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Gli uomini orgogliosi imparano in vecchiaia a essere saggi

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Sofocle di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 25 LUGLIO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Banchieri, sindacati, economisti danno le pagelle al governo e avvertono: «Tutto lascia pensare a un fine 2009 assai duro»

Settembre nero? Passa la fiducia sul decreto anti-crisi. Oltre alle polemiche sulla sua efficacia, si fanno insistenti le previsioni di un autunno all’insegna del disagio sociale alle pagine 2, 3, 4 e 5

DOSSIER MAFIA

Le polemiche sui 150 anni dell’Unità d’Italia

Gli eroi non riposano in pace

Ma solo la Chiesa può Campi, se odi la Lega celebrare la Nazione perché stai nel Pdl? di Giuseppe Baiocchi

di Gabriele Mecucci

stata già manifestata da autorevoli voci l’insoddisfazione per come ci si sta preparando all’appuntamento del 2011, quando ricorrono i primi centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. In particolare si è assistito a una serie di finanziamenti a pioggia: verso infrastrutture sparse sul territorio, tutte meritevoli di aiuto ma del tutto estranee al significato nazionale che si intende celebrare. Certo, è un antico vezzo italiano quello di utilizzare un’occasione per far finalmente partire opere languenti e paralizzate da veti incrociati.

oprendente editoriale quello di Alessandro Campi sul Riformista di ieri. Lancia una durissima accusa contro la Lega, rea di aver «quasi vinto la propria scommessa disgregante» dell’Italia e si dimentica di essere uno degli intellettuali vicini a Fini, fra i leader più autorevoli del Pdl, partito che ha fatto con la Lega un’alleanza d’acciaio. Il direttore della Fondazione Fare Futuro sostiene che Bossi ha vinto non solo sul piano politico, ma «anche sul piano emotivo, mentale e della sensibilità collettiva».

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Gerusalemme e Teheran: le spine del Medioriente

Caro Obama, rivedi Mousavi e Rafsanjani, gli errori su Israele l’Iran sta cambiando Dopo le dichiarazioni di Totò Riina,

sono riesplosi sospetti e contrasti sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Furono coinvolti pezzi dello Stato? Punto per punto ricostruiamo tutti i “papelli” ancora irrisolti di Riccardo Paradisi

di Daniel Pipes

di Michael Ledeen

iò che nelle settimane passate ho definito «un rapido e duro cambiamento contro Israele» da parte dell’amministrazione Obama ha avuto tre risultati veloci, prevedibili e controproducenti, indici di ulteriori difficoltà in vista. Primo risultato. La scelta di Barack Obama di mostrare i muscoli con Israele si traduce in crescenti pretese da parte dei palestinesi. Ai primi di luglio, il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas e il suo capo negoziatore, Saeb Erekat, hanno insistito su cinque concessioni unilaterali da parte dello Stato ebraico.

na tirannia che crolla in frantumi suscita sempre un certo fascino. E le inquietudini del regime iraniano sono più pittoresche di quelle di molti altri regimi dittatoriali, come ci si aspetterebbe da una cultura così ricca ed antica, e da persone tanto intelligenti ed ingegnose, specializzate nell’arte dell’illusionismo.Venerdì scorso tutte queste qualità sono state messe in mostra a Teheran, in una moschea del centro dove Hashemi Rafsanjani stava intonando la sua predica ai fedeli. C’erano milioni di persone all’interno e all’esterno della moschea.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Paese reale. Le previsioni sono pessime, ma il governo si divide tra ottimismo e piccoli aggiustamenti ai conti

Un altro autunno caldo? Disoccupazione, credito alle aziende, rinnovi contrattuali: la fine del 2009 sarà durissima. Lo dicono banchieri, economisti e sindacati di Francesco Pacifico

ROMA. Dice Gugliemo Epifani: «Il problema non è dire un giorno sì e l’altro pure che la ripresa arriverà. È evidente che usciremo dalla crisi, ci mancherebbe altro. Il problema è che questa crisi è durata troppo a lungo, che le aziende rischiano di chiudere perché a settembre non avranno l’ossigeno per riprendere l’attività».

La formula è bandita per non mettere altra benzina sul fuoco, ma che il prossimo sarà un autunno caldo lo temono in molti. Nel gioco di eufemismi che contraddistingue le parti abbiamo sociali, l’ottimista Giulio Tremonti che avverte: «Nei prossimi mesi migliaia di imprenditori con i loro lavoratori si giocheranno il futuro. Che dipende per una buona percentuale anche dai direttori delle filiali delle banche». La meno ottimista presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che spiega: «Senza soldi molte aziende moriranno, a settembre non riapriranno i cancelli, licenzieranno». Il segretario della Cei, monsignor Mariano Crociata, che sancisce: «La crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il suo momento più critico». Mentre il primo banchiere d’Italia, Corrado Passera di IntesaSanpaolo, conferma che «sarà un settembre difficile». Ma per capire quanto fuoco covi sotto la cenere, è necessario rifarsi al segretario Fiom Giorgio Cremaschi. Che, da ”massimalista”, a una Federmeccanica pronta a congelare gli aumenti, può replicare senza remore: «Questo autunno vedrà lo scontro sindacale più duro nella storia della Repubblica». Ripresa della produzione, ridimensionamenti occupazionali, stock di credito alle aziende, Pmi che potrebbero non rialzare la saracinesca, sembra proprio che settembre sarà la cartina di tornasole per capire se ci sarà la ripresa. Il perché lo chiarisce il banchiere Pietro Modiano, già direttore generale del Sanpaolo e di Intesa e oggi alla testa della

finanziaria Carlo Tassara: «Il problema è che noi siamo appesi al ciclo mondiale. Infatti, a livello globale, ci si attende che il terzo trimestre segni l’uscita dalla crisi quanto meno in termini di prodotto lordo: si prevede uno zero virgola in più rispetto al secondo». Ma se questa svolta non ci sarà, «l’Italia non avrà il paracadute fondamentale per risalire la china. Dovremo prendere decisioni più drastiche». L’ambito che fa più paura è quello del lavoro. Anche perché in Italia, complice la Biagi, fino al 2007 i tassi di disoccupazio-

tutto le aziende. «Ora sono in una posizione di stand by: hanno accumulato al loro interno una quantità rilevante di ore che non stanno utilizzando a fini produttivi. Neppure per ricostruire le scorte. Tutti gli sforzi vanno in questa direzione: trattenere i propri lavoratori. Non li vogliono perdere perché ne hanno bisogno per la ripresa, hanno investito su di loro». Di conseguenza, se ripartiranno gli ordinativi saremo di fronte a esuberi “limitati”, che rientrano in un fisiologico ricambio: escono i più anziani

Giulio Tremonti dà cifre diverse, si vanta di aver mobilitato investimenti per una sessantina di miliardi, fatto sta che, con il deficit/Pil che viaggia verso il 5,2 per cento e il debito verso il 115 per cento, difficilmente avrà munizioni per le crisi industriali. In verità ci sarebbero i 9 miliardi di euro del fondo anticrisi di Palazzo Chigi, ma sono vincolate alla ricostruzione dell’Abruzzo. E se il collega deputato alla materia, il responsabile dello Sviluppo Claudio Scajola, ha visto sottrarsi il grosso delle poste per i finanziamenti rotativi, il ministro del Lavoro, GUGLIELMO EPIFANI Maurizio Sacconi, sa bene che gli otto miliardi Il problema non è dire “sottratti” dai Fas un giorno sì e l’altro pure che e dal Fse destinala ripresa arriverà. È evidente ti alle Regioni, che usciremo dalla crisi. basteranno solIl problema è che è durata tanto per pagare troppo a lungo, che le aziende la cassa integrarischiano di chiudere perché zione straordinaa settembre non avranno ria in questo l’ossigeno per riprendere biennio di crisi. l’attività. Il governo dovrebbe Di conseguenza, preoccuparsi del fatto che non ci sono spicl’anno scorso abbiamo perso cioli da sprecare 1,8 punti di Pil, quest’anno per la riforma ne perderemo altri 5,2 degli ammortizzatori sociali né vicini alla pensione per fare per estendere ai piccoli la deposto in un futuro più o meno tassazione prevista dalla Trebreve ai giovani. Ma se l’econo- monti Ter. mia passerà dalla stagnazione alla depressione, come succes- Così, non resta che guardare se nell’America del ’29, allora alle banche. Nota infatti Pietro «le aziende non PIETRO MODIANO avranno scelta, dovranno ridurre la produzione, quindi Il problema è che noi il numero di lavorasiamo appesi al ciclo mondiale. tori». Infatti, a livello globale, Complice la cassa ci si attende che l’autunno integrazione, la sisegni l’uscita dalla crisi quanto tuazione finora ha meno in termini di prodotto retto. Ma va da sé lordo: si prevede che segni che se l’autunno uno zero virgola in più rispetto non spazzerà la crial terzo. Ma se questa svolta si, bisognerà sovnon ci sarà, l’Italia non avrà venzionare la proil paracadute fondamentale duzione. «E finora il per risalire la china. E allora governo di aiuti, se dovremo prendere è tanto, ci avrà mesdecisioni più drastiche» so di suo cinque miliardi di euro», dice Epifani riferendosi non soltan- Modiano: «Se non to all’ultimo decreto anticrisi, ripartiranno gli or«Per il resto ha soltanto sposa- dinativi toccherà alto cifre da un capitolo di spesa lo Stato destinare all’altro, ha sperato che i soldi uno sforzo in più necessari arrivassero attraver- per il mantenimento so altri canali. Non ha aggiunto dei posti di lavoro. Ma va da sé, che virisorse a quelle già esistenti».

ne sono stati molto bassi. Ma se siamo entrati nella crisi con 1,2 milioni di persone in cerca di un’attività, ne usciremo con almeno due milioni. Il Cnel ha calcolato che entro fine anno resteranno a casa almeno mezzo milione di persone in più. L’Isae ha aggiunto che altri 300mila posti andranno persi nel 2010. E forse non basteranno a invertire la direzione né il rimbalzo delle scorte né la ripresa delle esportazioni. Il vicepresidente della commissione Lavoro, Giuliano Cazzola, la spiega in questo modo: «Da settembre vivremo uno scenario di stabilizzazione: sostanzialmente questo porterà le aziende a fare dei conti, a prendere delle decisioni sugli organici da tagliare e sugli assetti produttivi». Aggiunge Carlo dell’Aringa, economista e presidente del centro studi Ref: «È veramente difficile fare previsioni, perché tutto dipenderà dall’autunno, dai segnali o di ripresa o di attenuazione della caduta della produzione che arriveranno». Segnali che aspettano soprat-

sta la situazione delle nostre finanze pubbliche, la pressione sulle banche per erogare credito alle imprese aumenterà fortemente». In questi giorni la pressione alle banche ha preso forma sotto una serie di emendamenti al decreto anticrisi di pasdaran del Popolo delle Libertà, che volevano inserire un tetto ai tassi d’interessi e alla rimodulazione del massimo scoperto. Tremonti – che nello stesso documento aveva vincolato lo sgravio sulle sofferenze bancarie a un congelamento sulle rate dei mutui – ha capito che era un po’ troppo. Ed è intervenuto con il bianchetto per evitare di mettere a rischio una trattativa che sta cuore a lui come alla Marcegaglia: il tavolo tra Abi e Confindustria per una moratoria sui debito delle aziende. L’operazione è complessa: vuoi perché le Pmi non fanno ricorso ai mutui ma soltanto ai fidi di cassa o di competenza, vuoi perché, come ha ricordato Corrado Passera, «nei progetti più difficili non ci siamo mai tirati indietro se c’era anche una possibilità di rilancio». Come dire che l’attività dei banchieri, considerata alla stregua dell’usura fino al cinquecento dalle religioni monoteistiche, non va certo confuso con il lavoro delle società di mutuo soccorso. Ma qualcosa si farà, se Corrado Faissola, presidente dell’Abi, prima ricorda che il 50 per


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L’INCUBO DISOCCUPAZIONE Le stime confliggono, ma ciò che diverge è la rincorsa ai dati peggiori. Nel senso che c’è chi assicura che in autunno i nuovi disoccupati saranno quattrocentomila e chi se ne aspetta almeno mezzo milione. Quel che è certo è che i livelli occupazionali scenderanno drasticamente (sono in scadenza anche molti contratti a termine di diversi settori) e in previsione di questa situazione ci si aspettano conflitti sociali anche molto aspri. E proprio molti chiedono il disegno di un nuovo welfare

CONTRATTI A RISCHIO Hanno cominciato i metalmenccani, ma il rinnovo di altri contratti non mancherà di riscaldare l’autunno. Il sindacato è diviso: Cisl e Uil da un lato della barricata, Cgil dall’altra

cento degli impieghi va alle Pmi, quindi annuncia che la «moratoria potrebbe arrivare a settembre». Guarda caso il mese horribilis temuto da tutti. Con i prestiti cresciuti quest’anno soltanto tra maggio e giugno (+2,4) è difficile definire l’entità dell’intervento. Anche perché rientra in una trattativa molto più ampia con il governo che spazia dalle nuove regole della finanza di progetto a un alleggerimento fiscale per un settore, che è bene ricordarlo, ha la flessibilità di un pachidermide e riprendere a correre come un tempo soltanto nel 2011. Al riguardo racconta un banchiere ormai in pensione e che preferisce mantenere l’anonimato: «Il nostro è un mestiere facile come quello di tutte le attività cicliche: quando le cose vanno, si guadagnano davvero dei bei soldi. Detto questo, ora che la congiuntura è negativa, e di fronte ad aziende che rispetto alla crisi del ’92 sono abbastanza sane, il settore poteva essere più generoso». In questo clima vanno verso il rinnovo una quarantina tra contratti nazionali privati e pubblici. E a rendere la cosa più complessa sia il fatto che al lato nazionale si è affiancato la contrattazione aziendale (non riconosciuta dalla Cgil) sia che è in scadenza l’accordo sui metalmeccanici. Cioè sull’ultima avanguardia di un Paese che

AZIENDE SENZA SOLDI È un tormentone: le aziende chiedono prestiti, le banche nicchiano. Si sono trovati d’accordo Marcegaglia e Tremonti (solo su questo) e le banche hanno risposto che loro sono disponibili... Ma in autunno si capirà se le loro sono solo parole

ha di fatto abbandonato il manifatturiero ma non ha il coraggio di dirselo.

Gli elementi per uno scontro epocale ci sarebbero tutti: oltre alla spaccatura tra i sindacati sul nuovo modello contrattuale, Federmeccanica chiede di congelare gli aumenti per il 2010, Fim Cisl e Uilm chiedono

smo di Cremaschi, hanno al momento tutto l’interesse a tenere bassi i toni. Epifani, che ieri ha bocciato «accordi separati», non vuole che ampliare il raggio d’indipendenza della Fiom. Il suo collega, e leader Cisl, Raffaele Bonanni, dice che è fuori moda parlare di autunno caldo. Mentre le imprese non possono permettersi il muro

rity, e il fatto che non hanno rappresentanza sindacale le fasce della società più colpite dalla crisi come i precari. «Eppure», nota Carlo Dell’Aringa, «il calo di produzione andrebbe gestito con una maggiore pax sociale. La contrapposizione è latente, ma c’è». Come dire che è giusto stare sull’attenti.

CARLO DELL’ARINGA

È veramente difficile fare previsioni, perché tutto dipenderà dall’autunno, dai segnali o di ripresa o di attenuazione della caduta della produzione che arriveranno. Le aziende sono in attesa: hanno accumulato al loro interno una quantità rilevante di ore che non stanno utilizzando a fini produttivi. Il loro problema è trattenere gli opera in vista della ripresa che verrà

113 euro lordi in più (che diventano 30 per chi non ha accordi integrativi), mentre la Fiom ne vuole 130 più 35. Il tavolo che si è aperto ieri, si è chiuso in malo modo ed è stato aggiornato a settembre. Ma le parti, al netto del massimali-

contro muro con una Fiat, azienda simbolo della meccanica, pronta a tagliare la produzione in Italia del 9 per cento. Non resta quindi che ringraziare l’istituto cassa integrazione, oneroso ma più protettivo degli strumenti della flex secu-

Così proprio l’assalto alle piazze tipiche dell’autunno caldo del ’69 – difficile che, senza fabbriche, ritornino invece le occupazioni – diventa lo spettro di un sistema che ha poche munizioni per sconfiggere la crisi. Che potrebbe vedere chiudere fino a 500mila piccole imprese. E la cosa non può che diventare un incubo per un Giulio Tremonti, che gioco for-

za sarà comuque costretto a fine anno a fare politiche per rientrare dall’alto deficit che è strutturale.

Piano casa, Tremonti Ter, i 17 miliardi per le grandi opere della Legge obiettivo sono tutti progetti che entreranno a regime nei prossimi anni. Che sarebbero davvero anticiclici se il governo potesse fare anticipazioni di cassa. Così non resta che sperare nelle esportazioni verso la Cina e il Far east e l’area del dollaro, ringraziare perché il prezzo del petrolio sotto i 60 dollari fa risparmiare alle famiglie tra i 1.500 e i 2mila euro. Meglio di un taglio fiscale. Ieri Guglielmo Epifani, partecipando a una conferenza degli edili della Fillea, ha denunciato che lesinare le risorse sulle opere pubbliche «farà perdere quest’anno 200mila posti di lavoro». Più in generale, ha ricordato che il governo dovrebbe «preoccuparsi che l’anno scorso abbiamo perso 1,8 punti di Pil, quest’anno altri 5,2. In tutto 100 miliardi, torneremo al livello del 2007. E se va bene, soltanto nel 2014, dopo sette anni torneremo come prima della crisi». Tutto vero, peccato che per velocizzare questa risalita l’Italia dovrebbe fare quelle riforme – pensioni, liberalizzazioni e federalismo fiscale – che neppure la Cgil vuole.


