90729
La buona educazione consiste
di e h c a n cro
nel nascondere il bene che si pensa di se stessi e il male che si pensa degli altri
9 771827 881004
Mark Twain di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 29 LUGLIO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Deve mutare anche il modello organizzativo
Il Nuovo Centro: né solo tessere, né finte primarie di Francesco D’Onofrio l dibattito sul partito di programma si è fino ad ora caratterizzato quasi esclusivamente in riferimento ai programmi locali e regionali anche in vista delle prossime elezioni regionali. Quella del partito di programma costituisce in realtà una innovazione strutturale dell’idea stessa di partito quale è stata posta a fondamento della cosiddetta prima Repubblica. Le vicende che hanno dato vita in Italia, dopo la seconda guerra mondiale, ad un grande partito di ispirazione cristiana – la Democrazia cristiana – e ad un grande partito di ispirazione marxista – il Partito comunista italiano – hanno finito con il caratterizzare la natura ideologica, ferrea, centralistica anche dei partiti minori rispetto a Dc e Pci, in quanto si riteneva che l’unico asse di fondo delle scelte politiche fosse quello caratterizzato da destra, centro e sinistra. E la collocazione di un partito lungo questo asse comporta anche ovviamente scelte di programma definibili appunto di destra, di centro o di sinistra.
I
segue a pagina 5
L’unità minacciata da Nord e da Sud
Ora ci vuole davvero un partito della nazione
Stanno prendendo in giro il Capo dello Stato
BUGIE DI GOVERNO
«Ne terremo certamente conto»: così Berlusconi e Maroni avevano risposto ai rilievi di Napolitano alla legge sulla sicurezza. Ma le ronde si scontrano e nulla è cambiato...
alle pagine 2 e 3
Geithner annuncia una riforma congiunta della finanza internazionale
Il duopolio del XXI secolo
di Gennaro Malgieri hi doveva dirlo che al culmine del primo decennio del Ventunesimo secolo ci saremmo ritrovati ancora immersi nella “questione meridionale” che di quella settentrionale è lo specchio capovolto? E chi avrebbe mai immaginato che la disunità d’Italia sarebbe stato il motivo conduttore della polemica politica nel tempo della crisi della globalizzazione e dei mercati mondiali e delle guerre etnico-religiose e dei conflitti culturali? E a nessuno sarebbe venuto in mente che il progetto di celebrare i centocinquant’anni dello Stato nazionale, dell’avvenuta unificazione della Penisola, della smentita della celeberrima opinione del principe di Metternich, secondo il quale l’Italia era soltanto un’espressione geografica, avrebbe dato la stura ad un oceano di polemiche testimonianti drammaticamente l’inesistenza dell’Italia come identità, memoria, progetto.
C
segue a pagina 4
È arrivato il momento della quinta Nato di Mario Arpino a pagina 14 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
Siglato un patto di governance tra Pechino e Washington di Vincenzo Faccioli Pintozzi orse, il maggior segnale di serietà viene proprio dalla mancanza di notizie. Il grande meeting bilaterale fra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese che si è concluso ieri a Washington ha infatti brillato per assenza di dichiarazioni. Certo, l’apertura affidata al carismatico Barack Obama e il suo appello a «un nuovo ponte di cooperazione» fra i due giganti mondiali ha scatenato le prevedibili, e corrette, reazioni positive. L’idea suggestiva della creazione di un G2, un embrione di governance mondiale nelle mani dei due padroni reali del mondo, ha scatenato una ridda di polemiche e di speculazioni. Che si
F
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
148 •
Mai un neo-presidente così basso nei sondaggi
Ma negli Usa il consenso di Obama sta crollando
sono però scontrate proprio con la riservatezza del giorno successivo - ieri, appunto - quando a parlare sono stati il Segretario al Tesoro statunitense Timothy Geithner e il vice premier cinese Wang Qishan. Che non è omologo del primo, ma detiene il potere effettivo a Pechino per sviluppare nella realtà le suggestioni dell’incontro. Un incontro privato e a porte chiuse. Prima di iniziare gli impegnativi colloqui con i propri ospiti, Geithner ha dichiarato: «Oggi parleremo di una effettiva riforma del governo finanziario, che deve evitare nuove crisi».
