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In guerra, la massima

di e h c a n cro

«la sicurezza innanzi tutto» porta diritto alla rovina Winston Churchill

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 15 LUGLIO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La bomba, piazzata sulla strada, fa anche tre feriti. Berlusconi: «È il prezzo della pace»

Di Lisio, un altro eroe italiano Agguato in Afghanistan: muore un parà della Folgore di 25 anni ROMA. Alessandro Di Lisio,

pubblica Giorgio Napolitano 25enne originario di Camposi è detto «addolorato», ma basso, era un caporalmaggioha anche ricordato che «c’è re della Brigata paracadutisti comprensione e condivisiodella Folgore. È morto ieri a ne nell’opinione pubblica causa dell’esplosione di una italiana» nel portare avanti mina nel sud dell’Afghanil’impegno in Afghanistan. Il stan, a cinquanta chilometri premier Silvio Berlusconi ha da Farah. Nell’esplosione soespresso il suo personale no stati feriti tre suoi commicordoglio e del governo, ma litoni, in modo sembra non ha ricordato «la necessità e Alessandro Di Lisio, il parà morto in Afghanistan grave. Sul suo blog, parlando l’importanza della missione del conflitto, il giovane milidi pace in Afghanistan per la tare scriveva: «Fra tre mesi torno a casa. stabilità di un’area strategica». Intanto riÈ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve parte il dibattito sugli italiani nel Paese. pur fare». Unanime il cordoglio del mondo politico italiano. Il presidente della Reservizi alle pagine 8 e 9

Un’analisi dal fronte

Diario di una guerra da cambiare di Andrea Margelletti

HERAT. Afghanistan, anno ottavo dalla caduta del regime talebano del mullah Omar. Come oramai macabra consuetudine di questi ultimi anni, torna la violenta insurgenza dei militanti islamici. a pagina 8

Una mozione alla Camera contro l’eugenetica

L’Onu intervenga: l’aborto non può diventare selezione genetica di Rocco Buttiglione

L’ESTATE INFUOCATA DI BERLUSCONI

Luglio rovente

a quando la Corte suprema Usa ha legalizzato l’aborto, si è aperta nella coscienza dell’Occidente una spaccatura che persiste fino al tempo presente. Ci siamo trovati a discutere infinite volte sul tema del diritto alla vita e del diritto alla scelta. Ma l’iniziativa di questa mozione si inserisce non nella continuazione di quella disputa, ma in un tentativo di guardare oltre quella disputa, cominciando con il renderci conto che, mentre noi ci dividevamo tra pro choice e pro life, nel mondo esistono miliardi di donne che non hanno diritto di scelta per la vita.

D

Tremonti conferma: Pil 2009 a -5,2%. Bankitalia rilancia l’allarme: entrate dello Stato in calo di almeno 5 miliardi. Le polemiche sullo scudo fiscale e sulla riforma delle pensioni chiudono il cerchio: per il governo sarà un mese decisivo

a pagina 11

Luca Ricolfi sulla crisi dei democratici

«Il Pd? Non sembra più neanche un partito, ma un circo» di Errico Novi

ROMA. Con il necessario disincanto dell’osservatore, Luca Ricolfi ripassa le ultime stranezze del Pd: «Dopo la Vincenzi schierata con Marino c’è Burlando che apre a Beppe Grillo: si può parlare di caso ligure... ma se nel Pdl ci fossero le primarie e Grillo avesse provato a candidarsi lì, immagini cosa sarebbe successo: tutti avrebbero fatto quadrato per respingere l’assalto. Nel Pd invece ognuno fa per sé». E la tendenza suggerisce al sociologo la più sgradevole delle immagini, per un partito: «È un circo».

alle pagine 2, 3, 4 e 5

segue a pagina 6 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

138 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Scommesse politiche. Presentato il Dpef: per la ripresa bisognerà aspettare il 2010. Le critiche dei sindacati

Un mese che vale un governo Tremonti: «Pil a -5%». Bankitalia: «Debito record». I vescovi: «Il peggio deve arrivare». E poi polemiche su fisco e pensioni: si apre un luglio rovente di Francesco Pacifico

ROMA. Un luglio infuocato, decisivo per la sopravvivenza stessa della legislatura, attende il governo Berlusconi. Per una (micro) ripresa, è ormai un dato di fatto, bisognerà aspettare il 2010. Se la Cei – attraverso il segretario monsignor Mariano Crociata – avverte che «la crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il suo momento più critico», Giulio Tremonti si mostra appena più ottimista, confermando che nel 2009 il Pil s’inabisserà al -5,2%. Intanto Bankitalia lancia l’allarme sulle entrate dello Stato, con un calo stimato intorno ai 5 miliardi di euro. E le polemiche sullo scudo fiscale e sulla riforma delle pensioni “al rallentatore”contribuiscono a tratteggiare un quadro estremamente complicato per l’esecutivo di centrodestra. Nel Dpef presentato ieri ai sindacati e alle imprese, il ministro dell’Economia fa capire che non è ancora arrivato il tempo di volare alti. Che si gioca in retroguardia.

Guai però a lamentarsi con lui. «La vera novità è che non ci sono novità, mentre le altre volte c’erano tagli e stangate». Parole che hanno innervosito Guglielmo Epifani: «Il governo non ha detto una cosa sulle pensioni né sullo scudo fiscale e neanche sulla social card. Non ci ha detto nulla di cose di cui tutto il Paese parla. È inammissibile». Nel Documento programmatico economico finanziario, l’ultimo della storia italia-

na, che arriverà oggi in Consiglio dei ministri è bandita ogni forma di misura espansiva. Si deve salvare l’esistente, «la tenuta strutturale dei conti pubblici, la coesione sociale attraverso gli ammortizzatori e la liquidità alle imprese a partire dalle piccole e medie». Su questi tre obiettivi sarà incentrata la politica economica del governo. In questa chiave non deve sorprendere che, dopo le minacce di questi giorni, Palazzo Chigi abbia frenato su previdenza e

Per il resto nessun passo indietro sull’evasione fiscale, indispensabile leva per «la lotta all’evasione fiscale», che secondo il governo può dare risultati soltanto se accompagnata dall’azione di controllo degli enti locali. Ma più dei propositi bastano i numeri per capire gli spazi di Tremonti. Che l’unica speranza di fare cassa è affidata allo scudo fiscale. In verità l’argomento non è stato toccato durante il vertice di ieri, anche se si attende per oggi – attraverso un

Tre gli obiettivi di Palazzo Chigi: tenuta dei conti pubblici, coesione sociale e liquidità alle imprese. Epifani: «Non dicono nulla sulle cose di cui parla il Paese. È del tutto inammissibile» salute. Complice la prudenza di Tremonti e del suo collega Maurizio Sacconi, si è deciso di «confermare le prestazioni per quanto riguarda pensioni, assistenza e sanità. Sono i cardini della pace sociale». Via libera, quindi, all’equiparazione dell’età pensionistica tra uomini e donne nel pubblico impiego, ma soltanto perché lo chiede l’Europa. Ma nessun tentativo – al momento – di estendere lo stesso schema ai lavoratori del privato. Un sforbiciata alla spesa per la sanità, comunque inferiore ai 7 miliardi di euro ventilati, e compensata a sentire ambienti di via XX Settembre da uno sblocco dei fondi Fas.

emendamento al disegno di legge anticrisi – il piano del governo. Fatto sta che a leggere il Dpef il governo ribassa le stime sul Pil (-5,2 nel 2009 e +0,5 nel 2010), mentre il debito pubblico si attesterà al 115,4 per cento del Prodotto interno lordo a fine anno e schizzerà fino al 118 per cento del Pil alla fine del 2010. Secondo i tecnici del ministero dell’Economia, nel 2011 il deficit/pil corretto per il ciclo, depurato cioè del peggioramento dei conti legato alla negativa congiuntura economica, scenderà al 2,5 per cento del pil e nel 2012 al 2,1 per poi

Accordo tra la Cei e Banca Intesa per i finanziamenti alle famiglie in difficoltà

La Chiesa, la crisi, il mercato di Carlo Stagnaro è sempre uno iato tra i messaggi che arrivano dagli indicatori macroeconomici e la realtà di una società che subisce una crisi. Così come ai primi segnali di deterioramento dell’economia non corrispondeva un effettivo peggioramento della qualità della vita per la maggior parte della gente, oggi tutti coloro che a vario titolo pagano il conto della recessione - disoccupati, aziende rimaste senza ordinativi, imprenditori che portano i libri in tribunale - non sempre riescono a condividere l’ottimismo degli analisti.

C’

La questione se il peggio sia passato o debba ancora arrivare è di lana caprina: è un fatto, però, che dopo una serie ininterrotta di indicazioni negative

su tutti i fronti, da qualche settimana si vede ora un miglioramento, ora un rallentamento della caduta. È in questo contesto che si inseriscono le parole di monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana: «Pur vedendo con fiducia i segni di ripresa che pure ci sono – ha detto – purtroppo la crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il momento più critico».

Paradossalmente, queste parole arrivano assieme a una ventata di euforia dall’Est: dopo una dolorosa contrazione, nel secondo trimestre 2009 il Pil di Singapore ha registrato un balzo in avanti del 20 per cento. È una notizia importante non tanto per le sue conseguenze immediate e dirette,

quanto perché Singapore è una delle economie più aperte e dinamiche del globo, ed è quindi ragionevole aspettarsi che reagisca in modo più accentuato ai miglioramenti. È, insomma, una spia che induce ad aspettarsi, nei prossimi mesi, ulteriori irrobustimenti dei mercati un po’ ovunque. Il monito di Crociata, dunque, si sovrappone in negativo a quella che, finalmente, può definirsi una buona nuova. Perché, e a chi si rivolge? In ballo non c’è la capacità

attestarsi al 2,2 nel 2013. Se il futuro è questo, il presente non fa certamente ben sperare. Ieri Bankitalia ha comunicato che Il debito pubblico ha toccato un nuovo record: 1.752,188 miliardi di euro, in salita dello 0,22 per cento rispetto ad aprile. Non basta il rigorismo di Tremonti se, come ha segnalato lo stesso istitiuto di statistica, il gettito fiscale tra gennaio e maggio di quest’anno registra un calo di 4,5 miliardi in meno rispetto a dodici mesi fa. Inutile dire che le parti – anche se con obiettivi spesso opposti – speravano in qualcosa in più dall’incontro di ieri. Sulla previdenza la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha suggerito un’accelerata sulla «logica di legare l’età pensionabile all’andamento demografico. Di rimando il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, rilancia la necessità di muoversi all’insegna della volontarietà. Bocciato anche il Dpef. «Bisogna sostenere i lavoratori a termine che stanno per essere mandati a casa, prolungando interventi di qualche mese e allentare un po’ il patto di stabilità dei Comuni per favorire gli investimenti. Bisogna alleggerire il fisco sul lavoro dipendente». Quindi un consiglio che sa di reprimenda: «Il ministro Tremonti potrebbe esercitare la fantasia per sostenere i consumi, manovrando la leva del fisco».

dei vescovi di leggere tra le righe dell’economia. C’è piuttosto il posizionamento della Chiesa nell’ampio dibattito su quali politiche possano o debbano essere adottate per aiutare chi è stato falciato dalla crisi, e concorrere al rilancio dello sviluppo. Un posizionamento che risponde non solo alla funzione della Chiesa di “agenzia morale” e, dunque, di stakeholder rispetto ai grandi mutamenti, ma anche e soprattutto all’esigenza di esprimere tesi e proposte che siano coerenti da un lato coi messaggi che giungono dalle borse, dall’altro con la prospettiva autorevolmente espressa dall’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate. Essa compie, tra l’altro, una rivalutazione dei sistemi di sicurezza sociale e, implicitamente,


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Il presidente dei commercialisti: sarebbe meglio ridurre le tasse e non fare sanatorie

«Ma questo scudo non ci proteggerà» di Vincenzo Bacarani

Giudizi meno netti dai rappresentanti degli altri due sindacati confederali. Anche il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, auspica flessibilità sull’età pensionistica. Quindi ha consigliato di lavorare in chiave anticongiunturale sulle opere pubbliche bloccate – «Il governo nomini venti commissari straordinari ad acta», propone – e sgravi fiscali alle famiglie. «I soldi non spesi della social card e i risparmi della previdenza vadano al fondo per le famiglie non autosufficienti». Il leader della Uil, Luigi Angeletti, ha chiesto che «vengano finalmente spesi i soldi stanziati per le infrastrutture, che sia attivato il piano casa, che sia definita una moratoria per il pagamento dei contributi a favore delle piccole imprese che non licenziano e che si riducano le tasse sulla tredicesima». dello statalismo europeo. Ed è in questo contesto che cadono gli ammonimenti di monsignor Crociata: sotto a quanto viene detto, sta un dubbio che deve essere risolto.

Se la crisi tocca, come ha detto Crociata, «la parte della popolazione che non ha mai scialacquato», cioè «i singoli, le famiglie e le comunità» (il che non è del tutto vero, in questi termini), allora chi deve farsi carico di gestire la transizione? I privati o il settore pubblico? L’aspetto paradossale di tutto ciò sta nel fatto che la stessa enciclica che difende il welfare state, rilancia anche tutti quegli sforzi privati e sociali assieme. Un esempio significativo, che vede proprio la Cei protagonista, viene dalla cronaca di ieri, e riguarda l’accordo tra la Conferenza episcopale e IntesaSanpaolo, che integra l’accordo Cei-Abi per l’erogazione di finanziamenti agevolati alle famiglie in difficoltà, su indicazione della Caritas. La stessa Chiesa, dunque, si trova al mezzo di un conflitto e di una

ROMA. Lo scudo fiscale sta per arrivare tra voci incontrollate, anticipazioni e smentite sulla consistenza e sulla struttura del provvedimento che entrerà a far parte del decreto anti-crisi in discussione in settimana alla Camera. Un decreto che prevede altri capitoli molto caldi (dalla sanatoria per le badanti alle pensioni per le donne nel pubblico impiego) e per il quale sono già pronti oltre mille emendamenti. Probabilissimo il ricorso al voto di fiducia, così come appare certo che il terzo scudo fiscale dal 2001 a oggi sarà di “manica” piuttosto larga a vantaggio di coloro i quali hanno deciso di esportare gli utili della propria impresa in Paesi a regime fiscale compiacente. Ma sembra che non ci siano vie d’uscita: il governo deve fare cassa e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si “accontenterebbe” di incamerare 3 miliardi di euro dal provvedimento già vivacemente contestato dalle opposizioni. Il Partito democratico, in particolare, ritiene che esso si traduca in un’ennesima sanatoria per chi ha nascosto all’estero – nei paradisi fiscali, tipo isole Cayman o Filippine, Malesia, Uruguay, Costa Rica – risparmi, utili e guadagni e ritiene anche che nelle intenzioni del governo ci sia un bel colpo di spugna che cancelli i reati finanziari e contabili (falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, emissione di fatture false) per invogliare ancora di più chi ha portato capitali all’estero di rientrare nella legalità. Tremonti ha seccamente smentito quest’ultima eventualità, ma le polemiche continuano. Cerchiamo allora di capire meglio la natura e gli effetti che un ennesimo scudo fiscale potrà avere sull’economia, o meglio sulla cassa, del Paese. Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei Commercialisti, mostra alcune perplessità. Presidente, il governo spera di incassare 3 miliardi di euro. Ritiene che possa essere una cifra attendibile? Ritengo che potrebbe essere un’ipotesi ottimistica, se non verrà accresciuto l’appeal della norma aggiungendovi magari ipotesi di sanatoria per alcune tipologie di reato. Ma attenzione: questo è un ragionamento tecnico e cinico. In termini etici è giusto il contrario perché uno scudo fiscale dovrebbe eticamente essere non a buon mercato e non generoso. È il terzo scudo fiscale nel giro di otto anni, non le sembra troppo frequente il ricorso a questo tipo di soluzione? In effetti, se i primi provvedimenti potevano far pensare che essi si rivolgessero a privati o imprese timorose dell’andamento dei mercati, e quindi in un certo senso accettabili o giustificabili, oggi si rivolgono invece a soggetti che

Nella pagina a fianco, Giulio Tremonti. A destra, Claudio Siciliotti. Qui sopra, il tavolo della trattativa di ieri

tensione: da una parte è protagonista di azioni che mostrano come la società possa far maturare gli strumenti per soccorrere gli ultimi, dall’altro invoca un più attivo ruolo dello Stato in questa direzione. Ciò è paradossale soprattutto alla luce della premessa, essa sì straordinariamente attuale, che apre la Caritas in veritate, e che consiste in una netta distinzione tra i rispettivi ambiti della carità, intesa come spontaneo gesto d’amore per il prossimo, e la giustizia, cioè il diritto.

L’intervento pubblico, come ha evidenziato Carlo Lottieri in un Focus dell’Istituto Bruno Leoni, innesca un cortocircuito, perché fa venir meno la premessa della carità. Nutrendosi di denaro estorto ai contribuenti, trasforma la solidarietà non più in un moto di empatia per chi ha bisogno, ma in un gesto redistributivo alle spalle di tutti. Insomma: non c’è limite al bene che si può fare coi soldi degli altri. Solo che, fatto coi soldi degli altri, quello non è più un bene.

hanno avuto già due possibilità per mettersi in regola, possibilità che non hanno voluto sfruttare. Quindi, c’è una certa differenza rispetto ai precedenti... In effetti sì, proprio perché si rivolge a un’altra tipologia di comportamenti. Perciò sarebbe quantomeno auspicabile che il provvedimento non sia così di manica larga come invece sembrerebbe dalle anticipazioni. Si parla di una penale che andrebbe dal 5 all’otto per cento del capitale, quando in Paesi come la Germania provvedimenti simili comportano un’aliquota prossima addirittura al 20 per cento. Non le sembra troppa la differenza? In effetti un 6-8 per cento è senza dubbio un livello generoso. Ma il discorso, a questo punto, dovrebbe essere un altro. E quale? Il Paese dovrebbe cercare di sterzare verso una politica che preveda un fisco leggero e sanzioni pesanti. Oggi invece continuiamo ad assistere a un fisco sempre più pesante e a sanzioni sempre più leggere. E’ chiaro che a questo punto si rende necessario ricorrere a sanatorie o forme simili per poter fare cassa. Lo scudo fiscale potrà riguardare più le imprese o i privati? Ma guardi, penso che riguardi sia le une che gli altri. Perché anche le aziende hanno investito in fondi off-shore. Tuttavia, sotto questo aspetto notiamo che in tutto il mondo sta avanzando una nuova consapevolezza. C’è una volontà a livello internazionale di limitare fortemente l’attività dei paradisi fiscali e dei paradisi finanziari. La crisi economica e finanziaria che si è prodotta in questi ultimi anni ha indotto ad alcune importanti riflessioni su tutto il sistema. E si nota infatti una ventata di nuovi atteggiamenti a livello internazionale. In questo senso la grande crisi potrebbe in effetti rappresentare una notevole opportunità di miglioramento. Per i commercialisti tuttavia, e lei ne è il presidente, lo scudo fiscale potrebbe comportare un incremento, anche considerevole, di attività e quindi anche di guadagno. O no? Sarò sincero: noi di fronte a condoni e a sanatorie siamo sempre poco entusiasti. Perché provvedimenti di questo genere tolgono credibilità al sistema fiscale e in secondo luogo perché si riflettono in maniera negativa nel nostro ambito tecnico-professionale. La consulenza seria ed esperta di un professionista non viene certo valorizzata se il legislatore, per fare cassa, introduce una sanatoria che cancella tutto.

