Non conosco una via infallibile per il successo, ma solo una per l’insuccesso: voler accontentare tutti
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Platone di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 11 LUGLIO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un successo per l’Italia l’ultimo dei vertici a otto. Il presidente Usa: «L’Aquila ci resterà nel cuore»
L’Africa unisce il mondo Venti miliardi contro la fame. Ma il G8 chiude con tanti nodi irrisolti
Finora abbiamo “ingrassato” governi corrotti Chi sono i “padroni” del continente nero
Il ministro inglese traccia il bilancio
Dal summit all’incontro col Papa
Basta soldi a pioggia. Il vero nemico Ben venga il G20:ma C’è un solo È molto meglio però è il nuovo serve di più cambiare trionfatore: aiutarli a fare da soli colonialismo modello economico Barack Obama di Gennaro Malgieri
di Enrico Singer
di Peter Mandelson
di Franco Insardà
L’impegno non poteva che essere generico e d’indirizzo. Soltanto chi crede che nelle mani del G8 risieda il governo mondiale, poteva immaginare qualcosa di più per l’Africa.
Il G8 ha riconosciuto che la crisi globale ha «colpito duramente i più poveri» e che è «necessario attivarsi per proteggere i più vulnerabili». Per questo ha stanziato 20 miliardi di dollari in tre anni.
Individuare uno o più colpevoli della crisi finanziaria che ha colpito il pianeta si è dimostrato più difficile di quanto sembrasse. Per questo serve un nuovo modello economico globale.
Dal punto di vista dei risultati è stato un vertice debole: ma ha creato un leader forte. Il vero trionfatore del G8 è stato Barack Obama. È cominciata ufficialmente la sua èra...
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Anacronistica la manifestazione di ieri
La “double face” del premier
Il dissidente cinese sulle stragi in Xinjiang
Iran: un saggio del grande storico
Come è vecchio Berlusconi statista: Io denuncio Il grande scontro ormai definirsi perché non si può le bugie di Pechino tra teocrazia “no global”! averlo sempre così? contro gli uighuri e democrazia di Giuseppe Baiocchi
di Giancristiano Desiderio
di Wei Jingsheng
di Ernst Nolte
La manifestazione “no global”è sembrata più una malinconica adunata di reduci che la legittima contestazione ai potenti della Terra, in nome di nobili ideali di giustizia universale.
Diciamolo subito con una battuta: Berlusconi dovrebbe passare definitivamente dal doppio petto al monopetto. Il vestito “buono” è quello che ha indossato all’Aquila in questi giorni.
Il 5 luglio sono scoppiati disordini su vasta scala a Urumqi, nello Xinjiang. La sommossa ha avuto inizio quando migliaia di uighuri si sono riversati per le strade a protestare pacificamente.
Con febbrile attenzione, il mondo volge lo sguardo alla Repubblica Islamica dell’Iran: le elezioni presidenziali non hanno avuto l’esito auspicato da molti nel mondo occidentale.
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s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
136 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 11 luglio 2009
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Summit/1. L’ultima giornata del vertice dedicata agli interventi per favorire lo sviluppo delle zone più depresse del mondo
Si fa presto a dire Africa
Venti miliardi in tre anni contro la fame: una decisione importante. Ma nasconde il vero problema del Continente: il nuovo colonialismo di Enrico Singer on c’è stata soltanto la storica stretta di mano tra Barack Obama e Muammar Gheddafi. Il G8 ha chiuso il suo vertice di tre giorni a L’Aquila con un pacchetto di impegni concreti concordati con la delegazione dell’Unione africana, guidata dal leader libico che ne è il presidente di turno. Venti miliardi di dollari in tre anni di aiuti, più la nascita di un “partenariato per l’acqua”che, con altri fondi, dovrebbe avviare a soluzione uno dei problemi più gravi del continente dove due milioni di bambini muoiono ogni anno proprio per la mancanza di acqua potabile. Il G8 ha riconosciuto che la crisi globale ha «colpito duramente i più poveri» e che è «necessario attivarsi rapidamente per proteggere i più vulnerabili». Per i Grandi, insomma, una conclusione all’insegna della solidarietà che ha messo tutti d’accordo. Un altro punto positivo nel bilancio del summit. Anche se, a proposito dei 20 miliardi di aiuti diretti, gli Otto non hanno fatto altro che confermare quanto era stato già deciso, in aprile, nel G20 di Londra e lo stesso partenariato per l’acqua non è una novità assoluta perché i leader africani lo avevano proposto nel vertice tenuto lo scorso anno dall’Ua a Sharm el Sheikh e da allora gli sherpa si erano messi al lavoro per arrivare all’accordo di ieri.
N
Passi avanti, comunque. Che non sarebbe giusto sottovalutare. Così come non sarebbe giusto archiviare nel capitolo delle semplici cortesie diplomatiche la stretta di mano tra il nuovo presidente americano e l’uomo che Ronald Reagan definì un «cane pazzo». Eppure dal G8 è rimasto fuori quello che, oggi, è il vero flagello dell’Africa. Il colonialismo economico che, non a caso, vede nella parte dei conquistatori la Cina, l’India, i Paesi arabi e le altre tigri asiatiche che non fanno parte del salotto buono dei Grandi. I nuovi proprietari dell’Africa, però, sono proprio loro: indiani, cinesi, arabi, sudcoreani. I governi africani stanno vendendo loro la terra migliore, quella coltivabile. Il vertiginoso aumento dei prezzi degli alimentari prima, e la crisi economica poi fanno da tempo tremare le vene dei polsi a Pechino, Dehli, Rihyad, Seul che, a modo loro, sono corsi ai ripari. La necessità di assicurarsi una produzione agricola ancora a buon prezzo ha spinto questi Paesi - che erano già sbarcati in Africa a caccia di petrolio, metalli e altre materie prime - a fare incetta
di terre per assicurarsi riso, mais, olio di palma. Nell’immaginario collettivo l’Africa è sinonimo di deserti e di aride pianure abitate da leoni. Ma la realtà è molto diversa. Ci sono milioni e milioni di ettari di terra ricca, fertile, non sfruttata per mancanza di mezzi, e soprattutto, di organizzazione delle risorse umane.
C’è un rapporto che s’intitola Land Grab or development opportunity?
(Incetta di terre o opportunità di sviluppo?) che è il risultato di un’inchiesta delle due agenzie Onu per l’agricoltura - la Fao e l’Ifad - in Sudan, Etiopia, Madagascar, Ghana e Mali che rivela una realtà sconvolgente. Soltanto negli ultimi cinque anni due milioni e mezzo di ettari di terreno sono stati ceduti per venti, trenta, novanta anni, in molti casi per sempre, come colonie agricole. E gli uomini che vivono su queste terre sono stati venduti con loro come ai
Cina, India e Paesi arabi stanno comprando a prezzi irrisori milioni di ettari di terra per produrre derrate alimentari e biofuel per i loro bisogni. E la povertà delle popolazioni locali aumenta tempi della servitù della gleba, o delle “anime morte” della Russia imperiale descritta da Gogol. O, semplicemente, del colonialismo. Che oggi non arriva dalla Vecchia Europa, ma dalle autocrazie arabe del petrolio, dalla Cina, dall’India e dalla Corea del Sud. Seul poissiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino 2,1 milioni, l’Arabia Saudita 1,6 milioni, gli Emirti 1,3 milioni. Terra acquistata a prezzi irrisori. In Sudan il feddan (poco meno di mezzo ettaro) vale 30 centesimi di dollaro. E gli stipendi degli africani
Il premier indiano Manmohan Singh: l’India, con la Cina, è uno dei nuovi colonialisti alla conquista dell’Africa. Nella pagina a fianco, la stretta di mano tra Obama e Gheddafi e un miliziano somalo
che sono usati solo come bassa manovalanza - perché la gestione delle colonie agricole è affidata a tecnici e amministratori viene da fuori - sono un’elemosina. Nelle terre comprate da Pechino, poi, anche la manodopera arriva dalla Cina. Entro il prossimo anno ci saranno in Africa un milione di operosi contadini cinesi, addetti alle una rete di 14 gigantesche fattorie in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. Metteranno a coltura nuove varietà ibride di riso che aumentano la produzione del 60 per cento e che finiranno sul mercato cinese.
Il nuovo colonialismo è ancora più avaro con gli africani: prevede che nulla sia lasciato sul posto. Le navi trasportano già in Cina grandi quantità di legno pregiato degli alberi tagliati per fare posto alle coltivazioni ed anche pelli di animali. Tutto nel silenzio, e con la connivenza, dei governi africani che hanno firmato i contratti. Una volta erano la United Fruits, la Dole o la Michelin a comprare interi Stati per trasformarli in monocolture di gomma o di banane. E facevano e disfacevano governi e presidenti. Ora sono le compagnie pubbliche cinesi o quelle private indiane e arabe a fare il bello e il cattivo tempo in molti palazzi del potere africani. Anche se non tutti sono disposti a svendere. In Madagascar il contratto stipulato tra la sudcoreana Daewoo e il governo dell’ex presidente Marc Ravalomanana ha suscitato una rivolta tra i contadini, tanto da diventare la miccia di una crisi istituzionale. La Daewoo aveva ottenuto la concessione di 1,3 milioni di ettari per 99 anni che prevedeva la coltivazione intensiva di palme da olio e di mais. Ravalomanana è stato costretto alle dimissioni e il leader dell’opposizione, Andry Rajoelina, ha preso la guida del paese e, per ora, ha sospeso il contratto con la Daewoo in attesa di tempi migliori. Ma, per lo più, lo shopping dei nuovi conquistatori dell’Africa avviene nel silenzio e nell’indifferenza delle grandi potenze, come il anche questo G8 ha dimostrato. E i due grandi protagonisti della corsa alle terre africane restano Cina e India. Da tempo impegnate in uno scontro a distanza per accaparrarsi contratti petroliferi e materie prime in ogni parte del mondo a sostegno della loro espansione economica, Cina ed India si confrontano ora anche sul campo dell’agricoltura. Lo stesso ambasciatore indiano in Etiopia, Gurjit Singh, ha ammesso che il suo Paese ha investito nel 2008 due miliardi di dollari per l’affitto di terre etiopiche e la costruzione di impianti per produrre tè e zucchero. Se l’India fa i primi passi in questo settore, la Cina è già lanciatissima.
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Drammatica impennata di violenza dei radicali di al Qaeda
Sette esecuzioni: la risposta somala di Pierre Chiartano e agenzie di tutto il mondo ieri hanno battuto i take sulla decapitazione di sette cristiani in Somalia. Nella città di Baidoa sarebbe avvenuta la macrabra esecuzione. Purtroppo in Somalia, come nello Yemen, le notizie non sono sempre verificabili, infatti altre fonti giornalistiche ridimensionerebbero l’accaduto, spogliandolo della valenza di ritorsione di carattere puramente religioso. Si tratterebe di un’operazione mediatica, condotta dalle milizie islamiche somale, denominate Giovani Mujahidin, considerate vicine al brand di al-Qaeda.
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Nei primi lanci si parlava di sette persone uccise, nella città di Baidoa, accusate di essere «cristiani» e «spie». Secondo quanto riferivano fonti locali, citate dal sito arabo al-Seyassah, i cosiddetti Shabab (in arabo giovani), avrebbero ucciso sette persone accusandole di essere di fede cristiana e quindi degli apostati. La stessa fonte sosteneva che solo un mese fa gli estremisti islamici avrebbero ucciso altre persone in quella zona, in applicazione di una norma della sharia islamica. Si tratterebbe, in realtà, di tre poliziotti che erano stati arrestati circa due settimane fa, dopo che gli integralisti islamici che controllano Baidoa (490 km ad ovest di Mogadiscio, già capitale provvisoria della Somalia) avevano accertato che si erano recati appunto a Mogadiscio dove avrebbero fornito informazioni riservate al governo, in cambio di danaro. Due sarebbero stati decapitati pochi giorni fa, il terzo sarebbe ancora in prigione. «A parere di osservatori attendibili, la notizia diffusasi ieri della decapitazione di sette persone di religione cristiana, rientra in una strategia mediatica degli integralisti, che vogliono così mostrarsi implacabili difensori contro i cosiddetti infedeli» riportava un’agenzia di stampa di ieri pomeriggio. Comunque gli insorti islamici, ritenuti in larga misura un’emanazione di al Qaeda, controllano buona parte della Somalia, e il rischio di un nuovo Afghanistan sulle coste dello strategico Golfo di Aden si fa sempre più concreto. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha denunciato ieri da Ginevra le gravi violazioni alle leggi internazionali umanitarie commesse in Somalia, mentre proseguono i combattimenti tra i ribelli e le forze governative a
Mogadiscio e nel centro-sud del Paese. Lo afferma un comunicato delle Nazioni Unite in cui si ipotizzano anche «crimini di guerra» imputabili agli estremisti islamici vicini ad al Qaeda.
«In questa nuova ondata di attacchi - si legge in un comunicato sul sito dell’Alto commissariato - è chiaro che i civili, in particolare donne e bambini, stanno subendo il peso delle violenze. C’è bisogno di un ulteriore grande sforzo per proteggere i civili. I difensori dei diritti umani e i giornalisti sono fra le persone più esposte, e in qualche caso sono prese direttamente di mira». Infatti sei reporter sono stati uccisi nella capitale Mogadiscio dall’inizio dell’anno. Fonti provenienti dall’ambiente dei rifugiati somali hanno indicato nel gruppo fondamentalista islamico degli Shabaab – secondo gli Usa legati ad al Qaeda – i maggiori responsabili delle atrocità e delle violenze contro i civili. «Gli Shabab hanno condotto esecuzioni extragiudiziali, piazzato mine, bombe ed altri dispositivi nelle aree dei civili che vengono spesso utilizzati come scudi umani - riporta l’Onu in base alle testimonianze - I combattenti di entrambe le parti torturano i civili e sparano indiscriminatamente colpi di mortaio sulle zone densamente popolate».
Per l’Onu, nelle aree controllate dagli estremisti ci sono tribunali che condannano alla lapidazione o alla decapitazione
Un altro studio internazionale, quello dell’Istituto di ricerca sulla politica alimentare (Ifpri), rivela che negli ultimi tre anni sono state vendute anche altre terre in Africa per una superficie equivalente a tutto lo spazio coltivabile della Germania (15-20 milioni di ettari) e che, di queste, Pechino ha comprato circa 2,8 milioni di ettari di terra soltanto in Congo per sviluppare piantagioni di palme da utilizzare per la produzione di biodiesel. Il “carburante verde” è l’altra grande molla del nuovo colonialismo economico. Che non si ferma nemmeno di fronte alle guerre civili che insanguinano alcune regioni del continente, come il Darfur. Il ricercatore tedesco Uwe Hoering ha denunciato sulla newsletter World Economy and Development l’operazione quantomeno imbarazzante del banchiere americano Philippe Heilberg che ha firmato un accordo con uno dei signori della guerra del Sudam meridionale, Paulino Matip, per l’affitto di 4.000 chilometri di terra in cambio di dollari finiti nell’acquisto di armi.
Pezzopane, Murray ...e fantasia! Scene (quasi) da 9 settimane e 1/2 al G8 dell’Aquila. Gli attori? Clooney, Murray e la presidente della Provincia aquilana Pezzopane. Il fatto: dopo una conferenza stampa la donna viene provocata dal pubblico: «Stefania, bacia Clooney». Lei non ci pensa due volte: va da lui e incassa il bacio. Murray vede la scena, le si avvicina, la abbraccia, la bacia, la prende di peso e la “deposita” sulla scrivania del palco. La Pezzopane arrossisce ma poi, un po’ a fatica, sta al gioco e tira uno schiaffetto a Murray. Lui insiste, la abbraccia di nuovo e la bacia in maniera romantica. Ovviamente, giù dal palco, risate da parte degli sfollati della tendopoli di San Demetrio, coi videofonini subito puntati.
L’Alto commissario denuncia inoltre un aumento dei reclutamenti clandestini tra adolescenti dai 14 ai 18 anni da parte delle forze combattenti. «Qualcuno di questi atti può significare crimini di guerra», ha tuonato la commissaria Pillay. «È vitale che i combattimenti e le violenze cessino il prima possibile», si legge ancora nel comunicato, sebbene l’Onu ammetta che è difficile influenzare le forze combattenti «nella situazione di anarchia» che coinvolge la maggior parte della Somalia. Funzionari dell’Onu riportano «racconti credibili» sui gruppi di insorti: nelle aree controllate dagli estremisti islamici funzionano dei tribunali improvvisati che condannano a morte civili per lapidazione o decapitazione. Al Shabaab avrebbe anche distrutto dei cimiteri appartenenti ad altri credi. Ricordiamo che la Somalia da 6 anni è sommersa da un fiume di denaro proveniente dalle charity saudite – soldi che hanno anche raggiunto gli Shabab – col chiaro intento di trasformare quel Paese in una enclave wahabita del Corno d’Africa.
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Summit/2. Oggi è di scena la questione africana. I grandi affrontano il tema del sostegno allo sviluppo
Basta soldi. Aiutiamoli Per risollevare il Continente Nero servono progetti concreti, non finanziamenti a pioggia nelle mani dei dittatori di turno di Gennaro Malgieri impegno non poteva che essere generico e d’indirizzo. Soltanto chi crede che nelle mani del G8 risieda il governo mondiale, poteva immaginare qualcosa di più. Come quel tale Bob Geldof, cantante in disarmo, icona mediatica per non si sa quali meriti, che si è assunto, senza che nessuno glielo abbia conferito, l’onere di rappresentare il disagio globale. Lui, che ha un patrimonio valutato in trenta milioni di sterline e immobili intestati a società offshore e che tasse, dunque, alle quali attingere risorse per i Paesi sottosviluppati, non ne paga, dà lezioni a chiunque al punto che un giornale italiano si è messo a sua disposizione per fargli tenere un sermone dai toni apocalittici ed ammonitori. Abitualmente si comporta con l’arroganza tipica dei duri e puri, come ha fatto incontrando Silvio Berlusconi, nei giorni scorsi a Palazzo Chigi. Ma come l’ex-cantante sono in tanti a ritenere ingenuamente che i “vertici” mondiali possano risolvere problemi di portata epocale, a cominciare dalla disperazione dell’Africa. Certo, interventi sono in condizione di farne i Paesi maggiormente sviluppati, ma l’immenso Continente che assomma dentro di sé tutte le contraddizioni della modernità, della decolonizzazione, dei conflitti delegati ha bisogno di ben altro. Ha bisogno di credere in se stesso. E questo il “mondo libero” non sembra permetterglielo.
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Anche dalla lettura del Promemoria per l’Africa, elaborato per il summit de L’Aquila, si ricava la sensazione di una sorta di rassegnazione all’impotenza. Come nel luglio 2005, al vertice di Gleneagles, in Scozia, la comunità internazionale riteneva di aver compiuto uno sforzo sovrumano nella soluzione del problema africano. I Grandi quantificarono in 25 miliardi di dollari l’anno gli aiuti destinati all’Africa entro il 2010. Il Finacial Times ha rivelato che il G8, in un recente documento, ha
cancellato quella decisione. Probabilmente l’ha soltanto rimandata. Fatto sta che verso il continente africano è arrivato poco o niente dai Paesi industrializzati. Con gli intenti manifestati a L’Aquila, sembra quasi che tutti si siano voluti mettere l’anima in pace immaginando una “globalizzazione sostenibile ed inclusiva”. Il documento, ricco si stimoli e
l’Africa, vi sia da parte dei governi un serio discernimento nel prodursi in opere più che caritatevoli (servono a poco), in azioni promotrici di sviluppo permanente nella prospettiva di riscattare un Continente il cui “riordino”riguarda tutto il mondo, perfino quello che si ritiene lontano da esso.