opo sei mesi, le percentuali di gradimento per l’operato del presidente Barack Obama risultano inferiori a quelle di dieci degli ultimi dodici inquilini della Casa Bianca. Rasmussen Reports riferisce che le stime effettuate quotidianamente sulla popolarità del neo-presidente hanno registrato una flessione di 10 punti percentuali: e cioè, un 30 per cento degli americani «approva in pieno» l’operato di Obama, mentre il 40 lo disapprova. Il sostegno al tema di cui Obama ha fatto il proprio biglietto da visita, la riforma sanitaria, è ogni giorno più flebile.
segue a pagina 10
segue a pagina 10
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Michael Novak
D
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 29 luglio 2009
Scontri. Le bande di Massa e i dubbi sull’iscrizione all’anagrafe dei figli dei clandestini riaprono un conflitto tra le istituzioni
Il Napolitano tradito
«Terremo conto dei rilievi del Quirinale sulla sicurezza», aveva detto il governo. E invece su ronde e clandestini non è cambiato niente di Franco Insardà
ROMA. «Terremo conto dei rilievi di Napolitano», ha garantito Silvio Berlusconi. «Una lettera politicamente incisiva», ha aggiunto Gianfranco Fini. Peccato però, che alla prova dei fatti nessuno nel Pdl abbia preso in considerazione le «perplessità e le preoccupazioni» del presidente della Repubblica sul pacchetto sicurezza che entrerà in vigore l’otto agosto. L’attenzione era rivolta ad alcune norme ritenute: «tra loro eterogenee, non poche delle quali prive di organicità e sistematicità». Ronde e clandestini i punti più ostici del provvedimento, che i fatti di cronaca stanno evidenziando. Con la spada di Damocle dei regolamenti attuativi Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, prova dribblare la questione: «Speriamo che gli italiani ad agosto pensino alle vacanze e non a organizzare le ronde. Il presidente Berlusconi starà valutando le eventuali correzioni da apportare alla legge». E, parlando con liberal conclude: «Personalmente sono molto più affezionato alla parte centrale della legge che riguarda il contrasto alla criminalità organizzata, alla quale ho lavorato molto seriamente e che, nel promulgare la legge, Napolitano ha dimostrato di apprezzare. Un gesto importante che merita attenzione. Sulle ronde c’erano perplessità, evidenziate dal Capo dello Stato, sulle quali occorre fare una riflessione: se esisto-
Parla Bruno Tabacci
«Ormai la Lega produce polemiche costanti» di Francesco Capozza
no cittadini che collaborano con le forze dell’ordine, anziché essere omertosi, vanno regolamentati per evitare le degenerazioni che l’episodio di Massa ci ha restituito».
Maggiori perplessità solleva, invece, Angela Napoli, membro della commissione Giustizia della Camera: «Sarebbe estremamente grave se il Consiglio dei ministri non intervenisse per superare le criticità sottolineate dal presidente della Repubblica. Napolitano, infatti, ha dimostrato di condividere buona parte del contenuto della legge e l’ha promulgata. Ora l’esecutivo deve rispettare quanto annunciato. Le preoccupazioni del Colle sulle cosiddette ronde erano state già espresse, durante la discussione del provvedimento, sia dalle opposizioni che da alcuni esponenti della maggioranza. C’era stato garantito che i regolamenti attuativi sarebbe stati puntuali per evitare problemi. Purtroppo finora non è stato fatto nulla e l’episodio di Massa conferma le preoccupazioni di Napolitano. Anche sui clandestini esiste un problema, al quale porre rimedio, soprattutto quello legato alla registrazione allo stato civili dei nascituri. In commisione proponemmo di allungare i tempi di permanenza per le madri in stato interessante, ma non se ne fece nulla». Buonsenso è la parola d’ordine che secondo Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia del Senato, bisogna
E Bossi insiste: via dall’Afghanistan ROMA. Ormai Umberto Bossi si diverte troppo a fare il guastatore. E così continua a lanciare sassi, per poi nascondere le mani e ricominciare a tirare. Prendete le missioni in Afghanistan. Dopo il botta e risposta con il ministro La Russa sull’opportunità di ripensare la presenza italiana laggiù, ieri, c’è stata un’altra incursione a forza di chiacchiere. Stavolta sotto agli occhi esterrefatti di Berlusconi. «Farò quello che dice la maggioranza - ha ricominciato ieri Bossi - ma la missione in Afghanistan costa moltissimo e comincia a fare troppi morti. E poi non è così facile portare la democrazia. Berlusconi ci crede ma è un’idealista. Io penso che sia molto difficile». Pronta la risposta dell’«idealista»: quella di Bossi «è solo una battuta. Il provvedimento è stato già votato dalla Camera all’unanimità il 23 luglio». Il ping pong è finito? Per il momento sì. O comunque fino a quando Bossi non riprenderà il mantello del leader «di lotta e di governo», una delle figure retoriche e false tra le più dannose della politica italiana, dalla Prima alla Seconda repubblica (ricordate i ministri di Prodi in piazza contro se stessi?). Ma Bossi è convinto che in termini elettorali questo esercizio renda. Sicché continuerà a tirare sassi e nascondere la mano.