Continuiamo ad avere un fisco sempre più pesante e sanzioni sempre più leggere. È naturale, poi, che si debba ricorrere alle sanatorie


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Polemiche. Non si tratta soltanto di rispondere all’Alta Corte di Giustizia europea, ma di pensare al nostro futuro

Pensioni, le quote rosa

«Vi spiego il mio emendamento che alza l’età lavorativa delle donne. Ma è solo l’inizio: il governo deve proporre un cambiamento radicale» di Giuliano Cazzola davvero un’opportunità quella offerta dalla sentenza con cui, il 13 novembre scorso, l’Alta Corte di Giustizia ha condannato l’Italia per discriminazione di genere (nel pubblico impiego) perché l’ordinamento pensionistico prevede una età di vecchiaia anticipata a 60 anni per le donne a fronte dei 65 anni per gli uomini. La sentenza fa giustizia - anche sul piano culturale - di un luogo comune molto diffuso nel Belpaese: quello secondo cui la lavoratrice deve essere risarcita - attraverso uno “sconto” sull’età pensionabile - di una condizione sociale e professionale “figlia di un dio minore”.

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Ma il vero motivo dello svantaggio delle donne è un altro. «Ad influire sulla minore partecipazione delle donne - è scritto nel Rapporto Cnel 2007 - al mercato del lavoro e di conseguenza sulla loro minore occupazione, è una specificità di genere legata all’evento maternità e alle esigenze di cura e di assistenza» dei figli. Mentre nell’età compresa tra 25 e 29 anni (quando di norma vi è l’accesso al lavoro) il differenziale di genere - per quanto riguarda il livello dei tassi di occupazione - è abbastanza basso, nelle età successive (si ricordi che l’età media al parto è di 31,1 anni) lo scarto si allarga. Ben una donna su nove lascia il mondo del lavoro in seguito alla maternità: due su tre spiegano tale scelta con esigenze di cura e di assistenza dei figli. Nell’ambito della componente femminile, quelle caratterizzate dai tassi di occupazione più elevati in ogni fascia d’età sono le

In basso, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Nella pagina a fianco, da sinistra: Bruno Magni; Elsa Fornero; Francesco Delzio; Franco Berardi

Una modifica per 3,5 milioni di italiani ROMA. Sono circa 3,5 milioni gli italiani interessati all’equiparazione dell’età pensionistica nel pubblico impiego.Tanti, infatti, sono i dipendenti statali iscritti alle cinque casse dell’Inpdap. E di questi il 55 per cento è composto da donne, mentre il 45 per cento da uomini. Oggi le donne possono ritirarsi dal lavoro a 60 anni, gli uomini a 65. Per venire incontro alle richieste dell’Alta Corte di Giustizia europea che ha condannato l’Italia per discriminazione di genere – e per evitare l’ennesima spiacevole multa – il governo è pronto ad aumentare di un anno ogni due l’età pensionistica femminile per arrivare a una piena parificazione entro il 2019. Nei mesi scorsi i radicali hanno calcolato che, estendendo l’equiparazione dell’età pensionistica tra sessi anche al settore privato, si risparmierebbero circa 7 miliardi di euro. Guarda caso gli stessi, cifra più cifra meno, che l’I-

cosiddette persone isolate (single, divorziate senza figli, ecc.). Per la donna che vive in coppia si assiste ad un vero e proprio crollo del tasso di occupazione - in particolare tra i 25 e i 44 anni quando arrivano i figli. Le donne in questa fascia d’età hanno media-

talia ha perso decidendo nel 2006 di cancellare lo scalone Maroni-Tremonti e l’innalzamento coatto da 57 a 60 anni di età per gli assegni con il vecchio sistema retributivo. L’Ocse ha denunciato che Italia, tra i Paesi maggiormente industrializzati, è quello con il più alto livello di spesa pensionistica: il 14 per cento del prodotto interno lordo. Infatti ben il 30 per cento delle dotazioni per il welfare vanno alla previdenza contro una media Ocse del 16. Il tutto a fronte di una contribuzione che pesa sulla busta paga per il 33 per cento totale. Altrove non si supera il 21. E di fronte a questi numeri prende un significato diverso l’imperativo dell’Unione europea che, nell’ambito delle exit strategy dalle politiche di debito, chiede ai Paesi membri di limitare l’impatto della spesa pensionistica sugli obiettivi di bilancio di medio termine.

mente tassi di occupazione elevati, pari al 75,5%; divenute madri, il tasso scende al 54,5%. Per affrontare questi problemi è depositato alla Camera un progetto di legge (AC 1299) che prevede, tra le altre cose, un incremento graduale – fino a 62 anni - del limite anagrafico delle donne - nel sistema retributivo – in vista del ripristino di un pensionamento flessibile e unificato, nel modello contributivo, in un range compreso, a scelta, tra 62 e 67 anni. Quanto al rico-

noscimento delle specificità femminili, il progetto di legge propone agevolazioni per la maternità, il lavoro di cura e la formazione fino a 2 anni di ulteriore contribuzione figurativa, piuttosto che attardarsi in una logica di risarcimento forfetario a fine carriera. Nell’immediato, questa operazione comporterebbe a regime un risparmio di almeno un miliardo di euro, l’anno, per incrementare l’occupazione femminile e promuovere nuove forme di protezione

sociale della donna. Chi scrive ha presentato un emendamento al decreto legge anticrisi che oltre a prevedere un percorso graduale di equiparazione, propone alcune misure di salvaguardia di casi particolari ed istituisce con i risparmi un fondo dedicato alla promozione e tutela del lavoro delle donne. In sostanza, affrontare e risolvere la questione dell’età di vecchiaia delle dipendenti della pubblica amministrazione, portando il requisito anagrafico da 60 a 65 anni con il passo di un anno di incremento ogni due e, magari, destinando i risparmi a misure di qualificazione del lavoro e di miglioramento delle condizioni delle donne, potrebbe costituire un primo passo nella giusta direzione, senza compromettere situazioni delicate sul piano degli equilibri sociali.

Nella pubblica amministrazione, infatti, nessuno rischia di perdere il lavoro. Ma il governo temporeggia, come se cercasse di allontanare da sé l’amaro calice di un intervento, sia pure limitato e politicamente “coperto” dalla Ue, sull’età di vecchiaia al femminile. Che dire, allora? Le riforme economiche e sociali sono bandite dall’agenda del centrodestra? E soprattutto sono entrate in contraddizione con le politiche utili a superare l’emergenza e a rilanciare lo sviluppo? Restiamo nel campo delle pensioni: il Governo ha ragione a dire che, per quanto riguarda il mondo privato, adesso non è il momento. Prima o poi, però, dovranno decidersi, anche perché la situazione non regge. Non è vero che i conti sono a posto e che il nostro è il sistema pensionistico più stabile d’Europa. È sufficiente a spiegarlo un ragionamento banale. Le previsioni di sostenibilità sono state formulate avendo a riferimento un quadro macroeconomico che non si sta realizzando. Nel prossimi anni la spesa pensionistica aumenterà di un punto sul pil, per il semplice fatto che, mentre al numeratore la spesa cresce, al denominatore il pil sta crollando. Ma anche su altri temi, il governo qualche problema dovrà porselo. Senza troppo patemi d’animo. Renato Brunetta ha dimostrato (altra prova di concretezza) che impegnarsi nelle operazioni difficili è non solo possibile ma, anziché togliere consenso politi-


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Il ricatto dei sessantottini

Figli del boom economico, sono un fronte trasversale che si oppone a ogni riforma di Francesco Pacifico crive Franco “Bifo” Berardi, già leader del ’77 bolognese e oggi attempato professore allo storico Istituto tecnico industriale Aldini Valeriani, sulle pagine de L’Altro: «Quando nel 1987 firmai un contratto con un ente pubblico per insegnare in una scuola per adulti mi dissero che dopo vent’anni, all’età di 57 anni, accontentandomi di pochi soldi avrei potuto andarmene in pensione. Se mi avessero detto che avrei dovuto lavorare fino a sessantacinque anni li avrei mandarti a cagare». Invece, volente o nolente, il rivoluzionario classe ‘49 è ancora al suo posto. E non è il solo di una generazione che un tempo voleva portare la fantasia al potere e che adesso sta invecchiando in una battaglia troppo prosaica: continuare ad andare in pensione prima dei sessant’anni. Evitare che, fino a quando la cosa riguarda loro, si registrino ulteriori strette. Che gli ultra cinquantenni difendano un privilegio, è fuori dubbio: la riforma Dini, con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, costerà ai trentenni di oggi circa 40 miliardi di euro in termini di rivalutazione dei loro assegni pensionistici. Nota l’economista Elsa Fornero, tra i massimi esperti di previdenza del Paese: «Tutto questo nasce per la miopia generale, largamente condivisa dalla classe politica e alimentata dal sindacato, che si potessero distribuire risorse gravando sul debito pubblico e fingendo di non vedere i danni alle generazioni future».

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Ma questa battaglia è in stallo. I nostri baby boomers , forgiati in un aspro contesto politico, hanno avuto gioco facile con l’allora governo Prodi per far saltare lo scalone di Tremonti e Maroni. Per annullare il brutale innalzamento dell’età pensionistica da 57 a 60 anni che doveva scattare da gennaio 2008. Di più, hanno conquistato un anno, vico, ne aggiunge. Quando si colpiscono interessi di minoranze, magari rumorose e protette, si guadagna il sostegno di vastissime maggioranze, silenziose e non tutelate. Così è stato nel caso della riforma del pubblico impiego; così può essere un domani nel campo delle pensioni. Del resto, per la maggioranza, riforme come quella della pre-

sto che la situazione è rimasta immutata fino allo scorso primo luglio, quando sono entrati in vigore le famose quote studiate da Cesare Damiano. Eppure, complice la crisi, non hanno potuto o voluto approfittare di questa vittoria. A giugno l’Inps ha comunicato che nei primi cinque mesi del 2009 i trattamenti di anzianità sono stati appena 43.247, il 67% in meno rispetto a dodici mesi prima, quando le pratiche avviate erano state 132.300. Per la prima volta non c’è stata una fuga dal lavoro. Interessante l’analisi del sociologo Bruno Manghi, per anni alla guida del centro studi della Cisl di Firenze: «La congiuntura che stiamo vivendo cancella le prospettive professionali che accompagnano il periodo successivo al pensionamento: non c’è lavoro, perché quindi perdere soldi rispetto all’ultimo stipendio?». Senza contare, aggiunge Elsa Fornero, «la stigma sociale per chi va in pensione prima o il timore di immalinconirsi dopo il ritiro». Alla prova dei fatti gli ultra cinquantenni preferiscono restare al lavoro che incassare assegni più pingui. Eppure va avanti il muro contro muro sull’innalzamento dell’età pensionistica verso il tetto dei 65 anni. Per spiegare la forza di questa battaglia ideologica, bisogna ricordare cosa avvenne con lo scalone. Roberto Maroni, allora ministro del Welfare, raccontò a Roberto Mania in un’intervista a Repubblica: «Ricevetti migliaia di email di elettori nati nei primi anni Cinquanta che protestavano perché avrebbero dovuto rimandare il pensionamento. Fu una scelta impopolare, ma Tremonti ci spiegò che altrimenti sarebbe caduto il governo». E molti di quei messaggi furono spediti dal Nord, dove sono concentrate le pensioni di anzianità. Tanto

videnza non sono degli optional, ma delle imprescindibili necessità a causa di parecchi buoni motivi. In primo luogo, è d’obbligo ottemperare alla sentenza dell’Alta Corte Ue. Ma la questione più inquietante e meno nota rimane la drastica alterazione del quadro macroeconomico: è sostenibile un siffatta performance quando il defi-

che Umberto Bossi accettò soltanto quando «capì che se cadeva il governo saltava anche la devolution».

Sono circa 8 milioni i lavoratori che, nati negli anni Cinquanta, hanno raggiunto o si avvicinano all’età di ritiro. Figli del boom economico, appartengono alla prima generazione che ha potuto vantare una scolarità diffusa. Tanto da conquistare negli anni il mercato delle professioni o da fare incetta di posti nei giornali come di cattedre universitarie. Per non parlare dei politici o dei sindacalisti, i cui leader hanno più o meno tutti la stessa età. Se non bastasse, oggi quasi un milione di cinquantenni è inquadrato nel pubblico impiego mentre lavorano in fabbrica, specializzati e non, circa 500mila. Un fronte così composito, trasversale, non poteva che avere una forte moral suasion sulle scelte di partiti e confederali. Verso questo fronte la politica si è mostrata generosa. Nel 1995 l’allora premier Lamberto Dini scrive una riforma della previdenza e trasferisce il calcolo sulla pensione dall’ultima retribuzione ai contributi versati. Peccato che questo strumento, indispensabile per salvare i conti pubblici con 110 miliardi di euro risparmiati tra il 1995 e il 2005, venga applicato in toto soltanto a chi entrerà nel mondo del lavoro l’anno successivo. Con l’effetto – spiega l’economista Francesco Delzio nel suo pamphlet Generazione Tuareg (Rubettino) – che «il costo sociale della riforma fu scaricato in grandissima parte sul 18% dei lavoratori. I più giovani, naturalmente: i trentenni e i ventenni di oggi, che dovranno accettare pensioni molto più basse dell’ultima retribuzione». Forse inferiori al 60%. Di converso chi ha 18 anni di contribuzione nel 1995 mantiene di fatto il retri-

Sono circa otto milioni i lavoratori che, nati negli anni ’50, hanno raggiunto o si avvicinano al ritiro dal lavoro

cit di finanza pubblica si avvia a sfiorare il 5 per cento ? Vi sono poi alcuni altri problemi che richiedono una soluzione. Che fine ha fatto, ad esempio, il piano di finanziamento della controriforma Prodi-Damiano del 2007? La trasformazione dello “scalone”in un regime di “scalini+quote” ha un costo di 7,5 miliardi in un decen-

butivo, chi è già nel mondo del lavoro in quella data può godere di un computo misto. Un trattamento di favore per i padri pagato dai figli. L’economista Giuliano Cazzola, come ricorda Delzio, calcolò che a un dipendente privato con 58 anni bastavano contributi soltanto di 15,4 anni, a fronte di una speranza di vita di 25,3 anni. La differenza è a carico dell’Inps. Nel 2001 la Ue impone a Tremonti un innalzamento coatto di 5 anni, che nell’iter parlamentare scenderà a 3. Questo sistema salta con Prodi, che garantisce di fatto lo status quo fino al luglio del 2009 (per i trattamenti di anzianità l’età di ritiro passa a 58 anni con 35 di contribuzione). Da questa data entrano in scena le quote: prima quota 95 (59 anni di età e 36 di contribuzione) via via per salire nel 2013 a quota 97 se si vuole un assegno decente. Ci vorranno tre anni in più per superare il tetto dei sessant’anni e poco importa se a costo di un buco per lo Stato tra i 7 e gli 8 miliardi di euro. Il centrodestra tornato al potere non soltanto dimentica la partita dello scalone - Tremonti e Sacconi, pur odiando il tutto e subito del Sessantotto, non vogliono tensioni sociali - ma si muove per boicottare l’equiparazione pensionistica tra uomini e donne nel pubblico impiego che impone l’Europa. Intanto l’Ocse denuncia che la spesa pensionistica italiana doppia (14% contro 7) quella per le altre voci di welfare. E con la vita media che cresce, senza correttivi il costo è destinato a schizzare, impedendo all’Italia di darsi un sistema di ammortizzatori che vada oltre la cassa integrazione. I prodromi per una guerra generazionale ci sarebbero tutti. Ma chiosa Bruno Manghi: «Intanto le pensioni dei nonni sono stati un ammortizzatore sociale utile sia per aiutare le famiglie ad arrivare alla fine del mese sia per creare l’alto stock di risparmio. Eppoi se i padri questi diritti se li sono conquistati, i figli li hanno trovati. Per questo non sanno difenderli».

nio, coperti per 3,5 miliardi da misure di razionalizzazione degli enti previdenziali delle quali non si hanno notizie (in mancanza delle quali tra qualche anno entrerà in vigore un ritocco a tutte le aliquote contributive). Rimane indefinita la disciplina dei lavori usuranti, per la quale non è chiaro se il governo intenda agire all’interno del

quadro, assai problematico, definito dalla legge n. 247/2007 oppure se intende procedere altrimenti. Infine, sarebbe il caso di prestare attenzione alla difficile situazione finanziaria dell’Inpdap che si avvia - in mancanza di provvedimenti di risanamento assai difficili da ipotizzare - ad un disavanzo strutturalmente irreversibile.


diario

pagina 6 • 15 luglio 2009

«Non è più un partito, è un circo» Ricolfi non concede attenuanti al Pd: «Sono divisi, impreparati e senza idee» di Errico Novi segue dalla prima Dopo aver parlato per primo di sinistra antipatica Ricolfi dunque non esita ad assegnarle la categoria del ridicolo. Davanti a una sfida che si consuma tra gaffes e infingimenti il professore dell’università di Torino concede solo una previsione a mediolungo termine: «Tra quattro anni, quando si voterà di nuovo per le Politiche, non ci sarà lo schema di adesso con i due partiti e i loro due alleatini riottosi: sarà un quadro diverso e non è detto che il Pd, o quello che ne sarà sopravvissuto, ne risulti svantaggiato». Adesso però i democratici sembrano aver toccato il punto più basso del loro disfacimento: sono apparsi terribilmente vulnerabili di fronte alle minacce di Grillo, esprimono candidati “alternativi” scarsamente attrezzati come Marino, adottano come icona una dignitosa dirigente locale come la Serracchiani. Sono più smarriti del solito. No so se questo è il momento peggiore, io li vedo smarriti da un bel po’ di tempo: erano così anche prima di nascere. C’era già sufficiente confusione nella Margherita e nei Ds, adesso le primarie fanno semplicemente emergere tutte le fragilità, sono l’occasione per mettere in luce che questo non è un partito. Ognuno gioca per conto proprio, cerca l’accordo con Marino se insegue il nuovismo, strizza l’occhio a Di Pietro se è più attratto dal populismo. È un circo. E devo dire che alla luce di tutto questo D’Alema, Bersani, lo stesso Fassino fanno un figurone. In che senso? Hanno una tenuta politica che ad altri manca. Penso alle cose cattive che si dicevano di D’Alema e le trovo sgangherate, anche un po’ opportunistiche. Perché si è arrivati a questo? Perché era troppo difficile trovare un’identità nuova o per la modestia della classe dirigente? Più la seconda che ha detto. Questi sono personaggi che hanno limiti intrinseci. Poi è vero che si sono sommate due culture illiberali. Ricor-

do cosa disse Michele Salvati al momento della fondazione: speriamo che ce la facciate, anche se tutto nasce come il legno storto dell’umanità. Ma anche con il difetto di origine una classe dirigente migliore forse avrebbe fatto qualcosa in più. A questo punto non resta che assistere al processo di implosione, attendere che la demografia faccia il suo corso. Lei dice “meglio D’Alema di chi ne parla male”: quindi se vince Bersani le cose andranno diversamente? No. Chiunque vinca sono destinati a implodere. A meno che non compaia una figura di leader e un gruppo dirigente nuovi in grado di indicare la rotta. Con Bersani forse il processo si compirebbe un po’ più lentamente, ci sarebbe un po’ più di disciplina, di struttura. Ma poi non detto che il Pd abbia bisogno di questo. Cosa serve? Le idee. E non ne hanno. D’altra parte lei vede qualche differenza di contenuti tra i candidati? Cambia un po’ di etichetta. Appunto, ci sono al massimo differenze estetiche. Marino piace a Flores d’Arcais, ai nuovisti e ai girotondini, Bersani ai militanti del vecchio Pci, Franceschini un po’ agli uni un po’ agli altri. Ma non emergono posizioni distinte e riconoscibili, che so, sulle pensioni, o sul valore

legale del titolo di studio. È un partito conservatore. Sulle dieci o dodici cose che l’Italia deve fare se vuole uscire dal pantano non hanno sciolto le ambiguità del passato, non dicono nulla di coraggioso. Adesso molto timidamente cominciano a discutere di contratto unico, ma non è chiaro che posizione hanno sull’articolo 18, sui licenziamenti. Ripeto, non vedo differenze: è come scegliere tra modi diversi di reclamizzare lo stesso dentifricio. Ma io sono inguaribilmente legato alla convinzione che i partiti si fanno con le idee. Allora proviamo a rovesciare tutto: a considerare la crisi del Pd come l’inevitabile scotto da pagare per la sua novità rispetto all’opzione socialdemocratica. Perché no? È la tesi del libro che Antonio Polito ha pubblicato un paio di anni fa. Ed è una tesi fondata: è stato giusto evitare di fare semplicemente un partito socialdemocratico, o una riedizione del partito socialista. C’è un problema: in Italia come nel resto d’Occidente la sinistra non ha trovato soluzioni al fallimento dello stato sociale. Paga le conseguenze di questo, dell’aver scommesso tutto sull’introduzione delle idee liberali in economia, che oggi sono sotto accusa per aver provocato un eccesso di deregulation. Se si escludono gli Stati Uniti tutta la sinistra è in crisi, ma in più la nostra paga per non aver avuto il fegato di essere davvero riformista. Siamo terribilmente indietro, i nostri laureati sono la metà rispetto alla media europea. Le sembra un dato poco rilevante? Tutt’altro. Se ci sarà una ripresa mondiale tra due anni, noi sconteremo l’errore di non aver fatto asso-

