le spiegazioni date dall’ufficio del presidente ap-
paiono come una giustificazione di facciata. Ahmadinejad avrebbe preferito non andare in Libia per evitare che le questioni trattate durante l’incontro siano messe in ombra dalla sua presenza. I riflettori dei media, infatti, sono tutti puntati sull’Iran e una partecipazione del suo leader a un qualsiasi consesso internazionale annienterebbe il valore e l’obiettivo dello stesso. Così è stato dichiarato a Teheran. In realtà, la poltrona vuota di Ahmadinejad vale molto di più della sua presenza. Il vertice dell’Ua proseguirà sulla sua rotta, ma l’assenza del presidente iraniano resterà un segno. Un segno di come il regime non possa permettersi di distrarsi e di mandare il proprio leader oltreconfine per dimostrare quanto sia forte.
niana è abbastanza chiaro.Tanto che il capo di stato maggiore dell’aviazione, Gabi Ashkenazi, aveva dichiarato, qualche giorno fa, che «la rilezione in Iran di un presidente che ha sempre mostrato ostilità verso Israele e la volontà di utilizzare anche l’arma atomica, ci costringe ad esser sempre preparati ad entrare in azione. L’Aeronautica è pronta e affilata come un rasoio, per difendere il Paese e tutti i cittadini, rimuovendo ogni possibile minaccia». Gli F-15 Baz in dotazione a Israele sono caccia molto versatili e sicuri che durante la missione «Pace in Galilea», nel 1982, avevano decimato l’aviazione siriana.
Lo stesso modello era stato poi utilizzato nel 1985 nella missione contro il quartier generale dell’Olp a Tunisi. Fino ad oggi l’operazione più lunga portata a termine da quei caccia (2.040 chilometri) grazie all’utilizzo di rifornitori in volo (tanker) Boeing 707. A dimostrazione della capacità storica di Heyl Ha’Avir di colpire bersagli a grande distanza, come potrebbero essere i siti nucleari iraniani e le istallazioni poste a loro difesa. Inoltre gli F15 hanno fama di essere aerei estremamente robusti. Molto noto il caso di un Baz che è riuscito ad atterrare, dopo una collisione in volo con un A-4 (caccia leggero) - andato distrutto in volo - che gli aveva portato via l’intera ala destra. In totale gli israeliani hanno in dotazione più di un centinaio di questi velivoli militari costruiti dalla McDonnel Douglas americana su specifica dell’Aeronautica di Gerusalemme (Strike Eagle). Un numero più che sufficiente per concludere una missione con una ventina di obiettivi, come quella sull’Iran.
Aiutateli: anche l’Urss cadde grazie a voi N di Gary Kasparov
onostante l’esito a breve termine, la Rivoluzione Verde in Iran è già diventata un evento incredibilmente importate. I cittadini stanno rischiando la vita per difendere il loro voto, dimostrando la falsità della teoria secondo la quale senza influenze esterne la democrazia non può attecchire su terreno ostile. Ciò è di grande rilevanza per coloro che vivono nell’autocrazia, soprattutto in Russia, il mio Paese natale. La dittatura iraniana sta raccogliendo il frutto amaro delle sue politiche di radicalizzazione. Per decenni ha sfruttato i fanatismi religiosi e ospitato dimostrazione di massa. Ora queste forze si stanno ritorcendo contro il regime. I cittadini che un tempo intonavano “Morte all’America” oggi chiedono ad alta voce il sangue dell’ayatollah Khamenei. Si tratta di notizie incoraggianti, ma i despota imparano da loro stessi e della storia come aggrapparsi al potere. Il primo ministro russo Vladimir Putin non vede in Mikail Gorbaciov un grande riformatore ma un leader che non ebbe la forza di tenere integra l’Unione Sovietica. Altri hanno imparato dalla strage di Tiananmen il valore della forza brutale. È interessante dunque che nel bel mezzo dell’insurrezione in Iran il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad abbia fatto un salto al Cremlino. Al signor Putin conviene parecchio cavalcare l’esito delle turbolenze iraniane. Con l’economia russa in difficoltà ha bisogno di un aumento vertiginoso nel prezzo del petrolio per evitare il collasso del suo governo. Perciò si è impegnato nel fomentare le tensioni in Medio Oriente e ora vede la crisi iraniana potenzialmente utile, se Ahmadinejad ne esce vittorioso. Stando ai suoi analisti economici, l’Iran potrebbe produrre fino a quattro milioni di barili in più al giorno se alle compagnie straniere fosse permesso modernizzare l’infrastruttura petrolifera del Paese. E un aumento nella produzione di greggio in Iran determinerebbe un calo nei prezzi del barile. Ma se Ahmadinejad restasse al potere, difficilmente le aziende estere avrebbero porta aperta mentre Israele si sentirebbe giustificata ad attaccare i siti nucleari iraniani, con l’effetto di fare schizzare il costi dell’energia. Dopo aver visto il regime iraniano assassinare a sangue freddo la sua stessa gente, il primo ministro israeliano Netanyahu non potrà dire al suo popolo che non si troverà mai di fronte alla minaccia di venire cancellato dalla faccia della ter-
ra se l’Iran disporrà di armi nucleari. Il governo Ahmadinejad ha perso la sua legittimità morale ed è perciò maggiormente pronto a sostenere una guerra asimmetrica contro Israele tramite Hamas e Hezbollah nella speranza di unire la proprio gente contro un nemico esterno.
Per il signor Putin l’incognita di tutto questo sarà vedere quale reazione avrà l’Occidente agli eventi iraniani, potrebbe dargli tregua se l’Iran verrà punito severamente per la violenza contro i protestanti pacifici. Sorprendentemente, i leader europei stanno mostrando un insolito coraggio nel condannare il regime iraniano. Sta di fatto che ciò che è mancato finora è stata la guida degli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama ha enfatizzato l’importanza della non-violenza soltanto nella sua seconda dichiarazione, una settimana dopo lo scoppio delle agitazioni, senza tuttavia appoggiare i dimostranti iraniani. Capisco la riluttanza nel fornire ai leader iraniani l’opportunità di bollare i manifestanti come burattini nelle mani degli americani. Ma può il leader del mondo libero limitarsi a fare da testimone quando è ovvio che al regime non importa chi sta a guardare? Richard Lugar e Fareed Zakaira hanno difeso l’estrema cautela di Obama. Zakaira ha perfino paragonato la reazione del presidente a quella di George Bush quando rispose timidamente al collasso imminente dell’Urss. Zakaira spiega che «quei regimi potevano benissimo attaccare i manifestanti e l’Unione Sovietica poteva dispiegare le truppe».Vero, ma ogni volta che poteva farlo l’Urss li ha usati eccome i carri armati per soffocare il dissenso. Le dittature usano la forza quando sanno che non corrono alcun pericolo, e non quando un presidente americano usa parole dure. Non c’è motivo per trattenere qualsiasi pressione esterna che possa rovesciare l’equilibrio a Teheran. Il leader dell’opposizione Hosseini Mousavi non è un democratico ideale. Ma se lui e i suoi sostenitori riusciranno a salire al potere sarà tutto merito di un elettorato iraniano improvvisamente rafforzato. E non c’è dubbio che la gente si aspetterà dal governo Mousavi che implementi quelle stesse libertà per le quali oggi stanno rischiando la loro vita. Milioni di iraniani stanno lottando per unirsi al mondo libero. Il minimo che possiamo fare è fare sapere chiaro e forte alla gente valorosa dell’Iran che saranno accolti a braccia aperte.
Putin guarda con attenzione alle mosse dell’Occidente. La debolezza delle reazioni è una sua vittoria
diario
pagina 6 • 2 luglio 2009
Alitalia, «Scusate il ritardo» Colaninno e Sabelli spiegano le strategie future della compagnia di Vincenzo Bacarani
ROMA. Dalle minacce di querele e denunce a un quasi “calumet della pace”. La nuova Alitalia, capitanata dal presidente Roberto Colaninno e dall’amministratore delegato Rocco Sabelli, sembra lanciare segnali di fumo pacifici in direzione di Mauro Moretti, numero uno di Trenitalia dopo i segnali di guerra dei mesi scorsi. Il sistema ferroviario e quello aereo dovrebbero costituire un insieme di infrastrutture in cui deve esserci collaborazione. Per questo Colaninno rivolge un appello a Moretti e gli dice: «Lavoriamo assieme. Poi ognuno vende le sue merci». E pensare che solo qualche mese fa le Ferrovie volevano rivolgersi agli avvocati per le dichiarazioni di Sabelli che aveva parlato di «sovvenzioni improprie» a Trenitalia per la tratta Roma-Milano. In sostanza, questo il succo dell’offensiva dell’ad di Alitalia: Trenitalia sarebbe privilegiata rispetto alla compagnia di bandiera e inoltre non sarebbe nemmeno vero, secondo Sabelli, che la mitica Freccia Rossa ferroviaria sia puntuale e anzi accumulerebbe un ritardo medio di
trenta minuti. Insomma una sorta di guerra dichiarata. Ma ora sembra passata. Intervenendo in occasione del forum organizzato dal comitato Leonardo sul made in Italy, il presidente di Alitalia parlando della concorrenza che c’è con le Fs sulla tratta Roma-Milano, ha sottolineato che l’obiettivo di Alitalia non è la Roma-Milano ma è «prima rimettere a posto Alitalia, poi farla diventare una grande compagnia internazionale che va sui mercati globali. Per questo abbiamo fatto l’alleanza con Air France-Klm. Gli aerei però devono essere collegati anche con i treni. Quindi ben venga il treno». Inoltre Colaninno ha rivolto il suo appello a Moretti a lavorare assieme ma ha sottolineato tuttavia che il treno «non deve funzionare solo tra Roma e Milano». Facendo riferimento alle troppe lentezze che caratterizzano ancora i treni ita-
gnia di bandiera ha ancora «difficoltà sulla puntualita sulla quale però ci stiamo impegnando. Da lunedì, ad esempio, i sistemi di Airone e Alitalia sono integrati». Colaninno ha invece annunciato che è stato drasticamente ridotto il tasso di cancellazione dei voli che, «su 700 voli al giorno, è sceso a meno di 7 aerei». Questo non toglie che su tratte dimenticate da Alitalia stanno nascendo nuovi voli con piccole compagnie tipo Blue Express che raccolgono consensi per cortesia e puntualita. Colaninno in questo senso ha tuttavia voluto ricordare che la compagnia di bandiera ha «un piano alla base dei nostri investimenti che è rigido ed ha un impatto molto impopolare per certe istituzioni locali perché in certi aeroporti non andiamo più perché, essendo un impresa privata, dobbiamo trovare il modo di far quadrare i conti. Noi non abbiamo sovvenzioni». Una ultima frecciatina a Moretti dunque prima di concludere.
«Il nostro futuro non è solo sulla tratta Roma-Milano. È per questo che abbiamo deciso di fare pace con le ferrovie» liani, ha parlato ad esempio della tratta Milano-Mantova che richiede due ore e mezzo o della tratta Milano-Malpensa che richiede circa un’ora, «lo stesso tempo che si impiega da Milano a Bologna».
Ma Alitalia non può certo ergersi a giudice, visti i cronici ritardi e le numerose cancellazioni che si stanno verificando proprio da quando e entrata in azione la gestione Cai, e infatti Colaninno ammette: «Ogni giorno ci sono tra i 140 e 150 aerei che partono in ritardo». Il caso di Torino Caselle è addirittura finito in Parlamento con interrogazioni e proteste. La compa-
Colaninno ha infine definito una «sciocchezza tutta italiana» l’evidenza che è stata data ai rapporti con l’amministratore delegato del gruppo Rocco Sabelli. «In una societa - ha spiegato il presidente - ci sono ruoli che competono all’azionista, altri che competono al management, ruoli che competono al presidente, altri all’amministratore delegato. Il problema è che io e Sabelli siamo visti come due mosche bianche perché stiamo applicando al cento per cento queste regole. Da azionista guardo ai risultati. Tra noi c’è un normale gioco delle parti che verranno rispettate sia dall’azionista che dal management».
Il Pontefice, durante l’udienza generale del mercoledì, lancia un monito ai parlamentari italiani
Il Papa: «Ci vuole etica nella politica» di Andrea Ottieri
CITTÀ DEL VATICANO. Papa Benedetto XVI è intervenuto, ieri nel corso dell’udienza generale del mercoledì, sul tema del rapporto fra morale e politica; argomento assai dibattuto, in queste settimane, in Italia; e sul quale la Chiesa, in varie occasioni ha fatto sentire la sua voce con estrema discrezione ma pure con grande chiarezza. Salutando l’associazione interparlamentare “Cultori dell’etica”, al termine dell’udienza in piazza San Pietro, papa Ratzinger ha sottolineato «l’importanza dei valori etici e morali nella politica». «Saluto - ha detto il papa - gli esponenti dell’Associazione interparlamentare “Cultori dell’etica”. la cui presenza mi offre l’opportunità di sottolineare l’importanza dei valori etici e morali nella politica». Infatti, “Cultori dell’etica” è una associazione a cui aderiscono parlamentari italiani di varia estrazione politica
ed è presieduta dal senatore dell’Udc Leonzio Borea. Non è passato inosservato, naturalmente, questo richiamo irritale del Pontefice, ed è stato messo in relazione non solo ai suoi ospiti ma anche al costume generale della politica italiana.
Il Papa, poi, ha anche annunciato la data di pubblicazione della prossima enciclica: il testo dedicato alla carità
L’enciclica su economia, solidarietà e carità sarà resa pubblica il prossimo 7 luglio, proprio in coincidenza con il G8 dell’Aquila sarà diffuso il prossimo 7 luglio. Dal momento che l’enciclica verte sui temi dell’economia di mercato, sulla solidarietà sociale e sulla carità cristiana, è ragionevole immaginare che le parole del Papa avranno un peso significativo nei lavori del G8 dell’Aquila che proprio il 7 luglio entreranno nel vivo.
Da piazza San Pietro Benedetto XVI ha anche salutato con grande calore i rappresentanti della Consulta Nazionale antiusura, ringraziandoli «per l’importante e apprezzata opera che svolgono accanto alle vittime di tale flagello sociale. Auspico - ha proseguito il Papa - che vi sia da parte di tutti un rinnovato impegno per contrastare efficacemente il fenomeno devastante dell’usura e dell’estorsione, che costituisce una umiliante schiavitù. Non manchi anche da parte dello stato un adeguato aiuto e sostegno alle famiglie disagiate in difficoltà, che trovano il coraggio di denunciare coloro che approfittano della loro spesso tragica condizione». Il pensiero del Papa è andato poi «ai giovani che in questi giorni stanno sostenendo gli esami»: «Assicuro per ciascuno - ha detto Benedetto XVI un ricordo nella preghiera». E, infine, a chi non può andare in vacanza per varie ragioni: «Giunga a voi, cari fratelli e sorelle, il mio affettuoso saluto con l’auspicio che non vi manchino la solidarietà e la vicinanza delle persone care».
diario
2 luglio 2009 • pagina 7
Il processo per i «depistaggi» nelle indagini sulla Diaz
Question time sulle «scelte conviviali del premier»
G8 di Genova: il pm chiede 2 anni per De Gennaro
Lite tra Vito e Di Pietro sulle cene della Consulta
GENOVA. Il pubblico ministero del processo (in corso a Genova) sugli incidenti avvenuti al G8 del 2001 e sulle successive indagini ha chiesto due anni di reclusione per l’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. Sul banco degli imputati, insieme all’attuale direttore del Dipartimento della Informazioni per la Sicurezza Dis, c’è anche l’ex capo della Digos di Genova Spartaco Mortola - oggi questore vicario di Torino - per il quale l’accusa ha chiesto 1 anno e 4 mesi. I due avrebbero indotto l’ex questore Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza sulla sciagurata e sanguinosa irruzione nella Diaz durante il G8 del 2001. Nel calcolo della pena chiesta per De Gennaro, il pm Zucca ha considerato equivalenti le attenuanti generiche con le aggravanti perché l’ex capo della Polizia era un superiore in grado al momento del fatto. La pena base di partenza infatti è tre anni a cui è stato tolto un terzo previsto dal rito abbreviato. Per Mortola invece il pm ha considerato sussistenti le attenuanti generiche più lo sconto previsto dal rito. Il processo si svolge con rito abbreviato, a porte chiuse. Durante l’udienza, il pm ha letto in aula le intercettazioni che dimostrerebbero la colpevolezza di De Gennaro e
ROMA. Clima teso alla Camera,
Blindato il ddl sicurezza Oggi l’ultimo via libera Ieri i primi due voti di fiducia, nuove critiche da Fini di Errico Novi
ROMA. Negli stessi minuti in cui un’ordinata staffetta di senatori leghisti interviene a Palazzo Madama per festeggiare il ddl sicurezza, Gianfranco Fini lancia l’ennesima stilettata alla maggioranza e lo fa da un altro edificio del Senato, quel Palazzo della Minerva che ne ospita la biblioteca: «Non si può pensare di affrontare il tema dell’immigrazione solo con politiche domestiche sulla sicurezza, sarebbe come incollare francobolli su una parete grande chilometri». Il tono è più soft di quello adottato il giorno prima a Madrid, dove il presidente della Camera aveva definito i respingimenti «immorali» ed era tornato su alcune norme del disegno di legge, in particolare sul reato di clandestinità che pregiudica anche il diritto alla salute degli immigrati: «Non è accettabile che venga messa in secondo piano la dignità della persona rispetto alla condizione di legalità o meno del proprio status», aveva detto Fini a un forum organizzato da El Mundo. Il distacco vagamente “british”che invece la Terza carica dello Stato adotta nel giorno della fiducia al Senato sembra quasi marcare la distanza da una coalizione politicamente svuotata, costretta a un pronunciamento senza obiezioni.