ROMA. Nella lettera che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato pochi giorni fa al premier a seguito della controversa firma al decreto sicurezza, c’è un passaggio in cui il capo dello Stato invita l’esecutivo ad evitare una certa «eterogeneità» nei provvedimenti legislativi presentati. Pur avendo promesso di dar seguito alle preoccupazioni del presidente, il governo non ha fatto nulla per assecondarle. Che cosa si nasconde dietro questo atteggiamento: lo abbiamo chiesto all’onorevole Bruno Tabacci. Onorevole Tabacci, il governo si era detto disponibile a recepire l’invito del presidente Napolitano e invece… E invece continua a legiferare in spregio non solo ad un’ordinata produzione parlamentare (e, oserei
adottare: «Il governo provvederà sicuramente in sede amministrativa con i regolamenti, il Parlamento il suo lavoro l’ha fatto. La norma che regola le ronde può avere varie interpretazioni, credo che le sensibilità presenti nell’esecutivo adotteranno dei provvedimenti per superare le criticità segnalate dal presidente Napolitano. Non ho segnali che le preoccupazioni del capo dello Stato non verranno prese in considerazione».
Sull’episodio di cronaca di Massa Berselli non si dice allarmato: «È un caso isolatoe non mi preoccupa eccessivamente. Anche sulla vicenda dei riconoscimenti allo stato civile dei figli dei clandestini bisognerà valutare come intervenire in questi casi particolari. La norma in generale si riferisce a chi entra nel nostro Paese violando le leggi, occorre il buonsenso, perché ci troviamo di fronte a una mamma. Nessuna legge è intoccabile, come ha dimostrato il caso delle badanti».
dire, ad una normale divisione dei poteri costituzionalmente definiti), ma anche nella totale indifferenza verso i richiami del capo dello Stato. D’altronde questa maggioranza - benchè divisa su tutto - ha dei numeri talmente elevati in Parlamento che non possiamo che essere succubi delle sue continue smargiassate. Le ronde hanno già creato le prime beghe alla maggioranza, si potrebbe dire che l’avevate detto? È una vittoria di Pirro la nostra. Era prevedibile ma certo non siamo contenti di aver avuto ragione. Quando si inculca nei cittadini la convinzione che si possano far giustizia da soli, si va dritti verso un collasso della legalità e quello che è accaduto a Massa ne è la riprova.
Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Tossicodipendenze, cerca di svelenire il clima: «La legge sulla sicurezza è come una macchina in rodaggio: i difetti vanno aggiustati strada facendo. Se emergeranno criticità e incongruenze il governo non si tirerà indietro».