D’Alema e Bersani i più dignitosi, ma anche se vincono loro l’implosione è inevitabile. Tra 4 anni avremo un quadro politico rivoluzionato

lutamente nulla. Quanto ha pesato su questo l’essersi concentrati sull’antiberlusconismo? Per il 90 per cento direi. Accecati dall’odio per Berlusconi hanno finito per inseguire una deriva conservatrice. Se la destra volesse cambiare l’Italia dall’altra parte risponderebbero bloccando tutto. È drammatico, ma bisogna riconoscere che se qualche piccola riforma in Italia è stata fatta è per merito del centrodestra. Come finirà nel Pd, si andrà alla scissione? Uno scenario probabile è il distacco di una parte del Pd che vada a confluire in un una nuova formazione di centro come quella a cui sta pensando Casini. Ma a impadronirsi della scena potrebbe anche essere un attore nuovo, Montezemolo o qualcuno che abbia le carte in regola per sbloccare la situazione. E poi c’è l’ipotesi del partito del Sud, che creerebbe un bel po’ di pasticci. Anche a Berlusconi. Soprattutto a lui, direi, perché movimenterebbe tutto. In ogni caso dubito che tra quattro anni il gioco potrà essere tra due partiti con i loro alleatini riottosi, e non è detto che nel nuovo assetto il Pd, o quello che ne sarà sopravvissuto, risulti svantaggiato. Molto dipende da chi farà la prima mossa, da quella si innescherà tutto il processo successivo. A ben guardare, già adesso non è che il Pdl sia messo molto meglio. Senta professore, ma è possibile che dietro il fallimento del Pd come forza riformista ci sia un difetto di background, ossia l’assenza nella tradizione politica italiana di una grande sinistra riformista? Non crede che la vera socialdemocrazia in Italia sia stata rappresentata dalla Dc? È una ricostruzione che condivido in pieno. La nostra sinistra è sempre stata massimalista, la destra era nascosta e fuori dai giochi, e quel po’ di socialdemocrazia lo hanno assicurato i democristiani. Lo hanno fatto però con un coté clientelare che rende il caso italiano diverso dagli altri. Forse il vero modello socialdemocratico è attribuibile al centrosinistra degli anni Sessanta, dal ’62 al ’73. È durato troppo poco.


diario

15 luglio 2009 • pagina 7

Maxi-operazione della Dia a Napoli contro il clan camorrista

La decisione della procura di Todi scatena le polemiche

Sequestrati beni per oltre 50 milioni ai Casalesi

Il killer della strada torna subito in libertà

NAPOLI. Oltre cento agenti del Centro Operativo Dia di Napoli hanno eseguito ieri quattro decreti di sequestro emanati, su proposta del direttore della Dia, dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, nei confronti di oltre 30 prestanomi di persone ritenute affiliate al clan dei Casalesi. Come sottolinea la Dia, il sequestro, per oltre 50 milioni di euro, è il più grande operato a Caserta dai tempi dell’operazione “Spartacus”. L’operazione è frutto di articolate indagini patrimoniali che hanno portato all’emissione dei provvedimenti nei confronti di 5 persone e di 30 prestanome ad esse ricollegabili e dietro ai quali si celavano le attività di reimpiego e di riciclaggio dei proventi dell’attività criminale del clan dei Casalesi.

TODI. Ioan Munteanu, romeno di 41 anni che lunedì notte, ubriaco, ha falciato con la sua auto uno scooter sul quale viaggiavano due ragazzi di Todi, uno dei quali ha perso la vita, è stato rilasciato dalla magistratura «per la mancanza dei presupposti di legge per procedere alla richiesta di convalida dell’arresto». La decisione è stata presa dal sostituto procuratore Gabriele Paci ieri mattina. Lo straniero, oltre ad essere ubriaco, si era messo alla guida dell’auto senza revisione, secondo le forze dell’ordine - semplicemente con il foglio rosa, avendo avviato da poco le pratiche per accedere agli esami di guida. La dinamica dell’incidente è stata così ricostruita: un sorpasso azzar-

Sono stati colpiti dai provvedimenti, Giosuè Fioretto, Antonio Della Ventura, Nicola Verolla, Giuseppe Setola e Pasquale Setola, detenuti per il reato di associazione per delinquere di stampo camorristico. Pasquale Setola, imprenditore attivo nel settore degli appalti pubblici, oltre ad essere affiliato al clan del Casalesi, è stato individuato quale terzo intestatario di numerosi dei beni illecitamente accumulati, che oggi sono stati sottoposti a sequestro. Setola era già titolare di imprese commerciali, poi cedute a terzi per evitare i sequestri una volta che il ruolo del fratello Giuseppe era assurto agli onori delle cronache giudiziarie. Le indagini patrimoniali hanno portato alla luce numerosi altri immobili e società intestate ad insospettabili terzi intestatari, per evitare di essere scoperti dalle indagini e per aggirare l’attuazione della normativa antimafia. I beni sottoposti a sequestro, il cui valore ammonta a oltre 50 milioni di euro, consistono in: 34 beni immobili, 9 società, 24 autoveicoli tra i quali camion ed autocisterne, 87 rapporti finanziari con istituti di credito delle provincia di Caserta e di Napoli. In un solo conto corrente intestato ad un prestanome di Setola sono stati sequestrati 60mila euro in contanti.

Respingimenti: l’Onu attacca il governo L’Unhcr: «Utilizzata la forza». Ronchi: «Accuse ripugnanti» di Guglielmo Malagodi

ROMA. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha inviato una lettera al governo italiano con la richiesta di chiarimenti sul trattamento riservato alle persone respinte in Libia, dopo aver svolto colloqui in Libia con 82 persone che erano state intercettate il primo luglio dalla marina militare italiana. Lo rende noto un comunicato dell’Unhcr. «L’Unhcr in Libia - si legge nel comunicato - ha svolto dei colloqui con le 82 persone che erano state intercettate mercoledì 1 luglio dalla Marina Militare italiana a circa 30 miglia da Lampedusa e trasferite poi su una motovedetta libica per essere ricondotte in Libia. In base a quanto riportato durante i colloqui, non risulta che le autorità italiane a bordo della nave abbiano cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte né tantomeno le motivazioni che le hanno spinte a fuggire dai propri paesi». «Una volta in Libia - prosegue il comunicato - il gruppo è stato smistato in centri di detenzione dove l’Unhcr ha avuto l’opportunità di svolgere gli incontri. Fra di loro vi sono 76 cittadini eritrei, di cui 9 donne e almeno 6 bambini. Sulla base delle valutazioni dell’Unhcr relative alla situazione in Eritrea e da quanto dichiarato dalle stesse persone, appare chiaro che un numero significativo di esse risulta essere bisognoso di protezione internazionale».

l’Unhcr ha inviato una lettera al governo italiano con la richiesta di chiarimenti sul trattamento riservato alle persone respinte in Libia e richiedendo il rispetto della normativa internazionale. Negli anni passati l’Italia ha salvato migliaia di persone in difficoltà nel Mediterraneo, fornendo assistenza e protezione a chi ne aveva bisogno. Dall’inizio di maggio è stata introdotta la nuova politica dei respingimenti e almeno 900 persone sono state respinte verso altri paesi, principalmente la Libia, nel tentativo di raggiungere l’Italia. L’Unhcr ha espresso forte preoccupazione sull’impatto di questa nuova politica che, in assenza di adeguate garanzie, impedisce l’accesso all’asilo e mina il principio internazionale del non respingimento (non-refoulement)».

«La politica di respingimento di rifugiati e richiedenti asilo verso la Libia deve subito cessare» ha dichiarato Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Non è tollerabile che il Canale di Sicilia diventi una zona franca in cui nessuna legge è rispettata - aggiunge Hein - Attraverso interviste con gli interessati in territorio libico, si è infatti evidenziato che le operazioni di respingimento delle ultime settimane hanno colpito principalmente persone bisognose di protezione internazionale». Il Cir conferma poi quanto affermato dall’Unhcr: «Il 1 luglio scorso, 82 rifugiati e migranti sono stati consegnati, in alto mare, dalla nave militare italiana “Orione”a navi militari libiche per essere respinti in Libia. Chiediamo che sia fatta immediatamente un’indagine per chiarire gli eventi e che i responsabili di eventuali reati siano identificati. Chiediamo anche che il Parlamento sia tempestivamente informato». La reazione del governo non si è fatta attendere. «Si tratta di accuse avventate, false, demagogiche, offensive e ripugnanti che offendono le nostre Forze Armate che nel mondo dimostrano ogni giorno la loro moralità, la loro dedizione, umanità, competenza e sacrificio - ha dichiarato il ministro per le Politiche Europee, Andrea Ronchi - L’Unhcr si vergogni. E chieda scusa all’Italia».

Le Nazioni Unite chiedono chiarimenti sul trattamento riservato alle persone respinte in Libia il 1° luglio

«Nel corso dei colloqui - si legge ancora l’Unhcr ha raccolto testimonianze riguardo l’uso della forza da parte dei militari italiani durante il trasbordo sulla motovedetta libica. In base a queste testimonianze sei eritrei avrebbero avuto necessità di cure mediche in seguito ai maltrattamenti. Inoltre, gli stessi individui affermano che i loro effetti personali, fra i quali documenti di vitale importanza, sarebbero stati confiscati dai militari italiani durante le operazioni e non più riconsegnati. Le persone ascoltate dall’Unhcr hanno riferito di aver trascorso quattro giorni in mare prima di essere intercettate e di non aver ricevuto cibo dai militari italiani durante l’operazione durata circa 12 ore». «In considerazione dalla gravità di quanto riportato - conclude il comunicato -

dato fatto dallo straniero, che poi si è scontrato frontalmente con lo scooter. La decisione del magistrato ha sollevato numerose polemiche sia tra i cittadini di Todi che tra i rappresentanti della politica locale e regionale.

«L’amministrazione che rappresento - ha dichiarato Giovanni Ruggiano, sindaco di Todi del centrodestra - quando si trova di fronte a una decisione di un magistrato di norma prima di dare un giudizio è solita leggere le carte. Comunque in questo caso siamo totalmente sconvolti dato che le morti causate sulla strada da ubriachi devono essere punite e affrontate con la massima durezza. Come dimostrano le nuove leggi sulla sicurezza e le sentenze esemplari della magistratura romana su questi fenomeni. Siamo amareggiati e come amministrazione comunale ci stringiamo ancora di più alla famiglia di questo ragazzo che oltre a subire il lutto si sentirà tradita anche dalle istituzioni». Anche il gruppo di Rifondazione comunista dell’Umbria ha manifestato contro la decisione di rimettere l’uomo in libertà: «La certezza del diritto oggi subisce un duro colpo contribuendo a rafforzare il clima di sfiducia che sta penalizzando nel Paese la credibilità delle istituzioni e della magistratura».


mondo

pagina 8 • 15 luglio 2009

Guerra. Nell’attentato sono stati feriti anche altri tre militari, non in pericolo di vita. Rientravano da una missione

«Un lavoro sporco» Così aveva scritto giorni fa su internet il parà Di Lisio, 25 anni, morto a Farah

Il caporalmaggiore della Folgore, Alessandro Di Lisio, è rimasto ucciso ieri nel corso di un attacco contro la sua pattuglia a circa 50 chilometri a nord-est di Farah, nella zona occidentale del Paese. Aveva definito il conflitto, su un sito internet, «uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare». Altri tre suoi commilitoni sono rimasti feriti. La pattuglia di paracadutisti della Folgore e del primo Reggimento Bersaglieri è stata investita dall’esplosione di un ordigno posizionato lungo la strada. Nella deflagrazione, che ha coinvolto il primo mezzo, sono rimasti feriti tre parà (le cui generalità non sono al momento ancora pubbliche ma che sono fuori pericolo), mentre Di Lisio è deceduto per le ferite riportate subito dopo essere stato trasportato all’ospedale militare di Farah. Il convoglio attaccato era composto da blindati Lince, con un equipaggio di cinque uomini e corazzati cingolati Dardo con un equipaggio di tre persone e la possi-

bilità di trasportare sei uomini di fanteria. Il mezzo investito dall’esplosione, un Lince, era il primo del convoglio, che era diretto a una caserma afghana a Farah. Stava rientrando da un’operazione quando è incappato nell’ordigno. Il rinforzo era stato chiesto dalle forze armate locali che, sotto costante attacco dei ribelli, con riuscivano a completare i lavori di costruzione della struttura. Per le forze militari italiane, si tratta della 14esima vittima nel martoriato Paese dall’inizio della missione nel 2004, in un momento in cui - nella provincia di Helmand - gli statunitensi hanno sferrato un’imponente offensiva contro i talebani, la maggiore dall’invasione militare che disarcionò il regime dei mullah. L’Italia ha schierato in Afghanistan circa 2.800 militari, distribuiti nella capitale Kabul ad Herat, nella parte orientale del Paese; ed altri 500 ne ha inviati per le prossime elezioni previste al momento per il 20 agosto. Rimane obbligatorio l’uso del condizionale, dato che la situazione della sicurezza del Paese lascia ancora molto a desiderare. Da Herat, il presidente del Centro Studi Internazionali Andrea Margelletti ha inviato a liberal un’analisi sullo stato della guerra, che riportiamo sotto.

Diario di una guerra da cambiare di Andrea Margelletti

HERAT. Afghanistan, anno ottavo dalla caduta del regime talebano del mullah Omar. L’insorgenza pashtun che da qualche anno ormai ha assunto toni di stampo nazionalistico - facendo leva quindi sul sentimento di alienazione ed esclusione dell’intera comunità ha lanciato ormai da tempo la consueta offensiva “dei mesi caldi”, appena cioè i passi montani risultano praticabili dopo il lungo e rigido inverno. Le cinque province del sud (Nimruz, Helmand, Kandahar, Zabol e Uruzgan) erano e rimangono la culla dell’insurrezione, ma l’instabilità e l’insicurezza da queste aree si è espansa anche al resto del Paese

contagiando province considerate tranquille solo fino al 2007. Il 2008 ha visto l’insurrezione consolidarsi ed estendersi dalle province meridionali, alle aree limitrofe alla capitale Kabul fino ad alcune province settentrionali (ad esclusione dell’inespugnabile enclave tagika del Panjshir) dove una volta il potere forte era rappresentato dall’Alleanza del Nord, la coalizione di signori della guerra antitalebani.

Nel complesso gli insorti, una commistione di gruppi fortemente ideologizzati con una “missione globale” - allineati con al Qaeda e i combattenti stranieri provenienti da tutto il mondo islamico - guerriglieri locali con agende locali, narcomafie dell’oppio di cui il Paese rimane il maggior produttore mondiale, criminali comuni e

infine il “governo in esilio” dei talebani del mullah Omar riunito nella cosiddetta Shura di Quetta, hanno rafforzato la loro presenza nel Paese e sono attivi nel 72 per cento del territorio, divenendo, di fatto, la forza che governa molte province del Paese. Si sottolinea in particolare l’avanzata dell’insurrezione verso Kabul, che compromette significativamente l’accesso a tre delle quattro principali vie di comunicazione intorno alla capitale (Wardak a ovest, Logar a sud e Sarobi a est). Proprio a Kabul la sicurezza è ai livelli minimi, con i talebani e altri elementi criminali saldamente infiltrati nelle attività della città. In particolare, nella capitale afghana appare a rischio soprattutto il settore ove sorgono le ambasciate, i ministeri, il quartier generale dell’Isaf e persino il Palazzo

Presidenziale (l’Arg-e-Shahi). Nonostante l’insurrezione colpisca spesso i centri urbani con attentati terroristici anche sofisticati, i livelli più alti di violenza si concentrano nelle province del sud e dell’est, che nel complesso rappresentano le aree rurali e più arretrate, abitate in maggioranza dai pashtun, il gruppo etnico principale del Paese (42 per cento dei 32 milioni di abitanti), la vera spina dorsale dell’insurrezione talebana.

I nostri soldati devono fare i conti con i guerriglieri che tentano di infiltrarsi nel settore italiano per scappare da inglesi e americani


mondo

15 luglio 2009 • pagina 9

Per il generale Jean, odii etnici e oppio rendono il Paese un puzzle

«La sfida? Far evolvere le tribù delle valli» di Pierre Chiartano

Un soldato italiano di stanza a Farah pattuglia le strade. A destra, il generale Carlo Jean. Nella pagina a fianco, Hamid Karzai. Sotto il titolo il parà ucciso Di Lisio

Come detto però, l’estensione del “cerchio di insicurezza” interessa sempre più anche aree una volta considerate fra le più stabili. E’ il caso soprattutto del settore Occidentale, il Regional Command - West (RC-W) delle Forze Nato di Isaf, ovvero l’area sotto la responsabilità italiana. Il “nostro” settore comprende quattro province, Herat, Badghis (dove si trova il Prt spagnolo), Ghor e Farah, un’area grosso modo paragonabile per estensione al nord Italia. Se le Province di Herat e Ghor possono considerarsi ancora relativamente tranquille, la prima per ragioni economico-commerciali (Herat è ricca grazie ai traffici transfrontalieri con Iran e Turkmenistan ed è l’unica a parte la capitale ad essere ben elettrificata), la seconda per ragioni etniche (schiacciante maggioranza di hazara sciiti, ostili ai talebani per ragioni confessionali), Farah e Badghis presentano crescenti problemi di sicurezza. A Badghis il basso profilo mantenuto da Madrid fa sì che l’insurrezione attecchisca nei

distretti più isolati e nelle enclavi pashtun.

A Farah, i soldati italiani devono fare i conti con gli insorti che, sfuggendo alle operazioni altamente cinetiche di inglesi e americani al sud, tentano di infiltrarsi nel settore italiano. I Parà della Folgore, punta di lancia delle Forze Armate sono più che in grado di fronteggiare la minaccia, ma in contesti di guerriglia, si sa, il nemico senza volto può a volte avere ragione anche di un addestramento e di una tecnologia assolutamente superiori. Quello che da Herat appare evidente è che solo conquistando i cuori e le menti della popolazione sarà possibile iniziare una exit strategy. Occorrono più soldati e con regole di ingaggio e caveat comuni a tutti gli alleati e soprattutto occorre investire nell’addestramento delle forze locali. Gli afghani sono esausti della guerra e chiedono a noi una strategia chiara con uno scopo sostenibile. Lo dobbiamo a loro, lo dobbiamo a Alessandro Di Lisio.

