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Tutte le ambizioni sono

di e h c a n cro

giustificate, eccetto quelle che si arrampicano sulle miserie e sulla credulità umana

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Joseph Conrad di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 7 LUGLIO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Domani si apre a L’Aquila uno dei vertici internazionali più attesi e più complessi

Il nuovo disordine mondiale Speranze e pericoli si intrecciano di fronte ai Grandi della Terra

Un passo avanti nel disarmo nucleare Il richiamo di Napolitano a Hu Jintao

Una formula oramai insufficiente

Uno dei nodi più controversi del vertice

Il caso Iran: Storica intesa Uighuri e tibetani, Il G8 è in crisi a Mosca: ma esistenziale. meglio l’ingerenza i diritti “disumani” con quale Russia? È ora di cambiare che l’indifferenza di Pechino di Enrico Singer

di padre Bernardo Cervellera

di Mario Arpino

di Gennaro Malgieri

Nuovo passo in avanti verso il disarmo nucleare bilaterale Russia-Usa, mentre il mondo si interroga sul nucleare iraniano. Obama e Medvedev ieri hanno raggiunto un’intesa molto importante.

Nell’incontrare il suo omologo cinese Hu Jintao, il presidente Napolitano ha accennato alla questione dei diritti umani. Un richiamo giusto, ma forse qualcosa di più l’Occidente può farlo.

Ormai ci siamo: domani all’Aquila si alza il sipario di una rappresentazione «politicamente corretta». Tanto «corretta» che rischia di non servire praticamente a nulla.

Le cancellerie mondiali sono state molto fredde, fin qui, nei confronti dell’Iran: forse pensavano di più al mercato. Sarebbe bene che all’Aquila, invece, i grandi parlassero di diritti umani.

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“Dialogare” non significa cedere

Un saggio controcorrente sul clima

Il testo viene divulgato proprio oggi Ascesa e caduta del ruolo dei summit

È l’enciclica Com’era diverso Attenti,ora Israele Ma io non credo incontrarsi reagirà all’atomica al “riscaldamento” del Papa il nuovo nel XX secolo! di Obama di Ahmadinejad codice etico di John R. Bolton

di Carlo Ripa di Meana

di Luigi Accattoli

di Maurizio Stefanini

Ora che i mullah integralisti e il corpo dei Guardiani della Rivoluzione hanno riconquistato il controllo della situazione in Iran, Israele deciderà l’uso della forza contro il regime?

Al G8 si parlerà anche di ambiente e, probabilmente, tornerà di moda il riscaldamento globale sulla spinta della rivoluzione di Obama. Ma è una rivoluzione che pagheremo noi europei.

L’enciclica del Papa e il G8 dell’Aquila hanno in comune un obiettivo importante per il futuro dell’umanità: convincere il mondo della necessità di un «codice etico comune».

La parabola dei popoli e della politica è tempestata di summit quanto di buone intenzioni. Solo raramente dagli incontri fra i «grandi» sono uscite decisioni che hanno cambiato la storia.

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

132 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Onda verde. La politica deve sottrarsi dall’abbraccio esclusivo degli affari e combattere chi destabilizza il mondo

Facciamoci i fatti dell’Iran Nello scorso decennio prevalse “l’ingerenza umanitaria”. Oggi, verso Teheran si preferisce l’indifferenza. All’Aquila si deve cambiare rotta di Gennaro Malgieri arà certamente uno dei temi al centro del G8. I grandi della Terra non possono evitarlo. Davanti agli orrori quotidiani che scuotono la nostra vita, sono soprattutto i governanti dei Paesi più industrializzati del mondo a dover fare i conti con una realtà che più che politica è di civiltà. La comunità internazionale, infatti, è in balìa di repentini mutamenti nell’ambito della sfera della tutela dei diritti al punto di disinteressarsi di ciò che accade. Su di essa si riversano quotidianamente notizie di violazioni, maltrattamenti, soprusi, guerre di difficile decifrazione, conflitti tribali che coinvolgono popolazioni numerose, depredazioni di risorse da parte di oligarchie economicofinanziarie sostenute da Stati che pur non essendo considerati “canaglie” si comportano come se lo fossero. Di fronte a questo panorama viene voglia di stracciare la Carta dei diritti dell’uomo, di abrogare tutte le istituzioni internazionali che dovrebbero presiedere alla salvaguardia, se non della kantiana “pace perpetua”, quanto meno di un ordine mondiale civile. A cominciare dall’inutile Onu che, invece, raccoglie nel suo seno buoni e cattivi mettendoli sullo stesso piano, facendoli contare alla stessa maniera. Le sanzioni che irroga valgono meno dei fogli su cui sono scritte. E questo è un fatto. Come era un fatto che la Società delle nazioni non avesse alcun potere per fermare la distruzione planetaria che sotto la sua stupida egida avvenne negli anni Trenta e Quaranta.

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Come fermare la valanga di crimini che sta travolgendo il Pianeta? Quindici anni fa si affermò la “dottrina Clinton”della cosiddetta “ingerenza umanitaria”. La guerra dei Balcani ne fu il pretesto. Poi il livello si è alzato con la “dottrina Bush” della “guerra preventiva” e, sempre sotto la sua presidenza, si è diffuso il credo dell’“esportazione della democrazia”, naturalmente con le armi. Il tutto ispirato dal nobile intento di rendere il mondo un po’ più vivibile, libero, civile. Si è visto come è andata a finire. Non c’è continente dove non si combatte. Perfino nella “serena”Europa non man-

cano focolai di infezione bellica. E dovunque s’accende un conflitto sono i diritti primari a soffrirne. Suonano quasi ironiche le parole che nel 1995 l’allora segretario generale delle nazioni Unite, Boutros-Ghali scrisse: «Come strumento di riferimento, i diritti umani costituiscono il linguaggio comune dell’umanità grazie al quale tutti i popoli possono, nello stesso tempo, comprendere gli altri e scrivere la propria storia. I diritti umani sono, per definizione,

sia più Saddam Hussein (intanto gli altri dittatori sono al loro posto e dominano i due terzi della Terra).

Ma le ferite come e quando si rimargineranno in quel Paese martoriato più di quanto le cronache raccontino, piegato moralmente, preda di affaristi senza scrupoli per i quali la democrazia è arrivata non con i soldati della coalizione internazionale, ma con i famelici interessi da soddisfare? «I diritti umani -

dire la tutela della vita, della libertà e della dignità della persona. Il resto appartiene alle sovranità delle nazioni rispetto alle quali si può e di deve nutrire rispetto fino al punto che questo non venga scambiato per debolezza ed accenda l’istinto aggressivo di governanti pronti a distruggere pur di accaparrarsi ciò che ritengono utile o indispensabile ai loro popoli. È per questo, ad esempio, che ci si oppone fermamente alla proliferazione nucleare, agli esperi-

Davanti alla valanga di crimini che sta travolgendo il Pianeta, verrebbe voglia di abrogare tutte le istituzioni internazionali che dovrebbero presiedere alla salvaguardia di un ordine mondiale civile. A cominciare dall’inutile Onu la norma ultima di ogni politica. Sono per loro natura diritti in movimento. Con questo intendo dire che esprimono contemporaneamente obblighi immutabili e la situazione in un particolare momento della coscienza storica. Sono dunque sia assoluti sia storicamente situati». Dunque, inalienabili. Ma come difenderli, posto che l’ingerenza umanitaria presenta aspetti a dir poco deprecabili per le ricadute contrarie ai fini che si propone e che la guerra preventiva non è da prendere più in considerazione, posto che nessuno può giudicare dai comportamenti dei tiranni gli effetti che le devastazioni avranno se si interviene prima che un evento accada. E poi, chi decide e come, se non per difendersi da un’aggressione, qual è il confine che non deve essere passato se non si vogliono arrecare danni ulteriori alla popolazione civile? L’Iraq, tanto per fare un esempio, è stato “liberato”. È certamente un bene che non ci

diceva sempre Boutros-Ghali non sono il minimo comune denominatore di tutte le nazioni ma, al contrario, costituiscono ciò che vorrei chiamare l’umano irriducibile, la quintessenza dei valori in base ai quali affermiamo, insieme, che siamo una sola comunità umana». In questa sua frase è condensata tutta la superficialità che caratterizza la possente e inutile burocrazia del Palazzo di Vetro. Per il semplice fatto che anche i diritti vanno declinati in base a criteri di soggettività culturali ed armonizzati. Esistono sì diritti assoluti, propri di “una sola comunità umana”, ma accanto a essi, non meno importanti, ve ne sono degli altri che assumono connotazioni diverse a seconda delle civiltà nel cui ambito godono di considerazioni connesse allo spirito dei popoli che li vivono. Da qui la diversità delle legislazioni le quali, peraltro, non possono derogare dal minimo comune denominatore che dovrebbe ispirarle, vale a

menti atomici dell’Iran e della Corea del Nord. In questi casi non di ingerenza umanitaria si dovrebbe parlare, ma di messa al bando di comunità non compatibili con la preservazione dei rischi che comporta l’ampliamento degli arsenali e della costruzione di armi di distruzione di massa. Non è per caso che gli Stati più aggressivi siano gli stessi nei quali i diritti civili e politici, così come quelli economici, culturali e sociali vengono calpestati e perfino espunti dalle Costituzioni.

È avvenuto così che dall’ingerenza umanitaria, che pur ha fatto inorridire, si sia passati nel volgere di tre lustri, all’indifferenza umanitaria. Accada ciò che deve accadere, insomma: sono faccende di cui chi vive nelle democrazie opulente non vuol neppure sentir parlare. È una storia antica. Una volta, il giovane Georges Danton, una decina d’anni prima di diventare protagonista della Rivoluzio-

ne, chiese all’allora ambasciatore della giovane repubblica americana a Parigi, Benjamin Franklin il quale, insieme con Thomas Jefferson, aveva scritto la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, proclamata a Filadelfia il 4 luglio 1776, «nel mondo di miserie e di ingiustizie nel quale viviamo, dov’è la sanzione? La vostra Dichiarazione non può contare su alcun potere giudiziario o militare per farsi rispettare». Franklin gli rispose: «Vi sbagliate. Dietro questa dichiarazione vi è un potere enorme, eterno: the power of shame, il potere della vergogna».

Certo, due secoli e mezzo fa circa, questo potere, innestato in un contesto morale comunemente accettato dalle nazioni cosiddette civili, aveva senza dubbio un senso. E potrebbe averlo ancora oggi se l’indifferenza umanitaria non fosse utilizzata da affaristi privati e di Stato per sostenere, in cambio di profitti considerevoli, gli aguzzini che soffocano i loro popoli e attizzano i conflitti. È per questo motivo che la “guerra preventiva”, “l’ingerenza umanitaria” sono state accantonate. E se i focolai di guerra in Medio Oriente, in Asia, in Africa, in Europa, in America Latina non si spengono, in parte è perché non c’è la volontà politica da parte dei detentori del potere di spegnerli. Sono venticinque, al momento, i conflitti estesi e cruenti che tengono il mondo in allarme. Ad essi vanno aggiunte le guerre alimentari, quelle ecologiche, quelle culturali o religiose che “legittimano” le sopraffazioni. Il potere della vergogna? Va letto all’incontrario ed è tutto di chi pratica l’indifferenza immaginando che dalle infinite trattative possa venir fuori la “pace perpetua” o qualcosa che le assomigli. La nuova società planetaria rivendica il diritto alla vita. Vuole il benessere senza doverlo comprare da mani insanguinate, accetta il profitto finché non diventi il fine per cancellare culture, storie e popoli, è pronta (almeno nella sua parte migliore) ad accogliere il diverso purché questo non si arroghi il diritto di trasformare la società in cui è capitato a suo uso e consumo. La


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Un sommergibile israeliano attraversa il Canale di Suez. Riad apre i suoi cieli ai jet di Tel Aviv

Israele, prove di guerra? Sì, se i Grandi tentennano di John R. Bolton

WASHINGTON. Ora che i mullah integralisti ed il Cor-

mi 20 anni. Il tempo a disposizione è poco e le sanzioni po dei Guardiani della Rivoluzione Islamica hanno ri- si sono dimostrate inopportune già molto tempo fa. guadagnato il controllo della situazione in Iran, la decisione di Israele sull’uso o meno della forza militare ai Solo gli “integralisti” del negoziato continuano ad audanni del programma di proliferazione nucleare porta- spicare una completa rinuncia da parte iraniana al proto avanti da Teheran appare un imperativo. Le possibi- prio programma di proliferazione nucleare. Sfortunatalità di un cambio di regime grazie alla resistenza post- mente, l’amministrazione Obama ha in serbo un“Piano elettorale appare vana nell’immediato futuro, o almeno B”, che consentirebbe a Teheran di disporre di un proper il periodo necessario all’Iran a dotarsi definitiva- gramma nucleare civile “pacifico”. Obama definirebbe mente dell’atomica. Nella totale assenza di altre tempe- tale risultato come un “successo”, quantunque la realtà stive opzioni per porre fine alla crisi, la si incaricherà di smentire tali affermagià inoppugnabile logica di un attacco zioni. Un programma di arricchimento israeliano sfiora l’inesorabilità. Tel dell’uranio “pacifico”, reattori “pacifici” Aviv ha indubbiamente impresso come quello di Bushehr,“pacifici” proun’accelerazione al proprio processo getti di centrali ad acqua pesante quadi decision-making. Ma non è stata seli quella in costruzione ad Arak lasciaguita dall’amministrazione statunitenno sostanzialmente intatte le capacità se. Il presidente Obama continua infatdell’Iran di produrre armi nucleari in ti a ribadire la necessità di un “impeun arco temporale molto limitato. E gno”(termine evocativo) con il regime chiunque creda che il Corpo dei Guardi Teheran. E giovedì scorso, il Dipartidiani della Rivoluzione abbandonerà i mento di Stato ha confermato che Hilprogrammi di armamento e di sviluplary Clinton ha intrattenuto colloqui po di missili balistici ritiene molto procon i propri omologhi russo e cinese babilmente che non vi sia stato broglio per sondare la possibilità di «far sedealcuno nel corso delle consultazioni re nuovamente l’Iran al tavolo negoelettorali del 12 giugno.Vedasi il cosidziale»: visione ribadita nel comunicato detto “evidente vuoto di credibilità” di del G8 del giorno successivo. cui sopra. Fonti dell’amministrazione Obama In sintesi, il furto elettorale e i tumulhanno affermato (in forma anonima) tuosi strascichi che si sono prodotti che la leadership iraniana si dimohanno drammaticamente riportato l’atstrerà più desiderosa di negoziare ritenzione sulle carenze strategiche e tatspetto ai mesi passati al fine di pervetiche del grande gioco di Obama. Con nire alla tanto auspicata“accettazione” il tema del cambiamento di regime da parte della“comunità internazionaescluso dai punti programmatici del tale”. Alcune indiscrezioni davano i nevolo negoziale per via del programma goziati in dirittura d’arrivo per settemdi proliferazione nucleare, la necessità bre, in concomitanza con l’apertura di una soluzione militare da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioisraeliana risulta quanto più urgente. ni Unite, mentre altre fonti suggerivaPoiché non vi è probabilità alcuna che no che fosse meglio pazientare sino alla diplomazia sortisca effetti in tempo, la fine del 2009 per vedere dei risultati. 11 luglio 2009: questa la dead o compia dei progressi in misura tale I due scenari costituiscono un’evidenline che l’ayatollah Khamenei da segnare effettivamente il passo, non te riprova del fatto che il regime di ha tracciato per porre fine alle vi è motivo di attendere l’apertura dei Teheran ritenga di vitale importanza proteste in Iran. Il mondo è avnegoziati. Infatti, date le ampie possibigiungere ad una piena“legittimazione” vertito. Al suo monito, si sono lità che Obama modifichi la sua iniziao quantomeno che la necessità di proaggiunte ieri le parole del prele definizione di “successo”, questi rapcedere ad una sistematica eliminaziosidente della commissione presenterebbero per Israele un’insidia ne dei propri nemici sia un motivo di Esteri e Sicurezza nazionale ancor più pericolosa. L’unica opzione a imbarazzante disagio. Entrambe le del Parlamento iraniano, disposizione di quanti si oppongono a proposizioni destano molti dubbi. Alaeddin Borujerdi: «Ogni atuna Repubblica Islamica dotata dell’aObama tenterà di intavolare dei netacco militare contro l’Iran tomica rimane quella di sferrare attacporterebbe ad una risposta dechi mirati ai danni delle installazioni goziati bilaterali con l’Iran, sebbene - i cisa e su scala totale, mettendo militari iraniane.Almeno nel breve pemedia ce lo ricordano ogni giorno - il in pericolo la regione e il monriodo. Non solo: la rivolta iraniana tempo a disposizione scarseggi. Tale do intero». Il suo avvertimento approccio implica due elementi di crirende più verosimile l’ipotesi di aprire giunge dopo due segnali imticità. In primo luogo, Teheran non si efficaci canali diplomatici nel Paese portanti: primo, che un sottosiederà al tavolo negoziale in buona atti a spiegare alla popolazione iraniamarino israeliano è passato na che un tale attacco non sarebbe rifede. Non lo ha fatto negli scorsi sei nelle acque del canale di Suez; volto contro la popolazione civile, benanni con gli europei e non inizierà di secondo, che il vicepresidente sì contro il regime. Un’azione militare certo ora. Come detto dalla Clinton, l’IUsa, Joe Biden, ha detto che il contro il programma nucleare iraniaran sconta un “enorme vuoto di credisuo Paese «non può imporre a no e l’obiettivo ultimo del cambio di bilità” in virtù dei brogli elettorali. In un altro Stato sovrano cosa faregime devono essere il frutto di un insecondo luogo, dati i progressi del prore», suggerendo la possibilità faticabile lavoro collegiale. Qualora gramma nucleare iraniano, nemmeno di una non opposizione americiò non dovesse accadere, preparial’inasprimento delle sanzioni tanto pacana a una eventuale azione moci ad assistere ad un Iran dotato di ventato da Obama impedirebbe all’Imilitare israeliana. armi nucleari. Un errore che potrebbe ran di fabbricare armi e sistemi di lanessere fatale. cio, come ha cercato di fare negli ulti-

Se i Guardiani della Rivoluzione ottenessero l’atomica, il mondo intero ne pagherebbe il prezzo

follia dell’indifferenza umanitaria sta nel dichiararsi sostanzialmente estranea a ciò che riguarda l’uomo, la sua libertà, la sua dignità.

Occorre una rivoluzione culturale che gli Stati occidentali, ancor meno gli altri, non sembra siano pronti a sostenere. Ma è soltanto con le armi della persuasione che si possono disinnescare i conflitti che mettono a repentaglio anche la vita di chi si dice indifferente. Se questa consapevolezza dovesse essere presente ai legittimi interpreti della democrazia diffusa, non si tarderebbe ad accettare quella che Amartya Sen definisce la “democrazia degli altri”. Ma c’è la possibilità che questa speranza venga praticata? L’interrogativo è cruciale. Di una sola cosa si può essere certi: il cambio di stagione nelle strategie internazionali di contenimento bellico e di progresso umanitario non può prevedere l’indifferenza laddove prima parlavano soltanto le armi. È un tema sul quale i riflettori della politica dovrebbero accendersi. Sempre che la politica riesca a sottrarsi all’abbraccio mortale dell’affarismo.

In alto, scontri per le vie di Teheran. Secondo l’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, le vittime sarebbero oltre cento. Gli arresti «molti di più dei 1200 denunciati dal governo». Di questi, almeno 34 sarebbero giornalisti. A sinistra, il presidente Ahmadinejad e a destra, la guida spirituale iraniana Khamenei

11 luglio 2009 La dead line di Khamenei


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Clima rovente. Una parte importante della comunità scientifica internazionale demolisce il piano del presidente Usa

La stangata di Obama

Al vertice dell’Aquila torna il tema (falso) del riscaldamento globale. Ma i costi della rivoluzione americana saranno a nostro carico di Carlo Ripa di Meana on credo al riscaldamento globale causato dall’uomo e dunque alla origine antropica dell’effetto serra. Non credo, pertanto, alla teoria che ne discende messa a punto negli ultimi anni dall’Ipcc-International Panel on Climate Change (Onu): il cambiamento climatico, andrebbe stabilizzato, secondo l’IPCC, riducendo e governando i gas a effetto serra nell’atmosfera, e, come prima misura, stivando nelle miniere dismesse il surplus di Co2 prodotto in questi anni.

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Il clima è sempre in cambiamento. Pretendere di determinarlo è un atteggiamento prometeico. La sua evoluzione dipende da molti fattori: certo anche dalla composizione chimica dell’atmosfera, ma egualmente dalla dinamica delle grandi masse oceaniche, dai campi magnetici prodotti dal “vento solare”, dalla traiettoria che la terra percorre nella galassia, solo per ricordarne alcuni. Credo di avere in questi lunghi anni, dall’inizio dei “Novanta”, quando lanciai come Commissario europeo all’Ambiente la prima proposta di Carbon Tax, studiato, letto e verificato molto a proposito delle energie rinnovabili e della teoria del global warming, così come è stata formulata, dibattuta, sottoposta a verifica a partire dal 1997 con il Protocollo di Kyoto. Ho una diretta conoscenza a proposito di una delle energie rinnovabili, la più sovvenzionata e la più perniciosa per il paesaggio, irrilevante per la sua natura intermittente nella resa energetica: l’eolico industriale, il killer del paesaggio europeo e italiano in particolare. Come persona informata dei fatti sono del parere che si debba uscire dalla rassegnazione e dal fatalismo, e si debba iniziare a combattere una battaglia razionale contro le tesi autoritarie del

controllo delle mutazioni climatiche che si propongono una spesa pubblica senza precedenti nella storia dell’umanità, immense risorse finanziarie per mitigare e programmare i cambiamenti climatici. Una operazione dirigistica, chimerica, dissennata contro cui, in particolare nel secondo semestre dell’anno di grazia 2009, ogni persona che non sia decisa a capitolare all’irrazionale deve condurre e portare a vittoria.