Non servono, insomma, le elemosine anche se in una fase delicata come quella che attualmente i Paesi
spunti di riflessione, può essere un buon viatico per i governi che intendono immergersi nella tragedia africana, ma devono fare i conti non soltanto con le condizioni nelle quali versa il Continente, ma anche con i ritardi accumulati fino a far diventare la situazione esplosiva, oltre che con le loro stesse languenti economie. Perciò, sintetizzando il tutto, è venuto fuori quanto segue: «Rinnoviamo tutti i nostri impegni nei confronti dei poveri, soprattutto in Africa. Siamo determinati a prendere le misure necessarie per mitigare l’impatto della crisi sui Paesi in via di sviluppo, continuando ad aiutarli nello sforzo di raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del Millennio». Non sappiamo se Geldof, per il quale l’Africa “è un’opportunità di mercato” - soltanto? -, si dirà soddisfatto del risultato raggiunto dal G8, ma converrà lui stesso che di più in una tale occasione non ci si poteva aspettare. Ci aspetteremo, invece, che al di là dello “spirito”che ha animato gli estensori e i sottoscrittori del documento per
Un’immagine simbolo dell’Africa, il continente che più di altri incarna e vive su di sé i conflitti economici del Terzo millennio
africani attraversano ogni forma di aiuto non è indifferente. Ma ha bisogno di progetti, concreti e fattibili, connessi alle culture, agli usi e ai costumi di quel variegato e sterminato territorio attraversato da secoli da predoni ingordi che, soltanto in qualche caso, hanno lasciato tracce di civiltà (gli italiani, per esempio, anche se le sue classi dirigenti se ne vergognano). E non è neppure l’impulso umanitario, per quanto nobile, che dovrebbe guidare gli elemosinieri: certo, senza medici, farmaci, ospedali, scuole, strade e un sistema decente di comunicazioni tutto sarebbe vano. Ma è la considerazione che l’Africa senza protagonista della nuova storia di questo
Millennio, anche il relativo benessere Occidentale è destinato a naufragare che dovrebbe indurre a considerazioni meno superficiali e incostanti di quelle alle quali siamo abituati. La tragedia dell’immigrazione, della fuga dalle terre d’origine, la ricerca di un rifugio per scampare ai genocidi impone all’Europa, soprattutto,
l’adozione di una politica dell’accoglienza che non sia di assimilazione, ma di integrazione e, nello stesso tempo, la creazione delle condizioni perché maturino in Africa sistemi sui quali costruire un avvenire affinché ogni africano sia in grado di costruire il proprio destino sulla sua terra.
È un problema politico, ma anche etico. Quando si danno dei soldi a governanti corrotti, come lo sono quasi tutti i governanti africani, il minimo che ci si possa attendere è che li usino per costituirsi ingenti patrimoni all’estero, per perpetuare il loro potere accendendo guerre e guerricciole, legittimate quasi sempre dagli odi tribali, per difendersi comprando con quegli stessi soldi e dagli stessi Paesi le armi di cui i loro piccoli ma feroci eserciti hanno bisogno per distruggere nemici vicini e concorrenti interni: qualcuno ignora l’attivismo sgangherato di alcuni Stati europei in occasione del mattatoio del Ruanda e del Burundi? Una volta un giornalista del New Yorker chiese un’intervista al sindaco di Lagos, l’allora capitale della Nigeria: l’appuntamento gli venne dato nella casa del primo cittadino situata nel più esclusivo quartiere di Londra. La Nigeria ha beneficiato, negli ultimi decenni, unitamente a molti altri Paesi, di finanziamenti occidentali ingenti con i quali sono state pagate risorse, conflitti, corruzioni. Insomma, senza adeguati interventi strutturali, a lungo termine, orientati allo sviluppo permanente, il mondo pagherà, sotto forma di “obolo umanitario”, miliardi di dollari a dirigenti locali e alle multinazionali che faranno affari con loro dimenticandosi dei poveri che continueranno a restare tali. L’Africa, secondo questo schema, sarà sempre un Continente strangolato nel quale le guerre (se ne contano al momento nove in corso, più molti scontri interetnici e continue rivolte affogate nel sangue), la povertà, l’Aids domineranno incontrastate ed impediranno, come dice il documento del G8, la sua “inclusione” nei processi globali. Senza dimentica-
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re che il benessere dell’Africa è strettamente legato a quello occidentale. L’Africa, infatti, è più essenziale al Primo Mondo di quanto si immagini e non soltanto per le risorse di cui dispone, ma per il disordine che potrebbe esportare grazie al cinismo di criminali internazionali che puntano alla destabilizzazione del Pianeta magari con l’alibi della islamizzazione globale.
Non possiamo dimenticare che da ogni guerra c’è qualcuno che ne ricava qualcosa. I morti Tutsi e Hutu, i massacrati del Darfur, i congolesi sterminati, i fratelli della Sierra Leone che si sono scannati, le vittime innocenti delle Corti islamiche somale a qualcuno fanno comodo. L’orrore fa parte del dominio del denaro. Infatti è innegabile che il disordine civile, economico e politico genera sempre un ordine illegale di relazioni e di profitto. Molto acutamente, il politologo Giovanni Carbone ha scritto che la copertura della violenza «può permettere di saccheggiare le risorse naturali di un Paese, di ottenere il controllo di traffici commerciali leciti e illeciti, di organizzare i racket della protezione, di sfruttare il lavoro o la terra delle popolazioni locali, di manipolare la destinazione degli aiuti umanitari». (Africa, Il Mulino). La guerra, insomma, non è più la continuazione della politica con altri mezzi, ma una condizione per la creazione di nuove economie fondate sulla crudeltà, spesso sullo sterminio di massa. Esistono poi problemi legati alla penetrazione di alcuni dei Paesi in Africa con i quali i membri del G8 hanno rapporti economico-finanziari particolari. È il caso della Cina. Il governo di Pechino è molto pervasivo e attivo e ha perfino reso nota la sua strategia africana in un documento presentato nel gennaio 2006. Molti dei regimi locali gli aprono le porte in cambio di armi e tecnologie. La Repubblica popolare li “protegge” dalla opposta strategia americana tesa alla democratizzazione del Continente, mentre l’Europa è pressoché assente. Che fare? Non sarà un vertice internazionale, naturalmente, a risolvere problemi così complessi. Tuttavia la consapevolezza dei popoli liberi di fronte ai destini degli africani, connessi con i destini del resto del mondo, dovrebbe spingere tutti gli organismi, a cominciare dall’Unione Africana, a rendersi conto che l’intervento umanitario non basta. L’Africa ha bisogno del mondo, ma deve bastare a se stessa. Il mondo può aiutarla in questa impresa. A patto che la globalizzazione non produca altro sfruttamento e, quel che sarebbe ancor più grave, la fine dell’identità culturale e storica che è l’anima stessa del Continente e senza la quale non potrebbe vivere.
E Gheddafi passeggia ...in autostrada Al G8 non potevano mancare le stranezze di Gheddafi. Per un quarto d’ora il leader libico ha mandato in tilt l’intero sistema di sicurezza camminando placido in piena autostrada. Poi si è presentato alla cena da Napolitano per ultimo e con un abito appariscente. La sua delegazione poi è la più numerosa: ben 83 persone per uno stop di sole 24 ore da passare fra la tenda appositamente allestita per Gheddafi e il mega camper che lo accompagna in ogni sua visita, un appartamento in una delle palazzine della scuola e una villa nei dintorni di Coppito fatta requisire e arredare nei giorni scorsi.
La ricertta del ministro per il “business” del governo Brown: «Ok al G20, ma non solo»
«Ora un nuovo modello economico» di Peter Mandelson ndividuare uno o più colpevoli della crisi finanziaria che ha colpito il pianeta si è dimostrato più difficile di quanto sembrasse. Potrebbe essere il banchiere con incentivi obliqui e un basso tasso di rischio? Potrebbe essere il consumatore super-indebitato con un’ipoteca del 125% ? Potrebbero essere i politici e i regolatori che non hanno previsto i rischi in entrambe i casi? La risposta, naturalmente, è che dipende da tutti e tre i fattori, e da qualsiasi altra cifra relativa ad altri fattori contribuenti. Tuttavia, quello che ha favorito il manifestarsi di questa crisi bancaria è stato uno squilibrio strutturale nella crescita dell’economia mondiale nel corso degli ultimi due decenni.
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Quel modello ha prodotto una crescita mondiale senza precedenti, ma ha anche sviluppato una grave debolezza al suo centro. Finché non affrontiamo questa debolezza, qualsiasi altra strategia per combattere la recessione non è altro che un palliativo. Il rischio è che con la lenta ripresa dell’economia mondiale, l’urgenza di affrontare questo problema fondamentale possa retrocedere. Se lo riduciamo alla sua forma più grezza, il problema sarebbe questo: il credito era troppo conveniente nel mondo sviluppato. È stato mantenuto conveniente da una serie di fattori. L’impegno della Cina verso un modello di crescita guidato dall’export, unito alla disponibilità dei consumatori del mondo ricco di continuare a spendere, ha creato continui surplus, soprattutto in Cina. Questi surplus sono stati investiti per il debito dei paesi sviluppati, soprattutto degli Stati Uniti, abbassando così i tassi di interesse. Ciò ha incoraggiato gli investitori a cercare investimenti sempre più rischiosi per aumentare il loro raccolto. Ciò ha anche incoraggiato la gente a comprare case che non potevano permettersi con l’aiuto di persone che probabilmente, in primo luogo, non
avrebbero dovuto prestare loro i soldi. Quel debito è stato venduto in tutto il mondo. La fine della bolla immobiliare ha rivelato il rischio nel sistema. Il dettaglio preciso di questo processo qui conta meno del semplice problema che esso rappresenta. La stabilità, o come la vogliamo chiamare, dell’economia mondiale è la somma delle politiche macroeconomiche sovrane nazionali. Non ci sono meccanismi per mediare tra queste politiche o per insistere su un’azione che potrebbe contrastare un rischio sistematico. Allo stesso modo, i regolatori finanziari nazionali hanno una riduzione abbastanza chiara per la stabilità del mer-
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di più ed esportare di più. Qualcuna tra queste possibilità è realmente attuabile? È possibile preservare i benefici del mercato aperto e dell’economia mondiale aperta, affrontando il rischio macroeconomico e allo stesso tempo rispettando totalmente le scelte dei governi sovrani?
La risposta dovrebbe essere: non proprio. Nessun governo nell’economia mondiale, e certamente non nelle economie del livello di Stati Uniti, Cina, Giappone e Unione Europea, può affermare una prerogativa sull’azione interna che ignori completamente le influenze sistematiche delle sue politiche. L’unico modo per andare avanti sta in un approccio al coordinamento internazionale della politica economica totalmente rinnovato. Abbiamo bisogno di rinforzare e depoliticizzare il Fondo Monetario Internazionale e di dargli un nuovo ruolo di controllo che copra tutti gli aspetti del rischio sistematico. Bisogna, tramite mandato, portarlo a fare raccomandazioni sulla debolezza nel sistema e gli stati dovrebbero essere obbligati a prendere queste raccomandazioni in maniera estremamente seria. Una simile pressione potrebbe essere vitale, proprio come lo è stata nel tenere a bada le barriere commerciali nel corso dell’ultimo anno. C’è bisogno di un coordinamento mondiale della regolamentazione finanziaria molto maggiore, per far fronte al rischio sistematico e per assicurare che gli attori del mercato non possano attuare una singola giurisdizione regolamentativa contro l’altra. Il G20 rappresenta il primo passo in questa direzione. I veri sostenitori del mercato libero si opporranno a questa conclusione, ma l’unico modo di preservare un modello di crescita globale basato sugli enormi benefici dei mercati dinamici è di regolamentarlo meglio. Il conto per i benefici di un’economia mondiale aperta è stato presentato e può essere pagato solo con un governo mondiale più grande.
Servono maggiori controlli, per questo dobbiamo rinforzare e depoliticizzare il Fondo monetario internazionale
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cato nazionale, ma i mercati finanziari ora sono a livello regionale e mondiale.
Nessuno stava dormendo al volante della globalizzazione per il semplice motivo che non c’è alcun volante di cui parlare. Se dobbiamo risolvere questi squilibri in maniera regolare, la Cina dovrà costruire un sistema di benessere sociale che riduca gli enormi livelli di risparmi precauzionali e incrementare quindi la domanda interna. Dovrà continuare a muoversi verso una sempre maggiore flessibilità della valuta. I modelli di crescita guidati dall’export di altre economie in surplus come la Germania e il Giappone dovranno entrambe dare spazio ad una maggiore domanda interna. Sia i consumatori che i governi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dovranno correggere i loro documenti di bilancio. Noi tutti dovremo risparmiare e investire
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Summit/3. Il presidente americano, al di là delle polemiche della vigilia, ha letteralmente trascinato per mano i grandi
Anatomia di una star
Un sociologo (Ugo Volli) e un politologo (Stefano Folli) ci aiutano a capire come un vertice debole ha creato un leader forte: Obama di Franco Insardà
ROMA. Silvio Berlusconi ha dovuto rinunciare al suo protagonismo per dare spazio a Barack Obama. Complice il “consiglio non richiesto” del New York Times, ha sfruttato il consenso conquistato dal presidente Usa appena sbarcato a Roma e ha accettato con piacere di fare un passo indietro. Così ha finito per avere un profilo da statista, senza eccedere in quegli atteggiamenti che spesso gli sono stati rimproverati sia dalla stampa estera sia da quella nazionale. Non a caso nel suo discorso finale il nostro presidente del Consiglio ha voluto ricambiare il favore ricevuto, facendo i complimenti a Barack Obama: «Ha stupito tutti perché, nonostante non abbia una lunga vita politica, sta dimostrando grande buon senso e mitezza. Il mio pensiero è condiviso da tutti i colleghi con i quali ho parlato, a proposito della nuova stagione della politica degli Stati Uniti». Quindi ha anche aggiunto: «Ho sempre collaborato con tutte le amministrazioni americane da quella di Clinton a quella di Bush, al quale ancora mi sento legato da un’amicizia personale. Ma devo riconoscere che la nuova amministrazione americana non ha sbagliato un passaggio in politica internazionale e quindi complimenti a Obama».
Silvio Berlusconi ha affidato, insomma, allo stellone di Obama un G8 che, partito male, è finito nel migliore dei modi per la presidenza di Roma. Secondo Stefano Folli «il vertice ha rappresentato un successo per il nostro governo e va riconosciuto che l’azione italiana è stata positiva. L’agenda di Tremonti sulle regole standard ha ottenuto il massimo consenso. Ma è un gravissimo errore proiettare le polemiche interne su un palcoscenico internazionale». L’editorialista del Sole24Ore sottolinea anche il ruolo chiave di Barack Obama: «Era al suo primo G8 e ha portato tutta la sua carica nuova e dinamica sulle vicende politiche con un forte impatto mediatico». La pensa molto diversamente Ugo Volli, docente di Filosofia del linguaggio alla Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Bologna: «Disapprovo profondamente questa specie di mitologia su Obama, vicina all’idolatria, tanto da far scri-
Barack porta in dono una reliquia e tutte le polemiche dell’episcopato Usa
E al Papa promette: «Meno aborti. Mi impegnerò» di Massimo Fazzi
ROMA. Circa 35 minuti. Non troppi, se si pensa alla mole di argomenti che Barack Obama e Benedetto XVI hanno affrontato: dall’aborto alla genetica, per arrivare fino alla guerra. Sul primo punto, riferisce la sala stampa della Santa Sede, Obama ha promesso al Papa di impegnarsi per ridurre il numero degli aborti. L’incontro fra il messianico presidente degli Stati Uniti e il Vicario di Cristo si è svolto ieri, subito dopo la conclusione del G8 de L’Aquila. I due capi di Stato si sono incontrati con un sorriso, mentre i fotografi li tempestavano di flash. Le prime battute che i due leader si sono scambiati sono state proprio sul summit abruzzese, che Obama ha definito «molto soddisfacente». Poi si sono chiusi nella biblioteca, dove hanno parlato in solitudine. Il colloquio con il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, è durato invece poco più di dieci minuti. Al termine dell’incontro il presidente ha presentato al Pontefice la delegazione che lo accompagnava e la moglie Michelle. Quindi si è svolto il tradizionale scambio di doni: il Papa ha regalato un mosaico raffigu-
rante San Pietro, una copia autografa dell’enciclica Caritas in Veritate e un rosario; l’americano ha risposto con una stola appartenuta in vita a San John Neumann, primo vescovo americano ad essere canonizzato. Proprio il regalo scelto da Obama apre a un retroscena dell’incontro, che si è svolto senza la tradizionale preparazione diplomatica che contraddistingue le udienze papali: la Santa Sede, infatti, non ha ancora ricevuto l’ambasciatore designato da Washington. La stola, inoltre, è di proprietà dei redentoristi di Philadelphia: questi hanno definito la scelta «un onore» e si sono premurati di inviarla al leader americano. In netta contrapposizione con i vescovi degli Stati
Uniti, che secondo fonti vaticane avrebbero compiuto un forte pressing sulla Segreteria di Stato per evitare l’incontro. La querelle verte sulle tematiche legate alla vita: Obama è un acceso sostenitore del diritto di scelta nel campo dell’aborto, e questa posizione - che l’ha portato a firmare alcune leggi sulla materia definite «ripugnanti» dai vescovi Usa - gli è valsa la diffidenza dei presuli.
Anche per questo, la preparazione dell’incontro è stata seguita con particolare cura. Prima di partire per il G8, infatti, Obama ha riunito attorno a sè alla Casa Bianca sei giornalisti di altrettante testate cattoliche americane. Insieme a loro, unica straniera, c’era Elena Molinari per la Radio Vaticana e per Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale dell’Italia. Parlando ai cronisti religiosi, Obama si è detto fiducioso di trovare con il Papa una «concordia di vedute» su temi come la pace in Medioriente, la lotta alla povertà, la salvaguardia del clima, la politica dell’immigrazione. Ma non ha eluso nessuno dei temi su cui c’è conflitto tra lui e una parte consistente della Chiesa cattolica americana. Al conflitto aperto tra Obama e un buon terzo dei vescovi degli Stati Uniti si è aggiunta nei mesi scorsi anche un’altra linea di divisione: tra questi vescovi e il Vaticano, da loro giudicato troppo arrendevole nei confronti della politica del nuovo presidente. A ingarbugliare ancora di più la matassa ci si è messo il cardinale Georges Cottier, 87 anni, svizzero e domenicano, per molti anni in Curia come teologo della casa pontificia. Ha pubblicato il suo commento su 30 Giorni, rivista cattolica molto legata ai circoli diplomatici della curia vaticana. Il dotto cardinale trova la visione di Obama fortemente consonante con quella cattolica, a cominciare dalla consapevolezza del peccato originale. Gli riconosce intendimenti buoni e costruttivi anche sul terreno minato dell’aborto. Nega che Obama possa essere considerato «abortista», anzi gli riconosce la volontà di «fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile». La posizione di Cottier non è passata inosservata aldilà dell’Oceano: ma i vescovi a stelle e strisce aspettano il rientro del loro presidente, prima di aprire il fuoco su Roma.
vere al New York Times che qualsiasi cosa faccia è come un dio. È una star senza contenuti. È il primo presidente americano di colore, è un bell’uomo ed è una persona intelligente che parla bene. La stessa first lady e la famiglia fanno parte di questo gioco, servono a ingentilirlo e a umanizzarlo. Anche se questo avviene dai tempi di Kennedy». Amara la conclusione: «Obama, quindi, è un personaggio piacevole e ammirato, ma che non ha alcun rapporto con la politica. Ha appeal, al contrario del suo predecessore George W. Bush, uomo ruvido e poco propenso ai media. Da quando è alla Casa Bianca, però, non è riuscito a ottenere alcun successo politico. L’output di un leader sono le de-
Volli: «Disapprovo profondamente questa specie di mitologia, che rasenta l’idolatria». Folli: «Il dossier Iran sarà il vero banco di prova» cisioni e la capacità di convincere gli interlocutori, mentre questi vertici vengono costruiti per creare un evento mediatico, senza alcuna possibilità di fare delle scelte. È successo a L’Aquila e accadrà a Pittsbugh con Obama padrone di casa».