ROMA. Sull’Afghanistan, un Paese in bilico fra il Medioevo e l’era moderna, abbiamo chiesto il parere di un esperto militare e di equilibri geopolitici, il generale Carlo Jean. Può fare il punto della situazione militare in Afghanistan? È in attuazione il piano della Casa Bianca e della nuova strategia del generale McChrystal. Invece dei soliti raid, liberare qualche villaggio e poi ritirarsi, adesso le forze americane vogliono - in questa provincia che è una roccaforte dei talebani - presidiare tutti i villaggi, in modo da far sentire più sicura la popolazione. Una maniera per spingere gli afghani ad andare a votare il mese prossimo. Utilizzare le truppe terrestri, anziché i bombardamenti aerei per ridurre le vittime fra i civili. Militarmente sono sufficienti le forze messe in campo per l’operazione nella valle di Helmand? Oltre i 4mila americani, ci sono 8mila inglesi e 500 afghani. Queste sono le truppe disponibili. Il comandante Usa ha affermato che l’ideale sarebbe di avere sul campo un pari numero di forze dell’esercito afghano. È un obiettivo fattibile, a breve termine? No. A mio avviso l’Afghanistan è una società tribale, i soldati sono più fedeli alle loro tribù che al governo centrale. I pashtun non vogliono usare uzbeki, tagiki e hazara, che sono delle etnie con cui sono in conflitto. Si trasformerebbe un’operazione di pacificazione in una guerra civile. Obama ha dichiarato che aprirà un’inchiesta sulla morte di un migliaio di talebani. Gli australiani accusano gli americani di aver sbagliato, catalogando come talebani dei gruppi di mujiahiddin. In Afghanistan è facile commettere certi errori? Il problema è che i prigionieri vengono affidati alle truppe afghane. Se si danno dei pashtun in mano ai tagiki, alla prima occasione verranno fatti fuori dai loro carcerieri. Come è successo nel dicembre 2001 a Mazarar Sharif. L’esercito talebano allora fu decimato, di 12mila uomini si ne salvarono un migliaio. Sono gli odii etnici che scoppiano all’improvviso. In quel periodo tedeschi e americani non erano presenti. C’erano anche gli hazara che avevano il dente avvelenato con i talebani che avevano ucciso 2 o 3mila dei loro nelle campagne intorno a Mazarar Sharif. Si sono vendicati. Questo quadro di una realtà di odii tribali è compatibile con il progetto di costruzione di un embrione di Stato che abbia qualche speranza di governare e

controllare il territorio? Da un punto di vista idealistico sì. Si tratta di convertire delle società tribali premoderne in società addirittura postmoderne. Un salto abbastanza grosso. Basta vedere cosa è successo in Bosnia. Siamo lì dal 1995 e la Bosnia non si può certo definire unificata. Sta dicendo che non basterebbe mezzo secolo? A mio avviso anche l’Afghanistan sicuramente richiede parecchio tempo. Un generale americano disse che, rispetto all’Iraq, l’Afghanistan sarebbe stato un incubo. Corrisponde a ciò che ha detto Henry Kissinger. L’Afghanistan non è mai stato unificato. L’Iraq è invece uno Stato unificato, con Baghdad che dominava le province. Invece in Afghanistan le province sono sempre state autonome e l’organizzazzione è sempre stata di tipo etnico-tribale. L’economia irachena si è basata sul petrolio, controllata in maniera centralizzata. L’economia Afghana è fondata sull’oppio ed è decentrata. Ci potrà mai essere una soluzione? Non si può fare altrimenti. Per una soluzione sarebbe utile avere una sfera di cristallo… La situazione è confusa, non sappiamo esattamente cosa stia succedendo in Pakistan, che potrebbe influire sull’Afghanistan e viceversa. La situazione delle truppe italiane ad Herat? Attentati ne hanno fatti a Kunduz nell’estremo nordest, al confine col Tagikistan, dove anche l’esercito di Alessandro Magno incontrò qualche difficoltà. La scorsa settimana hanno ucciso una ventina di ragazzi a sud di Kabul, così pure hanno ammazzato un colonnello della polizia afghana che sembrava fosse uno dei migliori. Azioni a macchia di leopardo su tutto il territorio. Chi è in Afghanistan, ovunque, è sempre in prima linea. Il ruolo dell’Iran? L’Iran è terrorizzato dal fatto che gli americani si mettano d’accordo con i talebani, cosiddetti moderati, perché lo sono per modo di dire. Appartengono alle sette più radicali dei sunniti che vedono gli sciiti come nemici da schiacciare. Quando Obama ha parlato della nuova strategia, citando un accordo con i talebani ”moderati”, il ministro degli Esteri di Teheran si è subito precipitato a Mazarar Sharif per cercare di organizzare gli hazara che sono sciiti - anche se di etnia turca - i tagiki che sono persiani, ma sunniti e gli uzbeki. Un’alleanza del nord per contrastare i talebani.

Aveva ragione Henry Kissinger quando diceva che l’Afghanistan sarebbe stato peggio dell’Iraq, dove uno Stato e un’economia unificata già esistevano


panorama

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Polemiche. Il ministro contesta la relazione annuale al Parlamento del presidente dell’Authority

Energia: scontro tra Scajola e Ortis di Alessandro D’Amato scontro aperto tra il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e l’Autorità per l’energia e il gas sull’Eni. Scajola ha criticato la Relazione annuale al Parlamento del presidente Alessandro Ortis e in particolare il passaggio che riguarda l’eccessivo potere di mercato di Eni. La relazione secondo Scajola è «è in alcune parti condivisibile, in altre mi pare che esuli dalle prerogative che deve avere l’Autorità». Nella sua relazione Ortis ha disegnato scenari e prospettive per un settore ancora lontano dall’essere in regime di libero mercato e nel quale i “grandi” la fanno ancora da padroni. Cala la spesa energetica per le famiglie, nel gas servono più infrastrutture e più concorrenza visto che ci sono ancora «soggetti integrati verticalmente con posizioni dominanti nel mercato», e ci sono troppe speculazioni sul barile, che rendono necessaria una Borsa europea del petrolio. «L’Autorità - ha ricordato Ortis - ha da tempo adottato meccanismi di aggiornamento

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trimestrale che attenuano gli effetti dell’eccessiva volatilità dei prezzi internazionali degli idrocarburi (verso l’alto e verso il basso». E infatti dall’inizio del 2009 ad oggi il prezzo per l’energia elettrica é sceso dell’8%, quello del gas del 15,4%. Anche per l’azione dell’Autorità: «Il bonus elettrico è stato già superato il milione di domande; quelle non ammissibili meno del 2%; quelle già am-

In totale, dalla prima apertura del mercato anche alle grandi imprese avvenuta nel 2004, il totale è di 4,3 milioni di clienti. Nel settore elettrico, rileva il presidente,“continua ad aumentare il numero di famiglie e piccole imprese che scelgono offerte sul mercato libero. In soli 2 anni di liberalizzazione, oltre 3 milioni e 200 mila consumatori hanno deciso di cambiare venditore: oltre 2 milioni di famiglie (il 7,1% del totale) e più di un milione e 200 mila piccole imprese (il 15,6% del totale). Il tasso di switching medio nazionale arriva così all’8,9%, un livello in linea con le migliori esperienze di altri Paesi europei”. Ma per arrivare a una vera concorrenza, è necessario che l’Eni separi Snam Rete Gas e lo stoccaggio: “Resta sempre urgente l’attuazione della legge del 2003 per risolvere veramente, come già fatto nel settore elettrico, un conflitto di interessi non eliminabile nemmeno con muraglie cinesi costruite da regolazioni troppo invasive”. L’energia da concausa della crisi, ha detto Ortis, può divenire leva per il rilancio economico-sociale, promuovendo nuova crescita. I sistemi tariffari governati da Autoritá indipendenti si stanno dimostrando un irrinunciabile strumento anticiclico per favorire gli investimenti e, quindi, per contribuire al rilancio.

L’Autorità: «Urgente la separazione proprietaria di Snam Rete Gas». La replica: «Alcune parti condivisibili, ma esula dalle sue prerogative»

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

messe alla riduzione della bolletta sono più di 600.000, numero ovviamente destinato ad aumentare». Compresi i cittadini abruzzesi.

«Sulle bollette elettriche, tuttavia - ha sottolineato Ortis - continuano a pesare la forte petrolio-dipendenza dell’Italia, la volatilità dei prezzi e molteplici oneri di sistema. Da qui la necessità di avviare una riflessione sul possibile trasferimento di questi oneri in tutto o in parte, a carico della più equa fiscalità generale». E in più, oltre 3,2 milioni di famiglie e Pmi sono già passate al mercato libero dell’energia elettrica dall’apertura del mercato il primo luglio 2007.

Da non perdere la nuova Garzantina, tutta zeppa di chicche, partenopei e dintorni

Quando Napoli era la capitale del cinema a quanta Napoli c’è in questa nuova e aggiornatissima Garzantina Cinema. In ordine sparso: Totò, Eduardo, Peppino, Titina (ai quali, se me lo concedete, aggiungo Vittorio De Sica, anche se era natio di Sora nel Frosinate, ma a Napoli si sentiva a casa sua). Quindi, Nino Taranto, Carlo Ludovico Bragaglia, Antonio Cifariello, Antonio Bocola (chi è? Scopritelo voi). Di seguito: Massimo Ranieri, Mario Merola, Nino D’Angelo, i tre della Smorfia: Massimo Troisi, Lello Arena, Enzo De Caro. Ancora: Ciro Ippolito, Pasquale Squitieri, Francesco Rosi, Luciano De Crescenzo, Vincenzo Salemme, Enzo Moscato, Luisa Ranieri, Giuliana De Sio e lei: Sofia Loren.

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Chiedo scusa in anticipo per le mancate citazioni, ma sono inevitabili perché la Garzantina dedicata al Cinema è piena zeppa di Napoli, napoletani e dintorni ai quali sono dedicate delle “voci” essenziali e pulite adatte per la consultazione a portata di mano, ma anche qualcosa di più. Un esempio. Ettore Giannini. Chi era costui? Nato a Napoli nel 1912, morto a Massa Lubrense nel 1990, regista e sceneggiatore. Scrittore di commedie per la radio negli anni

Trenta, nel 1936 vince i Littoriali per il cinema con il cortometraggio La prua incatenata. Del 1940 è Addio, giovinezza! e suoi sono i dialoghi, si ripete nel 1942 con Fra’ Diavolo di Luigi Zampa, mentre la sua prima regia è del 1949 con Gli uomini sono nemici: meloamdramma bientato nella seconda guerra mondiale. Lavora anche alla regia teatrale ed è uno sperimentatore al pari di Visconti, Strehler, Costa e mette in scena Pagnol, Cechov, Shaw, Tolstoj. Insomma, è tra i massimi nomi del teatro italiano. Ma - ecco il punto - la notorietà internazionale giunge con il film Carosello napoletano del 1953, tratto dall’omonimo e celebre lavoro teatrale, in cui le vicende di una famiglia di cantastorie napoletani si snodano tra musical e rivista in una fantasiosa rivisitazione della

storia. C’è anche da segnalare, in qualità di attore, la sua interpretazione dell’intellettuale comunista Andrea in Europa ’51 di Roberto Rossellini. Stessa cosa, e a maggior ragione, si potrebbe dire per l’attore Antonio Cifariello. La sua carriera fu breve: nato a Napoli nel 1930 mori a Lusaka, nello Zambia, nel 1968. Recitò per Fellini in Agenzia matrimoniale, con Dino Risi in Pane, amore e… e nella sua breve carriera fu autore di reportage per la tv girati in Africa. In questa Garzantina trovate curiosità a non finire. Totò è definito così nelle due righe che aprono le due colonne della “voce”: «Di ascendenza nobile ma di nascita piccolo-borghese e di formazione sottoproletaria». Di Peppino si dice quello che già sapete: fratello di, e poi fece parte a sé, quindi l’incon-

tro fortunatissimo con Totò e alcuni film storici come Totò, Peppino e la… malafemmina, Letto a tre piazze, La banda degli onesti, Signori si nasce, ma si ricorda anche che è lì all’esordio di Federico Fellini in Luci del varietà. Insomma, come si usa dire, per chi è appassionato di cinema la Garzantina a cura di Gianni Canova è da non perdere. Soprattutto per chi è appassionato di cinema ed è napoletano.

Quasi una conferma al luogo comune che vuole i napoletani essere tutti attori nati. Anzi, prima che il cinema diventasse un’industria e prima che si trasferisse armi e bagagli in quel di Roma, proprio Napoli fu la prima capitale italiana del cinema. Lo documentano molto bene Vittorio Paliotti e Enzo Grano nel loro libro Napoli nel cinema (pionieri e dive del muto tra fine ‘800 e primo ‘900) edito da Marotta & Cafiero, a Napoli naturalmente. Un’ultima nota. C’è la “voce” Giffoni Film Festival: «Manifestazione cinematografica organizzata dall’Ente Autonomo Festival Internazionale del cinema per ragazzi e per la gioventù di Giffoni Valle Piana (Salerno), associazione non-profit nata nel 1973».


panorama

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Regressi. È ormai trasversale l’idea di intervenire chimicamente contro gli stupratori. Ma si tratta di demagogia e di barbarie

Chi vuole la castrazione nel Paese di Beccaria di Riccardo Paradisi uando proponevo la soluzione della castrazione chimica – dice il leRoberto ghista Calderoli – ero visto come un mostro ora anche illustri criminologi sostengono questa tesi». L’illustre criminologo Pierfranco Bruno che in effetti ha espresso un parere favorevole a un trattamento medico di inibizione sessuale per gli stupratori seriali. Di questa idea della castrazione chimica e dei manifesti da affiggere nelle città coi volti di noti sex-offender se ne parla alla Camera dei deputati come di strumenti efficaci per mettere un argine alla violenza sessuale.

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Daniela Santanché, che nella sua parentesi storaciana parlava della necessità di una destra con la bava alla bocca, si è messa a raccogliere con il suo movimento anche le firme per una petizione che chiede la castrazione chimica per chi si renda responsabile di molestie a sfondo sessuale. A dare ascolto agli umori in circolazione la sua potrebbe anche essere una campagna di successo. L’85% dei partecipanti al sondaggio quo-

Nel diritto islamico esiste la pena del taglio delle mani per i ladri. L’Occidente non la considererebbe meno barbara se ci fosse il consenso del colpevole tidiano di Sky Tg24 si dichiarava ieri per esempio assolutamente favorevole all’introduzione nella nostra legislazione della castrazione chimica. Ma a dare retta agli umori popolari potrebbe emergere anche una forte percentuale favorevole alla pena di morte per i molestatori. Il cosiddetto popolo di Facebook del resto invoca per il presunto stupratore romano

«castrazione fisica ed ergastolo». Qualche mese fa un altro sondaggio successivo a casi di stupro ravvicinati rivelava che un italiano su due vedrebbe poi di buon occhio l’affissione sulla porta di chi si è reso responsabile di questo crimine di un cartello dove sia scritto «Qui vive un maniaco sessuale», pratica sperimentata presso alcuni Stati degli Usa.

Il dibattito è ormai trasversale e scavalca gli schieramenti politici, l’ex segretario del Pd Veltroni qualche mese fa prese in considerazione l’ipotesi della castrazione chimica «se utile» mentre nel centrodestra c’è chi si proclama contrario a questa ipotesi. Il governo di Londra ha deciso lo scorso febbraio di sperimentare le cure sui pedofili sulla base di ricerche che mostrano come l’assunzione di farmaci anti-libido possa ridurre il rischio di nuovi abusi sessuali sui bambini. Niente di obbligatorio però: chi è stato condannato per pedofilia e vuole ”curarsi”, potrà prendere le medicine entrando a far parte del programma di sperimentazione e la cura non è alternativa al carcere. Si ragiona anche se la castrazione chimica sia una soluzione efficace. A rispondere a questa domanda è Emmanuele Jannini docente di sessuologia medica all’università dell’Aquila «La castrazione chimica non è efficace, nel senso che non serve a rendere inoffensivi gli stupratori. Il desiderio sessuale, spiega il professore, è qualcosa di complesso, non dipende solo dagli ormoni. Ma non ci sono

studi clinici che provano in questi casi l’efficacia dei farmaci antiandrogeni, quali ad esempio il ciproterone. Chi ne parla, lo fa senza essere documentato. Non bisogna poi dimenticare che questi trattamenti sono lesivi, riducono le speranze di vita, e un medico, deontologicamente, non può prescrivere farmaci che hanno effetti mutilanti».

Ecco basterebbero queste riflessioni intonate alla precauzione per respingere l’idea della castrazione chimica. Ma il punto centrale è ancora un altro e riguarda la civiltà e la cultura giuridica a cui si vuole guardare. Nel diritto islamico esiste la pena del taglio delle mani per i ladri. Ora, l’Occidente considera giustamente questa pena barbara e disumana, e non la considererebbe con minore severità se ci fosse il consenso del ladro. Ecco, la castrazione chimica segnerebbe un pericoloso oscillare della nostra cultura giuridica – nel paese di Cesare Beccaria – verso una concezione della giustizia che non terrebbe più conto della dignità della persona. Non sarebbe un progresso.

Proposte. Rocco Buttiglione spiega la sua mozione a tutela del diritto alla vita e del diritto alla maternità

Prima di tutto, donne e bambini di Rocco Buttiglione a quando la Corte suprema degli Stati Uniti con la sentenza Roe versus Wade ha legalizzato l’aborto in quel grande Paese, si è aperta nella coscienza dell’Occidente una spaccatura che persiste fino al tempo presente. Ci siamo trovati a discutere infinite volte sul tema del diritto alla vita e del diritto alla scelta. Ma l’iniziativa di questa mozione, che ho presentato in questi giorni alla Camera, si inserisce non nella continuazione di quella disputa, ma in un tentativo di guardare oltre quella disputa, cominciando con il renderci conto che, mentre noi ci dividevamo tra pro choice e pro life, per la libertà di scelta e per la vita, nel mondo esistono miliardi di donne, le quali non hanno diritto di scelta per la vita, ed esiste una violazione contemporanea del diritto alla vita del bambino e del diritto di scelta della donna. Almeno in un quarto dell’umanità abbiamo legislazioni che impongono alla donna l’aborto. L’aborto non è una scelta, ma un’imposizione. Per avere il secondo figlio occorre una speciale autorizzazione, senza la quale si viene sottoposti a pesanti penalità. Quindi, abbiamo un’aggressione contempo-

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ranea alla scelta e anche al diritto alla vita del bambino. Esistono molti Paesi in cui le donne sono ricattate, in cui esistono programmi che condizionano la concessione di aiuti alla famiglia della donna all’accettazione di abortire. Esistono Paesi i quali sono essi stessi ricattati, nel senso che la concessione di aiuti è vincolata all’adozione di legislazioni abortive. L’aborto viene utilizzato come strumento

Il governo si faccia carico della presentazione all’Onu di una risoluzione che condanni l’uso dell’aborto obbligatorio come strumento di selezione di selezione sessuale, di selezione genetica, secondo un progetto eugenetico che ricorda abbastanza da vicino il progetto genetico nazionalsocialista: si tenta di incrementare, attraverso l’uso dell’aborto, alcune facoltà e caratteristiche, razziali o di altra natura, che vengono considerate più desiderabili di altre.