È difficile non attribuire qualche ragione al capogruppo dell’Udc Gianpiero D’Alia quando dice che «è la paura del voto segreto che spinge il governo a mettere la fiducia, è la volontà di imporre il pensiero unico leghista ai suoi parlamentari ed evitare figuracce». Che altrimenti sarebbero arrivate, secondo D’Alia, «per quei profili discriminatori e in palese contrasto con la Costituzione». È la stessa tesi sostenuta dalla democratica Anna Finocchiaro e dalla radicale Donatella Poretti. E il dissenso sugli aspetti più delicati della legge continua a turbare diverse categorie professionali, prima fra tutte quella dei camici bianchi che non vede affatto risolta la questione dei medici-spia, nonostante la correzione introdotta alla Camera. Spiega a liberal Carlo Lusenti, segretario dell’Anaao-Assomed (il sindacato dei medici ospedalieri): «Il governo non ha dato alcun cenno dopo il nostro invito a emanare un decreto di interpretazione autentica per chiarire la non denunciabilità dei medici che omettono di segnalare un clandestino». Secondo un buon numero di giuristi le ambiguità permangono, giacché i camici bianchi sono pur sempre pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di denunciare i reati. Si andrà molto probabilmente alla Corte costituzionale: «A questo punto è inevitabile», dice Lusenti, «ma naturalmente bisognerà attendere almeno un anno e in ogni caso dovrà capitare l’incidente giuridico di un medico che viene denunciato per aver a sua volta omesso di denunciare un immigrato irregolare. Noi assicuriamo il gratuito patrocinio a tutti i colleghi ai quali dovesse capitare una cosa simile. Non dubitiamo che la Consulta individuerà tutti i profili incostituzionali della legge, ma intanto il rischio di diffusione di malattie come la tubercolosi c’è». Nessuno ha prestato attenzione all’allarme, dopo le polemiche di due mesi fa, «al di là di posizioni pure apprezzabili come quella di Fini». Ma il presidente della Camera si muove da battitore libero più che da leader, tanto da arrivare a deridere la «politica del fare» di Silvio Berlusconi: «Oltre che fare bisognerebbe anche pensare».
D’Alia (Udc): «Il governo impone il pensiero unico leghista». I medici: «Non ci hanno ascoltato, si va alla Corte costituzionale»
Mortola. La parola passa ora alle parti civili (alcune persone fisiche e l’Associazione giuristi democratici). Il 15 luglio sarà la volta delle difese, mentre la sentenza è prevista per settembre.
La vicenda nasce dall’interrogatorio dell’allora questore il quale coinvolse in qualche modo nei fatti della Diaz anche l’allora capo della Polizia. In seguito, durante il dibattimento, Colucci fece un passo indietro e sostenne che De Gennaro era all’oscuro di quelle violenze. Da qui la richiesta dei pm di falsa testimonianza per Colucci e di istigazione alla falsa testimonianza per De Gennaro e Mortola.
I senatori del Pdl in effetti non ci fanno una gran figura.Votano due delle tre fiducie poste in mattinata dal ministro Elio Vito, che ricorda il «lungo e approfondito esame da parte delle commissioni del Senato» e giustifica in questo modo la blindatura del provvedimento: «A questo punto il governo ritiene opportuno giungere alla definitiva approvazione». Niente dibattito, insomma, perché ce n’è già stato abbastanza. Stamattina ci sarà giusto il tempo di votare la fiducia sul terzo mega-articolo in cui il ddl è stato spacchettato e poi si passerà di gran carriera a dichiarazioni di voto e approvazione finale. Diventano così legge alcune innovazioni significative, come l’obbligo di denunciare il pizzo per i costruttori che partecipano a gare d’appalto e l’innalzamento di altri quattro anni della pena per 41 bis, ma anche norme discutibili, dal riconoscimento delle ronde al reato di clandestinità.
durante il question time nel corso del quale il ministro per i Rapporti con il Parlamento ha risposto a una interrogazione del leader dell’Idv Antonio Di Pietro sulla cena alla quale hanno partecipato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano e due giudici della Corte Costituzionale, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano. «Il presidente Berlusconi, il sottosegretario Gianni Letta, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini e il giudice costituzionale Paolo Maria Napolitano – ha spiegato Elio Vito - hanno ricevuto un invio a cena con le rispetti-
ve consorti dal giudice costituzionale Luigi Mazzella. Si trattava di un incontro conviviale, organizzato nella prima metà del mese di maggio. In ogni caso antecedente al 26 giugno, quando la Consulta ha fissato al 6 ottobre la data di inizio della sua discussione sul lodo Alfano nominando il relatore».
Le precisazioni di Vito non hanno soddisfatto Di Pietro che ha chiesto le dimissioni del ministro della Giustizia e dei giudici Mazzella e Napoletano. Replicando a Vito, il leader dell’Idv ha giudicato «inaccettabile» la risposta del governo su una «cena - ha detto Di Pietro carbonara e piduista», con la quale secondo l’ex pm è stata «compromessa la credibilità della Corte» che deve essere «talmente indipendente che non dovrebbe in alcun modo essere oggetto di interferenze». Insomma, con quella cena «avete infangato la sacralità della Corte» e ora «qualsiasi decisione presa il 6 ottobre non sapremo mai se sarà frutto di indipendenza» o esito della «cena piduista», ha concluso Di Pietro. Nel corso del suo intervento, Di Pietro ha suscitato più volte le ire funeste del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi che lo ha invitato – inutilmente, pare - a vergognarsi.
politica
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Movimenti. Fuori dagli schemi e bipartisan: nel nuovo movimento convivono politici e intellettuali di aeree diverse
Il laboratorio di Luca Crescono i think-tank del “partito delle riforme” Come e perché parte Italia Futura di Montezemolo Riccardo Paradisi sintonia con il comune sentire della società italiana». Le cose Era il 25 gennaio 2008 quando sono andate diversamente ma i Montezemolo, all’indomani del- problemi sul terreno sono ancola caduta del governo Prodi, ra lì: l’incapacità del sistema poparlando a Siena all’assise re- litico di autoriformarsi (o di metgionale dell’industria toscana, tere semplicemente mano a una si rivolgeva «alle forze politiche legge elettorale universalmente più avvedute e responsabili di esecrata ma puntualmente sfrutentrambi gli schieramenti» di- tata dai partiti), il ritardo nelle licendo che«prima di andare al beralizzazioni economiche, la voto servirebbe una nuova leg- paralisi di quelle infrastrutturali. ge elettorale che consenta agli È recente – dello scorso 19 giugno – l’allarme lanciato dalla presidenVITTORIO te di Confindustria EMANUELE PARSI Emma Marcegaglia alla politica italiana: Le prime battaglie un milione di lavorache lanceremo tori rischiano, entro sono la mobilità il 2010, di perdere il sociale, la lavoro o di scivolare riqualificazione nella cassa integradei docenti in una zione. E le proiezioni scuola sull’andamento delcompetitiva, l’economia non sono il rilancio migliori: quest’anno dell’industria il Pil calerà del 5% culturale mentre la quota della spesa pensionistica arriverà al 16%. elettori di decidere chi mandare «L’Italia, malgrado sia costellain Parlamento e che limiti il po- ta di abbondanti intelligenze vitere di veto dei micropartiti». ve, è ormai un Paese fermo – come si legge nel sito di Italia futuE l’allora presidente di Con- ra – immobile». findustria Montezemolo indica- Come il sistema politico che la va la soluzione in «Un governo rappresenta, bloccato da un sidi scopo, che si chiami istituzio- stema di veti incrociati che rinale o tecnico poco importa, ma tardano fatalmente ogni innoche potrebbe realizzare le rifor- vazione: «Un ritardo quello itame molto rapidamente, trovan- liano che non si misura solo nedo un’immediata, necessaria, gli indicatori economici, ma sodoverosa e improcrastinabile prattutto nella difficoltà della politica a disegnare un futuro per il Paese». Ecco è in questo scenario che Italia futura dovrà muoversi. Come? Facendo attività di lobbyng culturale e politica o preparando una discesa in campo per fare politica in modo pieno e diretto? In attesa che le carte del presente quadro politico si rimescolino? segue dalla prima
I nomi del comitato promotore dell’Associazione sono la dimostrazione che l’iniziativa di Montezmolo ha
davvero una natura trasversale e bipartisan: a Italia futura aderiscono o collaborano radicali come il giuslavorista Michel Martone, intellettuali di centrosinistra come l’ex Einaudi Andrea Romano, finiani come Angelo Mellone, direttore editoriale della fondazione del presidente della Camera FareFuturo, docenti di relazioni internazionali della Cattolica di Milano come Vittorio Emanuele Parsi. «L’idea di Italia futura – dice Parsi a liberal – è quella di costruire gli strumenti per superare l’impasse italiana, l’assurdità per cui ciò che è considerato giusto e di buon senso in modo bipartisan – penso alle riforme di cui si parla tanto per esempio – si impantana puntualmente nell’arena parlamentare, diventando materia di veto incrociato. Ecco noi vogliamo offrire dei programmi con dei punti d’attacco concreti per portarli all’agenda della politica».
Insomma un think tank in piena regola, non una sfida ai partiti esistenti, o l’anticamera di un nuovo partito. «Adotteremo di volta in volta delle campagne come quelle che abbiamo lanciato adesso, alla partenza della nostra iniziativa: mobilità sociale, industria culturale, rilancio del ruolo degli insegnanti e riforma di un’istruzione frustrata. Un lavoro che si svolge ad un livello prepolitico. Difficile, che quando arriva nell’arena politica si possa azzopparlo con dei pretesti senza imbarazzo. Perché un conto è eludere o rifiutare una domanda generica, un altro far cadere una proposta precisa e articolata del tipo: se assumi più mamme hai un incentivo economico». Un metodo che trova il favore del politologo bolognese Paolo Pombeni: «Chi vuole le riforme o chi vuole riuscire a metterle nell’agenda della politica deve presentare un pacchetto pronto. Una volta che queste riforme progettate e comprensibili saranno chiaramente sul terreno verrà allo scoperto chi non le vuole. E dovrà assumersi la responsabilità di non aver preso in considerazione un’ipotesi di soluzione concreta in nome dell’attendismo o dell’”aggiorniamoci per mettere meglio a punto la co-
sa”». Insomma con il metodo indicato da Parsi la ruota dovrebbe cominciare a muoversi. Ma le voci sul partito personale di Montezemolo? È vero che la fondazione potrebbe essere l’anticamera per la discesa in campo? «No. Anche perché con l’ennesimo partito personale non si sarebbe andati da nessuna parte – dice Parsi – questo è il momento di tornare a pensare, di fare dei progetti. Se vuole di preparare il terreno. Non di chiedere all’opinione pubblica l’ennesima cambiale in bianco. Occorre guadagnarsi riconoscimenti di fiducia, immaginando scenari diversi dall’attuale, agganciandovi l’opinione pubblica. Se poi la politica resta sorda e cieca, beh allora…». Eppure non è da oggi che fondazioni, associazioni, think tank arano il terreno e lo seminano di idee in attesa che la politica si chini a raccoglierle. Ma i risultati finora sono stati oggettivamente modesti. La poli-
tica fa il suo corso tattico, le fondazioni volano sui cieli della strategia e della lunga durata, ma sono parallele che non convergono. Certo, di riforme si
ENRICO CISNETTO Lo strumento del pensatoio per superare questo bipolarismo è utile, ma non è sufficiente. Meglio di una fondazione sarebbe un partito
parla moltissimo e da anni, ma per infine sancire l’impossibilità di farle, causa la rissosità del sistema politico e l’assenza di un minimo comune denominatore riformista dei soggetti in campo. Per questo, secondo l’economista Enrico Cisnetto di Società aperta, meglio d’una fondazione sarebbe stato un partito. Meglio dell’ennesimo strumento d’analisi uno stru-
politica
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Parla Andrea Romano, direttore della nuova associazione
«Una lobby trasversale per chiudere la transizione» di Marco Palombi
ROMA. Non sarà l’embrione di un partito, né il
mento d’azione. «Lo strumento del pensatoio per superare le secche di questo bipolarismo binario e militare è utile, ma non è sufficiente. Occorre passare dall’analisi della situazione alla sua trasformazione, anche perchè i tempi stringono. La crisi economica, con le proiezioni di settembre che danno le aziende in grande difficoltà, non aspettano i tempi lunghi della riflessione ma richiedono azioni immediate. Manca insomma un’iniziativa politica di cui non vedo purtroppo ancora tracce».
Cisnetto sostiene che si siano perduti 15 anni.Tre lustri in cui saremmo dovuti passare dalla seconda alla terza repubblica. «Se nel 2006 si fosse presentato nello scacchiere politico un soggetto terzo lo schema di questo bipolarismo non avrebbe avuto ulteriore futuro. Era anche il momento magico di Montezemolo: era presidente di Confindustria, la Ferrari vinceva. Ora si riparte da un pensatoio. Benissimo, è un strumento prezioso ma non basta. Speriamo che sia la premessa a qualcos’altro».