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Aula bollente. Famiglia e Mezzogiorno penalizzate dal maxiemendamento. Mentre Tremonti salva le banche

La fiducia della discordia Il governo litiga sul decreto anticrisi ma la Camera dice di sì. Casini e Bersani: «Tasse ai terremotati, condoni agli evasori» di Franco Insardà

ROMA. A piazza Montecitorio fa caldo. Molto caldo. E anche l’Aula, dopo i picchi di giovedì, fa segnare temperature ancora più alte. Dopo l’affondo di Gianfranco Fini, le lamentele di Stefania Prestigiacomo e il dietrofront di Giulio Tremonti arrivano le bordate di Casini e Bersani. In questo venerdì di fine luglio è passata la fiducia, la 23esima in assoluto e la sedicesima alla Camera, al maxiemendamento, mentre il voto finale è fissato per martedì prossimo. Alla votazione erano presenti insieme con Tremonti anche i ministri Frattini, Carfagna, Ronchi, Scajola, Alfano, Fitto, La Russa e i sottosegretari Vegas e Bonaiuti. Il ricorso alla fiducia è stato duramente contestato, nella sua dichiarazione di voto, da Pier Ferdinando Casini che lo ha definito «un problema patologico». Il leader dell’Udc ha parlato di un esproprio delle funzioni del Parlamento e ha sottolineato come la decretazione d’urgenza, unita al ricorso alla fiducia e ai maxiemendamenti, «altera la corretta produzione legislativa». Ha richiamato il Parlamento su tre temi: ha criticato il governo per aver ritirato le norme sulle banche e in favore dei consumatori, per il caso che ha coinvolto il ministero dell’Ambiente e sulla sospensione delle tasse ai terremotati del’Abruzzo. Ha rilanciato le politiche per la famiglia e la questione del Mezzogiorno «le “grandi assenti” di questo provvedimento anti-crisi». Poi, rivolgendosi a Fini, ha detto ironicamente: «Lei è molto impegnato a “fare futuro”, ma auspichiamo che si impegni a fare presente». Casini, motivando il no del suo gruppo, ha aggiunto l’elenco l’elenco dei punti su cui con l’Udc ci potevano essere delle “convergenze”: riforma delle pensioni, badanti, detassazione degli investimenti, scudo fiscale e patto di stabilità.

Il testo votato, invece, è quello messo a punto dal governo, dopo la “limatura” della presidenza della Camera alle due norme su reti ed energia elettrica e studi di settore e contiene norme restrittive sui giorni di valuta delle banche, viene annullata la sanatoria sulle slot machine e il controllo parlamentare sulla Corte dei Conti. I passaggi alla Camera ne hanno, comunque, ridotto gli effetti.

Peggiora, infatti, di 534 milioni nel triennio 2009-2011 il saldo netto da finanziare, riducendosi a 862 milioni dagli originali 1,397, prima della rilettura a Palazzo Madama.Tra commissioni e maxiemendamento l’effetto positivo si riduce di 200 milioni per quest’anno, di 429 milioni l’anno prossimo, mentre migliora di 95 milioni nel 2011. I deputati ieri avevano deciso di interrompere in anticipo il dibattito generale e iniziare la discussione sul complesso degli emendamenti per accelerare i tempi, visto che il passaggio parlamentare del decreto si sta confermando piuttosto complicato e ora, dopo l’intervento di Fini, si fa notare che se l’esecutivo volesse introdurre nuove modifiche, la sede sarebbe quella del Senato. A quel punto si prospetterebbe per Montecitorio una terza lettura nel caldo di agosto.

Sulla fiducia la maggioranza è stata compatta. Per il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi «il decreto anticrisi è uno strumento utile per rilanciare il SistemaPaese. Il ricorso alla fiducia, in questo momento, serve a consentire ai provvedimenti del governo di avere una efficacia tempestiva». Il deputato leghista Massimo Bitonci ha posto l’accento sul ruolo delle aziende del Nord: «Saranno loro a tirarci fuori da questa crisi. Questo de-

Secondo il leader centrista, «siamo in presenza di un esproprio del Parlamento a causa delle scelte dell’esecutivo. Gli abruzzesi non hanno bisogno di effetti speciali, ma di uno Stato comprensivo» creto dà una spinta all’economia e mette le imprese italiane nelle condizioni di agganciare la ripresa». Il capogruppo del Carroccio, Roberto Cota, ha insistito sulla necessità della fiducia «perchè il Paese ci chiede di approvare queste misure in tempi brevi, prima dell’estate. In questo provvedimento ci sono strumenti importanti per il rilancio dell’economia e si attenua la morsa creditizia sulle piccole e medie imprese in difficolta». E sullo scudo fiscale Cota ha chiosato: «Meglio far rientrare i capitali per poter così produrre lavoro e investimenti o farli uscire come è stato fatto in passato?». Ma alle critiche espresse da casini si sno ag-

giunte quelle degli altri partiti di opposizione. Pier Luigi Bersani, a nome del Pd, ha concluso la dichiarazione di voto dicendo: «Avete sottovalutato la crisi, vi è tremato il cuore davanti all’esigenza di una manovra, perché non usate il consenso per fare governo, ma usate il governo per fare consenso. Quelle del governo in questo decreto anticrisi sono pillole: alcune non fanno male, alcune sono tardive e ogni tanto ci sono pilloloni indigeribili, come il condono fiscale e le tasse da far pagare ai terremotati dell’Abruzzo da gennaio». Netta la posizione dell’Italia dei Valori che nella dichiarazione di voto, affidata a Renato Cambursano, ha annunciato il suo no: «Questo decreto ingrassa l’Italia grassa con lo scudo fiscale e con lo scandalo delle sanatorie. Non voteremo mai questo testo, e non voteremo questa fiducia».

Ma a Montecitorio ieri ha tenuto banco la vicenda Prestigiacomo e, almeno per qualche ora, ha gettato altra benzina sul fuoco. Il ministro per l’Ambiente, in un’intervista al Corriere delle Sera aveva attaccato i suoi colleghi (Claudio Scajola, Altero Matteoli, Roberto Calderoli e Giulio Tremonti) che approfittando del decreto anticrisi l’avrebbero voluta privare dei poteri di autorizzazione ambientale in materia di energia, affidandoli ai commissari straordinari. «Nella mia vita - ha dichiarato la Prestigiacomo - non ho mai minacciato di dimettermi. La norma per me è inaccettabile, è sufficiente dire questo». A dare man forte al ministro è intervenuto il commissario Ue all’ambiente Stavros Dimas: «Se c’è un cambio di autorità competente o un cambio di procedura, questo dovrà essere notificato alla Commissione europea». La polemica sarebbe rientrata, come ha dichiarato Mauro Libé, capogruppo dell’Udc in commissione Ambiente alla Camera: «Non avevamo dubbi, il ministro Prestigiacomo ha ritirato le dimissioni. Nessuno, dal presidente del Consiglio in giù, le aveva dato grande credito, ma una marcia indietro così repentina non era facilmente immaginabile». Per il deputato Udc, «sinceramente la vicenda è molto triste: contribuisce a confermare la chiara impressione che i ministri di questo governo non cerchino le competenze e, quindi la possibilità di lavorare per l’Italia, ma solo la conservazione del posto». Il Sud è senza dubbio uno dei capitoli più spinosi della politica dell’Esecutivo a trazione settentrionale e proprio su questo Saverio Romano, responsabile Nazionale Organizzazione Udc e segretario siciliano del partito, ha polemizzato duramente con l’Mpa di Raffaele Lombardo: «Diviene sempre più difficile riscontrare in alcuni partiti, e nell’Mpa in particolare, un atteggiamento di coerenza politica laddove alle dichiarazioni corrispondano precisi comportamenti che in democrazia consistono essenzialmente nella espressione del voto. Dopo le recenti dichiarazioni di Lombardo, che in più occa-


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Ritratto della ministro che si è messa contro mezzo maggioranza

Elogio di Stefania, la post-ambientalista di Roselina Salemi oco prima di diventare ministro delle Pari Opportunità, dopo le lezioni del 2001, Stefania Prestigiacomo aveva partecipato, a Catania, a una tavola rotonda, sul tema, appunto, delle pari opportunità, assieme ad Anna Finocchiaro. Due donne, tutte e due intelligenti, e con altre ambizioni, destinate a parlare di donne, a districare, forse malvolentieri, la matassa delle “azioni positive”. Si era presentata con cinque cartelle dattiloscritte a spazio tre dove, in sostanza, diceva che trovava fastidioso il concetto stesso di pari opportunità, che le donne, se valgono, vanno avanti e lei, come imprenditrice, poteva testimoniarlo. Anna Finocchiaro aveva manifestato con garbo il suo dissenso: le discriminazioni esistono, eccome. È finita come sappiamo, con Prestigiacomo che aspirava alla Giustizia e si era dovuta accontentare delle famose Pari Opportunità, nelle quali non credeva, dove però è rimasta, con due governi Berlusconi, fino al 2006. Nel frattempo aveva avuto un figlio e corretto il tiro. Seppure tardivamente, ha combattuto con passione (perdendola) la battaglia per le Quote Rosa che avrebbe (forse) modificato il Parlamento. Ha superato una certa timidezza, un certo riserbo ( è bella, ma non è mai stata appariscente, chiassosa, non ha cercato l’effetto facile). Si è fatta fotografare e intervistare da Vanity fair (elegantissima in camicia bianca), si è schierata a favore dei referendum sulla procreazione assistita, uscendone, anche lì, sconfitta. Ha ottenuto qualche successo occupandosi di infibulazione, riduzione in schiavitù, asili nido, molestie sul lavoro e discriminazioni nei confronti dei disabili. In sostanza, ha cercato di fare sul serio il ministro delle Pari Opportunità, allargandone il concetto.

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pa del mercurio, asbestosi provocate dall’amianto, scarsa manutenzione degli impianti, nubi tossiche e un lungo, tormentoso braccio di ferro per la costruzione di un rigassificatore in una zona considerata “a rischio”.

Il ministero dell’Ambiente non le sta dando grandi soddisfazioni. La bionda e ben pettinata signora, che non è una chiacchierona, filtratissima da Toi Bianca, giornalista e giallista, ha mostrato per la prima volta il suo lato furibondo: scavalcata da un plotone di commissari che decidono al posto suo? Accerchiata da Scajola-Matteoli-Calderoli-Tremonti? Tutti uomini? Ora, dibattito a parte, la questione ambientale, oltre ad essere cruciale è anche dolorosa, soprattutto nel collegio elettorale dal quale Stefania Prestigiacomo proviene. Eletta nel 1990, a soli 23 anni presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Siracusa e deputato nel ’94, viene da una famiglia di imprenditori (materie plastiche) di solida tradizione democristiana, della quale fa parte Santi Nicita, per trent’anni plenipotenziario della corrente andreottiana nella Sicilia orientale. Forse è stato lui a trasmetterle la passione per la politica (e, dicono alcuni, un consistente pacchetto di voti), mentre il marito Angelo Bellucci, notaio, coordinatore provinciale di Forza Italia, l’ha incoraggiata. La questione siracusana è molto complicata: nel cosiddetto “triangolo della morte”cioè Priolo-Augusta-Melilli, il polo petrolchimico ha prodotto uno dei più seri disastri ambientali d’Italia, del quale si parla poco o niente: inchieste abortite, insabbiate o chiuse, “ristori” concessi unilateralmente dalle aziende alle famiglie con bambini gravemente malformati per col-

Ce n’è abbastanza per scoraggiare chiunque, ma Stefania Prestigiacomo, che non ama essere ricordata per le chiacchiere su lei e Gianfranco Fini, per l’aggraziata ma crudele parodia di Paola Cortellesi, né per il fatto che su Playboy la considerano una specie di sogno proibito dei manager italiani, ha raccolto la sfida, nazionale, ma per quanto la riguarda, anche locale, e si è messa al lavoro. Favorevole al nucleare, (lo ha definito “energia pulita”, poi si è corretta: “energia sicura”), ai rigassificatori, convinta che lo sviluppo è stato frenato, che molti progetti sono stati per troppo tempo bloccati., si è anche inventato uno slogan: seguire le “tre R”: «Riduci, Riusa, Ricicla». Il G8 dell’Ambiente, organizzato a Siracusa in aprile, dal quale è nata la Carta delle Biodiversità, non ha avuto il risalto che sperava, ed erano cominciate a circolare alcune voci («la Prestigiacomo è in disgrazia») culminate nello sfogo di ieri, nelle accuse di arroganza e prepotenza contro chi l’ha tagliata fuori, togliendole le competenza in materia di energia e di nucleare, praticamente tutta la polpa. Gli ambientalisti, che non hanno mai avuto grande feeling con lei, cominciano a trovarla simpatica perché rifiuta l’idea che un commissario, da solo, possa decidere se realizzare o no una centrale nucleare. La parola “dimissioni” è sospesa nell’aria, ma non è tutto qui. Stefania Prestigiacomo potrebbe essere attratta nella scia gravitazionale del “Partito del Sud”, un agglomerato di meteoriti che possono fare parecchio danno e che sono il frutto dei lunghi conciliaboli tra i deputati siciliani e della strategia politica di Raffaele Lombardo, a torto sottovalutato: Siracusa è proprio una delle roccaforti del Movimento per l’Autonomia. A 41 anni, la cauta Prestigiacomo si trova, senza aspettarselo, nell’occhio del ciclone, contestata e contestatrice. Qualcuno comincia a scavare nell’attività delle aziende di famiglia, che hanno una storia intricata. Ma in tanti la amano ancora, e la seguirebbero. A Siracusa, che non è Sanremo, (dove coltivano i fiori, e di sicuro avrebbero creato per lei una nuova rosa), le hanno dedicato, prosaicamente, una pizza, che si chiama, appunto, “Stefania”.. Un dolce passaporto per l’immortalità, se non politica, gastronomica.

Nella sua città, Siracusa, molti iniziano a prevedere per lei un futuro “autonomista” magari anche in rotta con certi alleati

sioni si è detto profondamente insoddisfatto e deluso dal governo Berlusconi per il disinteresse mostrato nei confronti del Sud, sarebbe stato normale attendersi l’assunzione di una posizione netta, chiara e coerente». Romano ha definito “pilatesco” l’astensione dell’Mpa: «un atteggiamento che noi dell’Udc non comprendiamo e che la dice tutta sulla reale capacità di questo Movimento di incidere positivamente a livello nazionale sullo sviluppo del territorio che è chiamato a rappresentare».

Ma le polemiche legate al provvedimento arrivano anche dall’Abruzzo. Il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, ha annunciato una manifestazione al Quirinale per protestare contro il ripristino delle tasse dal primo gennaio e della restituzione in 24 mesi di quelle sospese dal 6 aprile scorso. «In quell’occasione - ha detto Cialente - insieme con gli altri sindaci del cratere riconsegneremo le fasce tricolori». A seguire il dibattito in Aula c’erano Mario Monicelli, Roberto Faenza, Cristina Comencini,Valerio Mastrandrea, Elio Germano, Filippo Timi, Daniele Pecci, Stefano Pesce, Alba Rohrwacher, Francesco Montanari, Emidio Greco, mentre in piazza Montecitorio tante maschere bianche sui volti di artisti e gente comune ricordavano che il governo ha tagliato anche il Fondo unico per lo spettacolo. Ora la farsa sulla politica di rigore e anticiclica continua.

Il presidente della Camera Gianfranco Fini, è sceso in campo per difendere le competenze del ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo dalle pressioni dei colleghi Tremonti, Scajola e Matteoli. In ballo, dicono molti commentatori e molti parlmentari, ci sono interessi economici enormi. Nella pagina a fianco, al centro, il leader dei centristi Pier Ferdinando Casini


diario

pagina 6 • 25 luglio 2009

La febbre diventa mondiale Per l’Oms la diffusione del virus va verso il 100%. Ma non “muta” di Francesco Capozza

ROMA. La pandemia di influenza A (H1N1) si avvicina a una propagazione totale: almeno 160 Paesi o territori su un totale di 193 membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno confermato casi. «Ci stiamo avvicinando al 100%, ma non ci siamo ancora», ha detto ieri a Ginevra il portavoce dell’Oms Gregory Hartl. Il totale dei decessi notificati all’Oms è di circa 800, ha confermato l’organizzazione. «Per ora non abbiamo indicazioni di un cambiamento del comportamento del virus. Osserviamo una diffusione geografica», ha aggiunto Hartl. Per quanto riguarda il nostro Paese, al momento resta fermo a 22 il numero di italiani contagiati in un liceo di Rueil Malmaison, nei pressi di Parigi. I 22 ammalati dovranno restare in isolamento fintanto che non saranno completamente guariti, ha ribadito il dottor Juan Vinas, che ha visitato di nuovo i ragazzi nel pomeriggio di ieri. «Siamo in una situazione di banalissima influenza», ha ripetuto il medico, che non si è mostrato per nulla preoccupato per lo stato di salute dei suoi pazienti. I ragazzi trascorrono una tranquilla quarantena nel liceo, ognuno nella propria stanza. Alcuni di loro non hanno più la febbre già da ieri e potranno tornare a casa domenica.

Per gli altri il viaggio dovrà essere rimandato di qualche ora. In tutto il gruppo è composto da 80 ragazzi e 12 animatori.

Intanto ci sono da registrare tre nuovi casi di influenza A/H1N1 nel forlivese: una dodicenne rientrata da un viaggio di studio nelle vicinanze di Londra, un diciottenne di ritorno da una vacanza in un’isola della Grecia, uno studente dodicenne di una comitiva proveniente da Nottingham. Lo ha reso noto l’Ausl di Forlì, precisando che i primi esiti degli accertamenti eseguiti dal laboratorio del S. Orsola di Bologna hanno evidenziato la positività del tampone faringeo al nuovo virus influenzale. I tre ragazzi sono in fase di guarigione e sono in isolamento domiciliare. L’Ausl sta contattan-

seggeri e i 1.192 membri dell’equipaggio, che stanno bene, sono stati autorizzati a sbarcare per una visita turistica prima di riprendere nelle prossime ore il viaggio che, iniziato a Kusadasi li porterà a Venezia. I cinque, che non risultano in condizioni preoccupanti, saranno assistiti nel piccolo ma attrezzato ospedale a bordo della Ruby Princess, battente bandiera delle Bermude e una delle più grandi navi da crociera del mondo.

«Allo stato attuale non è stato preso in considerazione alcuno slittamento dell’inizio dell’anno scolastico». Lo ha ribadito ieri il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, a margine della presentazione di un pacchetto di provvedimenti per l’università. «È stata fatta - ha aggiunto - una polemica inutile. Problemi, da questo punto di vista, non ci sono». Le aziende produttrici del vaccino antipandemico nel mondo sono principalmente le multinazionali Novartis, GlaxoSmithKline, Sanofi e Baxter. Questa aziende produrranno oltre l’80% del vaccino antipandemico. Il restante 20% sarà prodotto da altre aziende, tra le quali anche alcune cinesi e australiane. Se il virus A/H1N1 manterrà il livello di virulenza attuale con la bassa aggressività clinica sinora registrata, «non c’é la necessità di vaccinare tutta la popolazione» ha affermato il farmacologo Silvio Garattini. Al momento, ha detto, «per la corsa ai vaccini c’é, certamente, una grande pressione da parte delle industrie, che da tale corsa trarranno molte risorse economiche».