In tutto questo contesto noi abbiamo una comunità internazionale sostanzialmente silenziosa. Nessuno fino ad oggi ha posto con energia questi temi. Crediamo sia venuto il tempo che questo invece venga fatto, e che venga fatto in Italia. Noi chiediamo che l’Ita-

lia si faccia protagonista di questa battaglia. Che il governo italiano si faccia carico della presentazione alle Nazioni unite di una risoluzione volta a condannare l’uso dell’aborto obbligatorio, a tutelare la libertà di scelta della donna, a condannare l’uso dell’aborto come strumento di selezione sessuale, nonché a condannarne l’imposizione attraverso strumenti di ricatto e come strumento per la prevenzione delle nascite. Nella mozione non è in alcun modo in questione la legge 194, che infatti dice che l’aborto non è uno strumento di regolazione demografica o di prevenzione delle nascite. Nello spirito della legge l’aborto è un rimedio estremo. Noi ci muoviamo interamente nel solco di questa posizione della legge 194 e questa mozione non chiede allo Stato di cambiarla. Gli chiede di farsi interprete a livello mondiale di un’azione per salvare milioni e milioni di vite umane e insieme il diritto alla maternità di milioni e di milioni di donne nel mondo. Noi vorremmo che la mozione fosse un momento per registrare un minimo etico comune che ci consenta di essere protagonisti nel mondo di una battaglia di civiltà e sono sicuro che questa battaglia troverà forti sostegni anche oltre i confini del nostro Paese.


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il paginone Caritas in veritate. Continua la nostra riflessione sull’ultima enciclica di Benedetto XVI con l’intervista a Giacomo Vaciago, docente di Economia all’Università Cattolica di Milano

L’amore gl di Gabriella Mecucci re sono le grandi encliche sociali: la prima è la Rerum Novarum, la seconda è la Populorum Progressio e la terza è quella recente di Benedetto XVI, la Caritas in veritate. Quest’ultima non è altro che la prosecuzione della Populorum progressio. Il fine di Paolo VI era quello dello sviluppo dell’uomo. Di tutti gli uomini. La Caritas in veritate riparte da lì, riprende cioè, dopo quarant’anni, quella riflessione con l’identico scopo, facendo i conti con tutto ciò che è cambiato. Ed è cambiato moltissimo. Papa Ratzinger ha davanti a sè una dimensione del mondo che era ancora lontana ai tempi di Paolo VI: si tratta della globalizzazione e dei problemi etici inediti che essa pone. Per comprendere il testo di Benedetto XVI occorre dunque partire da qui: dalla società dei migranti». Giacomo Vaciago, docente di Economia alla Cattolica di Milano, vede nell’enciclica dell’attuale Papa la continuità della riflessione cattolica, ma anche tutta la modernità dell’approccio alla globalizzazione. Allora professore, partiamo da ciò che è cambiato dal lontano 1967, anno della “Populorum progressio”. Innanzitutto il mondo non è più diviso in due: comunismo e capitalismo. Inoltre non c’è più né il primo, né il secondo, né il terzo mondo così come veniva identificato allora. Ci sono naturalmente

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i ricchi e i poveri, ma anche gli egoisti e i generosi: Paesi che cacciano i migranti e Paesi che li accolgono, Paesi da cui si scappa e Paesi dove si va. Il legislatore italiano dovrebbe sapere che vengono da noi perchè il nostro è giudicato un Paese che sta bene. Non è una condanna, è un privilegio. Pensi che tristezza se i migranti andassero ovunque fuorché in Italia. L’enciclica del Papa si occupa molto di questo, dell’accoglienza a chi viene, e credo che la sua lettura farebbe molto bene ai politici nostrani. È molto

Caritas in veritate era antiberlusconiana. Lasciamo stare le sciocchezze. Il Papa parla al mondo intero e si occupa dei problemi etici che pone questa società e delle nuove regole di cui ha bisogno, non fa la campagna elettorale per questo o quel partito. Oggi - ripeto - siamo di fronte ad una mutazione profonda. Ci sono stati periodi della storia in cui gruppi, individui stavano immobili sempre nello stesso posto, e ci sono stati momenti in cui come oggi - hanno iniziato a muoversi vorticosamente.

Ratzinger riparte dalla “Populorum progressio” di Paolo VI. Ma dopo quarant’anni il mondo non è più diviso in due tra comunismo e capitalismo. Ci sono ricchi e poveri, ma anche egoisti e generosi

bello mettere insieme la parola amore (caritas in latino vuol dire amore, non significa elemosina) e la parola verità. Sia chiaro: ho presente che l’immigrazione è un grandissimo stress per un paese come il nostro. Quarant’anni fa non c’era. E’ un tema rispetto al quale occorre un approccio problematico, ma non si può considerare colui che arriva come un criminale. Lei parla di un Ratzinger antileghista? No, per carità non mi faccia dire queste cose. Giorni fa hanno cercato di farmi affermare che la

Eppure un teologo cattolico liberale come Novak sul nostro giornale avanza qualche riserva rispetto alla Caritas in veritate. Dice di preferire la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Sembra trovare nella enciclica ratzingeriana una sottolineatura troppo forte dell’importanza dello stato assistenziale, mentre Woitjla metteva in guardia contro i suoi eccessi che non lasciavano libere di esprimersi tutte le energie umane. Innanzitutto non considero la


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Prosegue anche oggi il dibattito su “liberal” ROMA. Prosegue oggi, con l’intervento di Giacomo Vaciago, il dibattito aperto da liberal sulla terza enciclica di papa Benedetto XVI, la Caritas in Veritate. Prima dell’economista della Cattolica di Milano, hanno contribuito Michael Novak, teologo ed editorialista; Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano; Paolo Savona, economista e presidente di Unicredit Banco di Roma; Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc e vice presidente della Camera dei deputati italiana e padre Sirico, uno dei principali protagonisti del mondo cattolico contemporaneo. Pur nella varietà del senso

dei contenuti - per alcuni l’enciclica ha un tono prettamente economico, per altri riporta in luce l’importanza della morale - è indubbio che la Caritas in Veritate abbia scosso le fondamenta della riflessione in corso sin dall’inizio della disastrosa crisi finanziaria. Secondo Novak, l’eniclica dimostra come «la Chiesa sta nei temi della modernità e può affrontare i temi economici e politici con grande libertà. Se non fossimo soffocati dal politicamente corretto che tutto assume e stempera, certamente ci accorgeremmo che sono posti molti motivi d’inquietudine».

lobale Centesimus annus una grande enciclica, ben altre e di ben maggiore importanza ne ha scritte Giovanni Paolo II. La Centesimus annus, non a caso si chiama così, vuol celebrare il centenario della Rerum Novarum. Comunque non sono d’accordo con la critica di Novak. Non mi sembra che Ratzinger metta lo Stato sopra la persona e che gli assegni più doveri di quelli che ha l’individuo e la società. Non c’è la contrapposizione stato mercato in questa enciclica come del resto nella realtà. Lo Stato serve a fare quelle cose che noi non riusciamo a fare. MI sembra che questo Papa pensi che la società sa fare e fa molte cose da sé. Del resto per il mondo cattolico tedesco, che Ratzinger conosce molto bene, vige il principio di sussidiarietà. Lo Stato interviene là dove la società da sola non ce la fa. E infatti l’enciclica è stata molto ben accolta dal mondo del volontariato. D’altronde alcune cose le deve fare lo Stato: non esiste la sicurezza fai da te in nessun luogo del mondo. Le ronde sono una pericolosa sciocchezza. Insomma, che differenza c’è fra le tre ultime encicliche sociali? La Populorum progressio si occupava della competizione fra capitalismo e comunismo e del Terzo mondo, la Centesimus annus avvertiva i temi della globalizzazione ma non li affrontava in modo compiuto come fa la Caritas in veritate. Anche perché allora

questi temi non erano squadernati sotto i nostri occhi come oggi. Questa ultima enciclica ci dice che occorre occuparsi dell’altro: di un prossimo che non è il vicino di casa ma che può trovarsi anche molto lontano da noi. Naturalmente il mondo cattolico avverte

sto rende la situazione ingestibile. La destra dice: fermiamoli e mandiamoli indietro. E questo è sbagliato oltreché impossibile. Il Papa vuole una politica di accoglienza verso gli emigrati. Perché non muoversi come i tedeschi con i turchi? Li andarono a prendere,

Lo Stato serve a fare quelle cose che noi non riusciamo a fare.Questo Papa pensa che la società sa fare e fa molte cose da sé.Del resto per il mondo cattolico tedesco vige il principio di sussidiarietà con grande forza e nettezza un simile impegno e riesce bene a metterlo in pratica. Anche perché “cattolico”in greco vuol dire “universale”. Oggi abbiamo una dozzina di religioni in competizione fra di loro e la cattolica è la più universale di tutte. Quella che, almeno teoricamente, è la più in grado di rispondere ai grandi problemi della globalizzazione. Le altre religioni - pensi all’Islam o al Confucianesimo - si occupano di se stesse mentre i cattolici si occupano da più di duemila anni del prossimo. Ed oggi è questo il problema: l’altro. E da questo punto di vista cosa dice la Caritas in veritate? Non fornisce regolette, ma dice che non hai mai finito di occuparti del prossimo. Facciamo l’esempio degli emigranti. La sinistra dice: che arrivino pure tutti. E que-

scelsero quelli che più servivano, li fecero arrivare decentemente e non sulle carrette del mare. No alla criminalizzazione, dunque... Guardi, il criminale ci può stare. Ma quando scopriamo il delinquente, non scopriamo che la società ha fallito, ma che esistono purtroppo anche i cattivi. E questi vanno puniti. La Chiesa non è mica contro il carcere. È contro casomai i carceri incivili. Non vorrei che confondessimo il pensiero del Papa con un generico buonismo. La carità e la verità messe insieme predeterminano qualcosa di diverso dell’elemosina che si dà la Domenica in Chiesa. E cosa determinano? Bisogna organizzare una società umana in cui i valori siano sempre presenti. E in cui ciascuno si occupi di bene comune. Prendiamo una categoria economica co-

me il profitto. In genere viene definito come la remunerazione della nostra capacità. Nell’enciclica di Ratzinger il profitto giusto è la capacità anche di contribuire al bene comune. Cioè, di dar vita ad una società migliore. Ma una logica del genere non può finire col mettere in discussione il capitalismo? Mette in discussione un capitalismo autosufficiente e autoreferenziale come eravamo abituati a viverlo sino a due anni fa. Allora la convinzione forte era: i ricchi hanno ragione, non sarà un caso se hanno avuto successo. Il Papa dice: un momento, in base a quali regole ti sei arricchito? Hai aiutato a crescere l’intera società? Questa enciclica secondo lei contesta la ricchezza? Ma nemmeno per sogno. La ricchezza è un cosa importante. Ma la ricchezza non è uno che arricchisce a spese degli altri, impoverendo la collettività dove vive. Anzi, la ricchezza è qualcosa che aiuta a crescere l’intero gruppo di appartenenza. Del resto, noi in Italia ad alcuni imprenditori particolarmente capaci diamo il titolo di cavalieri del lavoro. Cosa significa? Non vuol mica dire: siccome hai fatto molti soldi, noi ti consideriamo particolarmente meritevole. Vuol dire: tu hai prodotto ricchezza e nel produrla, hai migliorato le condizioni della società. Naturalmente una simile impostazione prevede che ci sia lo sviluppo, che si produca di più

Benedetto XVI nella pagina a fianco. Qui sopra: a sinistra Paolo VI; a destra Giovanni Paolo II e nel rispetto dell’ambiente. Se non è così infatti, se il monte a cui attingere non aumenta, allora se io mi arricchisco finisco col farlo a spese di altri. Ma se lavoro ad accrescere produzione e innovazione, allora non solo non tolgo niente a nessuno, ma posso diventare utile agli altri. E’questa la “filosofia” della Caritas in veritate. Questa enciclica pone molto l’accento sull’idea di dono... È un concetto profondamente cattolico. Come la vita dell’uomo è un dono del Signore, così il concetto di caritas sta a significare amore verso il prossimo. L’amore è donazione. È un porsi il problema: cosa faccio per te? Gurdare solo se stessi e il proprio interesse è egoismo, l’esatto contrario dell’amore che è appunto darsi. In questo l’enciclica tocca uno dei nuclei più forti e solidi della religione cattolica. Un’ultima domanda: che impressione le ha fatto vedere l’enciclica papale commentata su l’Osservatore Romano dal Governatore della Banca d’Italia? Mi ha ricordato che Mario ha studiato dai Gesuiti e si è laureato con un buon cattolico come Federico Caffè.


mondo

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Analisi. Le sole voci a favore dei «fratelli del Turkestan» sono venute da Ankara (che li vuole annettere) e Teheran

Allah, figli e figliastri Perché i governi musulmani hanno scelto di tacere sul massacro del Xinjiang? di Maurizio Stefanini erto, c’è il premier turco Recep Tayyp Erdogan che a fine G8 ha definito gli eventi del Xinjiang «quasi un genocidio», dicendo pure che bisognerebbe investirne il Consiglio di Sicurezza. C’è Nihat Ergun, il ministro del commercio di Ankara, che ha detto ai suoi connazionali di boicottare le merci cinesi. Ci sono i 5mila manifestanti che davanti alla moschea Fatih di Istanbul si sono messi a bruciare prodotti cinesi dopo la preghiera del venerdì, gridando “no alla pulizia etnica!”. C’è il ministro iraniano degli esteri Manuchehr Muttaki che ha detto di voler telefonare al suo collega cinese per discutere con lui la situazione della provicia. C’è l’Organizzazione della conferenza islamica che ha condannato l’uso «sproporzionato» della forza, chiedendo alla Cina un’inchiesta «onesta» sugli incidenti. C’è qualche brontolio che arriva dai religiosi iraniani, come pure qualche protesta in Indonesia. Manifestano ovviamente gli uighuri in esilio: i 200 che si sono radunati davanti al Parlamento australiano gridando «morte ai terroristi cinesi»; quelli che a L’Aja hanno lanciato pietre contro l’ambasciata cinese nei Paesi Bassi; quegli altri che a Berlino hanno fatto un sit-in di fronte all’ambasciata in Germania. E ci sarebbe pure al Qaeda, che

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ha minacciato di attaccare i sempre più numerosi tecnici cinesi in Nord Africa per rappresaglia. Comunque, anche per queste reazioni può valere il raffronto con quello che gli stessi soggetti avrebbero fatto, se una strage di musulmani, 184 morti e oltre 1600 feriti, fosse avvenuta a opera di israeliani o comunque di occidentali.

Ve l’immaginate il ministro degli Esteri iraniano che dice di “voler discutere” col collega israeliano dei fatti di Gaza? O l’Organizzazione della conferenza islamica che chiede “un’inchiesta onesta” allo Stato ebraico? O al Qaeda che affida una simile dichiarazione di guerra alle elucubrazioni di qualche think tank, piuttosto che a un fiammeggiante video dello stesso Bin Laden o di al Zawahiri? Su al Qaida, anzi, andrebbe ricordato che quando tre settimane fa la sua branca algerina attaccò un convoglio di forze di sicurezza incaricato di proteggere alcuni ingegneri cinesi al lavoro su un progetto di autostrada furono uccisi ben 24 agenti, ma agli orientali non fu torto un capello. Un ultimo avvertimento, prima di alzare il Donne uighure piangono dopo la repressione cinese del Xinjiang. Sopra, proteste per la pubblicazione delle vignette su Maometto

tiro anche contro di loro? O non piuttosto l’ennesima conferma che fin quando per l’integralismo islamico sarà l’Occidente il nemico principale gli uomini di Pechino possono stare tranquilli, qualsiasi cosa nel Xinjiang avvenga. Anche se fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, il ministero degli Esteri della Repubblica Popolare ha comunque fatto sapere che il governo sta all’erta, e che «aumenterà gli sforzi con altri Paesi al fine di prendere le misure necessarie per garantire la sicurezza di cittadini e istituzioni cinesi all’estero». Insomma: due pesi e due misure, nel mondo islamico. Con la parziale eccezione della Turchia: i cui abitanti sentono il problema in modo particolare più ancora per la loro prossimità etno-linguistica agli uighuri che non per ragioni di fede; ma il cui governo sembra in realtà muoversi più per soddisfare in qualche modo l’opinione pubblica interna, che non per ottenere un qualche risultato concreto.

D’altra parte, come ha rilevato in un sarcastico editoriale il direttore della rivista Foreign Policy Moisés Naím, lo stesso Erdogan è a capo di quel governo che ha chiesto alla comunità internazionale di riconoscere Hamas, ma ha poi negato il visto al leader uighuro in esilio Rebiya Kadeer (per poi conce-

La bilancia commerciale tra la Cina e i Paesi arabi è giunta a circa 100 miliardi di dollari. Un giro d’affari troppo grosso per essere messo a rischio per salvare un’etnia di cui interessa veramente poco derlo). Lo stesso Naím ha ricordato la storia delle vignette danesi su Maometto, quando per semplici disegni senza neanche un morto undici ambasciatori di Paesi islamici protestarono subito contro il governo di Copenaghen, il consolato danese a Beirut e l’ambasciata a Damasco furono incendiati, ci furono morti in strada per i violento moti che si accesero dalla Somalia all’Afghanistan e al Pakistan, e addirittura la reazione si spostò sull’ambasciata norvegese in Siria e su un consolato italiano in Libia dopo che prima la stampa norvegese e poi il ministro Calderoli ebbero deciso di esibire a loro volta le vignette in difesa della libertà di stampa.

