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È stato detto che l’amore

he di c a n o r c

per i soldi è la radice di tutti i mali. Lo stesso si può dire della mancanza di denaro

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Samuel Butler di Ferdinando Adornato

` QUOTIDIANO • VENERDI 3 LUGLIO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I blogger da Teheran: sono almeno cento le vittime. Mousavi rischia dieci anni di carcere

G8, scontro Merkel-Frattini sull’Iran

La tedesca: «Dura risposta da l’Aquila». L’italiano: «No, a settembre» di Vincenzo Faccioli Pintozzi Scontro a distanza tra il Cancelliere tedesco Angela Merkel e il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Oggetto della contesa: il G8 dell’Aquila e l’Iran. Da Roma arriva l’invito a rinviare la discussione sulla rivolta di Teheran a un vertice ad hoc da tenere a settembre a New York. Da Berlino la smentita: se ne parlerà subito. «All’Aquila i Grandi del mondo sono chiamati a dare una risposta dura a quello che sta accadendo in queste settimane in Iran».

Imbarazzo europeo, silenzio musulmano

Il regime può vincere, ma è iniziata la sua fine

di Gennaro Malgieri

di Edward Luttwak

A Teheran regna una calma apparente. Sulla rivolta di giugno sembra essere calato un velo se non di silenzio, di opacità. Eppure le manifestazioni di intolleranza si susseguono. Bande di miliziani basiji terrorizzano la popolazione accanendosi contro singoli sospettati di aver protestato.

A questo punto, solo il futuro a breve termine del regime clericale dell’Iran rimane in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, tuttavia le istituzioni non elette dalla regola sacerdotale sono state fatalmente minate: questo regime non può sopravvivere ancora molti anni.

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Parla il coordinatore del Pdl Sandro Bondi

«Udc autonoma, ma alleata con noi»

Il signor 9,3

di Errico Novi l coordinatore del Pdl, Sandro Bondi, parla dei rapporti con l’Udc: «Noi rispettiamo la scelta dell’Udc di non aderire al Pdl e di dare vita a una forza politica autonoma dai due principali schieramenti. Non condividiamo il rifiuto e le critiche dell’Udc verso il bipolarismo, ma dobbiamo prendere atto della sua scelta strategica. Questo non esclude che i centristi si alleino, con il Pd o con il Pdl».

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Dai media ai fan: ecco i tributi più bizzarri alla pop star

Tutte le sciocchezze su Michael Jackson di Maurizio Stefanini una settimana esatta dalla morte di Michael Jackson, una carrellata dei più eclatanti e bizzarri tributi al re del pop organizzati in giro per il mondo, a partire dai suoi fan più accaniti per finire ai giornali e alle televisioni internazionali. Tra i più curiosi, un quotidiano di Tokyo che ha annunciato: «Anche grazie a lui gli Stati Uniti vinsero la Guerra Fredda»...

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Medvedev dice «sì alla nuova politica dell’amico Obama»

• A tanto è arrivato il rapporto deficit-Pil nel primo trimestre 2009: mai così alto da 10 anni • Doppia smentita per Tremonti: attacca Draghi perché pessimista, ma le cifre danno ragione al Governatore • Non fa le riforme per risparmiare, ma i conti gli sfuggono comunque di mano. Così mette insieme il danno e le beffe… alle pagine 2 e 3

di Antonio Picasso a pagina 8

gue a(10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

130 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Crisi. I numeri dell’economia italiana sono «pessimisti»: la spesa pubblica è aumentata in tre mesi del 4,6%

Aveva ragione Draghi

Nel primo trimestre del 2009 il rapporto deficit/Pil schizza a 9,3% I conti esplodono malgrado i “risparmi” di Tremonti sulle riforme di Francesco Pacifico

Le uscite sono aumentate vertiginosamente

ROMA. Il peso del deficit sul Pil schizza al 9,3 per cento nel primo trimestre dell’anno. E davanti a un numero così ampio – non si registrava una tale marcia indietro dal 1999 – diventa ancora più incomprensile il balletto delle cifre che coinvolge e vede contrapposti da molti mesi il governo e i massimi organismi economici. Nazionali e internazionali che siano.

Mario Draghi ha spiegato che a fine anno e a politiche correnti il Belpaese tornerà indietro di 7 anni, che il prodotto interno lordo crollerà di 5 punti percentuali, zero virgola più, zero virgola meno. Giulio Tremonti, invece, preferisce aspettare almeno i dati definitivi sul gettito fiscale di luglio prima di emettere sentenze. E spera che, con la ripartenza delle esportazioni verso l’area del dollaro (la Cina è troppo lontana da noi), possa ripartire anche la produzione, quindi l’economia in generale. Non è detto che il ministro dell’Economia abbia torto, ma al momento la congiuntura sta dando a ragione invece al governatore di Bankitalia e alla sua tutto sommato prudente previsione. Intanto ci sono le ultime rilevazioni sulla ricchezza del Paese, che dimostrano quanto il rigorismo di Tremonti, le sue politiche conservative per evitare tensioni sociali, si stiano dimostrando tutt’altro che risolutive. Aoprattutto non riescono ancora a rimettere in carrggiata il Paese in prospettiva della ripresa né a frenare la capacità di spesa delle amministrazione pubbliche. Dopo il boom del fabbisogno, ieri l’Istat ha certificato che il rapporto deficit/Pil nel primo trimestre di quest’anno si è attestato al 9,3 per cento. Inutile dire quanto incida una crisi che ha congelato gli ordinativi, tra l’altro in un periodo dell’anno che sconta la sovraproduzione prenatalizia. Eppure il dato, registrato nella curva più bassa della congiuntura, è comunque superiore alle aspettative: un anno fa, infatti, i primi bagliori del rallentamento che sarebbe arrivato pochi mesi dopo, portavano il deficit Pil al -5,7 per cento. Che l’anno non si sia aperto nel modo migliore, lo dimostrano anche le voci del conto conto economico trimestrale delle amministrazioni pubbliche reso noto ieri dall’Istat. Intanto calano le entrate: a livello tendenziale sono diminuite del 2,8 per cen-

Chi riempirà il buco? di Gianfranco Polillo l migliore andamento del fabbisogno per il mese di giugno – circa 6.600 milioni di euro – non ha tuttavia compensato una deriva negativa che dura, ormai, dall’inizio dell’anno. In generale, giugno, è un mese buono per i conti pubblici. Negli anni passati i maggiori incassi, rispetto alle maggiori spese, erano dell’ordine di 17 – 19 miliardi di euro. Oggi la cifra si è ridotta ad un terzo. Colpa soprattutto di una riduzione del gettito fiscale, che, almeno in parte, sarà recuperato il mese succesvisto sivo, che il pagamento delle imposte dovute dai contribuenti soggetti agli studi di settore è slittato dal 6 al 16 giugno. Pur tenendo conto di questa asimmetria sarà, comunque, difficile recuperare il terreno perduto. Se le maggiori entrate sono incerte, le speinvece, se, corrono. E a una velocità maggiore. Corrono i rimborsi fiscali da parte dei concessionari della riscossione. Una buona notizia per i contribuenti, dato che si tratta di crediti di imposta ultradecennali. Galoppano, invece, i maggiori prelievi di tesoreria da parte degli enti locali. Una voragine nei conti pubblici. Ma aumenta, anche, l’onere per gli interessi sul debito pubblico. Cosa, almeno in parte, sorprendente, conside-

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rato che nel mese di maggio era diminuito. Quali le cause?

La principale è dovuta all’andamento di un debito che cresce mese dopo mese. Per finanziare il quale occorre sborsare una corrispondente quantità di denaro. Elemento preoccupante il fatto che la spesa per interessi aumenti, nonostante la grande liquidità presente sui mercati e la politica distensiva della Bce che, per combattere la crisi, ha abbassato i tassi di interesse ben oltre il livello di guardia. Comportamento obbligato, visto le prospettive dell’economia reale, ma anche foriero di gravi pericoli, come Mario Draghi continua a ripetere. Sta di fatto che nei primi 6 mesi dell’anno il fabbisogno, con un andamento continuamente divergente rispetto agli anni passati, è aumentato di circa 24 miliardi di euro. Vale a dire di quasi 2 punti di Pil, che faranno crescere il debito di una misura corrispondente. Ma nell’aritmetica dei conti pubblici non conta tanto il valore assoluto del debito pubblico, quanto il suo rapporto con il Pil. Preoccupazioni che invece di diminuire aumentano. Se il debito cresce in valore assoluto e il Pil declina, quel rapporto non può che aumentare. Di quanto? La Commissione Europea, con un pizzico di ottimismo rispetto al Fondo monetario internazionale, aveva indicato, per la fine dell’anno, un valore pari al 113 per cento del Pil. Quell’asticella, fin da ora, è stata abbondantemente superata. Nei prossimi mesi lo sforzo dovrà, pertanto, essere quello del rientro. Ci riusciremo? La sfida è tutt’altro che facile. La crisi dell’economia reale non si è ancora pienamente manifestata. Quando questo avverrà, con un più forte aumento della disoccupazione, altre risorse – le imposte pagate dalle aziende sui lavoratori occupati – verranno meno. E il fabbisogno, che trascina il debito, non potrà che aumentare. Ci aspetta un brutto autunno.

to con un’incidenza sul Pil del 39,9 (39,8 nel corrispondente trimestre del 2008). E più di Irap e Irpeg, a crollare sono state l’Iva come le imposte sui redditi che scontano il boom di licenziamenti e dell’applicazione della cassa integrazione, ordinaria e straordinaria che sia. Di converso cresce la spesa, in un binomio – minore gettito fiscale rispetto al Pil – che gioco forza si traduce in un aumento della pressione fiscale. Le uscite sono aumentate in termini tendenziali del 4,6 per cento. Il loro valore in rapporto al Pil è stato pari al 49,2 (45,6 nel corrispondente trimestre del 2008). Di conseguenza il saldo primario (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato negativo e pari a 16.865 milioni di euro, con una incidenza negativa sul Pil del 4,6.

“The Economist” bolla la manovra d’estate «inutilmente modesta» e consiglia a Berlusconi di intervenire sulle pensioni. Crollano le Borse: -102,5 miliardi Scomponendo il dato sulla spesa, si scopre l’incremento del costo del lavoro dei dipendenti pubblici e il consumo di beni intermedi da parte delle amministrazioni crescono più dell’erogazione prestazioni sociali in denaro. Il tutto, nonostante una diminuzione del 7,8 per cento degli interessi passivi dovuta alla discesa dei tassi d’interessi sul denaro, che ieri la Bce ha confermato all’1 per cento.

Questi dati macroeconomici, uniti al pessimismo ingenerato sui mercati dopo la nuova stima di Eurostat sulla disoccupazione (siamo al 9,5 per cento, il più alto dalla nascita della moneta unica) hanno spinto la Borsa di Milano a cedere ieri il 2,65 per cento. Dato in linea con quanto accaduto sui listini di tutt’Europa, che hanno bruciato 102,5 miliardi di euro della loro capitalizzazione totale. Così ci si interroga su cosa arriverà nei prossimi mesi. Al rimbalzo della produzione di aprile non è ancora arrivato quel boom di ordinativi che è l’unico indicatore credibile in fase di bassa attività. Anche perché le immatricolazioni delle auto soltanto a giugno (+12,4 per cento) hanno iniziato di nuovo a correre. Ieri The Economist , non nuovo a critiche verso un governo che da sempre giudica «unfit», ha bocciato in toto la manovra d’estate. Se 24 ore prima le imprese italiane hanno chiesto una maggiore detassazione sugli utili reinvestiti, il settimanale ha definito la mini Finanziaria «inutilmente modesta». A Berlusconi che chiede agli italiani di comprare, viene anche consigliato di «mettere a punto un piano che preveda deregolamentazioni e cessioni di asset. Allo stesso modo il governo non è neanche pronto ad alzare l’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego».


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MARCO COBIANCHI

«Le statistiche sono l’unica bussola della politica» ROMA. «Le previsioni ci sono sempre state, il problema è il peso che si dà. E oggi se ne dà troppo. Le variabili che possono influire sulla determinazione di una stima sono tali e tante, che finiamo nel campo dei pronostici. Delle scommesse». Nel bel mezzo della crisi Marco Cobianchi, giornalista finanziario di Panorama, se ne è uscito con un libello agile e accattivante, che già dal titolo pone l’accento su uno dei nodi ancora scoperti del crack: Bluff – Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente. Il libro, a quanto pare, sarebbe piaciuto non poco a Giulio Tremonti. E non soltanto perché Cobianchi – ricostruendo le “responsabilità” dei vari Giavazzi, Boeri e Alesina – ci restituisce una società degli economisti che si pone e parla come «una casta sacerdotale. Enunciano dogmi e non tengono assolutamente in considerazione la variante umana. Le banche in America siano iniziate a fallire già all’inizio del 2007, ma allora nessuno ci ha messo sull’attenti». Variante umana o meno, il Pil nel 2009 cadrà del 5 per cento. Può darsi che il governatore Draghi abbia previsto giusto e certamente ha il diritto-dovere di pubblicare le sue previsioni, ma noi che le leggiamo, dobbiamo tener conto dell’aleatorietà di questi numeri. Che, altro problema, vengono spesso usati politicamente. Per Berlusconi i pessimisti come Draghi devono tacere. Il premier si lamenta del fatto che questi numeri seminano la paura e rendono meno efficaci gli interventi di stimolo della domanda. Da questo punto di vista ha semplicemente ragione. Non resta che la moratoria proposta da Tremonti. Una sana provocazione, nello stile del ministro. Ma lui è il primo a sapere che siamo tenuti a comunicare in ambito Ue stime e dati sui nostro Pil. Il problema è che queste grandezze sono diventate l’unica bussola sul futuro. Sono numeri. D’accordo, ma ci sono centro studi che danno dati a vanvera. E delle due una: o sbagliano oppure i loro giudizi riflettono una visione politica dell’economia. Nomi? L’autorevole Voce.info, per esempio, ha dato in alcune occasione numeri completamente sballati. Qualche settimana fa ha prima stimato il costo del referendum in 400 milioni di euro, quindi è scesa a 330, comprensivo del costo per la sospensione delle lezioni. Senza però considerare che le scuole erano già chiuse. Gli economisti fanno le previsioni, le scelte restano alla politica. Il punto è che la politica si fa guidare soltanto dai dati statistici o dalle percentuali dei sondaggi. Non si guarda al di là di un paio di mesi. Cobianchi, perché gli economisti non hanno previsto la crisi? Intanto ricorderei che pochissimi hanno ammesso i propri errori. Il motivo poi è davvero interessante: credevano di poter fare aderire la realtà alle loro teorie. E siccome le teorie in voga sostengono che la diversificazione del rischio bancario è cosa buona e giusta, che i mercati hanno al loro interno strumenti di autoregolamentazione con il perfetto incontro tra domanda e offerta, che la politica più sta lontana dalla finanza e meglio è, bene, quando i tassi d’interesse sono aumentati e i subprime hanno iniziato a scricchiolare, sono rimasti spiazziati. Avranno bucato la crisi, ma hanno offerto non poche soluzioni. E sono una diversa dall’altra. Giavazzi vuole abolire la cassa integrazione perché non induce il licenziato a cercarsi un’altra occupazione. Allora perché non dargli un bel calcio per farlo muovere…

Un po’ drastico. Questi economisti erano convinti che il mercato si sarebbe ripreso da solo. E spinti dalla concezione schumpeteriana della distruzione creativa, ci hanno spiegato che le banche andavano fatte fallire e che non era giusto utilizzare soldi pubblici. La realtà ha dimostrato che se Bush prima e Obama dopo non intervenivano, ora vivevamo in un deserto chiamato libero mercato. Tito Boeri è uno di quelli che, allo scoppio della crisi, diceva che le famiglie americane non sapevano calcolare il rendimento composito! Come se non lo decidessero gli istituti. Ecco, le banche. Gli istituti hanno trasformato i soldi in una droga. Forti della logica sessantottina del tutto e subito, si sono messi a spacciarli. In questa logica se c’era il Pil da far crescere, bastava aumentare i tassi, estendere il periodo nel quale ripagare i mutui o affidarsi a sistemi assicurativi di remunerazione come i Cds. Il risultato? È nato un banchiere moderno, io lo chiamo 2.0, che per diversificare il rischio finisce per considerare come migliori clienti quelli che in un sistema virtuoso sarebbero i peggiori pagatori. Il suo lavoro sarebbe raccogliere denaro e prestarlo con il rischio di non riaverlo più indietro. Se si supera questa logica, il risultato sono i subprime. Servono più regole? Il punto è, come dice Tremonti e come credo dirà Benedetto XVI, che siamo di fronte a un problema etico. Nel senso che l’economia ha una finalità di sviluppo, non ci si può fermare soltanto al rispetto dei fondamentali. Cos’è, se non una scelta etica, farsi pagare o meno le stock option quando non si crea valore? In quest’ottica difficile darle torto. Invece no. Quando è stato posto questo problema, Giavazzi ha notato che la Sharia non è contemplata nel testo unico bancario… In conclusione? Purtroppo questi professori hanno vinto. Non ne hanno azzeccata una, ma il sistema di governo dell’economia non muterà, come ha notato Guido Tabellini sul Sole 24Ore. La loro idea è che questa crisi sia stata soltanto un bag, da risolvere con un nuovo regolatore. Poi il circo può ripartire. Fortuna che a prendere sul serio le previsioni di questi economisti siano soltanto altri economisti. (f.p.)

Nessuno studioso aveva previsto la crisi e pochissimi hanno ammesso i propri errori: speravano di poter fare aderire la realtà alle loro teorie

Giulio Tremonti ha sempre predicato il (giusto) rigore contro l’esplosione del deficit: i dati gli danno torto. A destra, Marco Cobianchi. Nella pagina a fianco, il governatore Draghi e il premier Sempre il settimanale ricorda che «è fantasioso dire che l’Italia, con alle spalle 20 anni di under performance, eviterà l’intero impatto della recessione». Il primo a saperlo è Giulio Tremonti, il quale sa che la debolezza delle nostre finanze e la dipendenza delle esportazioni torneranno a essere ancora più manifeste dopo la crisi. Con una Germania che vedc il suo debito pubblico sfondare la quota del 60 per cento, è facile dire che le cose non vanno poi così male. Ma quando arriverà il primo barlume di ripresa il timore è che torni a schizzare in alto il disavanzo. E che prima ancora lo spread tra Btp e Bund tedeschi, terminata questa fase di liquidità, cresca e renda più complesse le aste dei titoli.

Questo lo scenario se non si frenerà la spesa, che sale come dimostrano i dati del fabbbisogno di mercoledì e quelli del deficit Pil. Così al ministro dell’Economia non resta che spingere sugli attori dell’economia. Non ha caso ieri ha detto che per le opere pubbliche «i problemi non sono soltanto i soldi». Ma basteranno i commissari per convicere le aziende a investire?


politica

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Ridotte. Rimangono in campo Bersani e Franceschini, ma sopra la linea gotica nessuno si aspetta che con loro si torni a vincere

Pd o Fort Emilia? Frenate le aspirazioni degli amministratori del Nord, non restano che i leader della «Regione rossa» di Riccardo Paradisi enza Chiamparino è come andare alla guerra con la cerbottana». La guerra a cui si riferisce Massimo Cacciari non è il derby emiliano Bersani-Franceschini per la segreteria del Pd. Ma la sfida a cui il centrosinistra sarà chiamato dopo il congresso di ottobre. Perché Bersani o Franceschini senza il nord si resta con le cerbottane in mano. Non si vince. E adesso che Chiamparino ha fatto un passo indietro il Pd rischia davvero di ridursi a lega appenninica, a ridotta emiliana. «L’attenzione del centrosinistra a quest’area geografica – denuncia Cacciari – è inesistente rispetto al centrodestra che ha qui il suo baricentro e i suoi pezzi da novanta».

«S

strada possibile è dar voce al territorio». E a Dario Franceschini, allora vicesegretario del partito, che parlava di ipotesi da approfondire, Cacciari rispondeva spazientito: «Non c’è nulla da approfondire, c’è solo da metterlo in pratica il partito del nord. Abbiamo già perso almeno tre anni di tempo. Vogliamo perderne ancora? Ci vuole una struttura finalmente autonoma da Roma, che possa prendere decisioni autonomamente. Invece, il Pd continua ad essere un organismo centralistico». Che non fosse solo il pensiero di Cacciari lo si è visto quando ha fatto capolino per qualche giorno la candidatura di Sergio Chiamparino tra quelle di Bersani e Franceschini. Candidatura che aveva subito raccolto il consenso del governatore del Piemonte Mercedes Bresso – «Per quanto riguarda il territorio noi saremmo favoriti da avere un segretario che è anche sindaco di Torino’» – e del presidente uscente della provincia di Milano Filippo Penati (uscente, secondo Cacciari, grazie alla smobilitazione del partito al nord).