Sopra Luca Cordero di Montezemolo, patron della fondazione Italia futura, il nuovo pensatoio che si propone di superare le secche del bipolarismo italiano. Nella pagina accanto Diego Della Valle, imprenditore amico di Montezemolo e sostenitore del nuovo think tank. «Italia futura – si legge sul sito dell’associazione – è nata per promuovere il dibattito civile e politico sul futuro del paese, andando finalmente oltre le patologie di una transizione politica infinita e ripetitiva»
trampolino di lancio politico di Luca Cordero di Montezemolo e nemmeno uno di quei salotti riservati in cui si disegnano a tavolino futuri assetti di potere. “Italia Futura” (ieri ha debuttato il sito) è semplicemente la prima associazione politica nata con l’intento di fare a meno della politica, incistata nell’idea – radicalmente montezemoliana, oltreché profondamente ottimista – che il Paese reale sia assai meglio della sua rappresentazione e che non aspetti altro che la potenza levatrice della volontà per rinascere a nuova vita. A lavorare nella sede di via dei Parioli un gruppo di giovani studiosi e professionisti – bipartisan, anzi post-partisan - diretto da Andrea Romano, professore di storia contemporanea all’Università di Tor Vergata e apprezzato commentatore politico su vari quotidiani. Professor Romano, serviva proprio un’altra associazione? Noi pensiamo di sì. La nostra poi è una struttura leggera: abbiamo scelto consapevolmente di non fare una fondazione o un think thank. Il modello sono gli advocacy group americani: strutture elastiche, capaci di produrre idee con cui nutrire la politica. Se devo fare un esempio attuale penso al “Center for american progress” di John Podesta, che è vicino a Obama. “Italia Futura” l’abbiamo pensata così: un gruppo leggero, partigiano, che butti nel dibattito pubblico temi che facciano reagire la politica sul futuro del Paese. Ci sembra che tutte queste fondazioni che già esistono trascurino la domanda fondamentale: quale Italia pensiamo tra cinque o dieci anni? Sul sito scrivete: «Se l’uomo è un animale politico, da noi si aggira in libertà». Sembra il primo passo di un partito di tecnocrati. Ma no! Noi vogliamo trovare e promuovere la creatività nel Paese. Pensi al premio “Accade domani” (30mila euro al progetto territoriale migliore e realizzabile, ndr): è un modo per far emergere le buone idee che esistono localmente, ma non riescono a venir fuori. In questo senso parliamo di «animale politico in libertà», in eccessiva libertà: spesso è talmente libero che non combina niente. Ancora la società civile contro i professionisti della politica? Alla retorica della società civile degli anni scorsi che poi non era che un altro modo di chiamare pezzi di militanza politica - noi opponiamo il dialogo con la società reale: dare una sponda a chi abbia voglia di impegnarsi nel territorio, un contenitore a quello che di buono si muove localmente. Vi servirà una bella massa di manovra… Naturalmente sì. Da oggi inizia questa sorta di road show per aggregare singoli o associazioni e cerca-
“
re referenti locali: già in poche ore abbiamo avuto molti contatti. Il modello, se mi si passa il paragone, è la mobilitazione continua del Partito Radicale. Rischiate di sembrare il trampolino di lancio di Montezemolo. Ma se decide di entrare in politica, non lo sapremo certo da “Italia Futura”. Siamo un gruppo di studiosi, commentatori, professionisti, non siamo l’embrione del partito di nessuno. Infatti date l’impressione di considerare la politica, o meglio il ceto politico, un problema per il futuro del Paese. Non c’è dubbio, almeno per la forma che ha assunto questa lunga transizione italiana. Io personalmente credo molto nella politica, ma il panorama non è entusiasmante. Quindi rapporti coi partiti… Nessuno.A livello personale abbiamo diverse o nessuna militanza, ma non c’è l’intenzione di avere rapporti istituzionali. E con le fondazioni politiche? Nemmeno, perché per come funzionano adesso le collaborazioni tra enti diversi, sono il simulacro di accordi tra partiti o pezzi di partiti. Insisto: sembra che pensiate al governo del Paese come a un puro fatto tecnico. Sicuramente non ne abbiamo una visione identitaria, culturalmente precostituita. Il limite all’efficienza della politica sta proprio nel peso di una serie di identità sopravvissute a se stesse. Noi privilegiamo i progetti, l’inventiva, la ricerca dei giacimenti di creatività che esistono nel Paese: non mi pare un modello tecnocratico, se dovessi usare una definizione a me piace populismo democratico. Non si tratta di dare risposte alla società, ma di trovarle nella società. Ma il problema italiano non era il pessimo meccanismo decisionale? È così, ma il tema delle riforme istituzionali non è nostro. Noi solleviamo problemi e indichiamo soluzioni, poi la politica ha una sua responsabilità anche nei confronti dell’elettorato. Diciamo che ci fermiamo sulla soglia del palazzo d’Inverno. Quindi secondo voi mancano le idee. C’è una sovrabbondanza di retorica e di ideologismo, ma di buone idee non direi. O meglio, ci sono, ma faticano a trovare spazio nel dibattito pubblico: la nostra ambizione è proprio fare da conduttore tra queste proposte e la loro realizzazione. Come? Facendo pressione sulla politica per farle emergere. Saremo uno strumento per portarle all’attenzione dei decisori pubblici e del dibattito generale. Insomma farete lobbyng? Lobbyng trasparente.
Alla retorica della «società civile» del passato noi opponiamo il dialogo con la «società reale»: quello che la politica tradizionale non sa più fare. Non siamo un partito né il trampolino di lancio del Presidente della Fiat
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Crisi. Molti Paesi sforano i parametri: solo l’Italia ormai, aggravata da un deficit enorme, li applica
Alla fine Tremonti scoprì Maastricht di Carlo Lottieri segue dalla prima Per ovvie ragioni, l’Italia non pare intenzionata a seguire i partner europei su questa strada: soprattutto perché non può farlo. Il ministro Giulio Tremonti è ossessionato dal livello abnorme del nostro debito e sa bene che, anche provando in tutti i modi a difendere i conti, sarà molto difficile che si possano ottenere risultati significativi. Egli teme però che il giorno in cui l’asta dei titoli pubblici italiani dovesse andare scoperta, il Paese precipiterebbe nel caos.
paesi europei è destinato a minare la solidità dell’euro, che è una moneta assai strana, dato che non ha dietro di sé un solo paese, ma un insieme di realtà assai diverse. Mentre in passato le vecchie banche centrali e i ministri dell’economia lavoravano di pari passo, e ogni politica economica gravava soltanto oppure prevalentemente sulla moneta nazionale (fosse esso il marco o il franco), oggi abbiamo una
provi a giocare il ruolo già giocato dalla Germania e che le licenze dei vari governi finiscano per essere causa di positivi conflitti: dato che l’euro è una specie di barca comune e quello che fa ognuno ha gravi conseguenze per tutti. Per noi italiani, in particolare, gli effetti del nuovo lassismo possono essere terribili. In particolare, esso rischia di aprire una fase di inflazione spaventosa, mentre la perdita di affidabilità dei sistemi economici europei può – in tempi anche stretti – far salire velocemente i tassi di interesse.
La difesa dei titoli pubblici impone al governo di rispettare le regole che tutti abbandonano, ma la spesa pubblica ormai sembra fuori controllo
E questo impone al governo di provare a difendere le regole che tutti abbandonano, anche se magari ci si riuscirà solo in parte, poiché la spesa pubblica è in larga misura fuori controllo. Se anche l’Italia riuscisse comunque a salvaguardare i propri conti, per gli italiani si prospettano momenti molto duri. Lo “sbracamento” della finanza pubblica dei maggiori
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
moneta comune che avrebbe dovuto limitare la libertà d’azione dei singoli governi e che invece non riesce più a farlo.
La situazione è aggravata dal fatto che in prima linea tra i fautori di logiche lassiste, oggi, c’è la Germania. La cosa è preoccupante, poiché l’idea di una moneta stabile e ben gestita era in larga misura legata all’idea di avere nell’euro una riproposizione del marco, amministrata grosso modo secondo i criteri adottati un tempo dalla Bundesbank. E non a caso la sede centrale della banca europea è stata fissata proprio a Francoforte. Ma d’improvviso sono stati proprio i “sacerdoti germanici”della buona gestione economica e monetaria a tradire l’ispirazione originaria. Nulla esclude, a ogni modo, che qualche altro paese oggi
Il rischio è che i (limitati) vantaggi correlati alla crisi di cui taluni italiani hanno goduto negli ultimi mesi, grazie alla riduzione in maniera significativa degli oneri che devono sostenere i titoli di case chiamati a rimborsare i loro prestiti, si dissolvano in breve tempo. E forse è anche più pericolosa l’eventualità che l’inflazione inizi a erodere i risparmi, creando un clima economico di incertezza che spinge ad anticipare i consumi e disincentiva l’accantonamento di risorse. C’è insomma da sperare che l’Italia riesca a salvare quanto più è possibile i propri conti, e che l’esito argentino temuto da Tremonti non si realizzi mai. Ma non è affatto detto che dopo avere evitato questa catastrofe non ci si trovi comunque in una situazione assai difficile e all’interno di gravi tensioni politiche: potenzialmente in grado di far saltare l’Unione stessa.
Ecco perché, nonstante le infinite critiche, il calcio non può fare a meno di lui
Criticano il moggismo, ma tutti cercano Moggi ice Filippo Beatrice (magistrato della procura di Napoli che ha condotto l’inchiesta sul calcio nota a tutti noi con il nome di “Calciopoli”): «Il calcio italiano non si è mai liberato del suo fantasma. L’avevamo detto anche noi della procura di Napoli nelle inchieste successive al primo filone di Calciopoli». Chi è il fantasma? Lui, naturalmente, Luciano Moggi. Dove c’è Moggi c’è la coda del diavolo questo dice la vulgata - e dove c’è Moggi c’è sempre un caso. L’ennesimo “caso Moggi”riguarda il Bologna che gli ha offerto di fare il consulente. Ma Luciano Moggi non può fare ciò che Francesca Menarini, presidente del Bologna, gli chiede di fare perché è stato squalificato per cinque anni dalla giustizia sportiva. Si farà allora ricorso a un escamotage: non dirigente sportivo, ma consulente esterno della proprietà.
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Un “fantasma”, appunto. Ma un “fantasma” concreto e attivo. Moggi è già all’opera con e per - ma tu guarda che strano contrappasso - la società sportiva che proprio Moggi, la Cupola e il sistema Calciopoli affossarono. Resta un dubbio: si può inibire a chicchessia di dare consigli? E si può vietare a un pre-
sidente di richiedere consigli a pagamento? In fondo, l’ennesimo “caso Moggi” è proprio questo: Moggi, il fantasma, può consigliare? Su Moggi e dintorni - i dintorni sono: la Juventus, gli arbitri, i giocatori, i presidenti, l’Inter, i telefonini, le intercettazioni e tutti coloro che sapevano ma facevano finta di non sapere se ne sono dette di tutti i colori (sociali). Il fantasma ha anche scritto un libro dove racconta la sua verità. E la verità di Moggi è abbastanza nota e forse anche condivisibile: non sono il Demonio, tutti facevano così. Con questo tipo di difesa si ha l’impressione che Moggi paghi per tutti: il solito capro espiatorio del marciume delle cose italiane. Da parte di Moggi, dunque, c’è anche una sorta di confessione - in fondo il suo libro è proprio questo - cer-
to, chiama anche gli altri, dice che non era il solo a sentire arbitri, a dare consigli, forse era il più bravo, ma non era il solo e quindi lo ha ammesso. Ma ciò che ora stupisce in questa vicenda e che - se non sbaglio nessuno ha finora rilevato con forza, è che il calcio italiano rivuole Moggi. La giustizia lo ha espulso, ma il calcio lo riammette in campo. La presidente Menarini lo vuole in campo, lo vuole schierare: Moggi deve giocare. Se si ha un fuoriclasse sarebbe da sciocchi non farlo giocare. Dunque, che Moggi ritorni pure a centrocampo. La condanna? Non fa niente. Deve giocare. Delle due l’una: o Moggi non è più quel Moggi lì oppure il sistema del calcio italiano ritiene di non poter fare a meno di Moggi. Nel primo caso ci sarebbe il trionfo della giustizia, nel secondo il
trionfo del “moggismo”. È probabile che Moggi non possa fare a meno del calcio - c’ha passato una vita e dunque è umano che non voglia stare con le mani in mano - ma a quanto sembra è anche vero che è il calcio italiano che non può fare a meno di Moggi.
Nessuno dà consigli non richiesti e a Moggi i consigli glieli chiedono e lui se li fa pagare. «Mi sono semplicemente dato da fare», ha detto il fantasma, «un paio di mesi fa, per aiutare la presidenza Menarini a trovare nuovi soci per il Bologna; per quello che mi riguarda non ho un interesse diretto all’acquisto di azione della società, ma è evidente che nel caso di ingresso dei nuovi soci da me consigliati, rivestirei il ruolo di consulente». Luciano Moggi non gioca da solo. È un ottimo centrocampista. Distribuisce palloni, fa il regista, ma è anche un grande lavoratore, non si risparmia, dà ordini, detta il passaggio finale, fa squadra. Se fosse un solitario, non avrebbe speranze e non entrerebbe mai in campo. Invece, tutti lo cercano perché nel bene e nel male sa giocare e sa come giocare gli altri. Il moggismo tutti lo criticano, ma tutti vogliono Moggi.
panorama
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Polemiche. In tempi di pettegolezzi e feste in villa, di confusionari e populisti, è sempre più urgente rifarsi alla sua lezione
De Gasperi, la politica come esempio di Luca Volontè e Gasperi modello per i cristiani in politica: a «colui che seppe integrare bene la spiritualità e la politica», come ha detto recentemente Papa Benedetto, dobbiamo guardare.In questi decenni, dopo la colpevole fine della esperienza democratica cristiana, abbiamo sentito più volte ronzare auto-attribuzioni di eredità degasperiana. Il Papa va oltre: ci dice che il «segreto di De Gasperi» fu la conivenza della spiritualità e dell’impegno politico, l’impegno per la salvezza della propria anima, il desiderio della compagnia di Gesù e, dall’altro, la prudente lungimiranza e il coraggio verso il futuro della dimensione politica del suo impegno. Già Giovanni Paolo II, neò 1981, aveva ricordato quanto in De Gapseri «la fede fu centro ispiratore, forza coesiva, criterio di valor, ragione di scelta». Senza il Tutto, non c’è niente. Lo stesso De Gasperi diceva al Primo Congresso cattolico trentino: «Non basta conservare il cristianesimo in se stessi, conviene combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti».
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Proprio riferendosi alla parabola del grande statista, papa Ratzinger ha voluto indirizzare un messaggio preciso alla nostra classe dirigente Questa affermazione che plasma la vita di ciascuno di noi, quest’ansia di rincorrere e combattere ovunque, secondo l’elementare considerazione che la fede «c’entri con ogni aspetto della vita e della società», quest’evidenza d’esser posti in ogni istante sotto lo sguardo e accompagnati sem-
pre da Gesù, scaturisce per l’appunto dalla «personalità di Cristo vivente che mi trascina; mi soggioga, mi solleva come una fanciullo». Ripete ancora De Gasperi, come ha ricordato il Papa, «nel sistema democratico viene conferito un mandato politico amministrativo con una responsabilità specifica…,
ma parallelamente vi è una responsabilità morale dinnanzi alla propria coscienza, e la coscienza per decidere deve essere sempre illuminata dalla dottrina e dall’insegnamento della Chiesa». La fede e la virtù non bastano, ci vuole uno «strumento adatto ai tempi… che abbia una programma, un metodo proprio, una responsabilità autonoma, una fattura e gestione democratica…». Perché ha vissuto così, perché con la sua azione politica ha reso un servizio alla Chiesa,all’Italia e all’Europa, allora è giusto pregare per la sua anima. Perciò, in un tempo di pettegolezzi e feste in villa, di confusionari e populisti, si ravviva sempre più l’esemplarità di un santo uomo di nome Alcide a cui tutti i cristiani impegnati in politica dovrebbe guardare e le sue virtù e gesta imitare.
Giovanni Paolo II, celebrando il Giubileo e istituendo in San Tommaso Moro il patrono dei politici cristiani, sapeva bene che la politica è mediazione, anche Tommaso cercò finché era possibile una mediazione che salvasse la pace del Regno e la sua testa. Egli sapeva fin
Partiti. Il congresso che si prepara sembra quello, storico, di Vienna: un ritorno al passato
La Restaurazione democratica di Antonio Funiciello
ROMA. Quello che il Pd si appresta a celebrare somiglia sempre di più a un revival del mitico Congresso di Vienna. Certo un po’ si fatica a trovare somiglianze tra Veltroni e Napoleone, perché di sicuro se c’è un nuovo Congresso di Vienna, deve esserci stato prima un qualche Napoleone. E però le analogie non mancano, considerando il modo in cui quasi tutti i leader che parteciperanno all’assise del Pd guardano al campo del centrosinistra, come falcidiato dalla furia rivoluzionaria della vocazione maggioritaria veltroniana. Il centrosinistra finisce così per essere metafora di un’Europa che il sogno imperiale di Walter Bonaparte aveva portato all’apogeo di un unità politica che ricordava i fasti del Sacro Romano Impero (corrispettivo del 33% delle politiche dello scorso anno), salvo poi rovinare e ridurre tutto a particolarismi e aspre divisioni.
mento (social-comunista e cattolica democratica) e nelle esperienze del buon governo locale (Bassolino è il grande sponsor bersaniano nel Sud) e nazionale (il secondo esecutivo Prodi di cui Bersani è stato ministro). E, difatti, è impressionante lo schieramento ex governativo che appoggia Bersani: in primis Prodi e D’Alema, presidente e vice presidente del Consiglio; quin-
Tutto l’ex governo Prodi in campo per Bersani. Intanto, il lombardo Giuseppe Civati annuncia: «Se i giovani del Lingotto vogliono, mi candido»
Bersani, già prima del discorso di ieri all’Ambra Jovinelli, aveva lasciato intendere che il futuro democratico stava nel suo passato. Nelle culture fondatrici di riferi-
di Letta, sottosegretario alla Presidenza e Visco, vice ministro delle Finanze; infine Bindi,Turco e Pollastrini, titolari rispettivamente di Famiglia, Sanità e pari Opportunità. Pensare che l’orgoglio dalemiano e quello prodiano potessero fondersi in un solo sentimento di nostalgia del passato, è quanto anche l’immaginazione più fantasiosa non avrebbe mai potuto ipotizzare. Una tale platea, che assiste Bersani nella sua corsa alla segreteria, qualifica l’intera operazione sia nel merito politico dei contenuti che intenderà esprimere in continuità con le trascorse esperienze di gover-
no, sia nel metodo di una forma partito che neghi la svolta “primarista”e “maggioritarista” voluta da Walter Bonaparte.