Neanche appaiono particolarmente interessati al Xinjiang quei religiosi di cui le cronache degli ultimi anni hanno riportato le continue fatwa contro un po’ tutto e tutti: contro i libri di Salman Rushdie; contro i Pokémon; contro i vaccini anti-poliomelite; contro le donne in pantaloni, condannate in Su-

dan a ricevere frustate a decine; contro la nudità assoluta durante il sesso, anche tra coppie sposate…

Da una parte, c’è ovviamente che il grado di democrazia nel mondo islamico è piuttosto scarso, e che quindi ai governi dell’area interessa poco esaltare un moto di protesta contro un potere costituito. Questo, va ricordato, è pure il momento in cui l’Iran è a sua volta alle prese con un moto di protesta. Dall’altro, c’è che tra il 2004 e il 2008 il commercio tra Cina e Paesi arabi è giunto a circa 100 miliardi di dollari: insomma, superando gli Stati Uniti la Cina è ormai il principale partner commerciale di Paesi come l’Arabia Saudita o il Sudan, oltre che il principale acquirente del petrolio dello stesso Sudan, della Nigeria, dell’Iran e dell’Iraq. In cambio Pechino ha trovato spesso la convenienza a mettere il suo diritto di veto in Consiglio di Sicurezza dell’Onu al servizio del mondo islamico: frenando ad esempio all’Onu mozioni di embargo con-


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I terroristi del Maghreb minacciano attentati contro i cinesi in Africa

Al Qaeda promette vendetta per gli uighuri di Osvaldo Baldacci nfine è successo. Lo scontro faccia a faccia tra Cina e al Qaeda non poteva tardare oltre, e ieri per la prima volta la rete terroristica legata a bin Laden ha minacciato direttamente ed esplicitamente il gigante asiatico. Le avvisaglie c’erano, e per la verità c’erano anche dei piccoli precedenti. Ma la situazione geopolitica mondiale con le caratteristiche specifiche delle due realtà in discussione avevano lasciato ai margini questo tema, secondo quella che per altro è una tradizione plurisecolare, su una sorta di confine tra islam e Cina fissato in Asia Centrale fin dal 750 dell’era volgare. Ma in un mondo globalizzato come quello di oggi, e con due realtà come la superpotenza emergente cinese e il fondamentalismo islamico che non sono più chiuse su se stesse come erano solo pochi anni fa, era inevitabile che si arrivasse al conflitto. E i gravi fatti del Xinjiang sono il perfetto detonatore che permette ad al Qaeda di assumere anche questa bandiera, approfittando come è nel suo stile della tiepidezza dei regimi arabi. Ed è anche per questo che la crisi del Turkestan orientale rischia di essere grave e pericolosa per il regime di Pechino, ben al di là dei tanti precedenti casi spenti con una repressione severa ma che da quelle parti è di routine. Ricapitoliamo: dopo una settimana dai violenti fatti di Urumqi, la rete di alQaeda si è fatta viva minacciando ritorsioni contro la Cina per difendere e vendicare i musulmani di etnia uighura. In particolare si sarebbe fatta viva la temibile branca nordafricana dell’organizzazione terroristica, al Qaeda nel Maghreb islamico. Che può sembrare fisicamente lontana, ma non lo è. E questa è una delle principali novità che può cambiare molti scenari. Se per i terroristi infatti è molto difficile - seppur non impossibile - colpire efficacemente all’interno della Cina, può essere molto più facile e allo stesso tempo di grande impatto mediatico e politico colpire gli interessi cinesi all’estero. Perché adesso di interessi cinesi all’estero ce ne sono tantissimi, specie in Africa. Sono aree in cui la Cina ha avviato un vero e proprio colonialismo, facendosi consegnare “chiavi in mano” risorse e appalti, spesso gestite con comparti chiusi, portandosi da casa manodopera e guardie. Pensando di riprodurre all’estero con la compiacenza dei governi locali i sistemi blindati che applica in casa, la Cina pensava di essere immune da critiche e rischi. Ma già da qualche tempo le popolazioni africane hanno incominciato a rumoreggiare, e

I

tro Teheran; proteggendo sistematicamente il Sudan sulla questione del Darfur; riconoscendo l’Autorità Nazionale Palestinese con il rango di Stato indipendente, nel momento in cui le relazioni con Israele sono invece congelate; e chiudendo pure volentieri un occhio sulle critiche mondiali all’Arabia Saudita a proposito

cidenti, comprenderanno le misure che sono state adottate».

Secondo Qin Dang, portavoce di turno del Ministero degli Esteri di Pechino, «la Cina e i Paesi musulmani per molto tempo si sono rispettati e aiutati»: dunque, è auspicio che la convergenza rimanga, “senza interferenze negli affari inter-

Il governo cinese ha più volte usato il suo diritto di veto all’Onu per il mondo islamico: frenando l’embargo sull’Iran; proteggendo sistematicamente il Sudan e riconoscendo l’Anp dei diritti umani. Ma anche al di là degli interessi dei vertici politici e economici, a livello popolare c’è come un’idea che i cinesi sono un nemico meno pericoloso di ebrei e “crociati”, e che dunque bisogna usare per loro un occhio di riguardo.

È d’altronde proprio quel tipo di interessi e sentimenti cui il governo di Pechino ha fatto riferimento con l’appello di ieri alla comunità islamica mondiale, a “comprendere” le misure che sono state prese in relazione ai disturbi di Urumqi. «Non interpretate i disturbi come un conflitto di religioni. Se i Paesi musulmani e i loro credenti hanno un’idea chiara degli in-

ni”. Né d’altronde è così solo per gli islamici. L’indigeno Evo Morales col divenire presidente della Bolivia è diventato per le lobby indigeniste del Primo Mondo un eroe allo stesso livello del Premio Nobel per la Pace, il quattordicesimo Dalai Lama Tenzyn Gyatso, amato e coccolato: solo che per lo stesso Morales i tibetani non devono evidentemente avere quel tipo di diritti da lui rivendicati per gli indios; e anche per i palestinesi, visto che dopo la guerra di Gaza ha interrotto unilateralmente le relazioni con Israele. Invece, nelle sue rivendicazioni la Cina è un modello costante: specie quella che era ancora maoista.

ora al Qaeda vuole provare a cogliere l’opportunità: il gigante giallo tira fuori la testa dalla sua fortezza e inevitabilmente si espone a nuovi rischi. Centinaia di migliaia di cinesi lavorano in Medioriente ed Africa.

Pechino ha risposto dicendosi sicura all’estero (secondo il ministero degli Esteri il governo cinese ha preso nei mesi passati «un certo numero di misure» per garantire la sicurezza dei cittadini cinesi all’estero) e facendo forse anche capire di avere ancora il coltello dalla parte del manico verso decine di migliaia di musulmani dentro i suoi confini. Un po’ di storia, per provare a capire il salto di qualità di questo confronto e dove esso può portare. L’islam e la Cina hanno avuto nel tempo rapporti abbastanza tranquilli. Ci sono milioni di musulmani in Cina, alcuni pacificamente assimilati (ad esempio gli hui, cinesi in tutto e per tutto se non per la religione), altri meno, come è il caso degli uighuri sui quali pesano tre problematiche: l’etnia turca diversa dagli han, la ricchezza del loro territorio, la posizione di frontiera che ne fa un’interfaccia essenziale per Pechino ma allo stesso tempo crea tentazioni centrifughe e relativi sospetti. Il regime comunista degli ultimi decenni ha scelto la linea dura nel Xinjiang, e questo si è accentuato negli ultimi anni. A partire dal 2001 Pechino ha colto in pieno l’occasione della guerra al terrorismo per giustificare un’ulteriore repressione. Allo stesso tempo è innegabile che il fenomeno della crescita mondiale del fondamentalismo islamico ha iniziato a insinuarsi anche in Cina, unendosi all’irredentismo del Turkestan. Da tempo gruppi uighuri sono collegati ad al Qaeda, ma a causa del duro regime cinese hanno agito all’estero, come combattenti esiliati che si univano alle altre cause islamiche. Con le Olimpiadi del 2008 il terrorismo uighuro interno alla Cina è balzato agli onori della cronaca con diversi episodi. Ma la fonte è cinese, per cui da prendere con le molle. Certo è possibile che l’occasione abbia spinto all’azione qualche gruppo, come d’altro canto sono decine gli episodi di attacchi anticinesi (anche qui veri o presunti) nel Xinjiang. Ma in realtà siamo ancora sul piano di azioni irredentiste di bassa intensità. Un confronto diretto tra al Qaeda e Cina sarebbe tutt’altra cosa, e cambierebbe gli scenari. A partire dal teatro di operazioni: è ancora difficile colpire in Cina, ma oggi lo scontro può avere uno sviluppo tutto intorno al pianeta.

Storicamente sono buoni i rapporti di Pechino con l’islam. La repressione del Xinjiang ha peggiorato la situazione: a rischio le acciaierie dell’Algeria e i pozzi della Nigeria


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Voto. Jerry Buzek è il nuovo presidente. Fra le sfide, Lisbona e la Commissione STRASBURGO. Con una robusta maggioranza di 555 voti su 736 Jerzy Buzek è diventato presidente del Parlamento europeo. È il primo capo dell’eurocamera proveniente da un ex Paese socialista, la Polonia. Per molti a Strasburgo e Bruxelles si tratta di una decisione storica. Buzek cominciò infatti a fare politica nei primi anni Ottanta, in clandestinità, ai tempi delle rivolte di Solidarnosc (il sindacato fondato da Lech Walesa nei cantieri navali di Danzica) contro il regime filosovietico. Ma è anche l’ex primo ministro polacco che iniziò i negoziati per l’adesione del suo Paese all’Unione europea al vertice dei capi di Stato e di governo in Lussemburgo nel dicembre del 1997. Siedeva accanto a lui in quelle trattative uno dei leader storici del sindacato polacco, Bronislaw Geremek, all’epoca ministro degli esteri, deceduto in un incidente stradale esattamente un anno fa.

C’è chi dice che la poltrona più alta dell’Eurocamera sarebbe stata destinata a lui, in virtù del suo passato di prima testa d’uovo del movimento guidato da Lech Walesa. Il significato dell’elezione di Buzek è quindi altamente simbolico. Egli stesso l’ha definita «un omaggio ai milioni di individui che non si sono piegati a un sistema ostile» sottolinenando l’importanza della riunificazione dell’Europa: «Ormai non esiste più il noi e il voi, poichè viviamo in Europa condivisa». Era chiaro fin dall’inizio infatti che lo scranno più elevato di Strasburgo

Eu, al via la settima legislatura (polacca) di Sergio Cantone (e il ruolo istituzionale meno prestigioso) sarebbe stato assegnato ai nuovi Stati membri. Si trattava di dare una scossa alle euro-narcotizzate opinioni pubbliche dell’Est. Già a fine aprile i polacchi avevano cominciato una campagna promozionale su Buzek, più rivolta al consumo interno che a quello estero. Il settimanale NewsWeek, nella sua versione polacca, aveva addiritura pubblicato un primo piano del neo presidente, titolando: «Se vuoi che questo sia il volto dell’Europa vota alle prossime elezioni europee». I suoi grandi sponsor sono stati Germania, Francia e una distratta Gran Bretagna. Unica parvenza di competizione quella con Mario Mauro, eurodeputato super-attivo del Popolo della Libertà. Candidato troppo convincente per essere vero. Mauro punterebbe infatti alla Commissione europea, prendendo il posto di Antonio Tajani, che potrebbe candidarsi alle regionali nel Lazio per il centro-destra. Almeno, queste sono le voci di corridoio. Buzek è un presidente a progetto: due anni e

mezzo per sistemare la burocrazia del Parlamento e le procedure anchilosate, e poi staffetta (come al solito) con i socialisti che spingono per piazzare il loro attuale capogruppo, Martin Schultz (il «pupillo » di Berlusconi, che il primo ministro italiano voleva «caldeggiare» per un ruolo da kapò in una fiction nazionale), a meno che non riesca a strappare a Merkel,

ne delle nomine del ministro degli esteri europeo e del presidente permanente del consiglio Ue. In un tale contesto Jerzy Buzek non può certo lanciare sfide epocali nel mezzo mandato a venire, ma cercare di condurre a piccoli tratti un parlamento diviso, dove la somma degli euroscettici permetterebbe di formare il terzo gruppo politico, davanti ai liberali. Eppure l’Eurocamera aumenterà le sue competenze (sempre che il trattato di Lisbona venga approvato) e dovrà collaborare con i parlamenti nazionali Per quanto riguarda le politiche attive Buzek sottolinea la questione economica : «Dobbiamo renderci conto che siamo in crisi e gli europei aspettano le nostre risposte». E sull’economia il parlamento intende sfidare la commissione europea e la sua mancanza di iniziativa con Barroso. È stata infatti creata una commissione parlamentare non permanente sulla crisi economica. Ed è il cavallo di battaglia di Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga, federalista e liberale. Si

Due anni e mezzo di tempo per sistemare la burocrazia del Parlamento e poi parte la staffetta con il socialista Martin Schultz nonostante il loro diverso colore politico, un posto da commissario. Fonti a lui vicine dicono che questo sia il suo grande sogno. Realizzabile o no, tutto dipenderà dalle elezioni federali tedesche di fine settembre che, guarda caso, si svolgeranno proprio nella fase più calda per il futuro dell’Europa a ventisette.

Ci sarà infatti la composizione della Commissione, con la controversa nomina di Barroso, il referendum irlandese sul trattato di Lisbona e, dovesse vincere il sì, la questio-

tratta dell’eurodeputato che al momento sembra dotato di più carisma. Ha scalzato il britannico Graham Watson da leader del gruppo e indende ricattare politicamente Barroso, facendogli pagare caro il voto favorevole che alla fine potrebbero concedergli i liberali assieme ai socialisti. «Alla fine potremmo dire anche di sì a Barroso, ma lui dovrà accettare certe nostre condizioni sulle questioni economiche » ha affermato Verhofstadt nei corridoi di Strasburgo.

Solo tra settembre e ottobre tutti cominceranno a giocare a carte scoperte, soprattutto con la ratifica di Lisbona. A quel punto anche lo stesso Barroso potrebbe rientrare nella linea di mira di chi oggi lo sostiene. Sarà infatti il gioco delle nomine che detterà l’agenda europea. Per il momento l’unica certezza è che Buzek è il presidente del parlamento europeo e che lunedì prossimo i presidenti delle commissioni parlamentari saranno stati tutti eletti, l’Italia potrebbe ottenere la commissione esteri. Intanto ci sarà da osservare le prime mosse di Buzek e della presidenza svedese, entrambe le forze istituzionali vorrebbero promuovere nei prossimi sei mesi un abbozzo di politica energetica comune, c’è intesa tra polacchi e svedesi sull’indipendenza energetica dell’Ue e sulla diffidenza verso la Russia, ma potrebbe essercene meno sulla questione del cambio climatico. E il tempo stringe, perché la conferenza di Copenhagen sarà a dicembre.


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Forse giornalisti, forse consiglieri militari del governo somalo

L’ex presidente liberiano al Tribunale penale internazionale

Mogadiscio, fitto mistero sul rapimento di due francesi

Taylor a L’Aja: «Le accuse sono solo chiacchiere»

MOGADISCIO. Un commando

L’AJA. Charles Taylor è salito ieri sul banco dei testimoni de L’Aja e di fronte al tribunale dove è chiamato a rispondere di istigazione all’omicidio, stupro, mutilazione, riduzione in schiavitù e sfruttamento di bambini soldato ha liquidato le accuse come «bugie e disinformazione». Contro Taylor, 61 anni, ci sono 11 capi di imputazione relativi al periodo in cui in Liberia e Sierra Leone infuriò una guerra civile costata la vita a 250mila persone. «Non sono colpevole di alcuna di queste imputazioni», ha detto l’ex presidente della Repubblica di Liberia di fronte alla Corte speciale nominata all’Aja. Secondo la procura, sostenuta da centinaia di testimonianze,Tay-

di quindici uomini armati è entrato ieri mattina nell’Hotel Sahafi, nella capitale somala, e ha rapito due reporter francesi. Il gruppo ha bloccato puntando mitra e pistole lo staff dell’albergo e i pochi clienti già in piedi che stavano facendo colazione al ristorante. Un paio di miliziani è salito direttamente alla stanza 212 dove i due francesi stavano ancora dormendo e ha bussato alla porta come se niente fosse. La prima volta nessuno ha risposto, la seconda uno dei due ospiti ha aperto la porta e ha obbedito al comando di uscire immediatamente. «Sono andati a colpo sicuro - ha raccontato Mohammed uno degli inservienti dell’albergo contattato al telefono da Nairobi sapevano perfettamente dove colpire. Hanno disarmato le guardie che hanno buttato fuori dal cancello di ferro e poi si sono mossi indisturbati. Non sappiamo chi siano, cioè banditi o miliziani fondamentalisti, gli shebab». I due francesi (bianchi) erano arrivati all’albergo Sahafi il 9 luglio ospiti del generale Gafow, il capo del dipartimento immigrazione del governo e sul registro hanno firmato con sue nomi all’apparenza non francesi, Aswizre e Autx. Secondo alcune voci i due sono consiglieri militari del

In Iran debuttano le esecuzioni “private” Impiccate ieri 13 persone. Manifestanti dell’Onda? di Antonio Picasso è chi parla di 13, altri dicono che siano 14 i morti per impiccagione ieri a Zahedan, nel sud-est dell’Iran. Così come non è chiaro se la sentenza sia stata eseguita su pubblica piazza, oppure all’interno di una prigione. In una situazione generale, questi dettagli potrebbero non essere essenziali. Sull’avvenimento si potrebbe recriminare in merito all’utilizzo della pena capitale di per se stessa. Tuttavia, dal momento che si tratta di Iran i particolari del fatto assumono un valore preciso. La versione ufficiale dell’accaduto indica che i giustiziati appartenevano al gruppo separatista estremista di Jundallah, i “Soldati di Dio”, una milizia di confessione sunnita che combatte per l’indipendenza del Sistan-Baluchistan dall’Iran. La regione, abitata da una componente minoritaria sunnita e soggetta al regime sciita degli ayatollah, aspira all’autonomia. Jundallah vorrebbe annettere il Baluchistan pakistano e quello afgano, creando uno Stato a sé. L’ultimo episodio di violenza attribuito al gruppo risale a fine maggio. A due settimane dalle elezioni presidenziali, un ordigno aveva colpito la moschea sciita di Zahedan, uccidendo 19 persone. Ed è proprio in seguito a questo gesto che le autorità iraniane sarebbero intervenute contro i “Soldati di Dio”arrestati dopo l’attacco e li avrebbero giustiziati. Strano però che questa sentenza capitale sia stata prima annunciata come pubblica, avvenimento regolare in quella regione e che suona come ammonimento per la popolazione locale, per essere però poi compiuta tra le mura di cinta di un carcere. Il fatto che Teheran agisca contro Jundallah ora è indice che le autorità di sicurezza intendono coinvolgere nella linea repressiva post-manifestazioni tutte le frange di opposizione. In questo senso, oltre ai sunniti baluchi, appaiono come soggetti a rischio gli arabi Ahwazi delle province vicino al Golfo persico e anche i kurdi nel nord del Paese. Tuttavia, se tra questi impiccati ci fossero alcuni esponenti dell’onda di manifestanti defluita nelle piazze del Paese in questi ultimi

C’

giorni, molte cose sarebbero più chiare. Prima di tutto, si saprebbe il motivo di un’impiccagione “privata”. Teheran, in questo senso, potrebbe aver paura nel mostrare tanto esplicitamente la sua rabbia. Inoltre, cosa ancora più importante, si avrebbe la conferma che la repressione alle proteste è iniziata.

Ora che l’effervescenza iniziale si è diluita, restano alcuni focolai che il regime sta cercando di coprire. Finora gli osservatori occidentali hanno seguito le scene di violenza nelle piazze. Hanno assistito a come le forze di polizia iraniana hanno fermato brutalmente i cortei. E soprattutto hanno cercato di contare approssimativamente i morti caduti per le strade. L’ufficio di Parigi del Consiglio Nazionale di Resistenza in Iran (Ncri) parla di oltre 200 morti contro i 20 dei dati ufficiali e migliaia di arrestati. Fonti anonime che vengono direttamente da Teheran dicono però che si stanno moltiplicando i casi in cui la magistratura iraniana chiede una somma di denaro per la restituzione del corpo alle famiglie di coloro che sono morti in carcere in circostanza non meglio precisate. Su questa base, si potrebbe pensare che il denaro richiesto serva a pagare la pallottola utilizzata per uccidere il condannato. È una prassi già adottata in Cina. Sulla famiglia del giustiziato gravano anche le spese finanziarie per l’esecuzione. Nel caso di Zahedan, l’impiccagione potrebbe aver esentato gli interessati da simili sofferenze. Ciò non toglie che, tra questi 13 o 14 morti, potrebbero essere stati inclusi anche alcuni manifestanti. Se così fosse, verrebbe da pensare che Teheran stia adottando non solo strumenti di violenza e repressione contro gli oppositori, ma anche metodi sbrigativi per annientare celermente qualsiasi focolaio. Nel rapporto finale del 2008, Amnesty International parlava di oltre 300 sentenze capitali portate a termine in Iran e poneva il Paese subito dopo la Cina, nella graduatoria mondiale. C’è da immaginare che per il 2009 le cifre potranno essere riviste al rialzo.