La lettera di Napolitano è la prima nel suo genere, ma già in altre occasioni il Colle ha fatto sentire la sua voce. Il primo intervento risale alla vicenda di Eluana Englaro, quando in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, chiarì perché non era percorribile la strada della decretazione d’urgenza, sollecitando al tempo stesso un rapido pronunciamento da parte del Parlamento. Il Quirinale, in una nota, fece sapere che il presidente della Repubblica «ha preso atto con rammarico della deliberazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto legge relativo al caso Englaro». «Avendo verificato che il testo approvato non superava le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, il presidente - concludeva la nota - ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto». Qualche settimana dopo, ricevendo al Quirinale il ministro dell’Interno, Roberto Maroni diede la sua approvazione sulle misure riguardanti il carcere obbligatorio per gli stupratori, il
L’Udc, come ha ricordato lo stesso Pier Ferdinando Casini, condanna fermamente la reazione di certi esponenti leghisti. A proposito, cosa pensa di quanto accaduto a Massa? In più di un’occasione, sia in Parlamento sia in tv, ho ribadito la mia personale contrarietà all’introduzione delle ronde. Gli scontri di Massa non hanno fatto altro che portare in piazza quelle prevedibili tensioni date dall’introduzione di un provvedimento del genere. Bossi addita i protagonisti di quegli scontri di piazza come dei “pirla”, io dico che è il naturale effetto dato da una norma così antisociale come quella che istituisce le ronde. Oggi il sindaco Pucci ha dichiarato di voler mettere fuori legge le ronde: presa di posi-
prima pagina
29 luglio 2009 • pagina 3
PAOLO POMBENI
«Gesto irrispettoso, equilibri a rischio» di Francesco Lo Dico davvero grave che la maggioranza abbia ostentato assoluta indifferenza nei riguardi del presidente della Repubblica. Le riserve manifestate qualche giorno fa dal Quirinale verso il decreto sicurezza promosso dagli Interni, avrebbero meritato considerazione e accortezza. E avrebbero dovuto indurre la coalizione al governo ad affrontare i nodi irrisolti di una legge così infida e lacunosa. E invece, nonostante l’esemplare tatto istituzionale mostrato ancora una volta da Giorgio Napolitano, ancora una volta l’esecutivo si è rivelato inflessibile, preferendo l’esibizione muscolare all’indispensabile raziocinio col quale si sarebbe dovuto corrispondere a tanta delicatezza e sensatezza critica. Un’ulteriore pestone all’indirizzo del galateo costituzionale, che a lungo andare costerà caro agli equilibri dell’attuale maggioranza». Paolo Pombeni, politologo e ordinario di Storia dei sistemi politici europei all’Alma Mater di Bologna, commenta così l’approvazione del decreto sicurezza che, del tutto immutato a fronte delle riserve espresse dal presidente della Repubblica, entrerà in vigore il prossimo 8 agosto, dando la stura alle famigerate ronde. Le stesse che, ancor prima del debutto ufficiale, hanno già esordito a Massa in una sorta di promettente derby pre-campionato che ha fatto segnare sul tabellino decine di contusi e qualche arresto tra le fila di rondisti e antirondisti, lesti a serrare gli uomini in nuove promettenti opportunità di scontro. Professore, a conti fatti non sarebbe stato meglio che il presidente Napolitano mettesse da parte la cavalleria e respingesse la legge al mittente? Niente affatto. Il comportamento del Quirinale non è stato semplicemente ineccepibile, ma anche saggio. Fiducioso verso un certo tipo di cultura politica fondata sulla correttezza istituzionale, e legato a un’antica forma di urbanità che ha plasmato in passato alcuni tra i nostri governanti più illuminati, ha confidato nell’ingombro etico che la cosiddetta moral suasion dovrebbe proiettare nell’emisfero parlamentare, ogni qual volta il Presidente vi faccia ricorso. Speranza malriposta, non crede? Bisogna tenere conto che le funzioni assegnate al capo dello Stato esulano dal
«È
Il ministro Maroni (a sinistra) non ha tenuto in alcun conto, almeno per ora, i rilievi fatti dal presidente Napolitano (sopra) alla legge sulla sicurezza. A destra, il politologo Paolo Pombeni. Nella pagina a fianco, Bruno Tabacci patrocinio gratuito al processo per le vittime delle violenze, la revisione della legge Gozzini per quel che riguarda i benefici carcerari che dovrebbero essere aboliti per questo genere di reati. Ma sulle ronde il suo “no” fu ed è fermo. Il 9 aprile tocca all’“abuso” della decretazione d’urgenza con una lettera al premier, ai presidenti di Camera e Senato e al ministro dell’Economia. Nel mirino del Colle il “decreto-incentivi”, un testo che in origine si componeva di 7 articoli, ma che in Parlamento è stato modificato con un maxiemendamento che ha introdotto altri
10 articoli, comportando un onere di un altro miliardo e trecento milioni di euro. Ma anche in questo caso le parole del Capo dello Stato sono cadute nel vuoto, come dimostra il maxiemendamento al decreto legge anticrisi sul quale il governo venerdì scorso ha ottenuto l’ennesima fiducia e che è stato licenziato ieri dalla Camera. Nel mirino del Colle soprattutto la sanatoria per colf e badanti, non entrata nel pacchetto sicurezza e introdotta con i provvedimenti anticrisi. Ieri il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti è salito al Quirinale proprio su questi temi.