In Italia la possibilità dello slittamento dell’apertura delle scuole è ancora solo un’ipotesi remota, dicono al ministero do tutti i compagni di viaggio e i familiari «per fornire le informazioni del caso». Cinque persone a bordo di una nave da crociera che dalla Turchia è diretta a Venezia sono state trovate affette, durante una tappa al porto ateniese del Pireo, dal Virus A della Nuova Influenza. I cinque, 4 membri dell’equipaggio e un passeggero, sono stati isolati nelle loro cabine dopo che un controllo del personale sanitario a bordo della Ruby Princess aveva rivelato la loro positività al virus. Dopo un intervento delle autorità sanitarie greche avvertite dal capitano della nave, informano i media, il resto dei 3.389 pas-

Nasce la nuova agenzia di valutazione: promosse Trento, Torino e Milano; bocciate Macerata, Foggia e Palermo

Il governo dà le pagelle alle università di Andrea Ottieri

ROMA. Il governo distribuisce le pagelle degli atenei italiani e (in base ai voti) decide i nuovi finanziamenti. Ieri, infatti, il Consiglio dei ministri ha dato il via libera all’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario) che assorbe il Cnvsu (il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario) e il Civr (il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca). Agli atenei virtuosi già da quest’anno andrà un finanziamento più consistente, quelli spendaccioni e inefficienti dovranno accontentarsi di meno risorse. Non solo: il ministro dell’Istruzione, università e ricerca, Mariastella Gelmini, ha firmato anche quattro importanti provvedimenti: quello sulla ripartizione del Fondo di funzionamento ordinario e del Fondo premiale, il taglio dei corsi inutili, i criteri di valutazione per concorsi da ricercatore e la direttiva per il varo dei concorsi 2008. Ma il prov-

vedimento più atteso è senz’altro il primo, anche perché il ministero ha stilato una lista degli atenei migliori: promossi Trento e i politecnici di Torino e Milano, bocciati gli atenei di Macerata, Foggia e Palermo. Ma anche università come La Sapienza di Roma, Roma 3 e Parma. Per comprendere meglio l’entità delle cifre in ballo, per il ministero «Trento ottiene 6 milioni di euro in più, il politecnico di Milano 8 milioni in più, Bologna 5 e Padova

Bene anche La Sapienza e Tor Vergata di Roma. Ma - con sorpresa - l’esecutivo nota che il Sud è meglio del previsto 4. A Foggia invece viene tolto 1 milione di euro e a Macerata meno 1,13 milioni».

Ma cosa vuol dire essere virtuosi? Due agli aspetti sondati per assegnare le risorse: qualità della ricerca e della didattica. Nel primo caso si è tenuto conto delle valutazioni del Civr sulla

qualità della ricerca in base a parametri internazionali, del numero dei ricercatori e dei docenti che hanno partecipato a progetti di ricerca italiani valutati positivamente e della capacità delle università di intercettare finanziamenti europei per la ricerca. La qualità della didattica è stata valutata in base «alla percentuale dei laureati che trovano lavoro a tre anni dal conseguimento della laurea, alla capacità degli atenei di limitare il ricorso a contratti e docenti esterni evitando il proliferare di corsi ed insegnamenti non necessari e affidati a personale non di ruolo». E ancora: alla quantità di studenti che si iscrivono al secondo avendo fatto almeno i due terzi degli esami del primo anno. Nella nota, infine, si sottolinea con singolare sorpresa, che «sono molte le università del Centro-Sud promosse: Roma Tor Vergata, l’Università di Chieti e Pescara, l’Università della Calabria, l’Università Politecnica delle Marche, l’Ateneo della Tuscia, il Politecnico di Bari e l’Università del Sannio di Benevento».


diario

25 luglio 2009 • pagina 7

Ma è ancora allarme per vento e temperature alte

I pacchetti “costruiti” su misura per satellitare e digitale

Sotto controllo la situazione degli incendi in Sardegna

L’Antitrust contro la Legacalcio sui diritti tv

SASSARI. È stata un’altra giornata di emergenza sul fronte incendi in Sardegna. I roghi che giovedì hanno interessato tutte le province della regione, tranne che quelle di Cagliari e dell’Ogliastra, hanno registrare numerose riprese fin dalle prime ore del mattino di ieri. Riprese favorite dalle alte temperature, definite «record», e dal forte vento di maestrale. E solo dopo ore si è arrivati e tenere sotto controllo le fiamme. La Coldiretti intanto ha chiesto che venga proclamato lo stato di calamità naturale per le zone colpite dagli incendi. Una delle zone più colpite anche in queste ultime ore resta il sassarese, dove giovedì si sono contati due morti. Altri roghi stanno riprendendo nelle zone già percorse nel Nuorese, in Gallura, nell’Oristanese, in particolare nei pressi del Monte Arci, e e nel Sulcis, Flumini Maggiore e Arbus. Ora la situazione in Sardegna tuttavia è sotto controllo. Tutti gli incendi sono stati spenti ma, soprattutto a causa delle alte temperature, c’è il rischio di nuovi focolai, da un momento all’altro, per questo i vigili del fuoco presidiano il territorio.

ROMA. L’Antitrust ha deciso l’avvio dell’istruttoria nei confronti della Lega Calcio per possibile abuso di posizione dominante nel mercato dei diritti televisivi. L’Istruttoria dovrà verificare se la lega Calcio, «nel predisporre i pacchetti di diritti Tv di serie A per le stagioni sportive 2010-2011 e 2011-2012, abbia abusato della sua posizione dominante nella commercializzazione in via centralizzata dei diritti stessi». In sostanza, l’ipotesi sui cui l’Authority indaga è che l’associazione abbia preparato i suoi due pacchetti satellitare e digitale - “su misura” per Sky e Mediaset, tagliando fuori tutti gli altri possibili concorrenti. Secondo l’Autorità, le modalità di formazione

Momenti di paura, poi, ieri ci sono stati ad Arzachena, il comune che sovrasta dall’interno dell’isola la Costa Smeralda. Un incendio è scoppiato in un hotel, forse per un corto circuito. Le fiamme sono partite dal garage e il fumo denso ha invaso la struttura di tre piani, provocando panico tra i clienti. Alcuni clienti sono riusciti ad abbandonare immediatamente l’albergo mentre altri hanno cercato di mettersi in salvo raggiungendo i terrazzi ai piani superiori. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco provenienti da Olbia, Sassari e Santa Teresa di Gallura, oltre agli uomini della Protezione civile. Molti clienti dell’albergo sono stati tratti in salvo dai vigili del fuoco che sono saliti con scale speciali all’ultimo piano dell’albergo.

Sanità commissariata in Campania e Molise La decisione del governo «è solo un atto dovuto» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Un atto dovuto», come ha dichiarato il ministro Sacconi, viste le condizioni della sanità nelle due Regioni. Ma che non ha mancato di suscitare polemiche e frizioni tra il governo e i rappresentanti locali: il consiglio dei ministri ha deciso ieri il commissariamento dei sistemi sanitari regionali di Calabria e Molise. Il Cdm, si legge nella nota diffusa da Palazzo Chigi al termine della seduta, su proposta dei ministro dell’Economia Giulio Tremonti d’intesa con il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha anche deliberato di nominare i presidenti del Molise Michele Iorio, e della Campania, Antonio Bassolino, invitati alla riunione, «commissari governativi per gli specifici obiettivi di attuazione dei Piani di rientro della spesa sanitaria e degli effetti finanziari in essi previsti». La gestione della sanità, secondo quanto riferito da fonti governative, dovrebbe essere successivamente affidata a “sub-commissari” esterni alle rispettive amministrazioni. «In questi ultimi, come negli altri casi, il commissariamento è stato un atto dovuto perché si sono prodotti i presupposti di legge sulla base delle conclusioni dei tavoli tecnici Stato-regioni dedicati alla verifica dei ’piani di rientro dal disavanzo strutturale e dell’effettiva erogazione dei livelli essenziali di assistenza», ha affermato Maurizio Sacconi.

sforamento sarebbe comunque pari a 680 milioni per l’anno in corso: un disavanzo strutturale di circa il 12%. Ma se guardiamo alle percentuali piuttosto che ai numeri, è il Molise a versare nelle condizioni peggiori. Il suo disavanzo strutturale, infatti, ammonta invece al 18%. La Regione guidata da Michele Iorio mostra un disavanzo non coperto, per il 2008, di 43 mln di euro. E le stime sul 2009 lasciano supporre che, senza i necessari interventi, lo sfondamento del tetto di spesa raggiungerebbe gli 89,5 mln di euro.

L’atto di ieri, però non è andato giù a Bassolino. Il quale non si è presentato a Roma, come ha fatto Iorio, per l’annuncio delle decisioni prese dal governo. Si racconta anche di una serie di scontri tra lui e Sacconi prima del commissariamento, visto che il governatore riteneva che la Campania stesse già facendo il possibile per riportare i conti in uno stato di normalità. E infatti, nel pomeriggio, subito dopo i comunicati governativi, è arrivata la nota della Giunta regionale: «La decisione del Consiglio dei Ministri sulla sanità campana è sbagliata e rappresenta una evidente forzatura istituzionale. Valuteremo con rigorosa attenzione il decreto di commissariamento appena sarà pervenuto». Raffaele Calabrò, senatore del Popolo delle Libertà ed ex assessore alla sanità della Regione Campania, segnala comunque che «il commissariamento non è un gesto di ostilità a priori; anzi, con un deficit di 300 milioni di euro l’anno non si poteva fare altro: è successa la stessa cosa a Lazio e Calabria, in altri tempi e con altri esecutivi. Il problema è che la gestione della sanità nella regione è ancora appannaggio di metodi clientelari; e il commissariamento può essere un modo per invertire la rotta: Bassolino può così dimostrare alla politica che il vento, in Campania, sta cambiando, e di sicuro recuperare credibilità nei confronti dell’elettorato». Insomma, non tutto il male viene per nuocere.

Ma Bassolino si offende: «Una scelta sbagliata che rappresenta una evidente forzatura istituzionale dell’esecutivo»

Delle due regioni è la Campania che mostra la situazione finanziaria più compromessa, con un sforamento del tetto di spesa, per il 2008, di oltre 200 milioni di euro. E le stime messe a punto da via XX Settembre per il 2009, lasciano supporre che il buco campano raggiungerebbe il tetto di 880 milioni di euro, senza, naturalmente, le dovute correzioni. Ma anche se i provvedimenti messi a punto dalla Regione nei mesi scorsi per correre ai ripari venissero applicati nel migliore dei modi, la Campania riuscirebbe a recuperare 200 milioni di euro circa, ma lo

dei “pacchetti” scelte dalla Lega Calcio «potrebbero risultare in contrasto con i principi posti a tutela della concorrenza»: i “pacchetti”, così come formati, «appaiono ritagliati su misura dei principali operatori di pay tv, con l’effetto di non garantire lo svolgimento di una procedura effettivamente competitiva e di ostacolare l’ingresso e la crescita di altri soggetti». In particolare, la Lega Calcio «sembrerebbe aver preferito determinare le condizioni per una minore competizione tra gli operatori della pay tv nello sfruttamento dei diritti, per assicurarsi gli introiti attesi, limitando l’incertezza legata al risultato della gara». La mancanza di concorrenza può avere effetti negativi sui consumatori, che potrebbero dover pagare prezzi più alti a fronte di una inferiore varietà e qualità dell’offerta».

Il potenziale effetto di distorsione della concorrenza era già stato evidenziato dall’Autorità nel provvedimento di approvazione delle linee guida adottato il 1° luglio 2009, con il quale chiedeva alla Lega la definizione di più pacchetti nell’ambito di ciascuna piattaforma, proprio per promuovere la massima partecipazione possibile alle procedure competitive e l’ingresso di nuovi operatori.


società

pagina 8 • 25 luglio 2009

Polemiche. Ecco perché le celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità dividono la nostra cultura

Così la Chiesa ha fatto l’Italia di Giuseppe Baiocchi segue dalla prima Eppure si nota l’assordante silenzio sulla necessità di inserire l’avvenimento in un dibattito culturale e politico sulla natura del nostro “stare insieme” (di cui i lavori, le iniziative e i pubblici finanziamenti sono solo la logica conseguenza). E dunque, se si vuole capire “dove si va”, non si può fare a meno di comprendere fino in fondo “da dove si viene”: per questo la celebrazione del 2011 rappresenterebbe una preziosa e irripetibile opportunità di riflettere, al di là dei pregiudizi ideologici e dagli schieramenti obbligati, sulle peculiarità e le glorie, i limiti e i difetti del costituirsi della nostra comunità nazionale.

In realtà, l’atteggiamento al riguardo assunto dai due ultimi governi (il Prodi 2 e il Berlusconi 4) con le elargizioni a coriandolo sembrano tradire un sostanziale disinteresse di entrambe le culture politiche a confrontarsi con la questione delle origini: quasi che ci fosse, sotterranea eppure corposa, la sensazione di una fragilità interiore e quasi di una “illegittimità culturale” che verrebbe messa impietosamente messa a nudo e che pregiudicherebbe gravemente la sostanza e l’immagine della pro-

pria battaglia politica, se solo si arrivasse a fare dei 150 anni una vera stagione da protagonista. È pur vero che, tra i mali della dittatura fascista il più longevo è stato quello di aver sciupato, se non “sporcato”, per molte generazioni a venire il sentimento dell’amor patrio, la condivisa appartenenza a una comunità di lingua e di storia: ma è ormai passato più di mezzo secolo e sembrano tramontare senza rimpianti le contrapposte ideologie che “facevano a meno” della dimensione nazionale. Per decenni infatti la cultura dominante si è nutrita di quell’«internazionalismo proletario» che ha trascinato la sinistra nel rifiuto ideologico della nazione (a parte qualche concessione inevitabile alla retorica risorgimentale) e che ha impedito di fatto ogni libero scavo sui caratteri costitutivi della natura del popolo italiano. Così pure appare svanire alla

dal suo sorgere fratture culturali e problemi irrisolti. Come appunto quello di sentirsi a disagio per molte classi sociali e molti territori in una cornice centralistica che apparve imposta e troppo spesso subita. E se è facile oggi prendersela con la Lega (che ha tutte le sue colpe e qualcuna anche di più) sarebbe ingiusto e deviante ignorare l’antico e ricorrente separatismo meridionale (soprattutto siciliano) che, non a caso, sta riemergendo.

Non basta più dire che tra i tanti mali della dittatura fascista il più longevo è stato quello di aver sciupato per molte generazioni a venire il senso del sentimento dell’amor patrio svelta quella specie di «internazionalismo proprietario» che ha cantato i fasti della globalizzazione sregolata e si è sbriciolato di fronte ad una crisi finanziaria di cui era insieme il padrone e il prigioniero.

Perfino l’economia, la realtà pratica senza confini di lingua o di territorio, deve ricorrere alla dimensione nazionale e al ruolo necessario dello Stato,

che si va riappropriando per forza di cose di poteri e di interventi via via delegati, in un cammino che appariva ineluttabile, ad organismi sopranazionali, a cominciare dall’Europa. E allora il bisogno di capire “l’italianità” si fa non solo utile, ma culturalmente urgente e produttivo. A partire appunto dalle origini, ovvero dal processo di formazione dello Stato unitario che presentò fn

Probabilmente, se davvero si affronta fino in fondo la questione culturale e politica dell’Unità d’Italia, si verrebbe a scoprire che l’unica “agenzia sociale” capace di sentire come propria la dimensione nazionale è oggi la Chiesa, pur con tutti i suoi limiti. Un vero e proprio paradosso della storia, visto che contro di lei e contro il suo radicamento nella società venne compiuto allora il processo unitario. E che forse, meglio di altri, ha saputo raccogliere i caratteri originali della “civiltà italiana”, che si manifesta nella creatività artistica e imprenditoriale sempre sorretta dalla fantasia del volontariato e della sussidiarietà. Già, ma bisognerebbe riscoprire la straordinaria attualità politica del Manzoni…

L’intellettuale “vicino a Fini” dimentica le sue alleanze e accusa Bossi di essere contro la nazione

Campi, se odi la Lega perché stai nel Pdl? di Gabriella Mecucci segue dalla prima vanno in questa direzione. La direzione però - secondo Campi- non solo non è stata inverCampi denuncia che la Lega («senza che nes- tita, ma nemmeno frenata: «l’evaporazione» suno la contrastasse») ha «progressivamente dell’unità nazionale procede a ritmi serrati. E svuotato di significato i simboli canonici del- c’è di più: adesso all’interno del Pdl sta nal’appartenenza nazionale (il tricolore, Roma scendo una seconda «corrente separatista», capitale) e dato sostanza a una tradizione sto- quella meridionale che vede insieme Micrica alternativa (la Padania)». L’unità nazio- cihè e Dell’Utri alleati del presidente della Sinale fra limiti e ritardi è andata avanti per 150 cilia Lombardo. E sembra che questa manoanni, ma «ora l’Italia va scomparendo senza vra venga assecondata in qualche modo dalche nessuno lo voglia ammettere». lo stesso Berlusconi. Occorre ricordare che nel passato anche recente non è mancato chi Un’analisi drammatica di cui si individua- si è battuto contro le spinte disgregatrici: lo no responsabilità passate e presenti e che og- fece Fini fra il 2001 e il 2006, mentre l’Udc oggi ricadono – sempre secondo Campi – su gi come ieri si oppone ad un federalismo fatBossi e su chi non lo ha efficacemente con- to su misura della Lega. Per non dire del ruotrastato. Ben detto, ma allora come fa Campi lo avuto dal presidente Ciampi. Si disse in a stare nel partito (il Pdl), il cui leader si fa quegli anni che si stava verificando un’iniedettare l’agenda di governo dalla Lega? Si zione di patriottismo e di attaccamento alla può obiettare che l’ex An rappresenta dentro nazione: indimenticabile la lunga teoria di al Popolo delle Libertà la “corrente”che cer- romani che andarono a salutare in fila e sotca di riequilibrare la spinta “separatista” del to la pioggia gli eroi di Nassyria. E molti inNord. E questo è in parte anche vero. È vero tellettuali di centrodestra giustamente sottoche Fini ha fatto e fa alcune battaglie che linearono la novità culturale e polemizzaro-

no con una sinistra che prendeva sempre più un volto estremista e antinazionale.

Se tutto questo è vero, allora appare chiaro che si poteva e si può fare qualcosa contro la disgregazione leghista, che l’approdo non è scontato, ma che per evitarlo bisogna prima di tutto ridimensionare Bossi e non – come fa il partito di Fini e di Campi – esaltarlo. Se Campi crede davvvero – e non c’è ragione di dubitarne – alle cose che ha scritto su il Riformista come fa a restare nel Pdl? Si può governare con partiti di cui non si condividono alcune proposte sul piano economico, o magari su quello bioetico, ma sembra impossibile farsi dettare l’agenda dei provvedimenti da un alleato motivato e capace che punta alla «disgregazione dell’Italia». Questo non è uno dei problemi, ma la questione delle questioni. Oppure ci si è già arresi e si ritiene che la nazione italiana è ormai finita? E sarebbe proprio un governo di centrodestra a certificarne la morte? Un bel bilancio davvero.