Il governo definisce le vittime separatisti, ma per la prima volta non esegue la condanna capitale sulla scena pubblica

governo e non giornalisti. Da Nairobi infatti non si ha notizia della presenza a Mogadiscio di giornalisti somali. Oramai i reporter che vanno in Somalia per evitare il pericolo di rapimenti restano sotto la protezione delle truppe ugandesi e burundesi dell’Amisom, la missione delle Nazioni Unite in Somalia forte di 4300 uomini. Dentro l’aeroporto di Mogadiscio è stato organizzato anche un albergo per gli stranieri che intendono scendere nella capitale somala dove dal 7 maggio infuria una cruenta battaglia, tra governativi e insorti radicali islamici. I francesi sono particolarmente, anche se discretamente, interessati alle vicende somale.

lor guidò i ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in una campagna di terrore contro i civili per conquistare il controllo delle miniere di diamanti in Sierra Leone e destabilizzarne il governo. «È venuta fuori una mia descrizione piuttosto incredibile» ha commentato Taylor, «l’accusa mi associa a questi fatti per via della disinformazione, delle bugie e delle chiacchiere sparse intorno a me». La difesa di Taylor è cominciata questa settimana un anno dopo l’avvio del processo. «Ho 14 tra figli e nipoti - ha detto l’ex presidente, che ha dimostrato forte disprezzo nei confronti della Corte - e un forte spirito umanitario. Tutta la vita ho lottato per ciò che ho pensato fosse giusto». In abito scuro e occhiali da sole, l’ex presidente liberiano è il primo dei 249 testimoni chiamato dalla difesa e la sua deposizione andrà avanti per settimane. Il suo racconto segue quello di 91 persone chiamate dall’accusa a riferire delle violenze, degli infanticidi e dei casi di cannibalismo in Sierra Leone. Courtenay Griffiths, avvocato di Taylor, ha già detto che non negherà che questi fatti siamo accaduti, ma sosterrà che Taylor non ebbe con essi alcun legame e che anzi si era impegnato per negoziare la pace in Sierra Leone.


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Riletture. Se da una parte c’è chi spinge verso un’indipendenza dal passato, dall’altra cresce il timore di vedere banalizzata una ferita ancora aperta

Il complesso di Hitler Inchiesta sul rapporto (ancora oggi irrisolto) delle vecchie e nuove generazioni in Germania con il nazional-socialismo di Andrea D’Addio

BERLINO. Un bretzel al posto di una svastica in un ironico spettacolo teatrale, The producers, che prende in giro i nostalgici e la simbologia del Terzo Reich. Adolf Hitler che in Mein Führer prende lezioni di oratoria da un attore ebreo salvato appositamente dalle docce a gas per servirgli da maestro. I permessi e i finanziamenti accordati a Quentin Tarantino per girare a Berlino un film come Bastardi senza gloria che osa rileggere la storia immaginando la morte del Führer per mano di un gruppo di feroci ebrei. La visibilità data al discusso film The reader attraverso la presentazione all’ultimo festival di Berlino. Tanti recenti esempi che dimostrano quanto la Germania non abbia più il timore di mostrare anche all’esterno, attraverso l’arte, quel totale e continuo sentimento di colpevolezza che si porta dietro dalla fine della Seconda guerra mondiale. Teatro, cinema, letteratura: il nuovo corso che si sta avviando coinvolge tutte le forme espressive. Ma è un bene?

Il caso The producers. Per ventotto anni la celebre stazione di Friedrichstrasse, proprio al centro di Berlino, rappresentò uno dei simboli della divisione della città. Al momento della spartizione della capitale nel ‘61 ognuna delle due metà si ritrovò con una parte di binari a testa e un grottesco passaggio di confine dove gli abitanti dell’ovest potevano sbrigare le complicate pratiche burocratiche per passare dall’altra parte. Oggi lo scenario è diverso. Al momento della riunificazione la struttura della stazione è stata completamente ricostruita, eppure gli echi della storia continuano a fare capolino. Lo fanno dall’alto, quando arrivando con uno dei tanti treni metropolitani della S-Bahn, l’occhio del passante non può che essere attratto dagli enormi festoni che avvolgono l’attiguo Admiral Palast.

Lunghe strisce rosse come lo sfondo della bandiera nazionalsocialista con al loro centro, anziché la svastica, l’immagine stilizzata del bretzel, il tipico

Sono i più giovani ad accogliere volentieri film come “The reader” o “The producers”. Per i più grandi pesa ancora l’ombra de “La caduta”

biscotto salato tedesco. La ragione è pubblicizzare la messa in scena del musical The producers, scritto nel 2001 da Mel Brooks e Thomas Meehan partendo da un precedente film, dello stesso Brooks, Per favore non toccate le vecchiette del 1968. Storia di una truffa: a Broadway pur di far andare male uno spettacolo, incassare tutti i finanziamenti e scappare prima della fine delle successive repliche, un impresario teatrale sceglie di portare sul palcoscenico la sceneggiatura di un nostalgico nazista che diventerà anche protagonista dello spettacolo interpretando un improba-

bile Hitler. Da lì una serie di gag e prese in giro che in sette anni di tour in giro per il mondo hanno raccolto ovunque successo (in Italia fu adattata nel 2006 con Enzo Iacchetti e Gianluca Guidi protagonisti) e riconoscimenti (compresi i prestigiosi Tony Award).

Solo in Germania, tra i Paesi occidentali, non era ancora stato rappresentato: troppo grande il timore di urtare la coscienza di un popolo forse non ancora pronto a prendere in giro il “grande dittatore”. Quando a maggio le resistenze morali sono state finalmente superate e l’Adimiral Palast ha cominciato a pubblicizzare l’evento, l’eco mediatica è stata enorme. Mai, dopo la Seconda guerra mondiale, la simbologia nazista era arrivata così vicina a quelle strade dove poco più di cinquant’anni prima sorgeva la cancelleria di Hitler e mai lo aveva fatto con toni così beffardi. «I tedeschi sono abbastanza seri quando si parla del più oscuro periodo della loro storia e sono stati molti i momenti di esitazione, i silenzi necessari per guardarsi dentro e

A sinistra e in basso, due immagini dello spettacolo “The Producers”. Nella pagina a fianco, le locandine del film “Bastardi senza gloria” (in alto) e “La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler” (in basso)

capire se davvero potevano concedersi di ridere, ma ben presto lo humour di Mel Brooks ha avuto la meglio». Così ha scritto un osservatore esterno come il giornalista del Financial time, Ian Shuttleworth, a proposito della risposta del pubblico berlinese alla première dello show. La forte affluenza al teatro delle giornate successive ha sottoli-

neato quanto molti tedeschi siano pronti a lasciarsi alle spalle gli spettri del passato. Lo si era già visto quando nel 2006 il film comico di Dany Levy, Mein Führer, riempì per mesi le sale arrivando anche alle nomination dei German Awards (i locali Oscar). In quel caso Hitler veniva descritto come un insicuro, ricco di tic, ingenuo quanto spietato, ma solo per manifesta stupidità. Scrisse all’epoca il Der Spiegel: «Durante la proiezione in sala non si ride degli ebrei, ma con gli ebrei. Un passo decisivo nella giusta direzione». Un approccio che, continuò il settimana-


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nanziato da fondi pubblici tedeschi (4 milioni di euro), alle sue prime proiezioni ha suscitato aspre polemiche in tutto il mondo. Su tutte, quelle di Ron Rosenbaum, giornalista ebreo del New York Observer: «Il più brutto film mai fatto sul nazismo. Una pellicola che attraverso la metafora cerca di discolpare i tedeschi nazisti dalla cosciente complicità del genocidio di massa».

le, «aiuta a demolire la leggenda: il dittatore torna ad essere un uomo, peraltro anche malconcio e depresso. Hitler diventa un essere umano qualunque, non più uno spauracchio. E, l’unico modo per ridimensionare un mito, è ridere di lui». Per Dany Levy, regista tedesco dai genitori ebrei ortodossi, il film seguiva un personale percorso di attacco al soffocante politically correct che regna in Germania dal ’45 su tutti gli argomenti che ricordano le “colpe” dei tedeschi. Non a caso la sua opera precedente, Zucker - Come diventare ebreo in sette giorni del 2005, metteva al centro della storia un vizioso sessantenne ben lontano da quegli insegnamenti ebraici con cui era cresciuto, costretto però a riabbracciare la religione di famiglia per potere intascare l’eredità lasciata dalla mamma. Tanto non si era mai potuto scherzare sui riti e la cultura ebraica per sessant’anni, quanto questo film riuscì nell’impresa di fare ridere migliaia di persone, senza peraltro prestare il fianco a letture ambigue ed estremiste.

Una nuova società. Il fatto è che la generazione che va dai venti ai trent’anni non sente su di sé le responsabilità del passato. Il nazionalismo è un’idea che appartiene ad una minoranza ignorante che merita

sempre molta attenzione (alle elezioni comunali dello scorso 9 giugno l’Npd, il partito dell’estrema destra, ha raggiunto nelle regioni dell’Est punte del 22%), ma che non frena quel distacco cultuale che si sta compiendo nei confronti del passato. Nell’Ovest, ancor più che nell’Est (dove avendo subito la dittatura comunista dopo quella nazista, il processo di rigetto è stato, ed è tuttora, più complicato), cominciano a dare frutti gli impegni educativi intrapresi nel corso di questi anni. Si studiano lingue straniere fin dalle scuole elementari, i licei agevolano in ogni modo gli scambi culturali e i soggiorni di studio all’estero, mentre da un punto di vista storico la ritrovata unione della nazione viene vista come uno stimolo a continuare a guardare fuori, alle nuove opportunità e ad un mondo che l’abbassamento dei prezzi dei voli e la globalizzazione in generale rende più piccolo e quindi esplorabile. Da qui proviene il pubblico di riferimento di opere artistiche libere da complessi culturali di ogni sorta. Un atteggiamento che coinvolge anche la classe politica. Nell’estate del 2006 un Operazione film come Valchiria, storia vera del fallito attentato a Hitler del luglio ’44, ricevette restrizioni e ritardi nell’utilizzo di Berlino come set delle riprese, a causa dell’ap-

partenenza di Tom Cruise a Scientology (in Germania bandita). E questo nonostante si parlasse di uno dei più eroici atti di ribellione interna tedesca alla politica di Hitler. Al contrario, un film paradossale e per certi versi ambiguo come quel Bastardi senza gloria in cui Tarantino, con la sua solita controversa poetica, immagina l’uccisione di Hitler per mano di un gruppo di spietati soldati ebrei prossimi all’esecuzione capitale, è stato invece accolto con tutti gli onori e le disponibilità del caso dalla capitale tedesca e co-finanziato addirittura dalla DFFF (German Federal Film Funding). All’ultimo Festival di Berlino, la trasposizione su grande schermo del romanzo di Bernard Schink, The reader del 2005, è stato presentato come uno degli eventi principali della manifestazione nonostante umanizzi, e per certi versi giustifichi attraverso la semplice ignoranza i crimini nazisti della sua analfabeta protagonista (interpretata da una Kate Winslet che ha poi vinto l’Oscar grazie a questa interpretazione). Anch’esso co-fi-

I rischi del relativismo. Si abbassa il livello di attenzione su questioni che non hanno ancora finito la propria espiazione. Il fenomeno è preoccupante secondo l’autorevole critico cinematografico tedesco Dietrich Kuhlbrodt, che proprio sul crescente relativismo con cui il cinema, soprattutto locale,

tratta il tema e gli esponenti del nazismo, ha pubblicato nel 2006 il libro Deutsches Filmwunder: Nazis immer besser (“Il miracolo del film tedesco: I nazi sempre meglio”). Un testo che ha destato scalpore in

Germania, soprattutto perché il suo autore è stato per più di cinquant’anni anche uno dei più importanti avvocati dello Stato nei processi sui crimini del nazionalsocialismo. «L’industria tedesca dell’entertainment sta degenerando. Cresce l’ambivalenza dei ruoli nel nuovo cinema della seconda guerra mondiale. Il culmine si è raggiunto con il film La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler (2004, ndr), in cui veniva mostrato il lato umano del Führer» ha scritto il settataseienne Kuhlbrodt puntando il dito contro le ultime produzioni tedesche, ree di umanizzare sempre di più personaggi non meritevoli di alcuna giustificazione o rilettura storica. Se da una parte c’è una società che spinge verso un’indipendenza mentale dal passato, allo stesso tempo cresce il timore di intellettuali e vittime del nazismo di vedere sempre più banalizzata una ferita che per molti è ancora aperta. Alla recente voce che voleva la popstar Britney Spears (più volte sulle pagine dei rotocalchi per bravate che le sono costate anche la galera) come protagonista di un prossimo film di fantascienza in cui una ragazza viaggia nel tempo fino ad innamorarsi di un ebreo rinchiuso in un campo di concentramento, così si è espressa sulle pagine della Bild Charlotte Knobloch, vicepresidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania: «Quando si parla dell’olocausto conviene che le sceneggiature siano scelte con particolare attenzione, così come la scelta del cast. Non si può, con argomenti così sensibili, cercare la notizia ad effetto. Volersi assicurare poi dei finanziamenti puntando sull’idea della combinazione olocausto più Britney Spears è senza dubbio da condannare. I principi etici devono avere sempre la priorità».

Per quanto il tema del nazismo e le considerazioni sugli orrori di quel periodo siano al centro della didattica tedesca di tutti i licei e scuole professionali, con approfondimenti in storia, letteratura e filosofia che possono durare anche due anni, per le nuove generazioni l’imprescindibile scollamento dal passato contiene al suo interno anche il rischio stesso di quel “dimenticare” che non a caso, caratterizza, come monito a non fare le giornate sul ricordo della Shoah. Difficile porre un freno ad un cambiamento culturale di cui solo il tempo, quindi, potrà segnare i confini. La cultura, come sempre accade in processi sociologici di questo tipo, ne sta facendo solamente da volano.


cultura

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a settimana appena trascorsa è entrata nella storia più che centenaria della Dottrina sociale della Chiesa. Lo scorso 29 giugno, Papa Benedetto XVI ha firmato la sua terza enciclica, la prima economico-sociale: la Caritas in veritate. Il 7 luglio è stata presentata al pubblico e immediatamente si è aperto un vivace dibattito sulle tematiche da essa affrontate. Tra gli interventi più significativi rileviamo quelli di Flavio Felice e di don Paolo Asolan (Il Foglio, 8 luglio 2009), entrambi professori all’Università Lateranense e studiosi del Centro Studio Tocqueville-Acton (Flavio Felice ne è il presidente). Felice ed Asolan si occupano da tempo regolarmente di Dottrina sociale della Chiesa, il primo sul fronte delle scienze sociali, il secondo nel campo della teologia pastorale, e all’inizio del 2009 avevano dato alle stampe un interessantissimo libro dal titolo: Appunti di Dottrina sociale della Chiesa (Rubbettino Editore, 2009, pp. 148); un’introduzione ragionata alla materia e quasi un’allerta per il documento che di lì a pochi mesi Benedetto XVI consegnato al mondo intero. Il volume ci offre una sintetica ma precisa riflessione sui più importanti problemi economici e politici odierni visti dalla prospettiva del Magistero e utili a quanti svolgono attività pastorale.

nostro lavoro – offrire un primo approccio alla Dottrina sociale della Chiesa – ne fissa anche i limiti: non risponderemo direttamente a tutte quelle obiezioni in modo specialistico, ma ugualmente – dalla posizione che esprimeremo – sarà possibile ricostruire una via di uscita dalle secche nelle quali la Dottrina sociale della Chiesa rischia di impantanarsi».

L

L’aspetto fondamentale della ricerca, la chiamo così perché per sua natura questo non può mai dirsi un argomento concluso, è quello di confermare, come d’altronde sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI hanno sempre sostenuto, che l’etica cattolica non costituisce un ostacolo allo sviluppo economico ed alle leggi dell’economia, ma rappresenta anzi un modo unico per esaminare lo svi-

Libri. Una riflessione sui problemi economici e politici visti dal Magistero

Verso una nuova evangelizzazione? di Rocco Pezzimenti alla nuova enciclica di Benedetto XVI.

È ormai da tempo che la Chiesa, oltre ad un clero ben formato, chiama gli stessi laici ad un impegno così delicato dal quale nessuno può esimersi. Li chiama ad una “correspon-

plesso. Semplice, perché l’oggetto di cui essa tratta è la vita sociale dell’uomo e ogni uomo ne fa esperienza e la vive, e dunque può riconoscere che si tratta di lui e dei suoi rapporti con il mondo in cui vive. Complesso, perché la vita sociale è in se stessa strutturata

“Appunti di Dottrina sociale della Chiesa”, di Flavio Felice e Paolo Asolan, propone uno spunto «significativo e strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna» luppo, i suoi valori e la piena realizzazione della persona, in modo particolare oggi che si riflette intorno all’individuazione di eventuali nuovi paradigmi. Chi ha voluto vedere contraddizioni o, peggio, chiusure a questi temi da parte della Chiesa è invitato da questo studio a ricredersi, se non altro a seguito dei documenti conciliari, al Magistero sociale di Giovanni Paolo II e

sabilità” intesa non solo come aiuto ai pastori, ma come testimonianza ed espressione di un’autentica vita cristiana. Lo scopo di queste pagine è illustrato dai due autori – docenti entrambi alla pontificia Università Lateranense – sin dalle prime battute del testo che così si apre: «Introdursi nella Dottrina sociale della Chiesa significa introdursi ad uno studio semplice e com-

in forma complessa, secondo un intreccio di sistemi che hanno ciascuno interessi e obiettivi diversi, a seconda che abbiano a che fare con la politica, con l’economia, con lo Stato, con il lavoro o con la famiglia».

Gli autori non si preoccupano solo di delineare il lavoro, ma ne individuano con precisione le finalità: «Lo scopo del

Qui sopra, la copertina del libro di Flavio Felice e Paolo Asolan “Appunti di Dottrina sociale della Chiesa” (Rubbettino editore). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

Per evitare questo pericolo, occorre tenere presente che gli insegnamenti riportati costituiscono una vera e propria sfida e che, dal punto di vista evangelico, mirano ad un’autentica azione evangelizzatrice. «Per questo la Dottrina sociale della Chiesa – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva, coerente e cogente dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita – costituisce parte integrante della “Nuova evangelizzazione”. È un capitolo significativo e strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale». Tutto ciò spiega la diversità dei temi affrontati da una prospettiva che si va continuamente arricchendo e, per questo, richiede specialisti tanto delle scienze sociali quanto della sacra teologia capaci di misurarsi con le diverse evenienze che vanno dalla salute alla questione demografica, dallo sviluppo ad un mercato capace di non eludere certe regole («l’economia sociale di mercato», sulla cui teoria Flavio Felice ha da poco pubblicato un libro per i tipi Rubbettino), dai problemi della cittadinanza a quelli ecologici. Problemi enormi che, oltre a richiedere una rigorosa ortodossia che difenda le questioni della fede, non possono certo lasciare più posto all’improvvisazione; e la nuova enciclica sociale di Benedetto XVI ne è una evidente dimostrazione. Da qui l’auspicio col quale si chiude il libro: «Aprire le porte della vita sociale a Cristo». Invito che può essere letto come una sintesi dei due ultimi pontificati: dalla Centesimus annus alla Caritas in veritate, o se si vuole di un testimone che lascia un insegnamento che viene, via via, ampliato ed arricchito da una Chiesa che ha, in ogni modo, come primo scopo quello della salvezza dell’uomo.



opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The Straits Times” del 14/07/2009

Singapore surprise punta un raggio di sole a oriente, in quella che un tempo fu la base delle Compagnia delle indie anglo-olandesi. Un secondo trimestre pieno di sorprese per l’economia di Singapore (città fondata da sir Thomas Stamford Raffles nel 1819, ndr). Per la prima volta in un anno lo sviluppo del Paese è cresciuto del 20 per cento. Si tratta di una vera impennata per la città Stato, che finalmente emerge da una delle peggiori recessioni mai subite nella sua pur giovane storia.