Sul ruolo del G8 e sulle strategie politiche americane Stefano Folli appare meno pessimista: «Questi summit sono importanti per raggiungere accordi di principio che sono un passaggio importante in un momento di crisi mondiale. Bisogna dare un po’ più di tempo a Obama. Il quale, già nei rapporti con la Russia, ha avuto un approccio pragmatico scegliendo di coinvolgere Mosca nei grandi temi internazionali e individuando in Medvedev il suo interlocutore. Questa non mi sembra apparenza. Lo stesso incontro con il Papa è fondamentale nei rapporti che il governo degli Stati Uniti ha con la Chiesa americana per trovare punti di incontro». L’Aquila, Roma, Citta del Vaticano e la capitale ghanese Accra sono stati i palcoscenici per un Barack Obama in gran forma che ha monopolizzato telecamere e obiettivi di tutto il mondo per tre giorni, compreso lo sguardo di “gradimento” per la 16enne delegata brasiliana allo Junior8. Sorrisi agli altri leader, Silvio Berlusconi in testa, stretta di mano con Muhammar Gheddafi, foto ricordo tra le macerie con la presi-
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La “double face” del premier
Berlusconi statista: perché non si può averlo sempre così? di Giancristiano Desiderio iciamolo subito con una battuta: Berlusconi dovrebbe passare definitivamente dal doppio petto al monopetto. Il vestito “buono” è quello che ha indossato all’Aquila in questi giorni di incontri mondiali: un monopetto, appunto. Il vestito “cattivo” è il doppio petto che lo fa apparire, se non essere, troppo capo e troppo poco statista o, almeno, uomo di governo. La sobrietà e la moderazione sono non solo stile, ma sostanza; mentre l’eccesso e il colpo a effetto sono fugaci e lasciano il tempo che trovano. Quando vuole avere un alto profilo di governo, quest’uomo lo sa esprimere. Ecco perché è un mistero: chi più di Silvio Berlusconi ha avuto tre le mani, in questi ultimi quindici anni, il destino della nostra vita istituzionale e democratica e chi più di lui ci ha messo del suo per vanificare un lavoro che a tratti è andato al di là delle qualità del singolo?
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Voleva il riconoscimento del presidente degli Stati Uniti d’America, e lo ha avuto. Non un riconoscimento qualsiasi, fatto alla meno peggio e per semplice circostanza di protocollo. Voleva un riconoscimento sincero, frutto di affidabilità reciproca. Lo ha avuto quando ha ceduto a Barack Obama la presidenza del vertice del G8 sul clima. Uno scambio significativo, reso anche più decisivo dalle critiche che Berlusconi ha mosso all’amministrazione americana precedente e agli errori di Bush: critiche, in verità, che in passato il premier italiano aveva già avanzato, sia pure in modo diverso e usando diversa sensibilità. La vicinanza, dunque, tra Obama e Berlusconi non è convenzionale ed esprime bene il rapporto tra America e Italia. Come a dire che tutte le critiche mosse al Berlusconi in doppio petto dalla stampa italiana e straniera non hanno minimamente influito nel giudizio politico tra i due paesi e i due governi. Eppure, il Berlusconi in doppio petto - l’altro volto di Berlusconi, chiamiamolo così, l’ombra che accompagna sempre la luce - non è di certo un’invenzione giornalistica. Lo stesso Berlusconi ha detto, solo un paio di settimane fa: «Agli italiani piaccio così e non ho intenzione di cambiare». Una sfida. Di più: una trasformazione in virtù dei vizi degli italiani. Attenzione: degli italiani, non solo di Berlusconi. Questo lui lo sa bene e da italiano furbo, guardando la popolarità testata dai sondaggi, presenta al suo popolo della libertà la personificazione dell’italiano in doppio petto, senza camicia, uomo di mondo, astuto e intelligente, pronto all’arte della trasformazione, che sa come prendere le femmine perché sa come va il mondo e sa farsi rispettare nel mondo perché, a conti fatti, gli italiani sono i più intelligenti di tutti. È questa o no l’idea di fondo che l’italiano ha di sé? Sì, ma è un’idea falsa che nella Storia è stata smentita. È il motivo che ci fa dire: riponiamo il doppio petto nell’armadio e indossiamo sempre il monopetto, caro presidente.
Dovrebbe passare dal doppio petto al monopetto: il “vestito buono”, e per lui inedito, che ha indossato in questi giorni al G8 all’Aquila
dente della provincia de L’Aquila, Stefania Pezzopane, complimenti ai Vigili del fuoco e sorrisi con Benedetto XVI. Atteggiamenti che non
Un po’ di India a luci spente... C’è chi invece al G8 dell’Aquila si è attenuto perfettamente e alla lettera al protocollo. Sono il primo ministro indiano Manmohan Singh e sua moglie Gursharran Kaur, che rispettando le etichette del vertice sono riusciti anche a non rinunciare alle loro abitudini: una tradizione indiana vuole che la donna, una volta sposa, perda ogni diritto dedicandosi completamente al marito. E lo aspetti ogni sera nella camera da letto. Gursharran Kaur lo ha fatto anche all’Aquila, attendendo Singh lontana dai riflettori.
stupiscono Ugo Volli: «Obama è uno che ama piacere a tutti e lo ha confermato anche in questa occasione. L’incontro tra il dittatore libico e l’inquilino della casa Bianca mi ha ricordato l’inchino davanti al re saudita Abdullah al G20 di Londra. Mentre una volta erano gli altri leader a cercare le foto opportunity con il presidente Usa, oggi è proprio lui a farsi riprendere con i nemici del suo Paese». Per Stefano Folli, invece, il giudizio su Obama è sospeso fino alla conclusione del dossier Iran. «Se si impedirà a Teheran di avere la bomba atomica», spiega l’ex direttore del Corriere della Sera, «avrà ottenuto un grande risultato, altrimenti sarà la conferma che l’apparenza inganna». I prossimi mesi saranno decisivi per la stella di Obama, che ha preso nuova linfa tra le macerie de L’Aquila.
Barack Obama è stato il vero “divo” mediatico e simbolico del summit aquilano. La sua sola presenza, in realtà, ha dato il senso del summit di successo. Molto al di là dei risultati reali degli incontri che si sono svolti in questi giorni. Il vero risultato del G8 è stato il consolidarsi della leadership del presidente Usa nel mondo
Il G8 dell’Aquila ha smentito i pregiudizi della stampa estera sul presidente del Consiglio. Lo aspettavano al varco e lui li ha sorpresi. Ma non perché è stato più intelligente e furbo: piuttosto, perché ha cambiato se stesso. Berlusconi uno, nessuno e centomila? Può darsi, forse come ogni cristiano. Con la non piccola differenza che lui risiede al momento a Palazzo Chigi e ha il dovere di presentare a sé, agli italiani e al mondo il suo volto migliore: il Berlusconi in monopetto.
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Summit/4. Qualche tensione alla manifestazione snobbata anche dagli aquilani: ormai è una deriva ideologica da ripensare?
Novecento, ultimo atto
Da Paganica all’Aquila un rito stanco per cinquemila antagonisti Una lotta che oggi va visibilmente contro gli interessi dei più poveri di Errico Novi
ROMA. Cosa rappresentano le bandiere, i simboli e gli slogan che cinquemila manifestanti hanno portato ieri da Paganica a L’Aquila? Forse nulla più. Sono un residuo, un precipitato della storia. almeno se si considera la richiesta che arriva da una parte consistente dei Paesi in via di sviluppo, da quel Sud del mondo che chiede eccome politiche globali. È una globalizzazione diversa ma certo sufficiente a neutralizzare la sigla “no global“ che ha simboleggiato per due o tre lustri la cultura antagonista in molte parti del pianeta. Così la pensa un interprete autentico della cultura di sinistra in Italia come il direttore dell’Altro, Piero Sansonetti. Ma non tutti accettano di riconoscere la fine di un’epoca, e di uno slogan. E lo si capisce ascoltando il punto di vista di un esponente di quella cultura bertinottiana dei movimenti che ha egemonizzato per anni la sinistra radicale, Gennaro Migliore, ex parlamentare del Prc e oggi leader della componente di Sinistra libertà che va sotto il nome di Movimernto per la sinistra: «Continuo a definirmi no global, le ragioni della nostra critica a questo modello di svuluppo restano tutte in piedi e anzi sono accresciute». Non c’è un’unica via, certo, per leggere il tempo nuovo, anche se in mezzo resta il pro memoria del Pd Pietro Marcenaro: «Tutti i modi di rappresentare la realtà possono avere cittadinanza, ma bisogna assumersi la responsabilità di risolvere almeno un pezzettino dei problemi che abbiamo davanti, accettare l’idea di un governo globale senza pensare che le decisioni possano ridursi in ambiti ristretti».
Dei tre interlocutori Sansonetti è d’altronde il più prossimo a una rifor-
Il giudizio della sinistra mulazione del discorso nell’insieme non cambia, bertinottiano sulla critica dice il direttore al capitalismo globale. Se dell’Altro: «Casomai è non altro perché legge cambiata la globalizza«segni preoccupanti nel zione, a causa della crisi dibattito che, in questo L’AQUILA. Alla fine della lunga ma anche per l’avvento G8, si è svolto sul clima», manifestazione no global, giundi Obama: due fatti quae prefigura una nuova ta dopo otto chilometri di marsi concomitanti che hancritica segnata da un milcia alla villa comunale dell’Ano annunciato la fine del lenarismo ambientalista, quila, l’applauso più grande e turbocapitalismo reagain fondo analogo a quella sentito di tutti i manifestanti è niano, quel modello che contestazione netta del stato per Carlo Giuliani, il gioha conosciuto la sua fase capitalismo globale provane rimasto ucciso a Genova culminante con Bush, mossa dai movimenti nel 2001 dopo gli scontri con la con il 2001 e il vertice dell’ultimo decennio: «Da polizia. «Siamo qui anche per contestato a Genova: l’iuna parte è inevitabile lui», hanno scandito i manifedea della concentrazione che Cina e India pretenstanti dal camion che ha fatto di ricchezza da cui poi dano un riequilibrio delle da palco improvvisato per alcudovrebbe discenrisorse e degli stessi conni interventi conclusivi. Nessudere una iperprosumi energetici, dopo na tensione, comunque. duzione capace di averli visti concentrati soddisfare anche i quasi esclusivamente in bisogni dei più poOccidente. Dall’altra un veri è fallita per sempre». tetto va posto, se non vogliaPeccato, riconosce però mo accelerare il processo di con onestà Sansonetti, estinzione della specie uma«che nel frattempo la na». Se è questo il nuovo terstessa sinistra che ha avreno e il nuovo spazio della versato quel modello di critica al capitalismo è evicapitalismo globale sia dente che si tratta di una vicompletamente morta». sione assai meno seducente Perché se ci fosse ancora, in di altre, e che dunque anche fondo le basterebbe insistere stavolta la cultura di sinistra «sulla necessità di redistribuirischia di uscire sconfitta: re le risorse», anche se oggi «Ma è assurdo che tutte le chi chiede un simile riequiliclassi dirigenti promettano un brio lo fa proprio invocando rilancio dei consumi: su quepolitiche globali. «Ma gli slosta strada non si arriva da gan, le sigle», secondo Sansonetti, nessuna parte, che si parta da destra o «appartengono al momento in cui da sinistra. L’attuale generazione ha vengono inventate, quindi è inutile inuna responsabilità decisiva nella soterrogarsi sull’opportunità di usare pravvivenza della specie umana, è queancora l’espressione no global». sto che andrebbe capito».
Un lungo applauso per Carlo Giuliani
Inevitabilmente più spietata è la lettura di Pietro Marcenaro, presidente Pd della commissione parlamentare per i Diritti umani: «Dobbiamo distinguere tra la critica alla globalizzazione così come essa si è configurata, rivolta a un liberismo senza controlli, che sembrava un punto di vista minoritario e oggi è diventata la bandiera di Tremonti, e dall’altra quella visione no-global che era effettivamente rifiuto della dimensione globale. Questa seconda versione è intanto un filone piuttosto particolare nella storia culturale della sinistra, se non altro perché contrasta con l’idea dell’internazionalismo che invece dovrebbe esserne parte costitutiva. E in ogni caso, l’idea di un’avversione di principio alla globaliz-
Aggredito un inviato all’Aquila di Agr, Domenico Affinito: stava riprendendo i tafferugli tra i Cobas e un gruppo di anarchici quando si è visto strappare con forza la telecamera zazione è stata completamente smentita dallo sviluppo dei fatti».
Chiaro e tondo. Ovvio che Marcenaro può permettersi di esserlo giacché portatore di una esperienza «diversa», come lui stesso ricorda, è d’altronde, dice, «non è che si può chiedere una revisione della cultura di sinistra in modo generalizzato come se si potessero mettere sullo stesso piano Casarini e Prodi». Ma questo vuol dire che la sinistra mas-
prima pagina In queste pagine, le immagini della manifestazione di ieri: cinquemila “no global” hanno marciato da Paganica fino all’Aquila, pur senza provare a forzare il blocco della zona rossa della città terremotata. Sono stati pochi i momenti di tensione con la polizia che naturalmente era presente in forze
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Ieri in Abruzzo l’utopia è finita in disincanto
Com’è vecchio definirsi “no global” di Giuseppe Baiocchi uando l’utopia finisce in disincanto. Pare più una malinconica adunata di reduci che la legittima contestazione ai potenti della Terra, in nome di nobili ideali di giustizia universale, di solidarietà ai poveri e agli sfruttati del pianeta. L’epopea del “no-global”che ha fatto versare fiumi di inchiostro e procurato affari imprevisti ai vetrai di tutto il mondo sembra giunta al tramonto: per paradosso si potrebbe sostenere che le ferite alla globalizzazione, venute per motivi interni al processo - come la devastante crisi finanziaria - renda meno significativa, se non addirittura superflua, ogni forma di schieramento “contro”.
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Si dirà certamente
simalista, almeno in Italia, ha definitivamente perso un suo spazio e una sua ragione di essere? Il senatore Pd riconosce appunto «la possibilità di dare rappresentanza anche a visioni diverse da quella riformista, a condizione che esse restino compatibili con l’assunzione di responsabilità irrinunciabile per chiunque voglia effettivamente risolvere i problemi. E quella dei no global intesi come movimento antagonista era una posizione addirittura di rifiuto del governo: non a caso andava dalla critica al capitalismo globale al contrasto di qualsiasi decisione che riguardasse anche la dimensione locale, come l’apertura degli inceneritori».
C’è però chi come Gennaro Migliore difende a sua volta la scelta anti-globalizzazione, a partire anche da un’idea assai meno ottimistica di quella dello stesso Sansonetti sullo sviluppo dei processi internazionali: «Se ci fosse davvero una globalizzazione della solidarietà o delle politiche sociali saremmo di fronte a un’evoluzione della specie umana e ce ne dovremmo rallegrare. Ma la globalizzazione è un’altra cosa, è una parola riferibile ai sistemi oligarchici di governance, alla bolla finanziaria, che ha prodotto la crisi in cui ci troviamo oggi. Parliamo cioè pur sempre di un processo che ha prodotto diseguaglianze, non solo tra un’area e l’altra del pianeta ma all’interno di quegli stessi Paesi che nell’ambito della globalizzazione sono cresciuti e che oggi rivendicano un maggior peso nelle decisioni».Visto da que-
sta angolatura il quadro appare insomma assai diverso, tanto da indurre Migliore (ed evidentemente molti come lui, sicuramente tanti nella galassia in cui si è frammentata Rifondazione) a dire che «quello della sigla è un falso problema. Non si può cambiare, oggi, lo slogan in ‘sì global’e poi ragionare su tutto il resto. Continuo ad essere coerente con la critica al capitalismo globale e a invocare una soluzione qui ed ora della crisi». Resta ancora il dubbio su quale sia l’alternativa vera a un sistema che pure si è mostrato vulnerabile ai virus da esso stesso generati.
15mila accrediti e 70mila caffè Tra le ultime curiosità da registrare in questo G8 aquilano, c’è quella numerica delle consumazioni degli oltre quindicimila accreditati al Media Village, di cui 3.500 giornalisti: 25mila pasti caldi preparati per la “quattro giorni” di lavori, oltre 70mila tazzine di caffè consumate finora, senza contare poi le 75mila bottiglie di acqua e le 10mila lattine di birra. Il vertice del G8 all’Aquila, fra stranezze, fotografie di rito, battute, accordi, protocolli rispettati e regole mandate alle ortiche, è anche questo.
credibilità sempre rinnovata e davvero globale.
Si prenda l’ondata pacifista e in difesa dei “diritti umani”: la naturale e umana propensione per la conquista della pace ha avuto troppi “black out”: il silenzio imbarazzato sui tanti conflitti dimenticati del pianeta (dal Darfur alla Cecenia alle tante guerre tribali e locali che dilaniano i paesi poveri) ha svalutato la lotta per la pace. Come pure ha il suono della “falsa moneta”la lotta per i diritti umani dei popoli , quando si tace pervicacemente ieri sul Tibet e la Birmania, oggi sull’Iran e le minoranze oppresse in Cina. E pure la fiamma ambientalista sembra ridursi ad un fumigante lucignolo quando la questione delle emissioni nocive tocca i grandi paesi della nuova economia, come India e Cina, non vengono pressati perché evitino, per il bene comune della terra intera, gli errori e le sordità dei paesi di più antica industrializzazione. Sul clima si sta sciogliendo rapidamente la religione pagana del riscaldamento globale di origine esclusivamente antropica: e la realtà, con le dure repliche della storia (come il necessario ritorno al nucleare) si incarica di fare piazza pulita di tante velleità ideologiche, forse non tanto disinteressate. Sulla fame nel mondo e la difficile questione dello sviluppo, dopo la polemica sugli Ogm, avanza la comprensione che solo la condivisione dei doveri e delle responsabilità può davvero cambiare le cose, più di ogni protesta: e forse la saggezza riformista di un Lula o di un Mandela dimostrano che il tempo dell’indignazione sta diventando obsoleto. E forse non c’è nemmeno l’alibi di Bush per prendersela a prescindere con gli Stati Uniti: la nuova icona progressista di Obama spunta tante frecce e finisce per edulcorare molta della rabbia lungamente alimentata.
Mentre gli «antagonisti» perdevano ogni aderenza alla stessa realtà che volevano difendere, colpiva il silenzio sul rispetto dei diritti umani
che l’area del terremoto dove si è svolto il G8 non “aiuta” a considerare i capi di stato e di governo come una “casta” di ricchi di abbattere; e la presenza a vario titolo di rappresentanti dei Paesi poveri e in via di sviluppo fa cadere l’accusa di insensibilità verso i drammi della fame; si aggiungerà altresì che l’esperienza ha reso gli apparati di sicurezza meno inclini a lasciarsi sorprendere dagli eccessi violenti delle contestazioni… Eppure emerge un senso di stanchezza, di usura, e di sostanziale inutilità della protesta che va ben al di là delle motivazioni contingenti. In realtà pare proprio che i cervelli della “sinistra antagonista” che intravedeva nel movimento multiforme e ribollente dei “no global” l’antipasto e la promessa di una futura rivoluzione che avrebbe cambiato il potere del mondo, farebbero bene a riflettere su un fallimento culturale che ha le radici profonde nelle loro ambiguità, nei loro silenzi e magari nelle loro vigliaccherie. Come se una certa speranza di cambiamento positivo, anche se protestatario talvolta fino alla violenza, (che si era espresso per la prima volta a sorpresa di fronte al Wto di Seattle a cavallo del nuovo Millennio) si fosse sfarinata rapidamente per l’incapacità culturale (e i paraocchi ideologici) nell’affrontare con coerenza i dilemmi angosciosi che la complessità della condizione internazionale presenta ripetutamente sulla scena e che pretende una
Sembra imporsi un sano realismo che riduce la giovanile idealità dei no-global a una sempre più cupa disillusione. Quasi che a mettere i potenti del mondo davanti alle enormi responsabilità che si portano comunque sulle spalle stia diventando più efficace un mite professore bavarese con le sue encicliche che quel club sempre meno creativo di adolescenti ingrigiti.