Quello rimane il polmone economico di un partito con il cuore politico a Roma. Era l’idea di Togliatti, molto prima della Lega

Era stato proprio Sergio Chiamparino a lanciare a fine 2008 l’idea di un Pd federato con un coordinatore del nord. Cercando di dare corpo a un’esigenza che sopra la linea gotica avvertiva ogni dirigente del Pd che avesse ancora un grammo di realismo e di capacità d’analisi. Un’idea che era piaciuta a Piero Fassino – anche se è stato proprio l’ex segretario Ds a chiedere oggi al sindaco di Torino di fare un passo indietro nella corsa alla segreteria – e che Cacciari aveva sposato subito insieme a Lorenzo Dellai, neorieletto presidente della provincia di Trento: «Per tornare a vincere – diceva il sindaco di Venezia – l’unica

ROMA. Ignazio Marino è un uomo fuori dal comune. Basta scorrere la sua biografia per capire che quando si parla del professor Marino si parla di un uomo eccezionale, che dà del tu a qualsiasi membro della comunità scientifica mondiale. Da Cambridge a Philadelphia, ha riscosso una serie di successi di primissimo ordine nella chirurgia dei trapianti d’organo. Con un identikit di tal fatta, sono molti a chiedersi che cavolo mai ci faccia Ignazio Marino nel guazzabuglio della politica italiana e, quel che è peggio, alle prese con l’eterno teatrino della sinistra italiana. A chi (e sono sempre di più), in effetti glielo chiede, lui risponde, generoso, che la passione politica e l’impegno civico sono sempre sta-

Non sono stati felici i supporters del sindaco di Torino quando Chiamparino ha confermato la sua rinuncia definitiva alla candidatura. Speravano che quella discesa in campo avrebbe rimesso al centro delle preoccupazioni del Pd la riorganizzazione della struttura, la

sua presenza sul territorio, soprattutto il radicamento nel settentrione d’Italia, dove il centrosinistra avrebbe un suo blocco sociale, la simpatia dei poteri forti, il placet delle banche e della grande industria.

Ma dove non prende più i voti, non investe più sulla sua classe dirigente, esce da tutte le grandi partite strutturali: autostrade, fondazioni, Expo. A spiegare bene il senso di frustrazione dei quadri del Pd del nord è il sindaco di Padova Flavio Zanonato nell’intervista all’Espresso oggi in edicola: «È stucchevole sentir ripetere che la Lega ha un organizzazione capillare, tanti giovani, che fa le cose che facevano i partiti di massa di una volta. Alla lega invidio due cose: una struttura ancorata tra la gente, autonomamente dai sistemi informativi e la capacità di leggere i problemi senza nascondersi. Quando parlano di federalismo, di lavoro, di sicurezza parlano di temi veri». Sarebbero stati i temi che Chiamparino avrebbe gettato sul tavolo d’un congresso che sembra giocarsi tra due candidati dietro i quali si stagliano le grandi ombre di Veltroni – ieri accolto trionfalmente dai suoi al Capranica di Roma – e D’Alema. I due antagonisti storici che non rappresentano esattamente il futuro del Pd ma che rappresentano ancora

l’idea di un partito bilanciato su un’asse geografico che va dal centro al sud e che nell’Emilia ha il suo estremo nord. Per questo i giovani dirigenti del partito – tra i quali ci sono anche quelli che fino all’ultimo si sono battuti per la candidatura di Chiamparino – preferirebbero ancora una candidatura terza, spingendo su quella di Ignazio Marino caldeggiata dall’ex consigliere di Veltroni Goffredo Bettini che in Franceschini non vede il nuovo ma «l’ultima coda della crisi del Pd».

Mentre Marino sarebbe «il portatore di due cose fondamentali: l’idea di pienezza di libertà di scelta da parte di uomini e donne e una visione del partito senza correnti». Intanto Chiamparino si chiama fuori anche dall’imbarazzo se scegliere tra

Bettini lo vorrebbe «terzo uomo» in lizza; D’Alema invece spinge per averlo in squadra

Tutti a tirare la giacca del prof Marino di Antonio Funiciello ti al centro della sua vita. Ma al cospetto dell’assenza totale di generosità del centrosinistra italiano, la risposta non può che lasciare insoddisfatti.

Ignazio Marino è oggi il terzo uomo invocato da Goffredo Bettini e temuto da Massimo D’Alema, se non proprio i suoi due spin doctor, di certo i politici che sente più spesso. Se da un lato, infatti, negli ultimi mesi la simpatia tra Marino e Bettini è cresciuta sensibilmente, soprattutto da quando Veltroni

ha abbandonato la guida del Pd e Franceschini ha messo da parte il braccio destro dell’ex segretario, dall’altro anche i rapporti con D’Alema sono intensi. Marino fa parte da tempo del comitato di redazione di Italianieuropei, rivista sui cui anche quando non era parlamentare ha scritto varie volte. È sempre Marino a firmare gli editoriali dei quaderni di Italianieuropei dedicati alla Sanità ed è ancora Marino a presiedere il comitato scientifico del Festival della salute

che Italianieuropei organizza da due anni a Viareggio a fine settembre. Organizza insieme alla società ideatrice di eventi Goodlink, che promuove anche tutte le iniziative principali legate a Pierluigi Bersani. E il cerchio si chiude. Insomma, se il lembo destro della giacca di Marino è tirato da Bettini allo scopo di convincerlo a candidarsi alla guida del Pd, quello sinistro è tirato da D’Alema che lo vorrebbe in squadra con Bersani. L’esposizione di questi giorni fa comunque


politica

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Oggi presenta a Roma il “manifesto” della sua area

Rutelli spiazza tutti «Partito delle riforme» di Errico Novi

ROMA. È anche un po’ l’abito a fare il

Bersani e Franceschini: «Non faccio parte di nessuna delle due squadre in campo. Il mio unico impegno attivo nel partito adesso è a livello locale, per la piattaforma attorno all’attuale segretario regionale». Mentre il Pd continua a ragionare con una logica romana e centralista malgrado si trovi spalmato sul territorio un partito ormai federalista al proprio interno. Un fronte del nord deluso e frustrato, a un passo dall’esprimere una sua candidatura e con una folta rappresentanza di bersaniani di peso pronti s sfilarsi. Una situazione al sud disastrosa segnata da sconfitte, commissariamenti, cannibalismi interni e dove giace imbarazzante lo scheletro di potere del bassolinismo. Un centro tradizionalmente rosso – Umbria e Marche – che non fa più arrivare al Pd il flusso tradizionalmen-

buon gioco ad entrambi i leader del Pd. Bettini con la ”sua” operazione Marino sta cercando di attirare le simpatie dei tanti dirigenti e militanti ex diessini, ma non dalemiani, che non si rassegnano a sostenere Franceschini. Perché è indubbio che con due candidati d’apparato come quelli in campo, l’outsider di lusso conquisterebbe uno spazio autorevole e determinante per i futuri equilibri interni al Nazareno. A D’Alema, d’altro canto, non spiace che di Marino si parli tanto sui media e finanche nei circoli del Pd, perché politicizzando la sua personalità complessiva in quella del paladino della laicità nel teatrino della politica italiana, ascriverlo al sostegno a Bersani aiuta a rinsaldare la sinistra

te plebiscitario di consenso e che anzi, nelle Marche fa registrare il sorpasso seppure di misura del centrodestra sul Pd. Restano la Toscana – isola felix dove c’è un potere rosso che pesa e funziona ancora molto – e appunto la fedelissima Emilia.

Dove nell’aprile 2008 era stato pronunciato un grande “no” alla proposta di un partito del nord già caldeggiata dal sindaco di Bologna, Sergio Cofferati. L’Emilia, meglio, la ridotta emiliana come la chiamano i nordisti del Pd. Il polmone economico di un partito con il cuore politico a Roma come teorizzava Togliatti. In un’Italia dove non esisteva ancora la Lega e dove si confidava nell’onda lunga del vento del nord. Che da qualche anno ha decisamente cambiato direzione.

di derivazione Pci-Pds-Ds. La quale non voterebbe mai un democristiano come Franceschini alla guida di un partito, il Pd, che concepisce in diretta successione con le tre sigle precedenti.

Se Marino scegliesse, invece, di essere il terzo uomo, il colpo alle ambizioni di Bersani di guidare il Pd sarebbe durissimo. A conti fatti, è molto più dal suo lato che da quello di Franceschini che l’outsider Marino pescherebbe consensi. E in una partita che si gioca sul filo del rasoio, Bersani potrebbe vedersi sfilare la vittoria finale per colpa della dispersione sul candidato laico di consensi che, altrimenti, è in grado di tenere stretti a sé.

Francesco Rutelli si mantiene «equidistante» rispetto ai due contendenti alla segreteria del Pd: Bersani e Franceschini. Tra loro si parla della possibile candidatura del giovane dirigente lombardo Giuseppe Civati. A sinistra, Ignazio Marino

monaco. E pur al di fuori di strette corrispondenze metaforiche la regola sembra ben adattarsi al nuovo Francesco Rutelli, che dalla carica di presidente del Copasir ha mutuato nel proprio percorso politico una certa tendenza all’autonomia. L’equilibrio istituzionale dell’ufficio parlamentare che controlla i servizi si traduce, all’interno del Pd, in sostanziale distacco dalla contesa per la segreteria. Il profilo, se non proprio “terzo”sicuramente da battitore libero, emergerà nella due giorni di dibattito che Rutelli ha convocato per oggi e domani al centro congressi Roma eventi. Occasione per tenere a battesimo la nuova sigla con cui si presenta il gruppo dell’ex ministro ai Beni culturali, lib-dem, che sta per Liberi democratici. Nel manifesto che circola da un paio di giorni non si risparmiano critiche per un Pd che finora si sarebbe dedicato ad amministrare piuttosto che accrescere quanto ereditato. Si ricorda «l’incapacità di presentarsi all’intera società come alternativa credibile a una destra che intanto ha continuato a radicarsi». Soprattutto Rutelli punta l’indice contro una strategia che non ha saputo puntare «al centro» della società.

liano è nel «costruire il consenso delle varie forze sociali che trarrebbero vantaggio dalle riforme, a partire dal Nord del Paese, e sconfiggere i conservatori», e dunque si apre da una parte un ponte per quel partito degli amministratori settentrionali che avrebbero volentieri espresso una candidatura (Chiamparino), dall’altra si libera un ulteriore canale preferenziale con l’Udc. In fondo Rutelli non sarà nemmeno costretto a insistere con Franceschini perché si disegni una politica delle alleanze chiaramente orientata verso il centro. Con la sostanziale adesione al “partito delle riforme” che già annovera orizzontalmente Casini, Marcegaglia, Draghi, Bonanni, il presidente del Copasir ha già di per sé una collocazione centrista che saranno gli altri a dover inseguire.

Così mentre Veltroni torna a recitare una parte che gli riesce benissimo, l’affabulatore che profetizza il nuovo, ma resta condizionato dall’implicita organicità alla sfida di Franceschini (ieri l’ex segretario è intervenuto a suggellare il convegno organizzato a Roma “Il Lingotto due anni dopo”), Rutelli conserva gelosamente uno spazio solo in apparenza ridotto, giacché indeterminato dalla libertà con cui può muoversi. L’appuntamento fissato per oggi dalle 16 in poi e domani dalle 9 di mattina si intitola “Costruiamo la maggioranza democratica del futuro”: è chiaro che se mai ce ne potesse essere una, si sottintende, bisognerebbe costruirla con quelle alleanze che all’epoca dei “Coraggiosi” furono definite «di nuovo conio». Stavolta le si immaginerà semplicemente come alternative a una coalizione in cui «il Pd è incapace di sottrarsi ai condizionamenti delle tendenze minoritarie di sinistra, conservatrici, demagogiche, giustizialiste». Equilibrio, come quello che ieri Rutelli ha rivendicato quando le agenzie di stampa hanno frrainteso una sua frase di apprezzamento «per la terzietà» del garante della privacy Francesco Pizzetti come una critica al presidente del Senato Renato Schifani (che ha condannato la politica fatta di gossip). La stessa imperturbabilità che il presidente del Copasir rivendica a sua volta sulle vicende che hanno coinvolto il premier e che in effetti si può riconoscere a Rutelli quando sollecita Berlusconi a farsi vedere in commissione per parlare di Servizi (di cui si smentisce la ventilata riforma). Il ruolo istituzionale ha davvero dato un’arma in più all’ex competitor del Cavaliere.

L’ex ministro resterà autonomo davanti alla contesa congressuale: lontano dagli ex Ds, non darà per scontato l’appoggio all’attuale leader

La parola centro ricorrerà non casualmente, nel discorso che sarà rivolto a una platea di fedelissimi e di alleati interni storici, come i teodem di Binetti e Bobba. L’idea è marcare l’impossibilità di prendere anche solo in considerazione un appoggio della candidatura di Pierluigi Bersani (sostegno che altri esponenti del Pd di chiara vocazione moderata come Enrico Letta si apprestano a dare) senza per questo dare per scontata l’adesione alla campagna congressuale di Dario Franceschini. Casomai Rutelli intende porre alcune questioni come centrali e indicarle allo stesso Franceschini come condizioni per l’alleanza. Si tratterà soprattutto di direttrici nel campo dell’economia, con una doppia opportunità strategica: l’architrave del discorso rutel-


diario

pagina 6 • 3 luglio 2009

Parla Sandro Bondi: «Rispettiamo la strategia di Casini, ma non vedo ostacoli a un rapporto tra forze con valori comuni

«L’Udc resti autonoma, ma si allei con noi» di Errico Novi

ROMA. Incorniciato il congresso fondativo, trascorsi i primi mesi di vita tra le debordanti esuberanze leghiste e il frastuono scandalistico, il Pdl trova finalmente il tempo di interrogarsi su se stesso. Lo fa in capo a un giro di boa elettorale non del tutto tranquillizzante. Si appresta a mettere in ordine le idee in un seminario a porte chiuse sul futuro della legislatura, ma fuori dai luoghi di precetto arriva già a qualche conclusione. All’idea per esempio che la demolizione della vecchia Casa delle libertà non ha prodotto grandi benefici, e che in ogni caso un ricongiungimento con l’Udc darebbe equilibrio a un quadro politico dominato dall’influenza lumbard. Se si ragiona su una prospettiva moderata, non può sorprendere che anche un bipartitista convinto come Antonio Martino rivendichi da una parte il suo credo e dall’altra convenga con Casini nel bocciare il federalismo promosso dal governo: «Se viene realizzato lasciando invariato il nostro sistema di governo locale, è pernicioso», ha detto ieri l’ex ministro degli Esteri a farefuturo.webmagazine. Si fanno dunque strada analisi, nella maggioranza, che tendono a spostare l’asse dal populismo leghista e ad accorciare le distanze dall’Udc. È un processo generale, sul quale Sandro Bondi sembra avere particolari titoli per riflettere: il ministro dei Beni culturali e coordinatore del Pdl è stato tra i primi, nel suo partito, a riaprire il dibattito sul rapporto con il centro. Nel Pdl si ragiona in modo sempre più diffuso su una ricomposizione dei rapporti con l’Udc: è una prospettiva limitata alle Regionali del prossimo anno o si pensa a un’alleanza stabile, valida anche per le Politiche? Prima di tutto bisogna cominciare a discutere, con rispetto delle posizioni reciproche. Noi abbiamo il dovere, ad esempio, di rispettare la scelta dell’Udc di non aderire al Pdl e di dare vita a una forza politica autonoma dai due principali schieramenti. Noi non condividiamo il rifiuto e le critiche dell’Udc verso il bipolarismo, ma dobbiamo prendere atto della scelta strategica dell’Udc. Ciò tuttavia non preclude la possibilità da parte del partito di Pier Ferdinando Casini di allearsi, a seconda dei momenti e delle scelte politiche, con il Pd o con il Pdl, come avviene in Germania da parte del partito liberale. Vuol dire che in un’alleanza con l’Udc il Pdl non chiederebbe la confluenza nel partito unico? Sì, io credo, come ho anticipato, che una seria discussione debba

iniziare da parte nostra rispettando la scelta del’Udc di non aderire al Pdl. Questo non significa però che non si possa ricercare un rapporto di collaborazione o un’alleanza politica tra forze politiche diverse e autonome, che perseguono prospettive politiche contrastanti. Io

Cos’è che ha fatto cambiare, dopo questo primo anno di legislatura, la posizione del Pdl rispetto al rapporto con l’Udc? Per quanto mi riguarda io non ho mai mutato posizione nei confronti dell’Udc. Nella politica possono esserci battute d’arresto, ma bisogna avere chiaro dove si vuole arrivare e tenere la barra diritta. Ci sono stati anche errori da parte dell’Udc nella passata legislatura, ma ora è inutile rinvangare sugli errori che possiamo avere compiuto. È meglio guardare in avanti.

la rottura del 2008 ma adesso viene contraddetta dalla nuova giunta Lombardo: crede sia necessario ripensare questa evoluzione, come chiedono peraltro esponenti anche non siciliani del Pdl a cominciare da Maurizio Gasparri? Noi crediamo nell’alleanza con il movimento autonomista di Lombardo. Lo abbiamo dimostrato anche di recente partecipando attivamente alla ricostituzione e al rafforzamento della nuova giunta, nonostante una crisi aperta in piena campagna eletto-

«Abbiamo il dovere di rispettare la scelta centrista di non aderire al Pdl e di dare vita a una forza politica separata dai due principali schieramenti» ritengo che ciò che ci unisce sia molto di più rispetto a quello che ci divide. Apparteniamo ad esempio alla stessa famiglia politica europea: quella dei popolari. Condividiamo gli stessi ideali e valori: quelli della tradizione cristiana, del valore centrale della persona e di una economia sociale di mercato. L’Udc, inoltre, non potrà mai stabilire, ne sono convinto, un’alleanza con un Pd legato alla sinistra estrema o a Di Pietro. Significherebbe abiurare alla propria storia e ai propri valori fondamentali. Sono certo che Casini non lo farà mai.

Ritiene che un allargamento della coalizione di maggioranza verso il centro possa aiutare il Pdl a definire la propria identità? Ma noi siamo il centro moderato in questo Paese. Su questo io non ho alcun dubbio. Stringere un’alleanza con l’Udc può rafforzare questo centro moderato, ma a tre condizioni: in primo luogo che si operi in un contesto bipolare, in secondo luogo che il centro non significhi conservazione ma cambiamento; in terzo luogo noi consideriamo l’alleanza con la Lega, non una necessità, bensì una convinta alleanza strategica per il cambiamento dell’Italia. Le alleanze dipendono anche dai sistemi elettorali: crede che quello attuale sia funzionale a una coalizione allargata all’Udc? Io credo che i cambiamenti veri e profondi derivino essenzialmente dalle scelte e dalle volontà politiche dei leader. In Sicilia c’è una situazione anomala, in cui l’alleanza con l’Udc aveva resistito al-

rale dallo stesso Lombardo per ragioni unicamente di carattere politico. Proprio perché siamo interessati al rafforzamento del governo della Sicilia, abbiamo posto e poniamo il problema dell’allargamento dell’alleanza anche all’Udc, ritornando alla maggioranza che ha ottenuto la fiducia degli elettori. La Sicilia ha bisogno di un governo coeso, forte e autorevole, e noi siamo interessati ad assicurare le condizioni affinché possa agire nel modo più efficace possibile per affrontare i problemi della Regione. La Sicilia non ha bisogno di un partito del Sud, soprattutto perché deve abbandonare definitivamente l’abitudine di addossare ai governi nazionali le colpe dei tanti problemi che affliggono da tempo il nostro Mezzogiorno. La Sicilia come le altre Regioni del Sud ha il dovere di dimostrare di essere capace di mutare autonomamente consolidate abitudini, di saper amministrare con rigore i finanziamenti pubblici e statali e di dare prova di un governo coraggioso e lungimirante.


diario

3 luglio 2009 • pagina 7

Il responsabile della privacy difende i giornalisti

Le Fs bloccano la circolazione dei convogli della multinazionale Gatx

Tutti i dubbi del garante sul no alle intercettazioni

Strage di Viareggio, i morti sono 19

ROMA. No alle sanzioni penali

VIAREGGIO. Il gruppo Ferrovie dello Stato ha comunicato ieri che già da oggi riprenderà la circolazione sul nodo ferroviario di Viareggio e che «da mercoledì sono stati sospesi i trasporti con carri di proprietà della società Gatx e la relativa circolazione sulla Rete Ferroviaria Italiana». È quanto si legge in una nota diffusa ieri secondo cui «questo provvedimento sarà mantenuto in vigore fino a quando non verranno fornite da Gatx informazioni certificate e chiarimenti sulla componentistica dei carri utilizzati per il trasporto merci».

per i giornalisti che pubblicano informazioni acquisite e trattate dai giudici. A esprimere perplessità sulle nuove regole relative ai limiti della pubblicabilità di notizie acquisite e trattate dai giudici è il Garante della privacy, Francesco Pizzetti. Nella relazione sull’attività 2008, Pizzetti sottolinea che «una nuova disciplina è opportuna» ma ribadisce «perplessità sul ricorso a sanzioni penali a carico degli operatori dell’informazione». Del resto «non tocca all’autorità fissare le regole che presiedono al rispetto della libertà d’informazione garantita dalla Costituzione, se non quando siano concretamente in discussione eventuali

La clandestinità è reato Il «dolore» del Vaticano Solo la maggioranza approva il ddl voluto dalla Lega di Gugliemo Malagodi

ROMA. L’immigrazione clandestina diventa

e puntuali violazioni della riservatezza dei cittadini», aggiunge. Per Pizzetti «non vi è ragione di ritenere che la regolazione in via generale della libertà di stampa abbia una diretta e immediata connessione con la tutela della privacy». Eppure, la decisione presa dal Garante per la protezione dei dati personali sulle foto di Villa Certosa si applica a tutti, poiché «non è lecito riprendere, senza il loro consenso, persone all’interno di una privata dimora, compreso il parco e gli edifici che ne fanno parte».