DOSSIER MAFIA

25 luglio 2009 • pagina 9

Gli eroi non riposano in pace Tutti i “papelli” irrisolti di un’Italia ancora prigioniera del controverso rapporto tra Cosa Nostra e lo Stato di Riccardo Paradisi i curo poco dei messaggi di Totò Riina. Penso che il messaggio importante che sia stato divulgato è la consapevolezza, da parte di tutti, che a distanza di quasi un ventennio, esiste una magistratura capace di approfondire ancora questa vicenda e di aprire nuovi scenari e portare anche ad una ricostruzione della realtà, modificando, se è il caso, la verità processuale, che possa essere più appagante di quella sino a questo momento consolidata». A parlare così, in occasione della commemorazione a Palermo di Boris Giuliano il capo della squadra mobile di Palermo assassinato dalla mafia il 21 luglio 1979, è stato qualche giorno fa il capo della polizia Antonio Manganelli. Ma è un segnale positivo che a distanza di quasi un ventennio dalle stragi di Ca-

«M

paci e di via d’Amelio, dalla decapitazione dell’antimafia attiva attraverso le uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Bor-

Abbiamo una lunga tradizione di misteri. L’Italia è il paese delle doppie verità, delle trame occulte, dei dei papelli che spariscono sellino, la magistratura italiana sia costretta a riaprire il caso e a indagare sullo sfondo di nuovi e più inquietanti sce-

nari, in poche parole a dover ancora far luce sui responsabili di quella stagione di bombe e di terrore? Forse no. Non è un segnale positivo. Abbiamo una lunga tradizione di misteri. L’Italia è il paese delle doppie verità, delle trame occulte degli in-

sabbiamenti e dei depistaggi, dei complotti, degli armadi con il doppiofondo e con gli scheletri, dei papelli che spariscono e poi riappaiono, dei grandi vecchi che ordiscono regie e muo-

vono pedine, entità impalpabili che assomigliano ai superiori sconosciuti della letteratura teosofica o agli arconti della mitologia gnostica, il cui fascino sinistro s’alimenta di scenari barocchi, un genere che non è mai tramontato da noi, come se il fine della cronaca e della storia fosse la meraviglia più che la verità. Dalla strage di Portella delle ginestre all’eliminazione del bandito Giuliano passando per la strategia della tensione degli anni Settanta – da piazza Fontana a Ustica e alla stazione di Bologna– fino ad arrivare alla campagna di attentati che va dalle bombe di Palermo fino a quelle che esplodono a Milano, a Roma, a Firenze, non c’è uno solo di questi episodi per cui si siano individuati chiaramente esecutori mandanti e moventi.


DOSSIER MAFIA

pagina 10 • 25 luglio 2009

Non uno di questi gravi fatti è esente da molteplici livelli di lettura, da dibattiti sulle sentenze, da ombre e sospetti, da ultralivelli sfuggiti all’individuazione. Eppure fino a ieri, al netto di chiaroscuri e obliquità, le stragi di mafia dei primi anni Novanta si sottraevano a questa coazione italiana, era opinione acquisita che stavolta si trattava di uno scontro frontale tra Stato e mafia, che mandanti ed esecutori di quegli attentati erano individuabili in Cosa nostra, che stavolta, le ombre della strage di Stato, della partecipazioni alla strategia della tensione e della destabilizzazione di settori deviati delle istituzioni erano lontane. Sembrava una pagina di storia italiana chiara, una delle poche.

I buoni da una parte – Falcone e Borsellino sicuramente, ma anche lo Stato che non li aveva lasciati soli – e i cattivi dall’altra, appunto la mafia, Cosa nostra. Poi la doccia fredda, ed è cronaca di questi giorni e di queste ore: il mistero del papello Ciancimino, il documento che proverebbe che tra certi settori dello Stato e Cosa nostra c’era un accordo per far cessare le stragi di mafia in cambio dell’attenuazione della legislazione d’emergenza contro l’organizzazione. Un accordo a cui Borsellino era fortemente contrario, una posizione che gli sarebbe appunto costata la vita. E insieme al papello il messaggio di Totò Riina, una dichiarazione consegnata al suo avvocato: a via d’Amelio – sostiene il capo dei capi – non agì solo la mafia ma i piani alti della politica. Lo Stato si guardasse un po’ dentro, Cosa nostra è stanca di prendersi ogni responsabilità: «Il mio cliente – dichiara l’avvocato di Riina – sostiene che l’accordo sia passato sopra la sua testa e che i protagonisti della trattativa sarebbero Vito Ciancimino e i carabinieri. Non a caso quattro anni fa

chiesi che venisse ascoltato il figlio di Ciancimino, Massimo». Spuntano così testimoni che parlano di altri mandanti, indizi che fanno sospettare che non sia stata solo la mafia a uccidere Falcone e Borsellino o a piazzare le bombe.

Strategia della tensione. Ma voluta e ordita da chi? Per raggiungere quali obiettivi? Per chi esplodevano le bombe del 92-93 in Sicilia e a Roma, Milano e Firenze? Viene riaperta l’inchiesta su via Mariano D’Amelio. E quella su Capaci. Quella sul fallito attentato al giudice Falcone sull’Addaura, su quei cinquantotto candelotti di dinamite che nel giugno dell’89 personaggi misteriosi sistemavano nella scogliera davanti alla casa del giudice. Si profila ancora una volta lo scenario di una nuova ”strategia della tensione”– almeno questa è l’ipotesi dei procuratori di Caltanissetta titolari delle inchieste sulle stragi palermitane – che parte dagli anni precedenti all’estate del 1992 e finisce con i morti dei Georgofili a Firenze e quegli altri di via Palestro a Milano.

Gioacchino Genchi consulente della procura di Palermo e di Caltanissetta, al centro della recente polemica e dell’inchiesta sulle intercettazioni, è l’uomo arrivò due ore dopo sul luogo dell’esplosione, individuando nel castello di Utiveggio la località da cui sarebbe stato azionato il radiocomando. Oggi, a petto della riapertura del faldone su quei tremendi primi anni Novanta, Genchi si dice «sicuro che i tempi che verranno saranno ancora più difficili di quelli passati, perché si è imboccata una china,

SALVATORE RIINA

«Io della strage non ne so parlare. Borsellino l’ammazzarono loro. Chi sono ”loro”? Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il ”papello”, come lo chiamano»

anche giudiziaria, che rischia di portare all’annullamento di sentenze di condanna all’ergastolo senza contributi nuovi sull’individuazione di ulteriori responsabili e cosa ancor più grave sui mandanti effettivi che hanno voluto la strage del 19 luglio 1992 o come quella del 23 maggio 1992, per cambiare i destini dell’Italia». Mandanti effettivi, strategia della tensione. Ma voluta e ordita da chi? Per raggiungere quali obiettivi? Se c’era qualcuno che agiva in tandem con la mafia chi era? A che livello agiva? Per rompere quale schema di potere? Per determinare la costruzione di quale nuovo ordine? Ecco, anche a non essere vittime della mitologia nera dei superiori sconosciuti e della storia parallela, anche a non avere confidenza con quel rasoio della logica complottista per cui tutto ciò che sappiamo è falso, ecco che occupandosi di certe questioni, si viene tirati dentro un gioco di specchi, dentro una notte in cui tutte le verità sono grigie, e in cui inevitabilmente torna a scattare il riflesso condizionato del cui prodest: al riemergere della vecchia teoria del doppio livello dello Stato parallelo. E ad alimentare questa atmosfera umida e nebbiosa c’è la ridda di ipotesi di questi giorni di autorevoli esponenti di primo piano delle istituzioni, protagonisti di ieri e di oggi, il cui giudizio resta sempre sospeso, aperto a ogni ipotesi, anche la più inquietante, un concerto dodecafonico in cui ognuno ricostruisce il suo scenario e sembra non essere in grado di andare oltre i condizionali e i periodi ipotetici. Di non essere in grado o di non avere la volontà di dire qualco-

VITO CIANCIMINO

Nel papello agitato da Massimo Ciancimino ci dovrebero essere i termini del negoziato tra Stato e mafia che aveva come intermediatore l’ex sindaco di Palermo, colluso con Cosa Nostra, Vito Ciancimino

sa di più preciso, di meno criptico. È ritornato al pettine il nodo del presunto incontro tra Borsellino, il giorno prima della strage, e l’allora neo ministro agli Interni e oggi vicepresidente del Csm Nicola Mancino.

Quest’ultimo è tornato, oggi, a negare sostanzialmente qualunque incontro specifico, anche se ribadisce di aver incontrato, il giorno del suo insediamento, tanta gente e Borsellino avrebbe potuto essere tra questi. Intanto, i magistrati di Palermo ritengono che il boss stia mandando messaggi a qualcuno. Per il procuratore aggiunto del capoluogo siciliano Antonino Ingroia «Se Riina voleva rivolgersi all’autorità giudiziaria sapeva quali canali utilizzare. Invece ha utilizzato un canale pubblico per mandare messaggi anche ad altri». Ma dalla procura di Caltanissetta fa eco il capo dei Pm Sergio Lari secondo il quale invece è con loro, che Riina vuole parlare. Ipotesi diverse e contraddittorie dunque anche all’interno della magistratura, tanto da costringere ad un’estrema cautela il procuratore nazionale antimafia, ed ex procuratore di Palermo, Piero Grasso, mentre il capo della polizia Antonio Manganelli prende decisamente le distanze dichiarando pubblicamente di «Non curarsi delle parole di Riina». Eppure per il procuratore capo di Calta-

MASSIMO CIANCIMINO

«Basta coi messaggi in codice, si affrontino le questioni il papello consegnato ai giudici? La magistratura ha tutto il materiale per indagare. Anche i politici della sinistra hanno preso i soldi da mio padre»


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Via d’Amelio: una, nessuna, centomila verità Le ipotesi di politici e magistrati: dal complotto internazionale alla trattativa nissetta Lari c’è qualcosa che non torna. «Una è questa: si pensa che Borsellino fosse venuto a conoscenza della trattativa e che si fosse messo di traverso. E, proprio per questo, sarebbe stato ucciso. Un’altra ipotesi: quella trattativa si era arenata, e allora Totò Riina ha deciso di accelerare l’esecuzione della strage di via D’Amelio allo scopo di costringere lo Stato a venire a patti. Adesso, lentamente, emergono possibili se non addirittura probabili rapporti tra Cosa nostra e settori deviati dello Stato. Negli ultimi sei mesi – dice ancora Lari – siamo venuti a sapere alcuni particolari che ci hanno permesso di spingere le nostre indagini sulle stragi in territori non solo di mafia», afferma il magistrato, facendo riferimento, in primo luogo, alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. «Io non sono nella mente di Totò Riina però lui sa che Gaspare Spatuzza sta parlando con noi. Non sa esattamente che cosa ci sta dicendo, ma credo che in qualche modo lo immagini. Credo che anche lui pensi che ci sarà proprio una svolta nelle indagini. Ecco perché è intervenuto.Vuole dirci qualcosa».

Sta di fatto, come scrive Francesco La Licata sulla Stampa Che sta cambiando il quadro generale di quello che è stato lo stragismo mafioso, soggetto a una revisione consistente. E prende corpo una strategia criminale alla quale sembra non siano stati estranei anche elementi di organismi istituzionali preposti alla sicurezza. «Falcone, Borsellino e gli attentati del ‘93 a Roma, Firenze e Milano: un filo unico teso a imporre allo Stato quella “trattativa” tornata agli onori del-

la cronaca attraverso l’imprevista collaborazione di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco Dc di Palermo, quel don Vito scelto da Cosa nostra come mediatore ed ambasciatore della mafia corleonese presso lo Stato italiano».

Anche le letture dei protagonisti politici compongono un mosaico contraddittorio, dove non compare una lettura unitaria, e che anzi come in certi disegni dove l’immagine cambia a seconda della prospettiva da cui la si guarda assomiglia a un caleidoscopio dove ogni ipotesi elide l’altra. Per Luciano Violante quella dei primi anni Novanta «È stata una stagione senza precedenti, in un certo senso “speciale”;

«Le due stragi erano troppo importanti per essere solo fatti criminali», sostiene Violante che ipotizza «un uso mafioso di una strategia politica o un uso politico di una strategia mafiosa» che, per fortuna, non ha avuto seguiti. «Proprio questa specificità impone che si continui ad indagare come sta facendo la magistratura e come intende fare la Commissione Antimafia, ciascuno secondo le proprie responsabilità». E alla domanda se Insomma, le stragi Falcone e Borsellino rientrano in un’unica strategia che si conclude con gli attentati di

GIOACCHINO GENCHI

«I tempi che verranno saranno ancora più difficili di quelli passati, perché si è imboccata una china, anche giudiziaria, che rischia di portare all’annullamento di sentenze di condanna all’ergastolo»

Roma, Firenze e Milano Violante risponde che si. «Non si possono tenere slegate l’una dall’altra le due stragi; inoltre a me sembra che ci sia un filo che le lega agli omicidi di Salvo Lima e di Ignazio Salvo». E a proposito di Capaci e via d’Amelio Violante dice che «Quelle due stragi e quei due omicidi erano troppo importanti per essere solo fatti criminali. Ci potrebbe essere stato un uso mafioso di una strategia politica o, viceversa, un uso politico di una strategia mafiosa. O anche altro che oggi non siamo ancora in grado di comprendere».

Sensazioni, sospetti, impressioni. Cose che si intravedono ma che hanno i contorni troppo sfumati per essere descritte. «Ebbi più che una sensazione ¬– dichiara così anche Oscar Luigi Scalfaro – che dietro quelle vicende si intravedeva, se non una strategia unitaria che riconducesse ad apparati dello Stato, un intreccio di interessi che si sovrapponevano, mettendo a rischio la saldezza democratica del Paese. Non si può mai escludere che ci possano essere state persone, nell’amministrazione dello Stato, che abbiano tradito i loro doveri. Come non si può escludere che anche un criminale dica a volte una verità». Enzo Scotti, oggi sottosegretario agli Esteri, ma al tempo delle stragi ministro degli Interni alla domanda se a distanza di tanti anni, fu solo Cosa Nostra a uccidere Falcone e Borsellino risponde che «Dopo Falcone, in Antimafia e in Parlamento dissi da ministro dell’Interno che le modalità della strage di Capaci erano molto inquietanti. Mi fermo qui, fiducioso che le indagini della magistratura

CLAUDIO MARTELLI

«Il soggetto delle stragi e del piano di destabilizzazione dei primi anni Novanta è la mafia. Non ci sono complotti nè interni né internazionali. Anche se del caos qualcuno approfittò per seppellire la prima Repubblica»

possano finalmente chiarire la vera storia di quelle stragi».

Si fermano tutti qui. Alla sensazione che qualcosa ci sia di vero in quello che dice Totò Riina.Va oltre invece, molto oltre Paolo Cirino Pomicino ai tempi delle bombe ministro del Bilancio del governo Andreotti, che sostiene non da oggi la tesi del grande complotto internazionale. Non si limita a dire che c’è stato qualcuno che approfittando della strategia della tensione mafiosa ha utilizzato quel clima per fare fuori la Prima repubblica, per liquidare una classe politica. «C’è chi crede al fato, c’è chi crede in Dio ma c’è anche chi tiene in debito conto la precisa volontà degli uomini. C’era un disegno politico che tendeva ad abbattere il centrosinistra e a rilanciare in un ruolo democratico il partito comunista. Questo disegno non è una mia opinione. Io fui invitato a partecipare a questo progetto da un autorevolissimo esponente del capitalismo azionista italiano che aveva fiutato l’aria. Non solo. Gerardo Chiaromonte, personaggio di grande qualità democratica, avvertì me, Renato Altissimo e Giuliano Amato che il suo partito aveva scelto l’opzione giudiziaria per raggiungere il potere. Il Pci da solo non ce l’avrebbe mai fatta, aveva bisogno di una spallata giudiziaria ma anche di un particolare clima internazionale». Ecco il complotto internazionale. «Chiamiamola la manina di alcuni ambienti internazionali – precisa Pomicino – in quel periodo puntuale arriva in Italia una nota agenzia di spie a contratto. Sa, che alcuni ambienti dell’intelligenze americana conoscano molto bene l’arte di cogliere elementi per mettere in discussione l’integrità di uomini e partiti non lo sostengo io, l’ha scritto l’ex capo della Cia Wolsey».

PAOLO CIRINO POMICINO

«C’è chi crede al fato, ma c’è anche chi tiene in debito conto la precisa volontà degli uomini. C’era un disegno politico che tendeva ad abbattere il centrosinistra e a rilanciare in un ruolo democratico il Pci»


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Insomma il quadro che delinea Pomicino è questo: un attivo interessamento di certi settori americani alla situazione italiana che sarebbe stato concertato con il Pci attraverso l’intermediazione decisiva del capitalismo italiano di sinistra. E all’obiezione che la ricostruzione dell’ex esponente democristiano assomiglia molto ad un ardito scenario fantapolitico Pomicino replica che «C’erano ambienti americani che non avevano dimenticato Sigonella, a cui non piaceva la politica democristiana e socialista sul medio oriente, che osteggiavano il canale aperto con Gheddafi. Proprio perché la nostra politica estera aveva questa profilo di apertura al Medio oriente ad alcuni ambienti dell’intelligence americana non piaceva per niente».

Una lettura a cui si oppone quella più “illuminista” di Claudio Martelli il ministro della Giustizia di allora che varò la legislazione antimafia. Martelli, dice che occorre molta cautela, che le parole del boss mafioso vanno prese con le molle, ma dice anche che «la strategia di Riina, pur essendo insidiosa contiene elementi di verità. Riina – dice Martelli – ricostruisce un insieme utilizzando elementi parziali, collocandoli in modo da indurre ragionevoli sospetti». Martelli ricorda che nel ’92, «il governo e in particolare il ministro della Giustizia, ossia il sottoscritto e il ministro degli Interni, Enzo Scotti sono impegnati in uno scontro frontale con la mafia. Ma c’erano altre parti di Stato che viceversa pensavano che le cose si potevano aggiustare se per un verso la mafia rinunciava alla strategia terroristica e dall’altro parte lo Stato si toglieva dalla testa di portare il colpo decisivo a Cosa nostra». La prova di questo scenario, se-

Poteri occulti, anche Falcone li temeva Ad Ayala il magistrato disse: «Mi stanno isolando come Dalla Chiesa» condo Martelli, «sta nel fatto che Ciancimino, un pezzo di mafia, si muove in questa direzione. Parla con il colonnello Mori e col capitano De Donno. Elaborano degli scenari per ottenere l’arresto di Totò Riina». È in questo contesto, aggiunge l’ex ministro, «che carabinieri e servizi segreti hanno magari fatto sventolare le ipotesi di trattativa con la mafia fingendo di patteggiare, fa parte della strategia». Ecco perché, parlare di una «contrapposizione frontale del partito della trattativa e di quello della durezza mi sembra

«Ci sono menti raffinate – diceva Falcone – che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono collegamenti tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere» un modo per andare fuori strada». Ancora più minimalista la lettura di Lino Jannuzzi, giornalista che a lungo ha sostenuto la tesi di una cattiva condotta delle indagini. La cialtroneria dello Stato più che la sua infiltrazione. «Dopo 17 anni hanno scoperto di avere sbagliato tutto con i processi, e alzano il polverone dei mandanti occulti per distogliere l’attenzione dall’errore. Le nuove dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza hanno demolito la loro costru-

VINCENZO SCOTTI

«Dopo Falcone dissi da ministro dell’Interno che la modalità della strage di Capaci erano molto inquietanti. Mi fermo qui, fiducioso che le indagini della magistratura possano chiarire la storia di quelle stragi»

zione. E sul coinvolgimento dei servizi segreti? Jannuzzi ricorda che anche questa è una tesi vecchia e farlocca: «Ci provarono già all’inizio, tentando di trascinare in questa storia Bruno Contrada, che per fortuna sua era su una barca con 10 persone e riuscì a smentire la sua presenza in via D’Amelio». Insomma «La strage di via D’Amelio presenta degli aspetti di mistero, ma solo nell’ambito di Cosa nostra. Borsellino era disperato per la morte di Falcone e cercava di capire, era concentrato sulla famosa inchiesta sugli appalti, altro che trattativa tra Stato e mafia che qualcuno adesso sostiene che lui aveva scoperto». E che una trattativa fosse in corso, papello o non papello, sembra emergere dalle ultime acquisizioni dell’inchiesta della procura palermitana, condotta dai pm Antonino Ingroia e Nino Di Matteo, su presunte collusioni tra uomini delle istituzioni ed esponenti mafiosi. Ascoltato dagli inquirenti Violante avrebbe parlato della richiesta di un incontro avuta dall’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, quando era presidente della commissione antimafia. Secondo indiscrezioni, Ciancimino avrebbe fatto avere la richiesta a Violante attraverso un ufficiale dei carabinieri.