Margherita d’Amico, la scrittrice e giornalista cha ha lanciato il movimento «Il respiro degli alberi», a fine mattinata di una giornata del giugno scorso fresca, quasi frizzante, mi dice: «Dobbiamo fare qualcosa di concreto perché il riscaldamento del clima è molto preoccupante». Quando Margherita mi ha chiamato, stavo leggendo Eco logo, un volume ben documentato del mio amico Stefano Apuzzo che nella sua introduzione alle quasi 300 pagine del libro scrive: «Stiamo parlando del destino che potrebbe farci assistere da anziani (lui ha 48 anni, ndr) alle inondazioni delle nostre città causate dallo scioglimento dei ghiacciai e dall’innalzamento dei mari. I due gradi di aumento della temperatura globale previsti da quasi tutti gli scienziati del clima produrrebbero l’inondazione di Venezia, del centro di Londra, di Miami e Manhattan, con tutte le coste mediterranee ridotte a deserti aridi. L’acqua potabile diminuirebbe del 20-30%, la resa agricola si abbatterebbe del 10%, avremmo 60milioni di nuovi casi di malaria in Africa, le alluvioni lungo le coste interesserebbero 10milioni di persone in più, il ghiaccio della Groenlandia si scioglierebbe definitivamente». Due pareri di persone che conosco, non ingenue, spesso scettiche, sempre concrete, eppure inserite, Mar-

Il clima è sempre in cambiamento. Pretendere di poterlo determinare è davvero un atteggiamento prometeico

gherita e Stefano, nel grande coro dell’Apocalisse prossima ventura.

Intonato con la solennità del Canto gregoriano dai grandi Cavalieri e Diaconi, il già vicepresidente americano Al Gore, Nobel e Oscar, l’erede al trono Carlo d’Inghilterra e, affidato poi alla divulgazione autorevole per gli incliti, dalle voci dei tenori Lester Brown, Jeremy Rifkin, Nicholas Stern, Maurice Strong, Klaus Töpfer. Per i lavori duri e sporchi alle voci fonde, quella intollerante del Ministro per l’Ambiente del Regno Unito Edward Miliband e quella protonazista del giornalista britannico George Monbiot, per intimidire gli incolti con il completamento, per le finiture minacciose, dei gruppi di baritoni, contralti e soprani, tutti intenti a seminare il panico isterico:«“È una questione morale, che riguarda la sopravvivenza della civiltà umana ….. la crisi climatica può essere risolta in tempo per evitare la catastrofe ….». Al Gore, ottobre 2008; «In base alle ultime relazioni il livello del mare potrebbe aumentare di un metro in questo secolo con gravi conseguenze per 600milioni di persone. Paesi come l’Egitto e l’India ne subirebbero enormi conseguenze, mentre le isole più piccole scomparirebbero del tutto. Ci rimangono al momento solo novantanove mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno, e questo tempo passerà in un lampo», Carlo d’Inghilterra, Roma – Montecitorio, 27 aprile 2009; «Come i terroristi non possono presentarsi nei media, così gli scettici sulla questione climatica non dovrebbero avere il diritto di parlare pubblicamente contro la teoria del riscaldamento globale», Edward Miliband, Pianeta blu non verde,Vaclav Klaus, p.18-IBL Libri, Torino 2009; «Ogni volta che qualcuno muore in seguito alle alluvioni in Bangladesh, un dirigente di una compagnia aerea dovrebbe essere trascinato fuori dal suo ufficio e annegato», Guardian, George Monbiot, The 31.10.2006. Dunque l’attacco mediatico, istituzionale e politico per forzare la mano ora al

G8 a l’Aquila, e in dicembre a Copenaghen alla grande Conferenza Onu per rinegoziare da cima a fondo il Protocollo di Kyoto, clamorosamente fallito con i relativi impegni, è nel suo pieno. Il nuovo Presidente Obama prepara l’affondo. Impegnato ad assumere nel mondo la guida della rivoluzione verde, dopo la lunga retroguardia americana rappresentata dai Presidenti Carter, Reagan, Clinton e i due Bush. Obama considera che questo del 2009, anno d’inizio della sua presidenza, sia il tempo ideale perché questa linea strategica maggiore, formatasi negli anni ottanta e novanta fino alla metà di questo decennio con allora la leadership dell’Unione Europea, sia rimessa oggi alla primazia americana o, come hanno sognato Blair e Brown, in subordine, angloamericana. Questo proposito non lo ha mai taciuto Al Gore, e di recente lo ha teorizzato il Premio Pulitzer Thomas L. Freedman: «Io dico: l’America prenda la guida della rivoluzione verde e il mondo seguirà perché il suo potere di emulazione è ancora forte, ineguagliato. Se tentenniamo, gli altri tentennano, se avanziamo gli altri ci imitano. La Cina in particolare. Finora abbiamo tentennato. Ma se mostriamo che si può essere innovativi, ricchi e imprenditoriali anche colorando di verde la nostra economia questo varrà più di cento trattati ….. Oggi è la corsa alla terra, e la vincerà chi inventerà per primo le tecnologie più verdi, perché uomini e donne possano continuare a vivere sul pianeta», Corriere della Sera, 15 giugno 2009. È stata una lunga marcia quella della teoria del global warming attribuito, come premessa di ogni cosa, all’aumento delle emissioni di biossido di Carbonio (Co2) prodotte dall’uomo, il gas a effetto serra dovuto alla crescita del consumo di combustibili fossili, carbone, petrolio e gas naturali. Nelle intenzioni dichiarate della cultura ambientale americana «La Terza Rivoluzione industriale è l’obiettivo finale che porta il mondo fuori dalle vecchie energie basate sul carbonio e l’uranio verso un futuro sostenibile e non inquinante per la razza uma-


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na», Jeremy Rifkin, economista e scrittore, I libri di Gaia, Milano 2008, p.25.

Obama lo ha annunciato, con la sua consueta retorica, nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, il 19 gennaio 2009, con queste parole: «We will roll back the specter of a warming planet, cacceremo lo spettro del riscaldamento globale, utilizzeremo il sole, i venti e il geotermico per assicurare il pieno alle nostre automobili, per far funzionare le nostre fabbriche. Costruiremo le strade e i ponti, le nuove reti elettriche con le linee digitali intelligenti che ci terranno insieme. All this we can do. And all this we will do». Valutando oggi, sei mesi dopo, con freddo realismo, il progetto strategico di Obama, messo a punto con le regole della sempiterna special relationship con l’alleato britannico (Blair iniziò a tesserla con l’ultimo Bush verso la fine della sua presidenza, e oggi Brown con l’intesa angloamericana, con sullo sfondo la Merkel), perché in questi ultimi mesi è divenuto problematico? Esso poggiava su tre “verità indiscutibili” annunciate dagli araldi della green revolution, della green industry e del green employment ipse dixit: 1) Il prezzo del greggio è in continuo aumento; 2) L’aumento esponenziale delle emissioni di anidride carbonica e altri gas in atmosfera prodotti dall’uomo con le industrie, il riscaldamento e il trasporto producono negativo e decisivo surplus di effetto serra; 3) Il riscaldamento globale che ne deriva produce a ritmi sempre più accelerati una sconvolgente e innegabile mutazione climatica, un climate change rovinoso. Sei mesi dopo, a metà 2009, queste certezze sono state, una dopo l’altra, contraddette, prima di tutto dai crudi dati economici e scientifici. Oggi esse appaiono imprudenti formulazioni manichee. Imprudenti e non confermate. Il prezzo del petrolio è dimezzato. È probabile che riprenda a salire a crisi economica superata, dunque in data incerta. L’effetto serra dovuto a un aumento di Co2 non si è avuto. Si è registrata, al contrario, con la grande crisi, una flessione di Co2 dovuta alla riduzione dei consumi. La ricerca degli studiosi del clima e della meteorologia non registra aumento della temperatura negli ultimi dieci anni, come sembra prepararsi a riconoscere lo stesso Ipcc-International Panel on Climate Chage, con il prossimo rapporto. Il Professor Guido Visconti, il climatologo italiano più ascoltato in sede Ipcc, ha ammesso il 28 marzo 2009 sul Corriere della Sera, che «il dato sull’aumento di temperatura globale è soggetto evidentemente a diversi errori. I dati sperimentali che

si hanno a disposizione sono ancora troppo limitati per decidere sulla validità dei modelli».

Infine, Il 30 marzo 2009 sul New York Times, centoquattordici scienziati di tutto il mondo (incluso tra gli altri il fisico italiano Antonino Zichichi), tra cui 13 Premi Nobel, hanno pubblicato un appello a Obama rispondendo con queste parole all’affermazione di qualche giorno prima dello stesso Presidente, «Poche sfide che l’America e il mondo hanno di fronte sono più urgenti della lotta ai cambiamenti climatici. I dati scientifici sono indiscutibili e i fatti sono chiari»: «Con tutto il dovuto rispetto signor Presidente, questo non è vero», hanno risposto i 114 scienziati sul NYT. Ormai da ogni parte giungono smentite al dogma del riscaldamento globale dovuto alle attività umane (tra i massimi opposi-

tori Fred Singer, James Lovelock, Richard Lindzen, Hendrik Tennekes, Freeman Dyson, Patrick J. Michaels, Antonino Zichichi, Biorn Lomborg, Robert Mendelson, Franco Battaglia). Insomma, un fortissimo appello si leva da molte parti perché ci si impegni a «conoscere prima di deliberare». Con un crescendo di pareri e di prove che svelano l’impostura e che giungono ormai anche dall’esterno della Comunità scientifica. Voci della cultura e della politica, ancora timide e sommesse alcune, da parte di uomini di stato europei: il Presidente della Repubblica Ceca Vaclav Klaus, Valéry Giscard d’Estaing, Helmut Schmidt e, da New Dehli, il Primo Ministro dell’India Manmohan Singh. Su questi nuovi orientamenti, per ora ufficiosi, caratterizzati anche da una caduta verticale di condivisione delle priorità del problema del riscaldamento globale

Una bibliografia ragionata sull’«impostura climatica»

Ecco tutti i libri da leggere Stefano Apuzzo, Danilo Bonato, Eco Logo, I libri di Gaia, Milano, 2008. Franco Battaglia, Renato Angelo Ricci, Verdi fuori rossi dentro, Free Foundation for Research on European Economy, Milano, 2007. Tony Blair, Speech on climare change, Londra, 14 settembre 2004. Jean-Louis Butré, L’imposture, Editions du Toucan, Paris, 2008. Riccardo Cascioli, Antonio Gaspari, Tullio Regge, Le bugie degli ambientalisti. I falsi allarmi dei movimenti ecologisti, Piemme, Asti, 2004. Michael Crichton, Environmentalism as religion, Commonwealth Club, San Francisco, 15 agosto 2003. Michael Crichton, The case for skepticism on global warming, National Press Club, Washington DC, 25 gennaio 2005. Michael Crichton, Stato di paura, Garzanti, Milano, 2005. Paul Ehrlich, The popular bomb, Ballantine Books, New York, 1968. David L. Goodstein, Il mondo in riserva, Università Bocconi, Milano, 2008. Al Gore, La terra in bilico, RomaBari, Laterza 1993. Al Gore, Una scomoda verità: come salvare la terra dal riscaldamento globale, Rizzoli, Milano, 2003. Vaclav Klaus, Pianeta blu, non verde. Cosa è in pericolo: il clima o la libertà?, IBL Libri, Torino, marzo 2009. Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. Nigel Lawson, Nessuna emergenza

clima. Uno sguardo freddo sul riscaldamento globale, Francesco Brioschi editore, Milano, 2008. Richard Lindzen, Climate of fear, «The Wall Street Journal», New York, 12 aprile 2006. Bjørn Lomborg, L’ambietalista scettico, Mondadori, Milano, 2003. Bjørn Lomborg, Stiamo freschi, Mondadori, Milano, 2008. James Lovelock, The Earth is about to catch a morbid fever that may lasta as long as 100.000 years, «The Indipendent», 16 gennaio 2006. Laura Marchetti, Il pensiero all’aria aperta, Palomar, Bari, 2000. Donella Meadows, Dennis Meadows, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1978. Obama’s presidential Barack address, Shenker minibooks series, Roma, 2009. Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2008. Jeremy Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondadori, Milano, 2002. Jeremy Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano, 2004. Vandana Shiva, Ritorno alla Terra, Fazi editore, Roma, 2009. Peter Staudenmaier, L’ideologia fascista: l’ala verde del partito nazista e i suoi antecedenti storici, AK Press, Oakland, 1995. Nicholas Stern, Un piano per salvare il pianeta, Feltrinelli editore, Milano, aprile 2009. Chicco Testa, Tornare al nucleare?, Einaudi, Torino, 2008.

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nelle opinioni pubbliche, a Washington, a Londra, a Berlino, a Bruxelles, praticamente ovunque, è probabile che all’ordine del giorno dei “lavori travolgenti”previsti dalla equipe di Obama e dalla maggioranza dell’Unione Europea, con alcune esitazioni, Repubblica Ceca, Polonia e Italia, al G8 all’Aquila e a Copenaghen a dicembre oltre ai tre pilastri scelti, energie rinnovabili; tecnologie di accumulazione; reti energetiche intelligenti – smart grid, si aggiunga, inaspettata per gli ingenui, la carta coperta della ripresa nucleare. Da parte americana, italiana, britannica, polacca, tedesca, svedese e francese, calata, sottovoce e guardando le rondini, con il pretesto di aggiornare i reattori, da Obama con l’annuncio di nuove quattro centrali, e rilanciata a Parigi da Sarkozy: «Ogni euro per le rinnovabili corrisponderà a un euro per più nucleare energetico», e ripetutamente preannunciata dal Governo di Roma. Con il controcanto, in Italia, di Chicco Testa, procellaria sintomatica che vola radente sulle onde del mare in tempesta in ogni svolta testa-coda dei settori energetici ed ecologici italiani più spregiudicati. Fin qui le novità, le nuove condizioni e gli imprevisti del dibattito. A seguire, il merito a proposito dei tre pilastri annunciati e le spese relative da parte dell’Unione Europea.

Il primo pilastro: le energie rinnovabili, solare, eolico, idroelettrico, geotermico, moto ondoso, le biomasse, sono tutte caratterizzate da una natura intermittente, sempre aleatoria, e sono oggi energie non stoccabili. Il secondo pilastro: la tecnologia di accumulazione prevede l’idrogeno come combustibile della terza rivoluzione industriale, con però la consapevolezza che si è ancora lontani dall’idrogeno commerciale, stoccabile, a disposizione per la generazione elettrica e per i trasporti. Il terzo pilastro: le reti energetiche intelligenti, le smart grid, costituite da mini reti che permettono all’utenza privata, alle piccole, medie e grandi imprese di produrre localmente energia rinnovabile con contatori intelligenti composti da sensori e microchips, un potente software che permetta a tutta la rete di poter conoscere la quantità di energia utilizzata in qualunque momento, per subentrare, sopperire, integrare la diffusione dell’elettricità. Questi pilastri hanno già raggiunto nel 2007 nell’Unione Europea una spesa record di 90miliardi di euro, che è previsto raggiunga i 250miliardi di euro entro il 2020. Mentre per la ricerca e l’economia dell’idrogeno l’Unione Europea ha già stanziato oltre 500milioni di euro per realizzare celle combustibili e uso commerciale di energia all’idrogeno.


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Comparando le previsioni di spesa che la Ue e gli Stati Uniti si preparano a esporre al G8 tra qualche giorno per tentare di far convergere decisioni finanziarie egualmente imponenti agli altri grandi attori, Cina, India, Brasile, Corea entro il 2020, per poi ribadirle solennemente nel mese di dicembre a Copenaghen alla grande Conferenza dell’Onu, misure finanziarie tutte traguardate sul 2020, troviamo l’Unione Europea con una riduzione di CO2 del 20%, gli Stati Uniti con una riduzione del 17%; per le fonti alternative l’Unione Europea con 18miliardi di euro all’anno, 25milioni di dollari gli Stati Uniti; per l’occupazione l’obiettivo entro il 2020 per l’Unione Europea è di 2milioni e mezzo di posti di lavoro, e per gli Stati Uniti di 5milioni di posti di lavoro. Per la stessa data, per la modernizzazione della rete di trasmissione elettrica, la smart grid, la rete intelligente, gli Stati Uniti hanno annunciato 32miliardi di dollari più 11miliardi per la ricerca e lo sviluppo. L’Unione Europea non ha ancora definito la busta finanziaria per la super grid, e l’abbattimento dei vecchi elettrodotti. Solo in Italia la Terna dovrebbe rimuovere 1200 chilometri dei vecchi. Nel settore delle rinnovabili sembra raggiunta tra Stati Uniti e il resto del mondo, un’intesa per una priorità per l’eolico, considerato tecnologia matura e reso competitivo con la produzione energetica da carbone, gas o petrolio, i combustibili fossili, dal prezzo politico al chilowattora, che in Italia è tre volte superiore a quello riconosciuto al chilowattore prodotto da gas, carbone o petrolio, e negli altri paesi è il doppio del chilowattore. Dunque un immenso sforzo finanziario con una energia pesantemente sovvenzionata in tutto il mondo, intermittente e in quasi tutte le realtà paesaggistiche disastrosa, Giuseppe Zollino, Convegno Il paesaggio sotto attacco. La questione eolica, Palermo 28 marzo 2009. Segue il solare, nella sua versione fotovoltaica, solare termica, solare termodinamica concentrata. Nelle rinnovabili, inoltre, saranno previste, urbi et orbi, la geotermia, le biomasse, il moto delle maree, l’idroelettrico e i termovalorizzatori. È evidente che tutta questa lunga operazione è stata preparata da una decisione ideologico politica prima. Da varie iniziative di vasta comunicazione dopo, in particolare quella visiva confezionata dal Vicepresidente americano con il suo film Una scomoda verità, forse il più potente propagandista dell’ideologia del riscaldamento climatico, poi dal Rapporto del Barone Nicholas Stern, scritto per ordine del Primo Ministro britannico Tony Blair, Un piano per salvare il pianeta, che ha prodotto un panico diffuso sui cambiamenti climatici e le loro pretese conseguenze catastrofiche sul futuro della civiltà umana. Il Rapporto Stern è in sostanza un esercizio di propaganda a sostegno della politica del Governo britannico per perse-

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Il lungo catalogo delle bugie climatiche Dalla leggenda delle fonti alternative a quella della scomparsa degli orsi polari guire un ruolo di leadership mondiale, insieme agli Stati Uniti, in merito ai cambiamenti climatici (Nessuna emergenza clima, Nigel Lawson, già Cancelliere dello Scacchiere della Thatcher, Brioschi editore, Milano 2008). Alla base di questo panico non c’è, però, la scienza, se non nella sua versione burocratica, lautamente retribuita e numerica rappresentata dalle migliaia di burocrati e accademici, duemilacinquecento, raccolti dalle Nazioni Unite, su indicazioni dei rispettivi Governi, nell’IPCC- International Panel on Climate Change. Dunque, nella sua sostanza si tratta della forzatura della scienza da parte di una ideologia illiberale e orientata all’autoritarismo (La verità scientifica non si determina tra l’altro contando le teste, James Lovelock, Prospect, dicembre 2007, London).

Non aveva torto lo scrittore Michael Crichton, parlando il 15 agosto 2003 a San Francisco al Commonwealth Club, nella sua memorabile requisitoria Environmentalism as religion, Vero scontro tra verità e propaganda. Tullio Regge conferma questa rapida deriva verso forme di misticismo in cui il simbolo conta più dei fatti: «La storia è ricca di predizioni fallaci che hanno rinfocolato fanatismi. Orde di guru, per cui la modestia non era una virtù, hanno predetto catastrofi che non si sono mai avverate», I falsi allarmismi, Piemme, Asti 2004. Ma forse la più efficace analisi e denuncia di questa manipolazione affidata alla comunicazione mediatica, tv, radio, video e giornali e riviste, l’ha sviluppata nel suo libro recente Pianeta blu non verde – Cosa è in pericolo: il clima o la libertà?, editore IBL Torino, 2009, Vaclav Klaus attuale Presidente della Repubblica Ceca, tra i maggiori economisti viventi, che ci esorta a sfidare l’impostura «che non deve rimanere senza risposta da parte dell’opinione pubblica che ragiona razionalmente».Tra le motivazioni aggiuntive segnalo anche quelle di carattere narrativo e involontariamente farsesco rap-

presentate da due cammei della propaganda catastrofista e apocalittica, «Gli orsi polari» e «Gli eschimesi». Per i primi vale il servizio che gli dedicò Time nel 2006, «Be worried. Be very worried» (Preoccupiamoci. Preoccupiamoci molto), e in copertina vi era la fotografia di un orso polare su una piccola banchisa di ghiaccio galleggiante che cercava un’altra banchisa su cui saltare, mentre nel testo si leggeva che «gli orsi bianchi polari stanno iniziando ad annegare, e a un certo punto si estingueranno». Mondadori nel 2009 ha riportato nel libro Stiamo freschi, di Bjørn Lomborg, questa asciutta dichiarazione dello scienziato, autore del grande best seller L’ambientalista scettico, sempre della Mondadori: «Per la Groenlandia, che fa parte della Danimarca, il mio paese, sono un simbolo di orgoglio, e la loro perdita sarebbe una tragedia. Ma la popolazione globale di orsi polari nell’Artico è cresciuta dai 5000 degli anni sessanta ai 25000 degli inizi di questo decennio, con le loro popolazioni in aumento». Mentre ancora più autoironica la considerazione del focus «Cambia il clima, aumentano le malattie», Corriere della Sera 15 giugno 2009, che così conclude la sua inchiesta: «Fra gli eschimesi dell’Alaska sono aumentati incidenti, cadute, fratture alle gambe, dovuti al ghiaccio troppo sottile. I ghiacciai si stanno davvero sciogliendo sotto i nostri piedi».