Inoltre, l’operazione trasparenza avviata dal Ministro della funzione pubblica non deve rischiare di mettere a repentaglio il diritto alla privacy degli statali. Pizzetti segnala «la pericolosità della diffusione in rete, senza adeguate misure di protezione e di controllo, dei milioni di dati personali che l’amministrazione quotidianamente tratta». Dunque, il garante invita ad «una attenta valutazione dei diritti degli stessi funzionari pubblici» e aggiunge: «Occorre evitare una lettura della nuova normativa eccessivamente sbilanciata, che potrebbe tradursi in una violazione, a danno dei dipendenti pubblici, dei diritti fondamentali di ogni lavoratore».

reato. Ieri, con 157 voti favorevoli (tutta la maggioranza di governo), 124 contrari (Pd, Udc e dipietristi) e 3 astenuti, è stato approvato il contestato disegno di legge Maroni. È una legge destinata a cambiare radicalmente (spesso in modo molto restrittivo) il nostro rapporto con gli immigrati: porterà «molti dolori e difficoltà» agli immigrati, secondo il segretario del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, monsignor Agostino Marchetto Vediamo quali sono i punti principali della nuova legge.

Il ddl introduce il reato di clandestinità: è punito con un’ammenda che va dai cinquemila ai diecimila euro lo straniero che, violando la legge, «fa ingresso o si trattiene nel territorio dello stato». Inoltre previsto il carcere per «chiunque, a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ovvero cede, anche in locazione, un immobile ad uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».Va da sé che, essendo stato introdotto il reato di clandestinità, tutti coloro i quali si configurano come “pubblici ufficiali”(medici, professori, ecc.) hanno l’obbligo di contestare il reato medesimo. Viene prolungata fino a 180 giorni la possibilità di trattenimento degli irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione. In caso di mancata cooperazione al rimpatrio da parte del paese terzo interessato o nel caso di ritardi per ottenere la documentazione necessaria il questore può chiedere una prima proroga di 60 giorni di questo periodo, cui se ne può aggiungere una seconda. A questo proposito, viene istituito presso il ministero dell’Interno un fondo rimpatri per finanziare le spese per il rimpatrio degli stranieri verso i paesi di origine. La richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo il cui importo è fissato da un minimo di 80 a un massimo di 200 euro. Per l’acquisto della cittadi-

nanza il contributo da versare allo Stato è di 200 euro. Il coniuge straniero di un cittadino italiano può acquisire la cittadinanza quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se risiede all’estero. Viene istituito poi il cosiddetto accordo di integrazione: alla presentazione della domanda di rilascio del premesso di soggiorno, il richiedente deve sottoscrivere l’intenzione di ottenere specifici obiettivi di integrazione (chiamati crediti). La firma dell’accordo è condizione necessaria per il rilascio, la perdita totale dei crediti determina la revoca del soggiorno e l’espulsione dello straniero. Per “integrazione” la legge intende «quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri».

La legge prevede anche un giro di vite sul regime del carcere duro per i boss della criminalità organizzata e vincola gli imprenditori a denunciare il pizzo, manda a casa non solo i sindaci e i consigli comunali in odor di mafia, ma anche i singoli dirigenti amministrativi, se collusi. In pratica, gli imprenditori devono denunciare le richieste di pizzo che subiscono. Se non lo fanno vengono esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare di appalto. Aumenta a quattro anni la durata del carcere duro per chi è accusato di mafia e si sposta la competenza funzionale per i ricorsi al tribunale di sorveglianza di Roma in modo da garantire omogeneità di giudizio su tutto il territorio nazionale. I detenuti sottoposti a regime speciale saranno ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati. I colloqui con i familiari saranno sempre registrati; quelli telefonici saranno possibili solo se non vi saranno colloqui personali. Saranno ridotti a tre gli incontri settimanali con i difensori e a maggiori restrizioni sarà sottoposta anche la permanenza all’aperto. Infine, il procuratore nazionale antimafia manterrà i poteri di intervento nei procedimenti, che la legge attualmente gli attribuisce.

Sul fronte delle cause che possono aver provocato l’esplosione della cisterna, i tecnici dell’Agenzia nazionale della sicurezza ferroviaria «concordano su una causa univoca», cioè «il cedimento strutturale» del carro. Lo ha detto il direttore dell’Agenzia, Alberto Chiovelli, durante l’audizione al Senato. «Di concerto con Trenitalia, si è deciso di fermare i carri della società Gatx in attesa dei risultati dei controlli con gli ultrasuoni», ha aggiunto il direttore dell’Agenzia che ha aperto un fascicolo sull’incidente. «Siamo in contatto con i colleghi dell’agenzia nazionale tedesca che sta fornendo la massima colla-

Una tassa per il permesso di soggiorno, chi entra senza, pagherà una multa fino a 10.000 euro: carcere per chi lo aiuta

borazione» ha aggiunto Chiovelli secondo il quale sarà necessario «un secondo passaggio» di contatti con i tedeschi. «Le verifiche sono ancora in corso», le procedure come è noto sono di carattere sovranazionale ed è «necessario ha evidenziato - capire se siano state rispettate tutte le procedure in atto». Cresce intanto il numero delle vittime dell’esplosione: una donna ricoverata all’Ospedale della Versilia è morta intorno alle 14:30 di ieri. È la 19esima vittima del tragico incidente ferroviario che ha colpito Viareggio fra il 29 e il 30 giugno.Ad annunciarlo, il direttore della Asl 12 Giancarlo Sassoli nel corso di una conferenza stampa.


mondo

pagina 8 • 3 luglio 2009

Summit. Energia, disarmo nucleare, lo scudo anti-missile: il dossier dell’incontro di lunedì è corposo e molto complicato

«Da, we can»

Medvedev: «Come voi, pronti a cambiare» Obama: «Bene, ma rompete con il passato» di Antonio Picasso osca si prepara alla visita di Obama, fissata per lunedì prossimo, nel migliore dei modi. Ieri il presidente russo Medvedev ha sottolineato la disponibilità del Cremlino a un cambiamento di rotta nelle relazioni tra Russia e Stati Uniti proprio alla luce della nuova amministrazione alla Casa Bianca. Obama risponde in serata: «Con Medvedev un ottimo rapporto, ma Putin ha ancora molto potere. La Russia deve rompere con il passato». Si ripete quanto già avvenne a Londra.Tuttavia, il contesto allora era quello di un summit allargato, in cui l’incontro Medvedev-Obama risultò diluito. Lunedì, invece, i due Capi di Stato si guarderanno negli occhi e i riflettori non potranno essere distratti da altre questioni. In attesa dell’evento, Medvedev ha fatto un primo passo di apertura. «Come gli Usa - ha detto il presidente russo anche noi siamo pronti a cambiare. Sono

M

convinto che Russia e Usa abbiano di che confrontarsi produttivamente, oltre ad avanzare proposte congiunte per altri Paesi. Per questo dobbiamo muoverci su un unico binario, quello degli accordi».

Tra i punti che verranno trattati, e che sono stati ufficializzati da Mosca, vi sono la lotta al terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e il contrasto del narcotraffico. Tutti questi sono «dossier di responsabilità di due potenze, secondo cui dai nuovi assetti bilaterali russo-americani dipendono gli equilibri nel mondo nei prossimi decenni», si legge ancora nella nota del

siamo porre fine a tutte le nostre divergenze, possiamo almeno rendere il mondo più sicuro nonostante restino i contrasti». Se fossimo ancora nella guerra fredda, potremmo parlare di una nuova fase di “distensione”. Vale a dire un momento di reciproca cordialità fra le due superpotenze, dopo un lungo periodo di attriti. Effettivamente appaiono lontane le dichiarazioni di ostilità che Casa Bianca e Cremlino si scambiarono appena un anno fa durante la crisi georgiana. Come accaduto presso altre cancellerie, anche Mosca ha salutato la conclusione dell’Amministrazione Bush come l’apertura di un nuovo capitolo

Gli States non possono rinunciare alla via di rifornimento per l’Afghanistan che passa da nord, attraverso le ex repubbliche sovietiche e prima ancora dalle steppe russe del Cremlino Cremlino. Medvedev, infine, ha voluto citare Kennedy, ricordando le sue parole alla fine della crisi missilistica di Cuba nel 1962: «Se adesso non pos-

di confronto alla pari e di dialogo diplomatico.

Così ora, la Russia si prepara con un comitato di benvenuto per l’arrivo di Obama. Ieri un sondaggio del Levada Center, influente think tank moscovita, diceva che il 42 per cento degli intervistati russi

Il presidente russo Dmitri Medvedev. Il leader del Cremlino ha accolto con parole favorevoli la visita della sua controparte americana a Mosca. Il viaggio di Obama (a sinistra) nella capitale russa si candida per divenire uno dei momenti storici dell’attuale presidenza americana. I due si conoscono e si stimano: nella visita parleranno di disarmo

auspica una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti e che questo potrebbe essere possibile proprio grazie all’imminente visita di Obama. Infine, se pensiamo che quest’ultimo si incontrerà anche con il premio Nobel Gorbaciov, allora potremmo addirittura parlare di rapporto armonioso tra i due Paesi.

Da parte di Washington, infatti, è altrettanto innegabile la buona volontà di mantenere una linea di confronto amichevole.Tuttavia, gli argomenti che possiamo ipotizzare verranno trattati al Cremlino lunedì restano complessi. Al di là delle dichiarazioni ufficiali russe, l’agenda di Obama sarà impostata sul più classico realismo. Le questioni Afghanistan e Iran

saranno materia di confronto per le quali gli Usa vogliono ottenere il placet del Cremlino. Obama vuole capire come si sta muovendo Mosca nei confronti di Teheran. La questione dei brogli elettorali e del fatto che Ahmadinejad sia stato rieletto non nel modo più trasparente possibile non sarà un argomento prioritario nella visita di lunedì. Per la Casa Bianca è importante avere la garanzia che il regime degli ayatollah viri la rotta in ambito nucleare e si limiti a farne un uso civile, nel caso in cui riuscisse a raggiungere questo obiettivo.

Si tratta di una certezza che solo Mosca può dare, sia perché è l’unica a vantare un canale privilegiato in termini politi-


mondo

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L’opposizione a Putin spiega: la “nuova America” ci penalizza molto

«Ma a rimetterci saranno i dissidenti» di Marta Allevato elle parole o fatti reali? Se lo chiedono in molti in Russia in questi giorni di insolito “corteggiamento” tra Washington e Mosca in vista della storica prima visita di Barack Obama da presidente Usa nell’ex Urss, prevista dal 6 all’8 luglio prima del G8 de L’Aquila. I due giovani capi di Stato - Obama ha 47 anni e il uso omologo russo, Dmitry Medvedev, 43 - si stanno scambiando in queste ore parole di amicizia e inviti al dialogo e alla collaborazione molto diverse dalla retorica da Guerra Fredda che ha caratterizzato i rapporti tra le due super potenze nel secondo mandato di Bush. Lo si è capito subito dalla prima telefonata “di riscaldamento”tra i due leader: il 30 giugno è stato il capo del Cremlino a dare per primo del tu a Obama, che lo ha ricambiato con un “dear Dmitri”, confermando il clima amichevole e informale già instauratosi. E che dovrebbe essere coronato, nella più rosea delle previsioni, dall’annuncio di un preaccordo sulla riduzione delle armi nucleari e del permesso di transito di carghi militari Usa in Russia verso l’Afghanistan, dopo la recente ripresa della cooperazione politico-militare tra Russia e Nato. «Gli Usa - ha detto ieri Medvedev nel suo ormai tradizionale videoblog - dimostrano la disponibilità a costruire rapporti con la Russia più sicuri e più moderni e anche noi siamo pronti a farlo». «Sono convinto che Russia e Stati Uniti abbiano di che proporre l’una agli altri, oltre a proposte per altri Paesi. Per questo dobbiamo muoverci su un unico binario, quello degli accordi». Il presidente russo ieri ha addirittura evocato la linea “giusta” dell’ex presidente Usa, John Fitzgerald Kennedy, che nel prendere una decisione non semplice nella crisi dei missili di Cuba, si rivolse agli americani spiegando: «Se adesso non possiamo porre fine a tutte le nostre divergenze, possiamo almeno rendere il mondo più sicuro». Lo slogan lanciato da entrambe le Cancellerie è “reset”. Azzerare per ripartire da basi nuove. «Ma i cambiamenti non avvengono in una notte - nota Andrei Kortunov, analista del think tank New Eurasia - per questo le aspettative generali sul summit sono basse: tutto, ad eccezione di un fallimento, sarà considerato un successo per i rapporti futuri». Se tutto andrà bene, «assisteremo più a una ristrutturazione che a un azzeramento delle relazioni, in vista di un nuovo quadro per la collaborazione» suggerisce James Collins, ex ambasciatore Usa a Mosca. Il momento è «delicato e gli Stati Uniti - sottolinea Igor Panarin, professore all’Accademia diplomatica del ministero russo degli Esteri - hanno un bisogno fondamentale di Mosca per impedire che la seconda fase della crisi economica sia il

B

Il 42 per cento dei russi auspica da tempo una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti e spera che questo possa essere possibile proprio grazie all’imminente visita di Barack ci, sia perché è quella che fornisce a Teheran know how e uranio per la ricerca. Per la questione afgana poi - comunque connessa con l’Iran - è ormai chiaro che gli Usa non intendono rinunciare alla via di rifornimento che passa da nord, attraverso le ex repubbliche sovietiche e, prima ancora, dalle steppe russe. Con il Pakistan che rimane la grande incognita in termini di sicurezza e stabilità politica, Washington - più in generale la Nato - non può precludersi una via di accesso così strategica per fare la guerra ai talebani. Andiamo avanti.

Ci sono altri due punti che potrebbero essere toccati. Si tratta dello scudo spaziale e della Georgia. Ed erano stati proprio questi a irrigidire i rapporti Mosca-Washington ai tempi di Bush. Per entrambi, tuttavia, l’atteggiamento di Obama sembra essere di attesa. Il progetto del Pentagono di installare basi missilistiche nell’Europa orientale non è stato scartato. Ma ha subito un sensibile rallentamento. Così anche la crisi caucasica, che quasi un anno fa si concretizzava con l’intervento russo a fianco di Abkazia e Ossezia del sud, appare congelata. Forse potrebbero essere riaperti entram-

bi i “dossier”e forse proprio questi potrebbero non trovare un punto di accordo, a differenza delle questioni centro-asiatiche. Perché anche a Mosca fa comodo avere il fianco sud pacificato grazie a Washington. Mentre per il Caucaso e lo scudo missilistico, c’è da chiedersi quanti passi indietro siano disposti a fare entrambi. La Russia sarà disposta a riconoscere alla Georgia uno spazio di movimento tra Caucaso e Mar Nero? E gli Usa vorranno revocare del tutto l’opzione delle basi in Europa orientale?

Concludiamo con un ultimo punto che conferma il realismo di Obama. L’incontro al vertice di lunedì sarà tra due Capi di Stato che si conoscono appena, ma che hanno già deciso di stringere un rapporto informale. Medvedev e Obama, infatti, si danno del tu ed evitano le rigidità protocollari. Tuttavia, è previsto che il capo della Casa Bianca incontrerà anche il Primo Ministro russo, Vladimir Putin. È una rottura degli schemi che conferma come a Washington si nutra la visione di una Russia bicefala. Un regime anomalo, questo, anche in clima di distensione e con cui gli Usa non disdegnano il confronto.

crack del dollaro». Proprio per non rischiare di “offendere” il Cremlino, prevede Aleksey Mitrofanov - ex membro della Duma per il Partito democratico liberale - «Obama non incontrerà l’opposizione russa, come hanno fatto sempre i suoi predecessori, né probabilmente punterà il dito contro la preoccupante condizione dei diritti umani nel Paese».

Le difficoltà di pensare che le belle parole si concretizzino subito in fatti aumentano se si tiene conto della natura ambigua del potere politico in Russia. Contrariamente a quanto avvenuto finora nei summit bilaterali, Barack non avrà come unico interlocutore il suo omologo, ma incontrerà anche il premier Vladimir Putin. Che, lasciata la presidenza da due anni, continua di fatto a guidare il Paese. Da una parte questo è segno del pragmatismo della nuova Amministrazione Usa, consapevole del fatto che nella Federazione Russa i conti, soprattutto sul piano economico,

Il leader della Casa Bianca incontrerà anche Putin, un segno della sua realpolitik. Ma i due sono profondamente diversi, e temono l’Iran per motivazioni completamente all’opposto vanno fatti proprio con l’ex agente del Kgb. Dall’altra, però, è anche il motivo di maggiore preoccupazione per chi spera davvero in una nuova era di cooperazione. Secondo Boris Nemtsov, ex vicepremier di Eltsin e oggi a capo del movimento di opposizione democratica Solidarnost’, «al di là degli auspici, Obama e Putin hanno valori completamente differenti e questo genera una totale mancanza di fiducia uno verso l’altro». «Per il primo continua il politico - libertà e democrazia sono vissuti come valori personali, mentre cioè che muove l’altro sono denaro, affari e potere». Forse, suggerisce Nemtsov, l’unico punto su cui potranno concordare è l’Iran: «Putin inizia a capire che il presidente iraniano Ahmadinejad potrebbe essere un concorrente economico con la vendita privata di gas e la realizzazione del progetto Nabucco». Di Teheran Obama tema le bombe, Putin la concorrenza.


panorama

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Autonomisti. Sergio De Gregorio punta alla Regione Campania. In nome dei piccoli del centrodestra

L’ultima Lega? Quella napoletana di Ruggiero Capone

NAPOLI. «Una maggioranza silenziosa e in grigio non mi piace», pare abbia confessato Sergio De Gregorio (parlamentare eletto nella Pdl) a uno storico democristiano napoletano. «Ma tu lo sapevi che il Popolo della libertà doveva assurgere a monolite di silenziosi uomini in grigio, pronti a farsi piramide umana per il proprio leader?», gli obietta il tipo.Vuoi l’atmosfera partenopea, vuoi la certezza che il Pdl non sarà mai un partito interclassista (laico e cattolico) come la storica Balena Bianca, De Gregorio ha preso coraggio, decidendo di auto-proclamarsi «vero candidato moderato alla presidenza della Regione Campania». «L’uomo non è un fesso - commentano i notabili partenopei di centro - e per non-fesso s’intende che ha

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

le qualità, la stoffa e gli appoggi. Non dimentichiamo che De Gregorio è presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato». Ma De Gregorio ha anche i voti, e ama contarli in pubblico. Un po’ come la gente che ha fatto soldi e nei bar di paese offre per tutti.

Ad appoggiare finanziariamente ed elettoralmente l’uomo c’è l’Associazione internazionale italiani nel Mondo, pre-

cosa la sa bene Rotondi», suggerisce Potito Perruggini, che anni fa organizzò a Bari una riunione tra i vari pezzi della Balena Bianca a cui parteciparono tutti i Dc in difficoltà nel contenitore berlusconiano. Ebbene, la rete di solidarietà democristiana rappresenta certamente una frangia folcloristica, ma ha dimostrato (e con i fatti) d’appoggiare De Gregorio. Soprattutto da certi ambienti verrebbe la spinta a una pace tra De Gregorio, Gianfranco Ro-

Il parlamentare del Pdl, leader dell’associazione «Italiani nel mondo», vuole riunire tutti i pezzi della vecchia Dc, da Rotondi a Piazza a Scotti sieduta proprio da De Gregorio. Ha il suo quartier generale a Napoli, e pare covi al suo interno l’associazione dei “napoletani nel mondo”. Strutture che organizzano a New York come a Londra, Berlino, Caracas, Buenos Aires, comizi dei politici italiani e, non ultime, le tournee dei cantanti neo-melodici e di attori ed artisti napoletani. Da molti, le strutture sono ritenute delle dependance dei democristiani nel mondo. «La

tondi, Pizza, Sandri e Scotti. Sodalizio che potrebbe decollare proprio in concomitanza con le regionali campane. Ad alzare questo polverone mirerebbe il De Gregorio che, a conti fatti, s’ergerebbe ad ago della questione campana. In questa linea s’inquadra la sua annunciata candidatura alla presidenza della Regione Campania: «Presenterò la mia candidatura a presidente della Regione alle prossime elezioni del 2010, an-

che nel caso in cui il Popolo della libertà dovesse operare scelte diverse. Matura nell’ambito di un ragionamento che tende ad evidenziare alla dirigenza nazionale del Pdl, ed al presidente Silvio Berlusconi, la costante mortificazione della dignità del contribuito politico dei piccoli partiti, peraltro fondatori del Pdl».