L’ex parlamentare ha detto ai magistrati che rifiutò l’incontro ma gli elementi che vengono fuori dalla deposizione di Violante possono essere letti come i primi riscontri al racconto di Massimo Ciancimino sulla trattativa fra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni. Il figlio dell’ex sindaco aveva del

NICOLA MANCINO

«Non solo Borsellino era contrario a una trattativa, ma lo era la stragrande maggioranza dei magistrati e della società civile come si fa ad ammettere che mentre si spara si fa una trattativa?»

resto parlato di ”garanzie politiche” chieste da suo padre al colonnello Mario Mori: «Della trattativa doveva essere informato il presidente della commissione antimafia Luciano Violante. Un altro misterioso interlocutore aveva invece detto che il ministro Mancino già sapeva». Violante davanti al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e al sostituto Roberto Scarpinato, ha spiegato che per davvero qualcuno gli chiese di incontrare ”in modo riservato, a quattr’occhi” Vito Ciancimino. E per don Vito, secondo il figlio Massimo, l’ex presidente della Camera rappresentava il politico che in quel periodo poteva offrire maggiori garanzie, perché non coinvolto in Tangentopoli come altri, e poi, «perché era la cerniera fra la politica e la magistratura», e avrebbe potuto far qualcosa, «per il processo in Cassazione che all’epoca aveva mio padre».

La lettura di Emanuele Macaluso, esponente storico del Pci siciliano, non è complottista ma non esclude così categoricamente ogni coinvolgimento di apparati interni allo Stato nelle vicende che sconvolsero l’Italia nei primo anni Novanta. «Sono d’accordo con la lettura di Martelli. Ma non si può essere così categorici. Non si può escludere che ci sia stato anche qualcos’altro». Qualcos’altro. Ma cosa? Chi? «Dentro la guerra tra Stato e mafia esplosa con l’arrivo del generale Dalla Chiesa a Palermo c’è n’è un’altra parallela, quella che si combatte dentro gli apparati: servizi, questure, centri di

OSCAR LUIGI SCALFARO

«Dietro quelle vicende si intravedeva, se non una strategia unitaria che riconducesse ad apparati dello Stato, un intreccio di interessi che si sovrapponevano, mettendo a rischio la saldezza democratica del Paese»


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potere, correnti politiche. Uno scontro durissimo – lo definisce Macaluso – tra chi pensa che la trattativa con Riina sia ancora possibile, e continua a pensarlo anche dopo Capaci, e chi invece ritiene che si debba andare fino in fondo. Il messaggio di Riina allora può oggi essere rivolto ai trattativisti di allora e si può leggere dentro questa ottica anche la riemersione del papello Ciancimino», dove dovrebbe essere scritto nero su bianco appunto l’accordo tra corleonesi e una parte di Stato: noi mettiamo fine agli attentati e voi non stringete le viti contro la mafia.

Antonio Ingroia , procuratore aggiunto di Palermo ha una sua opinione su questo intrigo italiano e sulla startegia di Riina. «Con le sue dichiarazioni lascia sottintendere, evidentemente, che non vuole pagare per colpe altrui. Intendiamoci, Riina è l’artefice della strategia stragista di Cosa nostra, sotto il suo comando la mafia ha ucciso, ha seminato terrore, ha soggiogato imprenditori e commercianti. Quando af-

ferma che non vuole essere più il parafulmine di tutti, dice esplicitamente che sta pagando per colpe e responsabilità non sue. Siccome da indagini e processi si sono percepite altre corresponsabilità, che però non sono mai state messe a fuoco, solo lui, depositario di queste verità, ci può indicare, spiegare, dire di chi è stato il parafulmine. Noi siamo pronti, senza pregiudizi, ad ascoltare questa sua verità. E naturalmente a verificarla. Se vi fu trattativa comunque – aggiunge Ingroia – certamente non fu solo interesse di Cosa nostra a chiuderla. Tutti, da subito, sin dal 1992, hanno avuto la sensazione che vi fossero altri mandanti esterni a Cosa nostra, dietro lo stragismo di quel biennio ‘92-‘94». Ed è la tesi che Riina ribadisce nell’ultimo interrogatorio: «Per le stragi del ’92 ci sono innocenti in carcere e colpevoli fuori» come riporta ai cronisti l’avvocato di Totò Riina, Luca Cianferoni, lasciando il carcere di Opera, dove il boss è stato interrogato venerdi dai giudici di Caltanissetta. Anche se

EMANUELE MACALUSO

«Dentro la guerra tra Stato e mafia esplosa con l’arrivo del generale Dalla Chiesa a Palermo c’è n’è un’altra parallela, quella che si combatte dentro gli apparati: servizi, questure, correnti politiche»

«La strategia di Riina – secondo Martelli – ricostruisce un insieme utilizzando elementi parziali, collocandoli in modo da indurre ragionevoli sospetti. Per questo è molto insidiosa» l’avvocato di Riina non ha voluto confermare quanto il suo assistito avrebbe dichiarato nei giorni scorsi riguardo il coinvolgimento di una mano esterna alla mafia negli eccidi di Capaci e via D’Amelio: «È una domanda a cui non posso rispondere, ci sono elementi nuovi per poterci difendere».

Tradotto: la mafia non fu l’unico soggetto ad agire in modo criminale in quel biennio ’92-’93 in cui l’Italia ha camminato lungo il confine di un abisso, dove è caduto un vecchio sistema di potere e uno in parte nuovo ne è sorto,

LUCIANO VIOLANTE

«Falcone e Borsellino erano gli unici che potevano decifrare i nuovi legami tra mafia e politica. Le stragi che li hanno eliminati sono episodi troppo importanti per essere solo fatti criminali»

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in un contesto di grandi sconvolgimenti internazionali dove il quadro geopolitico era ancora in vibrazione per l’implosione dell’Unione sovietica. Giuseppe Ayala, che con Falcone ha combattuto Cosa nostra a Palermo nel pool antimafia non esclude affatto che qualcosa e qualcuno agirono da dietro le quinte di quello scenario: «Francamente a legare la trattativa con la morte di Falcone avrei qualche dubbio. Su quella di Borsellino mi pare ci sia invece una correlazione». E chi sta indagando si muove in questo senso. «Con l’eccidio di Borsellino un nesso si può ritrovare ed è oggetto di un’ indagine che mi pare sia in fase di non avanzato sviluppo. Ma per quella di Borsellino l’ipotesi è seria». E sull’ipotesi di soggetti ulteriori alla mafia nella strategia stragista Ayala non si limita a esprimere un’opinione, ma porta la testimonianza «di una persona a cui era molto legato, Giovanni Falcone: «Dopo il tentativo di uccisione dell’Addaura nel giugno ’89 Giovanni disse: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi. Sto assistendo all’identico meccanismo che portò all’eliminazione del generale Dalla Chiesa. Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere». L’ipotesi dei poteri occulti fu la prima cosa a cui pensò dunque Falcone. Sicché l’ipotesi che anche nella tragedia di Borsellino ci possa essere la mano di settori deviati del potere può suscitare allarme o indignazione, non sorpresa.

PIETRO GRASSO

«Pochi giorni prima che lo uccidessero, Paolo Borsellino mi disse che molti amici lo avevano invitato a mollare tutto, ad andare via. Lui però non mollò. Rimase»


mondo

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Iran. Mentre i riformisti si preparano a scendere in piazza nella capitale, nel mondo si celebra il “Global Day of Action” per sostenere la protesta

Teheran, tutti contro tutti Mousavi e Ahmadinejad, Rafsanjani e Khamenei: infuria la lotta per il potere di Luisa Arezzo Onda Verde torna a farsi sentire e per oggi ha indetto una nuova grande mobilitazione per le vie di Teheran. Il regime non sta certo a guardare, e ora che il terreno sembra scricchiolare sotto i suoi piedi, è intenzionato a bloccare sul nascere qualsiasi impeto riformista. Tanto da indurlo - fonte al Arabya, l’emittente saudita - a «mobilitare sette milioni di bassiji per reprimere la rivolta». Se le cifre dovessero corrispondere al vero, l’esito della manifestazione di oggi potrebbe essere dei più neri. Per scongiurare un bagno di sangue e tenere alta l’attenzione, in tutto il mondo è stato indetto - sempre per oggi - il Global Day of Action for Human Rights in Iran, sponsorizzato da Amnesty International. Occhi puntati sulla protesta dunque, ma ancor di più sulla città di Qom e lo scontro in atto ai vertici religiosi dell’Iran. Perché lo “strappo” non è più solo tra il candidato moderato sconfitto, Mir Hossein Mousavi, contro il presidente Mahmoud Ahmadinejad, ma soprattutto fra Ali Akbar Hashimi Rafsanjani e Ali Khamenei. I due pilastri del regime impegnati in una feroce sfida con una posta in palio altissima: il vertice del potere a Teheran.

L’

È quanto emerge dalle notizie, sempre più insistenti, che arrivano dall’Iran riportate dai mezzi d’informazioni arabe. Il quotidiano al Sharq al Awsat ha scritto ieri, citando fonti riformiste, che «un gruppo di ayatollah di Qom» e membri del Consiglio degli Esperti - il potente organo che elegge la guida suprema vorrebbero «interrogare» Khamenei «per le sue decisioni» ritenute di parte. Schierandosi apertamente con Ahmadinejad che ha vinto la contestata elezione presidenziale dello scorso 12 giugno, la Guida Suprema sarebbe «venuta meno alle sue prerogative di padre spirituale di tutto il popolo». Di contro, la tv satellitare al Arabiya, riferisce che tre ayatollah conservatori vicini ad Ahmadienjad stanno lavorando in seno allo stesso Consiglio degli Esperti, per emettere un documento che ha come obbiettivo l’estromissione

Il lento ma inesorabile crollo del regime degli ayatollah

Il fascino (indiscreto) dell’Iran che cambia di Michael Ledeen segue dalla prima Ad un certo punto, in una scena degna del miglior Fellini, le due fazioni si sono affrontate in una gara canora: i sostenitori del regime urlavano «Morte all’America!», i riformisti rispondevano al grido di «Morte alla Russia!»; quindi si è passati al «Morte alla Gran Bretagna, morte ad Israele!», a cui gli avversari hanno replicato con un «Morte alla Cina!». La morality play in stile persiano andata in scena di fronte alla moschea di Teheran costituisce un’ottima metafora per delineare il contesto geostrategico odierno. Ritengo che gli attori in questione siano ben più consapevoli della posta in gioco di quanto possiamo immaginare, poiché sanno che i cinesi e i russi stanno spronando i mullah ad agire una repressione simile a quelle che hanno sconvolto la Cecenia e lo Xinjiang, per poi attribuire la colpa delle azioni dei dissidenti pro-diritti civili a “forze esterne”, in primis gli Stati Uniti. Gli iraniani sanno che una vittoria del regime suonerebbe come una cocente sconfitta per Washington, mentre lo sgretolamento del regime conferirebbe probabilmente nuova linfa a quel processo di rivoluzione democratica che, dal Polo Sud alla Siberia, ha demolito il comunismo sovietico e altre aberranti dittature.

È un dramma a tinte fosche, e gli iraniani di entrambi gli schieramenti comprendono appieno quale sia la posta in gioco. Essi sanno che è oramai troppo tardi per “aggiustare”la situazione politica. Non vi è un sufficiente consenso per rimarginare le ferite causate dalla brutalità del regime, dalle repressioni di massa e dal massacro di innocenti cittadini. E non vi è possibilità alcuna

per gli Stati Uniti di“chiamarsi fuori”, in quanto il conflitto interno che agita l’Iran verte sui nostri valori e sulla nostra visione di società. Come avvenuto negli ultimi trent’anni, noi siamo l’obiettivo di una guerra dichiarata e portata avanti dalla Repubblica Islamica.

Possiamo vincere o perdere, ma non possiamo esimerci dal combattere. Allo stato attuale, i nostri leader lamentano“l’opportunità persa” di sancire un glorioso rapporto di amicizia con i macellai di Teheran, la qual cosa riassume perfettamente il fallimento americano in Iran sin dal 1979. E mi preme inoltre sottolineare quanto nessun altro presidente come l’attuale abbia mai così pateticamente fatto sfoggio della propria volontà di siglare un “accordo”per salvare la faccia e quindi battere in ritirata. La crisi del regime è esemplificata al meglio dalle eloquenti parole di Mir Hussein Mousavi, il leader delle forze riformiste, all’indirizzo della Guida Suprema Ali Khamenei: «siamo di fronte ad un fenomeno nuovo: una nazione ridestata, una nazione rinata e pronta a difendere le proprie conquiste». Parole di tale tenore, scandite con in sottofondo slogan quali «Morte al Dittatore!» dai tetti delle case, dimostrano quanto il regime abbia fallito nel piegare l’insurrezione, e l’unico interrogativo ora è quali sembianze assumerà la prossima sfida al regime. Mousavi ha preso la decisione di fondare un nuovo movimento politico, ma si è preso la briga di affermare che tale movimento non prenderà il posto del movimento popolare. Per concedersi una frase in puro stile jeffersoniano: «il potere tende sempre a diventare assoluto, e solo l’azione del popolo può porre freno a tale inclinazione».

di Rafsanjani (che lo presiede) e decretare così «il definitivo capolinea politico». Secondo l’emittente saudita «il documento e stato promosso da personalità vicine al presidente Mahmoud Ahmadinejad, come gli ayatollah Muhammad Yazdi e Ahmad Jannati». Quest’ultimo presidente del Consiglio dei Guradiani della Costituzione, l’organismo che ha ratificato la contestata rielzione di Ahmadinejad. Nel testo, il Consiglio degli Esperti chiederebbe a Rafsanjiani di rettificare le sue posizioni e di chiarirle allineandosi a quelle della Guida suprema, Ali Khamenei. Nel sermone del-

ayatollah Baian Zinjani, mettendo in dubbio la leggittimità dello stesso Khamenei, ha scritto che «la ratifica della Guida Suprema di un presidente uscito vincente grazie ai brogli» non rappresenta granzia di legittimità».

Dal canto suo, l’ayatollah Shirazi, citato sempre dal foglio arabo edito a Londra, ha invitato i suoi colleghi religiosi del clero sciita a «sostenere le manifestazioni di protesta». Non solo: in un aperto gesto di sfida, due giornali riformisti hanno tolto la qualifica “Guida Suprema” che precede di solito

Alcuni membri del Consiglio degli Esperti vorrebbero “interrogare” la Guida Suprema per essersi schierato apertamente con il presidente in carica durante l’ultima campagna elettorale la preghiera del venerdì scorso, però, Rafsanjani, criticando implicitamente Khamenei, aveva chiesto l’apertura di un indagine per punire i responsabili delle repressioni contro i giovani dimostranti che avevano partecipato alla protesta riformista. E non aveva negato il suo appoggio alla richiesta di un referendum contro il voto illegittimo. Fatto è che in questi ultimi giorni si moltiplicano le prese di posizioni contro il regime. Due grandi ayatollah di Qom, citati da al Shraq al Awsat, avrebbero dato “luce verde”a esponenti del governo e a deputati per boicottare la cerimonia di insediamento del nuovo governo in parlamento. In una nota pubblicata sul suo sito web, il grande

il nome di Khamenei. Come per mettere in dubbio la sua autorità religiosa, i quotidiani di Rafsanjani, Iftab e Shams, nell’edizione di ieri, hanno fatto precedere il nome di Khamenei con l’appellativo “capo dell’Iran”. Nel frattempo, il leader del movimento riformista Mousavi, ha rivelato di essere in procinto di annunciare un nuovo programma politico al fine di attuare «la parte dalla Costituzione congelata dai conservatori». Inoltre, stando a fonti citate da al Sharq al Awsat, l’opposizione si appresta a indire altre manifestazioni (oltre a quella odierna) di protesta per accrescere la pressione sulla Guida Suprema Khamenei e sul presidente Ahmadinejad.


mondo

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Le violenze del Vevak, il “corpo scelto” dei servizi segreti, non piegano la resistenza dell’opposizione

L’Onda non si spezza di Aldo Forbice

embrava che tutto finisse in pochi giorni. La selvaggia repressione (con massacri nelle manifestazioni, arresti di massa, torture di studenti, intellettuali, donne, le intimidazioni nei confronti dei simpatizzanti dei tre candidati sconfitti). E invece in Iran l’Onda verde è sempre più viva e resiste al concentrico attacco delle forze di polizia dei pasdaran, dei basiji, del Vevak, il servizio segreto interno. Di questa polizia speciale al servizio della Guida suprema Khamenei e del presidente-dittatore Ahmadinejad si è parlato fin’ora poco. Infatti si è detto molto dei motociclisti neri, armati di mazze,coltelli e pistole (cioè i basji), cioè di milizie armate (circa 100 mila “volontari della rivoluzione”, in grado di mobilitare un altro milione di fanatici del regime). Il Vevak è invece un corpo “scelto” di agenti (20 mila uomini) al servizio del ministero dell’Informazione, utilizzato dai falchi del regime ed ora da Ahmadinejad. In passato questo corpo armato veniva impiegato anche per eliminare gli oppositori politici senza dare troppo nell’occhio. Del resto, con metodi sbrigativi e terroristici, sono stati massacrati decine di migliaia di militanti della resistenza o semplici oppositori. Proprio nel maggio di quest’anno centinaia di agenti in borghese del Vevak hanno cercato di distruggere le prove del massacro di 30 mila prigionieri politici, nel cimitero di Khavaran, a sudest di Teheran. Con ruspe e altri mezzi meccanici hanno cercato di rimuovere il terreno e trasferire in una zona molto remota i resti delle vittime. Ma i parenti delgli uccisi si sono opposte con continue manifestazioni. Già nel 2006, per mitizzare l’assassinio dei prigionieri, l’attuale presidente aveva ordinato la rimozione delle lapidi in un gruppo di tombe. Oltre 30 mila assassinati e si trattava di riformisti, dissidenti, ribelli, oppositori politici.