Tutte le energie rinnovabili sono intermittenti e sempre aleatorie. In più, oggi come oggi, non sono nemmeno stoccabili

Eppure il grande spin mediatico del global warming antropico non ha evidentemente memoria di tre precedenti analoghi, tre brevi ere di irrazionalità: la dannazione del ddt quando Rachel Carson, con Silent Spring, la primavera silenziosa, nel 1962, nel dopoguerra, ferì a morte il ddt, il pesticida che aveva estirpato la malaria, e fu bandito nel paese dove era stato inventato, prodotto e diffuso, con la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti. Il ddt fu via via eliminato in tutto il resto del mondo. Avendo il merito, per la pressione della opinione pubblica americana, è vero, di creare in conseguenza l’Epa-Environmental Protection Agency, la prima agen-

zia di protezione ambientale al mondo, riducendo, alcuni rischi ma riaprendo con il bando totale i grandi continenti dell’Asia e dell’Africa alla anofele, la zanzara portatrice delle febbri malariche. Seguito, il caso ddt, dal caso di Paul Ralph Ehrlich, con il suo libro del 1968 The Population Bomb, con cui annunciava che «negli anni Settanta e Ottanta centinaia di milioni di esseri umani moriranno di fame nonostante programmi di emergenza e di salvezza che verranno avviati da subito», così auspicando come prevenzione una severissima politica di controllo delle nascite in ogni continente. Le previsione di Paul Ehrlich si rivelarono completamente sbagliate e le sue teorie di pianificazione demografica furono travolte dalla constatazione che muovevano da modelli matematici errati. Donella Meadows, che fu una ricercatrice e produsse il modello matematico su computer “World3” per il Club di Roma guidato da Aurelio Peccei, fornì in tal modo la base conoscitiva di un altro libro celeberrimo Limits to growth – I limiti dello sviluppo, che alla luce dei decenni trascorsi risulta per lo più sbagliato nella previsione sulle quantità e sulle durate delle risorse minerarie ed energetiche del pianeta, a cominciare dal petrolio. Producendo, in tal modo, una ondata di diffusa di incredulità nei confronti di ricerche analoghe.

Dimenticando questi precedenti, che pure dovrebbero tornare alla memoria degli attuali zeloti del riscaldamento globale antropico, la maggioranza dei Governi e dei leader politici sembra decisa ad avventurarsi, costi quel che costi, e mai modo di dire fu più calzante, sulla via degli impegni a proposito di un non problema, come Fred Singer, fisico dell’atmosfera dell’Università della Virginia, così riassume: «Perché dovremmo dedicare le nostre scarse risorse a quello che in sostanza è un non problema e ignorare le problematiche reali che il mondo si trova davanti, fame, malattie, negazione dei diritti umani, per non parlare delle minacce del terrorismo e delle guerre nucleari?». A distanza di pochi giorni, quando al tavolo dei G8 si potrà misurare, insieme, la parte autentica e determinata della “rivoluzione verde”, con tutte le sue pulsioni chimeriche e le sue inaccettabili imprudenze, e la obbligatoria quota parte di “fiori per il loggione”, con le inevitabili tirate retoriche che, serviranno solo a contrabbandare una diffusa ma pudica, anzi virginale, ripresa del nucleare, sotto il pretesto del riaggiornamento degli impianti con le nuove tecnologie esistenti, le dichiarazioni ufficiali che fioccano dalle sedi delle Istituzioni europee sono a dir poco velleitarie. Nel giro di 24 ore


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il Corriere della Sera, mai come prima impegnato a tirare la volata alla causa del riscaldamento globale, il 29 giugno ha ospitato, tra altri, i seguenti propositi del Vicepresidente dei Verdi al Parlamento Europeo ClaudeTurmes, che dopo aver ascoltato i resoconti dell’approvazione alla Camera dei Rappresentanti con 7 voti di scarto della prima legge di Obama sul clima, capolavoro del nulla, tra blandi impegni di riduzione, concepita con il ricorso illusionistico del Cap and Trade, un paralizzante sistema di compensazioni in fatto di emissioni di gas a effetto serra, erede peggiorativo della fallita formula degli swaps, un baratto tra industria virtuosa e industria inquinante, prova legislativa da cui il nuovo Presidente americano è uscito barcollante, l’Onorevole Turmes così auspica il futuro «D.: Cina, India, o i Paesi africani chiederanno all’Occidente i soldi per ripulire i loro cieli. Sarà giusto darli? R.: Si. Sarà morale. È una questione etica, oltre che ecologica. Noi abbiamo delle responsabilità storiche verso quei paesi che non erano ancora industrializzati trenta o quaranta anni fa. Abbiamo accumulato Co2 nei cieli per molti decenni, prima che iniziassero loro a farlo». Fa una certa impressione, lo confesso, leggere propositi e sogni di un Parlamentare europeo appena eletto che ricordano i libri di Henry Michaux, Un barbaro in Asia, per esempio, scritto sotto mescalina, il più potente degli allucinogeni naturali. E il giorno dopo, 30 giugno, a parlare è il Ministro dell’Ambiente della Svezia Andreas Carlgren, che nella presidenza dell’Unione assunta nelle stesse ore si propone di ottenere l’estensione della Carbon Tax, oggi adottata in Danimarca, Finlandia e Slovenia, a tutti i paesi dell’Unione, possibilmente suggerendola al resto della Comunità internazionale, e preannunciando per il proprio paese un taglio del 40% delle emissioni di gas a effetto serra. Omette però di dire al giornale italiano, il Ministro svedese Carlgren, che alla produzione di energia elettrica nella Svezia, paese di otto milioni di abitanti con una superficie di 150.000 Km\\u00B2 superiore a quella italiana, la rinnovabile tradizionale idroelettrica concorre a fornire il 60% del fabbisogno elettrico. Buona parte del rimanente è coperto dal nucleare prodotto da dieci centrali atomiche che, con decisione dell’attuale Governo di Stoccolma, nel marzo di quest’anno, sono state confermate e in parte già riaggiornate, con buona pace del Referendum popolare del 1980 che ne prevedeva la graduale chiusura con termine al 2010.

Mi limito a esprimere un pio desiderio: si inizi al G8, e si passi poi alla Conferenza Onu di dicembre, a discutere di tutte le questioni della mutazione climatica senza l’obbligo di sottostare ai dettami della correttezza politica di chi coltiva la pretesa di cambiare il clima ripristinando quello d’antan.

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Oggi sarà diffuso il testo sull’economia del pontefice: il summit dovrà tenerne conto

Il «nuovo codice etico» è l’enciclica del Papa di Luigi Accattoli enciclica del Papa che viene pubblicata oggi e il G8 dell’Aquila che apre domani hanno in comune un obiettivo importante per il futuro dell’umanità: convincere il mondo della necessità di un “codice etico comune”(parole di Benedetto XVI) e di nuovi “Global Legal Standard” (criteri legali universali: linguaggio degli otto grandi) che recuperino alle regole della responsabilità morale l’agire economico. Raramente – o forse mai – un intervento di dottrina sociale della Chiesa era venuto a cadere in un contesto così mosso. I Papi hanno sempre cercato di parlare con l’occhio ai tempi lunghi delle vicende economiche e politiche, evitando per quanto possibile di legare il proprio magistero a una situazione in movimento.Va dunque rimarcata l’audacia di Benedetto XVI che lungo l’ultimo anno ha voluto riscrivere la sua enciclica – già pronta in una prima stesura l’estate scorsa – proprio perché potesse rispondere alle questioni poste dalla crisi mondiale.

L’

Abbiamo avuto in sostanza la stessa decisione coraggiosa posta in atto il febbraio scorso con la conferma del viaggio in Terra Santa all’indomani del conflitto di Gaza: dove la diplomazia vaticana suggeriva di rinviare, stante la mancanza di una pur minima prospettiva di pace, il Papa teologo aveva voluto rischiare il proprio prestigio proprio per aiutare – per quanto poteva – al recupero di quella prospettiva. A chi ultimamente gli faceva presente il rischio di parlare di una crisi in piena fase eruttiva con un documento duraturo – quale vorrebbe essere un enciclica – egli ha dato la stessa risposta con cui a suo tempo aveva controbattuto agli inviti alla prudenza riguardanti il Medio Oriente: che occorre parlare quando una parola è necessaria. In ordine alla crisi sono tre le idee guida dell’enciclica. La più importante sollecita “urgenti riforme” che permettano alla comunità mondiale di «affrontare con coraggio e senza indugio i grandi problemi dell’ingiustizia nello sviluppo dei popoli»: quei problemi sono stati aggravati dalla crisi e da essa non si uscirà senza porre mano a essi. La seconda afferma – come dicevamo in apertura – la necessità di un “codice etico comune”fondato «sulla verità

della fede e della ragione» e dunque accessibile a tutti e da tutti condivisibile. La terza chiede che si ponga in essere «una vera autorità politica mondiale» in grado di guidare la famiglia dei popoli verso quelle riforme e capace di conferire autorità a quel codice etico, evitando che esso sia neutralizzato dallo scatenamento degli egoismi. La creazione di un’autorità politica mondiale era stata proposta quasi cinquant’anni addietro da Giovanni XXIII con l’enciclica Pacem in terris (1963). Le anticipazioni del testo che leggeremo oggi dicono che in esso viene prospettata la progressiva realizzazione di un’autorità in grado di governare la globalizzazione del pianeta. Un’autorità molto superiore a quella di cui dispone attualmente l’Onu e che sia regolata «dal diritto» e strutturata in maniera da «attenersi coerentemente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà», ordinata alla «realizzazione del bene comune» dell’intera famiglia umana.

Qualche elemento chiave di quell’idea il Papa l’ha anticipato nella lettera di sabato al premier italiano Berlusconi, al quale si è rivolto in quanto primo responsabile della conduzione dei lavori del G8 dell’Aquila. Vi era detto che l’allargamento già sperimentato del G8 verso il G20 «costituisce senz’altro un importante e significativo progresso», ma esso non basta perché si tratta di «prendere in considerazione tutte le istanze e non solo quelle dei paesi più importanti». A tal fine – scriveva Papa Benedetto al nostro Presidente del Consiglio – è necessario trovare «modi efficaci per collegare le decisioni dei vari raggruppamenti dei paesi, compreso il G8, all’Assemblea delle Nazioni Unite». Il Papa sa bene che le Nazioni Unite sono deboli e spesso inefficaci, ma esse hanno ai suoi occhi il pregio di costituire l’unico consesso mondiale dove «ogni nazione, quale che sia il suo peso politico ed economico, può legittimamente esprimersi in una situazione di uguaglianza con le altre». Parlando all’assemblea dell’Onu poco più di un anno addietro – il 18 aprile 2008 – Benedetto aveva segnalato «l’evidente paradosso» di una concertazione mondiale «subordinata alle decisioni di pochi» mentre i problemi del mondo esigono «interventi sotto forma di azione comune». Questa denuncia la ritroveremo nell’enciclica che leggeremo oggi a mezzogiorno. www.luigiaccattoli.it

L’idea guida di Ratzinger è che il mondo deve «affrontare con coraggio i grandi problemi dell’ingiustizia nello sviluppo dei popoli»


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Accordi. Il presidente Usa accolto tra sorrisi e critiche. Così scopre la doppia faccia del potere che governa il Cremlino

Le due Russie di Barack

Con Medvedev una storica intesa sulla riduzione degli arsenali Ma Putin frena gli entusiasmi e rilancia sullo scudo antimissile di Enrico Singer sorrisi e le strette di mano con Dmitri Medvedev al Cremlino e poi, a cena, nella residenza privata del presidente russo. Gli attacchi sulla Pravda e il basso profilo della liturgia nelle strade dove nemmeno una bandiera americana è stata esposta. E questa mattina l’incontro – volutamente separato – con Vladimir Putin che della Russia si considera ancora, e a ragione, il vero zar. Nella sua prima visita a Mosca, Barack Obama ha potuto immediatamente vedere i due volti dell’altra grande potenza con la quale vuole aprire una nuova era. Certo, l’intesa politica raggiunta sul trattato, che alla fine dell’anno, sostituirà il vecchio Start e ridurrà gli arsenali nucleari dei due Paesi che, da soli, detengono il 96 per cento delle testate atomiche esistenti al mondo è un successo e un buon punto di partenza per quel reset delle relazioni tra Usa e Russia auspicato da Obama. Ma attenzione a trascurare le ombre. Anche perché l’accordo sul nuovo Start era quasi inevitabile e, soprattutto, era già scritto da mesi a livello tecnico nelle sue linee generali, mentre le divergenze che rimangono sul tavolo a proposito del sistema di sicurezza anti-missile in Europa ed anche quelle sui maggiori capitoli di crisi - dall’Iran al Medioriente al gas - sono tutte da risolvere.

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Ma l’incognita maggiore è rappresentata proprio dalle due Russie che si sono presentate a Obama. Da quando, il 7 maggio del 2008, Dmitri Medvedev (che era stato eletto due mesi prima) ha assunto formalmente la carica di presidente della Federazione russa e Vladimir Putin si è trincerato nel ruolo di primo ministro, è comincito un gioco di potere che, in Occidente almeno, è letto in due modi diversi. C’è chi è convinto che Medvedev sia un semplice clone di Putin disposto a seguirne disciplinatamente gli ordini e pronto a farsi da parte quando sarà il momento perché al Cremlino esiste, adesso come prima, un solo padrone. E c’è chi scommette che il patto di ferro tra i due si è già incrinato perché il tecnocrate Medvedev rappresenta l’ala modernista e democratica, mentre Putin - per usare le parole di Obama che tanto lo hanno irritato «ha un piede nel passato e una mentalità in parte ancora da guerra fredda». Che Il profilo dei due leader del-

Ecco i punti caldi della trattativa sulla limitazione delle testate nucleari

Tra Start e Sort, alla fiera delle armi atomiche e del loro smantellamento di Pierre Chiartano tart è l’acronimo di Strategic arms reduction treaty, cioé trattato per la riduzione delle armi strategiche. In soldoni, le armi nucleari. È figlio dei famosi accordi Salt degli anni Settanta, sempre sulla limitazione degli arsenali nucleari tra Washington e Mosca. Il trattato Start I fu firmato tra gli Stati Uniti e l’Urss, in epoca di guerre fredda. Furono Mikhail Gorbachev e Bush padre a negoziare l’intesa negli anni Ottanta. Poi nel 1991 ci fu la firma e nel 1994 l’entrata in vigore. Il Trattato proibiva ai suoi firmatari di produrre più di 6mila testate nucleari e massimo 1600 Icbm, missili balistici lanciati da sottomarini e bombardieri. Lo Start è stato il più vasto e il più complesso trattato di controllo sulle armi atomiche, e, con la sua revisione finale alla fine del 2001, ha previsto l’eliminazione dell’80 per cento delle armi nucleari negli arsenali. La natura dell’accordo è molto significativa perché

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prevede dei controlli che i tecnici definiscono di tipo «intrusivo». Si autorizzano i verificatori all’accesso a siti supersegreti, altrimenti inviolabili. Lo Start I di cui hanno parlato Obama e Medvedev scadrà a fine anno. In passato si era cercato di superare la logica degli Start – esiste anche uno Start II mai ratificato – con il trattato Sort (Strategic offensive reduction treaty), siglato dai presidenti George W. Bush e Vladimir Putin il 24 maggio 2002, col quale le parti abbandonavano la logica dei trattati precedenti - con le loro accu-

rate limitazioni al numero di armi specifiche - e impegnavano invece entrambi i contraenti ad una riduzione unilaterale, indipendente del numero totale delle testate. Si potrebbe definire un trattato in versione ridotta e meno ambizioso, proprio perché non prevedeva controlli e limitazioni. È in vigore dal 2003 e dovrebbe scadere nel dicembre 2012, viene comunemente definito il Trattatato di Mosca. Si può annullare con un preavviso di soli tre mesi e non ha alcuna precondizione legata ai risultati raggiunti. C’è chi vede nell’eliminazione del complesso sistema di verifiche un problema di risorse che sia l’intelligence americana che quella russa – in condizioni piuttosto deteriorate – dovrebbero dirottare da altre attività per garantire i controlli su di un trattato tipo Start I. Il modello di cui hanno discusso e discuteranno Obama e Medvedev potrebbe essere un ibrido tra questi due concetti. Mosca è interessata a un accordo con normative più stringenti, Washington prima dell’avvento della nuova amministrazione era orientata verso un patto meno vincolante. Durante il summit di Londra di marzo di quest’anno, Obama e Medvedev avevano tracciato le linee per arrivare a un risultato in tempi rapidi, sfociato poi in una dichiarazione ufficiale. Non si dovesse arrivare a una rapida sostituzione dello Start I, rimarrebbe in vigore il meno vincolante Sort. La Casa Bianca vorrebbe ridurre ancora il numero delle testate nucleari e dei vettori rispetto ai vecchi limiti. Uno degli ostacoli sulla via dell’accordo è l’ormai famoso scudo anti-missile americano, dislocato su alcuni dei Paesi una volta appartenenti al Patto di Varsavia. Anche se tecnicamente non potrebbe rientrare nei protocolli degli accordi. Proprio la Polonia è stata la prima a consentire il dispiegamento sul proprio territorio di parte dei sistemi del dispositivo difensivo. Facciamo notare come spesso si giochi sul numero delle testate – che possono essere ammassate nei depositi – e quelle montate su vettori – cioè di ordigni nucleari pronti a un utilizzo offensivo – e spesso ci si possa confondere.

la Russia di oggi sia questo è indubbiamente vero. Che siano in concorrenza reale, e non soltanto in artificiale contrapposizione, è tutto da dimostrare. Che, addirittura, Medvedev abbia l’intenzione e, soprattutto, la forza di liberarsi di Putin è ipotesi molto azzardata.

Gli sgarbi a Obama lo provano. Putin si è guardato bene, ieri, di accogliere il presidente americano assieme a Medvedv al Cremlino perché si sarebbe dovuto accontentare di interpretare la parte del gregario. Così ha fissato con Barack Obama un incontro a due per oggi, sempre al Cremlino (dove ha da tempo spostato il suo ufficio di capo del governo), e ha affidato a un’intervista in tv la sua replica alle critiche di Obama. Un piede nel passato? «Essere ben fermi sulle gambe è quello che ha consentito alla Russia di andare avanti e di diventare più forte. E questo continuerà», ha detto Putin. L’accordo sul nuovo Start un passo avanti? «Se gli americani rinunciassero a dispiegare i loro missili in Europa o rivedessero il loro atteggiamento sull’allargamento della Nato e non ragionassero più in termini di blocchi, allora sì che si potrebbe parlare di passi avanti». Il ridimensionamento preventivo dei risultati della visita di Obama a Mosca è evidente. E non è nemmeno un caso che, nel giorno dell’arrivo del presidente americano, la Pravda abbia pubblicato un articolo in cui Barack Obama è paragonato a un baro, a un bugiardo imbroglione che si presenta come il costrutture di una nuova stagione di dialogo mentre in realtà «vuole semplicemente portare la Russia più vicina all’Occidente» e che lo stesso giornale abbia dato spazio all’opinione dell’ex ministro della Difesa, Igor Rodionov, che dice di «non aspettarsi nulla di positivo dalla visita di Obama». Toni duri che evocano davvero i tempi della guerra fredda e che sono rivolti al capo della Casa Bianca per fargli capire che se crede di trattate con la Russia puntando soltanto su Medvedev si sbaglia. Ma che sono rivolti anche al fronte interno: all’opinione pubblica russa per ribadire che non ci sono divisioni al vertice. Il tandem Medvedev-Putin ha le sue regole. Al giovane presidente aperturista tocca il compito di sbilanciarsi, al più maturo uomo forte del Cremlino quello di dire l’ultima parola. Così se il giudizio finale coincide, il merito del successo è condiviso, altrimenti è Medvedev che deve


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Proposta americana sulla sicurezza nucleare nel mondo

«Adesso organizziamo un vertice insieme» di Antonio Picasso a visita di Obama in Russia è iniziata nel rispetto più rigoroso del protocollo russo. Arrivato all’aeroporto di Mosca, il presidente Usa è stato accolto da un clima autunnale. “Il tempo favorisce il nostro lavoro”, ha ironizzato Medvedev, facendo riferimento al grigiore del cielo. Utile, a suo dire, per mantenere i leader chiusi nelle stanze del potere a negoziare. Il summit, di cui oggi si svolgerà la seconda parte, ha come obiettivo rivitalizzare i rapporti tra Russia e Stati Uniti, dopo le tensioni accumulate negli ultimi mesi dell’Amministrazione Bush. Ed effettivamente, dopo l’omaggio che Obama e sua moglie hanno reso alla tomba del milite ignoto sovietico, la giornata di ieri si è concentrata tutta sulla riapertura delle trattative affinché le due massime potenze nucleari del mondo trovino un nuovo compromesso in materia di disarmo. Infatti, al di là delle questioni sostanzialmente contingenti – Afghanistan e Iran – legate alle criticità di area, Mosca e Washington stanno attraversando una fase di evidente distensione. Lo si è visto ancora all’inizio di aprile, quando, in occasione del G20 di Londra, Medvedev e Obama hanno allacciato un rapporto paritario ed esplicitamente confidenziale. Le strette di mano calorose e i sorrisi hanno fatto da coreografica positiva anche al summit del Cremlino. In questa cornice di giovialità – ricordiamoci che i due leader si danno del tu – i presidenti di Russia e Usa sono tornati a confrontarsi su materie di rilevanza globale, in primis il disarmo nucleare, sul quale è stata raggiunta un’intesa politica e il presidente americano ha proposto a quello russo di organizzare insieme, a Mosca il prossimo anno, un vertice globale a cui invitare «tutti i Paesi interessati», formula che potrebbe includere anche l’Iran, se le condizioni internazionali lo consentiranno.