Non basta: «Il movimento politico Italiani nel mondo, che ha espugnato il collegio più rosso d’Italia, quello di PoggiorealePonticelli - continua De Gregorio - avverte la necessità in Campania di segnalare al presidente Berlusconi, ed ai coordinatori nazionali del Pdl, l’assenza di ogni democrazia partecipativa, in danno dei partiti minori che, pure in questa regione, esprimono forte consenso ed una cospicua percentuale di voti: ho già comunicato al ministro Gianfranco Rotondi e agli altri coordinatori dei piccoli partiti costituenti la coalizione del Pdl, la mia decisione di segnalare questa anomalia, tutta campana, attraverso l’unico strumento possibile: la mia candidatura alla presidenza della Regione Campania».

Ecco come invertire la cinica logica che uccide i cani. Per strada o nei canili-lager...

Si fa presto a dire «abbandoniamolo» on sono in grado di abbandonare chicchesia, figuratevi un cane. Mentre scrivo sono controllato a vista da due cani - due signor nessuno, due bastardini - che se non fossero qui grazie alla generosità di mio fratello e alla santa pazienza del parentando chissà dove avrebbero da tempo ormai trovato la morte. Perché i cani abbandonati vanno incontro a morte sicura. E non è detto che sia il loro destino peggiore. Sempre meglio che entrare in uno di quei canili in cui tra bastonate, stenti, sporcizia moriranno con agonia. Più che canili sono campi di sterminio. In Sicilia la mortalità annua delle povere bestie è pari al novanta per cento delle presenze (prendo il dato dall’articolo di Pietro Calabrese del Magazine del 18 giugno scorso).

N

Per ogni cane che muore ne entra subito un altro e per ogni cane che entra il Comune paga la retta giornaliera. A chi dunque può fregare se i cani marciscono e muoiono nel canili? Più cani muoiono più soldi entrano. L’estate è la stagione dell’abbandono del migliore amico dell’uomo. Si parte per le vacanze, si va al mare e ai monti, si prepara la macchinina, si sistemano le carabattole necessa-

rie, ma non c’è posto per lui: l’amico a quattro zampe. Magari ce lo porteremmo pure, ma lì al villaggio vacanze non lo vogliono, lì non c’è posto per lui, non può andare in spiaggia, non può entrare in stanza. È un problema. A casa non rimane nessuno. Come si fa? Abbandoniamolo. La formula che si usa è questa: “Lo porto a sperdere”. Di solito avviene su una superstrada o su una via secondaria, comunque non vicino la casa, in modo tale che il povero nostro ex amico non ritrovi la via di casa, che non più casa sua. L’abbandono del cane è davvero una delle più grandi infamie che si possano commettere. Non c’è, infatti, al mondo animale più fedele del cane. L’uomo che abbandona il cane merita di essere a sua volta abbandonato. Con la crisi sembra che il fenomeno de-

gli abbandoni dei cani sia maggiore. È pur sempre una bocca in meno da sfamare. Le campagne di prevenzione, dalla stampa ai telegiornali, hanno dunque una comprensibile ragion d’essere. Gli appelli di personaggi popolari che invitano a non abbandonare i cani e ad averne cura come se fossero dei figli non sembrano, però, avere granché effetto. Ogni anno iniziative come queste si ripetono, ma ogni anno il fenomeno incivile dell’abbandono dei cani ritorna puntuale e i dati vengono ritoccati al rialzo. Anche l’anagrafe canina, quindi la conoscenza dell’esistenza del numero dei cani e dei relativi padroni, non sembra proprio incidere in modo consistente sul fenomeno. Sono pochi i cani registrati e, comunque, se un padrone è un bastardo tale rimane, anche in presenza di una

legge che evidentemente è aggirata con facilità. Che fare? Avrei un piccolo suggerimento: il randagismo e i canili-lager sono tra loro collegati. Come si è visto, più cani muoiono, più si guadagna. Perché allora non provare a invertire la logica: più ne muoiono, meno si guadagna, meno ne muoiono, più si guadagna.

I canili sono luoghi lugubri, lontani dagli occhi della gente, lontani dal giudizio comune, abbandonati anche dagli stessi Comuni che pagando le rette si sgravano di un peso. I Comuni non vogliono gestire, amministrare, curare, verificare, garantire, no. Vogliono unicamente appaltare. C’è il problema randagismo? Appaltiamo e il gioco è fatto. Hanno dei fondi a loro disposizione, vanno spesi proprio per avere il servizio e se poi il gestore del canile tratta i cani come carne da macello non è un affare che riguarda la coscienza amministrativa. L’inversione della “logica cinica” potrebbe avere degli effetti positivi: per ogni cane che muore, il prossimo entra gratuitamente. I Comuni attenti almeno alla spesa e ai conti dovrebbero essere interessati alla proposta. Se non per risparmiare i cani, almeno per risparmiare i soldi.


panorama

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Fischi governativi. Berlusconi «torna sulla terra» e comincia a fare i conti con le contestazioni popolari

E il «buon padre» si scoprì semplice «papi» di Giuseppe Baiocchi l nostro ineffabile Presidente del Consiglio si merita un sincero: «Bentornato sulla Terra». Le contestazioni all’aperto ricevute a Viareggio, tra la gente appena colpita da una tragedia terribile e impensabile, non sono liquidabili come una «claque negativa» organizzata dalla solita «cattiva sinistra», che vuole rovinare l’immagine dell’uomo che sta salvando il Paese. C’è stato in passato e ci sarà ancora anche questo (nessuno è così cieco): ma in così drammatiche circostanze sembra appannarsi quella sintonia che indubbiamente faceva del rapporto tra il leader e il popolo indistinto incontrato per strada un fattore determinante di un indiscutibile successo (che si rovesciava sempre nelle urne elettorali).

I

La presenza fisica, la corrente di simpatia, il fluido misterioso e immediato che si stabiliva magari con semplici passanti è sempre stato il patrimonio immateriale ed esclusivo che ha contrassegnato l’intera e irripetibile carriera di Silvio Berlusconi: da venditore di case, di tv e di sogni fino alla straordinaria vicenda politica. Ed è forse que-

Per il premier il “cerchio magico” sembra essersi dissolto, ad appena un anno dall’insediamento di un governo sorretto da una forte maggioranza sto elemento, incompreso e sottovalutato (se non disprezzato) dai circoli intellettuali e dagli avversari politici ed economici, ad aver favorito più di ogni altro il suo sorprendente successo, oltretutto consolidato in un tempo particolarmente prolungato. Ogni osservatore disincantato e non prevenuto, che ha

avuto l’occasione di assistervi di persona, è rimasto colpito dalla capacità istintuale di entrare in comunicazione emotiva con la gente, di farsi sentire al medesimo livello.

L’ultimo episodio esplicito è avvenuto con il sisma dell’Abruzzo, dove la presenza ripe-

tuta, la sensazione di efficienza, oltre agli abbracci e alle effusioni di affetto verso i terremotati, hanno rinnovato in pieno il feeling popolare e populista. Non sono passati nemmeno tre mesi, eppure la magìa appare largamente impallidita. E anche accorrere tra le vittime di una nuova tragedia, per l’impulso insieme generoso e relazionale che è parte del suo intimo carattere, questa volta ha funzionato molto meno. Come se sfocasse in lontananza l’immagine del “Buon papà”pubblico, premuroso e rassicurante, e si imponesse al suo posto quella ambigua e inquietante del “papi” egoista e malinconicamente trasgressivo. Le rivelazioni e i gossip delle ultime settimane probabilmente non potranno portare a conseguenze giudiziarie e ad impeachment politici : lasciano però una profonda sensazione di amaro, ugualmente diviso tra chi ha avuto l’illusione di servirsene a fini mediatici e di potere e chi ne è stato oggetto ripetuto e talvolta imbarazzato. Semmai l’amaro aumenta, se non si coglie fino in fondo il significato diseducativo: quello cioè, alla faccia della tanto con-

Paradossi. Per il ministro Scajola «il Paese ha bisogno di cose concrete, non di lenzuolate»

Il liberista contro le liberalizzazioni di Carlo Lottieri a vita politica vive di polemiche e di tutto un insieme di piccoli schiamazzi che non interessano per nulla ai cittadini, ma rappresentano il pane quotidiano dei politicanti. In questo senso si può capire, allora, perché intervenendo all’Ania il ministro Scajola abbia affermato che «il Paese ha bisogno di cose concrete, e non di lenzuolate». La speranza, ovviamente, è che il ministro abbia attaccato le liberalizzazioni di Bersani perché sono fallite nei fatti ed erano anche assai incerte negli obiettivi. C’è però il rischio, confermato da più indizi, che questo governo non abbia alcuna intenzione di allargare gli spazi della libera iniziativa. Il presidente del Consiglio continua a fornire materiale ai settimanali popolari, mentre il resto dell’esecutivo (fatte salve alcune lodevoli eccezioni) tira a campare.

L

ralizzazione dei servizi pubblici locali che non danno al cittadino buona efficienza e basso costo». Di questo passo, immaginando di «aggiungere qualcosa» e lasciando intendere che non c’è nessuna vera svolta all’orizzonte, l’Italia impiegherà probabilmente cinque o sei secoli a diventare un Paese un po’ più normale. È un vero peccato, tanto più che di recente una ricerca del-

Come se non bastasse, ha anche spiegato che, grazie al federalismo, il governo intende «aggiungere qualcosa» ai serivizi pubblici

Non sembra promettere granché, in particolare, un’altra frase pronunciata ieri da Scajola: «Proseguiremo sul piano delle riforme con il federalismo fiscale e aggiungeremo qualcosa per incrementare la libe-

la Banca d’Italia ha rilevato che se il nostro Paese riuscisse a ridurre le posizioni “protette” (energia, trasporti, servizi locali, professioni, ecc.) al livello medio degli altri paesi europei ne ricaverebbe un aumento di medio e lungo termine del Pil valutabile intorno all’11%, e la prima metà di questo beneficio giungerebbe (un +6,5% del Pil) già nel primo triennio. Ma per ottenere tutto questo non basta “aggiungere qualcosa”. Preoccupa il fatto che nessuno, nel governo, immagini la possibilità di privatizzare: di avviare un massiccio piano di vendite. Perché nei settori cruciali le uniche vere li-

beralizzazioni possono realizzarsi compiutamente, com’è successo nel Regno Unito, quando gli asset principali vanno in mano privata e quindi non vi è più un soggetto (Poste Italiane o Trenitalia, per intenderci) che sia «più uguale degli altri». Rinunciando a recidere il cordone ombelicale che lega lo Stato a talune imprese, è da ingenui immaginare che si possa avere un mercato aperto.

Per giunta, oggi più che mai la crisi impone un impegno accresciuto affinché si tenti almeno di abbassare il debito, in modo tale da ridimensionare la quantità di denaro pubblico necessaria a pagare gli interessi e, di conseguenza, al fine di poter ridurre in maniera significativa le imposte. Dismettere il parastato è quindi ormai la via obbligata e apre la strada ad una vera liberalizzazione. Chi ci dice che intende limitarsi ad “aggiungere qualcosa”, però, sta pensando ad altro: e le conseguenza di questa mancanza di coraggio non tarderanno a farsi sentire.

clamata privacy, che è insopprimibile nel Palazzo l’antica tentazione di voler fermare il tempo, di poter procrastinare gli insulti dell’anagrafe, immergendosi a piene mani in un bagno di gioventù. Scorciatoia che paradossalmente lambisce, in forme certo caste e commendevoli, pure la profonda crisi di identità del principale partito di opposizione.

Per il premier comunque il “cerchio magico” appare essersi dissolto, ad appena un anno dall’insediamento di un governo sorretto da una compatta maggioranza. Non è un caso che le uscite in strada si siano improvvisamente diradate. E forse anche la corte che lo circonda (dove sembrano abbondare più adulatori e sicofanti che spietati consiglieri) può accorgersi che i fischi e le grida sono un elemento fisiologico (per quanto ineducato) di legittima e democratica insoddisfazione. E che la simpatia comunicativa, le “promesse del fare”, il “sole in tasca” non bastano più: anche nell’immaginario collettivo cominciano a contare soltanto, prosaici e testardi, gli atti e i fatti.


iran

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Malgrado le omissioni dell’Europa e il mutismo del mondo mus

Teheran, il silenz

di Gennaro

Teheran regna una calma apparente. Sulla rivolta di giugno sembra essere calato un velo se non di silenzio, almeno di opacità. Eppure le manifestazioni di intolleranza si susseguono. Bande di miliziani basiji terrorizzano la popolazione accanendosi contro singoli sospettati di aver preso parte alle proteste contro il regime. Li intimidiscono in vario modo. Minacciano le loro famiglie, distruggono i loro averi, spesso li arrestano senza plausibili motivazioni. Nel Paese le notizie circolano con difficoltà. Internet resiste come può, ma il controllo delle autorità è ferreo. Tuttavia la resa non c’è stata. Ed è soltanto la propaganda dei mullah ad accreditare la vittoria di Ahmadinejad. Moussavi, intanto, respinge qualsiasi tipo di compromesso, chiede di liberare i “figli della rivoluzione”. Dice che «è nostra storica responsabilità continuare la protesta e non abbandonare i nostri sforzi per difendere i diritti della nazione». Ma quanto potrà durare l’opposizione con i giornali imbavagliati, per quanto i pochi che escono, come il satirico Persepolis, sono particolarmente battaglieri, le famiglie dei ragazzi scese in piazza che perdono sussidi, provvidenze e lavo-

A

ro, giovani che hanno ripopolato le carceri?

Il mondo politico occidentale, dopo i primi sussulti, all’indomani delle elezioni truccate, sembra essersi nuovamente acconciato nel ritenere la questione iraniana sullo sfondo delle preoccupazioni della comunità internazionale, trascurando il particolare che a Teheran si giocherà nei prossimi anni una partita decisiva per i destini dell’umanità e non soltanto in riferimento all’arsenale atomico che gli ayatollah stanno mettendo in piedi in sinergia con il governo nordcoreano. Perciò l’attenzione deve essere tenuta desta. L’iniziativa di Zapping e di liberal, al riguardo, è assai significativa per battere l’indifferenza, la rassegnazione, la distrazione anche della classe dirigente, oltre che dell’opinione pubblica italiana. E stride, per esempio, con l’inspiegabile atteggiamento della comunità iraniana della diaspora. Uno dei fattori più sorprendenti della crisi, infatti, finora è stato l’assordante silenzio dei musulmani in Occidente. Non reagiscono gli islamici moderati, non si fanno sentire gli esuli, a vario titolo, dell’Iran. Soprattutto negli Stati Uniti, dove risiedono centinaia di migliaia di cittadini di origine iraniana (qualcuno dice un milione e mezzo), non si registrano interventi di nessuna natura. Eppure

sono i discendenti dell’elite del Paese, parte della quale emigrò ai tempi dello Scià e la più consistente dopo l’avvento di Khomeini. Ci si sarebbe aspettati da loro una qualche forma di iniziativa a sostegno delle proteste che stanno infiammando Teheran. Invece niente. Al contrario, la sola dichiarazione fatta dal figlio di Reza Pahlevi, capo delle famiglia reale spodestata, ha provocato reazioni indignate tra i suoi connazionali che ricordano come l’avidità del padre e la sua disinvolta pratica di governo, sostenuta dalla Savak, la feroce polizia segreta i cui metodi non erano molto dissimili da quelli dei pasdaran e dei basiji, ha creato le premesse per l’instaurazione del regime dei mullah.

Forse il disincanto degli iraniani esuli nasce dal fatto che non si fidano di nessuno e, prima di assumere qualche inizia-

fatti sentire: chi più, chi meno tutti hanno detto la loro. Ma l’Unione europea come entità sovranazionale, quale potenza economico-finanziaria con ambizioni politiche anche in questa occasione non è stata capace di parlare con una sola voce, di mostrare la forza, di condizionare in qualche modo il regime dei mullah. Per dirne una: non ha preso nessun contatto (ma chi avrebbe dovuto e potuto farlo, Barroso, la Ferrero-Waldner, Solana, Poettering in quanto presidente uscente del Parlamento europeo?) con Khatami, Rafsanjani o lo stesso Montazeri, magari informale e discreto.

Soltanto dopo più di venti giorni dall’inizio della rivolta, comincia a circolare nelle cancellerie europee l’ipotesi di richiamare da Teheran

Uno dei fattori più sorprendenti della crisi è stata la totale indifferenza dei musulmani in Occidente. Non reagiscono gli islamici moderati, non si fanno sentire gli esuli dell’Iran

tiva, vogliono vederci chiaro, intendono capire che piega prenderà la rivolta, se diventerà o meno una vera e propria rivoluzione, insomma. Stanno alla finestra, per ora. E fa un certo effetto vedere celebrità mondiali come il tennista irano-americano Andre Agassi non esporsi; la stella della Cnn, Chistianne Amanpour o l’autrice del best seller Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi mostrare un certo distacco. Almeno all’apparenza. Così come di difficile comprensione risulta l’atteggiamento dell’Europa davanti agli avvenimenti iraniani. Mentre nelle città esplodeva la violenza, la metà del Majilis rifiutava di festeggiare la “vittoria”di Ahmadinejad, la capitale era in lutto per l’atroce assassinio di Neda Agha Soltan, diventata in breve tempo simbolo della rivoluzione, settanta universitari venivano arrestati con l’accusa di riunirsi con Moussavi, il Grande Ayatollah Alì Hussein Montazeri dall’esilio di Qom incitava i suoi connazionali a proseguire la lotta, l’Europa sostanzialmente taceva, imbambolata e frastornata, di fronte agli eventi che dal 12 giugno sono diventati di giorno in giorno più tragici. Non che gli Stati nazionali non si siano

ventisette ambasciatori dei Paesi dell’Unione, come rivela in New York Times, in segno di protesta per l’arresto di nove diplomatici britannici, otto dei quali peraltro rilasciati, mentre uno solo è rimasto nelle mani dei carcerieri con l’accusa di aver fomentato i disordini post-elettorali. Il capo delle forze armate iraniane, generale Hassan Firuzabadi, per tutta risposta ha accusato l’Europa di ingerenza ed ostilità: «I Paesi dell’Ue – ha detto – non sono più qualificati per avere trattative con l’Iran». Eppure il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, davanti alle Commissioni di Camera e Senato, ha ribadito la volontà dell’Italia, ed immaginiamo dell’Ue, di «esplorare i margini utili per riprendere la strada di un dialogo sul dossier nucleare, anche se le possibilità sono ridotte». E allora che si fa? Forse sarebbe più utile se l’Europa allertasse le sue rappresentanze diplomatiche a Teheran per far sentire a Khamenei quanto il mondo libero sia indignato e mal disposto davanti ai metodi brutali dei suoi burattini lai-


iran

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sulmano moderato, il potere di Ahmadinejad sta subendo duri colpi

zio nella tempesta

o Malgieri

gante Ahmadinejad riuscirebbe a capire che i misfatti di cui si è macchiano non resterebbero senza conseguenze. Cosa può realisticamente fare, dunque, l’Europa per l’Iran? Potrebbe isolarlo sospendendo tutte le relazioni diplomatiche e commerciali, ma questa strada è la più impervia non soltanto per i problemi legati alle indispensabili forniture di greggio, ma anche per il fatto che a subirne le conseguenze sarebbe la popolazione costretta a subire le conseguenze dell’aggravarsi della sua già notevole povertà. Il regime avrebbe buon gioco per lanciare una sorta di jihad contro l’Europa additandola quale nemica del popolo e ricompattandolo in nome del superiore interesse alla sopravvivenza. Sarebbe un errore.

La guerriglia per le strade si è trasferita nei palazzi del potere della Capitale del Paese. Dove ci si chiede se le leve del comando siano ancora saldamente nelle mani di Alì Khamenei ci e religiosi: ritirare gli ambasciatori potrebbe essere controproducente in quanto gli iraniani si sentirebbero più soli e perderebbero una finestra aperta sull’Occidente; prendesse contatti con gli Stati Uniti, con la Russia e con i paesi arabi moderati per studiare un piano comune. Da quest’ultimi qualcosa si è mosso negli ultimi giorni: il sultano dell’Oman,

Quaboos bin Said, secondo quanto scrive il Times, avrebbe rinviato sine die la visita programmata da tempo a Teheran. Non è molto, ma è almeno un segnale di insofferenza.