zione forte ma doverosa? Scelta coraggiosa quanto condivisibile. Marco Ferrando, del Partito comunista dei lavoratori, dichiara di voler istituire delle ronde di sinistra da opporre alle ronde governative... Rischio di ripetermi ma era prevedibile che un opposizione estrema come quella dell’ultrasinistra, che per giunta non è rappresentata in parlamento, portasse la polemica in strada. È l’ottimo risultato di un governo a “trazione leghista”. Cosa pensa e cosa dovrebbe fare il Partito della nazione evocato ancora due giorni fa da Pier Ferdinando Casini? Non sappiamo ancora se lo chiameremo così, tuttavia il nostro obiettivo è quello di riportare in cima alle
priorità della politica l’interesse nazionale, rispetto ai localismi che questo governo sta generando. Tra le novità introdotte dalla legge Maroni che entrerà in vigore l’8 agosto c’è quella che introduce l’obbligo di mostrare il documento di soggiorno per compiere gli atti di Stato civile. Ossia per contrarre matrimonio, registrare la nascita di un bambino e denunciare il decesso. Di chi saranno figli i bambini che nasceranno se nessuno potrà registrarli? Questo governo invece di dichiarare guerra al lavoro nero, legato peraltro solo in parte all’immigrazione clandestina, ha deciso di mettere in atto una politica che rasenta il razzismo. Questo ci provoca allarme oltre che umano fastidio.
“
veto assoluto. Il presidente Napolitano ha scelto di allegare all’approvazione della legge un’articolata postilla, per non doversi ritrovare poi, opponendo un rifiuto, a dover ratificare comunque il provvedimento. Il dissenso aperto, avrebbe inasprito le posizioni della maggioranza, e sclerotizzato ancor di più il decisionismo dei più intransigenti. Il disegno di legge sarebbe stato orgogliosamente riproposto e difeso pervicacemente, finendo di nuovo sul tavolo del Quirinale. E in seconda approvazione, secondo regolamento, Napolitano sarebbe stato costretto a firmare. Possibile che nessuno, nella compagine di governo, non si sia premurato di sanare alcuni vulnus elementari? Per quanto riguarda le ronde, ad esempio, non è prevista alcuna sanzione per chi le forma senza autorizzazione. Stupisce che i meccanismi di formazione delle pattuglie cittadine non siano stati vincolati a norme stringenti e messi al riparo da eventuali abusi, in effetti. Prese così come sono, le ronde si prestano facilmente a infiltrazioni e derive ideologiche che facilmente possono sfociare in contrapposizioni violente. E d’altra parte, è abbastanza tangibile, al di là delle dichiarazioni d’intenti, che l’autorizzazione della vigilanza fai da te, sia percepita da molti cittadini come la succulenta possibilità di compiere atti di forza esibendo il tesserino di Stato. È evidente che c’è l’intento di saziare le pance dei leghisti più inquieti. E c’è il pericolo che molti vedano realizzato il desiderio di portare cintura e cappellone in giro per il proprio quartiere, e di trasformare le strade in luoghi a misura di sceriffo. Gli episodi di Massa sono solo l’antipasto di un nuovo derby fratricida all’italiana? Senz’altro i quartieri delle ronde si candidano a diventare una nuova frontiera di scontro per malesseri e disagi peraltro più antichi e obliqui delle ronde stesse. Diciamo che i territori a rischio potranno vedere sorgere un nuovo agone che andrà ad aggiungersi a quelli ormai tradizionali come gli ambienti del tifo organizzato. Non era meglio dare uomini e risorse alle disastrate forze dell’ordine? C’è una vecchia gag di Cochi e Renato, in cui l’alunno entra nei panni del professore per il piacere di usare la bacchetta e restare impuniti. Un impulso irresistibile.