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per Mosca e 3.500 per Washington. Otto anni dopo, Putin e Bush junior si impegnarono a conservare, nell’arco di un decennio, un numero di testate oscillante tra le 1.700 e le 2.200. Tuttavia, sempre nel 2002, gli Usa decisero di dar corso allo “scudo spaziale”. Per la sua realizzazione – in termini di diritto internazionale – era necessario che Washington denunciasse il Trattato di missili anti-balistici. La decisione presa da Bush portò all’immediato ritiro di Mosca dagli accordi sullo smantellamento delle testate.

Prima della visita di Obama a Mosca, quindi eravamo in una fase di stallo. Oggi siamo passati alle buone intenzioni. Le stime più recenti, infatti, attribuiscono quasi 15mila testate alla Russia e circa 10mila agli Stati Uniti. Secondo le cifre rese note da Mosca, la riduzione stabilita ieri per il follow up dello Start comporterebbe un taglio degli arsenali di un terzo. In questo senso la Casa Bianca ha spiegato che si tratta di un accordo che pone le basi per uno “Start 3”, da firmare nei prossimi mesi. Questa nuova pagina di relazioni bilaterali era stata preparata già con il vertice di Ginevra, quando i responsabili della diplomazia di Usa e Russia, Hillary Clinton e Serghei Lavrov, avevano rilasciato una dichiarazione in cui si leggeva dell’impegno comune per concludere un nuovo trattato entro la fine dell’anno. L’incontro di quattro mesi fa era stato salutato come l’inizio del disgelo, dopo le tensioni scaturite dalla crisi del Caucaso dell’estate 2008. Adesso non resta che attendere le mosse concrete. In questo senso, spetta agli Stati Uniti il calcio d’inizio. Perché Obama, in merito allo scudo spaziale di Bush, si è limitato a porre un blocco. I russi, per non si sentono soddisfatti. «Per noi il problema resta aperto», si legge nella nota finale del Cremlino. E non nascondono che la richiesta di una netta rinuncia al progetto da parte Usa. Scherzi del destino. Nel giorno in cui scompare Robert McNamara, Segretario alla difesa Usa nei giorni della crisi di Cuba nel 1962, Russia e Stati Uniti tornano a confrontarsi come ai tempi di distensione durante la guerra fredda. I loro leader parlano dei più vasti temi dell’umanità in summit bilaterali, riferendo ai loro alleati le decisioni assunte in un secondo momento. La pratica della “trattativa in formato ristretto” forse stride con il contesto di globalizzazione e non più di confronto bilaterale in cui viviamo. Tuttavia sembra piacere sia a Medvedev sia a Obama. E a Putin?

A livello bilaterale intesa per ridurre le testate atomiche di un terzo. Entro dicembre dovrebbe essere firmato l’accordo che sostituirà lo Start-2

Il vero padrone del Cremlino ridimensiona: «Si potrebbe parlare di passo avanti soltanto se gli Usa non ragionassero più in termini di blocchi» assumersi la responsabilità di un errore e Putin avrà sempre ragione. Per questo, pur tra i sorrisi e la soddisfazione per l’intesa che è stata raggiunta sul futuro accordo Start e sull’accordo per far transitare dalla Russia e dal suo spazio aereo il materiale e i rinforzi americani destinati all’Afghanistan, Dmitri Medvedev ha ricordato ieri a Obama che ci sono anche i punti di dissenso. A partire dall’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato e dalla questione dello scudo antimissile in Europa che Mosca continua a considerare due minacce incompatibili con il nuovo clima di fiducia che il presidente americano vuole costruire. Di sicuro, oggi, Putin lo dirà a Obama con meno diplomazia e con un obiettivo molto preciso. Dimostrare che, in fondo, il tandem funziona e che è rischioso per l’Occidente cercare di dividerlo. Perché l’obiettivo della leadership di Mosca è unico: far recuperare alla Russia tutto il peso internazionale che aveva ai tempi dell’Urss. Del resto è Putin ad avere detto che il crollo dell’Unione sovietica è stata «la peggiore catastrofe del ’900».

Sul disarmo nucleare sembra che le ombre dell’era Bush si stiano lentamente diradando. Usa e Russia hanno ripreso in mano le bozze dell’accordo per un’ulteriore riduzione delle testate nucleari e sono arrivati a un’intesa che Obama ha definito «un importante passo verso la sicurezza e contro la proliferazione nucleare». La scadenza dell’accordo precedente è fissata il 5 dicembre di quest’anno. Lo “Start 2”, Strategic Arms Reduction Treaty, risale al 1993 ed è in fieri. Allora i presidenti di Russia e Stati Uniti, Boris Yetsin e George Bush senior, stabilirono la riduzione degli arsenali nucleari dei due Paesi, rispettivamente a 3.000


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Repressione. I manifestanti chiedono maggiore autonomia a un governo che non ha mai ceduto di un passo sulla questione

Il sangue di Urumqi

Almeno 140 morti e circa 900 feriti nella capitale del Xinjiang Napolitano a Hu: «Sempre più centrale il tema dei diritti umani» di Vincenzo Faccioli Pintozzi na nuova, pesantissima prova di forza. Per dimostrare al mondo, e soprattutto ai propri cittadini, che non saranno tollerati disordini sociali di alcun tipo. È questa, fatti i dovuti conti, la lezione che Pechino ha voluto impartire reprimendo nel sangue - per l’ennesima volta - una protesta all’interno dei suoi confini. Questa volta il teatro è il Xinjiang, provincia settentrionale abitata dall’etnia uighura, ma avrebbe potuto essere il Tibet o il Gansu. I numeri, persino quelli ufficiali, sono impressionanti: 140 vittime accertate e ammesse dal governo (cosa che fa pensare a una realtà ben peggiore) e migliaia di arresti; 800 feriti e la solita censura a tenaglia che rende impossibile collegartsi con la zona interessata. Il vero fulcro di tutta la protesta sarebbe una disputa nata a Hong Kong: alcuni uighuri vengono accusati il 25 giugno di aver violentato una compagna di lavoro in una ditta locale. Nella notte, un grup-

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unica eredità “sovietica” che il Partito comunista cinese non ha mai tradito riguarda la scala di potere, che si snoda su un binario verticistico. È impensabile che il massacro di Urumqi sia avvenuto senza il placet del presidente Hu Jintao, in questi giorni in Italia per una visita di Stato pre-G8. Nato a Jangyan il 2 dicembre 1942, è il quarto presidente della Cina e il leader della cosiddetta “Quinta generazione”, quella in teoria riformista. Prima di lui – in quella che i cinesi meno ortodossi chiamano la “dinastia dei rossi” per contrapporla alle antiche famiglie imperiali – hanno retto il Paese Mao Zedong, Deng Xiaoping e Jiang Zemin. Sostenuto sia da Liu Qiaoshi che da Hu Yaobang, appena quarantaduenne viene nominato Segretario del partito della provincia di Guizhou. Carica che ricopre fino al 1988, quando viene mandato a ricoprire la stessa carica nella sede più prestigiosa del Tibet, in cui dall’anno precedente sono iniziate delle manifestazioni indipendentiste.

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po di operai di etnia han (maggioritaria in Cina) entra nei dormitori e picchia a sangue i presunti colpevoli, poi scagionati dalla polizia.

Quando la notizia arriva a Urumqi, scatta una manifestazione di protesta che sfocia nel sangue. Secondo l’agenzia ufficiale Xinhua, il bilancio delle vittime potrebbe aumentare: «La conta delle vittime degli scontri del Xinjiang potrebbe salire». Le autorità locali hanno fatto sapere di aver arrestato «diverse centinaia di uighuri per il loro coinvolgimento negli scontri». Drammatiche immagini trasmesse dall’emittente Cctv, la televisione di Stato, hanno mostrato macchine in fiamme, negozi assaltati e cariche delle forze dell’ordine contro i manifestanti. Il governo regionale del Xinjiang ha puntato il dito contro Rebiya Kadeer, leader uighura in esilio negli Stati Uniti, accusata di aver orchestrato e istigato le proteste. Secon-

do le prime indagini, ha fatto sapere il governo in una nota, «le violenze sono state organizzate dal gruppo separatista World Uighur Congress guidato da Rebiya Kadeer». L’attivista, accusata da tempo di attività insurrezionali, aveva detto alcune settimane fa a liberal: «Questa accuse sono menzogne, nient’altro che menzogne. Accuse false, che vengono mosse dal governo cinese con il solo scopo di cancellarci. Pechino, con il suo atteggiamento, prende in giro i suoi cittadini di etnia uighura e quelli di etnia han. Ci danno sulla carta dei diritti che non abbiamo modo di esercitare, oltre al fatto che ci impediscono con la storia del terrorismo di coltivare la nostra lingua e le nostre tradizioni. Non abbiamo neanche la libertà di sviluppare un’economia autonomia. Non subiamo altro che repressione». E il presidente italiano Giorgio Napolitano, ricevendo il suo omologo cinese, avverte: «Lo sviluppo economico pone nuove esigen-

Il presidente cinese si è fatto le ossa con il massacro del 1989

L’ultimo imperatore di Massimo Fazzi Da subito impone nella regione un pugno di ferro in quella zona, seguendo le indicazioni del governo centrale che chiedeva di stroncare ogni protesta; il 5 e 6 marzo 1989 la polizia apre il fuoco sui dimostranti tibetani e, dal 7 marzo, viene istituita la legge marziale. Si tratta delle prove generali di quello che succederà pochi mesi dopo nella piazza centrale di Pechino, la Tiananmen. Da parte della leadership cinese e di Deng Xiaoping in persona viene molto apprezzata la decisione di Hu d’inviare da

Lhasa un telegramma al Comitato Centrale del Partito, in cui esprime il suo incondizionato appoggio all’intervento armato contro i manifestanti di piazza. Nel 1992 viene richiamato a Pechino da Deng, che lo nomina membro del Politburo, il massimo organo decisionale cinese. Il 15 marzo 2003 succede a Jiang Zemin come Presidente della Repubblica Popolare Cinese nel corso del sedicesimo Congresso nazionale del Partito comunista. Molti osservatori internazionali parlano di Hu come di un

ze in tema di diritti». Il Xinjiang è una vasta regione montuosa e desertica della Cina nord occidentale: la maggioranza della popolazione è uighura, etnia musulmana e turcofona. Distante circa tremila chilometri da Pechino, sull’ex Via della Seta, la regione ha una vastità di 1,66 milioni di chilometri quadrati.

In totale conta circa venti milioni di abitanti - nove sono uiguri - che appartengono a 47 etnie: gli han sono passati dal 6 al 40 per cento della popolazione con la politica di sviluppo e di sinizzazione di Pechino lanciata negli anni Novanta. La regione confina con l’Afghanistan e le ex repubbliche musulmane dell’Urss: Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan. Arida e povera, la regione possiede nel bacino del Tarim la principale riserva di idrocarburi del Paese. Annessa all’impero cinese nel 1884, questa regione oggi è oggi sulla carta autonoma: in realtà, si trova sotto il dopolitico molto più liberale dei suoi predecessori. La decisione di nominare come suo primo ministro Wen Jiabao - che nel 1989 era a Tiananmen insieme al suo mentore dell’epoca, Zhao Zhiyang - gli ha procurato in un primo tempo la fama di un politico che cerca di ricucire con gli strappi del passato.

Ha introdotto molte novità nella politica interna, mirando a eliminare (almeno in parte) gli enormi privilegi della classe dirigente cinese. Ha lanciato, nel più puro stile cinese, diverse campagne contro la corruzione, tanto che oramai si dice che essa «sopravvive a stento». Purtroppo, sembra sordo alle questioni internazionali e a quelle relative ai diritti umani nella Cina contemporanea. Con la dichiarazione del 17 maggio ha espresso chiaramente la sua volontà di non rinunciare all’obiettivo di considerare l’unificazione della Cina con Taiwan come uno dei più importanti del suo mandato, a costo di utilizzare anche la forza se l’isola si dichiarasse indipen-


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minio di fatto del governo centrale. Una parte della provincia ha conosciuto un breve periodo di autonomia, con il nome di Turkestan orientale, fra il 1930 e il 1949. I disordini pro-indipendenza si sono intensificati nel 1990, dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan e l’indipendenza delle tre ex repubbliche musulmane sovietiche. Nell’aprile 1990 dei moti presso Kashgar – il gran bazar della Via della Seta - causarono almeno sessanta vittime. Dagli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, Pechino ha rafforzato la repressione in nome della lotta al terrorismo, dipingendo gli uighuti come «i qaedisti di Cina». Grazie al sostegno americano, ha ottenuto che un gruppo uiguro - il Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim) - fosse inserito dall’Onu sulla lista delle organizzazioni terroriste legate alla rete di Osama bin Laden. Secondo Pechino, la regione è sotto la costante minaccia di terroristi che «agiscono a distanza e dall’estero tramite internet». Nel 2008 circa 1.300 persone, accusate di attentare alla sicurezza dello Stato cinese, sono state arrestate nello Xinjiang, secondo la stampa di Stato.

Questo non ha impedito diversi attentati nella regione: il più sanguinoso, un attacco contro un commissariato di polizia di Kashgar, provocò 17 morti e 15 feriti il 4 agosto, quattro giorni prima dell’apertura dei Giochi Olimpici. Il governo centrale non demorde, tuttavia, e continua la sua campagna di demonizzazione degli uighuri, cui non intende concedere niente. Anche se le loro richieste si limitano a un’autonomia culturale. Meglio continuare con i soldati. dente. Ai leader stranieri che, in visita ufficiale, gli parlano di diritti umani risponde con un sorriso quasi sincero: certo, dice ogni volta, «quello è un grave problema per tutti, ma bisogna come prima cosa assicurarsi della stabilità interna». Già, perché il motivo dominante della carriera di Hu Jintao riguarda l’armonia: lo sviluppo deve essere armonico, le proteste devono essere armoniche, l’inquinamento va combattuto perché rovina l’armonia.

Quanto contano le richieste di qualche migliaio di persone, o persino di qualche milione, quando si turba l’armonia del dragone asiatico? Assolutamente nulla. E l’ultimo dei suoi imperatori, l’uomo chiamato ancora per qualche anno a traghettare il Celeste impero nella sua nuova veste di dominatore mondiale, lo sa bene. Non cederà, non importa chi abbia davanti. Il suo messaggio è questo: nessuno turbi la nostra armonia, costi quel che costi. Da ieri lo sanno anche gli uighuri di Urumqi.

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L’Italia ha mosso un monito alla Cina, garantendo nel contempo “rispetto territoriale”

Uighuri e tibetani: diritti “rinnegati” di Pechino di Bernardo Cervellera ell’incontrare il suo omologo cinese Hu Jintao, il presidente italiano Giorgio Napolitano ha accennato alla questione dei diritti umani. Entrambi i capi di Stato hanno concordato che «lo stesso sviluppo economico in Cina apre nuove prospettive e pone nuove esigenze nel campo dei diritti dell’uomo». Quanto detto da Napolitano si trova tale e quale in Carta 08, il documento stilato e sottoscritto da intellettuali, accademici, attivisti e membri del Partito comunista cinese che chiede - in modo non violento - riforme democratiche nel Paese per fermare violenze e ingiustizie provocate dai successi dello sviluppo economico cinese senza alcun rispetto per la dignità dell’uomo. «I folli risultati - si legge in Carta 08 - sono una endemica corruzione dei quadri, un minare lo Stato di diritto, mancanza di tutela dei diritti della popolazione, perdita di etica, capitalismo grossolano, polarizzazione della società fra ricchi e poveri, sfruttamento e abuso dell’ambiente naturale, dell’ambiente umano e storico, un acutizzarsi di una lunga lista di conflitti sociali, in particolare un indurimento dell’animosità fra rappresentanti ufficiali e gente ordinaria». Carta 08 dice anche che «conflitti e crisi crescono di intensità giorno per giorno». Quasi a conferma, due giorni fa sono avvenuti a Urumqi sanguinosi scontri fra la popolazione locale e la polizia. Sebbene la Cina continui ad accusare gruppi di uiguri all’estero, tutti sanno che il problema è interno e dura da decenni. Con la scusa di “combattere il terrorismo islamico”Pechino sta colonizzando la regione e opprime con leggi d’emergenza la popolazione e la sua religiosità. Gli imam uiguri devono presentare al governo ogni venerdì il testo dei loro sermoni; è proibita l’educazione religiosa dei giovani fino ai 18 anni; scuole islamiche e moschee sono distrutte (a favore dello “sviluppo economico”); ragazzi nelle scuole sono obbligati dagli insegnanti a mangiare durante il Ramadan. L’emarginazione sociale e politica a cui sono sottomessi gli uiguri nella loro terra è pari solo alla stessa emarginazione e accuse subite dai tibetani nel Qinghai o nella regione “autonoma”del Tibet. Anzi, si può dire che lo schema di questi giorni ricalca da vicino i fatti e le teorie sulla rivolta tibetana prima delle Olimpiadi. Anche nel marzo 2008 una manifestazione pacifica si è

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trasformata in uno scontro violento con l’esercito che ha fatto decine di morti, a cui sono seguiti migliaia di arresti e legge marziale. La violenza verso le minoranze uiguri e tibetane non è diversa da quella subita da altri gruppi.

Attivisti per i diritti umani; avvocati che difendono i poveri contro le ruberie dei membri del Partito; contadini che dimostrano per l’esproprio di terre o case trovano la stessa risposta del governo: il soffocamento e la repressione. Anche comunità religiose che non hanno - come gli uiguri e i tibetani - delle rivendicazioni territoriali subiscono le stesse violenze alla loro dignità e libertà. Da almeno 2 anni è in atto una campagna per eliminare tutte le comunità protestanti sotterranee e le cosiddette chiese domestiche, distruggendo chiese, arrestando i pastori, bastonando i fedeli, proibendo la diffusione di bibbie. La comunità cattolica non sta meglio. I vescovi ufficiali - circa 70, riconosciuti da Pechino - sono ormai sotto un controllo ferreo perché segretamente riconciliati col papa. I vescovi sotterranei - non riconosciuti - sono tutti (circa 40) agli arresti domiciliari. Vale la pena ricordare che alcuni di loro sono scomparsi da tempo: mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 75 anni, arrestato e scomparso dal 1996; mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 86 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001; mons. Giulio Jia Zhiguo, scomparso per l’ennesima volta il 30 marzo scorso. Se a uiguri, tibetani, attivisti democratici, protestanti, cattolici, aggiungiamo gli scontenti della crisi economica, i disoccupati e i migranti, è evidente che la Cina è seduta su una polveriera che può scoppiare da un momento all’altro e anzi sta provocando continue rivolte e scontri con esercito e polizia. Un’implosione della Cina porterebbe sconquassi e problemi in tutto il mondo. Mai è stato più evidente il nesso fra diritti umani e la pace affermato da Benedetto XVI ( Messaggio all’Unesco 2005) e da Giovanni Paolo II (v. Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 1999). Non rispettando i diritti umani, la Cina rende il mondo più vicino alla guerra. Il comunicato del Quirinale si è affrettato a dire che ogni azione dell’Italia verso Pechino sui diritti umani avverrà comunque «nel massimo rispetto delle ragioni cinesi e dell’autonomia delle istituzioni» del Paese asiatico. Forse è un po’ troppo poco.

La Cina è seduta su una polveriera che può scoppiare da un momento all’altro. Un’implosione porterebbe sconquassi e problemi in tutto il mondo


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Quando i summit facevano la Storia. Monaco, Yalta, Vienna, Mosca, Camp David, Gin

Com’era diverso in

di Maurizio nventati nel XIX secolo, i vertici tra statisti sono stati al cuore della politica internazionale nel XX, ma col XXI si sono ormai banalizzati. È questa la conclusione che l’inglese David Reynolds, docente di Storia Internazionale a Cambridge nonché visiting professor ad Harvard e alla Nihon University di Tokyo, trae nel libro Summit. I sei incontri che hanno segnato il Ventesimo secolo (Corbaccio): un malloppo da 574 pagine, ma perfettamente godibili, anche grazie al modo in cui la narrazione va avanti con piglio televisivo o cinematografico. Il materiale, d’altronde, era stato originariamente raccolto per una serie divulgativa della Bbc. Spiega Reynolds, «le origini della diplomazia vengono fatte risalire perlomeno all’età del bronzo nel Vicino Orienteı. Raccolte di documenti dal regno babilonese sull’Eufrate della metà del XVIII secolo a.C. E dall’Egitto del faraone Akhenaton quattro secoli dopo rivelano uno scambio regolare di inviati diplomatici con gli Stati vicini. Ma i leader non si incontravano direttamente tra di

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loro. Primo, perché con lo stato delle comunicazioni del passato ogni viaggio comportava pericoli gravissimi. Secondo, perché un sovrano che si recasse nel territorio sotto controllo di un altro sovrano si esponeva al suo arbitrio. A meno dunque che non lo facesse da conquistatore, finiva in qualche modo per riconoscersi suo vassallo.