Ciò che sconcerta, mentre si assiste allo scempio dell’Iran, alle impiccagioni (sei giovani dissidenti ieri l’altro sono saliti sul patibolo), alle falsificazioni

del regime (Neda secondo la polizia iraniana sarebbe stata uccisa dal medico che ha cercato di rianimarla, ora fuggito in Inghilterra), è che l’Europa ha dimostrato ancora una volta di non esistere. Non ci si venga a dire che l’Unione non ha i mezzi per intervenire. È una balla colossale. Se si considera che rispettivamente la Germania e l’Italia sono i primi due partner commerciali dell’Iran, si capisce come di fronte ad interessi economici e strategicofinanziari il governo iraniano non può non tenere conto dell’opinione europea. Se l’Unione riuscisse ad esprimere una corale condanna, con conseguenze tangibili, forse anche l’arro-

Al contrario, l’Unione potrebbe spingere, con l’accordo di tutti, per un processo di pacificazione, sostenuto dai leader ragionevoli, quelli che si oppongono a Khamenei insomma, i quali vedono ormai compromessa la leadership della Guida Suprema. Naturalmente senza l’appoggio esplicito o quanto meno in assenza della neutralità della Russia e dei paesi arabi non è possibile niente del genere. Perciò l’Europa dovrebbe dichiarare, senza equivoci, che la Repubblica islamica non è in discussione, ma che intende difenderne il principio ispiratore che può coniugare la libertà ed i diritti umani con l’abbandono delle velleità atomiche dell’Iran. Infine, l’Europa dovrebbe accentuare l’appoggio alla rivolta, sensibilizzando le sue istituzioni, intervenendo attraverso l’informazione, la cultura, accentuando la vicinanza in tutte le forme possibili al popolo. Insomma, gli iraniani dovrebbero sentirsi un poco europei perché non mollino. Sarà possibile? Vorremmo rispondere positivamente, ma sappiamo che l’Europa politica è ancora di là da venire. Ma non lasciamo solo comunque l’Iran e soprattutto non riempiamolo di carte, mozioni, interrogazioni, appelli che non servono a niente se a tutto questo dispiegamento di dichiarazioni retoriche non seguono fatti concreti. Roxana Saberi, la giovane giornalista iraniano-statunitense, libera da poco più di un mese e che porta su di sé ancora i segni della durissima detenzione, ha dichiarato dagli Stati Uniti dove è rientrata che «tutti gli iraniani

che entrano in contatto con gli stranieri, soprattutto se occidentali, possono essere accusati di agire contro la sicurezza nazionale». Ecco: di questo i governi europei rendano testimonianza tangibile, raccontino le storie, attraverso i loro diplomatici, intervengano con clamore al fianco di chi viene imprigionato o minacciato. E rischino pure gli strali di un folle che si è fatto fare presidente. Il mondo libero proprio perché tale è più forte. E sa che se mette il naso negli affari di un regime corrotto e sanguinario prima o poi contribuirà a spegnerlo.

Intanto la guerriglia per le strade si è trasferita nei palazzi del potere di Teheran. Dove ci si chiede se le leve del comando siano ancora saldamente nelle mani di Alì Khamenei. Dopo il pronunciamento del clero sciita di Qom, ed in particolare del Grande ayatollah Alì Montazeri, i mullah cercano di capire con chi stare per garantirsi l’avvenire. Il fatto che l’ex-presidente della Repubblica islamica Hashemi Rafsanjani, tuttora a capo del potente Consiglio degli esperti, sia un nemico dichiarato della Guida Suprema, in parte rassicura i seguaci di Moussavi che vedono in lui una “sponda”piuttosto sicura. L’altra gliela offre, sul piano morale e culturale, il “mite” Mohammad Khatami, anche lui ex-capo dello Stato. Il potere che questi uomini, insieme con la vecchia guardia del khomeinismo storico, incarnano, è abbastanza forte per lanciare la sfida al regime, anche se nessuno può scommettere sui tempi. Bisogna tener conto dello sfaldamento del clero, delle falle che si stanno aprendo nelle file dei pasdaran e dei basiji, nell’esercito, nella magistratura. Ahmadinejad controlla tutto l’apparato nel quale ha innestato uomini “nuovi” e molto determinati per condurre fino alle estreme conseguenze la repressione. Alcuni sono già tristemente famosi: Asedollah Lajevardi, detto il “macellaio”, che sovraintende alle torture nel carcere di Evin; Saeed Mortazavi, giudice preposto a condannare i dissidenti; Sadegh Khalkhali, feroce capo delle corti islamiche, praticamente “padrone” dell’amministrazione giudiziaria. La Repubblica islamica avrà certamente ulteriori scosse che destabilizzeranno il potere. Gli squilibri sociali, la crescente povertà, l’insoddisfazione della borghesia, il ruolo dei bazarì che non hanno ancora deciso con chi schierarsi saranno elementi costitutivi di una ben più sanguinosa partita che si sta preparando. A Teheran, insomma, la calma non è assolutamente alle viste, come il regime vuol far credere. E gli eredi di Khomeini, si apprestano allo scontro finale dal cui esito dipenderà il destino dell’intera regione.


iran

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Diplomazie. L’Italia cerca di procrastinare la discussione. Mentre il presidente israeliano viene applaudito dai leader arabi

L’Angela dell’Iran La Merkel: «All’Aquila duri con Teheran» Frattini nicchia: «Rimandiamo a settembre» di Vincenzo Faccioli Pintozzi prigionieri rinchiusi nelle carceri iraniane «non vanno dimenticati, così come non furono dimenticati quelli che si trovavano nelle prigioni della Germania dell’Est. Grazie alla memoria e all’impegno del mondo, molti detenuti politici sono usciti da Bautzen e Hohenschoenhausen». Lo ha detto ieri la Cancelliere tedesca Angela Merkel che, di ritorno dalla sua visita ufficiale negli Stati Uniti, ha auspicato che dal prossimo incontro del G8 a L’Aquila esca «una risposta forte e unitaria al governo dell’Iran». All’auspicio della Cancelliere ha risposo in maniera neanche troppo indiretta il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che ha rilanciato ancora ieri l’ipotesi di un incontro degli otto grandi al margine del vertice G20 previsto a New York per la prossima settimana. Un G8 intermedio dei ministri degli Esteri, questa la proposta lanciata dalla Farnesina, per arrivare a una decisione sull’Iran. Parlando ai giornalisti, convocati a margine dell’incontro sul Ruolo dei parlamenti per raggiungere gli obiettivi del millennio a Montecitorio, Frattini ha detto: «Al G8 dell’Aquila ci sarà una discussione politica sull’Iran. Si dirà che la “politica della mano tesa” non è a tempo indeterminato. Ci sarà un redde rationem. Mia personale previsione è che la

I

discussione includerà tutte le opzioni».

Il titolare della Farnesina ha poi risposto alle richieste di un allargamento del G8, avanzato sempre dalla Merkel: «La presidenza italiana ha compiuto un passo avanti intermedio, affermando che il G8 si allarga in modo strutturato al gruppo dei cinque, che diventano poi sei. Non lo chiamiamo G14, lo chiamiamo G8+5+1». In seguito, ha aggiunto Frattini, spetterà «alla presidenza canadese fare eventualmente un altro passo avanti. Fare confusione tra G8 e G20

Il Cancelliere tedesco chiede al mondo di non dimenticare i prigionieri politici nelle carceri degli ayatollah e li paragona a quelli arrestati nella Rdt, che l’Occidente ha sempre ricordato oggi non è possibile, domani si vedrà». Il G20, ha concluso, «si occupa delle questioni di breve e di medio termine, il G8 si occupa delle questioni di lungo termine, ossia delle strategie. Evidentemente è un discorso aperto, ma finora non ci siamo sovrapposti: questo è una fattore molto positivo».

L’idea di spostare a New York il dibattito sull’Iran era stata già tratteggiata due giorni fa dal presidente della Commissione esteri del Senato, Lamberto Dini, al termine dell’audizione sull’Iran svolta dal ministro degli Esteri. Nonostante le numerose po-

lemiche che volevano una posizione più dura da parte dell’Italia, presidente di turno del G8, sulla questione iraniana, Dini ha detto: «Abbiamo condiviso assolutamente la posizione assunta dal governo italiano e dal G8 nel condannare pienamente le violenze che sono state commesse, la violazione dei diritti umani in Iran, rispettando però il principio della non ingerenza». «L’intendimento - ha aggiunto Dini - è di tenere la porta aperta, in particolare per una risposta da parte dell’Iran, ad un dialogo diretto, in particolare sulla questione nucleare, l’iniziativa è stata presa dal presidente degli Stati Uniti, di tenere la porta aperta per qualche tempo, magari fino a settembre, quando ci sarà la riunione dei G8 alle Nazioni Unite».

«Se di qui a quel tempo non ci sarà una risposta positiva di apertura del dialogo da parte dell’Iran - ha concluso Dini certamente i Paesi, non solo dei G8 ma anche delle Nazioni Unite, potranno intraprendere iniziative derogatorie nei riguardi dell’Iran, come per esempio prendere sanzioni severe nei riguardi dell’Iran». L’idea, che forse non ha raggiunto neanche la Francia, ha trovato l’opposizione anche dell’Eliseo. Fonti diplomatiche francesi dichiarano infatti: «È L’Aquila il posto e il momento per condannare Teheran e la sua politica di repressione nei confronti dei manifestanti che chiedono democrazia». Ma dal mondo sono arrivate ieri anche notizie positive. Ad Astana, in Kazakhstan, il presidente israeliano Shimon Peres ha lanciato segnali di pace verso il re saudita Abdullah e tutto il mondo arabo. A conclusione di una missione che lo ha portato in Azerbaigian prima e in Kazakhstan poi, il premio Nobel per la Pace ha preso la parola davanti alla Conferenza interreligiosa e rivolto al monarca saudita l’invito a recarsi a Gerusalemme. In alternativa, Peres si è detto pronto a incontrarlo a Riyadh. Scopo dell’auspicato faccia a faccia «iniziare il confronto che porti alla implementazione della visione comune: realizzare una pace globale tra Israele e tutti gli Stati arabi». L’appello è stato lan-

I blogger: almeno cento vittime Mousavi rischia 10 anni di carcere entre le diplomazie occidentali si interrogano su quale sia la risposta migliore da dare all’Iran, e in quale occasione esercitarsi in questo nobile intento, la censura degli ayatollah sembra allentare la presa. «Dopo tre settimane di blackout è stato riattivato il servizio per l’invio di sms», riferisce su Twitter un blogger iraniano, Omid Habibinia. Il giornalista 42enne è stato costretto all’esilio in Svizzera dopo essere stato arrestato in Iran nel 1988 a causa della sua attività politica. Omid è uno dei blogger più affidabili della Rete, costantemente in contatto con fonti iraniane. Nel corso di un’intervista all’agenzia Agi, ha spiegato che la situazione di Teheran non è quella raccontata dai media occidentali: «Credo che i principali mezzi di informazione si stiano focalizzando su una guerra politica tra due partiti della Repubblica islamica e vorrei chiarire che non è così», spiega Omid. «Dal 12 luglio fino ad adesso oltre 2700 persone sono state arrestate in Iran, anche se la polizia continua a confermarne solo 1032» afferma, citando i numeri che ha avuto dai suoi contatti a Teheran. «Secondo i nostri dati oltre cento persone sono state uccise tra Teheran e altre città iraniane» dall’esplosione delle proteste. Secondo i dati della dissidenza iraniana, circa 50 giornalisti, altrettanti blogger,

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centinaia di attivisti politici, sindacalisti sono stati arrestati. Omid dice anche che «si sente parlare di vari episodi di torture. Le prigioni sono piene e in otto metri quadrati di cella sono stipate più di 15 persone, molti di loro non sono riformisti (vicini a Moussavi) ma studenti, attivisti politici che in questo momento si trovano in grave pericolo». E proprio il principale rivale di Mahmoud Ahmadinejad, il riformista Mir Hossein Mousavi, deve far fronte a una nuova minaccia dopo che i miliziani basiji, i combattenti volontari islamici, lo hanno accusato di «offese contro lo Stato» e «di disturbo alla sicurezza della nazione». Accuse che possono portare fino a dieci anni di carcere. I miliziani, che hanno giocato un ruolo chiave nelle brutale repressione delle proteste di strada, sono considerati sostenitori della guida suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ed è probabile che abbiano lanciato queste accuse con il pieno sostegno delle autorità. L’alto comandante Basiji ha scritto al procuratore generale chiedendo di agire contro Mousavi e ha detto di avere prove a sostegno delle accuse. Due giorni fa Mousavi, che si trova in una località sconosciuta, ha rotto un silenzio lungo una settimana denunciando il risultato delle elezioni come un “golpe”.


iran

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La grande novità è che le essenziali istituzioni democratiche nel Paese sono vive nonostante tutto

Il regime può vincere ma è iniziata la sua fine di Edward Luttwak questo punto, solo il futuro a breve termine del regime clericale dell’Iran rimane in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, tuttavia le istituzioni non elette dalla regola sacerdotale sono state fatalmente minate. Sebbene ogni aspetto della Repubblica islamica abbia la propria dinamica, non si tratta di un regime che può sopravvivere ancora molti anni. Quando si arriva alla repressione, l’Iran ha una gamma di strumenti di sicurezza che possono essere utilizzati in maniera sinergica. La polizia nazionale può gestire il controllo di routine della folla; le unità anti sommossa della polizia possono colpire alcuni dimostranti al fine di scoraggiarne altri; i membri della milizia proletaria Basij, molto più brutali, si divertono a colpire e sparare sugli iraniani in gruppo; l’esercito tecnico del regime è in grado di bloccare un servizio cellulare per interrompere proteste, così come di spegnere servizi internet. Se le proteste dovessero intensificarsi in maniera considerevole, le truppe della Guardia Rivoluzionaria con i loro carri armati potrebbero anch’esse venire chiamate in causa, sebbene con qualche rischio per il regime, considerando che il candidato riformista alla presidenza Mohsen Rezai è stato comandate per lungo tempo.

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ciato davanti a 150 leader religiosi mondiali, tra i quali una folta delegazione di imam, ed è stato ascoltato (per la prima volta) da tutti i presenti a esclusione del rappresentante iraniano, Mehdi Mostafavi, che ha lasciato la sala delle conferenze.

Ad Astana, il presidente Peres parla davanti a una folta delegazione di imam. L’unico che lascia la sala è l’iraniano, mentre il Nobel per la pace esulta: «Israele non è più isolato sulla scena araba» Una mossa che si è rivelata un boomerang, dato che ha permesso a Peres di commentare: «C’è stato un tempo in cui Israele rimaneva sola nelle sale conferenze. Questa volta l’Iran era da solo mentre la leadership islamica è rimasta con Israele». E questo fattore potrebbe sul lungo periodo rivelarsi molto più importante di quanto sembri. Se si raggiungesse un accordo, anche soltanto di facciata, fra Tel Aviv e i maggiorenti del mondo islamico la situazione iraniana verrebbe modificata. Senza il sostegno del mondo arabo nella furia anti-sionista, Teheran si ritroverebbe sola: ma questo non esclude che la sua furia potrebbe peggiorare. Anche all’interno dei suoi confini nazionali.

gicamente ha scelto che fosse il Consiglio a occuparsi della disputa sulle elezioni. La scorsa settimana, il Consiglio dei Guardiani ha annunciato che potrebbero essere ricontate il 10 per cento delle schede ed ha convocato i signori Mousavi, Karroubi e Rezai. Tutti e tre hanno rifiutato l’offerta di riconteggio, e solo Rezai si è presentato davanti al Consiglio. I signori Mousavi e Karroubi si sono semplicemente rifiutati di presentarsi, negando esplicitamente l’autorità del Consiglio così come quella del capo supremo.

Tutto ciò è notevolmente significativo. Non fosse per l’ufficio del leader supremo e per il consiglio, l’Iran sarebbe una normale repubblica democratica. In teoria, se Ahmadinejad, Khamenei e gli estremisti del Consiglio dei Guardiani venissero tutti sostituiti da figure elette, la Repubblica Islamica potrebbe continuare come prima. Tuttavia in pratica questo è impossibile. Un elevato numero di iraniani non è sceso a manifestare per paura delle percosse, o peggio, a favore del non carismatico e solo marginalmente moderato Sig. Mousavi. Il suo coraggio in questa condizione di pressione ha certamente aumentato la sua popolarità, tuttavia egli non rimane altro che un simbolo accidentale di una rivoluzione politica emergente. Quello che è evidente è che dopo anni di umiliante repressione sociale e cattiva amministrazione dell’economia, i cittadini più educati e produttivi dell’Iran hanno per la maggior parte girato le spalle al regime. Anche se credenti, ora rifiutano l’intera struttura post 1979 di questo Islam Sciita politicizzato con i suoi potenti ayatollah, i preti dispotici, gli impettiti membri della Guardia Rivoluzionaria e i miliziani proletari Basij. Molti iraniani una volta inclini a rispettare il clero, ora lo considerano corrotto, compresi i sostenitori di Ahmadinejad che applaudirono i suoi attacchi a Rafsanjani. Se Mousavi avesse vinto le elezioni, modesti passi per liberalizzare il sistema - avrebbe permesso alle donne di uscire con il capo scoperto, per esempio - avrebbero solo innescato ulteriori richieste di cambiamento, buttando giù alla fine l’intero sistema di regola clericale. Nell’Unione Sovietica, le riforme molto caute di Mikhail Gorbachev ideate per perpetuare il regime comunista finirono col distruggerlo in meno di cinque anni. Nell’Iran, il sistema è molto più nuovo e il processo potrebbe addirittura essere più veloce. Alcuni importanti clericali suggeriscono da tempo che gli uomini di religione dovrebbero impegnarsi per riconquistare il rispetto popolare rinunciando volontariamente al potere politico, il che alla fine potrebbe fornire una via d’uscita.Tuttavia per il momento, il capo supremo Khamenei si trova nella posizione impossibile di dover sostenere un presidente la cui autorità non è accettata da buona parte della stessa struttura governativa. Anche il portavoce del parlamento estremista, Ali Larjani ha dichiarato che il conteggio dei voti è stato influenzato. Quindi, anche se rimanesse in carica, Ahmadinejad non può realmente funzionare come presidente. Infatti, non ci sono possibilità che il parlamento confermi i suoi appuntamenti ministeriali, ed egli non può governare senza questi. Se Khamenei non viene rimosso dall’Assemblea degli Esperti e Ahmadinejad non viene rimosso da Khamenei, il governo continuerà ad essere paralizzato. La grande novità è che, al di là della macchina della regola sacerdotale in fase di erosione, le essenziali istituzioni democratiche in Iran sono vive e hanno solo bisogno di nuove elezioni per la presidenza e per il parlamento.

Dopo decenni di umiliante repressione sociale e cattiva amministrazione dell’economia, i cittadini più educati e produttivi dell’Iran hanno per la maggior parte girato le spalle al regime

L’alternativa - appellandosi a un esercito regolare - sarebbe molto più rischiosa poiché non è nota la fedeltà dei generali, ne’ il regime ha fino ad ora richiesto di conoscerla. Quello che ha minato la struttura della Repubblica Islamica è stata la frammentazione della sua elite di governo. Si tratta dell’unità che fu stabilita dall’Ayatollah Khomeini che permise al regime di dominare il popolo iraniano per almeno 30 anni. Ora che l’unità è frammentata le stesse persone che crearono le istituzioni di regola sacerdotale stanno ora distruggendo la loro autorità. Il principale rivale alla presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, Mir Hossein Mousavi, fu primo ministro dal 1981 al 1989 quando la Repubblica Islamica acquisì la sua struttura amministrativa incluso il suo comando non eletto, il leader supremo. Sebbene il leader supremo debba obbedire in ogni cosa, Mousavi ora rifiuta categoricamente gli ordini di Ali Khamenei di accettare la rielezione di Ahmadinejad. In questo Mousavi è sostenuto da un altro candidato alla presidenza, l’ex portavoce del parlamento e pilastro dell’establishment, Mehdi Karroubi, e dall’anziano fondatore della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ali Akbar Rafsanjani. Rafsanjani, che fu presidente dal 1989 al 1997, è anche presidente dell’Assemblea degli Esperti, i cui 86 membri hanno scelto il capo supremo e potrebbero rimuoverlo. Nel corso della campagna, Ahmadinejad accusò in diretta televisiva Rafsanjani e i suoi figli di corruzione. Quindi se la rielezione di Ahmadinejad deve essere “definitiva” e addirittura “divina” come ha dichiarato il leader supremo Khamenei, Rafsjanani dovrebbe dimettersi da tutti i tuoi incarichi e i suoi figli dovrebbero lasciare l’Iran. Invece, secondo quanto riportato, sta cercando di reclutare una maggioranza dell’Assemblea degli Esperti per far cadere Khamenei, o almeno per costringerlo ad indire nuove elezioni. L’altra istituzione chiave non democratica della Repubblica Islamica, fondata in parte dai signori Mousavi e Rafsanjani, è il Consiglio dei Guardiani composto da 12 membri, che ha il potere di respingere qualsiasi legge passata dal parlamento eletto e qualsiasi altro candidato al parlamento o alla presidenza. Negli ultimi anni, il Consiglio ha continuamente appoggiato gli estremisti e Ahmadinejad, usando in maniera aggressiva i suoi poteri di veto. Il leader supremo Khamenei lo-


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Raid. Rapito un soldato americano, i militanti promettono guerra totale l comando statunitense in Afghanistan ha dato il via, la scorsa notte, all’operazione Khanjar (in afgano, colpo di spada) contro la guerriglia talebana. Si tratta sicuramente, per il numero di uomini e mezzi, della più grande operazione aerotrasportata dei marines dai tempi della guerra del Vietnam. O almeno, così dicono loro. L’offensiva, fortemente voluta dal presidente Barack Obama, intende ripulire la valle dell’Helmand dalla presenza talebana prima delle elezioni presidenziali che si terranno il 20 agosto prossimo. A marzo, Obama aveva illustrato le sue intenzioni riguardo le missioni militari statunitensi, individuando nell’Afghanistan, e non più nell’Iraq, il principale scenario della lotta al terrorismo di al Qaeda. L’attacco, appoggiato dagli elicotteri e da una cinquantina di aerei, è la prima grande operazione dei marines dall’arrivo di 21mila rinforzi voluti dal presidente statunitense. Secondo i vertici militari statunitensi, l’ultima operazione di tale portata si è avuta nel 2004, in Iraq, con l’assedio di Falluja.