A fronte di questa prospettiva e della debolezza propositiva delle velleità generazionali che forse daranno vita al terzo candidato, il consigliere regionale lombardo Civati, dalle parti di Franceschini non si muove granché. Anzi le uscite di suoi grandi sponsor come Franco Marini fanno pensare che anche i partecipanti all’imminente Congresso di Vienna del Pd che sostengono la conferma dell’attuale segretario chiederanno anche loro un riposizionamento piuttosto conservatore per il Pd, stremati delle fughe in avanti a cui li aveva costretti Walter Bonaparte. Insomma, tutti impegnati, franceschiniani e bersaniani, in un lungo girotondo fine a sé. Una danza d’altri tempi come quella di cui parlava il principe De Ligne a proposito del Congresso di Vienna originale «Si le Congrès danse, ne marche pas» («Se il Congresso danza, non va avanti»). Proprio quello che potrebbe succedere per l’ennesima volta alla sinistra italiana.
troppo bene che ci sono limiti che nessuna mediazione può superare, diversamente si cadrebbe nella complicità col male, perciò scelse di seguire la propria coscienza e non l’opportunità politica. Dalla vita di Tommaso, oltre agli insegnamenti della virtù morale ordinaria di Alcide, ci perviene una altro insegnamento fondamentale, esistono principi irrinunciabili, non mediabili, direbbe Ratzinger, «non negoziabili». Comportamenti eccessivi che «distorcono i valori morali», recentemente ha affermato il Presidente della Cei, non sono corretti. «I giovani chiedono ai politici comportamenti coerenti… ai politici è chiesto di dare il buon esempio». La fede anarchica è come quella adulta, l’atteggiamento di «chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol e non vuol credere». Oggi più di ieri, c’è molto da riflettere sulla situazione politica italiana, al partito della dottrina sociale della chiesa spetta un impegno in più, seguire gli esempi e i richiami che colpiscono nella vita di grandi Santi e nell’esempio di grandi Pastori.
il paginone
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Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Paola Binetti, «La vita è uguale per tutti» pubblicato da Mondadori. el cuore dell’uomo è molto più frequente trovare la paura della morte che il desiderio di morire, perché l’asse intorno a cui ruota l’esistenza umana è in realtà l’attaccamento e l’amore per la vita, unito al desiderio di condividerla con chi si ama e all’impegno per realizzare se stessi, creando qualcosa di cui valga la pena prendersi cura insieme agli altri. Eppure oggi assistiamo al tentativo di ribaltare quest’ottica per rivendicare non tanto e non solo il desiderio di morire che può scaturire nell’uomo in alcune circostanze, ma il diritto a morire come espressione del principio di autodeterminazione, ossia della volontà, con cui l’uomo riafferma il dominio sulla propria vita. In questa prospettiva la solidarietà tipica dei rapporti interpersonali si trasforma nella richiesta di sostenere il diritto a morire, nel caso in cui non si fosse in grado di soddisfarlo da soli, un gesto di pietà che apre la porta alla legittimazione dell’eutanasia. Questa è la sfida intellettuale, prima ancora che morale, con cui dobbiamo confrontarci, nel riflettere su alcuni casi che recentemente hanno monopolizzato l’opinione pubblica e sul nuovo disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento con tutte le questioni che ha sollevato.
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Le radici della cultura dell’eutanasia sono state individuate per molto tempo nella paura di soffrire che accompagna l’uomo e si acuisce davanti alla solitudine o davanti a un dolore che sembra tanto più
insopportabile in quanto non se ne intravede la fine. Recentemente però è emersa una terza dimensione a sostegno dell’eutanasia: il diritto a riaffermare la propria volontà sulla morte. Applicazione particolare del principio di autodeterminazione, quando non vuole riconoscere limiti alla libertà e alla disponibilità della propria vita. Si tratta di una motivazione molto insidiosa, perché mentre il dolore può essere controllato grazie a un sapiente uso di farmaci e di terapie non farmacologiche e la solitudine può essere risolta con un accompagnamento affettuoso e solidale, il principio di autodeterminazione è per definizione autoreferenziale e mal tollera consigli e suggerimenti, soprattutto quando è declinato fino alle sue estreme conseguenze. Qualunque intervento, di qualunque tipo, che venga dall’esterno e si ponga come alternativo può
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Anticipiamo un brano del nuovo libro di Paola Binetti che
La quantità
di Paola
Sostenere un’autodeterminazione fine a se stessa senza contenuto, non tiene conto del fatto che non ogni scelta, per quanto libera, è necessariamente giusta in chiave etica essere percepito come lesivo del diritto di autodeterminazione. In questo caso all’altro si chiede solo di essere aiutati a morire, per realizzare un desiderio, che a questo punto diventa diritto a morire, esercitato attraverso qualcuno, che solo in questo modo esprimerà pietà e solidarietà.
Non è sempre facile capire se il desiderio di morire, che taluni vogliono trasformare in diritto, sia un segno di forza, e quindi affermazione positiva di volontà, o sia un segno di debolezza, perché non ci si sente più in grado
I temi del libro Il dibattito pubblico italiano è da mesi dominato, come non era mai accaduto prima, dalle complesse questioni dell’etica di fine vita, del testamento biologico, del diritto alla cura e alla dignità della persona. È possibile intervenire su questi temi con una legge dello Stato? Quali sono i principi e i valori a cui rifarsi per giungere a una disciplina condivisa da tutti i cittadini? Paola Binetti, deputata del Pd e neuropsichiatra infantile, interviene in questo dibattito unendo la competenza medica all’esperienza legislativa e delinea un modo di affrontare il fine vita capace di conciliare la Costituzione e le leggi dello Stato italiano con i valori e le sensibilità del credente. Il libro è una riflessione approfondita e autorevole, condotta sulla traccia dei casi di cronaca che hanno appassionato tutti gli italiani, a partire da quello di Eluana Englaro. «A quanti si chiedono che senso abbia avuto una vita come quella di Eluana basterà sfogliare i giornali di questi mesi per comprendere fino a che punto è riuscita a provocare le nostre intelligenze, a toccare i nostri cuori e a mobilitare le nostre volontà, proprio da quel letto in cui non sembrava capire che cosa accadesse intorno a lei. La sua vita ci ha obbligati a uscire dalla indifferenza frettolosa con cui a volte ci poniamo i quesiti più importanti della nostra esistenza. Senza Eluana tutto il nostro Paese sarebbe più povero, perché meno sollecitato a riflettere sul valore della vita, a prescindere dalla sua apparente non utilità. Per questo tutti le dobbiamo un grazie convinto».
”
di sostenere la propria situazione. Chi chiede di legalizzare l’eutanasia, considerando questo desiderio un diritto, vuole venire incontro alla fragilità di una persona che per vari motivi non sopporta più la fatica del vivere oppure vuole riaffermare il diritto a disporre di sé, senza limiti né condizionamenti? Nel primo caso si possono cercare soluzioni alternative che consentano di scoprire nuovi orizzonti di dignità alla fragilità della vita. Ma se invece l’eutanasia è l’espressione di una volontà individualistica e autoreferenziale di chi morendo vuole affermare se stesso, allora ogni offerta di aiuto sarà rifiutata perché intacca l’immagine di forza che il soggetto vuole dare di sé a sé stesso e al suo ambiente.
Il presunto diritto di morire nei modi e nei tempi scelti dal soggetto ha un fondamento etifortemente co-antropologico ambiguo, perché fa della libertà personale un valore assoluto e ignora i limiti naturali con cui l’uomo è costretto a misurarsi in tutta la sua vita, sperimentando che non tutto ciò che desidera può essere fatto, né conviene che lo sia. Nel diritto alla vita sono contemplati sia la morte che il morire come processo che affianca e accompagna il vivere nella sua fase terminale, ma è solo la vita che detta le sue leggi, formula le sue richieste, esige i mezzi di cui ha bisogno per vive-
il paginone
e si contrappone, in modo laico, alla cultura dell’eutanasia
à della vita
a Binetti
re. Quando l’eutanasia per sostenere il diritto a morire nei tempi e nei modi prescelti chiama in causa il principio di autodeterminazione, segna la linea di confine tra un diritto ampiamente riconosciuto come è il diritto alla vita e un non diritto, come quello di morire, che come tale non appare in nessun codice o documento, né nazionale né internazionale. Non sorprende che i sostenitori di un pensiero favorevole all’eutanasia, facendo riferimento al principio di autodeterminazione applicato alla tutela della salute, cerchino nell’articolo 32 della Costituzione una sorta di legittimazione delle loro pretese. Il diritto alla salute, che l’articolo 32 sancisce e tutela, è il necessario punto di riferimento per tutti quei dibattiti in cui si intrecciano la responsabilità istituzionale e la responsabilità personale nella cura della propria vita, senza perdere di vista che ai doveri degli uni corrispondono i diritti degli altri e viceversa. La salute, come diritto e come dovere che coinvolge persone e istituzioni, è un bene personale e sociale che non consente letture riduttive e individualistiche. Per la sua dimensione sociale appella alla solidarietà come valore essenziale della nostra democrazia. Se il diritto alla salute si declina per sua stessa natura nel contesto dei rapporti sociali non è possibile reclamare il diritto a disporre di sé chiamandosi fuori dalla rete sociale, come se la propria vita, valore eminentemente personale, fosse un valore esclusivamente individuale. L’articolo 32 mette in evidenza come i cittadini siano uguali e diversi davanti alla salute: uguali nel diritto, che possono esigere a norma di legge, e diversi per la libertà con cui ciascuno di loro può scegliere di esercitarlo. Ma è sempre un diritto esercitare liberamente restando nel proprio orizzonte di senso: la salute e la tutela della vita.
Come si vede la possibile diffusione di un pensiero favorevole all’eutanasia sta gradatamente penetrando in molti ambiti di studio, tocca la magistratura e le interpretazioni della Costituzione, affronta il tema, ma evita di chiamare le cose con il loro nome, probabilmente per non suscitare critiche e resistenze non facili da gestire. A tutti si richiede una rinnovata capacità di tutelare il diritto alla vita, venendo
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incontro a nuovi bisogni del paziente e a nuove istanze della nostra società. Misurare gli uomini e il valore della vita solo sulla base dell’efficienza è un rischio di cui è prova concreta anche l’attuale gravissima crisi economica, provocata tra le tante cause anche dall’avidità di pochi e dallo sfruttamento di molti. Che la vita possa apparire un dono anche in condizioni difficili e difficilissime lo confermano però anche tante persone che, sopravvissute a un tentativo di suicidio a cui erano approdate in momenti di oggettiva disperazione, ritrovano il gusto di vivere e ricominciano a confrontarsi più serenamente con cose che solo pochi istanti prima apparivano insopportabili. Possono farlo perché hanno riscoperto il gusto e l’amore per la vita.
La tutela della vita e lo sviluppo delle sue potenzialità costituiscono il fine a cui deve tendere l’esercizio della nostra libertà. Sostenere come un valore a priori un’autodeterminazione fine a se stessa senza contenuto, volta solo a ribadire il diritto ad autodeterminarsi, non tiene conto del fatto che non ogni scelta fatta liberamente e in buona fede è necessariamente giusta dal punto di vista etico. Negarlo è negare l’esistenza dell’etica. Ricordare inoltre che scienza e tecnica sono al servizio della vita anche nelle fasi di fine vita aiuta a capire che grazie a loro è stato possibile raddoppiare l’età media nel giro di pochi decenni e migliorare indiscutibilmente la qualità di vita dell’uomo. Appare faziosa e ideologica la proposta di una eutanasia, ecologi-
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sulle prospettive della medicina del futuro, sui grandi interrogativi etici e antropologici. Sulla nostra solidarietà di uomini e sul nostro impegno di professionisti: medici, infermieri, avvocati, magistrati, giornalisti e politici.
I sostenitori di un’eutanasia che liberi il paziente dalle maglie della nuova schiavitù tecnologica in genere si muovono su tre dimensioni: da un lato esaltano il valore della libertà assoluta con cui ognuno può disporre della sua vita, dall’altro danno una visione distorta delle conquiste della tecnoscienza presentandole come anticamera dell’accanimento terapeutico e infine considerano come autentica la solidarietà umana solo se aiuta il paziente e morire. In definitiva intrecciano tre aspetti: libertà, tecnofobia e pietà che nel relativismo culturale in cui viviamo assumono una connotazione che parla più di morte che di vita. E in tal senso promuovono sondaggi che dimostrino una tesi già precostituita, la loro, formulando le domande in modo da dare un’immagine del nostro Paese già favorevole all’eutanasia, compresa una parte del mondo cattolico. In molte di queste ricerche presentate come scientificamente attendibili non c’è un riferimento diretto all’eutanasia, chiamata con nome e cognome, ma si parla di un esercizio della libertà, spinto fino al rifiuto non solo delle cure ma anche dei mezzi di sostegno vitale, nei casi in cui la vita sembra poco degna di essere vissuta. L’artificio linguistico sta nell’enfasi con cui si parla di libertà, miscono-
La tutela della vita e lo sviluppo delle sue potenzialità costituiscono il fine a cui deve tendere l’esercizio della nostra libertà. Negarlo, è negare l’esistenza dell’etica stessa ca e antitecnologica, che si configuri come una morte naturale in cui siano sospesi indiscriminatamente i supporti che le biotecnologie hanno messo a punto in questi anni, perché percepite come ostili e contronatura. Non a caso oggi la morte pone nuovi interrogativi in virtù degli sviluppi della tecnologia, che sembrano suggerire tempi diversi da quelli biologici, fino a illudere qualcuno che inizia a pensare a una sorta di immortalità tecnologica. Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e tanti altri pazienti in condizioni simili, ma mai uguali e mai esattamente sovrapponibili, ci hanno obbligato a ripensare al rapporto tra medicina e tecnologie, mettendo in evidenza la presunta violenza che queste ultime sembrano introdurre nella nostra vita. Ci propongono infatti una riflessione molto seria sugli sviluppi della scienza e della tecnica,
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scendo le conseguenze del suo uso nei casi già preconfezionali e nel contesto riferimento alla non dignità della vita in quegli stessi casi. La cosa che appare più devastante in queste affermazioni è l’ideologia che le anima e che diventa sempre più disumana, non stupisce quindi che gli epigoni di questa posizione siano incapaci di vedere e di riconoscere il servizio che da sempre la Chiesa presta a malati di tutti i tipi, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, a tutela della loro vita, a supporto dei loro familiari, nel quadro di una pietà cristiana universalmente riconosciuta. Ospedali, Hospice, università sono nati per rispondere a questo bisogno di cura in cui i malati incontrano la Chiesa, che non solo non respinge nessuno, ma esprime il proprio carisma nell’accoglienza degli ultimi, quegli ultimi che ogni epoca ha nella specificità delle sue circostanze concrete.
mondo
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Scenari. La leader popolare venne uccisa durante un comizio. Il governo pakistano parla di «complotto internazionale»
Invito all’Onu con delitto
Islamabad accetta l’inchiesta ordinata dal Palazzo di vetro sulla morte della Bhutto di Vincenzo Faccioli Pintozzi n’inchiesta delle Nazioni Unite, che possa fare luce su quello che successe veramente prima e dopo l’omicidio della leader popolare Benazir Bhutto. Una pagina della storia pakistana che molti analisti ritengono fondamentale, il momento in cui il Pakistan è stato precipitato nel buio di uno scontro infinito fra forze governative e milizie islamiche. Il governo di Islamabad, guidato dal vedovo della Bhutto, parla senza mezzi termini di una “congiura internazionale”ordita per distruggere le speranze di ripresa di una
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cato con un’autobomba dello sgarbo ricevuto. L’inchiesta, lanciata ufficialmente ieri, è guidata dall’ambasciatore cileno al Palazzo di vetro, Heraldo Munoz, e include un ex Procuratore generale indonesiano e un dirigente della polizia irlandese in pensione.