È quanto spiega nel 1490 il cronista e diplomatico francese Philippe de Commines, con una frase riportata in apertura al volume: «è gran follia che due principi quasi eguali di potenza si abbocchino insieme. Sarebbe meglio che essi pacificassero le loro discordie per mezzo di accordi e buoni servitori». Per questo dall’antichità iniziò a svilupparsi il servizio diplomatico: anche se per la creazioni di ambasciatori permanenti bisogna aspettare il Rinascimento, e se il sistema delle relative immunità arriva a maturità tra XVII e XVIII secolo. A quel punto, anzi, proprio l’esistenza di professionisti delle relazioni internazionali divenne un’ulteriore remora all’affidare quel lavoro così delicato a dilettanti sia pure di lusso come i re. Ciò non impediva ogni tanto la classica eccezione che conferma la regola. Quando nel 369 l’imperatore romano Valente incontrò in mezzo al Danubio il capo visigoto Atanarico, in particolare, creò il precedente poi imitato nel 374 dall’altro imperatore Valentiniano I e dal re degli alamanni Macriano, sul Reno. E nel 615 dall’imperatore bizantino Eraclio

con il capo persiano Shahin, nelle acque del Bosforo. E nel 1807 da Napoleone con lo zar Alessandro I, su una zattera a metà del Niemen.

Senza acqua di mezzo, il principio fu lo stesso dell’incontro del 1520 tra Enrico VIII d’Inghilterra e Francesco I di Francia nella “valle d’oro”: un avvallamento sul limitare dell’ultima enclave continentale inglese di Calais. Mentre Federico Barbarossa e papa Alessandro III nel 1177 si videro invece a Venezia: campo neutro di una città che non stava né sotto la sovranità del papato né sotto quella dell’Impero, e che comunque stava anch’essa sul-

Il primo a usare il termine “vertice” fu Winston Churchill, in un discorso del 1950 a Edimburgo. Kennedy lo riprese nel 1959 l’acqua, tanto per restare in tema. Campo neutro anche la Costantinopoli in cui nel 1096 e 1097 l’imperatore bizantino Alessio Comneno ospitò il vertice dei capi della Prima Crociata, e nel 1147 il suo successore Manuele Comneno riunì i leader della Seconda. Ma Manuele II che andava per le corti italiane, francesi, tedesche e inglesi a elemosinare contro i turchi un aiuto scambiato con volumi preziosi e frammenti della

G-5, 7, 8, 13, 20: troppi incontri senza carattere

Il Signor G è inflazionato di Mario Arpino rmai ci siamo: domani all’Aquila si alza il sipario di una rappresentazione “politicamente corretta”. Originalmente l’agenda del G-8 era limitata alle politiche economiche e valutarie, ma ormai si parla di tutto. Infatti, la crisi economica internazionale e le crisi regionali, la sicurezza alimentare, la lotta ai cambiamenti climatici, la liberalizzazione del commercio mondiale, sono altrettanti drammatici vasi di Pandora che, una volta aperti, si presentano come contenitori di qualsivoglia istanza globale. Per noi è una

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grande opportunità. Infatti, la presidenza del Gruppo ha un ruolo importante perché, non esistendo né un segretariato permanente né altri organi istituzionali, è in grado - se altri non si impongono - di influenzare sostanzialmente l’agenda e il livello della discussione.

È vero che si tratta di un forum intergovernativo informale - le sue decisioni infatti non hanno rilevanza giuridica e andranno riprese e valutate in altre sedi ma è altrettanto vero che da trentacinque anni il G-8 tende a presentarsi come motore di un sistema globale di governance. È proprio questo ruolo, che inevitabilmente contiene un tocco di autore-

tunica di Cristo, testimonia appunto la crisi che di lì a trent’anni avrebbe portato alla fine dell’Impero Romano d’Oriente. Mentre il vertice tra l’imperatore Enrico IV e papa GregorioVII nel territorio dell’alleata del pontefice, Matilde, fu “un’andata a Canossa”. Nel 1419, peraltro, l’aver scelto un ponte nei pressi di Rouen come campo neutro tra il Duca di Borgogna Giovanni e il Delfino, il futuro Carlo VII, non impedì una tragedia, quando Giovanni provò a passare dall’altra parte e venne subito ucciso da una guardia di Carlo. Per questo, quando nel 1475 il figlio di Carlo, Luigi XI si vide col re inglese Edoardo IV di York in un ponte sulla Somme, memore del fosco precedente, insistette per farvi costruire nel mezzo «una solida grata di legno come si fa per le gabbie dei leoni». Parole proprio di quel de Commines che abbiamo visto così scettico sui vertici tra potenti. Lo stesso de Commines, peraltro, a proposito del vertice tra Luigi XI e Edoardo IV ricordava che «delle cose che vi furono promesse, poche furono mantenute e tutto fu fatto con doppiezza».

Il modello del presidente americano è stato rigorosamente modellato sulla figura di re Giorgio III, prima che la sua pazzia favorisse l’evoluzione verso il sistema parlamentare. Infatti, a nessun presidente in carica il Congresso permise di uscire dal territorio nazionale prima del viaggio di Wilson in Europa, per presenziare alla Conferenza di pace

ferenzialità, che oggi viene messo in discussione sempre di più. Secondo un’analisi dell’Istituto Affari Internazionali (www.iai.it), il motivo principale è che gli otto membri - Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada e Russia - non vantano più come in passato una chiara superiorità politica ed economica. Nuovi attori, come Cina, India, Brasile e altri ancora, potenzialmente più ricchi e più influenti, sono decisamente emersi sulla scena internazionale. Discussioni, ovviamente, ci sono anche all’interno. Angela Merkel ha già cominciato, dichiarando che la formula è ormai insufficiente, che gli “otto” non sono ormai né i più ricchi né i più influenti e che, proprio per questo, il foro più appropriato per grandi decisioni condivise d’ora in poi sarà il G-20. Ha poi anticipato una sua forte presa di posizione contro lo stallo dei provvedimenti per il climate change e, in un possibile, se non probabile contraddittorio con il nostro ministro Frattini, per una


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nevra: sei vertici che hanno cambiato il Novecento. E che rendono impietoso il paragone con gli attuali G8

ncontrarsi nel XX secolo

o Stefanini di Parigi. E anche a lui gliela fece poi pagare, col bocciare la ratifica del Trattato di Versailles. Un’altra antica repubblica che ha conservato concezioni arcaiche della dignità del capo dello Stato è la Svizzera, e infatti al suo Presidente è vietato recarsi in visita all’estero. In compenso, fu un autocrate modernizzatore come Pietro il Grande, il primo sovrano a trascorrere molto tempo all’estero, in lunghi viaggi di esplorazione e istruzione. Una tappa importante fu il Congresso di Vienna: gestito da ministri degli Esteri che non avevano i problemi di etichetta dei sovrani, ma d’altra parte stavano ormai a un livello superiore ai diplomatici tradizionali.

Dopo la rivoluzione dei trasporti rappresentata dall’invenzione dei treni e delle navi a vapore, il successivo grande giro di boa è il Congresso di Berlino del giugno-luglio 1878, in cui ormai sono presenti capi di governo che hanno ridotto i re a mere figure simboliche: il tedesco Bismarck, l’inglese Disraeli, l’austro-ungarico Andrássy e anche il russo Goncharov, benché il potere dello zar fosse ancora superiore a quello dei colleghi. Il kaiser Guglielmo II, che congeda Bismarck e poi nel 1905 incontra il cugino zar Nicola II nel golfo di Finlandia ormeggiando i due yatch l’uno accanto all’altro, è un momentaneo ritorno al passato, presto superato da quella Grande Guerra che travolge i loro troni.

Se è la modernizzazione dei trasporti a rendere tecnicamente possibili i vertici, è la rivoluzione delle armi di distruzione di massa evidenziata proprio dalla Grande Guerra a renderli indispensabili, come estremo tentativo per sanare situazioni

Sopra: JFK e Kruscev nel 1961 a Vienna. Roosvelt, Churchill e Stalin a Yalta, nel 1945; Chamberlain e Hitler nel 1938. Stessa pagina, a fianco: Nixon e Kruscev a Mosca nel 1972; Carter, Begin e Sadat a Camp David nel 1978; Gorbaciov e Reagan a Ginevra, nel 1985. A destra, il presidente Kennedy

forte ed immediata condanna dell’Iran. Posizioni eticamente ineccepibili, politicamente molto corrette, ma che qualcuno potrebbe anche ritenere tatticamente precoci in tempo di crisi e, presumibilmente, anche portatrici di una certa dose di “autolesionismo”europeo. Ma i back seaters sapranno certamente aggiustare tutto nel comunicato finale.

C’è anche chi è critico sulla presenza della Russia, giudicata una mina vagante per l’omogeneità del Gruppo e che, in controtendenza, preconizza un ritorno al G-7. Effettivamente, l’Asia è rappresentata da un solo Paese, il Giappone, mentre il Sud America, l’Africa, il Medioriente, il Sud Est asiatico e la regione del Pacifico da nessuno. Il malessere denunciato dalla Merkel non trova insensibili gli otto, che già da qualche tornata - esattamente dal 2005 - consapevoli della perdita di peso specifico del Gruppo, invitano per i dossier più rilevanti altri Paesi, tra cui ormai abitudi-

al limite della rottura. Ed è la rivoluzione dei mass-media a renderli politicamente paganti, col mostrare nei cinegiornali e poi in tv l’immagine del leader che si danno da fare per salvare la pace. Solo dopo che a Monaco nel 1938 e Yalta nel 1945 si sono già tenuti i primi due dei sei incontri che secondo il libro hanno segnato il XX secolo, però, nasce il termine Summit, reso in italiano con Vertice. Il primo a usarlo, in un discorso pronunciato a Edimburgo il 14 febbraio 1950, è Winston Churchill, già protagonista di Yalta. «Non vedo come un incontro al vertice possa peggiorare le cose». All’epoca non è premier ma capo dell’opposizione, così come è solo un candidato alla presidenza nel 1959 John Fitzgerald Kennedy, quando pronuncia un’altra delle frasi citate da Reynolds come introduzione: «è assai meglio incontrarsi al vertice che sull’orlo di un precipizio». Nel frattempo c’è stata la corsa alla conquista dell’Everest e del K2, da cui la metafora del “vertice” come impresa difficile: ma poiché è sui“vertici”montani che passano spesso le linee di confine, resta anche l’immagine di un ideale campo neutro. Pure alle cronache dell’epoca si deve l’altra metafora degli sherpa: popolo himalayano che porta i carichi per gli alpinisti, e tecnici preparano l’agenda degli statisti.

nariamente Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica, i così detti G-5. Un altro argomento di dibattito riguarda i parametri per stabilire un ordine gerarchico per l’ammissione al Gruppo. È evidente che il fattore demografico non è più significativo, se la popolazione degli attuali otto membri, come rileva lo Iai, rappresenta il 13 per cento della popolazione mondiale, un’invariante rispetto al G-7 del 1975. Oggi, è sopra tutto la ricchezza delle nazioni, non più concentrata negli otto, e la capacità di trasformarla in risorse industriali, politiche, militari e diplomatiche a fare la differenza. Anche in questo, gli otto non sono più soli. Anzi, per gli effetti della crisi rischiano di assumere, magari non subito, ruoli di minoranza. Di tutto questo i Paesi titolari si rendono conto, anche se il primo tentativo di G-20 per discutere della crisi economica ha dato risultati assai scarsi. All’Aquila, per esempio, una giornata intera del vertice si terrà se-

in Vietnam e da quell’offensiva globale che negli anni ’70 sembrò a un passo dal consegnare il mondo ai sovietici.

Proprio Kennedy sarà poi protagonista del terzo grande vertice: quello di Vienna del 1961 con Kruscev. Il quarto è quello di Mosca del 1972 tra Nixon e Kruscev. Il quinto quello di Camp David del 1978, tra Carter, Begin e Sadat. E il sesto quello di Ginevra del 1985, tra Gorbaciov e Reagan. Tutto sommato, non è che si tratta di una storia particolarmente felice. Se gli accordi di Monaco con Hitler e di Yalta con Stalin sono passati alla memoria come esempi vergognosi di cedimento al totalitarismo, Vienna fu seguita a breve dalla crisi dei missili a Cuba, e Mosca dal collasso Usa

condo la formula G-8 + G-5 + Egitto, quest’ultimo invitato dalla presidenza italiana, mentre Francia e Gran Bretagna avanzano motivi secondo loro validi per istituire un G-13 in forma permanente. È chiaro come la formula, probabilmente non nell’immediato, sia alla ricerca di una propria autoriforma.

Un’ulteriore critica al G-8 nell’attuale formato proviene da numerosi attori della società civile, come un certo numero di organizzazioni non governative (Ong), che lo accusano di elitarietà, ovvero di scarsa democraticità, visto che molte decisioni vengono prese a porte chiuse dagli otto Capi di Governo, che terrebbero in scarsa considerazione un certo numero di interessi riguardanti gli “esclusi”. Va riconosciuto che di ciò si è tenuto conto negli ultimi vertici, e anche in quello dell’Aquila verrà dedicata, ad esempio, speciale attenzione all’Africa. La presidenza italiana ne ha appena dato

Camp David riuscì effettivamente a portare la pace tra Egitto e Israele, ma da allora la questione medio-orientale è rimasta quasi bloccata. Mentre Ginevra segnò effettivamente il principio della fine della Guerra Fredda: ma nel senso che poi collassò il blocco sovietico. Insomma, nei sei grandi vertici del XX secolo praticamente mai se ne è usciti con vantaggi per tutte le parti in causa. Nel frattempo, però, dal processo di integrazione europea era uscito un altro modello di vertici, che poi per rispondere ai problemi della crisi petrolifera del 1973 fu esteso a livello di direttorio mondiale con l’invenzione del G-7, poi G-8, G-20, e tutta una serie di altri G, planetari e locali. Se il summit si è dunque affermato come strumento irrinunciabile di governo mondiale, però, nel contempo si è anche inflazionato, burocratizzato, sdrammatizzato. «Nel mondo post-guerra fredda», osserva Reynolds, «molti dei problemi più pressanti relativi al mondo del commercio, alla sicurezza e all’ambiente richiedono soluzioni multilaterali anziché bilaterali». Ma difficilmente qualcuno di essere tra cent’anni potrà essere indicato da uno storico, tra “i sei incontri che hanno segnato il Ventunesimo secolo”.

esplicita conferma, rispondendo così anche alle preoccupazioni del Santo Padre. Con tutte le sue luci e le sue ombre, il G-8, anche se accusato di essere sbilanciato a occidente, certamente mantiene un ruolo importante, sebbene decrescente con il tempo. Avrebbe bisogno di maggior accettazione, ma questa può essere ottenuta solo con un allargamento dei membri o, in alternativa temporanea, dei Paesi invitati. È evidente che, in questi termini, un G20 potrebbe ottenere maggior legittimazione di un G-8, ma la sua capacità decisionale, sia pure sui grandi tempi, risulterebbe attenuata dalla maggior difficoltà di ottenere un consenso. Le due formule in prospettiva potrebbero anche coesistere, con gli otto che predispongono in lavoro da far poi legittimare dai venti. Resterebbe comunque il problema delle tematiche di sicurezza e difesa, che come si è già visto, sono scarsamente appetibili dall’uno o dall’altro sistema.


politica

pagina 14 • 7 luglio 2009

Immigrati. La Cei si schiera per una sanatoria che garantisca il lavoro a «una struttura portante dell’assistenza alle persone»

I badanti della Lega La Chiesa e il «partito di Fini» uniti attaccano il Carroccio sulla clandestinità di Errico Novi

ROMA. Una sintesi migliore di quella offerta da Francesco Nucara? Impossibile: «Ora che l’immigrazione clandestina è reato, più che maggiore sicurezza abbiamo maggiore confusione nel Paese e anche nel governo». È cosi, e il segretario del Partito repubblicano scopre la ferita con perizia da chirurgo: «Una messa a punto del programma di coalizione sarebbe utile perché si rischia che al G8 invece della tregua con l’opposizione inizi la guerra nella maggioranza». La coincidenza non sarebbe ca-

ro neppure nascere: Berlusconi avrebbe dovuto intervenire sul principio stesso del reato di clandestinità, ed è quantomeno sorprendente che un ministro come Carlo Giovanardi si svegli a cose fatte, ossia a legge approvata (come fa notare Savino Pezzotta). Il caso delle colf irregolari (tali, nella maggior parte dei casi, perché entrate con un visto turistico e poi non regolarizzate dalle famiglie) sembra minimale, circoscritto. Invece è emblematico: segna la distinzione piuttosto netta tra due culture all’interno della

Monsignor Domenico Sigalini, segretario della commissione per le Migrazioni della Conferenza episcopale italiana interviene a sostegno della posizione del ministro Giovanardi suale, giacché il vertice con i grandi della terra impedisce al premier, che della maggioranza dovrebbe essere il capo, di ricomporre la frattura su colf e badanti. Ma è anche vero che simili questioni non dovrebbe-

maggioranza, quella leghistasicuritaria e quella moderata, a cui si richiamano i finiani e i cattolici come Giovanardi. In mezzo figure istituzionali non dotate evidentemente dell’autorità del leader, come Ignazio

La Russa e il responsabile del Welfare Maurizio Sacconi, che si rifugia nei dettagli: «Selezioneremo bene le domande relative», assicura. Sembra non tener conto del fatto che il reato di clandestinità colpisce non solo chi entra illegalmente, ma anche gli immigrati che già sono in Italia, ci lavorano magari in nero e che dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del ddl sicurezza, in qualsiasi momento, possono essere fermati dall’autorità di polizia, puniti con l’ammenda ed espulsi.

Sacconi tenta in realtà anche di nobilitare con intenti strategici di ampio respiro l’applicazione del codice penale su mezzo milione di badanti senza permesso: «Ora il governo può affrontare il problema innanzitutto consentendo a molte italiane e italiani di svolgere prioritariamente questo lavoro». Come se ci fosse davvero una grande offerta indigena di personale addetto all’assistenza ad anziani e famiglie. C’è un’oggettiva confusione, come diversi esponenti del Pd, a cominciare da Anna Finocchiaro, pure fanno notare. Da una parte l’Esecutivo difficilmente potrà eludere il pressing dell’opposizione, tanto più che ieri l’Udc è andata a sollecitarlo con spietata precisione nel punto più dolente: Cesa, Buttiglione, Pezzotta e Rao hanno rivolto un appello a Berlusconi perché promuova la sanatoria sulle collaboratrici domestiche. Dall’altra parte, la stessa maggioranza offre uno spettro di posizioni sostanzialmente inconciliabili, soprattutto perché alcune di esse mostrano chiaramente il for-

Intanto il ministro Sacconi interviene per spiegare che «le norme sulla sicurezza non sono assolutamente retroattive e, quindi, non si applicano a tutti quanti già lavorano in Italia» marsi ormai di una corrente finiana sempre più autonoma e riconoscibile: un gruppo formato dal fedelissimo Fabio Granata, dalla figliol prodiga Alessandra Mussolini e dalla direttrice del Secolo Flavia Perina già preannuncia infatti un disegno di legge che assicuri «integrazione e cittadinanza per tanti immigrati che vogliono essere italiani e sono preziosi per la nostra economia e le nostre famiglie». La sanatoria, appunto. L’iniziativa viene presentata insieme con il deputato che ha seguito Giova-

nardi nella sua rottura con l’Udc, Emerenzio Barbieri. E tanto per rafforzare il discorso, con puntualità ormai ineccepibile arriva anche un editoriale di farefuturo webmagazine a chiedere «giustizia e umanità» per le colf messe al bando dal Carroccio.

In una situazione tanto fluida quanto indistinguibile capita ovviamente che il governo perda autorevolezza verso i suoi interlocutori, anche nei confronti della Chiesa. È vero che sul ddl sicurezza le contestazioni del Vaticano si sono limitate all’isolata reprimenda del segretario del Pontificio consiglio per la Pastorale dei migranti, monsignor Marchetto, ma da ieri c’è una posizione critica netta espressa dalla Conferenza episcopale, per voce del segretario della commissione per le Migrazioni, Domenico Sigalini: «Sono in difficoltà nell’accettare il reato di clandestinità perché un suolo, come una nazione, non è come un orto di casa». Al rappresentante della Cei non si possono attribuire atteggia-


politica

7 luglio 2009 • pagina 15

La politica della “paura” e la cultura dell’accoglienza

Chi ha paura delle colf? di Francesco D’Onofrio a questione delle “badanti” e delle “colf” sollevata da Carlo Giovanardi è certamente testimonianza del fatto che tutta la materia dell’immigrazione non ha saputo trovare un accettabile punto di equilibrio tra la cultura della paura – che sembra dominare la linea politica del governo – e la cultura dell’accoglienza – che viene troppo spesso svillaneggiata per “buonismo”. Fino ad ora le due culture sono entrate in rotta di collisione perché cercano di dare risposte al comune sentire degli italiani in riferimento al bisogno di sicurezza in modi radicalmente opposti. La cultura della paura, infatti, rischia di essere localistica nel senso peggiore, perché si caratterizza per il fatto di voler allontanare dalle persone, o dal luogo in cui le persone vivono, tutto ciò che appare contrastante con il bisogno di sicurezza, inteso in senso molto largo: sicurezza della vita privata; sicurezza della propria abitazione; sicurezza del concetto stesso di unità familiare; sicurezza della fruizione dei servizi sociali e culturali; sicurezza del posto di lavoro. La cultura della paura impedisce persino di riuscire a comprendere le dimensioni attuali della vita globale, come testimonia in particolare il modo grezzo con il quale è stato affrontato il problema del cosiddetto respingimento.