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L’annuncio dell’assalto è arrivato nello stesso momento della conferma del rapimento di un marines, catturato dai guerriglieri islamici proprio nell’area, teatro dell’operazione della scorsa notte. Il sequestro è stato confermato prima dalla portavoce militare Usa a Kabul, Elizabeth Mathias, che ha spiegato che il soldato manca all’appello da martedì scorso. Successivamente, è arrivata anche la rivendicazione di un comandante talebano

Un Colpo di Spada sull’Afghanistan di Massimo Ciullo della fazione Haqqani, il cui nome di battaglia è Bahram, che ha spiegato che il militare è stato catturato insieme a tre afghani a Yousuf Khail, nella provincia di Paktika, vicino al confine. «Il soldato è stato portato in un luogo sicuro», ha affermato il portavoce. Il gruppo non ha ancora deciso quale sarà il suo destino, ha aggiunto, ma presto sarà diffuso un video con una richiesta di riscatto. La portavoce Usa non ha fornito dettagli «per non mettere in pericolo l’incolumità del soldato», ma ha assicurato che «viene fatto ogni sforzo per garantire che possa tornare illeso». Si tratta del primo sequestro di un militare americano in Afghanistan. L’ultimo rapimento di militari Usa risale al 2007, in Iraq, quando tre marines, dopo essere stati sequestrati, furono torturati e uccisi dagli insorti iracheni. Il “Colpo di Spada” che gli americani intendono assestare ai talebani riguarda principalmente le roccaforti della guerriglia nel sud-est del paese asiatico e nelle cosiddette aree tribali. La scorsa settimana ci hanno provato, senza successo, i bri-

tannici, anche se le forze in campo non sono sicuramente paragonabili a quelle schierate dagli Usa. I comandi statunitensi sperano di riuscire dove finora ha fallito la missione della coalizione internazionale. In un comunicato, il generale Larry Nicholson ha detto:

truppe statunitensi, né quelle della Nato avevano mai operato su larga scala. Il villaggio era presidiato da una ventina di guerriglieri che hanno opposto una flebile resistenza. Alcune postazioni talebane sono state colte alle spalle e di sorpresa e sono state neutrarapidalizzate mente. Durante il giorno però, è iniziata anche la spola degli elicotteri medici, con a bordo i primi feriti (e non solo) provenienti dalla linea del fronte. La valle dell’Helmand, ricca di coltivazioni di grano e soprattutto di oppio (da lì arriva metà della produzione afghana), è un feudo dove gli studenti coranici hanno resistito per anni agli attacchi delle forze Nato guidate dalla Gran Bretagna. Nella regione sono arrivati negli ultimi due mesi 8.500 marines. L’operazione Khanjar (questa la parola afghana per colpo di spada) si propone di strappare rapidamente posizioni ai talebani che poi saranno consolidate e difese. Il comando Usa si è assicurato anche di tagliare eventuali vie di fuga in caso di ritirata da parte dei guerriglieri islamici. Infatti, nello stesso

L’offensiva, esplosa nella valle di Helmand, è portata avanti da 4mila marines e 650 militari afgani. Nel mirino, i campi di oppio e le tende di addestramento dei talebani «Dove stiamo andando resteremo, e dove siamo ora terremo le posizioni, lavorando e realizzando le condizioni affinché tutte le responsabilità della sicurezza passino sotto la competenza delle forze afgane». I marines impiegati nell’offensiva sono più di 4000, sostenuti da altri 650 tra militari e poliziotti afgani. La notte scorsa i commandos, insieme ad altri militari americani, sono penetrati a sud della valle del fiume Helmand, che finora si è rivelata un baluardo inespugnabile. Migliaia di marines sono stati elitrasportati nel villaggio di Nawa, venti km a sud del capoluogo della provincia, Lashkar Gah, dove finora né le

giorno in cui è partita l’offensiva, l’esercito pakistano muoveva diversi contingenti proprio verso il confine meridionale con l’Afghanistan.

Che l’operazione a tenaglia fosse concordata con i vertici militari di Islamabad, è stato confermato da un portavoce dell’esercito Usa ieri. Durante una riunione tra ufficiali statunitensi e pakistani si è convenuto che l’avanzata dei marines nella regione dell’Helmand possa provocare una fuga dei militanti islamici verso il confine montagnoso del Pakistan, pieno di ripari naturali e scarsamente sorvegliato. Il generale Athar Abbas, confermando lo spostamento delle truppe, ha detto di aspettarsi «che l’effetto dell’operazione produca una pressione sulla frontiera. Abbiamo rimaneggiato la presenza militare laddove la pressione esterna sulla frontiera è minore. Si è trattato di una specie di riorganizzazione e ridispiegamento delle nostre forze». Il comandante pakistano non ha voluto fornire molti dettagli su quanto concordato con gli statunitensi. Ha aggiunto solo che l’operazione «ha avuto inizio un mese fa» quando gli americani hanno comunicato «che sarebbero avanzati verso Helmand e la parte orientale dell’Afghanistan». Il Pakistan condivide circa 2600 km di confine con l’Afghanistan. L’area interessata all’operazione di rafforzamento è lunga circa 260 km e termina alla frontiera con la provincia del Baluchistan, dove, secondo fonti statunitensi, si sarebbero rifugiati i principali capi dei talebani.


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Mille persone per chiedere l’abolizione del filtro internet

L’ennesima provocazione del regime guidato da Kim Jong-il

Pechino, rara protesta contro governo e censura

Pyongyang lancia 4 missili a corto raggio in mare aperto

PECHINO. Rara protesta pub-

SEOUL. La Corea del Nord ha

blica a Pechino contro la censura statale su internet. Oltre 1.000 persone si sono riunite ieri, in una apparente riunione conviviale, aderendo all’invito dell’artista Ai Weiwei che aveva chiesto a tutti di boicottare ieri internet, quale protesta per l’entrata in vigore del controverso nuovo filtro “Green Dam” per i computer. Pechino ha stabilito che i nuovi computer costruiti e venduti nel Paese devono avere installato questo filtro, al dichiarato fine di impedire l’accesso a siti pornografici o scurrili. Ma in Cina e all’estero molti ritengono che si voglia istituire un controllo completo e capillare sulla navigazione degli internauti cinesi e ci sono state diffuse proteste. Proprio il 30 giugno notte, poche ore prima dell’entrata in vigore, la nuova norma è stata rinviata a tempo indefinito. La Camera di commercio Usa in Cina esprime soddisfazione per questa scelta. Anche la Camera di commercio dell’Unione europea aveva sollecitato Pechino a riconsiderare la questione, perché il nuovo filtro “pone problemi significativi in relazione a sicurezza, privacy, sicurezza del sistema e libertà di scelta per l’informazione e l’utilizzo”. I partecipanti alla protesta di ieri dicono che questa è solo

lanciato quattro missili a corto raggio dalla costa orientale, secondo quanto riportato dall’agenzia sudcoreana Yonhap. Il primo vettore è esploso alle 17.20 locali (10.20 in Italia), il secondo alle 18 da Sinsang-ni, base sulla costa orientale vicino alla città di Wonsan. Il quotidiano sudcoreano JoongAng, citando fonti dell’intelligence sudcoreana, preannuncia che la Corea del Nord sarebbe pronta ad effettuare nei prossimi giorni, probabilmente intorno al 4 luglio (in corrispondenza con la festa dell’Indipendenza negli Usa), una raffica di test di missili balistici. I missili a corto raggio (di tipo Scud) e a medio raggio (Rodong) verreb-

La verità di Amnesty A Gaza tutti colpevoli Tsahal e Hamas sotto accusa. Innocenti solo i civili di Pierre Chiartano Gaza tutti colpevoli, eccetto i civili. Si potrebbe sintetizzare così il rapporto di Amnesty international sulla recente guerra di Gaza, reso noto ieri. Sia Hamas che Tsahal, l’esercito di Gerusalemme, sarebbero sul banco degli imputati, secondo l’inchiesta dell’organizzazione umanitaria. Un documento che unisce i due nemici nel rifiutarne le conclusioni. «Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno lanciato centinaia di razzi contro il sud d’Israele, uccidendo civili israeliani, ferendone decine e costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie case», si legge nel documento. «Questi attacchi illegali costituiscono crimini di guerra e sono inaccettabili», ha precisato Donatella Rovera, incaricata dell’indagine. Il rapporto, lungo 117 pagine e basato su prove raccolte dai delegati dell’organizzazione, a gennaio e febbraio, documenterebbe l’uso da parte di Israele di armi da campo aperto contro la popolazione civile di Gaza.

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tunnel per spostare munizioni ed esplosivi da un posto all’altro» ha spiegato Leibovitch. «Molte delle vittime sono state uccise da armi ad alta precisione, grazie all’uso di droni dotati di visori di eccezionale qualità che consentivano di osservare i bersagli nei minimi dettagli. Altre sono state uccise da armi prive di precisione, tra cui i razzi lanciati dall’artiglieria (...) personale medico e mezzi di soccorso sono stati presi di mira mentre cercavano di soccorrere i feriti o recuperare le vittime», continua il rapporto di Amnesty.

AI accusa anche il movimento di resistenza islamica. «Dal canto suo, Hamas ha continuato a giustificare il lancio quotidiano di razzi, da parte dei suoi miliziani e di altri gruppi armati palestinesi, contro città e villaggi del sud d’Israele per tutti i 22 giorni del conflitto», ha proseguito la Rovera. «Sebbene meno letali, questi attacchi mediante razzi privi di guida, che non possono essere diretti contro obiettivi specifici, violano il diritto umanitario e non possono essere giustificati in alcuna circostanza». Oltre ai razzi Qassam fabbricati in casa, i miliziani palestinesi hanno spesso lanciato razzi Grad a lunga gittata, entrati a Gaza attraverso i tunnel che passano sotto la frontiera con l’Egitto. Questi hanno raggiunto zone più interne d’Israele e hanno posto in pericolo la vita di molti altri civili israeliani. «Cinque mesi dopo, nessuna delle due parti ha mostrato la minima inclinazione a modificare la propria condotta e ad aderire al diritto umanitario, facendo in questo modo prospettare il rischio che i civili subiscano ancora una volta le conseguenze peggiori, in caso di ripresa del conflitto», ha osservato la Rovera. Ricordiamo che durante l’operazione «Piombo fuso»,Tsahal ha dovuto spesso bonificare siti come gli ospedali, dove i membri di Hamas si nascondevano, mescolandosi con il personale medico. Una condizione di guerra urbana che difficilmente non avrebbe potuto provocare vittime tra la polazione civile.

L’esercito d’Israele: «Nel rapporto non si cita la sofferenza di più di 250mila persone sotto la minaccia dei razzi»

una vittoria temporanea e che ora occorre continuare la battaglia contro la censura di internet. Esperti notano che, comunque, i computer in vendita non avevano ancora il filtro, poiché la disposizione è entrata in vigore da poche settimane. Per cui la sua immediata applicazione era di fatto impossibile.Poco prima del 20° anniversario del massacro di piazza Tiananmen il 4 giugno, nel Paese sono stati bloccati il popolare sito di discussione Twitter di Google e la sua versione cinese Fanfou, secondo molti per impedire commenti e scambi di informazioni. Nel Paese si stimano esserci 300 milioni di utilizzatori di internet, più che in ogni altro Stato.

«Israele non può accettare le conclusioni di questo rapporto, dove viene omesso il fatto che Hamas abbia usato i civili come scudi umani», la secca risposta venuta dal portavoce dell’esercito di Gerusalemme, colonnello Avital Leibovitch, riportata dall’agenzia Upi. «La scala e l’intensità degli attacchi contro Gaza sono state senza precedenti: il totale di 1.400 palestinesi uccisi dalle forze israeliane comprende circa 300 bambini e altre centinaia di civili che non stavano minimamente prendendo parte al conflitto» si legge ancora nelle pagine di quello che assomiglia a un atto d’accusa contro i militari di Gerusalemme. «Nel rapporto non si cita la sofferenza di più di 250mila persone che dal Duemila sono state sotto il costante e quotidiano pericolo dei razzi di Hamas» la risposta giunta dalle forze armate israeliane. «Le moschee erano state utilizzate come deposito per le armi. Le terrazze delle scuole e i cortili delle abitazioni civili venivano usate come basi di lancio per gli attacchi alle unità israeliane. E venivano contunuamente scavati

bero lanciati da due diversi siti sulla costa orientale. Il mese scorso Pyongyang aveva bandito la navigazione al largo della costa orientale fino al 10 luglio per esercitazioni militari. Esperti di politica internazionale associano i recenti esperimenti nucleari e missilistici del regime comunista alla questione della successione, spiegando che si tratta di un “sostegno della dittatura ai militari”, il cui benestare è “essenziale”per una consegna del potere “armoniosa” a Pyongyang. La nomina di Kim Jong-il quale erede designato al padre Kim Il-sung, fondatore della patria, è stata preparata vent’anni prima della morte del “Grande leader” scomparso nel 1994 - e annunciata pubblicamente in un congresso del partito nel 1980. Il JoongAng Ilbo, quotidiano sudcoreano, ha citato nei giorni scorsi una seconda fonte che rivela cambiamenti nella catena di comando in Corea del Nord, legata all’ascesa al potere di Kim Jong-un come successore. Del resto, fino al marzo scorso il nome del figlio minore del “Caro leader” non compariva fra i nuovi membri dell’Assemblea Suprema del Popolo. Il ragazzo è stato soprannominato “l’intelligente leader”, per continuare la tradizione dei soprannomi associati ai dirigenti.


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Nuovi miti. Tra le reazioni più bizzarre, quel giornale di Tokyo che annuncia: «Grazie a lui gli Usa vinsero la Guerra Fredda»

Una settimana... d’addio Viaggio nei tributi (esagerati) a Michael Jackson Dal delirio mediatico alle continue follie dei fan di Maurizio Stefanini colpa di Michael Jackson se hanno fatto il golpe in Honduras contro Zelaya». «È grazie a Michael Jackson se possiamo sperare di ridare la libertà a Aung San Suu Kyi». Oltre 42 milioni di persone che su Internet si sono collegate a YouTube per rivedere lo storico video di Thriller. Una folla di newyorkesi che hanno celebrato il defunto ballando a quel Teatro Apollo in cui aveva esordito, a soli nove anni. I fan parigini che di fronte alla Torre Eiffel hanno organizzato in sua memoria il più colossale Moonwalking della storia. I carcerati filippini che hanno rielaborato la coreografia di Thriller. Duecento giapponesi che hanno vegliato al lume di candela in un parco di Tokyo. Pavel Talayev, sosia moscovita del cantante, che si è tagliato le vene quando ha saputo della «tragedia più terribile della sua vita», e anche dopo che lo hanno salvato dice che ci riproverà, perché vuole «stare con lui». La Legoland della California che gli sta preparando una statua in mattoncini di plastica. Zhang Yiwu, professore all’Università di Pechino, che spiega come Jackson sia stato «la finestra da cui i giovani cinesi si sono affacciati al mondo». La capitale somala Mogadiscio, devastata dalle faide tra milizie rivali, in cui qualche fan è riuscito a trovare un intervallo tra una sparatoria e l’altra per tributare un omaggio alla star: rischiano pure le più truci rappresaglie degli islamisti di alShabab, per quella musica sparata a tutto volume. La presentatrice di una radio nigeriana che è svenuta in diretta. I giovani malaysiani che hanno fatto ressa

«È

nelle vie dello shopping di Kuala Lumpur a cantare le sue canzoni. I negozi sudafricani in cui i suoi dischi sono subito esauriti. L’Associazione per il Dialogo tra Religioni, Lingue e Civiltà che ha organizzato preghiere islamiche e offerto i tradizionali dolci del lutto a Mercimekli, villaggio della Turchia sudorientale. Carla Bruni che dice di rimpiangere il talento «unico e molteplice» del cantante...

Ma tra tante reazioni alla morte del re del pop, forse sono quelle tanto estreme e opposte del presidente venezuelano Hugo Chávez e degli U2 a dare la misura della varietà di signifi-

cati che un’icona del suo calibro ha finito per vedersi attribuire. Il leader bolivariano, senza negare il valore artistico è storico del personaggio, ha spiegato infatti che è stato per colpa dell’interesse maniacale che i mass-media avevano dato alla morte di Michael Jackson, se gli allarmi dati da lui e dai suoi alleati sul “golpe strisciante” in corso in Honduras sono stati ignorati dall’opinione pubblica mondiale. Per lo meno, non ha detto che l’aveva ammazzato apposta la Cia, per creare un diversivo. Ma magari tra un po’ Giulietto Chiesa o Naom Chomsky lo sosterranno in qualche pamphlet. In compenso, il complesso irlandese sta ora aggiungendo un paio di canzoni di Michael Jackson al repertorio, nei concerti che sta facendo per sostenere la causa della Premio Nobel per la Pace eroina della lotta per la democrazia in Birmania. Un altro presidente latino-americano che l’ha buttata in politica è stato il messicano Felipe Calderón, secondo il quale la morte del cantante dimostrerebbe la giustezza della lotta al narcotraffico in cui si è imbarcato il suo governo. «Che paradosso che oggi, Giorno Internazionale contro l’Uso Indebito e il Traffico Illecito doi Droghe, si confermi che uno dei maggiori idoli di varie generazioni e il maggior venditore di dischi della musica pop, sia morto precisamente per l’uso indebito e eccessivo di droghe, in quella che dovrebbe essere anche la pienezza dell’età». «La sorte drammatica e tragica di qualcuno che avendo tutto, fama e denaro, è stato alla fine incapace di sopravvi-

«Una macchina per fabbricare soldi con le tasche parecchio bucate», è invece la definizione fuori dal coro dello spagnolo “El País”

vere alla morte cui conduce esattamente la dipendenza». Per la verità, che Jackson sia morto per uso di droghe è tutt’altro che accertato. Ma qui siamo sul piano di quel razzismo spicciolo per cui agli occhi degli statunitensi ogni latinoamericano è un potenziale narcotrafficante, e agli occhi dei latinoamericani ogni statunitense è un potenziale drogato. Però, va detto, pure Barack Obama ha parlato di «icona della musica con lati tristi e tragici».