S

In alto, Ali Khamenei e, a sinistra, Rafsanjani. Sotto, il candidato riformista Mousavi stampato su uno striscione durante la campagna elettorale di giugno. A destra, manifestanti picchiati dalla polizia

rie ingenti, con carceri autonome e camere di tortura e della morte in tutto l’Iran. Ali Khamenei e il suo “pupillo” Ahmadinejad utilizzano spesso i fedelissimi di questo servizio per missioni speciali contro i loro nemici politici. L’attività del Vevak, dopo la preghiera del venerdì dei giorni scorsi, di Ashemi Rafsanjani, presidente dell’Assemblea degli esperti (86 membri eletti sulla base di una lista preparata dal governo) si è intensificata. Il duro discorso di Rafsanjani, una vera e propria sfida al falco del regime islamico, ha scatenato nuove manifestazioni di protesta, una resistenza di tipo nuovo rispetto a quella tradizionale (che si riconosce nei mojaddin del popolo e quindi nell’attività storica di Mariam Rajavi, moglie dello storico leader del movimento). Ora il movimento dei giovani, prevalen-

l’interno della stessa compagine di governo. Nonostante gli scricchiolii non pensiamo però che la resa dei conti sia molto vicina. Rafsanjani non è riuscito, almeno fin’ora, a esautorare il suo grande nemico Khamenei come Guida suprema perché non ha trovato ancora la maggioranza necessaria all’interno dell’Assemblea dei saggi.

Chi può veramente smuovere le cose sono proprio i “ragazzi di Teheran”. Gli unici che potranno influenzare le scelte delle diverse lobby all’interno del regime islamico, per il momento caratterizzato da due grandi schieramenti: Khatami, Mousavi, Karrubi, Rafsanjani, con le debite differenze, sembrano collocarsi tutti all’opposizione, mentre dall’altra parte emergono nettamente Alì Khamenei, la Guida suprema e il presidente Ahmadinejad,sostenuti dall’apparato militare e poliziesco e dal potente capo della giustizia, Mahmoud Hashemi Shahroudi. Ma anche all’interno delle forze armate cominciano a notarsi le differenze, soprattutto sull’accelerazione del programma nucleare. Sorprese sono quindi prevedibili anche in questo campo. Si dovrà ora seguire attentamente anche l’evoluzione dell’opposizione al regime. Se la resistenza tradizionale riuscirà a stabilire (come sembra stia cercando di fare il Consiglio della resistenza, che ha sede a Parigi) un’alleanza non episodica con la “nuova resistenza”, fatta soprattutto dalla nuova generazione che vive in Iran, che vede nella laicità e nella democrazia i veri obiettivi di lotta per superare il regime clericale. Non sarà facile “legare” le tante anime dell’opposizione, unite solo nell’obiettivo di realizzare un’alternativa democratica all’attuale sistema autoritario.

Questa polizia speciale al servizio dei falchi del regime - composto da circa 20mila uomini - dispone di mezzi potenti e risorse finanziarie ingenti, con carceri autonome e camere di tortura in tutto il Paese

Ma il Vevak è stato molto attivo nelle manifestazioni di giugno-luglio, operando soprattutto nelle intercettazioni (con sofisticate tecnologie, sembra fornite da Nokia e Siemens) per cercare di individuare i militanti più attivi nell’organizzazione delle proteste, anche attraverso il controllo degli sms dei cellulari. Per gli arresti (e le torture), in una perfetta ripartizione dei ruoli, il Vevak lasciava il campo ai pasdaran e ai basji. Anche se questo “corpo separato”dispone di mezzi potenti, di risorse finanzia-

temente al di sotto dei trent’anni, hanno dimostrato chiaramente di essere stanchi della trentennale dittatura religiosa: non tollerano più le forti ingerenze del clero conservatore, dei pasdaran, dei basji e dei mullah fondamentalisti. I giovani, dentro e fuori le università, continuano a rischiare ogni giorno il carcere, la tortura e la “sparizione” (non solo negli obitori, ma anche in varie parti delle periferie di Teheran e di altre città iraniane, vengono ritrovate salme di ragazzi che risultavano irreperibili). La sfida dei “ragazzi di Teheran” continua e si esprime sempre di più con Internet (Twitter,Facebook e altri social network). Le forme diventano sempre più creative e fantasiose per sfuggire al rigido controllo delle occhiute polizie del regime. Che sembra in agonia mentre si susseguono voci di dimissioni al-

Forse il programma nucleare (ormai in fase molto avanzata) contribuirà a superare l’attuale regime di KhameneiAhmadinejad. C’è, infatti, solo da sperare che non sarà necessario un intervento militare israeliano per distruggere i dieci siti nucleari iraniani, anche se la preparazione dei bombardamenti aerei è in corso da tempo (con l’avallo di Obama-Clinton, la stessa Arabia Saudita, che ha concesso il diritto di sorvolare il proprio spazio aereo, e dell’Egitto, che ha consentito ai sottomarini di Gerusalemme di navigare nel Canale di Suez). A fermare i missili atomici degli ayatollah saranno probabilmente proprio “i ragazzi di Teheran” .


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Riforme. Le spine della legge di Obama sull’assistenza medica: la ricchezza non andrebbe tassata, in America è un merito

La middle class e la sanità Usa di Osvaldo Baldacci

na guerra civile nella middle class statunitense: è questo il vero problema della riforma sanitaria, che è per Obama il primo duro banco di prova. Il presidente ha messo in gioco il suo prestigio, ma sconta già un paio di battute di arresto: il rinvio del Congresso e un consistente calo di popolarità, finendo sotto il livello di Bush nello stesso periodo. Com’è possibile che perda consenso perché vuole tutelare la salute dei suoi cittadini? A leggere la stampa italiana, questi americani continuano a sembrare dei cattivoni.

U

La riforma della sanità è la nuova frontiera dell’obamismo buono, mentre chi si oppone rappresenta la trincea dell’arroganza egoista dei ricchi che con sprezzo guardano chi non ha il sostegno medico. Ovviamente le cose non stanno proprio così, e questo spiega perché di traverso a Obama si mettono anche molti del suo stesso partito. Sia chiaro, è meritorio il tentativo di allargare l’assistenza sanitaria, la copertura per tutti è una cosa buona, ma per non cadere nell’antiamericanismo d’accatto che torna spesso di moda, il tutto va letto nel particolare e complesso contesto statunitense. La riforma sanitaria è terreno di scontro tra appartenenti alla classe me-

dia, molto più che tra ricchi e poveri. Il punto di partenza è che la copertura sanitaria completa negli Usa è delegata alle assicurazioni private. Si pagano poche tasse per la sanità di base, e poi privatamente si decide se investire una parte dei propri soldi per una copertura completa. E infatti la vera motivazione della riforma chiesta da Obama è che la sanità ha costi enormi, perché non è affatto vero che non venga data assistenza: gli Usa, nel 2007, hanno

La vera motivazione del presidente è che il sistema ha costi enormi, una spesa procapite di 7.500 dollari, doppia rispetto agli altri Paesi sviluppati speso 2.200 miliardi di dollari in assistenza sanitaria, una spesa procapite di 7.500 dollari, doppia rispetto agli altri Paesi sviluppati. Nei suoi discorsi, Obama ha chiarito che l’obiettivo principale è che la riforma sia a costo zero, e che riduca le spese. Porrebbe il veto a una riforma che non riduca i costi. E qui va smentito un altro luogo comune euro-italiano: negli Stati Uniti esistono già diverse forme di assistenza medica ai poveri. Il pronto soccorso (E.R.) è gratuito, e ha una valenza molto più estesa che da noi. Esistono dei programmi statali, rafforzati anche dalle amministrazioni repubblicane: Schip, Medicaid e Medicare, (piuttosto onerosi e per questo nel mirino di Obama) coprono rispettivamente i bambini, gli anziani (grazie a Bush tutti gli over 65), i più poveri. Certo, non è un sistema che garantisce tutti sempre e comunque, ma non siamo in Europa (anzi assomigliare al sistema europeo - visto come costosissimo e inefficace - terrorizza moltissimi americani) e questo va letto nel contesto Usa dove la sussidiarietà tra individui, realtà locali e federali è massima. Non tutti gli americani voglio-

no intaccare questi principi. Soprattutto, non vogliono farlo a loro spese. Una sensazione che per gli europei è inconcepibile: forse gli americani non vogliono la riforma del sistema sanitario, certo non la vogliono a tutti i costi. I cittadini che si pagano l’assistenza sanitaria, e che sono la gran parte, sono della classe media e medio-bassa, come lo sono quelli che non si pagano l’assistenza privata (47 milioni). Chi lo fa non vuole pagare ulteriormente per regalarla ad altri, e inoltre teme di perdere il diritto di scegliersi medici e servizi e paventa il crollo degli standard di qualità. La riforma costerà dai 1.000 ai 1.500 miliardi di dollari. Come rimediarli senza far collassare il budget? La modalità di finanziamento è importantissima. I poveri che hanno pagato sono sul piede di guerra, non vogliono pagare di nuovo per favorire chi non ha contribuito, pur guadagnando più di loro. Non far pagare chi ha già pagato è cruciale, ma difficilissimo. Un’ipotesi è quello di dare assistenza gratuita solo ai più poveri, e creare un sistema integrato di contribuzione obbligatoria per gli altri, ma la contribuzione obbligatoria è malvista. Al momento il presidente promette vantaggi per tutti: i soldi salteranno fuori dai fondi già destinati ai programmi esistenti, ripuliti dagli sprechi. Quanto manca sarà integrato

da una nuova tassa del 5,4 per cento sui redditi superiori ai 500mila dollari per i singoli e al milione per le famiglie (la proposta in discussione al Congresso ha cifre molto inferiori). E anche qua il piano Obama – che a noi europei pare sensato – contrasta con lo spirito americano. Per capirlo bisogna sottolineare tre punti: le tasse sono state già alzate per finanziare i provvedimenti di stimolo all’economia; secondo, le eventuali entrate fiscali sembrano ben lontane dal fornire una copertura sufficiente; terzo, nella mentalità americana la ricchezza non è una colpa, ma un misuratore di successo, che va premiato e indicato come modello. Molti temono che se si invertaequesto concetto, potrebbe crollare il modello americano, per il quale l’America deve dare opportunità a tutti (e quindi non dimenticare di assistere i meno abbienti) ma poi ciascuno è artefice del proprio destino.

Molti poi si chiedono a cosa serviranno i soldi della sanità pubblica. Anche a pagare gli aborti, ad esempio? Benché il tema rientri tra quelli non chiariti, rappresenta un altro fronte di ostilità verso la riforma. Infine quel che dice Obama affascina, ma poi qual è la vera sostanza del piano? Quali sono i dettagli, i fatti? Come ci si arriva? Per il presidente la riforma è urgentissima, ma è un lavoro in corso, e ha affermato di non avere un modello precostituito da applicare. Ha aggiunto poi che è necessaria, ma che certo non può garantire che non ci saranno cambiamenti nella qualità del sistema sanitario. Poco rassicurante. Vedremo come finirà, ma certo messa in questi termini la riforma sembra una forzatura, quello che di buono c’è – e ce n’è – potrebbe finire triturato dall’impazienza che sta spingendo a evitare una soluzione che forse sarebbe la migliore: varare delle riforme, sì, ma gradualmente. Se è vero, come dice Obama, che è in grado di frenare l’aumento dei costi delle polizze, difficilmente avrà qualcuno contro su questo. Se ha raggiunto l’accordo con i rappresentanti del mondo sanitario per ridurre i costi, anche questo sarà apprezzato. Se potrà abbassare i prezzi delle medicine, farà cosa gradita. E se taglierà gli sprechi sarà già un miracolo. Ma le rivoluzioni, quelle sono pericolose.


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Evasione rocambolesca con elicottero dal carcere di Bruges

Grazie a una talpa, arrestati molti amministratori locali e 5 rabbini

Trenta secondi per fuggire,dopo il sequestro del pilota

Fbi sgomina traffico d’organi e tangenti tra Usa e Israele

BELGIO. «È stato come in un

STATI UNITI. Riciclaggio di denaro sporco, estorsione, corruzione, e persino traffico d’organi: non mancava niente al giro di malaffare, sventato dall’Fbi nel New Jersey. Tutto sarebbe partito da un’inchiesta su di un mercato nero di borse false di una nota griffe italiana. E si è arrivati, dopo un lungo lavoro investigativo, a scoprire un un’agghiacciante traffico di reni e un’organizzazione di riciclaggio di denaro sporco tra Stati Uniti e Israele. La conclusione dell’inchiesta federale ha portato all’arresto di decine di poliziotti e rabbini, accusati di aver organizzato un racket degno di una sceneggiatura di Hollywood o di

film». Così ha raccontato la sua rocambolesca avventura, Ludwig Louwagie, il pilota di elicottero preso in ostaggio giovedì e costretto ad atterrare con il suo velivolo nel carcere di massima sicurezza di Bruges per far evadere tre detenuti. Tutto è iniziato, ha detto ai giornalisti, quando una coppia ha chiesto di fare un giro turistico in elicottero. Una volta decollati, ha raccontato il pilota, «io stesso ho mostrato ai passeggeri il carcere di Bruges e a quel punto l’uomo seduto dietro di me ha estratto una pistola puntandomela alla tempia». Niente giro turistico, ma rotta immediata verso il cortile del penitenziario. «Ho provato a far atterrare l’elicottero accanto al carcere», ha spiegato Louwagie, «ma la pistola mi è stata premuta con ancor più forza contro la tempia» nel tentativo di forzare una manovra pericolosa per via dei molti ostacoli presenti nella zona. I complici non avevano considerato il carico massimo che l’elicottero poteva trasportare. Una volta atterrati nel cortile e caricati a bordo tre detenuti fuggitivi, infatti, il pilota ha avvisato di non poter decollare, perché era stato superato il peso massimo al decollo. A quel punto, per evitare il fallimento

Caro Obama, rivedi gli errori su Israele Ecco perché aumentano le richieste impossibili di Abu Mazen di Daniel Pipes segue dalla prima Che sono: uno Stato palestinese indipendente; un ridimensionamento dei confini israeliani che tornerebbero a essere quelli esistenti prima del giugno 1967, senza un braccio di terra fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza; un “diritto al ritorno” palestinese in Israele; la risoluzione di tutte le questioni relative allo status permanente, in base al piano Abdullah del 2002; e infine uno stop incondizionato al progetto edilizio da parte degli ebrei a Gerusalemme est e in Cisgiordania. I palestinesi e gli americani sono i designati spettatori di questa lista di prelazioni; il documento mostra che simili pretese si limitano a ridurre la disponibilità israeliana a fare delle concessioni. Secondo risultato. Il governo Usa prende ordini di marcia da Abbas e li passa agli israeliani. Abbas si lamenta con gli americani che la costruzione di 20 appartamenti e di un parcheggio sotterraneo nel quartiere Shimon Hatzadik a Gerusalemme est, 1,4 km a nord della Città Vecchia, muterebbe l’equilibrio demografico di Gerusalemme. Il 17 luglio il dipartimento di Stato ha prontamente convocato l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, incaricandolo di bloccare il progetto edilizio. Qualche informazione. I sionisti fondarono il quartiere Shimon Hatzadik nel 1891, acquistando la terra dagli arabi, e poi, a causa di sommosse arabe e della conquista giordana, abbandonarono l’area. Amin al-Husseini, il mufti filonazista di Gerusalemme, costruì un edificio negli anni Trenta che in seguito ospitò l’Hotel Shepherd (da non confondere con lo Shepeard’s Hotel al Cairo). Dopo il 1967, gli israeliani dichiararono la terra “proprietà latitante”. Irving Moskowitz, un uomo d’affari americano, acquistò la terra nel 1985 e affittò l’edificio alla polizia di frontiera fino al 2002. La sua società, C&M Properties, due settimane fa ha ottenuto l’autorizzazione definitiva a restaurare l’hotel e costruire degli appartamenti in loco. Terzo risultato. La richiesta americana ha provocato una risolutezza israeliana volta a non infrangere le tradizionali posizioni, bensì a reiterarle. Oren ha respinto la richiesta del dipartimento di Stato. Il premier israeliano Netanyahu, che ha ammesso di essere rimasto“sorpreso”della pretesa americana, ha assicurato ai

colleghi «non mi darò per vinto sulla questione». Pubblicamente, Netanyahu ha chiuso la porta alle concessioni. Insistendo sul fatto che la sovranità israeliana su Gerusalemme «non può essere messa in discussione», egli osserva che «gli abitanti di Gerusalemme potrebbero acquistare degli appartamenti in ogni parte del paese» e ha rammentato che «negli ultimi anni centinaia di appartamenti nei quartieri arabi e nella zona occidentale della città sono stati acquistati dai residenti arabi - oppure affittati ad essi - e nessuno ha interferito». «Questa è la linea politica di una città aperta, priva di divisioni che non presenta delle separazioni a seconda dell’appartenenza religiosa o nazionale».

Poi la sua risentita chiosa: «Non possiamo accettare l’idea che gli ebrei non avranno diritto a vivere e ad acquistare abitazioni in qualsiasi zona di Gerusalemme. Posso limitarmi a spiegare a me stesso cosa sarebbe accaduto, se qualcuno avesse avanzato una proposta che vietava agli ebrei di vivere in certi quartieri di Londra, Parigi o Roma. Senz’altro ci sarebbe stato un grande clamore internazionale. Di conseguenza, non possiamo essere d’accordo con un simile provvedimento da applicare a Gerusalemme». Posizione, quest’ultima, rivendicata sia dal ministro degli Esteri Lieberman, sia da Yuli Edelstein, ministro dell’Informazione e della Diaspora, che ha aggiunto come la richiesta Usa «dimostri quanto sia pericoloso tirare dentro i colloqui la questione del congelamento di un insediamento. Perché potrebbero spingersi a immaginare un congelamento delle nostre vite in seno a Israele». Da quando l’amministrazione Obama ha dato il via al suo attacco contro gli“insediamenti”israeliani (27 maggio), fa mostra di un’inaspettata ingenuità e mi chiedo quando tornerà a rendersi conto che Washington fallisce quando dà ordini al suo principale alleato mediorientale. Di più: ha mostrato una vera e propria incompetenza attaccando briga in merito a una questione sulla quale già esiste un consenso israeliano: non su un remoto “avamposto”, ma su un quartiere di Gerusalemme che vanta un pedigree sionista dal 1891. Quanto tempo ci metterà Obama a comprendere il proprio errore e a ravvedersi? Quanti danni farà nel frattempo?