L

Qui accanto, il ministro Roberto Calderoli che, con la sua consueta prosa colorita da vero uomo padano, ha accusato le «badanti» di trafficare in sesso e droga. Si è aperta così una frattura fra la Lega, che giudica intoccabile la legge Maroni, e alcuni esponenti di governo (tra cui Sacconi e Giovanardi), che invece vorrebbero apportare delle lievi modifiche in grado di rendere la vita meno difficile a tutti quegli immigrati che lavorano presso gli anziani

africani. Può non sorprendere che della nuova centralità mediterranea per l’Italia non siano sostenitori quanti vivono in parti d’Italia persino lontane dal Mare Mediterraneo medesimo, ma sorprende che è proprio il governo italiano considerato nel suo insieme che pratica il respingimento nel Mediterraneo e nei confronti di quanti fuggono dall’Africa quasi che si tratti esclusivamente di una questione di ordine pubblico.

La cultura dell’accoglienza – a sua volta – distingue rigorosamente tra regolarità e irregolarità degli immigrati ma opera su due questioni di fondo che sono invece ignorate dalla cultura della paura: la persona umana e l’universalità. Si sente frequentemente parlare della persona umana da parte di persone che spesso non colgono il nesso strettissimo che vi è tra politica dell’immigrazione e riconoscimento della persona umana. È come se una sorta di scissione mentale operasse tra il disegnare da un lato una politica dell’immigrazione fondata sulla paura e costruire dall’altro una politica sociale fondata sulla persona umana. La cultura dell’accoglienza – al contrario – opera nella consapevolezza che occorre distinguere tra legalità e illegalità dell’immigrazione perché la sicurezza richiede questa distinzione ma che non si deve operare in una sorta di demonizzazione dell’immigrazione medesima quasi che si volesse applicare alla realtà contemporanea il “vade retro”certamente riferibile al demonio e non alla persona. Vi è da augurarsi pertanto che la questione delle badanti e delle colf venga risolta nei termini che il capogruppo dell’Udc al Senato Giampiero D’Alia ha indicato: si tratterebbe di una prova ulteriore che soltanto operando per il benessere degli italiani si lascia la paura a fare il suo corso, forse elettoralmente utile, ma certamente inidonea a formare la base culturale su cui costruire una dignitosa politica dell’immigrazione.

È urgente distinguere tra legalità e illegalità dell’immigrazione: la sicurezza richiede questa distinzione senza incappare nella demonizzazione degli immigrati

menti pregiudiziali, giacché si mostra possibilista sul «diritto alla salute dell’immigrato» quanto fermo sul «diritto allo studio». Colpisce la difficoltà del governo a difendersi, messa in evidenza dal presidente dell’Anm Luca Palamara che rimpalla a Sacconi il discorso sulla non retroattività, colpisce forse ancora di più il fatto che le contraddizioni tra l’anima del Pdl, che si presume moderata, e la Lega non emergano su questioni strategiche d’insieme ma su una faccenda di ordine pratico come quella delle colf.

Lo sottolinea in conferenza stampa il segretario dell’Udc: «Non abbiamo una posizione ideologica, pensiamo al proble-

ma che si crea improvvisamente per le famiglie. Siamo di fronte a una legge sbagliatissima». A Cesa d’altra parte non sfugge affatto il significato più complessivo dell’incidente: «È chiaro che Bossi è diventato il capo assoluto della maggioranza». Il nesso tra un caso apparentemente circoscritto e lo sbilanciamento della coalizione sul versante sicuritario-populista c’è eccome. Lo attestano anche uscite rabbiose come quella di Roberto Calderoli che domenica ha assimilato le centinaia di migliaia di colf in difetto di permesso con una massa indistinta di prostitute, con la rabbia e la reattività tipiche di chi vede disturbato un dominio politico ormai ritenuto inattaccabile.

Se infatti non vi è alcun dubbio che debbano essere respinti tutti coloro che intendono entrare sul territorio nazionale in modo irritale o addirittura illegale, non se ne può trarre la conseguenza di operare in violazione del diritto all’accoglienza di quanti fuggono da situazioni di illegalità sostanziali concernenti la persona medesima. E infatti soltanto una radicale indifferenza rispetto alle straordinarie complessità civili, culturali, economiche e politiche che l’Africa sta vivendo può far ritenere del tutto irrilevante il fatto che il respingimento sia stato deciso proprio nel Mediterraneo e proprio in riferimento a quanti provengono dai più disparati Paesi


diario

pagina 16 • 7 luglio 2009

Il nuovo allarme «titoli tossici» Il Fondo monetario internazionale mette in guardia il sistema bancario di Alessandro D’Amato

ROMA. «La pulizia non ancora è stata completata». Dominique StraussKahn, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, lancia di nuovo l’allarme sui bilanci bancari e sui titoli “tossici” che contengono, richiamando severamente gli istituti di credito alla trasparenza.

Anzi, aggiunge Strauss-Kahn: «Non ci sarà ripresa - dice - finché non i bilanci delle banche non saranno stati ripuliti. E questo non è ancora stato completamente fatto». L’Fmi riconosce che le banche centrali hanno agito con decisione per mitigare la crisi finanziaria e che anche i governi hanno risposto alla richiesta del Fmi di stanziare aiuti all’economia fino a 2% del pil mondiale. Ma gli sforzi per risanare le banche non sono stati sufficienti. «Molto è stato fatto - assicura Strauss-Kahn ma molto deve ancora essere fatto. A seconda di quanto si andrà a fondo nella pulizia dei bilanci delle banche, la ripresa arriverà prima o dopo». E il segnale non può che essere preoccupante, vista che Washing-

ton sostiene che siano 4.000 miliardi di dollari il totale dei titoli tossici, di cui 2.700 in possesso delle banche. Una stima secondo alcuni eccessiva: tale la ritiene ad esempio Rainer Masera, uno degli otto membri del “Gruppo de Larosière” incaricato dall’Unione europea di formulare le proposte di riforma del sistema finanziario. «Finora quelli emersi sono 1,2 trilioni: non mi pare credibile che ce ne siano altrettanti», aveva detto in un suo intervento del maggio scorso. Ma anche se il computo totale ammontasse alla metà di quanto stimato dal Fondo, il problema rimane: gli istituti di credito, nonostante i vari piani nazionali di aiuto approntati dai governi, continuano a nascondere nelle pieghe i loro «scheletri nell’armadio».

il sistema economico e finanziario ancora troppo debole e inaffidabile. Ma ovviamente il continuo drenaggio di liquidità che viene così operato non fa che peggiorare la situazione, innescando un circolo vizioso dal quale sembra difficile uscire a tutt’oggi. Finché non passerà la crisi di fiducia, ben più grave di quelle di liquidità e solvibilità.

E infatti, nell’aprile scorso l’Fmi ha stimato che l’economia mondiale si contrarrà dell’1,3% nel 2009 e che nel 2010 si registrerà una crescita contenuta dell’1,9%. Strauss-Kahn punta poi il dito contro quei governi che chiedono alle banche a cui hanno concesso aiuti di mantenere gli investimenti nei rispettivi paesi di appartenenza. Si tratta, spiega, «di un nuovo tipo di protezionismo finanziario, che consiste del prendersi cura delle proprie economie senza tener conto del danno che si crea alle altre». E a proposito di questo, sempre ieri è arrivata una dichiarazione di Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, riguardo gli istituti internazionali: «L’Unione Europea non è ancora pronta ad avere una rappresentanza unica presso le istituzioni finanziarie internazionali nonostante il desiderio di parlare con una sola voce si faccia sempre più forte», ha dichiarato il portoghese. Anche qui, i motivi sono prettamente politici: nessun paese vuole rinunciare ai “suoi” uomini piazzati nei vari consigli di amministrazione e nei posti strategici. E quindi la Ue pagherà dazio all’egoismo degli Stati, essendo incapace anche in campo finanziario a parlare con una sola voce.

Intanto è stato toccato il nuovo record storico di 315,956 miliardi di euro per il volume dei depositi nell’Eurozona Intanto è salito al nuovo record storico di 315,956 miliardi di euro il volume dei depositi delle banche dell’Eurozona presso lo sportello overnight della Bce questa settimana. Il top era stato toccato precedentemente l’11 gennaio con 315,254 miliardi di euro. Le richieste di prestiti allo sportello marginale si sono attestate a 58 milioni, in linea con i 52 milioni della settimana precedente. E anche questo è un pessimo segno per l’economia europea. Perché se le banche preferiscono il tasso Bce a quello, ben più remunerativo, che potrebbero utilizzare per i prestiti all’economia o alle altre banche, questo significa che reputano

L’ex magistrato attacca il presidente: «Usa la piuma contro i golpisti». Parole inopportune, dice il segretario Pd

Franceschini e Di Pietro litigano su Napolitano di Guglielmo Malagodi

ROMA. Il presidente Napolitano divide le opposizioni di sinistra. Il terreno di scontro è la legge sulle intercettazioni e la polemiche che ne è scaturita a sinistra assume i contorni del “tutti contro tutti”. Se ieri l’altro Pd e Italia dei valori si erano trovati concordi nell’intimare al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di ritirare il provvedimento, ieri sulla stessa vicenda si sono spaccati. Ha cominciato Antonio Di Pietro che ha attaccato Napolitano (con il suo solito linguaggio colorito e grezzo) perché, a suo giudizio, nell’incontro con Alfano non sarebbe stato sufficientemente determinato. Dario Franceschini, dal canto suo, ha difeso il Quirinale e replicato con fermezza a Di Pietro: quelle a Napolitano sono contestazioni «intollerabili».

ma d’oca per difendere la Costituzione dall’assalto di un manipolo piuttosto numeroso di golpisti». Il riferimento, si diceva, è all’incontro fra Napolitano e Alfano, lo scorso 3 luglio, dopo il quale secondo Di Pietro - Napolitano avrebbe consentito solo «modifiche di facciata» al ddl. Di Pietro punta l’indice sul fatto che «Alfano ha fatto sapere che sì, il ddl è modificabile - si legge ancora sul blog - ma l’esecutivo va dritto per la sua stra-

Al centro dello scontro le intercettazioni. Mentre passa la linea di Schifani: rinviare il voto a dopo l’estate per cambiare tutto

Secondo quel che ha scritto sul suo blog il leader dell’Idv, il presidente della Repubblica starebbe usando «una piu-

da, aprendo solo a quelche ritocco, vale a dire modifiche di facciata». Insomma Napolitano - per l’ex magistrato - «pur di evitare strappi istituzionali ha preferito convocare l’esecutivo prima di rifiutare la firma di una legge fatta su misura per delinquere in libertà». Per Dario Franceschini, le parole di Di Pietro sono

troppo pesanti. «È intollerabile – ha spiegato il segretario del Partito democratico - che il leader dell’Idv coinvolga nella polemica politica il presidente, che sta svolgendo con intelligenza la sua funzione di garante delle regole e degli equilibri istituzionali. Di questo l’intero paese deve essergli grato». Dell’occasione, come è ovvio, ha approfittato subito la maggioranza: per il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, quella di Di Pietro è «una pericolosa deriva dell’avventurismo e dell’estremismo giustizialisti». Ad ogni modo, in concreto, tutte le forze politiche al momento sono d’accordo con il presidente del Senato Renato Schifani che ha suggerito di rinviare a dopo l’estate la discussione sull’intera materia delle intercettazioni. «È un’iniziativa opportuna ha spiegato per esempio Gianpiero D’Alia dell’Unione di Centro - per modificare il testo che ha bisogno di migliorie sostanziali. Se verrà fatta alla conferenza dei capigruppo - ha concluso D’Alia avrà il nostro sostegno».


diario

7 luglio 2009 • pagina 17

Accordo firmato tra il Lingotto e il gruppo «Gac»

Reagiscono gli studenti: rettorati occupati e contestazioni di piazza

Dal 2011 Fiat produrrà Punto e Brava in Cina

G8 Università, 21 arresti per gli scontri di maggio

ROMA. Anche se nessuno lo dice ufficialmente, Fiat considera praticamente persa la partita per Opel, malgrado le timide aperture delle scorse settimane, in previsione di una rottura tra il gigante tedesco e la Magna che non è parsa in grado di sostenere l’impatto con i debiti tedeschi. In verità, a Torino si sa da una parte che la Germania vuole soldi e non know how, come promette il Lingotto, e che comunque prima delle prossime elezioni d’autunno i tedeschi una decisione definitiva non la prenderanno sicuramente. Così, a sostegno della grande strategia internazionale avviata con l’acquisto di Chrysler, a Torino si guarda altrove. Ieri, per esempio, è stato firmato l’accordo tra Fiat e la cinese Guangzhou Automobile Industrie Groupe (Gac) che al Lingotto viene considerato molto importante in questa prospettiva. L’intesa, infatti, prevede la produzione negli stabilimenti cinesi a partire dal 2011 di Punto e Brava. La firma è stata messa alla presenza del premier Silvio Berlusconi e del presidente cinese Hu Jintao: per il Lingotto, era presente l’ad Sergio Marchionne. Insomma, anche la Fiat non si è fatta sfuggire l’occasione del grande supermarket italiano organizzato dal governo per la visita del presidente Hu Jintao. Ma certo al di là dell’importanza della firma, la proiezione di Torino nel mondo non cambia.

ROMA. Il mondo universitario di tutt’Italia si mobilita. Da Roma a Napoli. Da Bologna a Pisa. Il tutto ha inizio nella mattinata ieri, con l’esecuzione di 21 arresti da parte delle forze dell’ordine per i disordini accaduti nello scorso maggio a Torino, in occasione del G8 dell’Università (tra i 21 arrestati, c’è anche uno dei leader del centro sociale «Insurgencia» di Napoli, già coinvolto nelle violente contestazioni all’apertura della discarica cittadina nel quartiere di Chiaiano). Le misure cautelari, 16 in carcere e 5 ai domiciliari, riguardano esponenti di movimenti legati all’area cosidetta antagonista che si sarebbero resi responsabili delle violenze accadute nel capoluogo piemontese. I reati contestati sono violenza, resistenza, lesioni, danneggiamenti in concorso

L’accordo siglato tra Fiat e il gruppo cinese Gac «è un accordo importante» ha sottolineato comunque il vice presidente di Fiat, John Elkann, a margine dell’assemblea annuale dell’UTorino. nione Industriale Elkann ha rilevato che il mercato cinese è importante per il futuro». E dunque è possibile che Gas sia la porta d’Oriente della Fiat.

La Cei: il libertinaggio non è un affare privato «Comportamenti gravi soprattutto quando ci sono i minori» di Franco Insardà

ROMA. Lo sfoggio di un «libertinaggio gaio e irresponsabile» a cui oggi si assiste, non deve far pensare che «non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori». Con queste parole, pronunciate a Le Ferriere di Latina in occasione di una celebrazione in memoria di Santa Maria Goretti, il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, monsignor Mariano Crociata, è intervenuto sul tema che da qualche mese interessa l’opinione pubblica italiana e che vede protagonista il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Monsignor Crociata ha tratteggiato la figura di santa Maria Goretti che rappresenta per la Chiesa una «testimonianza di grande fedeltà alla propria coscienza e a Dio, portata alle estreme conseguenze e pagata con il martirio». Secondo il segretario della Cei santa Maria Goretti ha testiuna moniato «grande coerenza, che non è fuori moda, ma manifesta, al contrario, la necessità di riscoprire parole desuete, come purezza, castità, verginità, che facciamo fatica a pronunciare, che ci fanno forse arrossire». Situazione diametralmente opposta a quella di oggi, ha continuato il segretario generale della Cei, nella quale «assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria, con cui fin dall’antichità si è voluto stigmatizzare la fatua esibizione di una eleganza che in realtà mette in mostra uno sfarzo narcisista, salvo poi, alla prima occasione, servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata a parole e con i fatti, per altri scopi, di tipo politico, economico o di altro genere». Nella sua omelia il segretario della Cei ha sottolineato che non si tratta di «un moralismo d’altri tempi, superato», spiegando che «l’e-

sempio di santa Maria Goretti ci riporta ad alcune verità umane e cristiane fondamentali: la dignità e l’identità della persona, la grandezza del corpo, la bontà della sessualità, la natura della libertà». E ha chiarito che «non ci spinge alcun disprezzo del corpo, alcun tabù circa la sessualità, alcun timore della libertà, ci sollecita la pena che suscita lo spettacolo quotidiano di degrado morale che si consuma in tante immagini proiettate dai mezzi di comunicazione e nelle cronache di vite senza fine, devastate». A questo proposito ha citato le parole del presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco: «Le responsabilità sono di ciascuno, ma conosciamo l’influsso che la cultura diffusa, gli stili di vita, i comportamenti conclamati hanno sul modo di pensare e di agire di tutti, in particolare dei più giovani che hanno diritto di vedersi presentare ideali alti e nobili, come di vedere modelli di comportamento Sul coerenti». pensiero di monsignor Crociata si è espresso positivamente l’Udc, con Luca Volontè: «Le parole di monsignor Crociata mettono in evidenza la necessità che le norme morali più elementari vengano rispettate da tutti. Non si può immaginare una persona scissa tra libertinaggi privati e coerenza pubblica, specie se ricopre alte cariche istituzionali».

Il segretario della Cei, monsignor Crociata: «Si mette in mostra uno sfarzo narcisista, salvo poi richiamarsi alla moralità»

Le vicende che riguardano il premier erano state anche oggetto di una lettera del senatore Francesco Cossiga nella quale si faceva riferimento a voci secondo cui agenti dell’Aise avrebbero spiato membri del Parlamento e del governo su mandato di alcune procure. Per questo ieri c’è stato un incontro tra il Cossiga e il presidente del Copasir Francesco Rutelli che ha raccolto la documentazione fornitagli dal senatore a vita e ha promesso di interessare il Comitato. «Era suo diritto e un dovere - ha detto Cossiga - sono certo che servirà a qualcosa».

aggravato. Le misure sono state emesse a seguito delle indagini condotte dalla Digos e dalla Polizia di Torino, coordinate dalla direzione contrale della Polizia di prevenzione. Pressoché immediate le reazioni degli studenti delle aree più estremiste, che si sono mobilitate subito dopo la notizia dei 21 arresti: sono stati occupati rettorati delle università di Napoli, Milano e Pisa. A Torino, poi, gli studenti hanno spiegato che non si fermeranno: «Continueremo come sempre, inesorabili, a riprenderci i nostri spazi».

Diversi disordini anche a Roma, dove una trentina di studenti dell’Onda ha occupato il rettorato de La Sapienza per protestare contro la raffica di arresti. «Liberi tutti e tutte» e «L’onda perfetta non si arresta» sono gli striscioni che gli studenti hanno appeso fuori dalle finestre del rettorato. «Il provvedimento non vuole colpire singoli gruppi politici e controculturali, ma anzi difendere il diritto a manifestare pubblicamente qualsiasi opinione, purché in modo pacifico», è stato il commento del procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli.


cultura

pagina 18 • 7 luglio 2009

Limbo. Il sogno di Mario Palanti e Luigi Barolo, i due italiani che nel 1921 tentarono di trasferire le ceneri dell’Alighieri nella capitale argentina

Paradiso a Buenos Aires Il mistero delle reliquie di Dante e un santuario ispirato alla Commedia: storia di un’impresa incompiuta di Marco Ferrari oberto Benigni è da pochi giorni cittadino onorario di Buenos Aires. La consegna della pergamena di Huésped de Honor de la Ciudad de Buenos Aires è avvenuta nel Salón Dorado del Palacio legislativo della capitale porteña. Nell’occasione l’autore del film La vita è bella ha recitato in italiano – con un sistema di tradizione in spagnolo proiettato sullo schermo – il suo spettacolo Tutto Dante al Teatro Gran Rex della capitale argentina acclamato da un pubblico formato in gran parte da italiani e italo-argentini.