Tanti altri divi suoi amici lo hanno pianto a lacrime inconsolabili: da Madonna a Britney Spears, e da Diana Ross a Paul McCartney: l’ex-Beatle, malgrado il colossale litigio che tra i due c’era stato quando Michael Jackson nel momento in cui era precipitata la sua situazione economica aveva deciso di rivendere i diritti di oltre 250 canzoni del quartetto di Liverpool che proprio lui gli aveva consigliato di acquistare. Qualcun altro può piangere non solo per rimpianto del defunto. Ad esempio l’attore comico Sacha Baron Cohen, quello del demenziale giornalista kazako Borat, che in una scena madre del suo nuovo film Brüno doveva intervistare LaToya Jackson, sorella della star. Lui scherzava sul tono della star e sull’uso di

guanti bianchi durante le sue esibizioni; lei rifiutava allora di chiamare il fratello; lui riusciva a farsi dare l’iPhone di lei, trovandovi il numero in rubrica, leggendolo in tedesco e ordinando al suo assistente di scriverlo: tutto tagliato a poche ore dalla prima, dopo che era stato visto alle proiezioni per la stampa. E presumibile disperazione anche di chi aveva venduto i biglietti per il suo imminente tour, e che ora dovrà rimborsarli. Solo a Londra, ne erano andati a ruba ben 750.000. Ma in compenso gli industriali discografici pregustano denaro a palate con le ristampe che si annunciano. E il bello è che, è stato scoperto, con tutti i debiti che aveva fatto e continuava a fare Michael Jackson non si sosteneva ormai più con i proventi pur miliardari delle proprie canzoni, ma proprio grazie a quelle dei Beatles, che aveva offerto in garanzia per ricevere cospicui prestiti bancari. «Una macchina per fabbricare soldi con le tasche parecchio bucate», lo ha definito il quotidiano spagnolo El País. «Anche grazie a lui gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra Fredda» ha scritto in un editoriale sul giornale di Tokyo Yomiuri il noto americanista nipponico Yoshiaki Sato. «Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra Fredda


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Come regirono i fan di colore ai due famosi cambi di identità

La pelle “bianca” di Jacko, il nome “nero”di Alì di Massimo Fazzi l colore della pelle, il nome con cui vieni presentato al mondo, lo stile che adotti in società. Sono i tratti caratteristici che fanno il contorno di un uomo, o forse è l’uomo che sceglie quale forma dare al suo passaggio terreno? L’epopea di Michael Jackson, al di là del suo innegabile contributo al mondo della musica popolare, è stata caratterizzata da una vera e propria mutazione genetica: un maschio nero dai capelli crespi e il naso grosso è stato seppellito più bianco della neve, con un naso che non aveva più forma e i peli in testa lisci come la seta. Eppure, nonostante un’evidente voglia di fuga dalle sue origini, Jackson è morto da icona nera. Se non servisse altro, può bastare l’enorme celebrazione svoltasi in suo onore nel mitico Apollo Theatre di Harlem, il celebre tempio della musica black, che ha visto le esibizioni di generazioni di fenomeni del ghetto. Centinaia di migliaia di persone, in buona parte membri della comunità della Grande Mela, hanno sfilato davanti al teatro che ha visto cantare Aretha Franklin e - a beneficio delle telecamere - hanno pianto la dipartita di «un loro fratello nero, uno che ha sempre combattuto per noi». Senza mai neanche accennare a quel piccolo cambiamento di epidermide con cui, di fatto, il “re del pop” aveva rinnegato le sue origini. Un caso analogo, ma contrario, si era verificato tanto tempo fa: nel mirino un’altra icona, questa volta dello sport, che per amore delle sue radici aveva deciso di cambiare nome per farsi chiamare con un nome a suo dire più consono. Cassius Clay, veloce come una farfalla e pungente come un’ape, annuncia infatti al mondo nel 1964 di voler adottare il

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non con la forza militare ma attraverso il fascino di artisti come Jackson, le cui canzoni hanno introdotto la gente degli Stati ex-sovietici, del Medioriente e della Cina alla grandezza della cultura americana». Icona più transetnica che multietnica, con quella sua smania per diventare bianco, Michael Jackson dopo la sua morte è stato pure largamente compianto in Africa e nel mondo islamico, che hanno ricordato da una parte il suo impegno per la fame nel mondo; dall’altro la sua supposta conversione alla fede di Maometto. Anche se nel Continente Nero c’è stato pure chi ha ricordato polemicamente il modo in cui quando venendo in visita alla “terra dei suoi avi” fu visto turarsi il naso nello scendere dall’aereo, quasi a volersi riparare dal puzzo degli africani. E se il modo in cui non è stato sepolto entro la giornata dalla morte (verrà imbalsamato nella posa del moonwalking) è proprio il contrario dell’ortodossia coranica. Anzi Damir Gizatullin, vice presidente del Consiglio Russo dei Mufti, ha brontolo che l’Islam in effetti proibirebbe pure le autopsie (da morti, ovviamente: da vivi, ci sono un bel po’ di procedure islamiste, dal taglio delle mani alla decapitazione, che permettono comunque agli studenti in medici-

Qui sopra, a sinistra e sotto, tre immagini del re del pop Michael Jackson, scomparso una settimana fa nella sua abitazione di Los Angeles. A destra, il campione Cassius Clay

na di impratichirsi in anatomia interna, e che rendono pure piuttosto superflua la necessità di effettuare ulteriori indagini autoptiche per individuare le cause del decesso...)..

Poiché anche gli afroamericani stessi in un empito di commozione sembrano avergli perdonato la chirurgia cutanea europeizzante, alla fine sembra che il Paese più scettico verso il mito Jackson si sta rivelando proprio l’Italia. È vero: a Piazza Navona in varie centinaia di fan gli hanno dedicato una commovente veglia notturna. E c’è pure un popolare writer napoletano che gli ha dedicato un murale. Ma nei megastore nazionali da mesi Thriller viene dato via a 9,90 euro pur di venderlo, e con 12,20 ti danno anche Off The Wall assieme, senza ottenere risultati troppo migliori: forse il timore è che al momento della consegna ti chiedano di voltarti, per scagliartelo poi nella schiena! Neanche a parlare poi del cofanetto Sony per 4 cd a 29 euro, che resta drammaticamente invenduto. Come dire: chi lo amava proprio di lui ha già tutto; per gli altri, vale quel che Ennio Flaiano nell’omonima commedia, che poi è piuttosto tragica, narra sul malinconico declino del Marziano a Roma.

nome di Muhammed Alì. Ha già battuto Sonny Liston, diventando campione del mondo, e si è unito alla Nazione islamica di Malcolm X ed Elijah Muhammad.

Il suo gesto scatena un putiferio senza fine: viene accusato di rinnegare la nazionalità americana, di non voler più combattere per il campionato dei pesi massimi, di essere un traditore dello sport. Ma la reazione più violenta viene dalla proprio dei comunità neri americani, che tacciano Alì di «protagonismo immotivato» e smettono di tifare per lui. Uno dei commentatori (bianchi) più noti dell’epoca, Don Dunphy, disse: «Clay tradisce con il suo gesto il lavoro quotidiano di milioni di persone di colore, che combattono contro il termine negro per poter portare senza problemi il loro nobile nome americano». E proprio l’Apollo Theatre diventa il guardiano di pietra davanti al quale sfilano decine di manifestazioni che chiedono alla leggenda della boxe di tornare sui suoi passi. Certo, la maggior parte degli organizzatori fa parte di chiese cristiane battiste, che più che del nome si preoccupano della religione. Ma il tema è comunque quello dell’identità, un concetto che un’icona - di qualunque colore - non può permettersi di tradire. Le vittorie conquistate sul ring contro Foreman e il leggendario incontro in terra d’Africa convincono i neri d’America che si può tornare ad amare Clay, chiamandolo Alì. A quanto pare anche Thriller ha avuto lo stesso impatto sociale. Ha cambiato il mondo della musica, ma non ha portato lustro come i guantoni di Clay. Fra i due, è stato Jackson quello più colpevole di tradimento nei confronti della sua etnia.

Mentre la comunità afroamericana non si allontanò mai dall’artista, parlò di “vile tradimento” nel caso del pugile


cultura

pagina 20 • 3 luglio 2009

giusti delle nazioni italiani riconosciuti dalla Fondazione di Yad Vashem come salvatori di ebrei durante la persecuzione nazista sono oggi 464 e tra loro entrerà presto il padre somasco Giovanni Ferro (1901-1992), che fu arcivescovo di Reggio Calabria dal 1950 al 1977 e per il quale è avviata da un anno la causa di canonizzazione: egli accolse al collegio Gallio di Como, di cui era rettore, un ragazzo ebreo per tutto il tempo della persecuzione nazista.

I

Ho conosciuto l’arcivescovo Ferro in margine alla mia professione di vaticanista e lo ricordo come una persona mite e inerme se mai ve ne furono, tant’è che mi è arduo immaginarlo alle prese con ebrei e tedeschi, fascisti e partigiani: eppure di tutto questo si tratta, dal momento che caduto il fascismo e portata a conclusione la protezione dell’ebreo egli prese in “casa”tre giovani familiari di Benito Mussolini – proprio nei giorni in cui il Duce veniva fucilato dai partigiani – e li tenne nascosti per sei mesi. Tra i giusti italiani ci sono 31 preti diocesani e 26 tra suore e frati. Figurano nell’elenco anche due vescovi (Giuseppe Placido Nicolini di Assisi e il nunzio a Budapest Angelo Rotta) e due futuri vescovi e cardinali, ma allora giovani preti: Vincenzo Fagiolo e Pietro Palazzini, ambedue del clero di Roma. Dunque nessuna meraviglia che le cronache ci segnalino un altro religioso e “futuro vescovo”, ma singolare se non unico è il doppio ruolo di salvatore in contemporanea di perseguitati e persecutori che il padre Ferro ebbe a svolgere. Pare che in vita non ne abbia mai parlato di queste sue imprese bipartisan, come si direbbe oggi. Di certo non ne lasciò memoria scritta e non ne fece parola in occasioni pubbliche, almeno così assicurano quelli che a Reggio Calabria si stanno occupando della causa per farlo beato. La vicenda dell’ebreo è arrivata alle cronache il 10 maggio scorso, quando il Collegio Gallio di Como e il destinatario del salvataggio – Roberto Furcht, che oggi ha ottant’anni – hanno organizzato una Giornata in memoria dell’arcivescovo Ferro. Questo il sobrio racconto del Furcht come mi è stato riferito dal rettore del Gallio, il padre somasco Luigi Amigoni: «L’8 settembre aveva colto di sorpresa la mia famiglia sfollata dal 1942 a Cittiglio, Varese. Lo zio si rifugia in Svizzera e il papà si ferma nelle Marche dove al momento si trova. Mia madre decide di lasciare Cittiglio e si reca con me quattordicenne alla stazione. Mentre ci troviamo al bar entra un gruppo di SS che chiedono al barista se conosce la famiglia Furcht. Mia mamma e io

Ritratti. L’arcivescovo di Reggio Calabria che salvò un ebreo dalla persecuzione

La verità dietro la maschera di Ferro di Luigi Accattoli siamo a pochi centimetri dai militari, ma il barista ha la prontezza di dire che non conosce nessun Furcht. Prendiamo un treno per la prima destina-

gio Gallio «dove il rettore, padre Giovanni Ferro, mi accoglie e mi fornisce falsi documenti d’identità». «Al Gallio – continua Roberto Furcht – trascorro gli anni scolastici 1943-44 e 1944-45 con il padre rettore che ogni due giorni

Presto sarà riconosciuto, insieme con gli altri 464 italiani, come uno dei salvatori degli ebrei dalla Fondazione Yad Vashem

In alto, un’immagine dello Yad Vashem. A sinistra, una foto che immortala un bambino ebreo durante le tante deportazioni naziste, e uno scatto della famiglia di Mussolini. Qui sopra, padre Giovanni Ferro zione possibile che, in quel momento, è Como».

Su suggerimento di un’amica della mamma bussano al colle-

mi chiama nel suo ufficio per rinfrancarmi e interessarsi al progresso dei miei studi. In tutto il periodo che io passo al collegio non fa mai richiesta di un

qualsiasi pagamento di retta. Sotto questa protezione si giunge all’aprile 1945, quando finalmente il grande pericolo è passato». Il pericolo è passato

per il piccolo ebreo ma ora ci sono altre creature braccate che bussano alla porta del Gallio. All’indomani del 25 aprile il padre Ferro, con la stessa prontezza con cui aveva risposto alla richiesta di aiuto della mamma di Roberto, accoglie nel collegio e nasconde a lungo tre giovani uomini della famiglia Mussolini: il figlio del Duce Vittorio; Orio Ruberti, cognato di un altro figlio del Duce, Bruno, che era morto per un incidente all’aeroporto di Pisa nel 1941; Vanni Teodorani, genero di Arnaldo, defunto fratello del Duce. Vittorio Mussolini, 28 anni, arriva al Gallio il 26 aprile 1945, cioè tre giorni dopo l’ingresso in Milano delle formazioni partigiane e mentre il padre Benito sta fuggendo verso il confine svizzero (sarà fucilato dai partigiani il 28 aprile a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como). Vittorio sceglie il Gallio perché lì è iscritto alle elementari il figlio Guido, registrato con il cognome della mamma, anche lei rifugiata in Como. Il 27 aprile vengono accolti nel collegio Orio e Vanni. I Mussolini resteranno al Gallio fino al 12 novembre 1945: cinque giorni dopo anche il padre Ferro lascia Como per Genova, dove gli è stata affidata la parrocchia della Maddalena. Resterà a Genova cinque anni, fino al 1950, quando verrà nominato arcivescovo di Reggio Calabria. Il fatto dell’ebreo resta sconosciuto all’esterno del Gallio ma non quello dei Mussolini: l’asilo nel collegio viene documentato da Gianfranco Bianchi e Fernando Mezzetti nel volume Mussolini aprile ’45: l’epilogo (Editoriale nuova, Milano 1979). I due storici pubblicano tra l’altro una lettera del padre Ferro al “Governatore alleato della Piazza di Milano” – datata 20 maggio 1945 – con cui lo informava dell’ospitalità concessa ai tre «non ancora fuori dal pericolo di una giustizia sommaria di parte», facendosi garante della loro intenzione di «non allontanarsi dal luogo in cui si trovano».

Umiltà, discrezione, distacco dalle dispute e dalla politica sono le attitudini dell’arcivescovo Ferro – attestate da quanti lo frequentarono – che spiegano il suo lungo silenzio su quei fatti. Una targa ricordo posta nella sala di attesa della Direzione del Collegio Gallio lo descrive come «superiore a ogni politica» e «sempre pronto a intervenire in aiuto degli uni e degli altri». C’è chi lo vede come un buon uomo in balia di eventi più grandi di lui, ma è possibile scorgere un forte segno cristiano in questa sua capacità di sfiorare la ribalta senza darne riscontro: «Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra».


cultura

3 luglio 2009 • pagina 21

Fra gli scaffali. Gli alpinisti Simon Kehrer e Walter Nones hanno raccontato la loro drammatica avventura sul Nanga Parbat

L’inferno in cima al paradiso di Dianora Citi

quota 6.400… decidiamo di fermarci. La neve è sempre più alta… il sole cocente. Montiamo la tenda ... abbiamo bisogno di riposo. Cerchiamo di bere… Dormiremo qualche ora e ripartiremo in piena notte. Alla vetta mancano ancora 400 metri…. Siamo veramente stracotti. …In questi momenti capita di chiedersi “ma chi te lo fa fare”». Già. Ma chi gliel’ha fatto fare? Simon Kehrer e Walter Nones ne È la montagna che chiama (Mondadori), ricordando l’avventura che nel luglio 2008 li ha visti protagonisti sul Nanga Parbat (uno dei giganti “ottomi-

«A

brano, ad occhi profani, maggiori dei piaceri. Ma vedere, a 7.000 metri, «lo spettacolo del sole al tramonto …be’, ne vale la pena». Altrettanto incrociare la brillantezza degli occhi dei bambini dei nomadi che vivono in una valle nascosta a 5.000 metri d’altezza. E pure «sentire» il silenzio dell’alba: «Sembra di assistere alla creazione del mondo». Questo vuol dire «raggiungere quello che per tutti noi è il luogo più vicino alla nostra idea di paradiso». Lo stile alpino è una filosofia di vita. Non ti interessa la conquista ad ogni costo della vetta. La concentrazione del tuo pensiero è sul percorso e sul

La scalata della “Montagna del diavolo” costò la vita il loro maestro Karl Unterkircher, al termine di una missione emozionante e terribile la” dell’Himalaya), nella spedizione in cui perse la vita il loro compagno e amico Karl Unterkircher e cercano di spiegare, a chi non pratica l’alpinismo, le loro motivazioni, «quale sia la molla che spinge ad affrontare tutti questi disagi e queste fatiche». La sete, la mancanza di fiato e i mal di testa per l’altitudine, la neve fino ai fianchi, il timore delle valanghe e dei crepacci, la difficoltà a deglutire per l’altezza, lo sforzo economico (non sempre si trova qualcuno disposto a fare da sponsor!), la lontananza dalla famiglia e dagli affetti: nelle loro parole non ci sono sconti. Elencano tutto, capitolo dopo capitolo. E le sofferenze sem-

modo in cui l’affronti, questo è l’obiettivo. C’è qualcosa di zen in tutto ciò.

Praticare l’alpinismo è come «una sorta di illuminazione che ti permetterà di godere della vita più intensamente, con maggiore pienezza. La roccia diventa come una donna da accarezzare. Appropriarsene vuole dire innanzitutto rispettarla, perché la montagna è anche pericolo. Saper intuire quando è il caso di rinunciare è segno di grande saggezza». Simon e Walter con una prosa pacata e sincera, in un perfetto dialogo alternante, complementari l’uno all’altro, ci raccontano come e quando ciascuno di loro si è

reso conto di non voler perdere il proprio rapporto personale con la montagna. Falegname l’uno e carabiniere l’altro, ma nel cuore alpinisti. Irrinunciabilmente alpinisti anche dopo l’incontro con la morte. Sì, si può continuare ad arrampicare (così usano il verbo, in forma non riflessiva!) anche dopo aver vissuto la morte del carissimo amico e compagno e maestro Karl; di colui che, per sdrammatizzare la promiscuità di dormire in tre nella minuscola tenda, chiedeva «chi mi dà il bacino della buonanotte?»; di colui che aveva ideato la spedizione, salire sul Nanga Parbat, «Montagna nuda» in lingua pashtun, «Montagna del diavolo», «Montagna assassina» o «Mangiauomini» per gli sherpa, 8.125 metri s.l.m., nella regione occidentale dell’Himalaya, nona cima più alta del mondo, affrontando la parete settentrionale, la Rakhiot, salendo, in prima assoluta, dritto al centro per ben 3.500 metri di dislivello dal campo base.

È un affascinante racconto, a due voci che si alternano in un perfetto colloquio, in totale sintonia e armonia. È un vero e proprio manuale, un libro di semplici consigli («quando si organizzano spedizioni lunghe, non è possibile programmare con precisione. Bisogna prevedere un margine più ampio, altrimenti dovrai fare scelte difficili e rinunciare a qualcosa, oppure finirai per strafare, che è molto peggio»), di spiegazioni tecniche ma non tecnicistiche («è la capacità di sentire il ram-

abbandono, ma che è felice se faccio pone sulle dita quello che mi rende del piede che ti felice. E ogni sera, dice se un certo punto è sicuro o quando chiudo gli no»), di descriocchi per dormire, il zioni nate dall’emio ultimo pensiero sperienza (« sfoè per lei e per i nogliando un mastri bambini». nuale sull’accliI due amici sanno matazione, conche mai niente è fasigliava di non cile. Affrontare la fare più di 800 vita non lo è. In mometri di dislivello do del tutto sincero, con al massimo 8 chili di peso. Noi Simon Kehrer e Walter veritiero, semplice, senza infingimenti, di chili ne portiaNones, i due alpinisti doppiezze o falsità, mo 15 o 20, e facche lo scorso anno tentano di fornire le ciamo oltre 1.300 scalarono chiavi per riflettere, metri di disliveldrammaticamente capire, metabolizlo. Alla fine ci ho il Nanga Parbat zare e poter così anriso sopra e l’ho (nella foto in alto) dare avanti nella vimesso da parta, non sopravvite»). È una rarità: vendo. ma vivendoè come sentire la appieno. Karl è un cuoco che non caduto nel crepacomette, nel raccio, dice Simon, in contare le sue risilenzio, «senza un cette, i segreti e i rumore, senza un trucchi per reagrido» è sparito. Allizzare i suoi lora scende nel creAnche piatti. paccio per capire se Walter e Simon può fare qualcosa raccontano i loro per il compagno. segreti, rendono No, non c’è più manifesti i loro niente da fare. «Ab“trucchi”. Il primo: ridere, sdrammatizzare. biamo due alternative davanti a Forse fanno anche qualcosa di noi. Possiamo rimanere qui a più: delle vere e proprie confes- piangere il nostro amico, ed è sioni. Quando è partito da casa, finita per tutti. Oppure contiracconta Walter, «Mi sono sve- nuare, cercare di venirne fuori. gliato presto e ho quasi tagliato Qualsiasi alpinista sa che la rila corda, lo confesso». Salutata sposta è una sola. Devi andare velocemente la moglie è «scap- avanti. Anche se Karl era un pato via subito». Perché dirlo? grande amico, abbandonarsi «La mia grande fortuna è avere alla disperazione significherebal mio fianco una donna che be fare la sua stessa fine, Lui non considera questo come un non lo vorrebbe».