«Mi chiedo quando Washington capirà che è destinata a perdere quando dà ordini al suo principale alleato mediorientale»

dell’intera operazione, uno dei complici è stato costretto a restare a terra ed è stato subito catturato. L’elicottero si è quindi diretto verso Bruxelles ed è stato abbandonato, insieme al pilota, nei pressi di Aalter, vicino Gand, dopo un secondo atterraggio di fortuna. Adesso in Belgio è caccia all’uomo. I tre ricercati sono Ashraf Sekkaki, Mohammed Johri e Abdelhaq Melloul Khayari. Sekkaki, secondo le autorità di polizia belghe, sarebbe «un vero e proprio psicopatico». Il Belgio non è comunque nuovo a fughe rocambolesche come quella di ieri. Nel 2007, infatti, in modo analogo un detenuto era fuggito dal carcere di Lantin, vicino Liegi.

una delle puntate della soap «I Soprano». In manette sono finite 44 persone, tra cui 5 rabbini, i sindaci di tre città (Hoboken, Secaucus e Ridgefield) e due deputati locali. Una storia inquietante, anche per uno Stato che ha una lunga storia di cattiva amministrazione come il New Jersey. La gran parte dei funzionari arrestati sono accusati di aver intascato denaro, utilizzati per campagne elettorali, in cambio di favori. Le indagini si sono concentrate su una rete di riciclaggio di denaro che operava tra Brooklyn nella città di New York, Deal nello Stato del New Jersey e Israele: decine di milioni di dollari venivano «ripuliti» attraverso organizzazioni di beneficenza ebraiche, controllate da rabbini a NewYork e nel New Jersey. Il Federal bureau of investigation ha infiltrato una talpa, un informatore che, fingendo di essere uno spregiudicato uomo d’affari, ha pagato decine di migliaia di dollari per ottenere concessioni edilizie e appalti. Tra gli arrestati, un newyorkese, Levy Izhak Rosenbaum, che da dieci anni trafficava in reni umani per trapianto. Li acquistava da povera gente bisognosa, in Israele, per 10mila dollari e li rivendeva a 160mila sul facoltoso mercato americano.


cultura

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Libri. Nata da un progetto del Jerusalem Literary Project, esce per i tipi de ”Il Saggiatore” un’intervista di Bellow del 1999

L’indomabile Saul Le passioni, i romanzi, le polemiche roventi: il ritratto di uno scrittore combattente di Antonio Funiciello he quella di Saul Bellow, morto quasi novantenne quattro anni fa, sia stata una vita straordinaria, lo sanno tutti anche grazie alla bella biografia di James Atlas del 2000, inizialmente autorizzata dall’eccentrico scrittore per poi essere ripudiata in corso d’opera. Una vita straordinaria, dunque fuori dall’ordinario svolgersi della vita delle persone normali, non solo in termini letterari (dai National Book Award al Pulitzer e al Nobel), né tanto in termini strettamente biografici (5 mogli, 4 divorzi, l’ultimo dei 4 figli avuto a 84 anni). Quanto più per il carattere engagé che la sua esistenza ebbe in rapporto con la realtà culturale, sociale e

C

intervistare Bellow: scelta obbligata per rendere quell’elenco un vero e proprio florilegio. Gli episodi che Bellow gli racconta sono originali rispetto alla già citata biografia di Atlas e a ogni altro resoconto. Aneddoti talmente straordinari che Bellow stesso, nel riferirli a Manea, se ne sorprende. «Non ti rendi conto di com’è stata folle la tua vita finché non la racconti», è la sua chiosa.

Un primo, fantastico esempio di questa follia è il mancato incontro tra lo scrittore di Herzog e il teorico della rivoluzione permanente Leone Trotsky. Tra la fine del ’39 e gli inizi del ’40, il padre della quarta internazionale se ne sta in Messico,

«Chi è privo di ideali sociali a vent’anni è senza cuore, chi permane collettivista ancora a quaranta è senza cervello», commentò il Premio Nobel a proposito della sua gioventù politica dell’America e dell’intero Occidente. Bellow non fu mai uno scrittore militante alla polverosa maniera europea e, anzi, ebbe parole beffarde nei confronti di questo stereotipo. Egli fu piuttosto un umanista la cui fede nel sistema occidentale ha sempre indotto, e quasi fisicamente spinto, a sperimentare di quel sistema e di quella sua propria fede, le estreme conseguenze.

Oggi che il Saggiatore pubblica la trascrizione della lunga conversazione di Bellow col romanziere ebreo-rumeno Norman Manea voluta dal Jerusalem Literary Project (Jlp), ciò ci appare ancora più chiaro. Il Jlp è un progetto promosso dalla Biblioteca nazionale di Gerusalemme e dall’Università Ben Gurion di Negev, che raccoglie interviste di sei ore con scrittori e intellettuali, ebrei d’origine o israeliani di nazionalità. Da Amos Oz a Imre Kertesz, passando per Nadine Gordimer, Philip Roth, Doctorow, Steiner e Arthur Miller, si scorre un elenco delle teste più sveglie della seconda metà del Novecento. Dieci anni fa, nei giorni precedenti il Natale del 1999, Manea andò per conto del Jlp a

esiliato da più di dieci anni dall’Unione Sovietica, impegnata nella guerra contro la Finlandia, nel quadro complessivo che andava delineandosi in Europa del secondo conflitto mondiale. Il venticinquenne Saul vive a Chicago con la famiglia ed è trotskista. Si viene a sapere che dal buen retiro di Città del Messico, Trotsky manifesta la propria adesione all’attacco del confine finlandese da parte dell’Armata Rossa, di cui nel ’18 era stato fondatore e primo commander in chief. Un atteggiamento che secondo molti trotskisti in giro per il mondo contraddice lo spirito della quarta internazionale e manifesta una debolezza inaccettabile di Trotsky nei confronti di Stalin. Tra i trotskisti più inquieti e contrariati c’è Bellow, che nel ’40 legge di nascosto la Storia della rivoluzione russa, perché il padre non approva simili letture («Aveva ragione. Ma mi vergognavo che fosse così reazionario»). La madre dello scrittore è morta da poco e gli ha lasciato un’assicurazione di cinquecento dollari che il padre reclama per andare incontro alle ristrettezze economiche familiari. Ma Bellow è tormentato dall’appoggio di

Trotsky a Stalin e decide, con quei soldi, di partire con un amico per il Messico allo scopo di chiedergli spiegazioni. Trotsky è appena scampato a un attentato ordito da militanti stalinisti guidati dal pittore David Alfaro Siqueiros e si è perciò rifugiato in un sobborgo di Città del Messico. Da qui, il suo staff risponde alla richiesta di colloquio rivoltagli via lettera dal compagno Saul Bellow, fissando un appuntamento per il 21 Agosto. Quando lo scrittore e il suo amico bussano alla porta della residenza di Trotsky sono eccitatissimi, ma chi sconvolto li accoglie gli dice di andare all’ospedale dove Trotsky lotta tra la vita e la morte: il giorno precedente Ramon Mercader gli ha sfasciato la testa con una piccozza. «Andammo all’ospedale e alle nostre domande aprirono la porta.Trotsky era lì. Appena morto».

Dal trotskismo Bellow si allontana velocemente; come ha scritto altrove «chi è privo di ideali sociali a vent’anni è senza cuore, chi permane collettivista ancora a quaranta è senza cervello». Ma l’interesse e una certa passione per la politica continua ad alimentare la sua vena artistica fino all’ultimo capolavoro Ravelstein, biografia romanzata di un professore di filosofia politica ispirato ad Allan Bloom, l’autore de La chiusura della mante americana. Per tutta la sua vita è un acuto osservatore del costume sociale americano e dei leader politici che se ne fanno interpreti. Nell’intervista a Manea, ricorda di essere rimasto molto colpito da Reagan, «perché non avevo mai visto nessuno così a suo agio nel suo ruolo pubblico» e di avere in simpatia Clinton, che all’epoca del colloquio col collega rumeno occupa la Casa Bianca. Gli piaceva Kennedy. «Credo fosse

Una vita in prima linea Saul Bellow nasce il 10 Giugno del 1915 a Lachine, nella provincia canadese del Quebec, da genitori ebrei russi immigrati pochi anni prima. Romanziere

tra i più amati e premiati in America (dove con la famiglia si trasferì nel ’24) e nel mondo, ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratu-

ra nel 1976. Con Le avventure di Augie March, pubblicato nel 1953, Bellow rispolvera il romanzo picaresco per aprire una nuova fase nella letteratura nordamericana, inventando la figura del loser di origine ebraica che va alla scoperta del mondo occidentale. Una scoperta che è anche una occasione di rinascita per quel mondo stesso e che si contrappone alla figura del wasp decadente e tormentato di tanti autori della prima metà del Novecento. Bellow è stato un intellettuale tra i più critici nei confronti dell’omologazione culturale che negli States seguì la stagione del ’68, intervenendo con numerosi articoli e saggi sui maggiori quotidiani e riviste statunitensi. Oltre Augie March, altri suoi capolavori sono Herzog (1964), Il dono di Humboldt (1975) e Ravelstein (2000). Accanto all’adorata quinta moglie Janis Freedman e all’ultima figlia, la piccola Naomi Rose di soli 5 anni, Bellow muore il 5 aprile del 2005, nella sua casa di Brookline in Massachusetts.


cultura A fianco e nel riquadro due scatti di Saul Bellow, premio Nobel per la Letteratura nel 1976 e le copertine di due tra i suoi più celebri romanzi: ”Il re della pioggia” e ”Herzog”. Nato in una famiglia ebrea originaria di San Pietroburgo, immigrata in Canada nel 1915, si trasferì negli Stati Uniti nel 1924 a Chicago, dove ebbe la sua prima formazione culturale e morale. Un’esperienza basilare per la sua maturazione letteraria: gli antieroi di Bellow, per lo più uomini in crisi alla ricerca di se stessi, privi, alle volte, di grandi qualità, faticano ad inserirsi nel loro contesto sociale. In basso, Montale, Arendt e Manea un buon presidente e che abbia trattato con i russi in maniera corretta, molto appropriata. So che è considerato un cretino assoluto, ma devono ancora dimostrare che avesse torto». Bellow confessa di non avere mai amato né Ford, né Carter e di avere avuto sempre un debole per Hubert Humphrey, senatore democratico del Minnesota che fu vicepresidente di Johnson e concorse alla presidenza contro Nixon, dopo il brutale assassinio di Robert Kennedy, perdendo per un soffio. «L’ho conosciuto quand’era sindaco di Minneapolis e io ero un giovane assistente all’Università del Minnesota. Era molto intelligente, cordiale, affabile, affettuoso, un vero democratico delle praterie. Non recitava. Non si dava delle aree nemmeno

quando fu vicepresidente. Beh, è difficile per un vicepresidente darsi delle aree, perché quella del vicepresidente è la posizione più tremenda: non si diventa mai presidente, a meno che il presidente non muoia». Insomma, Hubert Humphrey piace tanto a Bellow perché somiglia moltissimo a quei meravigliosi, ironici loser che popolano i suoi romanzi.

Ma la vita engagé di Bellow si diverte anche a intrattenere rapporti burrascosi col mondo accademico ufficiale, non solo quando lo scrittore è ormai acclamato in tutto il mondo, ma anche quando è uno sconosciuto letterato alle prime armi. Nei primi anni ’50, Bellow insegna presso il prestigioso Bard College di Annandale-on-Hudson

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nello Stato di New York, che conta allora tra i suoi insegnanti Hannah Arendt, cordialmente detestata dallo scrittore («Aveva un piede nel nazismo, con Heidegger, l’altro nel comunismo, con il suo secondo marito, Bleicher, che al Bard era professore di filosofia»). Nel rinomato college di Annandale, il giovane Bellow entra in contrasto con il prestigioso baronato locale, assai scettico nei confronti degli scrittori contemporanei. La più potente baronessa del Bard è la professoressa Irma Brandeis, studiosa di Dante e preside del Dipartimento di italianistica. Proprio quella Irma Brandeis che per anni fu l’amore segreto di Eugenio Montale e da questi trasfigurata in Clizia, il visiting angel di centinaia di splendidi versi del nostro più grande poeta. Come è noto, alla fine degli anni Trenta la Brandeis cercò di convincere Montale a lasciare l’Italia fascista e a seguirla in America, dove era pronta per lui una cattedra al Bard College. Si sa che il poeta rifiutò, vivendo nel rimpianto del mancato trasferimento negli States. Per poco, davvero poco, Bellow e Montale non divennero colleghi. Il romanziere, che ai tempi del Bard si apprestava a pubblicare il libro che – a detta di Philip Roth – avrebbe cambiato per sempre la letteratura nordamericana (Le avventure di Augie March), entrò in aperto

suoi confronti pronunciò nelle prime righe di Augie March: «Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella tetra città – affronto le cose come ho imparato a fare, senza peli sulla lingua, e racconterò la storia a modo mio: primo a bussare, primo a entrare; a volte un colpo innocente, a volte non tanto. Ma il destino di un uomo è il suo carattere, dice Eraclito, e tutto sommato non è possibile dissimulare la natura dei colpi foderando la porta di materiale isolante o rivestendo di guanti le nocche». Ecco, si può dire senza alcun eccesso retorico che mai nella sua vita Saul Bellow ha rivestito di guanti le nocche delle sue mani, tant’è che i colpi dati alle mille porte dove ha bussato, hanno riecheggiato potenti nelle stanze che dovevano nascondere chissà cosa ed erano spesso vuote.

Se l’America è oggi il centro del mondo, lo deve di certo ai suoi presidenti, ai suoi imprenditori, ai suoi impavidi soldati. Ma senza il soft power di quell’egemonia culturale costruita nel secolo passato, la sua centralità politica, economica e militare non sarebbe così evocativa e indispensabile per il mondo contemporaneo. Bellow è uno dei simboli di questa egemonia. Lo è stato per tutta la sua vita, anche quando da giovane rivoluzionario buttò via i soldi della mamma morta per

«Affronto le cose come ho imparato a fare, senza peli sulla lingua. Il destino di un uomo è il suo carattere, dice Eraclito, e tutto sommato non si può dissimulare i colpi foderando di guanti le nocche» contrasto con la Brandeis, contestando il suo classicismo. Solo molti anni dopo, i due si riappacificarono, con la cortese revisione da parte di Bellow delle sue tesi, in favore di molti degli argomenti della Brandeis. Ma nei confronti della Harendt restò risolutamente dello stesso critico avviso. Questa l’America di Bellow: ricca di pensiero, vivace di spirito, assetata di sogni, indomita di speranze. Un po’ come lo scrittore, che tanto attinse del magnifico fisico statunitense, a partire dalla dichiarazione d’amore che nei

andare a trovare Trotsky. Ricordando la sua giovinezza, Bellow confessa sagace e impietoso a Manea: «A quei tempi avevo un aspetto davvero orribile. Sembravo una causa persa. Ma credo che una delle cose che bisogna dire degli Stati Uniti è che ti garantiscono il privilegio, sebbene tu sia un idiota, di esserlo senza provocare grossi danni. E se poi diventi un maledetto scemo, beh, è il momento giusto per esserlo e sei comunque in tempo per correggere Vera potenza l’errore». dell’american way.



spettacoli

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Libri. Presto in Italia il nuovo romanzo di Elmore J. Leonard ultimo lavoro di Elmore Leonard, Road Dogs è un occasione celebrativa dell’opera ultradecennale del romanziere americano che più di tutti ha saputo rappresentare la migliore stagione del Pulp americano. Road Dogs riunisce tre personaggi dei romanzi di Leonard Jack Foley, Cuando Rey, un ricco truffatore e un rifugiato cubano, e Dawn Navarro, una bella sensitiva. Road Dogs è la storia di Jack Foley, gentleman e rapinatore di Banca, che viene beccato durante una rapina semplice semplice.Torna in prigione per scontare una sentenza di trenta anni dopo una fuga durata una settimana.

L’

Foley è stato preso da Karen Sisco, nel loro rincorrersi Jack e Karen sperimentano una strana comunione, qualcosa che non riescono a cogliere, e Karen arresta Jack al termine di una densa pausa narrativa in cui i due rimangono a tu per tu: un uomo e una donna per un attimo svuotati dell’abito che si sono ritagliati in una vita di errori ed occasioni perse. In carcere Jack si sta arrendendo a se stesso, si prende del tempo, molto tempo e sembra aver raggiunto un buon grado di controllo sui suoi istinti criminali dentro cui è rimasto imprigionato. La sua calma la sua tranquillità impressionano Cuando Rey, un assassino. Cuando riesce ad orchestrare una grossa riduzione della pena per Foley, ma ha un favore da chiedergli quando entrambi saranno fuori. La moglie di Cuando, Dawn, crede di essere sulla strada della santificazione sotto l’occhio negligente di un improbabile monaco. Foley divenuto libero viene usato da Cuando proprio mentre è sotto pedinamento dal detective dell’Fbi Lou Adams, ma in un atti-

Road Dogs, il ritorno del maestro del Pulp di Giampiero Ricci mo Dawn lo seduce e la storia prende tutta un’altra piega. Con Road Dogs (i rumors dicono a breve anche in Italia), torna nelle librerie un romanziere leg-

na di Tarantino. Elmore Leonard ha scritto decine di libri e numerose sceneggiature per Hollywood, compresi Quel treno per Yuma, Io sono Valdez, Get

Un autore leggendario dalla luminosa e lunga carriera iniziata negli anni ’70 scrivendo racconti “new west”. Uno scrittore capace di anticipare di qualche decennio la fortuna di Quentin Tarantino

Elmore John Leonard Jr. (sopra). In alto, le locandine di tre dei film più celebri tratti dai romanzi di Leonard: Jackie Brown, Quel treno per Yuma e Get Shorty

gendario dalla lunga e luminosa carriera iniziata negli anni ’70 scrivendo racconti di un west nuovo e irriverente, uno scrittore capace poi di virare su un racconto noir che per le sue trame intrecciate e i suoi personaggi figli di una società ‘malata’ anticipa di qualche decennio la fortu-

Shorty, Joe Kidd, Hombre, 52 Gioca o muori, Out of Sight, Get Shorty, Jackie Brown e Be Cool, tutti lavori tratti da sue storie.