Dovrebbe durare sei mesi, il tempo ritenuto necessario per investigare “fatti e circostanze” riguardo la morte della leader popolare, uccisa nel dicembre 2007 a Rawalpindi. Nata a Karachi il 21 giugno 1953, la Bhutto era la figlia del
La Commissione è arrivata ieri nel Paese, guidata dall’ambasciatore cileno alle Nazioni Unite. Come sempre, non potrà lanciare procedimenti penali ma soltanto presentare le proprie conclusioni nazione oramai al collasso. Da parte loro, i talebani delle zone di frontiera settentrionali negano - come hanno sempre fatto ogni coinvolgimento e puntano il dito contro il corruttibile presidente Asif Ali Zardari, marito fedele di una donna troppo ingombrante da gestire. Altri parlano della lunga mano del generale Parvez Musharraf, costretto a cedere il potere dopo mesi di trattativa con “Benazir la bella”, che si sarebbe vendi-
deposto primo ministro pakistano, Zulfikar Ali Bhutto, fatto giustiziare dal generale Muhammad Zia-ul-Haq nel 1979. A 35 anni è stata la più giovane e la prima donna a diventare capo di governo in un Paese musulmano nell’era moderna, eletta con l’impegno di battersi per promuovere i diritti civili. Primo ministro pakistano dal 1988 al 1990 e dal 1993 al 1996, per due volte è stata costretta a dimettersi per scandali
di corruzione di cui si è sempre professata innocente. Nel 1999 ha lasciato volontariamente il Paese, per un esilio che sarebbe durato otto anni. Trascorsi così otto anni in esilio volontario tra Dubai e Londra, il suo ritorno in patria per prepararsi alle elezioni nazionali del 2008 fu funestato il 18 ottobre 2007 da un attentato che causò 138 vittime e almeno 600 feriti. Le esplosioni ebbero luogo a Karachi durante un corteo di sostenitori che accoglieva l’entrata dell’ex Primo Ministro nella città, subito dopo il suo arrivo all’aeroporto. Benazir Bhutto, su un camion blindato dal quale salutava i cittadini e sostenitori, rimase illesa. Non andò così bene il 27 dicembre dello scorso anno, quando un attentato seguito a un comizio riuscì a uccidere la leader. Nell’attentato morirono almeno 20 persone e altre 30 rimasero ferite.
Gli attentatori, dopo aver sparato diversi colpi d’arma da fuoco contro la Bhutto, fecero esplodere una carica, forse da un kamikaze, vicino all’ingresso principale del luogo dove si erano radunate migliaia di persone per assistere al comizio. Trasportata immediatamente in ospedale, la leader pakistana dell’opposizione morì poco dopo a causa della gravità delle
Nel mirino degli investigatori ci sono tutti gli attori sulla scena: il presidente, il suo predecessore, i talebani e la comunità internazionale. Accusata dall’esecutivo di voler “balcanizzare” il Pakistan ferite riportate, in parte dovute anche al violento spostamento d’aria causato dall’esplosione. L’allora presidente pakistano Pervez Musharraf condannò l’attentato compiuto «da terroristi islamici»; la voce fu confermata da Mustafa Abu al-Yazid, capo delle operazioni di al Qaeda in Afghanistan, uno dei fedelissimi dell’egiziano Ayman al-Zawahiri, che avrebbe ordinato personalmente l’assassinio. Asif Ali Zardari accusò invece il governo di Musharraf quale responsabile dell’attentato, che sarebbe stato compiuto dal potente servizio segreto pakistano, l’Isi (Inter-Services Intelligence).
Questo avrebbe sostenuto attivamente il movimento talebano sin dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, sotto la direzione di Akhtar Abdur Rahman quando al governo vi era il dittatore Ziaul-Haq, e mai epurato dagli elementi fondamentalisti da Musharraf, se non con cambiamenti di facciata ai vertici dello stesso. Al Qaeda tuttavia negò ogni addebito: la smentita ven-
na all’epoca affidata al leader talebano Beitullah Mehsud il quale escluse ogni coinvolgimento nella vicenda.
Trascorsi almeno tre giorni dalla morte, come vuole la tradizione, fu aperto il testamento dove tra l’altro veniva nominato il figlio primogenito, allora diciannovenne, Bilawal Bhutto Zardari a capo del Partito popolare pakistano. Di fatto però fu il vedovo, formalmente copresidente, a guidarlo, mentre il braccio destro di Benazir, Makhdoom Amin Fahim fu candidato a primo ministro. Le cose, come sappiamo, sono cambiate molto nel Paese, e l’inchiesta Onu potrebbe distruggere il già fragilissimo equilibrio di poteri attualmente in vigore. È per questo che l’esecutivo di Islamabad è passato all’attacco, affidando la prima mossa al ministro degli Interni, Rehman Malik. Che ha dichiarato: «Vogliamo sapere chi c’è dietro questo crimine, chi lo ha preparato e chi lo ha finanziato. E crediamo che dietro vi sia una grande cospirazione internazionale». Il modo migliore
mondo
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Tutte le indagini in cui la comunità internazionale ha fallito lo scopo
Da Hariri a Bashir, le Commissioni farsa di Massimo Ciullo na nuova Commissione d’inchiesta indipendente si recherà presto a Islamabad per condurre indagini ed accertare “i fatti e le circostanze”dell’omicidio di Benazir Bhutto. L’Onu ha precisato in un comunicato che «rimane di competenza delle autorità pakistane il compito di determinare la responsabilità criminale di coloro che hanno perpetrato l’assassinio». L’ex premier pakistana fu uccisa durante la campagna per le presidenziali, il 27 dicembre del 2007, a Rawalpindi. L’allora presidente pakistano, il generale Pervez Musharaff, rifiutò gli investigatori dell’Onu e per mettere a tacere le insistenti voci su un suo coinvolgimento invitò gli uomini di Scotland Yard, per condurre delle indagini autonome. Nel loro rapporto, i detective britannici scrissero che la Bhutto fu uccisa da una seria ferita alla testa, causata dall’esplosione di una bomba. Secondo gli investigatori pakistani, la ex premier fu il bersaglio di un attentatore solitario che sparò in direzione della donna prima di far detonare l’esplosivo che aveva addosso. Nessun dei proiettile esplosi dal suicida però, anche se attinsero il bersaglio, può aver causato la morte della sfidante di Musharaff. Ma le conclusioni della polizia pakistana non hanno mai convinto i sostenitori della Bhutto, che hanno rigettato entrambe le versioni, accusando l’ex presidente di non aver voluto fornire sufficiente sicurezza alla Bhutto e invocando un’inchiesta indipendente dell’Onu per stabilire l’identità e il movente degli assassini. Le conclusioni saranno raccolte in un dossier che il segretario generale, Ban Ki-moon, dovrà a sua volta illustrare al Consiglio di Sicurezza. Se emergeranno pesanti indizi di colpevolezza a carico di qualche sospetto, l’organo esecutivo dell’Onu potrà adottare una risoluzione di condanna, imporre eventuali sanzioni o sostenere l’istituzione di un tribunale speciale, come già avvenuto in passato per il genocidio in Ruanda, per i crimini nella ex Jugoslavia e per l’omicidio del premier libanese Rafik Hariri. A capo dell’organismo inquirente dell’Onu è stato posto l’ambasciatore del Cile al Palazzo di Vetro. I suoi più stretti collaboratori saranno un procuratore generale indonesiano, Marzuki Darusman, ed un ex-ufficiale della polizia irlandese, Peter Fitzgerald, che è stato membro anche dell’altra commissione d’inchiesta sull’assassino di Rafik Hariri, ucciso il 14 febbraio 2005. Come nel caso libanese, il Palazzo di Vetro ha deciso di istituire la commissione indipendente su richiesta delle forze politiche che, all’epoca dei fatti, contrastavano il regime di Musharaff. Spesso infatti, l’obiettivo di chi invoca l’istituzione di una commissione d’inchiesta Onu, non è tanto quello di assicurare i colpevoli alla giustizia, quanto richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulle vicende interne del paese, riceverne la solidarietà e mettere in difficoltà il regime politico o lo stato nemico,
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Un uomo si dispera dopo l’attentato costato la vita alla leader popolare Benazir Bhutto. In basso, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon per mettere nel calderone tutti e nessuno, preservando alla maniera del celebre Gattopardo il potere faticosamente conquistato.
Ovviamente, ha aggiunto il ministro a scanso di equivoci, «potrebbe esserci la mano di attori all’interno del Pakistan o della regione. Ma vogliamo che venga alla luce tutta la rete di relazioni, scoprire chi ha cercato di “balcanizzare” il nostro Paese». Ovviamente, come sempre, l’inchiesta delle Nazioni Unite non potrà lanciare di sua iniziativa alcun procedimento legale. Si dovrà limitare a presentare le proprie conclusioni al Segretario generale, che poi deciderà il modo migliore per procedere. Sempre che, al momento opportuno, verranno accettate le prove presentate dalla commissione e non vengano, come in troppe altre occasioni, coinvolte altre realtà estranee ai fatti. Perché la verità, molto spesso, può distruggere piano congegnati con cura. E l’Onu troppo spesso si è dimostrato incapace di fermare questo processo.
sospettato di avere a che fare con l’atto criminale. Esemplare in questo senso, è la risoluzione 1636 (emessa nell’ottobre del 2005, dopo la conclusione delle indagini della Uniiic) che condanna l’omicidio del primo ministro libanese, affermando che il terrorismo è «una delle minacce più serie alla sicurezza e alla pace». Una formula vaga, adottata per non surriscaldare l’atmosfera pesante che ancora oggi si respira nel Paese dei Cedri.
A marzo ha iniziato il suo lavoro all’Aja il Tribunale speciale per l’omicidio Hariri. Probabilmente saranno chiamati alla sbarra quattro generali libanesi considerati i punti cardine del vecchio sistema di sicurezza instaurato in Libano dalla Siria: l’ex capo della polizia Jamil Sayyed, l’ex capo della guardia presidenziale Moustafa Hamdane, l’ex capo delle Forze di sicurezza interne Ali Hajj, e l’ex capo dei servizi dell’esercito Raymond Azar. I militari sono in carcere da quattro anni, ma il loro arresto si basa fondamentalmente sulle confessioni di un testimone rivelatosi poi poco affidabile. Resta il fatto che a cinque anni dall’omicidio si prospettano ancora tempi lunghi per una battaglia legale che si svolgerà soprattutto sull’attendibilità dei testimoni e sui risultati dell’indagine indipendente, svolta quando la scena del crimine era già profondamente alterata. L’ex responsabile della commissione Hariri, il procuratore tedesco Detlev Mehlis, ha avvertito che ulteriori indagini mettono a rischio la possibilità di fare effettivamente giustizia. Insomma, finora le commissioni d’inchiesta dell’Onu hanno prodotto pochi risultati e molte polemiche. In alcuni casi hanno contribuito marginalmente all’accertamento della verità. Si pensi alla vicenda della commissione Oil for Food, presieduta da Paul Volcker, che doveva far luce sullo scandalo del programma di sostegno alimentare all’Iraq in cambio di petrolio. Nonostante i pesanti indizi sul coinvolgimento dell’allora segretario generale Kofi Annan e sul figlio, alla fine solo qualche figura di secondo piano fu messa sotto accusa. E che dire poi delle commissioni sugli stupri e i traffici illeciti di cui si sono resi responsabili proprio i Caschi blu dell’Onu? Siamo ancora in attesa di conoscere la sorte di qualche militare in missione di peacekeeping che invece ha causato vittime e sofferenza. Inoltre, gli investigatori dell’Onu sono spesso tacciati di essere “di parte”e di non svolgere in piena autonomia il loro mandato. Si pensi al recente scontro tra Israele e gli Stati arabi, sulla richiesta di una commissione d’inchiesta per i recenti fatti della Striscia di Gaza e per il precedente assedio di Jenin. Per non parlare del caso Darfur e della richiesta di arresto per il presidente sudanese Omar Hasan Bashir per genocidio. Il capo di Stato africano ha irriso i magistrati della Corte internazionale, perché ha potuto contare anche sull’appoggio di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, la Cina, che in Sudan deve preoccuparsi dei suoi importanti interessi economici.
L’inchiesta Oil for food, gli abusi commessi dai caschi blu, le gravi mancanze degli investigatori nei Balcani: le indagini internazionali mancano troppo spesso il bersaglio
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La nuova presidenza prepara il valzer delle poltrone, Italia ancora fuori e avessero avuto ragione gli euro-ottimisti e, soprattutto, se il referendum in Irlanda non avesse bloccato il Trattato di Lisbona, la presidenza di turno svedese della Ue che è cominciata ieri con una solenne cerimonia alla presenza di re Carlo Gustavo XVI, dell’intero governo di Stoccolma e della Commissione europea, semplicemente non ci sarebbe stata. L’Unione europea avrebbe già avuto il suo presidente stabile in carica per cinque anni e il sistema delle turnazioni semestrali sarebbe stato profondamente rivoluzionato e ridotto alla gestione dei “vertici tematici”, formula con la quale a Bruxelles si definiscono le riunioni dei ministri dell’Economia, piuttosto che degli Interni o dei Trasporti.
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Ma il no irlandese, combinato con le resistenze di Polonia e Repubblica ceca (i cui presidenti non hanno ancora ratificato l’approvazione votata dai Parlamenti) e con le eccezioni giuridiche della Corte costituzionale tedesca (che ha condizionato il suo si a una legge nazionale che tuteli la supremazia del Bundestag sulle decisioni prese a livello Ue) hanno lasciato l’Europa nel guado e costringeranno proprio gli svedesi - tradizionalmente cauti rispetto ai grandi progetti comunitari - a trovare la strada per andare avanti. Con una complicazione in più: il ministro degli Esteri, Carl Bildt, è uno dei candidati forti alla successione di Javier Solana come “ministro degli Esteri” dell’Unione,
Tocca alla Svezia riunire i cocci dell’Europa di Enrico Singer ma poiché sarà proprio lui a dover fare da arbitro nel gioco delle nuove cariche europee, a Stoccolma si teme, con malcelato rammarico, che questa poltrona possa sfuggire alla Svezia che ci teneva di sicuro di più che a una presidenza di turno che, il prossimo 31 dicembre, passerà alla Spagna. Ma tant’è. In politica, e in
quella europea in particolare, fare troppe previsioni è sempre rischioso. A leggere il programma illustrato ieri dal premier Frederik Reinfeldt - il giovane conservatore (ha 43 anni) che è riuscito ad espugnare, nel settembre del 2006, la roccaforte della socialde-
Se l’Irlanda dirà finalmente sì al nuovo Trattato in ottobre, un vertice distribuirà i posti di comando e Berlusconi rischia un’altra sconfitta mocrazia nel Vecchio Continente - gli obiettivi della presidenza svedese si concentrano sulla lotta alla crisi economico-finanziara che rimane preoccupante - l’ultimo rapporto della Bce stima a 202 miliardi di euro le perdite
Nella foto grande l’ultima campagna referendaria in Irlanda. Da sinistra, Barroso, Bildt, Berlusconi e Blair. A fianco Angela Merkel
delle banche a causa dei bad loans, i crediti inesigibili, e un balzo della media del debito pubblico all’83,8 per cento contro il 66 del 2007 (quello italiano è già al 106,7) e sulle questioni ambientali anche in vista del vertice dell’Onu sul clima che si terrà a metà dicembre dicembre a Copenaghen e che dovrebbe fissare gli obiettivi del dopo-Kyoto.