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Le Figaro” del 02/07/2009

Air France non risponde di Fabrice Amedeo e Christine Ducros Ufficio analisi e inchieste dell’aviazione civile francese (Bea) ha rilasciato nel pomeriggio di ieri il rapporto preliminare sull’incidente del volo Air France 447. Le Figaro ha fatto il punto sui quattro elementi principali emersi dopo il disastro: le condizioni meteo, le sonde Pitot, il possibile errore umano e i messaggi automatici Acars, nella consapevolezza che nessuno di questi, da soli, possono spiegare l’incidente. La pista meteorologica. È stata la prima ipotesi proposta dal Bea, prima che il servizio meteo francese indicasse che il volo AF 447 sulla sua rotta non aveva incontrato condizioni di tempo «con cellule temporalesche di eccezionale intensità». Ma la testimonianza di un pilota del volo San Paolo-Parigi, transitato sulla stessa rotta venti minuti dopo l’Airbus, aveva rivelato al giornale che «c’erano indicazioni sulla presenza di masse nuvolose particolarmente attive e difficilmente identificabili sui radar». Su di un sito inglese, famoso per le previsioni meteo (www.weathergraphics.com) si affermavano cose simili. Il volo avrebbe attraversato per 75 miglia una zona con una forte turbolenza e «il tempo è sicuramente uno dei fattori che possono spiegare l’incidente», concludeva l’esperto del sito web. Aggiungendo però «che condizioni simili si sono prodotte centinaia di volte senza causare alcun incidente». Sul sito viene anche citato il caso del rapporto di un pilota, durante il passaggio in quella zona particolare (definita «pentola nera» per il cattivo tempo). Un forte aumento della temperatura in quota aveva condotto l’aereo a incrociare una corrente discendente, con una perdita di quota di quasi 1.200 metri. «Nella zona equatoriale l’atmosfera ha dimensioni verticali maggiori e lo sviluppo dei cumuli nembi è massimo, quindi con una

L’

grande instabilità dei venti con perdite di quota improvvise», spiega Eric Mas, direttore di Meteo Consult. Le sonde Pitot. Lo scenario in cui gli anemometri di bordo avevano dato indicazioni erronee ai piloti è stato evocato per primo. Un mancanza d’informazioni necessarie per mantenere l’aereo in un normale assetto di volo. I tecnici di Air France avevano, fin dal primo giorno, cercato di creare delle relazioni tra i messaggi automatici di malfunzionamento degli apparti di bordo e un possibili difetto dei Pitot. Tanto che del problema è stata subito investita la società costruttrice Airbus per una loro sostituzione.

L’errore umano. Dal momento della catastrofe è circolata una voce che affermava che il terzo ufficiale avesse inviato un messaggio radio ad un altro volo, per dichiarare l’emergenza. Secondo questa ricostruzione sarebbero mancati il comandante e il secondo ufficiale. «Questo messaggio radio non è mai esistito» rispondono con fermezza da Air France. Ma le voci a tutt’oggi continuano a circolare. Probabilmente non si sa bene cosa sia successo. Di certo c’è che per il comandante Marc Dubois non c’era l’obbligo di essere in servizio a quell’ora. La regola vuole il comandante sempre presente durante fasi di volo delicate, come decolli e atterraggi. Non era quello il caso. Il fatto che i piloti possano riposare, secondo dei turni stabiliti è del tutto normale. Su

quella rotta l’impegno per ognuno dei tre piloti era di 4 ore. Per un volo che duri più di 11 ore e mezza, i piloti a bordo devono essere 4. Il corpo di Dubois è stato trovato in mare con i pantaloni addosso. Senza che ciò possa dimostrare nulla, però spingerebbe di più verso la versione che lo vedrebbe ai comandi nel momento della tragedia. I messaggi automatici Acars. Le principali fonti d’informazione disponibili per l’inchiesta sono i messaggi automatici sui parametri di volo trasmessi alla sede tecnica dell’Air France. Le trasmissioni Acars funzionano anche senza l’intervento dell’equipaggio. Sul volo AF 447 ce ne sono molti che testimoniano di anomalie e dati incoerenti della velocità. Niente comunque che avvisasse di un incidente grave. È uno dei motivi per cui non crediamo che il momento legato al disastro sia quello dell’interruzione delle trasmissioni. Capita spesso in quelle zone di perdere il contatto radio. Alle sei del mattino il volo avrebbe dovuto contattare il controllo di Dakar, poi alle 7 quello di Casablanca. Subito dopo per le famiglie di 228 passeggeri è cominciata una Pentecoste da non dimenticare.

L’IMMAGINE

Da dove viene tanta beota euforia del nuovo Balanzone di prodiana memoria? Franceschini, a mio parere, pare il novello Balanzone. Chi dalle parti del centrodestra pensava che l’homo politicus di sinistra avesse il muso lungo e fosse sprovvisto del senso dell’umorismo, dopo le spassose dichiarazioni di Franceschini all’indomani dei ballottaggi, deve ricredersi. Il segretario del Partito democratico, nonostante l’incredibile débacle elettorale, ha affermato che «con queste elezioni comincia il declino del Pdl». Qualcuno del suo entourage dovrebbe fargli notare che Berlusconi gli ha strappato decine di comuni e province specialmente nelle roccaforti rosse dell’Emilia Romagna. È vero che i politici devono ostentare sicurezza e sorrisi anche quando subiscono le medesime pene che l’impalatore Vladic Tepes inflisse ai turchi, ma d’innanzi all’innegabile avanzata del centrodestra e della Lega, donde tanta beota euforia scaturita dal novello Balanzone di prodiana memoria?

Gianni Toffali - Verona

SEMPLICEMENTE AMORALE Gli attacchi al premier si moltiplicano in odore di reazione elettorale a tutto il buon governo della destra, che si deve in qualche modo ridurre di valenza. D’Alema continua a parlare di declino, come inventore del nulla che come un fantasma si insidia nelle istituzioni per corroderle; ma dimostra anche di essere profeta di sventure, adoperando un lessico fastidioso, perché le scosse di terremoto sono una paragone amorale e sconveniente.

Gabriele Livorno

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE La sinistra di Che Guevara, quella che “a chiacchiere”voleva combattere con “hasta la victoria siempre” per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli, si defila sotto le

coperte di un concreto lassismo delle coscienze, dopo il silenzio nei confronti dei soprusi in Cina e in Iran. Qualcuno ha anche affermato che si è avuta una reazione eccessiva da parte della folla che denunciava i brogli. Non sanno che esiste da tempo una “intelligencia” persiana fatta soprattutto di donne coraggiose, che nella cultura e nell’arte si sono fatte sentire per affermare che il Paese sta cambiando. Se il broglio non sarà confermato è segno che esiste ancora una grossa fetta del popolo che per intimidazione non ha fatto ciò in cui credeva o desiderava. La cosa più triste è che molte di queste persone si sono appellate proprio alla polita progressista europea per farsi sentire, e quelli che hanno raccolto l’invito sono, a questo punto, soprattutto chi ha fatto mol-

Ti ho visto! Il suo mantello a puntini lo rende uno degli ospiti più richiesti degli acquari di mezzo mondo. Così per non essere portato via dai fondali degli oceani Indiano e Pacifico, dove vive, il trigone a macchie blu (Taeniura lymma) ha dovuto attrezzarsi. Sviluppando sulla punta della coda, due aculei velenosi che procurano in chi osa toccarlo, cancrena dei tessuti e contrazioni muscolari

ti soldi attraverso la vendita di libri di centinaia di pagine ove si è riversato il dramma e il grido di un popolo che non merita il dolore, e adesso è solo.

B. R.

NON SE NE PUÒ PIÙ Non si è mai vista una sinistra così attenta alla moralità del Paese,

racchiusa tutta nell’immagine di un uomo che ha fatto tanto parlare di sé, sicuramente per una bravura che cammina parallela ad una compassata ecletticità. Dopo la vicenda Noemi, che ha visto una parola orribile come “pedofilia” camminare su certi organi di informazione, adesso le feste private che vedono una parola non

meno terribile come “sfruttamento della prostituzione” scorrere nell’aria tematica: non se ne può più, è chiaro che da parte dell’opposizione c’è un chiaro attentato alle istituzioni che è ancor più grave perché denuncia la totale assenza della sinistra sui problemi sociali e internazionali.

Carmine Iodice


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il mio letto traballa come una nave nella tempesta

TURISMO IN BASILICATA. DIFENDIAMO LE AREE INTERNE (1) Il nostro ragionamento ci porta a configurare la proposta dell’Assessorato regionale al Turismo delle quattro “M” come un immaginario cerchio che circoscrive la Basilicata con quattro punti strategici: Melfi, Matera, Metapontino, Maratea, tutti allocati ai bordi della macro-area interna della regione. Ai bordi di questo simbolico cerchio si sviluppano, a senso unico, le relazioni culturali, economiche e sociali della Basilicata con il resto del Paese. Ne consegue che i turisti che arrivano da fuori regione, principalmente dai territori di prossimità, attratti da questi quattro luoghi di eccellenza e, dopo una breve sosta, secondo le statistiche, non sono portati o guidati a scoprire, salvo eccezioni, il vero cuore della Basilicata, quello delle aree interne, per intenderci della montagna che, geograficamente, rappresenta l’80% dell’intero territorio lucano, anch’esso ricco di attrazioni ma sconosciuto e primitivo: comunque patrimonio unico da offrire al mondo esterno. Si ripropone, così, attraverso la proposta del governo regionale, una specie di riedizione del Grand Tour che, come accadde due secoli fa,

Sono rannicchiata in un angolo e scrivo. Ecco che entra qualcuno, un tale di Kattenburg che domattina presto sarà deportato. Il tutto capita in una cameretta di due metri per tre. Il riscaldamento centrale è acceso e gli uomini sono in maniche di camicia dal caldo. Qui è tutto paradossale: nelle grandi baracche, dove molte persone dormono su cuccette di metallo senza materassi o coperte, si muore di freddo; e nelle casette dotate di riscaldamento centrale di notte non si dorme dal caldo. Io sto in una baracchetta simile con cinque colleghe. Letti a due piani che tentennano molto sui loro sostegni, sicché quando la mia grassa viennese del piano di sopra si gira di notte nella sua cuccetta, il letto traballa come una nave nella tempesta. E di notte ci sono dei topi che attaccano le provviste e i letti, una situazione un poco inquietante. E io che faccio? Di nuovo mi arrabatto con quei cinque poveri bicchierini di caffè tra centinaia di persone. A volte scappo via per pura impotenza: come poco tempo fa, quando una vecchietta è svenuta in un angolo e in tutto il campo non si trovava una goccia d’acqua perché l’impianto era stato chiuso. Avrò un colloquio con Paul Cronheim, mi impegnerò per questo nutrimento spirituale. Etty Hillesum a Han Wegerif e altri

ACCADDE OGGI

APPELLO A CISNETTO Chiedo ospitalità per dare seguito alle lettere di Enrico Cisnetto pubblicate il 10 e il 20 giugno su liberal. Per la seconda volta il presidente di Società Aperta si appella a Pier Ferdinando Casini e al suo partito, identificandoli come il potenziale punto di Archimede su cui è forse possibile far leva per uscire dalle macerie della Seconda Repubblica. È una analisi con cui concordo da tempo. Alla vigilia delle elezioni che si sono concluse con la sconfitta di Veltroni e della sua illusione di fondare il bipartitismo, ho infruttuosamente consigliato al partito di Enrico Boselli di ricercare un dignitoso accordo con l’Udc, idoneo a scongiurare la scomparsa dei socialisti dal Parlamento. Si è privilegiata la supplica nei confronti del Pd, che ha preferito il manettaro Di Pietro. Ho anche riflettuto sull’idea di Cisnetto, che prefigura per il partito di Casini un ruolo di forza holding, deputata ad assicurare la rappresentanza nelle istituzioni anche alle sparse membra della dissestata famiglia laico-socialista. Mentre ho apprezzato la determinazione e il coraggio con cui Casini ha tenuto fermo il profilo di “Terza Forza”del suo movimento, mi ha deluso la risposta tiepida e insufficiente che ha dato alla sollecitazione di Cisnetto. Se può essere di qualche utilità l’opinione di chi, da molti anni fuori dall’agone politico, ha avuto in passato un qualche ruolo nella vituperata Prima Repubblica, vorrei esortare Casini a guardare oltre lo steccato dei

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

3 luglio 1962 In seguito ad un referendum la Francia dichiara l’indipendenza dell’Algeria 1964 Il presidente statunitense Lyndon Johnson firma il Civil Rights Act (1964), che proibisce la segregazione nei luoghi pubblici 1969 Rivolta di Corso Traiano a Torino. Forti cariche di polizia accompagnano una manifestazione operaia, per certi versi è l’inizio anticipato dell’Autunno caldo 1976 Uganda: un commando israeliano libera gli ostaggi dell’airbus dell’Air France nell’aeroporto di Entebbe 1985 Francesco Cossiga presta giuramento come ottavo presidente della repubblica italiana; è stato eletto il 24 giugno con 752 voti su 977 1988 La nave da guerra della Marina statunitense Uss Vincennes abbatte un Airbus A300 della Iran Air, in volo sul Golfo Persico, uccidendo le 290 persone a bordo 2005 Il Partito democratico albanese di Sali Berisha vince le elezioni politiche

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

cattolici moderati. C’è una bella porzione della società italiana che, in civile disaccordo con una parte dei cattolici sulle questioni cosiddette eticamente sensibili, è tuttavia interessata a costruire rapporti di collaborazione con chi, come l’Udc, rifiuta sia la Scilla del Pdl che la Cariddi del Pd. Allo stesso tempo, desidero rivolgere un secondo appello ad Enrico Cisnetto. Condivido con te, caro Enrico, la previsione di una possibile implosione dei due maggiori partiti, entrambi raccogliticci. Le cronache politicomondane di questi giorni convalidano questo scenario, che include frotte di elettori in libera uscita. Consento anche sul ruolo che, prima o poi, potrà svolgere il partito di Casini. Ma ritengo che, in vista di quell’appuntamento, qualcuno si dia carico di federare quei socialisti, laici e liberali che hai pungolato nella sua lettera del 10 giugno. La polemica ospitata dal Corriere fra Massimo Teodori e Gianfranco Spadaccia mi spinge a ritenere che anche i radicali debbano essere della partita. Quanto ai socialisti “organizzati”, leggo con piacere che Riccardo Nencini ha già rifiutato la confluenza in un partito unico dell’estrema sinistra. Spero che rifiuterà anche l’ipotesi del “tutti dentro al Pd”, da Ferrando alla Binetti, patrocinata da Giuliano Ferrara, Fausto Bertinotti e Piero Sansonetti. Bene. Quel “qualcuno”, il federatore insomma degli eredi di Pannunzio, di Craxi e di La Malfa non può che essere Enrico Cisnetto.

orienta i forestieri a lambire la Basilicata senza che essi vengano sollecitati a penetrare nel suo cuore antico per scoprirla intimamente ed apprezzarla. Noi, invece, emendiamo la proposta del governo regionale mettendo al centro la conoscenza e valorizzazione delle aree interne. Non a caso, nel Piano di Sviluppo Rurale 2007-2013 della Regione Basilicata, la Basilicata è stata classificata interamente territorio rurale, differenziando la montagna e la collina quale “Area rurale con problemi complessivi di sviluppo”, mentre la pianura è identificata nelle “Aree rurali ad agricoltura intensiva specializzata”.. All’interno di questa macro-area rurale si concentra un vasto territorio costituito dai Parchi naturali nazionali e regionali, dai siti che ricadono nella Rete natura 2000 e dai territori classificati montani dall’Istat. Si tratta di un territorio strategico per l’intero ecosistema dell’Appennino meridionale, per l’alta concentrazione di patrimonio di biodiversità che vi ricade; ma è anche il territorio, come è noto, a maggior rischio di abbandono per le difficoltà strutturali in cui si realizza l’attività economica in generale, per i fenomeni di spopolamento che lo attraversano, per la senilizzazione che caratterizza il territorio agricolo, per la polverizzazione e frammentazione delle aziende agricole. Gaetano Fierro COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA

Fabio Fabbri – Tizzano Val Parma

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

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PAGINAVENTIQUATTRO Archivi. Il Vaticano pubblica una nuova edizione critica degli atti del processo al grande scienziato

Se la Chiesa va a lezione da di Rossella Fabiani

CITTÀ DEL VATICANO. «Il caso del processo a Galileo deve insegnare alla Chiesa un atteggiamento che vale anche nella nostra epoca: e cioè una certa prudenza, la necessità di approfondire questioni come la ricerca scientifica, l’uso delle staminali, la genetica». Ne è convinto monsignor Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio segreto vaticano che ieri nel corso della presentazione di nuova edizione accresciuta, rivista e annotata da lui stesso del volume I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei, (Archivio Segreto Vaticano, 2009, pagine 550, 16 tavole fuori testo, «Collectanea Archivi Vaticani, 69») ha detto la sua. «La Chiesa cattolica – ha aggiunto – rischia infatti di comportarsi verso la ricerca sulle staminali, l’eugenetica e le scoperte scientifiche attuali, con gli “stessi preconcetti” che ebbe verso lo scienziato pisano. Il caso Galileo insegna alla scienza a non presumere di fare da maestra alla Chiesa in materia di fede e di sacra Scrittura e insegna alla Chiesa contemporaneamente ad accostarsi ai problemi scientifici, fossero anche quelli legati alla più moderna ricerca, con molta umiltà e circospezione». Risale al 1877 la prima edizione parigina del cosiddetto «codice vaticano» del processo a Galileo a opera di Henri de L’Épinois, uno studioso laico che ebbe il permesso sotto il pontificato di Pio XIX - era Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa il cardinale JeanBaptiste Pitra - di visionare le carte del processo. L’opera, per diversi motivi, risultò parziale e lacunosa. Seguirono allora edizioni analoghe curate nello stesso anno a Stoccarda da Karl von Gebler e un anno dopo da Domenico Berti. Ma è soltanto nel 1909 che Antonio Favaro, nel XIX volume dell’edizione nazionale delle

GALILEO ne dell’Indice, entrambi conservati nell’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Rispetto alle edizioni precedenti degli atti processuali galileiani le novità più rilevanti in questa edizione ruotano intorno alla maggiore conoscenza dei personaggi implicati nel procedimento, tutti precisati nelle note, compresi moltissimi inquisitori; ai documenti presentati nella loro genuinità – originali, copie, sunti, note d’ufficio – con rigorose note archivistiche; al panorama, come si è detto, delle fonti «vaticane» riguardanti il processo allo scienziato pisano e cioè l’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’Archivio Segreto Vaticano e la Biblioteca Apostolica Vaticana. Questa nuova edizione comprende, oltre a tutte le carte già note, almeno una ventina di nuovi documenti reperiti del nell’Archivio Santo Officio dopo il 1991 da alcuni ricercatori: in particolare Ugo Baldini e Leen Spruit. E ancora: «La nuova edizione annota criticamente i vari documenti dei quali

Il curatore, monsignor Sergio Pagano, Prefetto dell’Archivio segreto vaticano: «All’epoca, l’atteggiamento dei teologi avrebbe potuto essere più comprensivo ed elastico: ma i tempi storici non erano maturi per recepire quegli studi scientifici» Opere di Galileo (1888-1909), fa un decisivo passo avanti. Si deve poi aspettare fino al 1984, quando lo stesso Sergio Pagano, per volere di Giovanni Paolo II, pubblica una nuova edizione dei documenti del processo allo scienziato pisano. «La brevità dei tempi allora – ha spiegato monsignor Pagano – mi costrinse a giornate di lavoro molto intenso e il risultato mi soddisfece solo in parte. Per questo, come ho potuto, mi sono dedicato a questa nuova edizione di 550 pagine e 1300 note. E sono lieto che il volume veda la luce proprio ora: è il contributo umile e silenzioso dell’Archivio Segreto alla celebrazione dell’Anno Internazionale dell’Astronomia».

Dal 1984 a oggi sono apparsi molti studi relativi a questa celebre vicenda in veste di monografie e di saggi su riviste storiche; ma soprattutto dal 22 gennaio 1998, quando sono stati ufficialmente aperti agli studiosi gli archivi del Sant’Officio e quello della Congregazio-

propone un’edizione fedele agli originali che come sottolinea monsignor Pagano - sono stati letti di nuovo, riga per riga». L’edizione dei documenti è preceduta da un’ampia introduzione storica alle vicende che gradualmente portarono all’istruzione e allo svolgimento del processo, a partire dalle denunce del domenicano Tommaso Caccini, dal 1616 al 1633 e fino al 1741, quando, sotto il pontificato di Papa Benedetto XIV, fu permessa la costruzione del mausoleo nella basilica di Santa Croce di Firenze (di fronte alla tomba di Michelangelo) e fu consentita la pubblicazione a Padova dell’opera galileiana ferme restando le censure del Sant’Uffizio. Il 31 ottobre 1992, nel rivolgersi ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze, Giovanni Paolo II riconobbe a proposito del processo che: «La scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, costringeva i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo. Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi».

Anche per monsignor Pagano l’atteggiamento dei teologi avrebbe potuto essere più comprensivo ed elastico: «Fermo restando che i tempi storici non erano maturi per recepire gli studi scientifici del grande studioso». Con la nuova edizione del volume «I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741), «chi vorrà aprire gli occhi li aprirà».


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