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Denunce. Mettere le etnie una contro l’altra è un vecchio trucco della Cina, che distoglie l’attenzione dai veri mali del Paese
Le bugie di Pechino Il più noto dei dissidenti cinesi attacca: «Le rivolte sono orchestrate dal Partito» di Wei Jingsheng l 5 luglio sono scoppiati disordini su vasta scala a Urumqi, capoluogo della Regione autonoma uighura dello Xinjiang. La sommossa ha avuto inizio quando parecchie migliaia di uighuri si sono riversati per le strade a protestare pacificamente. Successivamente sono iniziati gli episodi di violenza. Alcuni giovani uighuri di temperamento piuttosto acceso hanno dato la caccia ai cinesi di etnia han allo scopo di ucciderli, compresi donne e bambini. Altri hanno fatto irruzione all’interno dei negozi, picchiato e ucciso civili innocenti e dato fuoco ad alcune auto. Quasi due ore dopo l’inizio dei tumulti, il governo di Pechino ha deciso di intervenire. Prima dell’intervento, erano già pas-
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sate 4 o 5 ore. Stando a fonti affidabili, il governo e le forze dell’ordine sapevano già da tempo che le manifestazioni avrebbero avuto luogo su larga scala; tuttavia non è stata presa alcuna contromisura, né tantomeno le popolazioni locali sono state avvertite. Le autorità hanno permesso che un gruppo di teppisti carichi di rabbia aggredisse e uccidesse dei comuni civili. Solo quando i manifestanti hanno iniziato ad appiccare incendi, uccidere e derubare inermi cittadini, il governo cinese ha dispiegato nella zona la polizia militare. Moltissimi uighuri sono stati massacrati o arrestati. Un governo che, invece di porre un freno alle violenze, si lascia andare all’uso della forza ha generato profonda rabbia nella comunità han del luogo. Da quanto si può evincere dalla vicenda, appare chiaro che il governo cinese intende sfruttare a proprio vantaggio il malumore che attraversa la società cinese. Pechino intende generare conflitti etnici nella speranza che vengano dimenticate le
rimostranze nei confronti del governo. Mettere un popolo contro l’altro è una pratica che nei decenni passati ha sempre contraddistinto il modus operandi del Partito comunista cinese. E l’abilità nel mettere in campo tali tecniche si è così affinata da essere diventata praticamente impercettibile agli occhi del cinese medio.
Come potrebbe altrimenti il Partito annunciare subito dopo lo scoppio dei disordini che questi «sono stati pianificati ed organizzati da un gruppo di reazionari provenienti dall’estero»? Ovviamente, il governo cinese aveva pianificato tutto con debito anticipo e il sanguinoso massacro ha avuto luogo nelle modalità e nei tempi stabiliti da Pechino. Il regime comunista cinese deve assumersi la responsabilità dell’uccisione di tutte quegli inermi individui, tanto han quanto uighuri. Il regime comunista cinese del Xinjiang è il vero responsabile dei massacri e degli arresti. Alcuni sospettavano che anche il Congresso mondiale del popolo uighuro presieduto da Rebiya Kadeer fosse corresponsabile di tale atto criminale, e hanno chiesto se questi avessero preso attivamente parte ai tumulti. In primo luogo, possiamo esprimere un giudizio sulla vicenda ripercorrendo la storia e la situazione attuale delle organizzazioni d’opposizione degli uighuri. In passato, al suo interno esistevano vari gruppi d’opposizione al regime: da coloro che si battevano per instaurare un approccio pacifico, razionale e non-violento, a quanti si dichiaravano addirittura sostenitori di gruppi terroristici. Sino alla fine del secolo scorso, grazie ai cospicui finanziamenti erogati da alcuni Paesi ed organizzazioni di stampo musulmano, la fazione terrorista che aveva stabilito la propria centrale operativa in Asia centrale risultava piuttosto nutrita. Alcu-
Sopra, alcuni fotogrammi tratti dalla televisione di Stato cinese, che ha trasmesso le immagini delle rivolte nella provincia settentrionale del Xinjiang. A sinistra il presidente cinese Hu Jintao, rientrato dal G8 per fermare l’insurrezione. Nella pagina a fianco il premier turco Erdogan
Dopo la “guerra al terrorismo”, tutte quelle organizzazioni che ricevevano supporto finanziario e logistico da Osama bin Laden sono rimaste per lo più isolate. Anche nell’ex Turkestan orientale ni tra questi estremisti iniziarono a muovere attacchi nei confronti della popolazione in Cina, la qual cosa ha disgustato la comunità han, e buona parte del popolo uighuro. Così, nella conferenza congiunta del Congresso mondiale della gioventù uighura e del Congresso nazionale del Turkestan orientale del 2000 furono approvate alcune risoluzioni, che includevano una «condanna di qualsiasi azione violenta ai danni dei comuni individui», «l’unità di tutti i gruppi etnici, inclusi gli han, per raggiungere l’indipendenza» e «l’avvio di una cooperazione su vasta scala con il movimento democratico cinese per giungere ad una soluzione del problema dello Xinjiang». Queste risoluzioni si sono guadagnate il sostegno della maggior parte delle organizzazioni uighure sparse per il globo e della maggioranza degli uighuri del Xinjiang. È stato il primo passo verso la costituzione di quel Congresso mondiale del popolo uighuro che sorse qualche
tempo dopo. Dopo la “guerra al terrorismo”, le organizzazioni terroristiche che ricevevano supporto finanziario e logistico da Osama bin Laden sono rimaste per lo più isolate.
Il Congresso si sviluppa in tale contesto. Collegarlo al movimento terrorista sembra quindi uno stratagemma allestito dal Partito per insinuare voci tese a diffamare il movimento.Vale la pena notare come i violenti attacchi ai danni del regime comunista messi in atto nel corso dei Giochi Olimpici di Pechino dell’anno scorso da alcuni uighuri hanno avuto come obiettivo la polizia e l’esercito cinesi, e non i civili. Azioni come queste sono quindi ben diverse da ciò che viene comunemente catalogato come “terrorismo”. I comunisti conoscono sicuramente l’identità, non di certo segreta, dei mandanti di tali attacchi. In ogni caso, subito dopo l’inizio dei tumulti, il governo cinese ha definito la pianificazione e l’organizzazione delle sommosse come opera del
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Erdogan sostiene gli uighuri perché spera di annetterli alla Turchia
E Ankara prepara il colpo di scena di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Senza la connivenza e l’intromissione dei comunisti, molti episodi criminali del passato non avrebbero potuto trasformarsi in rivolte sanguinose di parecchie migliaia di persone Congresso, attribuendo persino a Rebiya Kadeer il ruolo di mandante. Dichiarazioni come queste costituiscono un’ulteriore riprova a sostegno della tesi secondo cui il Partito avrebbe pianificato con anticipo tale sanguinoso massacro.
Inoltre, molti osservatori hanno riscontrato un collegamento diretto tra i recenti episodi di violenza e il conflitto che non molto tempo fa ha visto fronteggiarsi gli uighuri e gli han a Shaoguan, nella provincia del Guangdong. Il governo di Pechino ha ammesso l’esistenza di un collegamento fra i due episodi. Se seguissimo dunque la loro logica, l’incidente di Shaoguan sarebbe stato architettato anch’esso da Rebiya Kadeer. E come potrebbe mai essere possibile? Molti osservatori hanno inoltre fatto notare che gli incidenti di Shaoguan sono stati molto probabilmente provocati dal regime stesso. Senza la connivenza e l’intromissione di Pechino, molti episodi criminali del passato non
avrebbero potuto trasformarsi in rivolte di parecchie migliaia di persone, concluse nel sangue con la morte di molti di loro.
Tumulti di così vasta scala e con una così massiccia risposta popolare sono possibili solo in assenza di un’adeguata azione di contenimento da parte delle forze di polizia. In agglomerati urbani a forte densità di popolazione, la polizia non può affermare di non aver previsto le conseguenze, per non menzionare il fatto che le ambulanze siano giunte con largo anticipo per condurre i feriti e le vittime presso gli ospedali. Un fattore molto strano, se si prende per vero quello che dichiarano i dirigenti locali. Se collegassimo i fatti di Shaoguan con quelli del Xinjiang, dovremmo giungere alla conclusione che la rivolta di Urumqi sia il frutto della pianificazione e della volontà del regime comunista cinese. Quello che mi chiedo è perché il Partito comunista cinese sia così stupido da fare una cosa del genere.
obbiamo sostenere gli uighuri. Sono come i tibetani: sopravvivono, non vivono. È necessario aiutarli e proteggerli, prima che spariscano». Il virgolettato proviene non da un appassionato difensore dei diritti umani o da un valido sostenitore dell’indipendenza etnica del Xinjiang, ma da Recep Tayyip Erdogan. Il primo ministro di quella Turchia un po’europeista e un po’ no, che viaggia al limite della repressione dei diritti religiosi quando non condanna apertamente la crescita dell’integralismo islamico nella sua nazione. Ieri, il politico ha concesso il visto a Rebiya Kadeer, leader uighura in esilio negli States, e ha motivato la sua decisione con la lacrimosa frase in apertura. Ma non si è fermato qui: «Vogliamo che la comunità internazionale mandi una delegazione incaricata di investigare sulle origini dei problemi del Xinjiang». Di questi tempi, la questione degli uighuri in Turchia (una comunità composta da circa 300mila persone, fuggite dalla repressione cinese) è divenuta estremamente importante: serve a compattare l’opinione pubblica interna laddove la lotta contro contro i “terroristi” del Kurdistan è calata di tono e non ha più presa sulla gente. Anzi, il territorio iracheno si sta avviando verso una velocissima autonomia benedetta dalla Casa Bianca e difficile da contrastare per Ankara. La speranza è che, in caso di divisione dell’Iraq, i curdi si uniscano alla Turchia, così come gli uighuri. L’ipotesi è meno peregrina di quanto possa sembrare: secondo un’analisi dell’International Crisis Group (Icg), riportata oggi dal quotidiano turco Today’s Zaman, l’abbandono del territorio iracheno da parte delle truppe Usa lascia aperti diversi spiragli.
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«Non ci amiamo, ma abbiamo bisogno l’uno dell’altra. Se gli americani lasceranno il Paese senza una buona soluzione politica con Baghdad, allora ci sarà un conflitto e la Turchia non avrà scelta».
A seguito delle tensioni crescenti tra il governo centrale di Baghdad e quello regionale curdo di Arbil, l’Icg non esclude l’eventualità di una frammentazione dell’Iraq e cita le parole di Fuad Hussein, capo dello staff del leader curdo-iracheno Massud Barzani: «Se gli sciiti scelgono l’Iran e i sunniti il mondo arabo, allora i curdi dovranno allearsi con la Turchia. Siamo costretti a stare con la Turchia, e loro non hanno altri amici o partner in Iraq». I due vicini ovviamente non hanno rapporti ottimi:
L’annessione della regione curda del nord Iraq sarebbe per la Turchia un guadagno, sostiene Hussein, «per la possibilità di controllare le enormi risorse petrolifere e di gas naturale presenti nella regione. La Turchia avrebbe indirettamente Kirkuk e questo è il suo unico modo per ottenerla». Una prospettiva che renderebbe Ankara estremamente ricca di petrolio, il vero oro del millennio. È in questo scenario che va inquadrato il lacrimevole sostegno espresso dal leader turco alla causa uighura. Il la Xinjiang, provincia teatro degli scontri, ha vissuto per un breve periodo in piena indipendenza con il nome di Turkestan orientale: i suoi cittadini sono turcofoni e di fede islamica. Persino la loro connotazione fisica li rende molto più simili ai turchi che ai cinesi di etnia han. E il loro territorio, sterminato, è ricco di carbone e bauxite. Semih Idiz, editorialista di punta del mondo turco, scrive: «Gli sviluppi della crisi del Turkestan sono un problema per Erdogan, chiamato a fare qualcosa per fermare la brutale repressione in corso. Gli uighuri sono nostri parenti, che parlano una lingua simile alla nostra». Un riferimento abbastanza chiaro alle velate speranze dell’esecutivo. Che rischia però di infastidire seriamente Pechino. Il dragone asiatico ha sempre espresso con estrema chiarezza la sua posizione in materia di unità territoriale: non si tratta, con nessuno e per nessun motivo, sulle questioni interne. Figurarsi poi se i nipoti di Mao Zedong sarebbero disponibili a rivedere i confini nazionali, sacri oltre ogni cosa. Erdogan questo lo sa bene, e spera di poter operare dietro le quinte mentre il lavoro sporco lo fanno gli uighuri di cui – sia chiaro – non gli importa assolutamente nulla a livello personale. L’ambizione del novello Ataturk è quella di espandersi, mettere le mani sulle risorse energetiche e guadagnare una decina di milioni di cittadini in più. In questo modo potrebbe salutare Bruxelles, ritirare la richiesta di ingresso nell’Ue e prepararsi a dominare il Vecchio Continente.
Il sogno proibito del premier turco è quello di conquistare il Turkestan e il Kurdistan per mettere le mani sulle loro riserve di petrolio. Ma deve stare attento alle reazioni di Hu Jintao che odia le interferenze
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La posta in gioco è se l’Iran rilancerà la lotta globale contro l’Oc
Teocrazia e dem on febbrile attenzione, come non accadeva da oltre trent’anni, il mondo volge lo sguardo alla “Repubblica Islamica” dell’Iran: Le elezioni presidenziali non hanno avuto l’esito auspicato da molti nel mondo occidentale, ovvero la vittoria di un “riformatore”. È stato invece rieletto, con ampia maggioranza, il presidente in carica Ahmadinejad, conservatore assurto in breve tempo a grande fama per l’aspra critica nei confronti di Israele e dell’Occidente. Fin dall’inizio questo risultato, dovuto apparentemente a grandi brogli, ha scatenato le violente proteste dei candidati sconfitti, che guadagnavano sempre maggiori consensi nell’opinione pubblica: a tratti il numero dei manifestanti scesi nelle piazze a protestare ha raggiunto le centinaia di migliaia. Le contromisure attuate dal governo, alle quali ha partecipato
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Mahmud Ahmadinejad. nella pagina a fianco: l’Ayatollah Khomeini. A destra dall’alto: Mir Hossein Mousavi; lo Scià che fu rovesciato dalla rivoluzione del 1979; un’immagine delle proteste di questi giorni a Teheran
“scomparso”, e non si stava forse realizzando il grande anelito della fede sciita, il ritorno del “Regno di Dio”, la vittoria definitiva della giustizia in tutto il mondo? E quando l’Ajatollah, poco dopo il suo arrivo a Teheran il 1° febbraio del 1979, indisse elezioni generali che dovevano confermare la creazione della “Repubblica Islamica”, ben venti milioni di persone gli diedero il proprio voto e si contarono solo 140.000 contrari. Come avvenne in Russia nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione bolscevica, fecero la loro comparsa carte geografiche che mostravano l’avanzata fino ai confini del mondo, dell’ideologia ovvero della religione vittoriosa. Una vera e propria rivoluzione di popolo aveva spazzato via il regime ormai obsoleto di un regnante dispotico e tutto era av-
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Se tra qualche anno il regime permetterà lo svolgimento di “libere elezioni” si ripeterà una situazione simile a quella di oggi e sarà persino possibile il rovesciamento dello Stato
anche la milizia dei pasdaran e dei bassidj, a quanto pare hanno causato decine di morti e l’esecuzione della giovane ragazza ha portato lo sdegno ai massimi livelli: non si tratta più di mere proteste di massa, ma di veri e propri disordini, ed in alcuni commenti della stampa occidentale traspare il desiderio che la “Repubblica dei Mullah” possa scomparire nel corso di una straordinaria sollevazione. Nel frattempo però, l’uso spietato delle “truppe antisommossa” e di altre forze armate ha riportato una sorta di “calma”, della quale nessuno sa dire se si tratti della calma plumbea di un ripristinato totalitarismo o della calma prima di una nuova e più violenta tempesta.
Coloro che non si abbandonano completamente alla travolgente attualità, torneranno con la memoria a trent’anni fa. Anche allora una folla oceanica invadeva le strade di Teheran, ma non erano centinaia di migliaia, si trattava di svariati milioni di persone che trepidanti aspettavano il ritorno da Parigi dell’Ajathollah Khomeini. Molti di loro, ci raccontano i testimoni, al suo arrivo si abbracciarono piangendo di gioia: Non si stava forse avverando il ritorno del dodicesimo Imam, dell’Imam
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venuto molto più rapidamente rispetto a come erano andate le cose in occasione del putsch bolscevico nell’ottobre/novembre del 1917 o della presa semilegale del potere da parte di Adolf Hitler nel 1933. Anche volendo stabilire un paragone con la rivoluzione francese, quella iraniana è avvenuta sotto il segno di un Sommo Sacerdote, come se nel 1789 fosse stato l’arcivescovo di Parigi a guidare la rivoluzione. I pensieri di molti testimoni degli eventi del 1978/79 sono tornati ancora più indietro nel tempo, nel passato dell’Iran, nell’antica Persia. Come tutti i Paesi islamici, anche lo Stato del “Trono del Pavone” si era dovuto confrontare con il problema di fondo della sua “arretratezza” rispetto all’Occidente, e già verso la fine del XIX. secolo si affermò una grande voglia di “modernizzazione”, caldeggiata anche dai vertici dello Stato. Il militare usurpatore Reza Khan, auto-proclamatosi Scià nel 1925, sembrava avviato a diventare il “Kemal Atatürk persiano” e non temeva certo il confronto con il clero sciita. Quest’ultimo, diversamente dagli studiosi sunniti, era una corporazione con una sua gerarchia e, rispetto
alla “confessione” sunnita, professava quale elemento distintivo non dogmatico, l’atteggiamento nei confronti della morte e delle sofferenze dei fondatori, discendenti da Maometto, da Alì e dai suoi figli. Ma il “Kemal iraniano” non ha potuto portare a termine la sua opera, perché – come molti altri statisti di Paesi islamici - durante la Seconda Guerra Mondiale si rivelò “filotedesco” e fu dunque costretto all’esilio dagli inglesi. La dinastia comunque sopravvisse e dopo la guerra salì al trono il figlio di Reza, Mohammed Reza “Pahlawi”, che subì il fascino di nuove e “borghesi” aspirazioni di modernizzazione, in particolare durante la presidenza di Mossadeq, il quale intendeva nazionalizzare l’industria petrolifera del Paese, ormai assurta ad importanza mondiale, e del quale si dice che in seguito fu deposto grazie alle attività della Cia.
Così il giovane Scià divenne il “Kemal persiano” molto più di quanto non lo fosse stato il padre. Impostò la sua “Rivoluzione Bianca”in senso neoliberale, sull’aumento di produttività e sulla razionalizzazione dell’agricoltura, rovinando mi-
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ccidente o se, viceversa, sarà proprio il sistema liberale a vincere: l’analisi del grande storico tedesco
mocrazia: la partita è aperta di Ernst Nolte
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L’alternativa è che il Consiglio dei Guardiani si trasformi in una sorta di “Politburo” dittatoriale. In questo caso però occorrerebbe una guida spirituale più carismatica di Khamenei
gliaia di contadini e causandone l’esodo verso le periferie più povere delle città. Il suo attacco alla proprietà terriera del clero, che indubbiamente svolgeva un’importante funzione sociale, lo rese nemico dichiarato dei “mullah”.
Tra questi ben presto si distinse il giovane Ruhollah Khomeini, che dal suo esilio in Irak conduceva una lotta agguerrita contro lo Scià, avendo ampia capacità d’azione grazie ai moderni mezzi di comunicazione. La sfida più eclatante, ormai non più al clero sciita ma all’Islam in quanto tale, la lanciò lo Scià, quando a Persepoli celebrò con grande sfarzo il 2500imo anniversario della salita al trono degli achmenidi; nel corso di queste celebrazioni egli fu definito “luce degli ariani”. Khomeini aveva dunque le sue buone ragioni quando insisteva nell’esortare «salvate l’Islam dal pericolo», e poteva contare sul fatto che
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moltissime persone trovassero consolatorio il messaggio contenuto in uno dei suoi scritti: «L’Islam ha leggi e regole per ogni cosa. Ha annunciato all’uomo leggi che lo accompagnano per tutto l’arco della sua vita, dall’embrione al funerale». La “Repubblica Islamica” che egli fondò, per sua natura doveva dunque essere una“repubblica totalitaria”, senza necessariamente l’inclusione del terrorismo. Ma quei “venti milioni” non erano un blocco unico e i marxisti tra loro, i “fedayn del popolo”, in particolare, conducevano un’aspra lotta, anche continuando gli atti terroristici contro il regime. Riuscirono perfino ad eliminare tutta la direzione del “partito repubblicano islamico” nel corso di un attentato. L’antiterrorismo del regime diede certo molto più che una mera risposta, e già pochi mesi più tardi si contava un numero di vittime paragonabile a quello del “terreur” francese degli anni 1793/94.