Il vero snodo, tuttavia, sarà quello istituzionale. Perché anche i più scettici, ormai, scommettono che il referendum-bis convocato per ottobre in Irlanda darà finalmente via libera al Trattato di Lisbona. Se così sarà, cadranno anche le ultime resistenze di Polonia, Repubblica ceca e Germania e la Ue si adeguerà alle nuove regole. Con l’inevitabile corollario di una nuova spartizione di posti di potere. Da quello, inedito, di presidente stabile del Consiglio europeo (con mandato di due anni e mezzo rinnovabile fino a cinque anni) a quello, modificato, di responsabile della politica estera, fino ai rinnovi delle tradizionali poltronissime della Ue a partire dal presidente della Commssione. La Svezia ha già deciso di rinviare a novembre il vertice europeo che,
normalmente, si tiene in ottobre, proprio per attendere il risultato del referendum irlandese e aprire il grande valzer delle nomine.
Il candidato forte alla nuova presidenza stabile del Consiglio della Ue è ancora Tony Blair. Se la sua stella brillerà fino a novembre, la distribuzione delle altre poltronissime dovrà rispettare quella che è una legge non scritta, ma finora sempre rispettata: il dosaggio di personalità del centrosinistra e del centrodestra nei posti che contano. Così, al laburista Blair dovrà fare in qualche modo da contrappeso il già designato Manuel Barroso, conservatore, alla guida della Commissione europea. Se la presidenza del Parlamento europeo - la prima riunione dell’Assemblea eletta in giugno è prevista per il 14 luglio - dovesse andare a un socialista (il tedesco Martin Schulz?), allora la carica di “ministro degli esteri” spetterebbe a un conservatore e Carl Bildt era, a oggi, il pretendente migliore. Se la presidenza del Parlamento andrà, invece, al conservatore polacco Jerzy Karol Buzek (che ha strappato la candidatura a Mario Mauro), il socialista spagnolo Javier Solana potrebbe anche salvare il suo già ultredecennale regno sulla rappresentanza internazionale della Ue. In ogni caso, l’Italia sembra ancora una volta fuori dal risiko delle nomine di prima grandezza. Berlusconi ha già lanciato il nome di Giulio Tremonti come presidente dell’Eurogruppo. Ma anche questo premio di consolazione sarà da conquistare.
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La Spagna e la Francia richiamano i propri ambasciatori
Berlusconi e Ahmadinejad assenti dal vertice libico
Honduras, slitta di 72 ore il rientro a casa di Zelaya
Lula all’Ua: rivoluzione in salsa verde per l’Africa
PANAMA. Il presidente hondu-
SIRTE. Il presidente brasiliano
regno, Manuel Zelaya, deposto da un colpo di Stato domenica ha annunciato di aver rinviato il ritorno in patria, previsto inizialmente per oggi, dopo che l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) ha dato 72 ore ai golpisti per ristabilirlo nelle sue funzioni. Zelaya è diretto invece per il momento a Panama. «L’Osa ha dato 72 ore e condividiamo questa decisione. Avevamo previsto un ritorno in Honduras domani. Ma dal momento che l’Osa ha chiesto 72 ore, attenderemo questo termine per completare il ritorno a Tegucigalpa», ha aggiunto Zelaya durante una conferenza stampa a Washington, trasmessa dalla Cnn, al termine di una riunione dell’Oas. La risoluzione dell’Assemblea generale dell’Oas sottolinea che Zelaya «è il presidente in carica dell’Honduras» ed esige entro le 72 ore «il ristabilimento immediato, sicuro e senza condizione del presidente nelle sue funzioni». Il procuratore generale dell’Honduras, Luis Alberto Rubi, ha annunciato martedì dalla capitale, che Zelaya verrà «arrestato immediatemente» appena entrerà in Honduras, dove è accusato di diciotto crimini tra cui “tradimento” e “usurpazione di funzioni”. Nel frattempo, la Spagna ha richia-
Luiz Inacio Lula da Silva ha promesso il proprio sostegno ai Paesi africani per realizzare la “rivoluzione verde” nel continente. Lula è intervenuto ieri davanti ai 53 capi di Stato riuniti a Sirte, in Libia, per il 13esimo vertice dell’Unione africana (Ua), il cui tema ufficiale è lo sviluppo dell’agricoltura. Nel suo discorso, Lula ha assunto «l’impegno di aiutare l’Africa a promuovere la sua rivoluzione verde» che «non può prescindere dall’agricoltura familiare e deve creare occupazione». Lula si è anche espresso a favore della “rivoluzione”della bioenergia e della produzione di biocarburanti, suggerendo lo sviluppo della coltura della
L’Australia inaugura i “pestaggi al curry” Nel mirino dei teppisti i giovani immigrati indiani di Angelita La Spada rosegue l’ondata di violenze e di attacchi contro gli studenti indiani residenti in Australia e crescono le preoccupazioni in merito alla sicurezza della numerosa comunità di giovani, circa 90mila, presenti nel Paese. Gli attacchi hanno subito un’escalation nelle ultime settimane. A Sidney è stata lanciata una molotov contro un appartamento di uno studente, numerose le autovetture incendiate a Melbourne, innumerevoli gli studenti indiani molestati, picchiati, derubati e rimasti vittime di accoltellamenti. Migliaia di giovani sono scesi in piazza nelle principali città australiane in segno di protesta contro le rappresaglie e le ritorsioni ai loro danni e per chiedere una maggiore tutela da parte dei governi federali e centrale, e mentre il dibattito in seno al Paese infuria, le tensioni diplomatiche fra Canberra e Nuova Delhi continuano a covare, con l’India che chiede all’Australia di fare molto di più nella tutela dei propri cittadini suoi ospiti. Tra scaramucce diplomatiche e proteste studentesche, anche Bollywood ha deciso di boicottare il Lucky Country come meta di set cinematografici. E non è finita: il re dello star system indiano, Amitabh Bachchan, ha rifiutato una laurea ad honorem dall’Università di Brisbane. Sulla scia della recessione economica mondiale che ha colpito i paesi occidentali specie gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, gli studenti indiani hanno spostato la loro attenzione, puntando all’Australia come porto sicuro per i loro studi universitari, si pensi che 8 dei 41 atenei disseminati nel Paese risultano nella lista delle 100 università migliori al mondo. Ad essere colpita dunque è stata principalmente l’industria dell’istruzione australiana che rappresenta una delle più cospicue fonti di guadagno del Paese, al terzo posto dopo carbone e ferro, e che nel 2008 ha registrato un profitto di circa 12 miliardi di dollari. Gli studenti indiani, come quelli cinesi, hanno avuto un ruolo determinante in questa crescita, la loro presenza è raddoppiata negli ultimi tre anni, le cifre attestano oltre 80mila
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presenze su 415mila studenti stranieri residenti nel Paese. Secondo il portavoce della Federazione degli studenti indiani d’Australia, Gautam Gupta, attacchi sistematici ed altri crimini sono stati perpetrati contro gli studenti negli ultimi ventiquattro mesi e la polizia ha ignorato le rimostranze, con gli stessi studenti stessi incolpati di essere “facili bersagli” della malavita.
Le autorità australiane hanno visto nell’ondata di curry bashing ovvero di “pestaggi al curry” - come è stata denominata la serie di vessazioni nei confronti degli indiani - una violenta espressione di sentimenti come la gelosia e il risentimento dettati da motivazioni economiche, visto che gli studenti indiani per mantenersi agli studi sono soliti svolgere dei lavori part-time, contendendoseli con i giovani australiani. Il disagio e le tensioni sociali costituiscono un fenomeno dilagante specie nei sobborghi di Sydney, Melbourne e St. Albans - dove pestaggi ed episodi di violenza ai danni di emigrati del Subcontinente sono in forte aumento frutto di oltre tre decenni di un processo di ristrutturazione economica. Industrie, banche, uffici che un tempo impiegavano decine di migliaia di lavoratori, sono stati chiusi tra gli anni Ottanta e Novanta, condannando intere famiglie ad una disoccupazione e ad una povertà endemiche. I dati degli ultimi dodici mesi evidenziano un livello di disoccupazione del 18 per cento che, in alcune zone, sfiora addirittura il 40 per cento. Razionalità delle cifre a parte, un Paese che fa del multiculturalismo uno degli obiettivi nazionali e che ascrive la violenza perpetrata contro la comunità indiana a fenomeni di teppismo e di delinquenza comune, negando lo sfondo razziale, non può chiudere gli occhi di fronte ad un certo tipo di razzismo, quello culturale, che consiste nel credere che le differenze di cultura, valori e/o consuetudini di alcuni gruppi etnici/religiosi essendo “troppo differenti” potrebbero arrivare a minacciare “i valori della comunità”e la coesione sociale di un paese.
Alla base della violenza c’è la gelosia degli autoctoni, che accusano da tempo gli stranieri di rubare posti di lavoro
mato il suo ambasciatore in Honduras per consultazioni dopo il colpo di Stato contro il presidente Manuel Zelaya. A renderlo noto il ministero degli Esteri di Madrid. Il governo ha deciso di richiamare il proprio ambasciatore come parte degli sforzi internazionali «volti a ristabilire l’ordine democratico costituzionale», ha spiegato la nota. La Spagna sta cercando di convincere l’Unione Europea a effettuare la medesima misura richiamando i propri ambasciatori dall’Honduras così come hanno già fatto altri Paesi dell’America Latina. Il ministro degli Esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, ha descritto la nomina di Roberto Micheletti come una “farsa”.
canna da zucchero in Africa per produrre etanolo. Il leader brasiliano ha quindi difeso la sua visione di una maggiore cooperazione sud-sud, «come forza di attacco contro le iniquità presenti nell’ordine mondiale», e ha sottolineato come Brasile e Africa siano chiamati ad affrontare «sfide simili per lo sviluppo: lotta alla carestia e alla povertà e garantire la sicurezza alimentare alla nostra gente».Ospite del vertice, il leader libico Muammar Gheddafi ha espresso apprezzamento per il suggerimento di Lula di sviluppare bioenergie e biocarburanti, ma «a condizione che non vada a scapito della produzione alimentare». Immediata invece l’adesione di Gheddafi alla proposta di Lula di organizzare in Brasile un vertice con tutti i ministri africani per l’Agricoltura. Assenti al vertice il premier italiano Berlusconi e Mahmoud Ahmadinejad. Berlusconi ha deciso di annullare il viaggio a causa dell’incidente ferroviario avvenuto a Viareggio e ha comunicato la sua decisione in un colloquio telefonico avuto ieri sera con Gheddafi. Le autorità di Teheran non hanno invece motivato la decisione di Ahmadinejad di non partecipare al vertice, resa nota ieri mattina con un comunicato alla stampa.
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Tra gli scaffali. La materia di indagine del saggio è la psiche umana, il cui dinamismo è continuamente sollecitato anzitutto dalla nascita e la morte
Alle radici dell’aborto La genealogia del dramma che porta a togliere o impedire la vita nel nuovo libro di Claudio Risé di Riccardo Paradisi taneo e misterioso, avvertito appunto come una minaccia all’idea nevrotica, ma dominante nella nostra cultura, di un controllo totale della realtà. Una fantasia nutrita e alimentata dalla celebrazione acritica dell’onnipotenza tecno-scientifica svolta dalla comunicazione di massa. Il saggio di Risé non ha come tema insomma una critica all’attuale legislazione sull’aborto, non sostiene un’ideologia della vita, non muove dai presupposti di una filosofia del diritto o da formulazioni etiche. La materia di indagine di Risé è la psiche umana, luogo magmatico, concreto e incandescente, il cui dinamismo è continuamente sollecitato dai fatti radicali della vita, la nasci«Senonché l’aborta e la morte anzitutto. Eventi to - come scrive Claudio Risé de che la rappresentano. Si radicali le cui rappresentazioni ne La crisi del dono. La nascita tratta insomma di individuare emergono nei sogni, nei miti e e il no alla vita (edizioni San le radici archetipiche di quel- nei simboli degli uomini di oggi Paolo) - non è solo materia di l’inclinazione a togliere o impe- come in quelli di ieri. «L’aborto cronaca quotidiana e battaglia dire la vita, che porta a rifiuta- non nasce solo dalla malvagità politica. Esso non inizia con le re uno dei tratti più caratteristi- o dalla distrazione individuale, leggi che lo legalizzano, così ci dell’esistenza umana umana, o dall’opportunismo di gruppi come non era “un delitto come ossia la sua costante trasforma- politici inconsapevoli e irreun altro”quando era considera- zione, il suo dinamismo spon- sponsabili, esso affonda le sue to un crimine. La radici in un terreno psipolemica politica cologico, cognitivo ed sull’aborto è per affettivo molto questo quasi sempiù vasto ed è aliClaudio Risè è nato a Milano il 19 novembre pre inadeguata. Perdalla mentato del 1939. Si è laureato in Scienze Politiche, ché lo si considera maggiore tenta“mèntion Internationale” a Ginevra, presso soprattutto come un zione regressiva l’Institut Universitaire de Hautes Etudes Infare male, un malafdi sempre preternationales nel 1963. Docente di Psicologia fare, senza indagare sente nella psidell’Educazione alla Facoltà di Medicina e la sua natura in che umana: quelChirurgia, Università di Milano Bicocca, è quanto malessere, la di uccidere il presidente dal 2006 della Fondazione Piccolo essere nel male, in nuovo, lo svilupTeatro della Città di Milano-Teatro d’Europa. Dal una situazione di po, il cambiamento, ap1976, è attivo nel campo della Psicologia Analitica. È forte disordine e dipena comincia a prendePsicoterapeuta, e giornalista professionista. Redattore sagio». Ecco, è nelle re forma. Prima che nade L’Espresso dal 1963, ne ha poi diretto il Supplemenacque profonde di sca, e ti costringa a camto economico dal 1969 al 1973. È quindi stato Inviato questo disagio che biare con lui». A prendeSpeciale al Gruppo Corriere della Sera, Vicedirettore di Claudio Risé, psicare cioè coscienza della Espansione, Inviato speciale a La Repubblica dalla nalista di scuola propria finitudine fisica fondazione del giornale; poi Condirettore di Tempo IlJunghiana e tra i e dell’illusione della prolustrato, dove dirigeva. È inoltre editorialista per temi maggiori studiosi pria onnipotenza. «Di di psicologia sociale ed educativa sui quotidiani: il dei temi del maschifronte alla nascita di un Giornale, Avvenire e, con una propria rubrica settimale e della paternità, altro essere, evento che nale, Pensieri e Passioni, su Il mattino, di Napoli. si immerge senza rilo trascende, l’uomo può serve con l’intento manifestare la sua voer ora il dibattito sull’estensione del diritto di abortire alle minorenni senza il coinvolgimento e il consenso dei genitori è circoscritto alla Spagna di Zapatero, dove la maggioranza parlamentare sembra seriamente intenzionata ad approvare una legge di ulteriore liberalizzazione della pratica abortiva. Ma c’è da attendersi che il dibattito esca dalla penisola iberica – dove il 70% degli spagnoli, compreso il 56% dei socialisti, è contraria all’iniziativa di Zapatero – per arrivare anche in Italia. Imbarazzando tutti quelli che, a destra come a sinistra, hanno trasformato la riflessione sull’aborto in un tabù, qualcosa da tenere fuori dal dibattito pubblico, nella convinzione che i conti con “l’interruzione di gravidanza” la nostra coscienza collettiva li abbia fatti e li abbia anche chiusi.
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di cogliere e portare in superficie, alla coscienza individuale e collettiva, le sue cause rimosse: «La piena comprensione del dramma dell’aborto e della vicenda di uccisione del figlio, del nuovo essere umano che in esso si compie, ci chiede un ulteriore profondo sforzo per svincolarci dagli aspetti strumentali della polemica politica, e dall’effetto fatalmente banalizzante della comunicazione mediatici». Per questo Risé ripercorrere nel suo studio la genealogia della tragedia abortiva lungo tutta la storia della psiche umana, utilizzando il prezioso materiale delle narrazioni profon-
“
La polemica politica è quasi sempre inadeguata: si considera la pratica abortiva come un fare male, senza indagare la sua natura in quanto malessere in una situazione di forte disordine
”
l’autore
Sopra, la copertina del nuovo libro di Claudio Risé “La crisi del dono”. In basso, un’immagine dello psicanalista milanese
lontà di potenza, in opposizione alla forza del sacro e della natura (che sono poi i due volti, quello simbolico, trascendente, e quello biologico, immanente del vivente). Il modo che l’uomo ha di opporsi al flusso vitale in cui comunque è immerso, è rifiutare la nuova nascita, cedendo alla fantasia onnipotente di limitare il tempo a se stesso, di rinchiudere la storia, lo sviluppo, il futuro, nella propria immagine».