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Quella di Benigni non è un’onorificenza come le altre. Infatti, chi si addentra nel mondo di Dante Alighieri ha due mete obbligatorie: la casa natale fiorentina nell’omonima via al numero civico 14 e il luogo del riposo, il tempietto di Ravenna. Ma gli accaniti dantisti sanno di dover mettere nel conto anche un bel viaggio a Buenos Aires. Laggiù, infatti, fiorì un grande sogno: portare le spoglie del poeta fiorentino nella capitale argentina, la città che negli anni VentiTrenta del secolo scorso vantava il maggior numero di italiani, circa 3 milioni di emigrati, più di Roma e Milano. A ideare il trasferimento furono un architetto, Mario Palanti, e un industriale, Luigi Barolo. Nato a Biella nel 1869, Barolo sbarcò dall’altra parte dell’Atlantico nel 1890 e avviò un importante cotonificio a Valen-

tin Alsina diventando uno dei principali produttori d’Argentina del Novecento. Ad appassionarlo alla geniale idea fu l’architetto Mario Palanti, nato a Milano nel 1869, cultore di Dante, accanito lettore della

L’edificio costruito dall’architetto milanese fu terminato nel 1923: riflette il sistema simbolico elaborato dal Poeta

Divina Commedia e arrivato in Argentina nel 1909 per costruire, assieme a Francesco Gianotti, il Padiglione Italiano all’Esposizione del Centenario dell’indipendenza dello Stato celebrato latino-americano,

l’anno successivo. Sono loro gli artefici di uno degli edifici più interessanti della capitale porteña, Palazzo Barolo, nella centralissima Avenida de Mayo, numero civico 1370, un mosaico dantesco, un enorme santuario per il Sommo Poeta. Sinora poco conosciuto, dal 1997 monumento storico nazionale, Palazzo Barolo sarà una delle attrazioni del Bicentenario dell’Indipendenza argentina in programma nel 2010, come da intenzione dell’amministrazione guidata dal governatore italo-argentino Maurizio Macri. Già ora è stato sottratto all’oblio dalle schede telefoniche in cui compare la sua enorme cupola e ogni pomeriggio nei giorni feriali questo prezioso elemento architettonico che testimonia l’influenza italiana su Buenos Aires è accessibile al pubblico. Perché Barolo e Palanti avevano architettato di trasferire le ceneri dantesche da Ravenna a Buenos Aires? Temevano che grandi catastrofi belliche si abbattessero sull’Europa e in particolare sull’Italia, distruggendo l’ingente patrimonio storicoartistico della Penisola, tra cui, appunto, il tempietto il stile neoclassico costruito nel 1780-81 dall’architetto Camillo Morigia, dove si conservano le ossa di Dante. Le loro previsioni, come si sa, si rivelarono esatte. Ma c’è di più, perché sui resti danteschi da tempo si dirime un giallo con nascondi-

Nella foto grande, Palazzo Barolo. Situato nella centralissima Avenida de Mayo, per volere del suo ideatore, Mario Palanti, ospita un enorme santuario dedicato a Dante Alighieri. A sinistra, un’immagine del poeta nato a Firenze nel 1265 e morto nel 1321. I suoi resti sono custoditi nel Tempietto di Ravenna gli, trabocchetti e trasferimenti. L’ultimo capitolo porta la data del 1999, quando venne rinvenuto al Banco Rari nel Magazzino Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze uno sacchetto in cui si pensava fossero state occultate le ossa di Dante.

In quell’occasione si appurò invece che si trattava della polvere del tappetino su cui furono posate le ossa, e non le ceneri, perché il Sommo Poeta non venne cremato. Tale accumulo fu archiviato nel 1865 dal frate francescano Antonio Santi, insieme con la sua firma e l’indicazione in latino del ”sacro” contenuto. In quell’anno infatti, a Ravenna si fecero controlli e verifiche sui resti, depositando la cassetta su un tappeto. Al termine, lo scultore ravennate Enrico Pazzi, che aveva assistito alla riesumazione, raccolse scrupolosamente quanto era rimasto. Vale a dire le polveri secolari della cassetta, nel dubbio che vi fossero anche particelle

distaccatesi dalle ossa di Dante. Fece autenticare tale reperto dal notaio Saturnino Malagola, il quale dichiarò : «La polvere entro qui racchiusa fu tolta dal tappeto sul quale posarono la cassetta e le ossa di Dante Alighieri». Le ossa furono ordinate in una teca e più tardi, per il centenario del 1921, fu eseguita una nuova ricognizione e fu ricomposto lo scheletro dell’Alighieri in un contenitore di cristallo. Delle ossa si ha una precisa descrizione fatta dall’antropologo Fabio Frassetto, autore appunto del Dantis ossa (1933), che nell’occasione fu chiamato a studiarle, misurarle e ricomporle. Durante la guerra, poi, furono tolte dal Tempietto e raccolte in tumulo accanto, mentre si vociferava che il ministro Alessandro Pavolini volesse traslarle in un luogo sicuro della Repubblica di Salò. Barolo e Palanti contavano di riuscire ad avere parti dei resti danteschi, forse proprio quelli scoperti a Firenze nel 1999? Ciò non è stato mai appurato. Co-


cultura

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che l’architetto individuò nella metrica della Divina Commedia. La divisione del palazzo corrisponde alle sezioni del poema: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Il piano terra è l’Inferno, i primi 14 piani sono il Purgatorio, i restanti sono il Paradiso, il faro rappresenta l’occhio vigile di Dio. Il numero di gerarchie infernali è il nove, come nove sono le volte d’accesso all’edificio, che rappresentano passi d’iniziazione. Ognuna delle volte ha frasi in latino riprese da nove opere diverse, dalla Bibbia a Virgilio. La cupola si ispira al tempio induista Rajarani Bhudaneshvar, dedicato alla religione Tantra, rappresentando anche l’unione tra Dante e Beatrice.

I canti della Divina Commedia sono cento, come cento sono i metri di altezza del suntuoso palazzo. La maggioranza dei canti del poema ha 11 o 22 strofe, i piani dell’edificio sono divisi in 11 moduli per fronte, 22 moduli di uffici per blocco. L’altezza è di 22 piani. Questo complesso di numeri rappresenta il circolo, che era la figura perfetta per Dante. Le spoglie del poeta fiorentino, secondo il faraonico progetto, avrebbero

munque in quel periodo scelsero un terreno centrale, in Avenida de Mayo, l’arteria principale della capitale federale che porta dal Palazzo del Congresso alla Casa Rosada dove l’architetto aveva installato il proprio studio. Il primo ostacolo che si trovarono di fronte furono le regole urbanistiche che imponevano edifici non più alti di 20 metri per non oscurare la cupola del Congresso Nazionale. Barolo, grazie alle sue entrature, riuscì a strappare qualcosa di più consistente, una costruzione 5 volte superiore al massimo consentito. I lavori ebbero inizio nel 1919 e si conclusero nel 1923 anche se i due artefici avevano progettato di trasferire le ceneri nel 1921 in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante. Al momento dell’inaugurazione l’edificio era il più alto dell’America Latina. Quel giorno, il 7 luglio 1923, compleanno del poeta fiorentino, Barolo non c’era più, era morto l’anno prima, senza vedere conclusa la mo-

numentale opera che avrebbe per sempre portato il suo nome. Il palazzo celebra la prosperità dell’emigrante italiano, la storia che si trascina dietro e la cultura della terra natia in un’epoca in cui a Buenos Aires la gente proveniente dall’Italia cominciava a superare per numero i nativi. Mario Palanti, allievo di Brera e del Politecnico, pittore e scultore, costruì il suo capolavoro in uno stile architettonico che mischia elementi del gotico veneziano e architettura religiosa dell’India. A giudizio dello storico dell’architettura argentina Carlos Hilger, Palazzo Barolo è il miglior esempio dell’architettura esoterica tra quelli sorti agli inizi del secolo ventesimo.

L’edificio riflette completamente il sistema letterario e simbolico della Divina Comme-

dia. Sulla cima funzionava un potente faro che si poteva vedere anche dall’altra sponda del Rio de la Plata. Le bugie del faro rappresentano i nove cori angelici e la rosa mistica. Sul faro c’è la costellazione della Croce del Sud, che si può osservare allineata con l’asse di simmetria del Palazzo Barolo nei primi giorni del mese di giugno alle ore 19,45. Il progetto prese le mosse dalla sezione aurea come le misure del Tempio di Salomone e dal numero d’oro, in proporzioni di origine sacre

dovuto riposare sotto la volta centrale, su un piedistallo di bronzo nel piano terra, nel cosiddetto Passaggio Barolo. Quel visionario di Palanti preparò anche una statua di bronzo di 1,50 metri di altezza detta Ascensione, che rappresentava lo spirito di Dante. La statua poggiava i piedi su un condor, a simbolo del viaggio eterno verso il Paradiso. Insomma, Dante sarebbe uscito dal Purgatorio per andare in Paradiso passando dalla Croce del Sud. Ma tutto ciò restò una chimera urba-

nistica, un paradosso architettonico nella città dalla geometria rigorosa, quasi uno zodiaco, secondo Jorge Luis Borges. Le ceneri di Dante non uscirono mai dalla Penisola. La città dove Dante morì di malaria venne effettivamente bombardata durante la seconda guerra mondiale, ma i suoi monumenti, tra cui il tempietto del Sommo Poeta, si sono salvati dal disastro bellico. Oggi sotto il grande passaggio del palazzo si trova una reception in vetro per il portiere da dove partono le visite guidate alle strane forme progettate da Palanti che hanno attratto molti cineasti, tra cui Russell Mulcahy che ha ambientato qui alcune scene di Highlander II del 1991. Durante la visita si prende uno degli undici piccoli ascensori decorati e si sale sino alla sommità del faro. Alla fine resta un certo fascino di mistero, grandezza ed esoterismo, come testimoniano le citazioni dell’edificio da parte del poeta peruviano Alberto Hidalgo e di alcuni brani di tango. Adesso nei piani di Palazzo Barolo sono ospitati soprattutto uffici di avvocati e commercialisti, ma anche appartamenti privati dove hanno vissuto inquilini importanti come l’ex presidente della Repubblica Marcelo Torcuato de Alvear e la pittrice Raquel Forner.

Palanti divenne la firma più prestigiosa del modernismo architettonico argentino costruendo un centinaio di edifici tra cui la Facoltà di Diritto, il Museo di Storia Naturale, il Cinema Presidente Roca, Palazzo Vasena a San Isidro, la Società di Mutuo Soccorso della Boca, lo Chalet Bancalari, e inoltre la Scuola di medicina di Rosario e il Gran Hotel Casinò di Mar del Plata. Non del tutto soddisfatto della ciclopica impresa, Palanti si trasferì a Montevideo dove, in Plaza Independencia, costruì quel Palazzo Salvo di 26 piani, che è considerato una sorta di gemello minore di Palazzo Barolo. Poi, nel 1930, l’architetto fece ritorno in Italia, non trovando però altrettanto successo e vedendo progressivamente perire i suoi progetti. Superò la seconda guerra mondiale, visse a lungo, e fino a quando morì, nel 1979, restò un fedele adepto di Dante. Ogni tanto andava a Ravenna e si fermava davanti al Tempietto. A meditare sul mancato scoop della sua esistenza.


spettacoli

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Sopra, un’immagine del film JJ Abrams, ancora nelle sale cinematografiche itamiane, “Star Trek”. In basso, il logo della sua nuovissima serie tivù “Fringe”,la cui prima stagione, appena conclusa negli States, ha tenuto col fiato sospeso il pubblico americano mmaginate di svegliarvi un mattino. Immaginate di svegliarvi un mattino con un gran dolore alla testa. Un dolore talmente forte da costringervi ad urlare. Preoccupati? E se vi dicessimo che questo non è ancora niente? Che non avete la benché minima idea di quel che di peggio dovrete affrontare ancora nella vostra (breve) giornata? Perché probabilmente vi troverete con la bocca sigillata dalle vostre stesse labbra, incapaci anche solo di emettere il più piccolo suono, destinati a soffocare in pochi istanti.

I

Signore e signori, benvenuti in Fringe, la serie-tv partorita da quel geniaccio di JJ Abrams. Se qualcuno non lo conoscesse, o, peggio, non l’avesse mai sentito nominare, si affretti a recuperarsi le altre serie uscite dall’inesauribile cilindro di questo quarantatreenne newyorkese che hanno spopolato in tutto il mondo, a partire da Alias, per arrivare soprattutto a Lost. Ma si è vivamente consigliati di ripercorrere anche la breve ma formidabile carriera sul grande schermo. Mission: Impossible III ha rivitalizzato una saga che a distanza di qualche anno sembrava ormai risentire del peso del tempo, Star Trek, da poco uscito nelle sale italiane, è uno splendore per gli occhi dei fans d’annata come per chi non ha mai seguito nemmeno uno dei trilioni di viaggi interstellari compiuti dall’Enterprise. Non vi fate dunque spaventare dalla nostra piccola descrizione introduttiva. JJ (soprannome cool che rende la cifra umana ed artistica del personaggio, e che sta per Jeffrey Jacob) Abrams sa come intrattenere il proprio pubblico senza doverlo tenere inchiodato alla sedia attraverso la paura, una scelta di immagini gratuitamente esplicite. Fringe è così sì spettacolare, inquietante, un giusto mix fra il monadismo sottilmente collega-

In tivù. Spopola negli Stati Uniti la nuova serie-culto di JJ Abrams

Tra Lost e Star Trek ha vinto Fringe di Pietro Salvatori to di X-Files e l’inestricabile groviglio di Lost, ma non concede spazio a violenze e forzature senza senso. Insomma, il giusto mix per farne uno dei migliori prodotti d’intrattenimento per il giovedì sera familiare. Ma andiamo con ordine. United States, oggi. Un aereo, il volo 627, atterra con l’intero equipaggio deceduto. Pilota, personale di bordo, passeggeri.

Nessun sopravvissuto, i corpi come mummificati. L’agente dell’Fbi Olivia Dunham è chiamata ad occuparsi del caso, ma ben presto scopre che per farlo ha assoluto bisogno di uno scienziato, Walter Bishop, un arzillo e geniale vecchietto con le rotelle non del tutto in ordine, rinchiuso

ormai da qualche lustro in un istituto di igiene mentale, il quale ha avuto in qualche modo a che fare con la tecnologia usata per provocare la strage del volo

Un aereo, il volo 627, atterra con l’intero equipaggio deceduto. Pilota, personale di bordo e passeggeri tutti morti e con i corpi mummificati. A indagare è l’agente dell’Fbi Olivia Dunham. Tra misteri e intrighi...

627. Con l’aiuto del figlio di lui, Peter, lo tirerà fuori dal manicomio, ed il trio si metterà a lavorare sul caso, tanto insolito quanto inquietante. La tela da dipanare è infinitamente più ampia di quel che la giovane e bella agente immagina al principio: attentati terroristici con mezzi tecnologici mai visti prima, bestie emerse da un passato ancestrale che si sperava mai esistito, mutazioni genetiche bizzarre e micidiali, esperimenti su cavie umane. E se tutto il mondo fosse il tavolo di lavoro per un gigantesco esperimento?

Negli States la prima stagione è ormai finita - il rinnovo per una seconda è stato ovviamente confermato, prima tra tutte le nuove serie per numero d’a-

scolti - e non siamo riusciti a formulare una risposta precisa alla domanda. Se non che Fringe è avvincente, ben costruita, intrigante. Ha il pregio di raccontare una storia profondamente coesa, collegata di episodio in episodio, recuperando anche quella serialità vecchia di un decennio che consentiva anche ad uno spettatore occasionale di gustarsi un episodio qualunque spaparanzato sul divano di casa propria. Oltreoceano, attorno alla massa di estimatori e critici dotati più o meno di senno, si agitano le frange dei contestatori che imputano a Fringe di voler occultamente mirare a far arrestare la ricerca scientifica, esibendone i presunti risultati deleteri.

Sciocchezze, a ben vedere. Anche se il pruriginoso interesse di chi avrà la pazienza di seguire tutte e venti le puntate della prima stagione in parte verrà lenito dalla scoperta della Massive Dynamics, enorme multinazionale del biotech, quale oscura parte in causa di una trama che rimane comunque per larghi tratti indecifrabile, rimandando la soluzione di tutti gli enigmi all’anno che verrà. Certo è che, dopo una parte centrale che rischiava la stagnazione narrativa e adrenalinica, le ultime puntate lasciano la voglia di saperne qualcosa di più. Soprattutto dopo che la mente perversa di Abrams non ci ha offerto per un istante alla vista il profilo di Leonard Nimoy, il celeberrimo capitano Spock di Star Trek, richiamato al lavoro anche per una particina nell’ultimo film della saga diretto proprio dall’eclettico Abrams, che impersona nella serie tv mitologico proprietario della Massive Dynamics. E se considerate che sia in Fringe che in Star Trek si parla di realtà parallele, e di futuri alternativi, non resta che augurarvi una buona permanenza sui vostri divani: dal prossimo settembre al via la seconda stagione.


sport

7 luglio 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Lettera aperta (con qualche suggerimento) al giocatore della Roma più amato di tutti i tempi

Totti, il capitano coraggioso di Francesco Napoli entile Francesco Totti, l’ironia non le manca e anche la capacità di ridere di se stesso, le sue parole e le sue azioni lo dimostrano. Ha guadagnato sul campo, pur con qualche caduta di stile, una consapevolezza e una misura del calcio come gioco che spesso latita, sia tra giocatori che tra dirigenti e satelliti vari di questo pianeta, e anche fuori dal suo ambiente di lavoro ha saputo mostrare queste doti. Bene: ora sarà il nome di battesimo che porta ma osservo come il suo spirito sia quello giusto di una volta, dedito con grande altruismo alla sua Roma, insomma lei mi appare come un giocatore col saio pronto a prender per mano compagni, allenatore e quella sorta di sorella più grande che è la sua datrice di lavoro Rosella Sensi. Ho letto di lei grandi cose passate, presenti e lei è certo anche di un radioso futuro. Le fa onore, naturalmente, questo attaccamento ai suoi colori in un’epoca di voltabandiera e l’idea di poter sventolare ancora per altri cinque anni quale vessillo della sua squadra è senza dubbio nobile. Eppure mi corre obbligo avvertirla, per la stima e la simpatia che le porto, di stare attento a non esporsi troppo ai venti, potrebbe infreddarsi e addio sogni di gloria.

G

Si sente sano e forte, con ogni dolore e acciacco patito fino a non molto tempo fa sparito come d’incanto e per questo vorrebbe giocare tutte le partite, nazionali e internazionali, del prossimo anno. Si riguardi invece, lo faccia per il bene del calcio italiano e della sua Roma, in mezzo al campo ormai corrono tutti come matti e legnano come fabbri quando qualcuno tiene il pallone un po’ più a lungo casomai per trovare lo spiraglio giusto di un assist o quello che lo conduce direttamente a rete. Cosa ne sarà di lei? L’età non è un opinione. A proposito di Nazionale ho letto che ha lanciato una sorta di invito al nostro commissario Lippi dichiarandosi disponibile, «se mi chiama …». Ma non insisterei, il buon Marcello già è alle prese con

una forte spinta a svecchiare l’età media dei suoi moschettieri. Certo, la stima reciproca è tanta, l’esperienza è importante, ma meglio dire “basta ora”o, come ha fatto, riderci su quando le hanno fatto notare che con un contratto prolungato fino al 2014 avrebbe potuto perfino giocare due mondiali, «ma che siete matti?!». Probabilmente ha ragione quel 68% di italiani che secondo un sondaggio lestamente lanciato sul foglio rosa del calcio pensa che sia un errore richiamarla in Nazionale. Ancora un’altra cosa, gentile Totti. Mi piace la convinzione che mette nelle sue parole

Sopra e sotto, tre immagini del capitano della Roma, Francesco Totti. Il giallorosso ha dimostrato ancora una volta di avere carattere e di saper scegliere cose giuste, al momento giusto e quanto crede alla sua “magica” ma non la trasformi in una sorta di Milan 2. Mi spiego meglio: sempre perché l’età non è un’opinione, penso che l’arrivo in giallorosso di un attaccante come Cruz (35 anni) o Sheva (33 anni) sia tutt’altro che determinante per puntare, eventualmente, al titolo. Nulla da dire sulla classe dei due, nulla da eccepire sui tanti gol che hanno messo a segno e sul fatto che avere campioni in squadra è

È sano, è forte, fa spogliatoio e gioco di squadra anche con la famiglia Sensi. Seguitissimo dai tifosi e padre putativo di Daniele De Rossi, dovrebbe però andare più cauto con Lippi sempre un vantaggio, ma appena scrivo questo concetto ho seri dubbi a riguardo, ma messo via Montella-aeroplanino che arrivino uno o più maturi attaccanti serve? E va bene che l’Italia è il Paese europeo dove i ruoli di maggior prestigio e di

potere sono detenuti da uomini dall’età media più avanzata ma, credo, un conto è tenere saldamente la poltrona e un altro conto è tenere saldamente 90 minuti di calcio agli attuali livelli fisici. Se poi invoca Ronaldo come ancora il più grande, e allude al coetaneo di Sheva e non a Cristiano, allora ripensiamoci. Sa invece dove l’ammiro di più? È nel suo discreto vestire i panni di capofamiglia di questa A.S. Roma. Mi piace innanzitutto che abbia tagliato tranquillamente il suo profumato ingaggio, è un bel

segnale verso tutti, dentro e fuori del calcio; è bello, poi, vederla prendere quasi per mano Rosella Sensi, accompagnarla nei meandri della tifoseria romanista e spiegarle cosa è meglio fare e dire per trovare la giusta sintonia con un popolo così caldo e

affezionato; oppure quando si apparta con Luciano Spalletti, ancora trainer della sua Roma e che spera di vederlo ancora in panchina giallorossa fino alla fine della carriera, per raccogliere le sue confidenze. L’avrà, gentile Francesco, certamente indotto a ripensarci su e a restare nella capitale.