Poi questo regime dovette affrontare, sempre sotto la guida di Khomeini, la più dura di tutte le prove: l’attacco del dittatore iracheno Saddam Hussein, che fu possibile respingere solo dopo quasi dieci anni di guerra. Difficilmente si troverà prova più eclatante della potenza di una fede fanatica di questo racconto, tramandato in termini non del tutto affidabili ma credibile, risalente al primo anno dopo la morte di Khomeini: alcuni veterani di guerra si sarebbero riuniti presso la tomba dell’Imam e piangendo copiose lacrime avrebbero chiesto perdono «per non essere caduti in guerra». Fin dagli esordi, questo regime “neo-totalitario” si era proclamato quale gruppo di resistenza più agguerrito contro gli Stati Uniti e “l’Occidente” e commise poi una grave violazione del diritto internazionale occupando – con gli studenti, tra i quali si trovava anche il giovane Ahmadinejad – l’ambasciata americana a Teheran e tenendone per molti mesi in ostaggio i collaboratori. Che cosa ci si poteva aspettare da un regime dichiaratosi nemico di quasi tutto il mondo ed in particolare di Israele, e la cui precoce spinta alla conquista del mondo era fallita per l’atteggiamento distaccato, in parte ostile, degli Stati sunniti, escluse piccole fazioni in Libano e nei territori palestinesi?! Se si accetta di guardare alle altre grandi rivoluzioni del XX. secolo facendo dei paragoni, si giungerà all’insolita conclusione che questo regime, nonostante le imposizioni dogmatiche restrittive e la povertà nella quale viveva la grande maggioranza della popolazione, è stato “più liberale” di altri regimi paragonabili. Lo è stato perchè ha regolarmente svolto elezioni generali, nell’ambito delle quali pur rimanendo in contesto islamico - esistevano possibilità di scelta, rendendo così possibili anche le proteste per i risultati. Quando nel marzo del 1921 a Kronstadt il regime bolscevico, uscito vittorioso dalla guerra civile, fu messo in serio pericolo dalle rivendicazioni e dai disordini di alcune parti dell’esercito e della popolazione che chiedevano “nuove elezioni con voto segreto” nonché libertà di opi-
Nei primi mesi del 1934 il regime nazionalsocialista tedesco si trovò in grave pericolo perché il Capo di Stato Maggiore dei ben quattro milioni di appartenenti alle SA, - secondo uomo in ordine d’importanza del regime, - aveva difeso anche pubblicamente l’opinione secondo cui alla prima rivoluzione del 30 gennaio del 1933 sarebbe dovuta seguire una seconda rivoluzione “sociale”, che sconfiggesse definitivamente “la reazione”, imponesse le SA come milizia al posto dell’esercito del Reich e dimostrasse così «che il nuovo nazionalismo idealistico tedesco non ha brama di conquista, bensì rivolge le proprie energie al suo interno». Così facendo sarebbe completamente fallito il disegno di Hitler. La sua risposta non tardò: fece fucilare Röhm ed i suoi più stretti collaboratori, nonché un numero imprecisato di “reazionari”. Nel corso di elezioni generali il popolo lo elesse per acclamazione, il che restò elemento caratterizzante delle elezioni durante il Terzo Reich fino al 1945. Per quanto riguarda il futuro della Repubblica Islamica, effettuare dei paragoni non produce certo previsioni sicure, ma le seguenti considerazioni potrebbero avere una buona percentuale di probabilità:
nione, stampa e associazione per i lavoratori ed i contadini (certo non per la “bourgeoisie”), Lenin fece soffocare la rivolta dal “sanguinario feldmaresciallo Trotzki” (come dissero coloro che furono attaccati). Da allora e fino alla fine del regime nel 1991 non vi furono più libere elezioni, proprio come non ce ne erano state dopo la sconfitta elettorale dei bolscevichi alle elezioni per “l’Assemblea Costituente” dell’autunno del 1917.
Se tra quattro o cinque anni il regime permetterà lo svolgimento di “libere elezioni”, ad onta di tutte le pre-selezioni, si ripeterà una situazione analoga all’attuale, e da più violenti disordini potrebbe scaturire una sommossa, perfino il rovesciamento dello “Stato teocratico”. Volendo escludere questa evenienza, le commissioni del “Consiglio dei Guardiani” e dell’ “Assemblea degli Esperti” dovranno essere trasformate in un “Politbüro”indipendente da elezioni. Se anche questo procedimento non dovesse dare esiti positivi, la carica di guida spirituale, che con Khamenei è in mani deboli, dovrebbe tornare ad avere carattere carismatico, nei termini in cui la deteneva Khomeini. Solo allora si potrà capire se davvero tutto l’Islam intenderà rilanciare una nuova lotta globale contro “l’occidente degli infedeli” oppure se la democrazia “occidentale” secolarizzata conseguirà la sua vittoria definitiva.
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politica
Tic. Da una parte, un centro-sinistra che ha affondato una decina di leader; dall’altra un centrodestra immutabile
Modello Robespierre D’Alema contro l’ennesimo leader del «suo» partito. Per far concorrenza al Sultanato di Antonio Funiciello
ROMA. Il gran ritorno sulla scena politica di Massimo D’Alema, ingombrante regista del candidato alla segreteria del Pd Bersani, riporta il bipolarismo italiano negli spazi, negli umori e nei ritmi degli ultimi quindici anni, dopo l’anomalia dei sedici mesi della parabola veltroniana. Da un lato il Sultano di Arcore Silvio, col suo orgoglioso sultanato e l’appoggio dei giannizzeri leghisti. Dall’altra il Robespierre di Gallipoli, che come Crono si cibava dei figli, appare più forte e in forma del solito quando cerca di fare fuori i segretari del partito a cui è iscritto al momento. A guardar bene, le cose che uniscono Berlusconi e D’Alema sono poche. Non fosse che quello di cui più si vanta il Presidente del Consiglio è anche quanto molti attribuiscono al Presidente di Italianieuropei. Berlusconi ha spesso detto che, battendo nella competizione elettorale o, peggio, in quella politico-parlamentare tutti i leader del centrosinistra, può vantare un record che nessun uomo politico al mondo potrebbe mai sognare. Occhetto, Prodi, D’Alema stesso, Amato, Rutelli, Fassino, Veltroni: sette nomi (ma nel caso di Prodi Berlusconi dimentica di essere stato sconfitto due volte da Prodi nelle elezioni del 1996 e del 2006) a cui
Continua la corsa “tutti contro tutti”
Chiamparino in bilico tra laicità e Ulivo di Andrea Ottieri
ROMA. Da tempo, ormai, è aperto il dibattito nel Pd sulle alleanze e sull’identità del partito: qualcuo, anzi, sostiene che questa discussione sia così aperta da non poter giungere – credibilmente – a una soluzione. Ultimo arrivato,a proporre il proprio orizzonte politico, è Sergio Chiamparino, di cui ancora non si sa se si schiererà con Bersani (come si era detto all’inizio) o con Ignazio Marino (come qualcuno vocifera, in questi giorni). In un’intervista pubblicata da Repubblica, il sindaco di Torino invita a ripartire dall’Ulivo, criticando il «correntismo esasperato del Pd». Dopo aver ceduto alle pressioni di chi non lo voleva candidato alla segreteria del partito, Chiamparino ora presenta un documento congressuale in tre punti: «Il primo è la capacità del partito di raccogliere le indicazioni dei territori e della società». Il secondo: «Dovrà essere un partito che ha sempre uno spazio vuoto al suo interno per accogliere chi vuole aggregarsi e oggi sta fuori. Un partito permeabile, in grado di attirare», sia a destra sia a sinistra, «l’importante è che arrivino forze nuove dall’esterno». Insomma, «un partito che raccolga tutta l’esperienza dell’Ulivo»: se non si lavorerà in questa direzione, dice Chiamparino, «rischiamo l’asfissia». Terzo e ultimo punto del documento: «La laicità è molto importante. Questo è uno dei motivi per i quali apprezzo la candidatura di Ignazio Marino, anche se non penso che mi schiererò». Ma la laicità è stata rivendicata anche da Dario Franceschini e Piero Fassino. L’ex segretario dei Ds – come è noto – sostiene il successore di Veltroni e in questa veste giovedì ha presentato il segretario-candidato ai militanti romani. E in questa occasione Fassino ha proprio riconosciuto a Franceschini tra le altre cose, il merito di aver tenuto «la barra dritta» sul fronte della laicità. Mentre sulle alleanze, Franceschini ha detto chiaramente che dovranno esserci, ma ruotando intorno al programma del Pd. Franceschini, comunque, giovedì prossimo presenterà il suo programma in una grande iniziativa pubblica, sembra probabile in un luogo significativo della Toscana.
Nel partito, comunque, il dibattito sulle preferenze per i candidati e sugli scenari possibili è entrato nel vivo. Su questo fronte, c’è da registrare la dichiarazione di guerra di Enzo Carra, uno dei rappresentanti dell’area cattolica: in caso di vittoria di Bersani, Enzo Carra non esclude una scissione perché «la vittoria di Bersani sarebbe un ritorno al passato». Invece per Sergio Cofferati, Dario Franceschini è «più di sinistra» di Bersani. Vannino Chiti invita ad evitare una conta di nomi chiedendo di dedicarsi ad una «discussione tematica». Infine Gavino Angius, presidente dell’associazione “Democrazia e socialismo”, ex dirigente dei Ds che non avevano aderito al Pd, ha fatto il grande passo: ha annunciato di essersi iscritto al Pd nel suo circolo di appartenenza «per contribuire, insieme a tanti, a rafforzare una forte opposizione democratica, credibile, popolare, autorevole, di cui c’è urgente necessità”. Per questa ragione, dice Angius, «il congresso del Pd decisivo per le prospettive future della democrazia italiana».
Franceschini è solo l’ultima «vittima» dell’unico capo di govero ex comunista, che forse in questo modo vuole rifarsi dello smacco subito quando non riuscì a salire al Quirinale il Cavaliere, nel giorno dell’elezione di Franceschini, ha detto che avrebbe presto aggiunto anche il nome del secondo segretario democratico.
nel secondo esecutivo Prodi come pure l’organizzazione e la militarizzazione del conflitto interno al Pd con l’obiettivo di mandare Veltroni in Africa.
La furia con cui da un po’D’Alema attacca in ogni circostanza, comizio di piazza o intervista che sia, l’attuale segretario del Pd, rafforza l’opinione di chi crede che l’uomo più forte della sinistra italiana, l’erede perfetto della tradizione comunista nostrana, condivida la vanteria di Bersluconi. Occhetto fu sostituito alla segreteria del Pds dopo le europee del ’94 proprio da D’Alema, che pure aveva condiviso tutte le scelte di Akel, compresa quella di non fare l’accordo coi Popolari e inventarsi la ridicola «gioiosa macchina da guerra». Il maggiore beneficiario della caduta del primo esecutivo Prodi nel ’98 fu, senza alcun dubbio, D’Alema, che divenne il primo (e a oggi l’unico) premier post comunista d’Italia. Fu D’Alema a dare l’avallo principale alla scelta di Rutelli come candidato premier nel 2001 al posto dello scaricato Amato. Fu sempre D’Alema che non riconobbe, dopo la sconfitta elettorale, il ruolo di leadership dell’intera opposizione che pretendeva di avere Rutelli e s’inventò Fassino segretario dei Ds. E ancora opera sua è il mancato ingresso di Fassino
Insomma, è difficile dire a chi più appartenga il record di cui tanto Berlusconi si vanta: se a lui o a D’alema (non a caso, l’avversario politico che Berlusconi stima di più). In quindici anni di Seconda Repubblica, è certo che i due poli dell’assidua baruffa politica sono stati proprio loro, sempre mantenendo le specificità di ruoli distinti eppure speculari. A destra, Berlusconi ha lentamente costruito un partito delle dimensione della vecchia Dc che ruota intorno a lui come i pianeti del sistema solare girano intorno al sole. A sinistra D’Alema, pur non ricoprendo una leadership riconosciuta in maniera permanente, fino ad arrivare a Palazzo Chigi senza ricevere il mandato elettorale, influenza i destini politici del Paese. L’unica occasione in cui il Sultano Berlusconi e Robespierre D’Alema si sono incrociati, è stato ai tempi della bicamerale nata durante il primo governo Prodi. Il famigerato (e comico) patto della crostata doveva servire ai due per rappresentarsi agli occhi dell’Italia come i nuovi padri costituenti, dopo quelli del ’46. Quanto ne seguì, fu soltanto l’indebolimen-
politica
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AUGUSTO BARBERA
«Ma il vero rischio è perdere il Centro» di Ruggiero Capone
ROMA. Può essere annoverato tra i “padri” del
D’Alema appoggia Bersani nella corsa per la segreteria del Pd contro Franceschini. Chiamparino, invece, non si è ancora schierato. A destra, Augusto Barbera
to esiziale della maggioranza parlamentare che sosteneva Prodi e la caduta dell’esecutivo, col rilancio delle ambizioni di potere berlusconiane. È bizzarro che quanto Prodi rimprovera a Veltroni (aver fatto cadere il suo affannato e claudicante secondo governo) scegliendo oggi di allearsi con D’Alema a sostegno di Bersani e contro Franceschini, è quanto confusamente accadde nel 1998 (seppure a parti invertite tra Walter e Massimo).
La differenza principale tra D’Alema e Berlusconi è che, fagocitando uno alla volta tutti i leader del centrosinistra, hanno goduto di speculari benefici che però solo Silvio il Sultano ha potuto direttamente massimizzare. A D’Alema è, invece, toccato un destino più amaro: essere il più rappresentativo leader della sinistra italiana, ma entrare a Palazzo Chigi soltanto dalla porta di servizio. Ultima delle tante scon-
fitte subite è stata sicuramente la mancata elezione al Quirinale, per cui D’Alema si era tanto speso all’inizio della scorsa legislatura. Fu lui a denunciare la conventio ad excludendum nei confronti dei post comunisti che però, con l’elezione di Napolitano, si rivelò essere una conventio ad excludendum nei riguardi del solo D’Alema. Ciò nonostante, è riuscito a garantirsi per tutti questi anni il ruolo privilegiato di controparte berlusconiana, fino alla sponsorizzazione per la futura segreteria democratica di un suo fedelissimo come Bersani. L’Italia è invecchiata insieme a loro, peggiorando i suoi difetti e diminuendo i suoi slanci di vitalità. In fondo entrambi, il Sultano di Arcore e il Robespierre di Gallipoli, rappresentano a destra e a sinistra meglio di chiunque altro l’incapacità del ceto politico italiano di innovare e modernizzare il sistema-paese. Anzi, entrambi, nelle loro robuste e consolidate posizioni di potere, sono i maggiori beneficiari di un’Italia immobile socialmente ed economicamente. In quello che, tra non molto, gli storici non esiteranno a definire il ”ventennio berlusconiano”, sono loro i garanti gattopardeschi di passaggi di potere fini a sé, che ogni volta s’incaricavano di dare l’impressione di voler cambiare tutto, per non cambiare niente.
Pd, pur non avendo fatto parte del“comitato dei saggi” del 2007. Ora, il costituzionalista Augusto Barbera mette in guardia da un congresso che potrebbe varare il «tripolarismo in Italia». Barbera faceva parte della componente migliorista del Pci, e non può dimenticare d’aver attivamente partecipato alla stagione referendaria, soprattutto elettorale. «Vorrei ricordare a molti quel periodo proficuo», sottolinea il giurista. Ma questo congresso è, come sostengono i dalemiani, pro o contro D’Alema? Non si organizza un congresso a favore o contro una persona. Il Pd deve discutere e decidere sul tipo di sistema politico che vorrebbe, o sul cambiamento dello stesso sistema politico e del Partito democratico. Per innovarlo e renderlo interprete delle domande della società. Se è questo l’obiettivo come mai spuntano candidati come assi nelle maniche d’un pokerista? Chi è Ignazio Marino? Una brava persona, ma rappresenta istanze troppo di parte per farcerla. Allora qual è il vero core business del congresso? Il congresso deciderà se far percorrere al Pd la strada d’un partito che, radicato a sinistra, poi dialoghi con un centro nuovamente autorevole. Oppure se sarà un partito più spostato al centro. Se vincerà la linea che torna a dare ossigeno al centro, spostando a sinistra l’asse del Pd, la componente Margherita - l’area cattolica - troverebbe logico avvicinarsi all’Udc di Pier Ferdinando Casini. Si riformerebbe così nel Paese un centro pronto ad amministrare e condizionare sia il Pd che il Pdl. Questo non deriva già dal fatto che né il Pd né il Pdl hanno il 50 più uno dei consensi? È notorio che in molte Regioni governatori e sindaci di grandi città abbiano amministrato, restando su posizioni di centro, ora con l’appoggio della sinistra ed ora con la destra. Questa è certamente una situazione anomala, italiana. All’estero, premetto in Occidente, non esistono situazioni similari. Non mi riferisco ad un partito confessionale, di cattolici. Bensì a quell’area indistinta che rimanda un po’ alla mente il crepuscolo della passata Repubblica, quando in ogni regione o area del Paese c’erano politici che amministravano con appoggi abbastanza trasversali.
Lei esclude che una parte degli italiani non desideri in cuor proprio di avere al governo un centro che governi sempre e comunque? Non sono contro il partito dei cattolici, ma contro quello degli affari. Un partito che riesca a rimanere al governo d’un comune, d’una regione o del Paese, tanto con il Pd quanto con il Pdl non è certo sinonimo d’alternanza. Quindi lei sostiene che il Pd ora deve decidere se avallare un sistema o il suo opposto? Qualcuno teme l’esistenza d’un centro che si pensava estinto con l’entrata del maggioritario? La riforma maggioritaria del 1993 - lo sappiamo non ha dato tutto quello che avrebbe potuto, però sono stati raggiunti importanti risultati positivi, dei quali devono essere fieri quanti hanno contribuito alla stagione referendaria del 1991 e del 1993. Con le riforme elettorali maggioritarie si sono avviati processi di alternanza e per la prima volta nella storia d’Italia Anche nel congresso del Pd potrebbe emergere quanto da lei paventato più volte, cioè lo scopo recondito perseguito da alcuni di “rifiutare questo bipolarismo”? Da anni ormai chiedo ai leader dei partiti se abbia senso costruire partiti a “vocazione maggioritaria” - intenzione assai lodevole - e poi collocarli in un quadro proporzionalistico. Il Pd non può dimenticare di essere il frutto maturo dell’Ulivo, soggetto politico cui forze di provenienza così diverse, proprio in forza della bipolarizzazione indotta dal sistema maggioritario, hanno dato vita guardando a ciò che li univa e mettendo da parte ciò che invece tendeva a dividere. E cosa risponde a chi parla di “corrente del Nord”o “partito del Nord”nel Pd? Ribadisco che la Lega ha guadagnato i suoi voti parlando di immigrazione e criminalità, non certo per la sua proposta federalista. Quindi lei mette nuovamente in guardia il Pd e la politica tutta da «pericolose spinte centrifughe o centripete»? Serpeggia sempre un sistema “tripolare”, che farebbe perno su un centro immobile che si rivolga ora o all’uno ora all’altro dei due poli, nel nome dell’assicurata e ininterrotta permanenza al governo. Aspirazione legittima ma poco funzionale per il buon funzionamento del sistema, che non tollera partiti destinati a governare comunque.