I miti hanno sempre rappresentato questa costante tentazione del vecchio potere che si oppone al nuovo, alla nascita, alla trasformazione, rappresentando come demoni le forze contrarie per fini egoistici alla manifestazione e allo sviluppo di ciò che è inedito. La religione cristiana tra tutte incarna lette-
ralmente questo mito nella vicenda storica e salvifica di un dio che si fa uomo, che muore e rinasce sconvolgendo col proprio sacrificio le leggi conosciute e l’ordine razionale che stava inaridendo un mondo incapace da solo di redenzione. Erode, il vecchio negativo, ricorda Risé, “turbato” dalla nascita del Cristo, cerca di utilizzare i Magi per impadronirsi di Gesù. Fallito questo tentativo ordina la strage degli innocenti, diretta ad uccidere tutti i fanciulli di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù. È la reazione disperata del vecchio re alla comparsa del fanciullo portatore di trasformazione e rinnovamento. «Quello di Erode – spiega Risé - è il vecchio io disorientato e pauroso, preda di fantasie paranoidi di controllo ossessivo sulla realtà, che tenta
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che la vita prodotta in laboratorio è la via maestra verso i peggiori e più sofisticati totalitarismi, un orizzonte anche peggiore dei più neri incubi orwelliani, un mondo dove non soffierebbe più il vento della libertà e dell’amore. La nascita del resto, la cui vita s’è accesa in un atto di dono e d’amore, è una minaccia reale per un paradigma sociale fondato sul narcisismo, il razionalismo del dare e dell’avere, la volontà paranoide di controllo totale sulla realtà, l’incapacità del donarsi all’altro. Per questo, ci ricorda Risé, la chiusura al figlio è all’origine di quella crisi del dono che sembra il fenomeno più acutamente caratterizzante il cambiamento attuale nella relazione tra uomo e donna.
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Quel figlio «che non viene più desiderato, oppure che sempre più spesso non è più veramente accolto come altro, come terzo, ma come proiezione narcisistica. O addirittura ucciso prima della nascita». E che il discorso dominante di questa tarda modernità porti alla costruzione ideologica di una società sempre più chiusa alla nascita e dunque alla trasformazione lo dicono le inesistenti politiche per le famiglie che sembrano proprio voler scoraggiare la spinta alla vita delle nuove genele razioni, sempre maggiori disinvolture in campo bioetico, l’aggressione sistematica alla famiglia come comunità naturale organica che ha caratterizzato, come istituzione morale e giuridica, la civiltà occidentale e in particolar modo quella cristiana. Una civiltà verso la quale il relativismo dogmatico portato in punta di lancia da elite minoritarie ma agguerrite e potenti nutre del resto un odio profondo. L’estensione del concetto di famiglia alle unioni gay o il tentativo di introdurre forme familiari surrettizie con i Pacs e i Dico è peraltro la dimostrazione di come “la pressione se-
Di fronte alla nascita di un altro essere, evento che lo trascende, l’uomo può manifestare la sua volontà di potenza, in opposizione alla forza del sacro e della natura
di mantenere il potere malgrado il proprio tempo sia ormai passato, uccidendo tutti i contenuti nuovi». È proprio perché ogni nascita rinnova il mondo e consente l’irruzione del non manifesto nella vita ordinaria che un ordine politico sclerotizzato e timoroso d’essere scon-
volto organizza sempre più sistematicamente la sua presa sull’origine della vita, nella pretesa di farne oggetto del suo controllo. Non a caso il biopotere descritto da Michel Foucault si è dato, ormai da decenni, l’obiettivo di controllare la vita dalle sue origini, obiettivo
che sta perseguendo con sempre maggiore efficacia grazie anche alla complicità di una scienza che sembra aver perduto ogni intelligenza morale. Non a caso, nota Risé, la nascita di un bimbo viene oggi «sempre più vista e auspicata come esperienza tecno-scientifica, frutto dello sviluppo del laboratorio, invece che come esperienza dell’amore umano».
Senza che quasi nessuno denunci ciò che è evidente: e cioè
”
colarizzante del diritto” si stia esercitando soprattutto sul matrimonio per indebolirne quegli aspetti «legati ad un’interpretazione trascendente della relazione uomo donna e dei fenomeni ad essa correlati, per trasformarlo gradualmente in un diritto individuale tra persone non necessariamente di sesso diverso, organizzato in forme mobili e temporanee». Non è una riflessione politicamente corretta quella di Claudio Risé, anzi è il suo un discorso scomodo e urticante per il conformismo intellettuale che domina l’intelligenza d’un Occidente che sembra volersi consegnare al suo avviato tramonto senza opporre nessuna resistenza ma anzi attirato dalle luci artificiali della notte della sua anima. Una decadenza il cui sintomo più esplicito è lo sviluppo di relazioni sempre meno durature, ma anche sempre meno appassionate, «gli interrogativi crescenti sulla propria capacità di amare vissuti dagli individui con angoscia o depressione sempre maggiore, le patologie del desiderio e della sessualità, tutti fenomeni che descrivono un quadro delle relazioni tra i due sessi, che rivela a occhio nudo diminuite energie e e minor interesse l’uno per l’altra».
Ma è in questa linea d’ombra, dove ciò che è essenziale lo specifico umano - è seriamente minacciato, che le forze della conservazione assumono una forza e una propulsione rivoluzionaria. La vita e ciò che preme dietro di lei infatti è più forte di un’ordine artificiale che porta in se stesso i dispositivi per la propria distruzione e che, come si dice, ha la catena misurata. Tanto più che «Non è la prima volta - come ricorda infine Risé - che nella sua storia l’umano costruisce idoli materiali per sottrarsi al dono di sé. Dono che ha la sua immagine vivente nel figlio, nel bimbo che nasce. Spinto dall’infelicità e dalla solitudine, ha poi riaperto il cuore all’accoglienza dell’altro da sé, la donna e l’uomo, ed il suo dono, il figlio».
spettacoli
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Eventi. Domani sera dirigerà l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nella magnifica cornice della cavea di Palestrina
Un tempio per il divo Morricone di Francesco Lo Dico addove i romani votarono un tempio alla Dea Fortuna, e tributarono alla bellezza un lembo di paradiso che dalle alture dell’antica Praeneste discende fino al mare di Anzio, comparirà col suo passo leggero e la bacchetta in pugno, e farà correre miele dagli ulivi come vuole la leggenda del posto. Domani sera alle 21, in cima alle terrazze di Palestrina, incantevole cittadina poco fuori Roma, arriva il maestro Ennio Morricone alla guida dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia al completo, oltre duecento elementi fra coro e orchestrali, per quello che si preannuncia come il concerto di quest’estate. Un evento fortemente voluto dalla Banca di Credito Cooperativo di Palestrina (che celebra un secolo di attività e solidarietà), che vedrà coinvolta l’intera città e sarà aperto a tutti.
L
Delizia per gli occhi, che nuoteranno sospesi tra cielo e terra in una cornice suggestiva, e soprattutto per le orecchie. Farà caldo, ma a giudicare dalla scaletta, sulla platea intorno al tempio e la cavea di Palazzo Barberini fioccheranno i brividi. Ci sono in programma, tra le altre, le indimenticabili colonne sonore realizzate dal compositore per La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, Indagini su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Mission di Roland Joffé, Legami di Pedro Almodovar, Vittime di guerra di Brian De Palma, Nostromo di Alastaire Red e Sostiene Pereira di Roberto Faenza. Titoli, trascelti da una discografia sterminata e tutta somma, che dimostrano come nella città che diede i natali a PierLuigi da Palestrina, fondatore dell’Accademia di Santa Cecilia, non potessero risuonare note più illustri. Decano di una polifonia alta ma che ha fatto sognare le masse a tutte le latitudini, esecutore testamentario che ha messo in liquidazione con il genio le accademiche quisquilie tra spartito colto e faciloneria popolare, l’ennesima esibizione di Ennio Morricone davanti a un pubblico sconfinato non farà che confermare il senso di una carriera. Pierluigi post-moderno, il compositore romano è un professore del contrappunto. Di quel fulmineo incontro che ha
congiunto la sincope della nota a quella sincope dell’anima che ha trovato il suo riflesso nel cinematografo. Un uomo che ha saputo trasformare ogni singola semiminima tracciata dalla sua matita in un nostro ricordo. Le note tenute di cui suonano i rimpianti, i walzer in tre quarti che danzano con la leggerezza, le pause lunghe della perdita e i crescendo di un sentimento. Nella musica di Morricone sfilano immagini che hanno violato costantemente il copyright d’autore. Brani così mischiati alle nostre storie che sono diventati diritti musicali di tutti. Come l’eterno commiato di C’era una volta in America, che ha mandato a letto presto tutti i Noodles che inseguono i propri fantasmi perduti. O come l’abissale farragine che si stringe intorno a tutti i Drogo che hanno atte-
so qualcosa nel proprio Deserto dei tartari.
Sulle note dell’uomo originario di Arpino, ha ballato l’Italia sbarazzina della voglia matta e quella animosa dello spaghetti western, quella rabbiosa prima della rivoluzione e quella delusa e indolente degli anni ’80, dove stanno tutti bene. Sudore e febbre, muscoli e cuore. Il metronomo del maestro ha scandi-
to il tempo di un’intera nazione al ritmo di ventiquattro fotogrammi al secondo. Con le sue composizioni ci si è sentiti più gaglioffi o più straccioni, ora liberi ora schiavi. Ma sempre vivi e disposti a credere nonostante tutto, che si possa galleggiare su un oceano a bordo del proprio pianoforte. Diplomatosi più di mezzo secolo fa in tromba, strumentazione per banda e composizione al con-
servatorio di Santa Cecilia, e perfezionatosi poi in musica corale e direzione di coro, il maestro è uno degli ultimi esempi di musicista totale, poliedrico e privo di allergie, polifonico per vocazione perché policromo per natura. A suo agio tra i banchetti del rione popolare di Trastevere, dove ha vissuto con la moglie Maria e i bambini per molti anni, come nelle parate degli intoccabili di Hollywood,
In programma alcune tra le colonne sonore più celebri. Da ”La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo a ”Mission” di Roland Joffé Morricone è camaleontico come la sua musica, ma infinitamente riconoscibile. «Se uno sfugge alla moda, che quando diventa moda è già finita, certamente avrà fatto qualcosa che resisterà di più», ripete spesso il maestro a chi gli chiede qual è il segreto dell’eterna giovinezza della sua musica. «Le muse ispiratrici sono gli studi, gli amori musicali che uno ha acquisito e che diventano il nostro sangue. Metabolizziamo tutte queste esperienze, i nostri studi, le tecniche, e poi il film. A un certo punto il film diventa importante perché stimola all’eseguire scrivendo il pensiero».
Ennio Morricone dirigerà un concerto-evento, domani sera a Palestrina, nella splendida cornice del Tempio della Dea Fortuna (nella foto in alto): uno schermo gigante diffonderà le immagini nel piccolo centro vicino a Roma. Il programma, naturalmente, prevede alcune delle sue più celebri colonne sonore.
Muse, dice il maestro. Le stesse sempre più sfuggenti e schizzinose che se la danno a gambe di fronte al ciarpame cellophanato di molta musica attuale. Musica senza memoria, tunz tunz che batte il tempo di una sempre più soffocante deprivazione sensoriale che rimescola le carte con un’overdose pneumatica. Un martello che batte il vuoto. Una landa sterile e morta in cui Ennio Morricone suona ancora il suo flauto magico. Venerdì sera, nel tempio della Dea Fortuna dove un tempo si interrogavano gli oracoli, la musica del maestro ci interrogherà ancora una volta. Lassù a Palestrina, fra terra e cielo, ripasseremo i nostri sogni e le nostre storie. Per capire magari che cosa vogliamo farcene.
spettacoli teve Earle non ha mai perso occasione di ricordare ai giornalisti o ai suoi fan come Townes Van Zandt fosse per lui il miglior compositore e musicista country-folk mai esistito. Una figura di culto nel mondo del folk, una fonte di ispirazione per tantissimi artisti di eco mondiale, Bob Dylan, Neil Young, Emmylou Harris, Nora Jones, Robert Plant, Dixie Chicks. E ancora, Rodney Crowell, Hoyt Axton, Nanci Griffith. Tutte le stelle del country-rock americano hanno sempre riconosciuto la sua genialità, e dedicato dei tributi. Basta ascoltare alcuni suoi più grandi successi come If I Needed You, To Live Is To Fly, Cocaine blues, o Our mother the mountain per capire come possa essere diventato un culto, un simbolo, una fonte di ispirazione, musicale e personale per chi fa musica. L’amore che Steve Earle nutre da sempre per lo stile del leggendario troubadour texano si traduce oggi in un nuovo disco. Townes, in uscita dal mese di maggio, è già alla sesta posizione delle classifiche Billboard. Niente male per un album fatto solo di cover e che a
S
Musica. In testa alle hits di Billboard il nuovo album-cover “Townes”
E Steve Earle cantò Van Zandt di Valentina Gerace
Il disco offre quindici tra le migliori canzoni del chitarrista e cantautore anni Sessanta. Brani che hanno il sapore di un romanzo triste, tragico, ma sicuramente vero e appassionato
differenza di tanti dischi commerciali del momento, non riceve il giusto supporto dei media come televisione e radio. Steve Earle sceglie quindici tra le migliori canzoni del chitarrista e cantautore anni Sessanta. Sceglie tra i brani che più gli stanno a cuore, con cui è cresciuto musicalmente. E di cui condivide maggiormente le tematiche.
Un realismo di fondo in effetti caratterizza le canzoni di Van Zandt. Parole che se raccolte potrebbero essere il contenuto di un romanzo, triste, tragico, ma sicuramente vero, pieno di passionalità e verità. Parole di un cowboy solitario, pensieroso, pieno di paure, sofferenza. Un uomo debole che si domanda spesso se l’amore sia davve-
ro la risposta ad un atteggiamento di rifiuto nei confronti di una vita ostile. È infatti di tematiche esistenziali che sono impregante le sue ballate country. In Don’t Take It Too Bad, ad esempio Earle-Van Zandt consiglia di non porsi troppe domande sulla vita. White Freightliner Blues è lo specchio di una mente confusa, che canta la morte di un amico. Due canzoni prendono il nome di una donna, Loretta e Marie, due ballate blues-folk. L’ultima dedicate a una donna incinta che viene a mancare senza dar vita al suo bambino. Towes contiene poi altri classici tra cui Pancho and lefty (realizzata anche da Willie Nelson e Merle Haggard nel 1983), To Live Is to Fly, Dead man walking, White Freightliner Blues, Delta Momma
Qui sopra, un’immagine del chitarrista Townes Van Zandt. In alto e a sinistra, l’artista Steve Earle, che omaggia Van Zandt con l’album-cover “Townes”: quindici tra le migliori canzoni del passato reinterpretate nel disco in chiave sentimentale
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Blues e Don’t Take It Too Bad. Lo splendido folk di Rake e il rock elettrico di Lungs. Una romantica versione di Colorado Girl una ballata che entra nel cuore e che testimonia come Townes non sia il solito disco che raccoglie standard già ascoltati prima. Ma è un’esperienza intima, estremamente personale per Earle, che realizza forse uno tra i migliori album della sua carriera. Ad accompagnarlo con la voce la moglie Allison Moorer, il figlio, (nel brano Mr.Mudd and Mr. Gold), non a caso di nome Townes Earle e una band formidabile e piena di entusiasmo. Chitarra acustica (Tom Morello), mandolino (Tim O’Brien), banjo (Darrel Scott), dobro, violino (Shad Cobb) e mandolino. E ancora basso, armonica e percussioni eccellenti conferiscono all’album una firma inconfondibile, quella di Steve, che pur personificando il suo mito musicale, e proponendo brani non suoi, mantiene una forte coerenza al suo genere folk country di sempre, e rende Townes quasi un proseguimento delle sue precedenti produzioni. Ogni singolo brano del disco infatti obbedisce perfettamente al suo stile di sempre. A parte il più reggae e sperimentale The devolution starts now del 2004. Townes è il risultato di una miscela di country, folk, bluegrass. Una chitarra tinta di tradizione e polvere venuta dal profondo Sud.