S

Il ministero per il Commercio e l’industria (Mti), durante una dichiarazione ufficiale, martedì, ha affermato che il prodotto interno lordo avrebbe fatto un vero balzo in avanti, prendendo i dati del secondo trimestre e portandoli su base annua. Parliamo sempre di una frenata della crisi, perché si tratta di un forte rallentamento dell’andamento discendente che l’economia del polo dell’elettronica e della finanza asiatica ha preso sull’onda della crisi mondiale. Guardiamo i numeri per capire meglio di cosa si tratta. Nel secondo trimestre dell’anno il pil sarebbe caduto del 3,7 per cento, rispetto al crollo del 9,6 registrato nel primo trimestre di quest’anno, grazie al recupero del settore manifatturiero e farmaceutico. L’Mti ha affermato che le stime per il 2009 sono che la contrazione dell’economia sarà tra il 4 e il 6 per cento, rispetto alle previsioni precedenti che la vedevano in calo, tra il 6 e il 9 per cento. Questa nuova prospettiva per il 2009 riflette l’andamento meno grave della crisi che si è registrato nella prima metà dell’anno. Mentre le condizioni economiche generali «restano ancora deboli» ha sottolineato il ministero dell’Industria. La ricchezza di Singapore, che si basa principalmente sulle esportazioni, sulla finanza e sul turi-

smo, aveva subito delle continue contrazione nei quattro trimestri precedenti. Con un dato rilevato tra ottobre e dicembre 2008 e riportato su base annua, di meno 16,4 per cento. Il dato economico peggiore dal 1965, anno della conquista dell’indipendenza. Il ministero aveva registrato nel primo trimestre un dato del 12,7 per cento di decremento del pil, sempre riportato sul dato annuale, che significava un netto miglioramento rispetto alle stime fatte per il mese di aprile che prevedevano una contrazione economica al 19,7 per cento.

Le valutazioni ufficiali del dicastero industriale sono improntate all’ottimismo rispetto alle previsioni di solo qualche mese fa. Si pensa che per il 2009, se l’andamento dovesse mantenere questo passo, il pil di Singapore dovrebbe calare meno del previsto. L’aumento della produzione farmaceutica ha aiutato molto la dinamica della ripresa nel secondo trimestre (l’economia del Paese è molto influenzata da quelle di India e Cina, ndr). E tutto il settore manifatturiero, che solo nel primo trimestre era crollato del 24, 4 per cento, si è attestato su di un più che soddisfacente meno 1,5 per cento. Il settore edilizio è in crescita del 18 per cento nel secondo trimestre, mentre quello dei servizi ha perso il 5,1 per cento. «Una parte considerevole dell’incremento produttivo di Singapore è costituito dal picco avuto dal settore biomedico e da quello elettronico legato al rinnovo delle scorte, un andamento che in entrambi i

casi non potrà continuare a questi ritmi», hanno spiegato le fonti del ministero. Insomma, ottimismo con prudenza, per i figli di Lee KuanYeew, padre dell’indipendenza della cittàStato. Che in Asia sia in atto un primo rimbalzo dalla crisi è confermato non solo dai dati della produzione della auto in Cina, nel mese di giugno, ma anche da altri segnali.

David Carbon capo economista della Dbs group holding a Singapore, ha recentemente affermato durante un’intervista a Bloomberg che «l’economia ha recuperato il 65 per cento della sua forza del periodo pre-crisi e le esportazioni circa un terzo del terreno perduto». E anche dal settore bancario arrivano caute aperture all’ottimismo per i dati di fine anno, se verrà confermata l’attuale tendenza: al bello.

L’IMMAGINE

Non vogliamo un governo tecnico, vogliamo quello di Berlusconi La sinistra non sa più che fare per smontare il governo più efficiente che si è avuto dopo la guerra. Non potendolo fare sui fatti politici perché perderebbe ancora più credibilità, lo fa infangando in ogni modo la reputazione del Cavaliere, per fare leva poi su tutti i media invisi alla gente, come la stessa Famiglia Cristiana. Appellarsi poi, al governo tecnico, che la sinistra ha sempre rifiutato, è il colmo perché non è professionale, soprattutto in politica, scegliere il “male” minore. Io credo che il bipartitismo non è morto, anzi è vivo e vegeto, se la sinistra decide di costituire l’altra parte e non un vuoto cosmico nel quale vagano tutti i rifiuti dello spazio.

Bruno Russo

DANNOSE TEORIE INNOVATIVE I genitori di figli etichettati disabili, troveranno i loro ragazzi parcheggiati in una scuola che non ha tenuto in nessun conto i percorsi educativi e didattici intrapresi, le unità di apprendimento affrontate in classe, l’ambiente familiare e il contesto sociale in cui sono inseriti, né tanto meno la possibile incapacità dei docenti di trasmettere il sapere. Avremo una scuola che si limita, attraverso degli “specialisti”, a discriminare gli studenti sollecitando il corpo docente ad utilizzare strumenti compensativi e misure dispensative. Questi alunni passeranno da una classe all’altra senza aver acquisito neanche la strumentalità di base necessaria alla loro autonomia, destinati ad un sicuro fallimento, ad un abbandono scolastico. Riteniamo che sia la scuola a dover essere mi-

gliorata, indirizzandosi in particolare alle metodologie didattiche e alle programmazioni funzionali, ponendo particolare attenzione sulla qualità dell’insegnamento piuttosto che su presunte incapacità genetiche dell’alunno. Occorre riportare la scuola alla sua funzione didatticoeducativa, così che possa dare un reale contributo alla società in termini di persone istruite e competenti. Pertanto noi, insegnanti e genitori, chiediamo che vengano messe al bando queste dannose e demagogiche teorie “innovative”, perché è in gioco il futuro dei nostri figli e della nostra società.

Un gruppo di genitori e insegnanti

DI PIETRO È UNO CHE HA COLTO DELLE OPPORTUNITA’ «Cosa penso di Antonio Di Pietro? È uno che ha colto quelle

Cacciatori di temporali Queste saette che si scagliano sulla Monument Valley in Arizona, vi mettono i brividi? Allora forse non siete tagliati per fare gli storm chaser, i “cacciatori di tempeste” che, su una jeep, armati solo di macchina fotografica e strumenti di rilevazione, girano il mondo a caccia dei fenomeni temporaleschi più turbolenti. C’è chi lo fa per amore della ricerca e chi semplicemente per scattare belle foto

che erano delle gran belle opportunità. Per lui». Lo dice Carlo Sama, uno dei protagonisti del processo per la maxitangente Enimont del 1993 e di Tangentopoli, in un’intervista esclusiva a CHI. «Non voglio giudicarlo, basta guardare i fatti. Pare che abbia avuto un gran successo», aggiunge Sama, che oggi vive

fra Argentina, Montecarlo e Formentera.

Eleonora Bratti

MERITO VILIPESO Politici hanno viziato categorie, consentendo i baby pensionamenti: fonti di disordine per i conti pubblici. All’antica selezione scolastica, è subentrato il faci-

lismo, che concede lauree e diplomi. Molte nomine e assunzioni avvengono per sanatorie, discrezionalità e comunque criteri estranei al merito.Tende a ridursi la frequenza dei concorsi. La beffa del merito accentua la decadenza dell’etica del lavoro e della solerzia.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non tollero l’incertezza Gli artisti viventi sono pochissimi; tu, Kahlil, sei l’unico grande di cui io abbia notizia, benché sappia anche di altre grandi menti. Pure i tuoi amici ricchi, come del resto quelli poveri, sono lontani dalla tua interiorità. Quanto al fatto che il denaro abbia reso possibile il legame tra te e me, è stato il legame che ha reso possibile il denaro. Avevo rovesciato il ragionamento, e ingiustamente nei tuoi confronti, come se tu elargissi per denaro l’amicizia che non avresti dato senza. Già tre volte, secondo te, ho detto che il denaro crea il legame tra noi, e tu hai inteso che io volessi dire che il denaro aveva comprato la tua amicizia. Quando abbiamo deciso l’accordo relativo alla collezione, la primavera scorsa, tutto sembrava sistemato e tu avevi il cuore in pace. Ma ieri sera sei ricaduto nell’incertezza e adesso non sai cosa fare. Dimmi soltanto quale era la tua vera intenzione nel darmi il denaro, e saprò dove mi trovo. Dimmelo semplicemente, così che non faccia errori. Era un dono? Era un prestito? Aveva lo scopo di creare un legame tra noi? Dimmelo. Qualunque fosse la tua intenzione, qualunque sia il tuo atteggiamento, cercherò di adeguarmi. Ma non tollero l’incertezza. È stata una delle cose più dure della mia vita. Mary Haskell a Kahlil Gibran

ACCADDE OGGI

LETTERA APERTA DI UN GRUPPO DI INSEGNANTI E GENITORI La scuola italiana sta vivendo in questi ultimi anni cambiamenti che ne stanno snaturando l’essenza e la funzione: istruire e formare le nuove generazioni. Da un decennio circa la scuola è sotto osservazione e “monitorata” da enti e associazioni pubbliche e private, estranee al mondo della scuola, che stanno proponendo soluzioni insolite, inusuali e di dubbia efficacia, per risolvere le problematiche legate all’istruzione. Con l’utilizzo di screening e progetti vari, l’attenzione è stata deviata dalla vera didattica per incanalarla verso problematiche di carattere medico-psicologico che nulla hanno a che fare con l’ambiente scolastico, nella ricerca e individuazione di presunti disturbi psichici negli studenti. Preoccupanti in particolare sono le iniziative anche a livello istituzionale in merito ai cosiddetti disturbi dell’apprendimento, come “dislessia”, “discalculia”, “disortografia”. Con una manipolazione del linguaggio si sta cercando di far passare per “disturbi” di origine neurologica gli errori nella lettura, nella scrittura e nel far di conto dei nostri alunni, errori che esistono da sempre. Oggi in molte scuole dove queste teorie sono entrate, un ragazzo che fa errori di scrittura, calcolo o lettura, viene segnalato, certificato poi come dislessico, disortografico o discalculico e con questa certificazione seguirà poi percorsi individualizzati alla stregua di un portatore di handicap o di un diversamente abile, come dir si voglia, in

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

15 luglio 1870 La Georgia diventa l’ultimo degli ex-stati confederati ad essere riammesso nell’Unione 1916 A Seattle, William Boeing registra la Pacific Aero Products 1918 Seconda battaglia della Marna 1931 Kid Chocolate è il primo cubano a diventare campione mondiale di pugilato 1944 Seconda guerra mondiale: gli americani prendono Saipan 1953 John Reginald Christie viene giustiziato 1958 In Libano, 5.000 marines sbarcano nella capitale Beirut, allo scopo di proteggere il governo filo-occidentale 1965 Arrivano sulla Terra le prime foto di Marte dalla sonda Mariner IV 1989 Si tiene a Venezia il discusso concerto dei Pink Floyd che suonano davanti a 300.000 persone 1997A Miami, Andrew Cunanan uccide Gianni Versace fuori dalla sua casa 2008 Inizio della XXIII Giornata mondiale della gioventù a Sydney

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

quanto le sue difficoltà vengono stigmatizzate e tradotte in “disturbi mentali”. Sulla base di queste “teorie”, chi non potrebbe avere un disturbo dell’apprendimento ed essere al riparo da una diagnosi psichiatrica? Qualunque insegnante può trasformare un alunno in un soggetto affetto da tale disturbo: è sufficiente che spieghi male o che non sappia insegnare. Attualmente c’è addirittura in discussione in Commissione Istruzione al Senato una legge sulla dislessia che tra le altre, cose sollecita screening di massa preventivi in tutte le scuole, a partire dalla scuola dell’infanzia. Sulla base di test cronometrati e con punteggi del tutto arbitrari, i bambini che non rientrano nei parametri saranno i futuri disabili incanalati in un percorso scolastico differenziato, che ne farà degli incapaci. Ad esempio in un alunno che fa errori nella lettura non solo non vengono individuate le parole che non ha capito e che lo portano a sbagliare, ma gli viene inculcata l’idea che i suoi errori sono dovuti ad un suo disturbo mentale e che per questo non dovrà più leggere, ma potrà utilizzare strumenti sostitutivi, come ad esempio audio libri. Per tutta la vita non solo non migliorerà le sue capacità, ma non ci proverà neanche. Alla fine di un percorso di studi avremo un bambino che non saprà leggere, convinto di essere portatore di un handicap per sempre. Come si può considerare questo un aiuto o la risoluzione di un disagio?

Un gruppo di insegnanti e genitori

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LE CATTIVE ABITUDINI DELL’ONDA Nei giorni scorsi il Rettorato di Pisa, come quello di molte altre Università, è stato occupato per l’ennesima volta dagli studenti dell’Onda (e sta diventando una cattiva abitudine a cui la città si sta iniziando ad assuefare). Protestano contro la politica del governo in materia di università (e anche questa non è una novità), ma in maniera particolare contro l’arresto avvenuto nei giorni scorsi di 21 persone, responsabili dei violenti scontri contro la polizia durante il G8 dell’Università che si è tenuto a Torino il 19 maggio scorso. La polizia ha lavorato per mesi ai filmati a loro disposizione per individuare i colpevoli di quello che è stato un vero e proprio assedio alla città piemontese e un agguato intollerabile nei confronti delle forze dell’ordine. A Torino infatti circa 300 persone, a fronte di centinaia e centinaia di manifestanti che esprimevano in forma pacifica il proprio dissenso, si sono staccati dal corteo e hanno messo in atto una violenza gratuita e inaudita. Alcuni degli arrestati, tra l’altro, hanno partecipato agli scontri di Vicenza di qualche giorno fa e sembra che stessero preparando atti di violenza contro il G8 dell’Aquila. Insomma, mi pare che protestare per chiedere la liberazione delle frange più estremiste e violente del movimento porterà presto la morte del movimento studentesco dell’Onda: se i movimenti di dissenso pacifico hanno molto spesso un ruolo positivo, di movimenti che praticano la violenza gratuita e ingiustificata non c’è assolutamente bisogno. Peccato, un’altra occasione persa. Carlo Lazzeroni PRESIDENTE CIRCOLO LIBERAL PISA

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Vaticano. Prima Pelé e poi Perez approdano sull’Osservatore Romano

E il calcio andò in trasferta nel “campo” della di Francesco Napoli ignori miei il calcio ha valicato i confini della Santa Sede. La notizia è forse passata un po’ in sordina, ma vien giusto riprenderla. Sia ben inteso: non è, per fortuna, che una pallonata ha rotto le preziose vetrate della Basilica di San Pietro o che un gruppo di scalmanati ha preso un pallone e si è messo a praticare calcetto davanti al famoso porticato, così, tanto per passare la serata, no. Il calcio è ufficialmente approdato nella Santa Sede rientrando nelle pagine del suo organo ufficiale, l’Osservatore Romano, e con non poco rilievo, due volte nel giro di pochi giorni. Dapprima O Rey, al secolo Pelé, ha calcato queste sante pagine con una lunga intervista, e tanto di richiamo in prima, dicasi prima pagina, dell’autorevole foglio.

S

non si è fatto pregare - senza ironia, sia ben chiaro - è via un altro intervento, questa volta decisamente sacrosanto ma a gamba tesa su Florentino Perez, il magnate presidente del Real Madrid che caccia dalla tasche milioni di euro come se piovesse. Un colpo inatteso nella cattolicissima Spagna, almeno una volta si diceva così, era scritto anche sui libri di scuola, e chissà quale contraccolpo nel sicuramente cattolicissimo Perez. Contrito e pentito, lesto nel cogliere la ramanzina, come si è giustificato nel segreto del confessionale di una conferen-

za stampa? Volto cereo per la quasi scomunica, ha detto: «Non si tratta di spese ma di investimenti» - ha avuto l’ardimento di specificare «Il modello del Real è economico, sportivo e sociale. I nostri valori sono più vicini all’umiltà che all’arroganza». Nessuno se ne è accorto però. La Spagna sarà pure, forse, ancora cattolicissima, ma questo Perez fa gli affari suoi e basta, a torto o a ragione che sia. Il foglio del Vaticano si mostra in linea con il suo editore e analizza tanti aspetti, condendo questo intervento di aspetti macro e micro economici lega-

SANTA SEDE

L’asso brasiliano d’ogni tempo, autentico pontefice del calcio nel mondo, ha dichiarato, un po’ alla pubblicitaria, che per lui oggi non ci sarebbe prezzo. «Ho ricevuto proposte dal Real Madrid, dal Milan, dall’Inter, dalla Juventus. Ma il Santos per me era una grande squadra e giocavamo molto bene. Non ho voluto lasciarla». La foto di un dribbling e la maglia verde-oro addosso: Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé, approda dunque sulla prima pagine dell’Osservatore Romano. Pelé racconta fra l’altro il periodo degli anni Sessanta in cui era richiesto dai grandi club europei, compresi quelli italiani. «Ricordo che Agnelli aveva aperto la fabbrica della Fiat in Brasile e voleva pagare il Santos con le azioni della Fiat spiega - Solo alla fine della carriera sono andato negli Stati Uniti, al Cosmos. Lì il campionato durava solo sei mesi. Per due campionati mi pagarono sette milioni di dollari. Più o meno potrebbero essere settanta milioni di oggi. E per sole due stagioni». Come dire: sarebbe come se un Presidente di una squadra di calcio mettesse le mani su un importante network televisivo inglese e avesse preteso di pagare il cartellino di, che dire, Cristiano Ronaldo con spazi pubblicitari gratuiti sulle proprie tele. Oggi è diverso. «Un calciatore va al Real Madrid e bacia la maglia. Il giorno dopo cambia squadra e bacia la nuova casacca giurando amore eterno. In realtà amano solo chi li paga di più. E tutto questo è pericoloso per il futuro dello sport» ha detto Pelé. E qui casca l’asino: nel senso che, una volta saggiata l’idea, il foglio della Santa Sede

L’asso brasiliano ha rilasciato un’intervista attaccando i giocatori, che troppo spesso «amano solo chi li paga di più». Il quotidiano, subito dopo, dà spazio al presidente del Real, ma con un monito: occhio alle spese esagerate per gli atleti ti al mondo del pallone, rivanga quanto saltato fuori non molti giorni fa sulle infiltrazioni delle organizzazioni criminali nel mondo calcistico e sul riciclaggio del denaro sporco legato ai grandi investimenti delle società sportive, ma Perez manco per inteso: «Posso spiegarlo facendo riferimento alla mia precedente esperienza» continua, appena tornato alla presidenza dopo la parentesi 2000-2006.

«Con l’ingaggio di giocatori come Beckham e Zidane abbiamo aumentato le entrate: il valore della sponsorizzazione sulla maglia è passato da 400 milioni di pesetas a 4 miliardi. Questi giocatori affascinano i tifosi di tutto il mondo e possiamo rinegoziare i contratti». Ribadisco: la Spagna sarà pure, forse, ancora cattolicissima, ma questo Perez fa gli affari suoi e basta, a torto o a ragione che sia. Attenzione, però, il monito finale delle pagine vaticane è di quelli che fanno impensierire davvero. Cito direttamente dall’articolo: «Infine, al di là delle valutazioni economiche, basta una considerazione tecnica per sfatare il mito di uno squadrone formato da soli campioni. Avere un fuoriclasse per ogni ruolo non garantisce la squadra più forte né la vittoria. La storia è piena di squadre infarcite di campioni che alla prova dei fatti non hanno reso quanto i soldi spesi per accaparrarseli. Come per il ciclismo, a volte la differenza la fanno i più modesti, ma indispensabili, gregari». Ma non è che si voleva dare qualche suggerimento anche ad altri presidenti, tipo, che so, quelli italici?


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