La riforma maggioritaria del 1993 non ha dato tutto ciò che avrebbe potuto, questo lo sappiamo bene, però abbiamo avuto dei risultati importanti. E questi non vanno persi
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diario
pagina 16 • 11 luglio 2009
Una guerra sindacale per la Fiat Le sigle non sono d’accordo sulla battaglia da fare per la chiusura di Termini Imerese di Vincenzo Bacarani
ROMA. Si fa sempre più aspra la polemica tra le tre principali organizzazioni sindacali dei metalmecccanici: Fiom-Cgil, FimCisl e Uilm-Uil. Dopo l’annunciata presentazione di piattaforme separate (Fiom da una parte e Fim-Uilm dall’altra) per il rinnovo del contratto di categoria, recentemente si è verificata anche una spaccatura sul fronte Fiat e cioè sui destini dello stabilimento della Cnh (New Holland) di Imola che produce macchine movimento terra e trattori e, soprattutto, sull’annunciato smantellamento della produzione auto a partire dal 2012 nello stabilimento siciliano Fiat di Termini Imerese. Ieri in questo stabilimento è stato effettuato il terzo giorno di sciopero consecutivo. Sciopero a cui non ha partecipato la Fim mentre vi hanno preso parte Fiom e Uilm. Non solo: nei giorni scorsi il segretario nazionale della Fiom, Fausto Durante, appartenente peraltro all’ala più moderata dell’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil, è arrivato a parlare addirittura di possibile “guerriglia sindacale” all’interno delle fabbriche che dovessero discutere o accettare la piattaforma di rinnovo presentata da Fim e Uilm. Una temperatura che pare destinata a salire e che riflette – all’ennesima potenza – il dissi-
dio ormai scoperto tra la Cgil di Epifani da una parte e la Cisl e la Uil di Bonanni e Angeletti dall’altra. Bruno Vitali, responsabile Fim del settore auto, prova a smorzare i toni della polemica sul versante Fiat. «Si tratta – dice a liberal – di divergenze sulla strategia, non certo sui contenuti. Noi riteniamo che sia inutile oggi spendere ore e giornate di sciopero quando il tavolo di confronto con l’azienda sul problema si terrà non prima di settembre». Secondo Vitali, azioni di lotta in questo momento andrebbero contro l’interesse dei lavoratori. «Scioperare in questi giorni – dice – vuol dire far buttar via i soldi ai dipendenti. Sui princìpi siamo d’accordo, non non ci sembra giusto il metodo. Ecco perché non partecipiamo a questi scioperi». Eppure, nonostante una
nazionale dei metalmeccanici. Fim e Uilm con una comune e condivisa piattaforma e Fiom con una propria. «Qui le divergenze – dice a liberal il segretario generale – sono sostanziali. Noi crediamo che con la piattaforma della Fiom, Federmeccanica incontrerebbe grosse difficoltà nell’avviare la trattativa». Se la Fiom annuncia un autunno caldissimo, anche riguardo ai rapporti con le altre organizzazioni sindacali, Farina constata che «la Fiom è in gravi difficoltà a sostenere una piattaforma sinceramente poco discutibile a un tavolo di trattative. È una piattaforma mirata a sostenere il conflitto. Ed ecco che partono questi proclami quasi di minaccia». «Ma qui si tratta di ragionare su cose concrete – interviene Fausto Durante, segretario nazionale Fiom – E allora diciamole queste cose concrete: Fim e Uilm chiedono un aumento salariale di 113 euro lordi per tre anni, che vuol dire circa 30 euro netti al mese con un salario che è già basso di per sè. Noi chiediamo invece 130 euro lordi per due anni. Non solo, ma chiediamo anche che gli aumenti salariali vengano tassati come i premi di risultato, cioè al 10 per cento e non in base allo scaglione di aliquota. E il risdultato di aumento di stipendio mensile sarebbe praticamente il doppio di quanto chiedono le altre organizzazioni».
Dopo lo scontro sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici, una nuova rottura. Che riguarda anche lo stabilimento di Imola sostanziale comunanza di vedute a livello nazionale, anche la Uilm ha partecipato alle agitazioni lasciando isolata la Fim. «Secondo me – commenta Vitali – c’è stato qualche problema di comunicazione tra Uilm centrale e Uilm di Termini Imerese. Credo che si tratti di un problema di strategia locale».
Concorda Giuseppe Farina, segretario generale della Fim. «Non credo a disaccordi sostanziali sulla questione Fiat – spiega – ci sono invece vedute diverse sui metodi». Ma il problema forse più grosso è rappresentato dal rinnovo del contratto
Non solo, la Fiom vorrebbe anche che la Federmeccanica proponesse anch’essa al governo una riduzione della pressione fiscale sugli aumenti salariali. Utopia? Per Fim e Uilm sì, per Fiom no.
Si chiama Anvur, pensato da Fabio Mussi è stato realizzato da Mariastella Gelmini: venerdì prossimo il via libera
Nuovo sistema di valutazione per gli atenei di Alessandra Migliozzi
ROMA. Dare i voti alle università anche e soprattutto per allocare al meglio le risorse statali. È questo lo scopo principale dell’Anvur, la nuova agenzia di valutazione nazionale del sistema universitario e della ricerca che approderà (salvo nuovi slittamenti) in Consiglio dei ministri il prossimo 17 luglio. Il regolamento del nuovo organismo è stato più volte annunciato dal ministro dell’Università Mariastella Gelmini ed è pronto da tempo, ma è sempre stata spostata la sua presentazione. L’ultima volta per fare spazio al disastro ferroviario di Viareggio. Ma nei giorni scorsi la stessa Gelmini ha assicurato che venerdì prossimo il regolamento dell’Anvur sarà esaminato in prima lettura dai ministri dell’esecutivo Berlusconi.
lutava la ricerca) e il Cnvsu (delegato all’università) che confluiranno nel nuovo organismo, il cui compito, spiega il testo del regolamento, sarà «la valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici». Corsi di studio universitari, dottorati, master, scuole di specializzazione saranno tutti valutati secondo nuovi parametri definiti dall’Anvur
La sua presentazione è saltata in varie occasioni anche perché da questo organismo dipenderanno i finanziamenti alle università
La nuova Agenzia prenderà il posto dei due comitati esistenti il Civr (che va-
stessa. Tra gli altri compiti anche quello di indicare i criteri per l’apertura di nuovi corsi, facoltà, sedi distaccate degli atenei per mettere un freno alla crescente prolificazione. Sul giudizio degli esperti peseranno molti fattori che andranno ora definiti nel dettaglio. Alcuni, però sono già indicati nel regolamento.
Conteranno, tra gli altri, i curricula degli studenti: più i voti sono brillanti più l’ateneo risulterà essere di qualità. Anche chi saprà attrarre finanziamenti esterni otterrà punti in più. I giudizi dell’agenzia saranno un faro, il punto di riferimento del governo per allocare risorse e anche, in prospettiva, per premiare il merito. I buoni propositi stanno scritti sulla carta del regolamento.
L’incognita, ora, è il passaggio ai fatti. L’ex ministro dell’Università Fabio Mussi, infatti, era arrivato quasi in porto con l’agenzia, lo frenò la Corte dei Conti poco prima della caduta del governo Prodi. Il presidente, il consiglio direttivo ed il collegio dei revisori dei conti saranno organi della nuova Agenzia. Il presidente non sarà eletto direttamente dal ministro, ma dal Consiglio direttivo i cui membri, però, a loro volta, sono indicati dalla Gelmini sentite le commissioni competenti. La politica, anche stavolta, non si sgancia del tutto dalle nomine.
diario
11 luglio 2009 • pagina 17
Sospettato di almeno tre stupri, è stato inchiodato dalla prova del dna
Il vicepresidente del Csm invoca una soluzione
Arrestato a Roma il violentatore seriale
Carceri troppo piene, l’allarme di Mancino
ROMA. È stato incastrato dal dna l’uomo fermato ieri pomeriggio dalla Questura di Roma perché sospettato di essere lo stupratore seriale. Si tratta di un impiegato e nel corso di una perquisizione in casa sua sarebbe stato trovato il coltello col quale avrebbe minacciato le sue vittime. Gli agenti hanno trovato nell’appartamento anche molto materiale pornografico. L’uomo ha un precedente per violenza sessuale. La polizia è risalita a lui risentendo molte vittime di aggressioni avvenute molto tempo fa ma portate avanti con le stesse modalità delle ultime tre donne stuprate (una alla Bufalotta lo scorso giugno e due al quartiere Ardeatino, ad aprile e ai primi di luglio), tutte aggredite di sera e nei rispettivi garage condominiali.
ROMA. Portando il suo saluto alla riunione del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, il vice presidente del Csm Nicola Mancino ha auspicato «la rapida adozione di misure di adeguamento di carattere logistico che, in attesa di soluzioni organiche, possano attenuare l’attuale situazione di disagio dovuta al sovraffollamento delle carceri». Dopo aver richiamato i principi costituzionali che presiedono all’esecuzione della pena - funzione rieducativa, garanzia dell’inviolabilità personale anche nei confronti di chi è sottoposto a legittime restrizioni della libertà, divieto di trattamenti contrari al senso di umanità - Mancino ha sostenuto che «in tale prospetti-
La pista dello stupratore seriale era diventata via via sempre più concreta proprio nelle ultime settimane, quando gli inquirenti avevano confermato l’ipotesi dimostrando che il modus operandi dello stupro della giornalista alla Bufalotta ai primi di giugno e quello della studentessa universitaria di circa un mese fa all’Ardeatino (cui successivamente si è aggiunta la terza violenza, sempre nel quartiere ardeatino) sembrava portare la stessa firma: tutte
L’Ocse si scopre ottimista sul futuro dell’Italia Anche a maggio resiste la produzione industriale di Francesco Pacifico
ROMA. Una rondine, come ripete il governatore Mario Draghi, non farà primavera, ma per quanto flebili arrivano ogni giorno nuovi segnali positivi per il Belpaese. Ieri mattina prima l’Istat ha comuinicato che la produzione industriale a maggio è rimasta stabile rispetto al mese precedente. Quindi l’Ocse ha comunicato l’ultimo dato del suo Leading Indicator – tra i più importanti indici compositi sulle tendenze del ciclo economico – dal quale si evincono «segni di potenziale ripresa in Italia e Francia». Cioè guarda caso da due dei Paesi che più di altri devono fare i conti con un forte debito pubblico.
Alla base di questi trend il rimbalzo delle scorte che ha fatto capolino nelle nostre indagini macroeconomiche ad aprile e che per adesso è sufficiente a spargere ottimismo sui mercati come tra le aziende. E poco importa se nessuno al momento sa, con certezza, se questa sovraproduzione si tradurrà in una ripresa dell’export oppure no. Quando davvero ci sarà l’uscita dalla crisi economica. Il sentiment, quindi, è positivo. E lo ha certificato proprio l’Ocse spiegando che tra i Paesi più sviluppati l’indice di maggio è salito a livello congiunturale in media di 0,8 punti, restando comunque 7,3 punti rispetto a un anno fa. E se l’area euro registra un plus di un punto (ma 4,7 sotto rispetto dodici mesi prima) l’Italia può vantare 1,7 punti i più. Ancora più qualitativo il dato sulla produzione industriale. Dopo il +1,1 per cento congiunturale di aprile, a maggio l’Istat registra una variazione nulla. Pochissimo rispetto a quanto fatto dai vicini Germania (+3,7 per cento) e Francia (+2,6), moltissimo se si pensa che l’istituto di statistica aveva previsto un valore negativo per questo mese. Non a caso gioisce Emma Marcegaglia: «È ancora, ovviamente, una congiuntura difficile se confrontiamo il dato su base annua. Però, come abbiamo già anticipato mesi fa la percezione è che la caduta si sia un po’ bloccata e molto lentamente cominci a risalire».
Rispetto un anno fa la produzione industriale è calata del 22,8 per cento. A spulciare i dati si scopre poi che i comparti più attivi riguardano i beni di consumo (più 2,8 per cento con quelli durevoli in crescita del 4,9) e l’energia (+2). Mentre arretrano ancora i beni strumentali (1,6 per cento) e quelli intermedi (-0,3). Di conseguenza ci si avvantaggia ancora degli effetti positivi del rimbalzo delle scorte, come dimostra il fatto che nello stesso periodo non è aumentato il livello degli ordinativi. Le attività restano basse. E lo saranno anche nel prossimo mese, quando – secondo il Centro studi di Confindustria – la produzione industriale segnerà un +0,6 per cento a livello congiunturale. Per l’Isae bisognerà aspettare il terzo trimestre dell’anno per riavere un livello delle attività sufficientemente alto. Si legge nell’ultimo rapporto dell’istituto: «Nel confronto con il maggio del 2008 il calo è ancora consistente», ma «nel complesso del secondo trimestre si stima una diminuzione congiunturale dell’attività industriale del 2,7 per cento, meno accentuata rispetto alle previsioni precedenti». Di conseguenza «è possibile affermare che la fase più acuta della recessione nel settore industriale sembra superata, con miglioramenti visibili anche nei giudizi enelle aspettative degli imprenditori».
Secondo l’organizzazione «ci sono segnali di potenziale ripresa». E, secondo l’Isae, l’attività risale dal terzo trimestre 2009
aggredite dopo avere parcheggiato nel box auto, minacciate con un coltello da un uomo con un passamontagna e dall’accento romano, immobilizzate con lo scotch, messo anche sulla bocca per non farle urlare, e poi abusate. Nessuna delle tre donne era stata picchiata o rapinata. Negli ultimi giorni, oltre alla identica modalità, si era aggiunto anche un dna coincidente, prima concreta traccia per risalire all’identità dello stupratore. Gli inquirenti hanno confrontato il dna dell’uomo con i resti organici rinvenuti nelle scorse settimane sulle scene delle violenze e addosso alle tre vittime. La prova ha dato un risultato schiacciante, inchiodando lo stupratore.
Non poco per il governo che ha confermato a maggio un aumento del fabbisogno di circa 7,6 miliardi e che mercoledì si accinge a portare in Consiglio dei ministri un Documento programmatico economico e finanziario, nel quale la stima sul deficit Pil sarà ribassato fino al 5 per cento ipotizzato da Draghi. Giulio Tremonti, reduce dal successo del G8 de L’Aquila, spera che a un aumento delle esportazioni seguano un freno alla disoccupazione e una crescita degli utili. Che potrebbero a loro volta rallentare il calo del gettito fiscale. Intanto il ministro incassa il nuovo dato sui rendimenti dei Bot dopo l’asta di luglio. La forte richiesta ha portato gli interessi allo 0,859. Nella precedente asta si era arrivati all’1,27.
va risulta ancora più evidente la gravità dell’attuale sovraffollamento delle carceri, che, di fatto, si traduce in un ostacolo all’attuazione del percorso rieducativo dei detenuti e, più in generale, alla realizzazione dei loro diritti fondamentali e, segnatamente, del diritto alla salute».
Mancino ha quindi richiamato il programma di interventi necessari per conseguire la realizzazione di nuove infrastrutture penitenziarie e l’aumento della capienza di quelle esistenti presentato recentemente dal direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Infine, soffermandosi infine sull’applicazione dell’art.41 bis dell’ordinamento che prevede l’adozione di un regime carcerario maggiormente restrittivo in funzione di una più efficace lotta alla criminalita’ organizzata, il vice presidente del Csm ha ricordato la delibera del 10 giugno 2009 approvata dal Consiglio che, pur esprimendo parere favorevole alle norme del ”pacchetto sicurezza” in tema di regime carcerario duro, ha evidenziato l’obbligo di «dare attuazione ai principi affermati dalla Corte Costituzionale e, dunque, a consentire che il regime in oggetto venga applicato conformemente alla Costituzione».
cultura
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Mostre. Ai Magazzini del Sale, l’esposizione dedicata all’artista propone giganti pitture su tela mosse da una sorta di “machina” leonardesca
Il “teatrante” di Venezia Viaggio scenografico nelle opere in movimento di Emilio Vedova, interpretate da Renzo Piano di Stefano Bianchi
VENEZIA. C’è un chilometro, a Venezia, che attira su di sé il più bel profilo urbanistico e culturale della città. Quando vi trovate a solcare l’estremo lembo del Canal Grande, ad avvolgervi è un’impareggiabile concentrazione di architetture e arti. Affacciato sul canale, c’è Palazzo Grassi. Di fronte, Ca’ Rezzonico e a seguire le Gallerie dell’Accademia e il Museo Peggy Guggenheim. Poco più in là, fiancheggiando la seicentesca Basilica di Santa Maria della Salute, ecco Punta della Dogana. Qui e solo qui, lungo il sinuoso percorso, ineguagliabili ricami di antiche dimore dialogano con l’informale dripping di Jackson Pollock e le visioni surrealiste di René Magritte (Museo Peggy Guggenheim), l’avanguardistica collezione d’arte del mecenate bretone François Pinault (Palazzo Grassi e Punta della Dogana) e l’incandescente, dinamica pittura dei segni di Emilio Vedova (1919-2006) che visse a un soffio dalla Salute, nella “scheggia” delle Zattere da dove ventenne vedeva partire battelli, sale e scaricatori d’una Venezia ancora povera, ma già in contatto col resto del mondo. Luogo, questo, che l’artista amò a tal punto da farvi puntualmente ritorno dopo i “pellegrinaggi” brasiliani, spagnoli, americani, scandinavi, cubani, macedoni e messicani che dagli anni Cinquanta agli Ottanta scandirono il suo veemente astrattismo. I grandi studi dove lavorò il pittore, sono qui: dal primo, a Fondamenta Bragadin, nel dopoguerra punto d’incontri/scontri intellettuali e dei primi contatti internazionali; all’ex abbazia di San Gregorio, dove fra il ’66 e il ’67 Emilio Vedova effettuò le prove di Spazio/Plurimo/Luce per L’Expo di Montreal; fino all’ex Squero, nella casa
appartenuta allo scultore Arturo Martini, domicilio per più di cinquant’anni. I Magazzini del Sale, in Dorsoduro al 46, fanno invece storia a sé nella vita di questo nevrile protagonista dell’arte che al principio dipinse “grovigli di figure”, interni domestici, storie di povera gente e anomale prospettive architettoniche, poi fu tra i firmatari del manifesto Oltre Guernica, entrò nella Nuova
«Sono eccezionali documenti di architettura industriale antica». Sollecita una presa di coscienza non solo cittadina ma internazionale, ottenendo che quegli spazi così “fisici”, asimmetrici e irregolari vengano salvati. Uno di essi, il primo a sinistra per chi guarda dal Canale della Giudecca, oggi accoglie le sue opere grazie a una convenzione stipulata fra il Comune di Venezia e la Fondazione istituita nel 2004 dall’artista
Le sue erano tele lignee, bifrontali, realizzate con collage, décollage, graffiti e ustioni. «Quadri che scoppiano sotto i piedi», li definì l’architetto Secessione Italiana e nel Fronte Nuovo delle Arti, aderì nel ’52 al Gruppo degli Otto con Basaldella, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso e Turcato, per allontanarsene l’anno successivo. Tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta, Vedova utilizza come temporaneo studio-laboratorio il quarto dei nove Saloni trecenteschi dei Magazzini del Sale. Nel febbraio del ’75, si oppone all’ipotesi di demolire i monumentali contenitori per sostituirli con una piscina pubblica. Ne difende il valore storico:
e dall’adorata moglie Annabianca. Una mostra diversa da tutte le altre, dove mastodontiche pitture su tela vengono incontro allo spettatore mosse da una sorta di “machina” leonardesca. Il merito di questo miracolo ad altissima tecnologia, va all’architetto genovese Renzo Piano. Al sorgere degli anni Novanta, Vedova scrive: «Negli stessi luoghi mi auguro trovi spazio la parte museale della Fondazione. Ne ho accennato all’amico Renzo Piano, che spero disposto a collaborare. Piano – architetto terra/acqua – da Genova ad Osaka, da Amsterdam a Berlino…a Venezia?». E ancora: «Io veneziano – tu genovese… luEmilio Vedova nasce a Venezia il 9 agosto del 1919. Force-moto-acqua matosi sull’espressionismo, opera inizialmente in contatto con il gruppo di Corrente (1942-43). Nel dopoguerra è tra i promotori del Fronte nuovo delle arti. Proprio in questo periodo, nel 19491950, aderisce al progetto della importante collezione Verzocchi (avente a tema “Il lavoro nella pittura contemporanea”), inviando, oltre a un autoritratto, l’opera “Interno di fabbrica”. Successivamente, fa parte del Gruppo degli Otto passando dal primo neocubismo delle “geometrie nere” a una pittura le cui tematiche politicoesistenziali trovano via via espressione in una gestualità romanticamente automatica e astratta. Nel 1961 collabora con Luigi Nono per la scenografia dell’opera “Intolleranza ’60”. Muore a Venezia il 25 ottobre del 2006 all’età di 87 anni, a poco più di un mese dalla scomparsa della moglie, Annabianca.
l’artista
In queste pagine, alcune tra le più significative opere di Emilio Vedova (in basso), attualmente esposte ai Magazzini del Sale di Venezia. L’esposizione è curata interamente dall’architetto genovese Renzo Piano, al quale Vedova era legato da una profonda amicizia
verso l’aperto… siamo gente da mar aperto».