Una voce e una band che rimandano ai miti del country, non ultimo Johnny Cash. Un personaggio sicuramente rimasto sempre un po’ dietro le quinte delle scene musicali quello di Townes Van Zandt. E appunto per questo, merita di certo di essere “fotografato” nei suoi momenti artistici migliori e più brillanti. L’album Townes non è solamente un tributo alla sua musica. O la copia dei suoi brani migliori. Ma la dimostrazione di come Steve Earle sia lo specchio del suo maestro. Una simbiosi che si traduce nello stile, nel genere musicale, nella modulazione e raucedine della voce. E non solo. Un disco che evidenzia come i due personaggi siano simili anche intellettualmente. Come Townes Van Zandt, Steve Earle non è mai stato famoso per la sua voce o per le sue capacità tecniche musicali raffinate. Il suo stile è rustico, musicalmente, nello stile e nei contenuti, tradizionalmente country. Sono le sue canzoni, i riff delle sue ballate, la sua acuta immaginazione, i suoi testi, le emozioni che regalano che lo hanno reso un chitarrista di culto. Un personaggio raffinato nel suo genere, capace di incidere dei dischi memorabili, storici, da collezione.
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da ”Asharq Alawsat” del 29/06/2009
L’Iran e la scomparsa dei fatti di Abdul Rahman Al-Rashed assolutamente ridicolo che i media siano stati accusati di aver esagerato nella descrizioni degli eventi accaduti in Iran. Il capo d’imputazione è che i giornalisti siano scesi in piazza con i manifestanti, anziché fare il loro “mestiere”, che sarebbe stato quello di rimanere in silenzio, riducendo gli spazi di copertura informativa su stampa e televisione.
È
Piuttosto quest’accusa andrebbe fatta contro coloro che sono rimasti in muti sulla triste vicenda iraniana, in maniera che tutto ciò che è successo rimanesse coperto dall’ignoranza. Sono costoro che andrebbero messi sul banco degli accusati. E non coloro che hanno fatto la cronaca fedele di questi giorni.Tutti i canali di stampa e televisione, a livello globale, hanno cercato di fare di tutto per coprire le notizie dall’Iran. Le controverse dimostrazioni di piazza e gli eventi politici che sono seguiti, sono tutte notizie di grande rilevanza. Fatti che hanno avuto una eco dal Brasile alla Germania, alla Cina, come succede nella normale catena degli venti mediatici. Niente di diverso da ciò che accade normalmente in questi casi. Non succedeva un fatto così importante dal momento dell’invasione dell’Iraq. Ed è stato semplicemente normale seguire quegli eventi con le orecchie tese e gli occhi puntati. Le proteste iraniane hanno fatto stare in apprensione sia i governi arabi che quelli occidentali, pronti a cogliere ogni segnale, per 24 ore al giorno, di ogni cambiamento o novità giungesse da Teheran. Gli organi d’informazione non hanno né esagerato gli eventi e neanche erano preparati a ciò che sarebbe successo. Abbiamo riportato gli eventi così come avvenivano, se-
guendo ogni sviluppo, né ci è mai passato per la mente che dei risultati elettorali potessero provocare una simile reazione. Centinaia di migliaia di iraniani che scendevano nelle strade per protestare contro il furto del loro voto, per gridare la rabbia contro il regime, in ben cinque città iraniane. E sono stati giornalisticamente coperte anche le iniziative del campo avverso, cioè quelle organizzate dai sostenitori del governo e di Ahmadinejad, che hanno forzato la Guida (Ali Khamenei, ndr) ad interferire su eventi che avranno influenza ben oltre i confini del Paese.
Appena sono stati espulsi tutti i diplomatici stranieri è cominciata l’azione repressiva dei Guardiani della rivoluzione e il sangue ha cominciato a colorare la protesta. Il mondo del giornalismo ha risposto secondo gli standard tradizionali nella copertura di queste vicende che, ripeto, riguardavano la gente comune, così come i governi della regione e quelli di tutto il mondo. Ciò che sta succedendo in Iran potrà influenzare anche l’Iraq, la Palestina, il Libano, la Giordania, l’Egitto, lo Yemen, il Pakistan, l’Afghanistan e tutti Paesi del Golfo. Per tutte queste ragione come sarebbe mai stato possibile ignorare gli eventi iraniani e spostare l’attenzione su faccende meno interessanti nell’agenda delle notizie? Non c’è dubbio che non vi sia stata alcuna esagerazione da parte dei media. Anzi, siamo riusciti a mala pena a dare le notizie indispensabili, visto che, dalla secon-
da settimana delle proteste, è stato messo il bavaglio della censura sull’opposizione interna. La domanda più corretta da farsi sarebbe invece se ci siano stati degli organi d’informazione che abbiano volutamente abbasato i toni su tutta la vicenda. Qualcuno potrebbe aver avuto interesse a mantenere integra l’immagine dell’Iran. Uno Stato islamico che non poteva essere implicato in una frode elettorale così evidente.
Un Paese che doveva sembrare scevro dai conflitti e dalle guerre di potere, ben conscendo quale fosse la posta in gioco. I network e gli organi di stampa che hanno agito in questa maniera, con la censura dei fatti, assomigliano molto a quelli che durante i primi tempi della guerra freddda e del confronto con l’Unione Sovietica facevano informazione nell’Europa orientale. Insistevano nell’affermare che tutto era soltanto e puramente propaganda occidentale.
L’IMMAGINE
Se il fascismo è stato il male assoluto è perché si sottace il “male rosso” Un giorno sì e l’altro pure troviamo esplicite professioni d’antifascismo, anche sui media. L’antifascismo diuturno, pervicace, gridato e ostentato rischia d’apparire strumentale, opportunista e di maniera. Il ricordo d’infamie e orrori del passato regime potrebbe servire a offuscare il presente, con i suoi difetti e la scarsità d’efficienza e meritocrazia. Purtroppo la gran maggioranza degli italiani approvò Mussolini, negli anni del consenso. Noi dovremmo imparare dal pragmatismo non ideologico degli statunitensi e dalla loro diffidenza – sana e costante – per il potere politico: ogni Presidente può restare alla Casa Bianca per un periodo massimo di 8 anni (2 mandati). Nell’Italia contemporanea è considerato reato il saluto romano a braccio teso, ma non il saluto marxista comunista con pugno chiuso. Un opportunismo doppiopesista contrappone la dittatura rossa “dai buoni progetti” alla dittatura nera cattiva. Anche Gianfranco Fini dice che il fascismo è stato il male assoluto: va bene; tuttavia si sottace il “male rosso”.
Gianfranco Nìbale
LA TUTELA DEL CITTADINO È strano che a Napoli i responsabili della Regione e il primo cittadino siano rimasti saldamente al loro posto, mentre il premier che è sempre attaccato per la conduzione della sua vita privata, per la sinistra si dovrebbe dimettere. Evidentemente il Cavaliere rappresenta un’icona che per la sua capacità dinamica sta cambiando il volto del Paese in bene ed è ciò che dà fastidio: è segno che ci sono altri poteri che vogliono influenzare l’andamento di uno Stato. È su questo che gli inquirenti dovrebbero indagare, anche perché se si vuole analizzare l’esempio morale della politica sugli italiani, basterebbe approfondire su molte decisioni del passato che riguarda-
vano temi etici, dall’indulto alla droga, come effetto sui cittadini che non si sentivano tutelati nella legittima declinazione del proprio stato di diritto.
Bruna Rosso
LA MARCEGAGLIA E L’INDUSTRIA La Marcegaglia richiama la necessità di riforme veloci per non imballare il sistema economico delle imprese italiane, ma dà la sensazione di ripetere alcuni schemi che erano di Luca di Montezemolo, quando sollecita l’azione di una politica responsabile appieno verso l’imprenditoria . Le riforme le vogliono fare tutti ma solo il nostro governo con fatica cerca di introdurle, anche perché nella geografia politica del lavoro ci sono troppe situa-
Pausa di riflessione Il luogo più adatto per meditare? La toilette! Almeno secondo gli artisti che hanno realizzato questi coloratissimi wc, in mostra nella piazza principale di Kiev, in Ucraina. L’invito per tutti i passanti, è di sedersi sull’asse per rilfettere sulla crisi economica. In base ai dati forniti dall’Unicef 2 miliardi e mezzo di persone vivono ancora senza servizi igienici e per questo esposti a seri rischi sanitari
zioni di contrasto. Una di queste riguarda l’incentivazione alla crescita della piccola imprenditoria, visto che una seria azione economica delle banche non ha ancora allargato il credito.
Giuseppe Caserta
CARNEFICINA NELLE STRADE Nel 2007 ci sono stati, nelle strade italiane, 2.269 morti e 238.718
feriti, con costo economico collettivo di 21 miliardi di euro, nella colpevole indifferenza generale. Nelle città italiane si muore molto più che in quasi tutte le altre città europee, pure per manto stradale dissestato, buche, dislivelli, avvallamenti, crepe e solchi, che trasmettono scossoni e sobbalzi ai veicoli circolanti. La strage è concausata anche dall’insuf-
ficienza di strade. La velocità media è estremamente bassa nelle nostre statali (30 km all’ora nel Veneto, secondo Confindustria locale) e relativamente bassa anche nelle autostrade. La costruzione d’una strada in Italia può durare quanto una vita umana, mentre in Paesi esteri basta una decina d’anni o meno.
Giancarlo Pavone
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quella cravatta con i colori della scuola
ANDIAMO AVANTI… MA GUARDANDOCI INTORNO Nasce in queste ore dall’incontro tra alcuni protagonisti della vita pubblica italiana e un gruppo di esponenti del mondo dell’Università, della cultura, delle professioni e dell’economia, Italia Futura. Un luogo di ideazione civile politica ed economica, così come l’hanno definita i promotori Luca Cordero di Montezemolo, Corrado Passera e Andrea Ricciardi. Gli stessi tengono a precisare che la neonata associazione serve a promuovere il dibattito civile e politico sul futuro del nostro Paese, andando finalmente oltre le patologie di una transizione politica infinita e ripetitiva. Uno strumento di mobilitazione libero, agile e trasparente che vuole dar voce a chi non si rassegna a contribuire alla vita pubblica solo il giorno delle elezioni. Credo che tutto quanto sopra rappresentato possa pienamente aderire al progetto della Costituente di Centro verso quello che all’ultima direzione nazionale il nostro presidente Ferdinando Adornato ha etichettato come il partito
Consentimi un grugnito minaccioso per la tua incomparabile malignità nell’appropriarti della mia lettera al Neuburg. Gli avevo scritto una letterafreddissima, senza sbilanciarmi, poi ho ricevuto il tuo appello patetico, e ho immediatamente stracciato la vecchia effusione e ho spedito una composizione deliziosa, alla Micawber. E non andare in giro a deridere la mia cravatta con i colori della scuola. Odio le cravatte con i colori della scuola. Non ne posseggo nessuna. Ora cercherò di accedermi una sigaretta russa con aria libertina, e sembrerò molto sexy davanti alla mensola. Ma non funziona. Sotto il mio aspetto esteriore russo sono destinato ad essere britannico. Ma non prendertela sempre con la mia cravatta. Fai semplicemente finta che non ci sia. In ogni caso era una lettera dolce, e comunque diceva quel che penso sinceramente di Pamela Johnson, ma se avessi immaginato che lei l’avrebbe letta, avrei aggiunto un brano lungo e indecente su quella sua musa piccina dal naso che cola. Questa mattina di maggio sa innaturalmente di chiesa. Gli uccelli cantano l’Ave Maria. I miei germi mi dicono che l’Ave Maria ha il suono di una malattia venerea. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
IL VALORE DELLA DEMOCRAZIA Dittatura, democrazia, libertà, laicismo, religione… tutte parole grosse che, spesso, in Italia, siamo abituati ad usare un po’ a sproposito, dimenticandoci cosa significano, abituati, come siamo, a dare tutto per scontato. Nel frattempo in Iran si susseguono violente repressioni con morti e feriti per le strade. Le immagini mi tornano alla mente in rapida successione, i ricordi si accavallano confusamente. Cosa ne sappiamo noi dell’Iran? Cosa ne so io? La rivoluzione islamica di Khomeyni per me era solo un famoso evento avvenuto nell’anno della mia nascita, una rivoluzione di cui ebbi notizia e coscienza per la prima volta soltanto leggendone le cronache romanzate dal best seller di Ken Follet. Recentemente poi vidi Persepolis, la meravigliosa riduzione cinematografica del fumetto di Marjane Satrapi. Attraverso gli occhi della protagonista, le vicende iraniane assumevano una prospettiva a-storica, diventando universali: vicende di sempre e di tutti, di uomini e di donne comuni che nella vita di tutti i giorni si trovano a misurarsi con l’estremismo religioso contro la tolleranza e la laicità, con la dittatura contro la libertà, con ciò che si ritiene giusto contro ciò che è permesso dalla faq_h (la riduzione giurisprudenziale della sharì’a islamica, la “legge di Dio”). Infatti, anche un regime modernista, come quello dello Shah, che promuoveva libertà politiche quali il voto alle donne o la laicizzazione delle scuole, ma che mancava la moderniz-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
2 luglio 1985 Viene lanciata la missione Giotto dalla base di lancio di Kourou 1987 Leonilde Iotti è la prima presidente della Camera dei Deputati donna 1989 Tzannis Tzannetakis è Primo ministro della Grecia 1990 In Arabia Saudita 1426 pellegrini muoiono schiacciati dalla folla alla Mecca 1991 Durante un concerto dei Guns N’ Roses, Axl Rose salta in mezzo al pubblico per sottrarre la videocamera ad uno spettatore che li riprendeva illegalmente 1992 Il governo canadese chiude la pesca del merluzzo per due anni allo scopo di conservare le riserve 1993 Battaglia del pastificio in Somalia 2000 Finale degli Europei a Rotterdam: Francia batte Italia 2-1 al golden gol 2001 Il primo cuore artificiale autosufficiente viene impiantato in Robert Tools 2002 Stati Uniti: Steve Fossett è il primo uomo al mondo a compiere da solo il giro della terra in mongolfiera
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
zazione economica e sociale - quindi incapace di creare benessere - ha finito per perdere quella solida base di consenso essenziale per guidare un paese. Il governo autocratico dello Shah ha quindi innescato quelle proteste e quelle insurrezioni che, sedate nel sangue, hanno favorito la vittoria degli ulema (o mullà) religiosi e permesso il ritorno dall’esilio dell’Ayatollah Khomeini, decretando l’instaurazione, nel 1979, della Repubblica islamica. Da quel momento si ebbe anche una cruenta retrocessione dei diritti individuali a favore della restaurazione e del conservatorismo, classicamente di carattere religioso. In un Iran, quindi, che oggi è attraversato dalla globalizzazione e dall’informazione internazionale ma dove i diritti fondamentali sono ancora calpestati e dove il presidente Ahmadinejad minaccia continuamente il mondo con lo spettro atomico, quanto potevano resistere le persone comuni? Quanto si può resistere al sopruso e alla perenne paura? Sicuramente non molto e il fatto che le proteste si siano accese dopo le elezioni, ci dà la cifra di quanto quel momento di libertà e decisione collettiva rappresentasse, al contempo, uno sfogo e una speranza nel cambiamento. Al grido di “dov’è il mio voto?” si è riversata nelle strade e nelle piazze tutta la frustrazione per il mancato risultato elettorale. Di fronte all’impossibilità di un’alternativa poi, è ovvio che l’unica via a rimanere aperta è quella della violenza.
delle riforme. Prendendo a prestito lo slogan che compare sul sito internet della nuova associazione, possiamo tranquillamente dire tutti insieme “L’Italia è un paese fermo, muoviamoci”. Un errore sarebbe invece immaginare questo nuovo gruppo come una nuova e diversa iniziativa politica da aggiungere alle tante già in campo. Ricordo agli amici e a me stesso il proliferarsi in queste ore di movimenti, associazioni e neo fondazioni che imperversano soprattutto a sud del Paese come iniziative nelle intenzioni tutte attrezzabili ma nei fatti cavalli di Troia per contarsi e per contare all’interno dei propri recinti politici. Quindi niente di nuovo. Immagino che i promotori di questa iniziativa non vogliono mettere in campo un nuovo partito, ma bensì dar forza e far crescere chi è già incamminato da tempo sul sentiero che loro oggi indicano come percorso da compiere per il futuro del nostro Paese. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Stefano Spillare
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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