C’è il pericolo reale di dare cintura e cappellone a torme di aspiranti sceriffi di quartiere
”
politica
pagina 4 • 29 luglio 2009
Fratture. L’Italia, intesa come luogo di identità, memoria e progetto, oggi è minacciata come non mai: la nostra politica dagli orizzonti corti saprà affrontare questa emergenza?
Un partito per l’unità Ormai il Nord e il Sud si scontrano solo per ragioni di interesse. Prima che l’Italia ne paghi le conseguenze, difendiamo la nazione di Gennaro Malgieri segue dalla prima Sudisti e nordisti si fanno la guerra, insomma, come un tempo borgognoni ed armagnacchi; nei due principiali schieramenti si fronteggiano i fautori di un protagonismo settentrionale e di un accentuato orgoglio meridionale; entrambi vogliono la stessa cosa: più soldi dallo Stato, maggiori investimenti dei fondi europei nelle rispettive aree, incentivi, opere pubbliche, assistenzialismo. E pur di ottenere tutto ciò minacciano secessioni, fondazioni di partiti, organizzano correnti all’interno e contro le stesse formazioni politiche nelle quali militano.
Naturalmente più colpita da tanta virulenza è la maggioranza, ed in particolare il Pdl, del quale il meno che si possa dire è che non è stato in grado, nella fase costituente, di amalgamare le esigenze di tutti in un programma complessivo semplicemente perché ha scelto la strada dell’annessione tra forze eterogenee per costruire un cartello elettorale e non un partito che è ben altra cosa. Ma di questo ci siamo già abbondantemente occupati infastidendo appena qualcuno e nel disinteresse dei più: la “polpa” della politica ai giorni nostri non sono le idee, le culture, gli ideali, i bisogni, ma la cassa dalla quale attingere risorse per soddisfare clientele vecchie e nuove. Perciò i neo-meridionalisti, come i vecchi settentrionalisti (rappresentati sempre dalla Lega), non guardano più a Guido Dorso o a Giustino Fortunato e gli altri neppure ricordano Carlo Cattaneo o Gianfranco Miglio: anticaglie. Nella testa e nell’anima hanno il “territorio”, parola e concetto nobile, indubbiamente, se fosse sostanziato da una considerazione abbastanza forte da giustificarne la difesa, la rappresentanza, lo sviluppo; in altri termini se coincidesse con la cultura che esprime e che sarebbe doveroso rivalutare. Difficile, improduttivo, praticamente inutile da questo “idealistico”punto di vista. E così avanti tutta con le armate pronte a cingere d’assedio il ministero dell’Economia, a mettere in mora il solito Tremonti (che qualche responsabilità pure ce l’ha, ma deve fare i conti con una crisi infinitamente più grande di lui e della nostra
Confronto animato fra il superministro e Berlusconi
L’ira di Tremonti: basta con questo Miccichè! di Riccardo Paradisi a questione meridionale mette in fibrillazione la maggioranza. In particolare il piano del sud e il nodo Miccichè fanno proprio saltare i nervi al ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che è stanco d’essere accusato di gestire a suo capriccio la borsa del governo e di far parte di un asse nordista indifferente alle sorti del Mezzogiorno.
L
L’occasione per lo sfogo Tremonti è stato il viaggio in aereo che ha portato da Milano a Roma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il leader della Lega Umberto Bossi, il ministro leghista per la Semplificazione Roberto Calderoli e appunto il titolare del dicastero di via XX settembre. Durante il viaggio Berlusconi ribadisce la necessità di varare un “Piano concreto” per il Mezzogiorno che sia segnale dell’attenzione del governo nei confronti del Sud. E siccome in politica le idee si incarnano con le coperture è al ministro dell’Economia che Berlusconi si rivolge per i soldi e i fondi necessari. E mentre Bossi rassicura Berlusconi che la Lega non intende mettersi di traverso, purché le risorse individuate siano usate per progetti mirati, Tremonti invece sbotta e si sfoga proprio con Berlusconi. Gli dice che non ne può più delle intemerate del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianfranco Miccichè, uno dei principali mattatori della “rivolta del sud”, che lo accusa di fare il bello e il cattivo tempo con i cordoni della borsa e gli imputa il menefreghismo nei confronti del sud.