Pochi anni prima, nell’84, i due si trovano a lavorare insieme: nell’ex Chiesa di San Lorenzo si costruisce “l’Arca del Prometeo”, spazio scenico ideato da Piano per allestire l’opera Il Prometeo con musiche di Luigi Nono, testi di Massimo Cacciari e l’orchestra diretta da Claudio Abbado. La scenografia, con l’illuminazione a far da protagonista, viene scrupolosamente curata da Vedova il quale discute con l’architetto ogni minimo dettaglio dei movimenti scenici che prevedono attori costantemente in moto fra effetti cromatici, luci e ombre, che circondano su tre livelli gli spettatori seduti in platea. Azione pura. Forse, tacitamente condivisa, nasce da qui l’ipotesi di inventare un sistema “dinamico” per presentare al pubblico l’astrattismo di Vedova. «Esiste tutta una mitologia intorno ai Magazzini del Sale: in particolare sul primo modulo che negli anni Settanta Emilio salvò dalla distruzione»,
ha dichiarato Renzo Piano. «Il Magazzino ha accolto i suoi lavori e le sue prime storie d’amore. Ma in tutte queste chiacchierate, fatte andando e venendo, c’era sempre l’idea che quel luogo un po’ magico, questa caverna di Ali Babà, questo imponente Magazzino potesse diventare un giorno la casa delle sue opere». Non una casa qualsiasi, ma nell’immaginario dell’architetto «una stiva un po’ oscura dove attorno c’era di tutto. Da qui l’idea di stare sostanzialmente in mezzo all’opera». Lo spettatore, cioè, non va incontro all’opera ma viceversa. D’altronde, Emilio Vedova non sopportava la staticità: «Le mie non sono creazioni ma terremoti», diceva. «I miei non sono quadri, ma respiri». E ogni volta che riceveva qualcuno nel suo studio, tirava fuori i dipinti da una stanza. Li “muoveva”, letteralmente. Oppure, li estraeva lentamente per poi disporli a parete. E a volte, i quadri si accumulavano a terra, uno sull’altro, con un coinvolgente effetto di sovrapposizione. In più, ripercorrendone la carriera, affiorano alla memoria opere dotate d’una chiara e logica dinamicità: ad
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premio Pritzker alla Casa Bianca, precisò: «Al tempo dei miei primi lavori era un gioco, una sfida un po’ingenua fatta di spazi senza forme e di strutture senza peso. In seguito, questo è diventato il mio modo di essere architetto. Io cerco di utilizzare in architettura elementi immateriali: trasparenza, leggerezza, vibrazione della luce. Credo facciano parte della composizione, quanto la forma e i volumi». Impalpabili, dunque, gli interventi allo spazio espositivo. Nessun ritocco alle volte e alla robustezza delle pareti in mattoni: il Magazzino doveva restare tale, nei suoi asimmetrici e irregolari sessanta metri di lunghezza e nove di larghezza. Unica eccezione: l’impalcato in legno leggermente inclinato che poggia sul pavimento di pietra accentuando la magia prospettica di questo “antro”inondato dal buio e da repentini squarci di luce.
esempio, i primi Plurimi datati ’62-’65 che Bruno Zevi definì su L’Espresso «quadri che scoppiano sotto i piedi»: pitture lignee, bifrontali, realizzate con collage, décollage, graffiti e ustioni, che sbucano fuori dalla parete per snodarsi nello spazio.
Oppure l’asimmetrico Spazio /Plurimo/Luce (’66-’67), che lo stesso Vedova definisce «un grande elemento rotante e sospeso in laminato, fulcro dinamico del Percorso/Plurimo/Luce, che intercetta e riflette collage/luce in movimento sulle proiezioni che si alternano nell’entrotetto, alle pareti, a terra e sui visitatori, così coinvolti e compartecipi in questa atmosfera dinamica/luce». O ancora, i Dischi elaborati nel biennio ’85-’86: su legno, bifrontali, dipinti e graffittati. Articolati, in un imprescindibile legame con lo spazio, su vari livelli: in piedi, a terra, distesi, obliqui, sghembi, a parete, incombenti, di taglio. L’artista li sublima nel ciclo Non a Caso, nella mostra Italia aperta allestita dalla Fondazione Caja de Pensiones, a Madrid. In uno spazio irregolare, che si presta a più percorsi, cinque grandi dischi stimolano l’attenzione dei visitatori: «Sospesi, minacciosi come ghigliottine, in piedi. Lame taglienti, a
irrompere dall’angolo su chi osserva. Sghembi, a terra, in traiettorie rischiose. Verticali, a spezzare i passaggi sospesi». Dominare lo spazio, sempre e comunque. Imperativo categorico, per l’arte segnica di Emilio Vedova. Catturare lo spazio col movimento (interiore ed este-
Qui dentro, immateriale, al servizio dei visitatori che si lasciano alle spalle la luce del sole che inonda le Zattere c’è la “macchina”, sovrana della scena interiore: un sofisticato sistema meccanico-robotico che sottrae i capolavori di Vedova (trenta enormi tele degli anni Ottanta) alla fissità dei muri. Nove carrelli con gru, che scorrono lungo la navata, vanno a prelevare le opere dalla “quadreria”, laggiù, in fondo al Magazzino («opere che attendono e sonnecchiano tranquillamente», ha sottolineato Renzo Piano, «perché hanno l’eternità davanti a loro»). Poi le sollevano lentamente e le fanno viaggiare con delicatezza lungo le antiche capriate, dominando lo spazio, fino a raggiungere la loro postazione, con inclinazioni e altezze predeterminate, all’interno di concentrati campi luce. La sequenza dell’entrata in scena prevede una decina di quadri. E dopo un preciso margine di tempo, le opere ritornano in archivio per essere sostituite da un altro ciclo di dipinti. E così, consecutivamente, per tre cicli. L’uscita di scena, si svolge ovviamente all’inverso rispetto alla prima sequenza. E nel momento in cui l’ultima opera viene archiviata, il primo quadro del ciclo successivo inizia a volteggiare nello spazio. A danzare. Dolcemente. In un evolversi solenne, che somiglia ad un mantra, di possenti pennellate che intrecciano rosso sangue, blu marino, nero pece, marrone di terre lontane, giallo del sole. Emilio Vedova rivive qui, fra le opere del suo divorante fare pittura. In questo Magazzino del Sale che ne restituisce intatta la spinta creativa. Sopra un “palcoscenico” che tanto avrebbe amato, dove sembra di udire la musica del mare e del vento. Fiore all’occhiello di Venezia e del suo chilometro dell’arte.
Nove carrelli scorrevoli vanno a prelevare le opere dalla “quadreria”. Poi le sollevano lentamente e le fanno viaggiare con delicatezza lungo le antiche capriate riore). Imprigionarlo. Penetrarlo. È ciò che succede al Magazzino del Sale, accessoriato dalla proverbiale leggerezza del “fare architettura”che è tipica di Renzo Piano. Nel ’98, insignito del
società
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CHICAGO. La Conferenza del Fondo di Istruzione dei diritti civili (Civil Rights Education Fund), tenutasi a Washington nel mese di giugno, ha riferito nelle sue conclusioni che la crisi economica e la paura di nuovi immigrati sono una delle cause fondamentali dell’intensificarsi degli atti di violenza dei gruppi di supremazia bianca (white supremacists). Il rapporto presentato alla conferenza afferma inoltre che da novembre, data dell’elezione di Barack Obama, i crimini razzisti si sono allargati a macchia d’olio soprattutto grazie a internet, e in particolare attraverso MySpace e Facebook. Infine si registra una crescita di episodi di intolleranza nei confronti delle minoranze ispaniche che, è stato affermato, dimostrano l’esigenza improrogabile di leggi molto più dure nei confronti dei perpetratori di qualunque crimine razzista.
In 20 anni dall’entrata in vigore dell’Hate Crime Statistics Act (una sorta di annuario statistico che registra in percentuale l’elenco dei crimini razzisti) il numero totale è stato in media di circa 7.500 all’anno, vale a dire uno all’ora ogni giorno dell’anno. Il ministro della Giustizia, l’afroamericano Eric Holder, citando i recenti episodi di intolleranza razziale a Washington, Kansas e Arkansas, ha affermato di fronte alla Commissione di avvocati per i diritti civili di Washington che c’è bisogno di nuove leggi che fermino quella che definisce «violenza mascherata da attivismo politico». «Nelle passate settimane abbiamo assistito a sfrontate azioni di violenza in luoghi e nei confronti di persone che vengono generalmente considerati intoccabili. Così sono morti una guardia nera al museo dell’Olocausto a Washington, un medico abortista in un ospedale a Wichita e un soldato in una caserma a Little Rock. Questi episodi ci ricordano la minaccia potenziale costituita dalla violenza degli estremisti e la tragedia che deriva quando il confronto civile viene sostituito da quello armato. Non possiamo tollerare gli omicidi e le violenze sui più deboli mascherati da attivismo politico. Pertanto voglio essere chiaro. Il Ministero della giustizia userà ogni strumento a disposizione per proteggere i diritti assicurati dalla Costituzione», ha affermato il ministro. Nelle settimane successive alla conferenza, avvenuta subito dopo l’attentato al museo dell’Olocausto a Washington, si sono verificati episodi che fanno molto discutere la stampa e dubitare i cittadini dell’imparzialità della legge e di certe istituzioni. Un enorme poliziotto in borghese sbronzo, dopo aver picchiato a sangue una giovane e minutissima cameriera che si rifiutava di vendergli ancora alcol, è stato assolto da un giudi-
Olocausto. A tu per tu con Richard Hirschhaut, direttore del nuovo edificio dell’Illinois
Una notte al Museo, sulle ali della memoria di Anna Camaiti Hostert ce a Chicago e un giovane marine di colore, gay, è stato trovato morto a S. Diego dopo essere stato ripetutamente oggetto di anonime violenze dentro la famosa base militare americana. Di questo allarmante fenomeno parla Richard Hirschhaut, direttore del neonato
che rappresenta la discesa nelle tenebre che condusse, durante il nazismo, al processo di sterminio degli ebrei, e una chiara, cioè il ritorno alla luce dopo l’incubo e la fine della guerra con mostre e riflessioni dei sopravvissuti, con l’intento di rappresentare un momento
razziale che dopo l’olocausto acquistano un significato diverso». Connesse da una sorta liaison, la stanza della memoria, che costituisce una sorta di ponte tra i due momenti storici e atteggiamenti nei riconfronti dell’olocausto, con nomi e persone che hanno salvato mi-
Il complesso, costruito dall’architetto Tigerman, è costituito da due padiglioni: uno buio, che rappresenta la discesa nelle tenebre che condusse gli ebrei allo sterminio; e uno luminoso, a significare il ritorno alla luce dopo il nazismo museo dell’Olocausto a Skokie, Illinois, pochi chilometri fuori Chicago. Nato da una Fondazione costituita da un numero di sopravvissuti ai campi di concentramento (il numero più alto nel mondo al di fuori di Israele), il museo, costruito dall’architetto Stanely Tigerman, è costituito da due ali: una scura
di riflessione per tutti a proposito dell’odio e dei pregiudizi razziali o peggio ancora dell’indifferenza. «Una lezione - spiega Hirschahut - che collega quei crimini lontani ai genocidi attuali, in Africa o in qualunque altra regione del mondo si combatta per la libertà, e a tutti gli episodi di intolleranza
gliaia di ebrei in tutta Europa, queste due ali mostrano sia filmati d’epoca che testimonianze dirette dei sopravvissuti, oltreché una quantità impressionante di reperti e materiale visivo d’epoca. «Il museo nato lo scorso aprile per volontà della fondazione - spiega ancora Hirschhaut - ha come scopo prin-
cipale non solo quello di testimoniare a cosa possono portare intolleranza e razzismo, ancora così vivi in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, ma, data ormai l’età dei sopravvissuti, anche quello di lasciare una memoria tangibile dell’orrore che nel cuore della civilissima Europa si consumò meno di un secolo fa». La Fondazione, nacque a Skokie nel 1978, quando un gruppo neonazista minacciò una marcia di protesta contro i componenti della comunità ebraica la quale si era concentrata in quel periodo in questa zona a nord di Chicago. L’anno successivo la Fondazione espose i pochi materiali che aveva allora a disposizione in un piccolo edificio che a malapena poteva contenere tutto ciò che veniva donato dalle famiglie dei sopravvissuti. Con gli anni i reperti crebbero e rafforzarono il desiderio e la volontà di far nascere un museo che finalmente ha visto la luce proprio lo scorso aprile grazie al tenace lavoro di volontari che o sono stati nei campi di concentramento o hanno avuto familiari deceduti in quei luoghi di orrore. La peculiarità di questo museo è che le loro testimonianze appaiono non solo nei diversi filmati esposti nel museo, ma i loro volti si possono riconoscere i tra coloro che accompagnano i visitatori del museo. Ho parlato in prima persona con alcuni loro che mi hanno raccontato nei dettagli le loro storie: da Fritzie Fritzshall, una signora dignitosa e gentile che ritornata ad Auschwitz per la prima volta parla del terrore che ha provato pensando di camminare sulle ossa dei molti lì deceduti a Enid Rehbock, che parla del marito sopravvissuto ai campi, a molti altri.
Alla domanda sul perché oggi i crimini razzisti sono in aumento, Hirschhaut risponde che ci sono due allarmanti fenomeni da tenere presenti: il primo è dovuto all’espandersi incontrollato di internet e il secondo alla polarizzazione della politica, che comporta l’estremizzazione dei comportamenti e dei fenomeni di intolleranza. «Per qualche motivo l’elezione del primo presidente nero negli Stati Uniti - conclude Hirschhaut - scatena nel profondo di molte persone quell’incontrollato odio che un passato di fanatismo razziale ha alimentato e represso allo stesso tempo, senza mai risalire alle origini del processo e che, nonostante le battaglie per i diritti civili, sembra ancora troppo vivo nell’inconscio e nell’immaginario collettivo. È per questo che un museo come il nostro è lì per ricordarci l’importanza della memoria, perché un tale orrore non si ripeta mai più (never again) nel mondo e specialmente in un Paese come il nostro, che per altro rappresenta ancora ovunque un esempio di tolleranza e di libertà».
spettacoli
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Musica. Poche sorprese ma tanto ritmo nel nuovo disco dei Wilco “The Album”, accompagnato dal dvd “Ashes Of American Flags”
I cantastorie... senza storia di Alfredo Marziano
è una rock band, negli Usa, che ha imparato a sfidare la logica e le leggi naturali. A suonare musica tradizionale con sensibilità postmoderna. A mettere d’accordo Hank Williams, il re del country anni 40/50, e lo sperimentalismo pop dei Radiohead. Sono così, i Wilco, o forse lo erano: perché il nuovo disco tautologicamente intitolato Wilco (The Album), li vede forse per la prima volta arroccati su posizioni di difesa dello status quo: «Un misto di Americana pastorale e di suoni sperimentali di studio», ha spiegato il leader Jeff Tweedy, una via di mezzo tra le dolcezze crepuscolari di Sky Blue Sky (2007) e le ardite teorie decostruttive di Yankee Hotel Foxtrot (2002). Intanto, è la prima volta che i Wilco - oggi un quintetto - si presentano nella stessa formazione per due album consecutivi. E poi, a differenza del solito, «fanno molto poco per sorprendere i fan» come scrive il Chicago Sun Times, quotidiano loro concittadino.
C’
«La vera storia dietro al disco, stavolta, è che non c’è nessuna storia». I Wilco tirano il fiato, insomma, dopo gli ultimi
Nelle tracce della band, che inventò il genere “alternative country”, grandi spazi, traffico congestionato, America postindustriale, rurale, armonia e caos frenetici anni on the road recentemente documentati da un bellissimo dvd, Ashes Of American Flags, che segue i cinque in tournée in giro per gli Stati Uniti tra il Ryman Auditorium di Nashville e il Tipitina’s di New Orleans, mentre dai vetri del bus osservano la bandiera americana andare in cenere, un Paese che gradualmente perde la sua vecchia identità fatta di certezze pre attentati terroristici, di piccoli empori di provincia rimpiazzati dai grandi magazzini, di fabbriche e granai oggi abbandonati. Resta la sua natura incontaminata: cieli immensi, stormi di uccelli neri, fiumi e foreste attraversati dai nastri d’asfalto. C’è tutto questo, nella musica dei Wilco: i grandi spazi e il traffico congestionato delle città, l’America rurale e quella postindustriale, l’armonia e il caos. Tweedy, il songwriter tozzo e paffuto che
assomiglia a Harvey Keitel, è stato, a fianco di Jay Farrar ai tempi della prima band Uncle Tupelo, l’inventore di un genere poi noto come alternative country o Americana che trovò nel loro primo disco del 1990, No Depression, il suo manifesto artistico: Leadbelly e la Carter Family sottratti alle teche polverose e riverniciati a nuovo con la sensibilità e le inquietudini dell’indie rock che circolava in quei tempi. Quattro album e poi i Wilco che ricominciano da lì, dal fantasma di Gram Parsons sepolto al Joshua Tree e da Woody Guthrie riletto e aggiornato in compagnia del cantautore inglese Billy Bragg, pescando in un cassetto di testi inediti messi a disposizione dalla figlia di seconde nozze del leggendario folk singer americano, Nora. Fino al succitato Yankee Hotel Foxtrot, l’album della svolta e dello scisma cosparso di fosforo e di provocazione, la musica tradizionale smontata, destrutturata e decontestualizzata (a tratti) come in un quadro cubista, tra slanci di struggente lirismo (Ashes Of American Flags, perfetta canzone per il dopo 11 settembre)
Sopra, quattro immagini della band Wilco in uno degli innumerevoli concerti negli Stati Uniti. Il gruppo è nuovamente nelle hits e nei negozi di musica con il loro nuovo (e omonimo) disco “Wilco (The Album)”
e complicati carillon musicali (I’m Trying To Break Your Heart), psichedelia ed esercizi di pop intellettuale. Troppo raffinato, troppo complesso e spiazzante, tanto che la casa discografica Reprise lo respinge al mittente intimando semplificazioni e qualche singolo da passare in radio. Tweedy e i suoi si rifiutano, e per tutta risposta lo fanno circolare gratuitamente in Rete: diventerà, ciò malgrado, il disco più venduto del catalogo una volta che l’etichetta Nonesuch (per ironia della sorte appartenente alla stessa grande famiglia della Reprise, Warner Music) deciderà di pubblicarlo e distribuirlo nei negozi. In molti prenderanno nota, imparando come servirsi di Internet in modo proficuo e intelligente (con il nuovo disco, sgattaiolato anzitempo sulle reti pirata peer-to-peer, la band ha fatto ancora una volta buon viso a cattivo gioco: rendendolo interamente disponibile per l’ascolto in streaming sul suo sito Internet ufficiale con diverse settimane di anticipo sulla pubbli-
cazione). A Ghost Is Born, nel 2004, proseguiva su quel sentiero fagocitando altri frammenti di enciclopedia della musica, le chitarre di George Harrison, quelle di Neil Young e dei Television, il kraut-rock tedesco anni Settanta e il Brit pop dei Novanta. Intanto, dal vivo (cfr. il formidabile Kicking Television del 2005) anche le vecchie canzoni cambiano pelle: il capolavoro è Via Chicago, pigra ballata country rock dall’album Summerteeth improvvisamente disturbata da interferenze rumoriste al calor bianco, la quiete malinconica di un limpido tramonto interrotta dal fragore di un cataclisma emotivo o naturale, chissà. Tweedy, che ha avuto i suoi problemi con droghe e psicofarmaci e con i vecchi compagni di band (il povero Jay Bennett, appena scomparso, che gli aveva fatto causa per presunte royalty non pagate), a quaratuno anni sembra avere trovato una discreta stabilità psicofisica e i compagni giusti: il fedele bassista John Stirratt (con lui già dai tempi degli Uncle Tupelo), i multistrumentisti Pat Sansone e Mikael Jorgensen, il batterista polivalente Glenn Kotche e soprattutto il chitarrista Nels Cline, attento alle sfumature armoniche e incline agli assalti elettrici all’arma bianca. Quel che ci vuole per le canzoni dei Wilco, che spesso non si muovono in linea retta, raccogliendo lungo il percorso cambi improvvisi di ritmo, di umore, di tono e di volume: il ritratto musicale del loro umbratile e ondivago leader. Con un disco come Wilco (The Album) troveranno magari nuovi argomenti quei giovani detrattori snob che, sugli Internet blog, definiscono con sprezzo la loro musica «il rock di papà».