La sua letteratura è stata paragonata a quella di Balzac, di Dostoevsky ma molto più prosaicamente i suoi fan lo amano

Nel 2001 Einaudi ha iniziato la pubblicazione delle opere complete

Da “Get Shorty” a “Jackie Brown” Elmore John Leonard Jr., nato a New Orleans nel 1925, è uno scrittore, sceneggiatore e produttore cinematografico. Molti dei suoi romanzi sono stati tradotti in Italia negli anni Settanta, ma il riscontro di critica e di pubblico non era mai stato straordinario. Negli ultimi anni la situazione è cambiata in maniera radicale, sull’onda del grande successo di alcuni film tratti da suoi lavori, come Get Shorty, Jackie Brown, Be Cool e Out of Sight. Il rinnovato interesse per i romanzi di Leonard ha spinto Einaudi a iniziare, dal 2001, la pubblicazione italiana delle opere complete del-

l’autore alternando i nuovi romanzi al recupero dei titoli inediti in Italia. L’attuale traduttore italiano di Leonard è Luca Conti, cui si devono Il grande salto, Hot Kid, Tutti i racconti western, Killshot e l’imminente (per il nostro Paese) Road Dogs; Wu Ming 1 ha tradotto quattro romanzi (Tishomingo Blues, Mr. Paradise, Cat Chaser e Freaky Deaky), mentre Ottavio Fatica ha curato l’edizione italiana di Quando le donne aprono le danze. Nel dicembre 2006 Leonard ha ricevuto il Raymond Chandler Award al Noir in Festival di Courmayeur.

per la maestria con cui tratteggia un mondo caotico e violento, pieno di mistero e colpi di scena.

Al suo lavoro devono in molti tanto, da Saul Bellow a Stephen King tutti riconoscenti verso l’originalità e il suo stile in cui si preferisce «...esplorare il lato oscuro, quello della criminalità cercando ogni volta di cambiare ambientazione: da Detroit ad Atlantic City, da New Orleans a Las Vegas. Ho così costruito storie nelle quali ho voluto che fossero soprattutto i dialoghi dei miei protagonisti a scandire le loro vicende e a renderli veri agli occhi dei lettori». In italia le recenti pubblicazioni che lo riguardano sono state Tutti i racconti western (2008, pagg. 676), Freaky deaky (2007 pagg. 294), Hot Kid (2006 pagg. 313), tutti editi da Einaudi. Gustosa la raccolta dei racconti western dove in scena non vanno eroi pronti a sfidarsi all’ultimo sangue ma gente vigliacca di cui guardarsi alle spalle, tutti alla ricerca di uno spazio meschino nel mondo da guadagnarsi con ogni mezzo, una ricostruzione figlia di un intensa ricerca bibliografica che ha portato Leonard per anni direttamente sopra le fonti all’origine del mito dei cowboy, ben prima che le tv di tutto il mondo fossero inondate da centinaia di serie che avrebbero raccontato l’epopea di una frontiera mai esistita. In fin dei conti la letteratura di Leonard ci parla di guerre, guerre personali, guerre criminali, guerre con il mondo e per il mondo, con una civiltà in bilico tra il perdersi nell’anarchia e l’eccesso di ordine. Così, condita nel mito ed attualizzata nelle verità di una società violenta cui dobbiamo obtorto collo abituarci giorno per giorno, va in scena il nostro scontro di civiltà. Qualcosa che Elmore Leonard racconta da sempre.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Time” del 16/07/2009

I numeri cinesi di Bill Powell e bastassero i numeri a spiegare tutto, allora la Cina potrebbe dire di avercela fatta. In apparenza sembrerebbe essere uscita dalle secche di una delle peggiori crisi economiche degli ultimi 30 anni. Tenendo conto che, alla fine dello scorso anno, aveva visto la crescita paralizzata dal crollo delle esportazioni, fondamentali per lo sviluppo di Pechino. Il governo aveva risposto con un pacchetto anticrisi di 585 miliardi di dollari, diretto soprattutto verso investimenti massicci per infrastrutture all’interno del Paese. Al momento, sembra che questa politica stia funzionando.

S

La Cina ha annunciato che, nel secondo trimestre dell’anno, il pil ha raggiunto il 7,9 per cento, poco sotto l’obiettivo che il governo aveva stabilito per il 2009. «La forte accelerazione dei fondamentali economici è ormai inconfondibile» ha dichiaratoYu Song, analista di Goldman Sachs con base ad Hong Kong. L’accelerazione – nel primo trimestre il pil era solo al 6,1 per cento – è senza bubbio una buona notizia per i partner commerciali della Cina, in modo particolare per quei Paesi asiatici che esportano materie prime per le industrie. Le importazioni dei metalli industriali semilavorati, nell’ultimo trimestre sono levitate di più del 35 per cento, man mano che la spinta del settore delle infrastrutture dava forza all’intera economia. Nel complesso gli investimenti fissi hanno raggiunto una quota vicina al 33,5 per cento, su base annua. Cifre che ricordano la crescita spettacolare degli anni passati. Molta della spinta alla crescita, nel settore degli investimenti, viene dalla forza bruta dell’azione governativa, cioè dai prestiti bancari fatti alle grandi aziende di Stato. Che in pratica si sono messe a costruire di tutto, dalle linee ferroviere ad alta velocità, alle nuove autostrade ai ponti in tutta la Cina. Ma gli

economisti hanno notato subito che ci sono stati altri settori, oltre quello delle costruzioni, ad aver beneficiato della ripresa. In modo particolare il settore degli investimenti immobiliare è cresciuto del 18 per cento nell’ultimo trimestre, molto al di sopra di qualsiasi previsione. Per gli analisti che rimangono ancora scettici sulla reale ripresa dell’economia di Pechino, i dubbi maggiori scaturiscono dall’annuncio di questi ultimi dati. Il primo riguarda l’affidabilità dei numeri forniti dalle autorità governative – ciò che un manager di hedge-fund americano definisce «il fattore frottole cinesi». Nel primo trimestre si è detto che il pil era cresciuto del 6,1 per cento, ma nello stesso periodo il dato del consumo di energia elettrica era in netto declino in tutto il Paese. Come una nazione come la Cina possa crescere del 6 per cento usando meno elettricità, rimane un mistero. In più nel primo semestre i dati del traffico commerciale su rotaia sono stati tutti negativi. Come tutto ciò possa accordarsi con i numeri della ripresa non è chiaro. Ma l’ultima relazione sulla crescita economica forse ci dimostra che il «fattore frottole», forse, è meno importante di quanto possa apparire. La produzione d’energia elettrica ha avuto un ritorno di fiamma nel secondo trimestre. Alcuni analisti ritengono che il calo di consumi, alla fine dello scorso anno e all’inizio del 2009, sia stato legato al calo di produzione dei grandi consumatori: i produttori di acciaio e allumi-

nio. A causa della contrazione della domanda globale di prodotti finiti. Ora gli investimenti statali avrebbero riacceso gli altiforni. Andrew Barber, esperto di Asia di Research Edge, con base nel Connecticut, è convinto che l’Ufficio nazionale di statistica di Pechino «sa bene che nel mercato ci sono dei dubbi sull’affidabilità dei dati che presenta. Ma, al contrario di un anno fa, sta tentando di fare dei piccoli passi verso una maggiore trasparenza».

La domanda che si fanno tutti è se questa ripresa sia solo un fuoco di paglia innescato dai fondi pubblici. Il rating sulla crescita cinese sta salendo fino al 2010. L’aumento dei consumi interni potrebbero sostenere la crescita, anche una volta che la spinta statale dovesse cessare. Sta aumentando il prestito bancario, ma ce da chiedersi se sia legato alle speculazioni. Qualcuno è convinto che Pechino stia bruciando risorse per il futuro e che non abbia altra scelta.

L’IMMAGINE

L’Italia sovraffollata non può accogliere clandestini e ridurre i nostri spazi di libertà L’Italia è sovrappopolata da 60 milioni di abitanti regolari, più i clandestini. La densità demografica italiana è di circa 200 abitanti per chilometro quadrato, quasi il triplo della densità europea. La quantità di superficie lorda disponibile è di circa 5000 metri quadrati a testa in Italia, meno d’un quarto del dato mondiale di 22.700 metri quadrati pro capite. Togliendo i terreni montuosi e altre aree sostanzialmente indisponibili, la Sau (Superficie agraria utilizzata) in Italia si riduce a circa 2.000 metri quadrati per abitante. È, evidente il sovraffollamento del Belpaese, che riduce i nostri spazi di libertà, con regole sempre più vincolanti: esperimenti su cavie dimostrano che l’eccessivo ammassamento può ridurre la qualità della vita e incrementare aggressività, tensioni, conflitti e crimini. Il valore dell’individuo viene eroso per “inflazione”, che genera la massa. La disoccupazione cresce. La congestione acuisce lo stress, i sinistri, le lesioni e i decessi causati dalla mobilità.

Gianfranco Nìbale

INCOERENZE INDOTTE Napoli adesso sprofonda sotto il fango dei liquami che vengono smaltiti indisturbatamente nel mare. Cosa dovrebbe succedere ad un bagnante in quei pozzi di rifiuti umani, compresi i resti ospedalieri con tanto di vibrione allegato? Poi ci lamentiamo che la gente scappa, nella paura che si possano scatenare come conseguenza le malattie inguaribili. L’inquinamento in Campania è un dato di fatto, connesso direttamente con un malaffare, che si arricchisce anche così. Serve un ricambio istituzionale, il più completo possibile, anche perché, speriamo di averlo tutti capito, i vecchi amministratori della sinistra prima fanno piedino al governo per non essere scaraventa-

ti nel vortice del ciclone, e poi si attrezzano di nuovo e criticano lo stesso esecutivo per essere la rovina dell’Italia. Se solo immaginassimo che tutto ciò corrisponde ad un calcolo preciso, per togliersi di torno le scomodità e prendere tempo, si capirebbe che il mercato del malaffare trae vantaggio anche da questo e si fonda, nell’arricchimento sui prodotti facili, sulle incoerenze indotte, poste alla fine come elemento di ricatto economico per le situazioni di emergenza.

Clementina D’Angelo

L’ITALIA DEI VALORI NEGATI L’unico a commentare negativamente le parole del presidente Napolitano sulla necessità di concordia istituzionale affinché

Buon appetito e... figli maschi Se vuoi un figlio, mangia più frutta e verdura. Il consiglio per gli aspiranti papà viene da una ricerca condotta all’Istituto Bernabeu di Alicante, in Spagna e riportata dalla rivista Fertility and Sterility. Secondo i ricercatori gli uomini che mangiano più vegetali avrebbero uno sperma (qui al microscopio) migliore di chi si rimpinza di carni e insaccati. Una dieta povera di grassi, quindi, favorisce la fertilità

possa superare i dissidi tra maggioranza e opposizione, è stato Di Pietro. Indipendentemente dal fatto che un partito che richiama i valori di una Nazione dovrebbe capire che le parole di Napolitano sono un richiamo ad un moto fondamentale dell’animo chiamato concordia, il leader dell’Idv vuole candidarsi allo stesso modulo di opposizione che ha reso

l’Italia inabile alla dinamica politica e alle riforme.

Enzo Polillo RIFORMA DEL LAVORO

La svolta vincente per il nostro governo di destra, non potrà che essere nella riforma del lavoro. Un meandro intoccabile, nel quale si sono dissipate troppe energie, che dovevano convergere nel miglioramento del welfare, ed invece si so-

no stagnate per l’arroccamento dei sindacati. Ma il dialogo con le forze del lavoro serve, perché il chiodo va battuto quando è caldo: adesso più che mai c’è bisogno di un dialogo costruttivo con le forze di governo da parte di tutte le confederazioni, per cambiare le tristi realtà comuni a molti contratti, non adeguati al costo della vita.

Bruna Rosso


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sono sempre in volo intorno a te Reduce dalla poltrona del dentista, un po’ stordito. Ha lavorato per due ore e mezza a trapanare e otturare. Ho tolto anche tutti i denti cattivi e cariati, sei denti cariati, dico sei tutti insieme. Il mio stato generale di salute adesso è buono. Mi sento come se insieme al sangue mi circolasse un vigore nuovo: e lo devo a te Mary, madre del mio cuore. Ciò che mi hai detto quando eri qui mi ha fatto render conto di quanto disperatamente solo io sia stato tutti questi anni. Se mi sento vicina a te? Mi sono mai sentito lontano? Non sono più che vicino sempre? Non sono sempre in volo intorno a te, come un uccello aleggia intorno al nido? Tra noi, Mary, c’è una divinità ignota dal piede saldo, le mani e gli occhi sempre aperti, la mente inalterabile. Un giorno mi udrai dire nuovamente tutto questo, in un altro mondo: un mondo più vicino al sole. La tua lettera segna una nuova era nella mia vita. Mi inonda di fiamme. Mi sento come se fosse stata dichiarata guerra tra noi e il mondo. Ma vinceremo noi, alla fine. Trionferemo. Non avrei potuto dirlo un mese fa: non sono più un sognatore. Il mondo dei sogni è bello, ma c’è una regione al di là, dove dimora l’Assoluto. È davvero sorprendente come si senta bene adesso. Kahlil Gibran a Mary Haskell

ACCADDE OGGI

AAA CEDESI MEDAGLIA D’ORO IN CAMBIO DI CONTRATTO DI LAVORO Come ad ogni calamità, evento, grande incidente, tutti propongono medaglie d’oro per i Vigili del Fuoco. Ma oramai tutti sanno che i Vigili del Fuoco hanno il contratto scaduto, possiedono automezzi che risalgono come immatricolazione al 1980, hanno organici ben al disotto dei parametri europei, mancano 15.000 Vigili professionisti. A questo punto ci sentiamo di proporre o patteggiare qualche medaglia d’oro con una di queste cose che ci manca. In questi anni abbiamo dimostrato che, se mai fosse stato necessario, con o senza medaglie d’oro, noi Vigili del Fuoco, il nostro lavoro di professionisti per garantire l’incolumità della gente, lo facciamo ugualmente (purtroppo anche con il contratto scaduto e straordinari arretrati da saldare) e forse per questo se ne approfittano i nostri governanti! In Abruzzo i nostri dirigenti hanno collocato il casco pompieri sulla testa a tutte le maggiori autorità politiche e spirituali, dal capo dello stato Napolitano al Papa, costume poi reiteratosi con l’avvento del G8 facendolo indossare pure ai potenti della terra! Ora ci chiediamo: cos’altro di mediatico si inventeranno? Sicuramente qualche dirigente del Cnvvf con tutte queste nuove “amicizie” politiche fatte all’Aquila è stato o verrà promosso... ma ai pompieri (per esempio) di Sondrio, di Lampedusa, d’Italia in-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

25 luglio 1952 Porto Rico diventa un territorio autogovernato degli Stati Uniti 1956 Il transatlantico italiano Andrea Doria affonda dopo essersi scontrata nella nebbia con la Stockholm: 51 vittime 1968 Papa Paolo VI pubblica l’enciclica Humanae Vitae 1969 Guerra del Vietnam: il presidente statunitense Richard Nixon dichiara la Dottrina Nixon, secondo la quale gli USA si aspettano che gli alleati asiatici si preoccupino della propria difesa militare 1973 Viene lanciata la dodicesima sonda verso Marte, nell’ambito della missione russa Mars 5 1978 Nasce Louise Brown, la prima dei cosiddetti bambini in provetta 1984 Svetlana Savitskaja, cosmonauta della Salyut 7, diventa la prima donna a camminare nello spazio 1994 Israele e Giordania firmano la Dichiarazione di Washington che pone formalmente fine allo stato di guerra che esisteva tra le due nazioni dal 1948

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

somma cosa rimane? Sempre e solo il contratto scaduto, bollette da pagare, la spesa da fare... senza avere credito. La previsione, la prevenzione e non per ultimo il soccorso sono una questione culturale che investe tutta la parte produttiva della nazione, ma in italia, a queste importanti questioni vengono assegnate risorse insufficienti; le poche che vengono investite nel principale ente di protezione civile come quello dei Vigili del Fuoco ci fa dire che il governo italiano deve imparare ancora molte cose dalle sue tragedie, rispetto agli altri paesi Europei. Il debito che tutti Comandi provinciali hanno contratto con aziende esterne è elevato, le risorse che ci saranno per il 2009, serviranno forse a pagare solo il 50% del debito 2008! Appare evidente che questa situazione è destinata al collasso! Tante e troppe le promesse della parte politica: ora vogliamo delle risposte, degli impegni concreti e auspichiamo che il capo del dipartimento dei Vigili del Fuoco possa durante il prossimo incontro rispondere anche solo in parte ai tanti quesiti posti dai rappresentanti dei lavoratori.

Vladimiro Alpa

VOCAZIONE D’INSEGNANTE E VOCAZIONE DI GENITORE «All’insegnante, come al medico, occorre la vocazione», rinfaccia il genitore alla maestra elementare, che gli replica: «anche ai genitori».

Gianfranco Nìbale

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

L’EUROPA DICE SÌ ALL’ALLARGAMENTO DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI È giunto l’ok della Commissione europea all’accordo che prevede di destinare 8 miliardi di euro per il biennio 2008-2010 agli ammortizzatori sociali. L’intesa riguarda il finanziamento degli ammortizzatori sociali, ovvero di misure a sostegno del reddito di quella platea di lavoratori generalmente esclusi dagli ordinari strumenti di integrazione: dipendenti di pmi, artigiani, co.co.pro, contratti a termine, ex interinali e apprendisti. Di questi 8 miliardi, 5,35 saranno a carico dello Stato, mentre i restanti 2,65 dovranno essere stanziati dalle Regioni, le quali faranno ricorso alle risorse messe a disposizione dal Fondo sociale europeo (Fse). Proprio su questo punto si erano attestati i maggiori dubbi. Come noto, infatti, i fondi del Fse possono essere utilizzati solo per finanziare politiche attive e non, quindi, politiche passive le quali in sostanza si riducono a provvedimenti di carattere assistenziale. Tali incertezze sono state, tuttavia, fugate proprio con l’approvazione del provvedimento da parte della Commissione europea. Ben presto molti lavoratori potranno usufruire di questo sostegno al reddito. Il provvedimento è stato accolto positivamente, in quanto in molti hanno giudicato necessario un intervento per migliorare il sistema delle tutele sociali, soprattutto in un periodo così delicato e critico. Ma non mancano le perplessità. In particolare ci si chiede quanto sia producente investire in politiche assistenziali risorse concepite per l’attuazione di progetti tesi a favorire lo sviluppo e la crescita del tessuto produttivo. Su questo punto si sono espresse molte associazioni di categorie le quali, pur riconoscendo l’importanza di destinare degli aiuti ai lavoratori in difficoltà, non hanno potuto fare a meno di sottolineare che il “dirottamento” delle risorse altrimenti destinate a sostenere le imprese, alla lunga potrà rivelarsi inefficace. Si è sottolineato, infatti, che sarebbe molto più utile utilizzare i fondi comunitari investendo in programmi di specializzazione del personale, che potrebbero garantire ai lavoratori, oggi precari, una maggior flessibilità e preparazione. È per questo che da più parti si insiste per associare alle misure di sostegno del reddito, ulteriori provvedimenti indirizzati a supportare specificamente le imprese, vero motore e cuore pulsante, del sistema economico. Paolo Carotenuto L I B E R A L GI O V A N I NA P O L I

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


Da sabato prossimo un motivo in più per leggerci

liberal estate otto pagine speciali per cambiare il tempo d’agosto • Il personaggio del giorno • Le ricette dei grandi scrittori • Le grandi battaglie della storia • I capolavori dimenticati • I quiz letterari


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