Sull’onda della polemica Tremonti si sarebbe detto anche contrario all’ipotesi, ventilata dal premier, di dare a Miccichè la titolarità di un’eventuale nuovo ministero per il Mezzogiorno, una novità caldeggiata anche ieri tra gli altri dal sindaco di Roma Gianni Alemanno. Tremonti avrebbe motivato il suo parere contrario con il fatto che un’ipotesi simile comporterebbe il rischio costante di conflitti sulla gestione dei fondi che si creerebbe tra i due dicasteri. Berlusconi a questo punto avrebbe cercato di tranquillizzare Tremonti, garantendo il suo impegno in prima persona nella gestione del nodo Sicilia e anche nel rapporto con Miccichè. Tremonti agitato dunque, Berlusconi sollecito e preoccupato, Bossi sereno, quasi olimpico nell’assistere ala fase aurorale del movimento del sud. Anche perché secondo lui non esiste una questione Sud, ma si tratta di un conflitto tutto siciliano. Anche se ieri una ventina di parlamentari convocati da Amedeo Laboccetta (Pdl) ha redatto una lettera indirizzata proprio a Tremonti per chiedere un incontro e suggerire al responsabile dell’Economia di avere un atteggiamento più aperto con i ”meridionalisti”.
Mentre l’Mpa propone addirittura l’apertura di un parlamento del Sud: «Non si tratta più soltanto di rappresentare le rivendicazioni delle popolazioni meridionali sulle quali grava il peso enorme del divario economico con il Nord del Paese ma di rispondere alla necessità di far emergere una nuova classe dirigente che sia intensamente caratterizzata dalla dimensione culturale, valoriale e dalla consapevolezza delle enormi difficoltà economiche del Mezzogiorno». Fin qui l’analisi, cui segue una minaccia: «Se il governo non cambierà rotta e se il Meridione sarà ancora penalizzato dalle scelte maturate nel chiuso del consiglio dei ministri, il Sud con il suo parlamento sarà costretto ad assumere posizioni ben più radicali».
Bossi e Berlusconi ingessano l’Italia: al punto che il Paese, in grave crisi di identità e memoria, rischia di esplodere sotto il peso degli interessi incrociati. A destra, il sociologo Franco Cassano. Nella pagina a fianco, Pier Ferdinando Casini
malridotta nazione), e lo stesso Berlusconi il quale, malauguratamente, invece di chiedersi la ragione dei malumori diffusi e profondi nel suo partito ritrova, miracolosamente, un “tesoretto” da destinare al Sud, ed in particolare alla Sicilia tanto per arginare la possibile rivolta di colonnelli e caporali del Pdl. La polemica, comunque, tra meridionalisti e settentrionalisti, dentro e fuori la maggioranza, è destinata ad acuirsi. Lo testimoniano le trasversali ed occasionali alleanze che in Parlamento si formano non appena arriva al voto un provvedimento che destina risorse ad un’area piuttosto che ad un’altra; la costituzione di mini-partiti e correnti che, pur non dissociandosi dalla casa madre, intendono percorrere altre strade in maniera autonoma; lo spirito stesso con cui si dà luogo a querelles tese a decomporre l’alleanza piuttosto che a fornirle linfa nuova. Nel Pd, il tutto è sottotraccia, ma quando “governatori”meridionali come Agazio Loiero ed Antonio Bassolino strizzano l’occhio al movimentismo che sta dilaniando il centrodestra, vuol dire che qualcosa anche da quelle parti è in crisi profonda.