Encomiabile, poi, quando fa da chioccia per il suo erede all’impero, l’altro romano de Roma Daniele De Rossi l’ostiense. Dei tanti ruoli che può occupare, e qui concludo e ringrazio per la sua pazienza, la vedo bene, benissimo in questa veste di padre anziano della Repubblica romana del calcio, non un Orazio Coclite o un Fabio Massimo dalle ardimentose e giovanili braccia pronte alla pugna sempre e ovunque, neppure un Cincinnato in procinto di ritirarsi nelle sue terre a godersi moglie e figli, ma una via di mezzo: toh, un novello Marco Aurelio, saggio nel saper dosare le proprie energie e nel conservare l’impero nel suo splendore. Con viva cordialità.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Jerusalem Post” del 05/07/2009

Pronti a colpire l’Iran di Yakoov Katz embra che da Washington sia arrivata la luce verde a Gerusalemme per un eventuale attacco in Iran. Lo dicono le affermazioni del numero due alla Casa Bianca, Joe Biden che ha preso posizione sul diritto d’Israele a difendersi dalla minaccia nucleare di Teheran. Allo stesso tempo il Jerusalem Post è venuto a sapere che la Israel air force (Iaf) ha pianificato la sua partecipazione ad alcune esercitazioni aree con americani ed europei, con lo scopo di incrementare le capacità sulle missioni a lungo raggio. Sul canale americano Abc nella trasmissione di approfondimento This Week, a Biden è stato chiesto se gli Stati Uniti si sarebbero opposti militarmente ad un’azione israeliana contro la minaccia nucleare iraniana. Gli Stati Uniti «non possono imporre a un’altra nazione sovrana ciò che possono o non possono fare», la risposta del vicepresidente. «Israele è in grado di determinare in maniera autonoma – è uno Stato sovrano – ciò che è nel loro interesse riguardo all’Iran o qualunche altro argomento» ha continuato Biden. «Che si possa essere d’accordo o meno, hanno il diritto di farlo. Ogni nazione sovrana ha il diritto di agire. E non ci può essere nessuna pressione esterna che possa cambiare il nostro comportamento sulle scelte da fare». E ha aggiunto che «se il governo Netanyahu ha deciso di cambiare l’atteggiamento sin qui seguito, è nel pieno diritto di farlo. Non dipende da noi». Il primo ministro d’Israele ha affermato che preferirebbe vedere che il programma nucleare iraniano venisse fermato con i mezzi della diplomazia, ma non ha escluso l’opzione militare. Sulla vicenda è stato investito anche l’ammiraglio Michael Mullen, comandante degli Stati maggiori riuniti Usa. Ha ri-

S

sposto diplomaticamente, sottolineando che una scelta sull’Iran e su qualsiasi opzione militare comporta «una decisione politica». «Per un certo periodo, ho avuto alcune perplessità circa un attacco aereo sull’Iran. Temevo che fosse parecchio destabilizzante, non soltanto per l’azione militare in sé, ma per le imprevedibili conseguenze che avrebbe potuto scatenare» ha spiegato Mullen, durante un’intervista alla Cbs. «Allo stesso tempo penso che l’Iran – ha aggiunto l’ammiraglio – non dovrebbe avere armi nucleari, perché sarebbe altrettanto destabilizzante».

Quest’anno le forze aree israeliane parteciperanno a manovre congiunte con un Paese membro della Nato, la cui identità non è stata resa nota. Inoltre a fine mese, la Iaf invierà alcuni caccia F-16 C per partecipare all’esercitazione Red Flag presso la Nellis Air force base nel Nevada. Contemporaneamente alcuni dei C-130 Hercules saranno più a nord, per partecipare alle manovre di Rodeo 2009, alla base di McChord nello Stato di Washington. Funzionari del ministero della Difesa di Gerusalemme hanno spiegato che le esercitazioni programmate oltre Atlantico serviranno per testare le capacita della Iaf nelle missioni a lungo raggio. Già lo scorso anno più di un centinaio di aerei militari avevano partecipato a simulazioni in Grecia. In quello che era stato definito da più parti come una prova per un eventuale attacco agli impianti nucleari iraniani. Israele ha siglato accordi in cui vie-

ne autorizzata da numerosi Paesi al sorvolo del loro spazio aereo. A maggio c’era già stata un’indiscrezione del settimanale francese l’Express, in cui si parlava di manovre dell’aeronautica di Gerusalemme su Gibilterra. Un obiettivo a più di 4mila chilometri da Israele. Nel 2006 l’allora ministro della Difesa aveva firmato un patto con la Romania che prevedeva la dislocazione di reparti in quel Paese per esercitazioni congiunte. È del 1996, invece, il trattato con la Turchia che consente il sorvolo reciproco degli spazi aerei in caso di necessità. La Iaf non ha partecipato alla più recente esercitazione aerea Anatolian Eagle in Turchia. Ma fonti ufficiali non legano questa assenza alle frizioni sorte fra i due Paesi in occasione dell’operazione Cast Lead su Gaza.Voci giornalistiche inglesi affermano che l’Arabia Saudita sarebbe disposta ad autorizzare il sorvolo in caso di attacco all’Iran. Un’ipotesi confermata anche dall’ex ambasciatore Usa all’Onu, John Bolton.

L’IMMAGINE

Concreti pericoli dell’immigrazione non prevista e soprattutto non governata L’Italia - e l’Europa - sono assediate dalla marea montante migratoria. La piena non frenata d’immigrati ne richiama altri (tam tam). Conduce a grave disintegrazione la cittadinanza concessa a immigrati che rifiutano le regole di convivenza della nazione ospitante. Le sanatorie per clandestini non eliminano il difetto originario dell’entrata illegale. Dare il diritto di voto a extracomunitari – specie islamici – rischia di renderli intoccabili su marciapiedi, nonché d’imporre le loro feste religiose ed eventualmente il chador alle donne, la poligamia e la clitoridectomia. L’islamismo è teocratico, considera “infedele”l’occidentale, nega la reciprocità, non separa fra Stato e Chiesa, non conosce i diritti umani. Quasi tutte le culture non bianche considerano “inferiore”la donna. È accoglibile una popolazione allogena del dieci per cento, ma non del venti per cento: comunque, l’eccessiva intensità del flusso clandestino verso l’Italia reca pure nuova criminalità ed eventuale terrorismo.

Gianfranco Nìbale

L’IMMAGINE ASSENTE L’invito fatto da Veltroni a George Clooney dimostra ancora una volta come esista un conflitto di interessi sull’entità scenica dei ruoli da mostrare al G8. La sinistra, che ha ritardi di immagine, pesca al di fuori della propria realtà per affiancarsi icone di pace d’oltreoceano, quando ancora deve riuscire ad intrecciare delle serie relazioni con il presidente Obama, che lo stesso Veltroni tanto aveva idolatrato nell’affermazione comune di un “we can”, ormai scordato dalla stessa opposizione. Al di là del caso scoppiato, occorre riflettere su tali realtà, perché la vera impressione sulla gente e sulle manifestazioni internazionali, è rappresentata dalla grinta giovanile dei nuovi volti che la po-

litica della destra sta mostrando al Paese, e che irrita non poco ai delatori del governo.

Bruno Russo

LE POLTRONE DEL G8 Al seguito dell’antico messaggio dalemiano che fu, le scosse di assestamento si susseguono sul suolo abruzzese, e il presagio diventa pesante per coloro che riempiono le poltrone del G8. Il buono che il governo fa resta nell’indifferenza delle cose scontate: fare il summit in Abruzzo significa aiutare e stare vicino a della gente che sta soffrendo e che soffrirà ancora a lungo, almeno fino a quando la terra e i messaggi alla Cassandra non cesseranno, e si inizierà a capire che stiamo in un era nella quale i cambiamenti

Solito tran tran Con l’età si sa, si diventa tutti un po’ abitudinari. Ma questa tartaruga delle Galapagos (Geochelone nigra), che può vivere oltre cent’anni, è quasi maniacale! Talmente metodica che ogni giorno, per raggiungere le radure dove trova il cibo, percorre sempre lo stesso identico sentiero, lasciando col tempo, i segni delle zampe nel terreno, quasi scolpiti

climatici, i movimenti tellurici e la prevenzione ambientale sono un tuttuno, per cui la sinistra deve rivedere molto dei suoi slogan passati e adeguarli a quelli futuri, invece di guardare solo nelle sfere di cristallo delle approssimazioni politiche e fingere di essere moderna.

Barbara Rampini

STRUMENTALIZZAZIONE DELL’IMMIGRAZIONE DI MASSA L’esterofilia, il multiculturalismo spinto e il sostegno di migrazioni indisciplinate costituiscono imperanti mode intellettuali. Si critica la legge sul pacchetto sicurezza e sul reato di clandestinità, mentre altri Stati hanno norme più severe. Per lo-

ro interessi, potenti gruppi particolaristi vogliono l’accoglienza illimitata: strumentalizzano l’immigrato, come “dipendente”, elettore, fedele, consumatore, lavoratore a basso costo e utente del business assistenzialista. È“schiavismo”, secondo un manifesto della Lega.

Rodolfo Vicenza


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Qui è una totale catastrofe Christien, sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno. Stamattina presto, la fila dei vagoni merci ha fatto il suo ingresso nel campo fangoso. Io stavo da una parte, e per una stretta apertura in alto, in un vagone, ho scoperto il cappello sgualcito e gli occhiali di mio padre, il cappello della mamma e il magro viso di Mischa. E ora li accompagnerò nella loro via crucis, sono riconoscente di essere qui e di poter alleviare la loro vita in molte piccole cose - sebbene in questo momento non ci sia proprio nulla da alleviare. Qui è una totale catastrofe. Nelle ultime ventiquattr’ore il campo è stato inghiottito da grandi ondate di ebrei. Ma devo dire che papà, la mamma, e anche Mischa mi hanno sbalordita. È vero che papà è completamente indifeso, che in queste ore il suo colletto è diventato troppo, troppo largo e che la sua ispida barba grigia fa tanta pena. Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavamo per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosuè. Ora stanno in una delle grandi baracche, un magazzino umano stipato al massimo dove ogni tre persone ci sono due strette cuccette di ferro, nessun materasso, nessuna possibilità di riporre qualcosa. Etty Hillesum a Christine van Nooten

ACCADDE OGGI

QUEL “PINOCCHIO” DI MARONI Il 1 Luglio insieme ad altri colleghi del consiglio nazionale del sindacato di base anche qualche alessandrino ha partecipato e dato vita ad una colorita improvvisata manifestazione di protesta “i pompieri in bicicletta al Viminale”! La consegna di un pinocchio di pezza al ministro Maroni è stato il top dell’iniziativa. Tutto questo non perché siamo goliardici pompieri ma perché questi governanti hanno bisogno di qualche scossone ogni tanto! I Vigili del Fuoco sono stanchi delle belle promesse e non sappiamo piu dove mettere tutte le medaglie che ci conferiscono; con le medaglie non ci paghiamo mica l’affitto o le rate del dentista! Belle parole dopo il tragico sisma in Abruzzo, belle parole dopo i soccorsi a Viareggio, belle parole dopo l’ultimo Consiglio dei ministri dell’altro giorno; ma restano sempre le bollette da pagare! Come RdB non siamo scesi in piazza solo per rivendicare stipendio e contratto ma anche per rivendicare un piano di ammodernamento delle nostre attrezzature partendo da quelle di colonna mobile. Abbiamo automezzi del 1980 e con tutta la buona volontà e non poca perizia è dura arrivare con queste attrezzature in tempi rapidi da tutta Italia in Abruzzo; rivendichiamo convenzioni con gli enti locali per tenere in aria, è proprio il caso di dire, i nostri elicotteri VF; convenzioni simili a quella della Liguria con il 118! E non come accade oggi che gli elicotteri VF sono solo a disposizione di ministri e sottosegretari e varie autorità per sorvolare l’evento tragico del momento.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

7 luglio 1990 Italia-Inghilterra 2-1. Terzo e quarto posto ai mondiali 1991 L’accordo di Brioni pone fine a dieci giorni di guerra d’indipendenza in Slovenia 1994 Aden viene occupata dalle truppe dello Yemen del Nord 2001 Muore Tony Pagot, fumettista creatore del piccolo pulcino nero Calimero 2005 Sequenza di attacchi terroristici sconvolge Londra: quattro esplosioni si verificarono in punti diversi della città: Cinquantasei morti e diverse centinaia di feriti 2006 Viene pronunciata la sentenza di II grado del processo per l’attribuzione delle responsabilità nell’ambito del disastro aereo di Linate dell’8 ottobre 2001 2007 Live Earth, catena di concerti in tutto il mondo, per sensibilizzare l’umanità sul surriscaldamento globale cui partecipano 150 star della musica come Madonna, Shakira, The Red Hot Chili Peppers e Genesis

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

A Viareggio così ci è stato segnalato che erano parcheggiati 4 elicotteri dei Vigili del Fuoco e nessuno di questi era impegnato nelle operazioni di soccorso. Un elicottero AB412 costa 3000 euro l’ora quando è in volo! Crediamo che i contribuenti sarebbero lieti di pagare queste cifre per un soccorso ma anche meno lieti di pagare queste cifre per i vari politici di turno che ne usufruiscono. I Vigili del Fuoco di Alessandria sono molto attivi nella politica sindacale del Corpo! Come sindacato di Base ci siamo da subito attivati appena ci è stata comunicata la notizia che il dirigente di Alessandria è stato trasferito ad altro incarico. Si volta pagina e si ricomincia. Abbiamo chiesto l’apertura di un tavolo di confronto presso il Comando per impostare la nuova rotta, abbiamo sollecitato il capo del Corpo, ing. Gambardella e il direttore per il Piemonte al fine di una celere assegnazione di un nuovo Dirigente e nel frattempo abbiamo sollecitato una consona reggenza, manifestando con fermezza inaccettabili forme di compromesso. L’organico della sede di Alessandria conta una drammatica carenza di personale operativo e di funzionari e non ce la passiamo neppure benissimo con il settore amministrativo demansionato, come tutti, dalla riforma del rapporto di lavoro, in parole povere con il passaggio contrattuale da un regime privatistico (dove eravamo dignitosamente collocati prima) all’attuale pubblicistico alla stregua dei poliziotti e delle guardie carcerarie.

Vladimiro Alpa

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

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Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

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LA CONVIVENZA FRA CULTURE DIVERSE SOPRA UNO STESSO TERRITORIO È QUASI IMPOSSIBILE Ricordo che all’inizio degli anni ’80 in un ospedale francese arrivò una neonata di circa tre mesi affetta da cospicua emorragia. Il padre musulmano aveva ottemperato ai dettami religiosi e con un coltello da cucina (così come prescritto) le aveva tagliato le grandi labbra prima del compimento del terzo mese. La polizia presente in ospedale aveva dato avviso al tribunale e era partita la denuncia per lesioni aggravate a minorenne. L’accusa sostenne questa tesi, la difesa ribadì ricordando la libertà di religione e di culto. Ora se immaginiamo i principi fondanti della nostra civiltà come basi di immense colonne che si innalzano poi in modo complesso formando una struttura di stile gotico, ci è semplice indurre come i giudici si trovarono in grande imbarazzo nel decidere, poiché o toglievano la base di una colonna o toglievano la base all’altra, minando così comunque la stabilità di sistema. La cosa si concluse con una condanna minima con la condizionale, ma pose il problema di conservazione del nostro sistema giuridicoculturale. Norbert Rouland magistrato e sociologo francese giunse, dopo lunghe elucubrazioni, alla conclusione che la convivenza fra culture diverse sopra uno stesso territorio è quasi impossibile. Proprio perché l’accettazione di alcuni principi dell’una nega automaticamente i principi dell’altra e quindi la sua tradizione culturale provocando un sisma di sistema. Mi chiedo quindi se chi con buonismo accattivante per le masse diffonde buone intenzioni si sia poi posto domande così approfondite prima di dar fiato ai suoi pensieri. Ricordo poi che nell’analisi dello Stato che condusse Norberto Bobbio si leggeva che il monopolio della forza fisica in uno stato democratico appartiene in via esclusiva allo Stato. Ora, regolamentate o meno, le ronde sono la negazione di questo principio, un’altra base di colonna dalla quale si irradiano molte altre colonne e soffitti di sistema. Mi chiedo se gli opposti schieramenti si rendano conto che provvedimenti, discussioni, prese di posizione pubbliche in realtà prescindano dalla preoccupazione di conservare un meccanismo sedimentato su principi e cultura millenari. Forse chi riceve mediaticamente le comunicazioni non realizza anch’egli il pericolo dell’invalidazione di sistema, ma ciò non toglie la responsabilità di chi agisce in sede politica di farsi carico di questo problema. Anche perché non vedo dove si possa andare poi a reperire un sostituto. Questo atteggiamento crea solo scompiglio e confusione in una società in cui le relazioni di ruolo sono già abbastanza “liquide”. Marina Rossi PRESIDENTE CIRCOLI LIBERAL CITTÀ DI MILANO

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Nuove mode. Da anni in Baviera, sul canale dell’Eisbach, si scivola di nascoso sulle onde. Ora è legale

Surfisti d’acqua dolce, a… di Silvia Marchetti l surf a Monaco sarà finalmente legalizzato. Pare che dopo anni di testardaggine i politici locali abbiano capito l’attrattiva turistica, e quindi economica, dell’Eisbach, il canale spazzato da forti raffiche di vento dove i surfisti fuori-legge dal 1970 cavalcano le onde corte ma tremende.

I

Fare surf nell’Eisbach, che confluisce nel fiume bavarese Isar, è diventato un vero fenomeno nazionale, quasi un’istituzione come l’Oktober Fest. Uno sport anomalo che ha trasformato Monaco di Baviera in una località a dir poco balneare. Negozi di windsurf tappezzano il centro cittadino, si vedono file di vetrine che espongono tutto il necessario per lucidare la tavola, oltre ai costumi stile uomo-rana e creme da sole. Qui, ormai da decenni, si riuniscono i patiti del surf, alcuni vengono perfino dalla Hawaii e dalla California e organizzano party nei maggiori pub della città. Ai primi di giugno si è tenuta una gara di “river-surfing”, come è stata ormai soprannominata questa pratica sportiva. E vero, il nord della Germania ha la sua costa, anche ventosa, ma il miglior surf si fa a sud, nel cuore del paese. Ogni weekend stormi di autobus, specie ora d’estate, rovesciano turisti e amanti della tavola da surf. Insomma, in tempi di crisi economica le autorità locali si sono rese conto che forse la panacea a molti mali sta racchiusa proprio nell’amatissimo canale di Eisbach. Fare surf qui è sempre stato illegale. È pericoloso, il vento che s’infila tra le pareti del canale è violentissimo e ha già fatto tre morti nel 2007. Anche nuotare è vietato. C’è una parte del canale, a ridosso di un ponte, dove il letto è leggermente rialzato ed è proprio questa differenza di livello a dare vita a onde alte poco più di un metro, ma con una forza travolgente. Sta di fatto che, nonostante la sua pericolosità, il divieto di fare surf nell’Eisbach sta per cadere. Le autorità, che a un certo punto avevano persino pensato di modificare il letto del canale per eliminare definitivamente le piccole onde anomale, ora vogliono legalizzare il surf e addirittura tutelarlo come “sport nazionale”. Ma ci sono alcuni impicci. Primo, bisognerà includere nel regolamento cittadino la balneazione e il surf, oggi assenti. Secondo, manca qualsiasi cornice giuridica che regolamenti lo sport stabilendo alcuni paletti, soprattutto non ci sono disposizioni igienico-sanitarie per l’utilizzo delle acque che non siano a fini di trasporto o commerciali. Ma non si perde tempo e l’assessore alla sanità e all’ambiente di Monaco sta già mettendo a punto una legislazione ad hoc per regolamentare il “riversurfing”. Poi c’è il problema delle responsabilità in caso di incidenti nell’Eisbach. La regione della Baviera vuole legalizzare il surf ma non intende farsi responsabile di qualsiasi sinistro. Inoltre, lo status legale del canale è complesso: la Baviera è proprietaria del corso d’acqua ma la responsabilità oggettiva di qualsiasi cosa attraversi o accada tra le onde è del comune di Monaco. Ma il potenziale di attrattiva turistica e i profitti legati al

MONACO fenomeno hanno fatto sì che le autorità trovassero un accordo.

Il ministro delle finanze della Baviera, Georg Fahrenschon, che si è fatto eleggere al parlamento locale con la promessa di legaliz-

le alla città. In questo modo il comune di Monaco diventerebbe di fatto l’unico responsabile dell’Eisbach e potrà implementare un piano per legalizzare lo sport. Il sindaco ha tutte le intenzioni di accettare ciò che lui definisce “un regalo generoso” dei suoi colleghi ai livelli più alti, ma oltre ai benefici economici si beccherà anche le grane di futuri incidenti acquatici. In ogni caso, il “river-surfing”avrà una corsia privilegiata nei meandri della burocrazia statale e presto non ci sarà più bisogno di infrangere la legge per cavalcare le piccole ma suggestive onde dell’Eisbach. Intanto i surfisti già fanno festa. La stagione è iniziata, l’acqua del canale si è riscaldata e nei prossimi giorni si terranno altre competizioni. Incuranti dei divieti ancora in piedi, i surfisti hanno anticipato i tempi e lungo gli argini del fiume sono stati esposti enormi cartelloni recanti la scritta «È permesso fare surf!».

Fare questo sport qui è pericoloso: il vento che s’infila tra le pareti del canale è violentissimo e ha già fatto alcuni morti. Anche nuotare è vietato. Le onde, dovute a un leggero dislivello, sono alte poco più di un metro, ma con una forza travolgente zare il “river-surfing”, ha fatto una proposta al sindaco di Monaco Christian Ude. In partica, lo Baviera vuole “trasferire” la proprietà del canaIn alto, un surfista «clandestino» lungo le acque del canale dell’Eisbach, prima della confluenza nell’Isar


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