Ma intanto le nuove star dell’indie rock americano (Feist, che duetta con Tweedy nella canzone You And I) bussano alla porta. E i fan crescono stabilmente, organicamente, di numero. In Wilco (The Song), il buffo e scanzonato countryrock che apre il nuovo disco, Tweedy li ringrazia personalmente: «Ti piace crogiolarti nella depressione? Ti senti assalito? C’è una cosa che devi sapere… i Wilco ti amano, baby». Poi però arriva Bull Black Nova, racconto dark scritto dal punto di vista di un tipo che ha appena assassinato la sua ragazza, a disturbare l’apparente relax e a rimettere tutto in discussione. No, i Wilco non hanno ancora finito di sorprendere.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Ghana News” del 10/07/2009
ObamaGhana er il Ghana è un vero evento e il Paese si sta preparando a godersi lo spettacolo. Barack Hussein Obama, il 44mo presidente degli Stati Uniti d’America, arriva all’aeroporto internazionale Kotoka, lo scalo aereo della capitale Accra. Per una visita che durerà due giorni, ma che resterà incisa nella memoria dei ghanesi per molti anni. Sarebbe la prima visita ufficiale di un presidente – per giunta afro-americano – a sud del Sahara. Un ingresso – venerdì sera – nel Continente africano, fatto dalla porta di un Paese che per primo nella regione ha ottenuto l’indipendenza. Fra i tanti significati che si possono leggere in questa scelta come primo passo dell’inquilino della Casa Bianca in Africa, c’è quello legato alla storia degli schiavi. Il Ghana infatti ospita uno dei più importanti fortini che venivano usati come punti di raccolta e vendita di uomini ai tempi della tratta. Parliano del Cape Coast castle. Un posto da cui gli schiavi provenienti dall’Africa attraversavano la loro «porta di non ritorno» per le Americhe e l’Europa. Questo luogo, che potrebbe essere definito un passaggio simbolico, potrebbe essere oggi ribattezzato «Porta del ritorno». E come molti altri afro-americani anche il presidente Obama, tornerà attraversando quella porta. Il presidente John Atta Mills e la First lady, la signora Mills Naadu, saranno lì, accanto a quel cancello, li accoglieranno in aeroporto per dare il benvenuto al presidente e a Michelle Obama. Un ritorno all’Africa che per Obama è già una consuetudine, visti i suoi frequenti viaggi, già quando era senatore. Ma il vero programma della visita comincerà sabato 11 luglio e dopo è prevista una visita proprio nel castello di Cape Coast, con una seconda cerimonia di benvenuto. Poi si terranno gli incontri bilaterali a porte chiuse fra i due presidenti. Naturalmente nell’agenda del viaggio non mancherà un banchetto
P
con numerosi ospiti, per permettere a Obama di incontrare alcuni dei personaggi africani che meglio rappresentano lo spirito della nuova Africa.Tra questi ci sarà l’ex presidente Jerry John Rawlings (entrato sulla scena politica nel 1979 alla testa di un gruppo di giovani ufficiali dell’Aeronautica militare, che potremo definire dei «giovani turchi» ghanesi, ndr) nato da un padre scozzese e da una madre ghanese. Fu lui a passare le consegne all’attuale presidente, allora suo vice, dopo i due mandati che gli consentiva la costituzione.
John Agyekum Kufuor farà parte della squadra di ospiti che potranno incontrare Obama (anche lui un ex presidente, entrato in carica nel Duemila in quella che potremo definire la prima vera transizione democratica del Paese dalla sua indipendenza, ndr). Ricordiamo che Kufuor è stato anche presidente dell’Unione africana. Ci saranno trecento invitati, con una rappresentanza del mondo politico, culturale, religioso, della società civile e del mondo delle imprese di tutto il Paese. È prevista anche una rapida visita nella struttura ospedaliera della capitale, il General hospital di Accra, prima di raggiungere l’International conference center, dove il parlamento del Ghana sarà convocato per ascoltare l’intervento del presidente Obama. Lì tutti si aspettano che l’inquilino della Casa Bianca tracci le linee per un nuovo rapporto tra America e Africa, un discorso importante per tutti leader africani. Seguendo il percorso già tracciato dai suoi precedenti interventi da quando è entrato in carica. Cioè aiutare il continente a raggiungere un punto di sviluppo tale da permettere ai suoi cittadini di essere orgogliosi di lavorare per l’Africa. Ci si aspetta dalle sue dichia-
razioni in Ghana che possa gettare le basi per una partnership paritaria tra America e Africa, come ha già fatto altrove. Questo intervento chiuderà la vista ufficiale del presidente americano ad Accra. Dopo si sposterà nella capitale della regione centrale, Cape Coast, dove verrà accolto dal vicepresidente John Dramani Mahama che lo accompagnerà nella visita privata al castello degli schiavi. Il presidente Obama e la moglie dovranno così passare attraverso la forte esperienza emotiva del «porta del non ritorno», cui seguirà una cerimonia ci carattere locale. La coppia presidenziale sarà poi ricondotta al Kia per imbarcarsi sull’Air force one per il viaggio di ritorno negli Usa.
L’IMMAGINE
Paghiamo sette volte le tasse che si hanno in Francia: non è giusto. Rimediamo subito
Casette volanti
Quando l’Ue afferma che il nostro è un Paese vulnerabile come debito pubblico, non dice una sciocchezza, ma la cosa si deve porre insieme a tante altre, a partire dal fatto che abbiamo la tassazione più grande sul lavoro e tale decurtazione non è associata ad una crescita lineare della produttività e del reddito. Qualcuno dice che paghiamo sette volte le tasse che si hanno in Francia, per non parlare della Germania che ha fatto passi da gigante in poco tempo. A questo punto ci dobbiamo porre una domanda: come facciamo ad andare avanti se questa è la musica di sempre? A mio avviso la situazione sul banco del governo si deve porre come una dieta dimagrante: per poter efficacemente perdere peso non si possono assimilare soluzioni discutibili alimentari, ma si deve realizzare al contrario quel processo che ha portato al disavanzo fisico. In termini poveri, non capisco perché si vuole che un governo riesca in pochi mesi a togliere dei danni che permangono da decine di anni.
Non illudetevi quello che vedete non è un nuovo superveloce modo di traslocare. Questa casetta è vuota e lo resterà per un bel po’. È infatti un’opera d’arte, creata da Mikael Genberg, architetto svedese famoso per i suoi progetti stravaganti. Il cottage è stato depositato a 85 metri d’altezza, sulla cupola dell’Ericsson Globe Arena di Stoccolma, dove rimarrà per tutta l’estate
Gennaro Napoli
L’EVIDENZA NON SERVE ALLA GIUSTIZIA
LE CRITICHE INGIUSTIFICATE DI “REPUBBLICA”
La Russia, direttamente interessata ai rapporti di buon vicinato con l’Iran, ha espresso la necessità di non isolare il Paese persiano dal resto del mondo. Contemporaneamente Obama, per mantenere i toni concilianti, non prende una posizione decisa contro ciò che sta accadendo. Ho la sensazione che il mondo abbia fatto notevoli passi indietro, perché se l’informazione che esiste adesso fosse stata presente tanti anni fa, quando almeno la condanna e lo stupore verso la violenza di stato era presente, le prese di posizioni internazionali sarebbero state differenti. In sintesi, non sempre l’evidenza serve alla giustizia, se l’interesse è al di sopra di tutto.
Tantissimi anni fa compravo La Repubblica perché credevo fosse un giornale di elevata cultura, nonché corredato da tante iniziative editoriali e pubblicitarie. L’idea l’ho abbandonata ben presto e non solo per un fatto ideologico, ma nel vedere una costante tendenza alla critica ingiustificata per demolire la professionalità delle persone. Ben 10 anni circa, la punta finale del mio breve connubio fu una critica esagerata per demolire il successo ottenuto dalle ragazze che erano uscite dal programma di Boncompagni Non è la Rai, cosa che mi dispiacque veramente perché mi sembrava un facile moralismo di vetrina. Dopo tanti anni la stessa salsa ha condito un piatto che si
Carla Demetri
trova al centro di una campagna denigratoria, che non ha nulla a che vedere con la politica, i problemi interni di chi non arriva a fine mese, i problemi esterni con il sangue che scorre in Persia, ed io credo che per quanto possa essere esagerata una frase “stampa eversiva”. Essa proviene dalla rabbia nel vedere che talvolta l’etica e la morale, troppo spesso ri-
chiamate, si usano come quell’arma fatta di veleni e antiche posture, che un mezzo moderato non dovrebbe perpetrare ma soprattutto non possedere.
Sebastiana Pioli
IRAN LIBERO Le iniziative telematiche che invitano a un mondo di pace nelle piazze della solidarietà con l’Iran
che soffre vanno lodate e incentivate perché la coscienza italiana sulle lotte di popolo può insegnare molto. Ho sentito che in alcuni seggi il risultato a favore del presidente è stato del 100% e ciò è un assurdo della logica, così come sembra che alcuni elettori siano stati addirittura allontanati con stratagemmi vari.
Stefano Niggi
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quell’universo felliniano di cui è il primo a stupirsi
8 GENNAIO 1979
Caro grande Fellini, leggo le sue lettere sempre con piacere: ma l’ultima, spedita per posta aerea, deve averfatto la rotta polare! In realtà ho paura che lei sia venuto in Svizzera e che, non avendole io risposto per tempo, l’occasione di vederla sia andata in fumo. Ma lo sa che una raccolta di lettere e conversazioni sue permetterebbe di studiare la personalità del vero creatore, di cui lei è per così dire il prototipo? Per esempio, lei si meraviglia dello scalpore suscitato dal suo ultimo film negli ambienti più diversi e delle molteplici considerazioni a cui dà luogo. Si potrebbe dire la stessa cosa degli altri suoi film, che a mio avviso hanno dei significati di cui lei nemmeno si rende conto. È appunto questo lo spirito creatore. Credo di averglielo già detto: lei crea con il suo inconscio e quando, come ora, si sente vuoto, è invece il momento in cui dentro di lei si compie il lavoro vero e proprio. Così lei ha creato e continua a creare quell’universo felliniano di cui è il primo a stupirsi. Sono sempre stato convinto che la creazione sia inconscia, ed è questo che la distingue dalle opere frutto della sola intelligenza o di abilità. Un abbraccio a lei e a Giulietta. Georges Simenon a Federico Fellini
ACCADDE OGGI
LA FASE CONGRESSUALE DEL PD Mi aspettavo un congresso che sapesse costruire un progetto politico di alta qualità e un programma di governo del Paese concreto. Un progetto politico dinamico, vero, aperto al contributo di personalità esterne, per favorire e allargare il consenso, la partecipazione e la crescita. Un progetto politico di allargamento del Pd e di alta civiltà, con tre obiettivi: 1) a livello nazionale diventare una grande forza politica di riferimento per i cittadini e di governo; 2) a livello europeo contribuire al governo dell’Europa e la costruzione di una costituzione europea, dove stabilisca i diritti e doveri dei cittadine europei; 3) a livello mondiale, battersi per combattere la fame, le malattie e per la pace in tutti i Paesi del mondo. Sono certo che nella trasparenza e nella dialettica, verrà scelto un segretario e un gruppo dirigente capaci di dare una vera unità al partito, anche perchè sappiamo che le differenze, devono essere vissute come una ricchezza, poi sia fatta una sintesi dei contenuti e l’unità nelle decisioni, trovi quella forza necessaria per dare una spinta propulsiva al Pd in tutto il Paese. Deve essere un partito che sappia stare vicino ai cittadini, ai lavoratori, i pensionati, agli ammalati, ai loro bisogni, alle loro richieste, poi c’è la necessità di radicarsi sul territorio, di essere in mezzo alla gente e con la gente. La questione morale deve essere messa al primo posto nel progetto politico e stabilire un codice etico di comportamento, nella vita pubblica e nella vita privata, da rispettare. Poi che sia
e di cronach di Ferdinando Adornato
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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
11 luglio 1938 Howard Hughes stabilisce un nuovo record, compiendo un volo di 91 ore attorno al mondo 1943 Le truppe anglo-americane sbarcano in Sicilia 195 Randy Turpin diventa campione dei pesi medi di pugilato, dopo aver sconfitto Sugar Ray Robinson 1962 Telstar, il primo satellite per telecomunicazioni del mondo, viene lanciato in orbita 1968 Maurice Couve de Murville diventa primo ministro di Francia 1973 Le Bahamas ottengono l’indipendenza all’interno del Commonwealth 1976 Disastro diossina a Seveso 1985 Dopo una valanga di proteste dovute al cambio della sua formula (vedi New Coke), la Coca-Cola reintroduce la vecchia formula 1991 Boris Yeltsin inizia il suo periodo di 5 anni come presidente della Russia 1992 A Miami, Florida, l’ex leader panamense Manuel Noriega viene condannato a 40 anni di prigione per traffico di droga
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
un progetto pieno di valori veri, sincerità, onestà, trasparenza, solidarietà, rispetto dell’altro, grande umanità, devono essere la carta d’identità per il Pd. Sanità, il diritto alla salute che sia veramente garantito a tutti i cittadini, il Servizio sanitario nazionale mantenga per tutti i suoi principi di uguaglianza di trattamento e universalistici su tutto il territorio nazionale. Scuola, il diritto allo studio, all’istruzione, alla formazione sia garantito a tutti i cittadini in eguale misura, anche ai meno ambienti, siano fatti maggiori investimenti economici, nell’istruzione e nella ricerca, sia fatto tutto il possibile per elevare la cultura. Previdenza ed assistenza, bisogna garantire una pensione dignitosa a tutti i pensionati, non come avviene ora che tanti non c’è la fanno ad arrivare a fine mese. Il sistema socio assistenziale, deve essere finalmente reso efficiente una rete di servizi sul territorio, per anziani, diversamente abili, bambini. C’è urgentemente bisogno, di eliminare tanta burocrazia, in tutti i settori e tutti i servizi, i cittadini sono severamente messi in difficoltà, chiedono una semplificazione, per facilitare lo svolgimento delle loro pratiche e a loro vita. La questione fiscale, il 90% delle entrate fiscale lo pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati, è ora di mettere mano con forza a questo malcostume italiano, per combattere l’evasione e l’elusione fiscale, per poter pagare meno e pagare tutti. Poi una seria lotta alla corruzione, alla malavita organizzata, alle mafie.
Francesco Lena - Cenate Sopra
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
SEGNALI DAL SUD… E NON DI SOLO FUMO! Non sarebbe certamente la prima volta che il Sud anticipa scenari politici futuri o accenda la miccia dell’ormai polveriera Partito della libertà. Quello che sta accadendo in queste ultime settimane tra la Sicilia e la Campania nella famiglia “allargata” del Pdl è la spia che, qualcosa sta per cedere nella struttura partitica berlusconiana. Prima Miccichè e Dell’Utri in Sicilia con il caso Lombardo e la minaccia del partito del Sud, poi Nicola Casentino, Mario Landolfi e i vertici regionali in Campania sulla questione Lettieri, quale candidato in pectore, indicato – pare – direttamente da Berlusconi alla presidenza della Regione. Quest’ultimo risulta infatti pubblicamente non gradito ai dirigenti politici del partito in Campania. Forse per la prima volta in modo più marcato cercano di dire no alle scelte personali di Berlosconi, nell’indicare la linea e gli uomini su cui puntare. Sicuramente un segnale forte di dissenso interno e di debolezza del capo. In tempi non molto lontani, altri hanno pagato con la “rimozione” forzata dal loro incarico nel partito, per molto, molto meno, ma il Berlusconi di allora era saldo e solo al comando del partito e della corte di turno. Oggi sembra non essere più cosi e se con il G8 la testimonianza di Obama prova a riconsolidare una leadership internazionale, in Italia comincia a scricchiolare la sua leadership politica, proprio a partire dal suo partito. Le posizioni, poi, sempre più critiche di Fini, l’estremismo imbarazzante della Lega, il silenzio assordante di alcuni settori della società e del governo stesso stanno facendo il resto. A questo punto non sappiamo se in presenza di tali segnali Berlusconi diventerà più bravo o più cattivo con i suoi e con chi gli gira intorno. Sappiamo per certo che il nuovo sentiero che parte dal Sud porta sulla via del tramonto. Non senza meriti, ma anche senza quella grande ultima intuizione che poteva fare dell’uomo politico uno statista. Favorire la nascita del Pdl attraverso una vera costituente partecipata e alla pari con le altre forze politiche interessate e non dal predellino di un’automobile, oltretutto estromettendo e costringendo ad una difesa estrema chi in Italia da sempre rappresenta i valori in cui si riconoscono, per storia, cultura e tradizioni, la maggioranza dei politici e dei cittadini italiani. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL
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PAGINAVENTIQUATTRO Costumi. Lo Stato dell’Uttar Pradesh ha vietato alle ragazze del college l’uso di abiti occidentali
Attenti, l’India si sta togliendo di Francesco Lo Dico iente jeans, gonnellini, o camicette. No a spacchi, svisature e trasparenze. Lo stato indiano dell’Uttar Pradesh ha ufficialmente bandito dai college di tutto il territorio qualunque tipo di costume possa celare nella fattura carnali ammiccamenti di stampo occidentalie.
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Un provvedimento, maturato nell’intenzione di limitare le sempre più numerose molestie sessuali ai danni delle giovani studentesse locali, legato al cosiddetto fenomeno dell’eveteasing, termine che assomma su di sè un ampio spettro di attitudini maschili – dal fischio allo sguardo impudico, dal complimento sordido all’esclamazione lubrica – che in India vengono perseguite come reati penali. Nella cultura dell’ex colonia britannica, infatti, certe scalmane altrove derubricate a gaia e irriverente piacioneria o innalzate a spirito della nazione, non rappresentano soltanto un’evidente mercificazione del corpo femminile, ma offendono anche il sentimento religioso di chi quel corpo lo indossa. A metà fra reato e sacrilegio, insomma, un’occhiata non troppo furtiva o una mano non troppo morta, possono costare all’utilizzatore indiano mesi di prigione ed esose ammende pecuniarie. Ma al netto di un sempre più preoccupante numero di stupri ed episodi di stalking, la moratoria sui jeans sembra a molti autorevoli commentatori un giro di vite inefficace. Una di quelle viti malferme, che si tenta di fissare su un supporto marcio. «Ammesso che jeans e i vestiti occidentali siano sempre sexy e che vietarli sia una misura efficace – commenta la sanscritista Enrica Garzilli su Orientalia4All – questo significa che indirettamente la responsabilità delle molestie va fatta ricadere sulla donna, che va tenuta sotto controllo con mezzi restrittivi della sua libertà, e non sull’uomo. Così è punita due volte». «Non sanno in India che la violenza sessuale, l’abuso e le molestie sono un problema di potere (e spesso di impotenza) e di controllo dell’uomo, e non dipendono da come una si veste, o se è bella o no?», conclude la studiosa. L’altolà imposto al vestiario sbarazzino e tentatore timidamente affacciatosi tra le nuove generazioni alfabetizzate, e un po’ globalizzate del sistema indiano, è rimbalzato infatti sui quotidiani occidentali carico di tutto il suo movente rancoroso e farisaico. Si è parlato di protezionismo anacronistico, di implicita e orgogliosa diffida scagliata contro la corruzione dei costumi, di pericolosi segnali reazionari. E di certo, vietare alle teenager indiane di indossare abiti provocanti perché in giro bazzicano
I JEANS quel processo di trasformazione accentuatosi già dai tempi della colonizzazione britannica, è la doppia velocità dell’India. Una regione popolisissima e immensa, che scuote le sue radici millenarie in un terreno d’argilla. Che da un lato consente all’attrice-modella Rakhi Sawant di sfidare la tradizione dei matrimoni combinati in un seguitissimo reality show che la vede ammiccare e dispensare turbamenti in mezzo a tronisti predaci e sinuosi inarcamenti. E dall’altra impone a giovani studentesse del college un indumento come il sari che, in un Paese che ha ampiamente accolto l’immaginario televisivo-commerciale atlantico, non può che risultare agevole come una camicia di forza.
L’impressionante crescita di molestie sessuali ha indotto i governatori a una stretta sugli indumenti occidentali. Un provvedimento che secondo molti impone alla donna una doppia umiliazione e riafferma un maschilismo assolutorio troppi malintenzionati, non può che risultare all’occidentale medio, mediamente ignaro dell’osservazione partecipante di Malinowski, un odioso sopruso.
Specie in Italia, dove per un curioso ribaltamento semantico, il jeans è stato dichiarato, piuttosto che oggetto lussurioso, un valido deterrente alla molestia da un’ormai nota sentenza. Ma ciò che colpisce di più, intorno alla vicenda del ritorno al sari e alla morigeratezza cui l’Uttar Pradesh affida di certo una connotazione religiosa, in polemica con Nella foto grande, una donna indiana veste il sari, tipico abito indiano
Contraddizioni tipiche di una società liquida. La verità è nei jeans, o forse nel sari, o forse in tutti e due. Una volta, per capire, ci si era inventati l’empatia. Povero Malinowski. Oggi basta soltanto l’apatia.