Il tutto potrebbe essere derubricato a schermaglie estive se non fosse che la rottura dello spirito unitario nazionale è evidente e non è certo nato dalle intemperanze politiche e regionalistiche di Micciché e di Lombardo o dalla prepotenza leghista. Lo dimostrano le polemiche hanno accompagnato la denuncia di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera a proposito della deficitaria organizzazione delle celebrazioni, nel 2011, dell’unità d’Italia. Giustamente lo storico, e con lui molti altri commentatori, si è chiesto se non fosse il caso di soprassedere posto che chi avrebbe dovuto finalizzare stanzia-
politica
29 luglio 2009 • pagina 5
Un nuovo modello organizzativo per il Centro di domani
Né soltanto tessere né finte primarie di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Ma quel che occorre porre in evidenza è che tutte le scelte di programma sono state subordinate alla collocazione ideologica di destra, di centro o di sinistra assunta di volta in volta quale riferimento essenziale per l’azione anche locale di un qualunque partito politico. Fin quando la dimensione nazionale degli stati e di quello italiano in particolare ha consentito di collocare le scelte di programma locali in un contesto unico nazionale, si è potuto rilevare che la natura ideologica delle scelte dei partiti produceva conseguenze anche evidentemente negative ai fini del soddisfacimento dei bisogni reali delle popolazioni locali, senza che queste fossero ritenute decisive per la collocazione generale – destra, centro, sinistra – dei singoli partiti.
sciando l’ideologia della collocazione generale del partito politico a fare da sfondo in riferimento alle scelte locali di programma. Ma va da sé che questa accentuazione dei programmi rispetto alla ideologia della collocazione tra destra e sinistra richiede un modello di organizzazione dei partiti diverso dai partiti ideologici. Fino ad ora è stato infatti sperimentato – da parte di chi ha sostituito l’antica ideologia degli schieramenti politici con l’attuale ideologia degli elettori, considerati quale fondamento unico della legittimità a governare in sede locale, regionale o nazionale che sia – modello diverso da quello strettamente elettorale. Si tratta pertanto di ricercare anche in riferimento all’organizzazione un punto di equilibrio nuovo tra apparato di partito in senso stretto (per il quale l’antica regola del tesseramento sembra poter costituire un fondamento non eludibile), gli elettori simpatizzanti per il partito medesimo (per i quali occorre prevedere forme di consultazione intermittente su temi significativi), e movimenti e associazioni interessati in modo specifico a temi particolari di programma amministrativo locale, regionale o nazionale che sia, per i quali occorre di conseguenza configurare forme anche nuove di deliberazione.
Dobbiamo saper combinare novità e tradizione alla ricerca dell’equilibrio tra passato e futuro
menti e risorse all’evento si è tirato indietro o, quando qualcosa ha messo in cantiere, tutto si è risolto nel finanziare opere che con l’occasione non c’entravano assolutamente niente: il solito clientelismo unico collante unitario. Poi si scopre che anche i fondi per lavori eccentrici allo scopo non ce ne sono ed allora la bagarre si sposta dal dibattito storico alla solita disputa tra chi si lancia nel raccattare briciole che cadono dal tavolo del governo. Uno spettacolo davvero poco dignitoso. Alfredo Oriani, se avesse avuto la disgrazia di vedere com’è ridotta l’Italia nata dalle lotte risorgimentali, non avrebbe tessuto le lodi della patria “conquistata” nella sua Lotta politica in Italia, ma si sarebbe limitato ad un caustico pamphlet teso a stigmatizzare i vizi di una patria in effetti mai nata.
È in questo deprimente contesto che è necessario sistemare le convulsioni del presente. Per concludere non soltanto che una patria fortunatamente esiste – nelle cultura nelle tradizioni, nella lingua, nelle storie, nelle vicende controverse, nei desideri e nelle passioni che accendono ancora l’immaginario della gente - e si è soltanto nascosta, ma anche per sottolineare come di una nazione abbiamo un disperato bisogno. Una nazione che abbia un’identità, la sola cosa che dovrebbe essere celebrata. Essa, come diceva Ernest Renan, è «un plebiscito di tutti giorni». Si riuscirà a ricondurre le guerricciole quotidiane in un accettabile contesto nel quale la sistemazione degli egoismi di parte possa dare luogo all’armonizzazione delle esigenze generali, a quel “bene comune” la cui realizzazione dovrebbe essere il fine della politica? Francamente è difficile essere ottimisti. Di fronte a non-partiti che veicolano interessi conflittuali al lo-
ro interno e sono portatori di istanze disomogenee, non ci resta che sperare nell’emersione, indipendentemente dalle provenienze (dato che tutto è molto provvisorio in questa stagione) di un autentico partito della nazione.
Un partito consapevole che il principio stesso dell’appartenenza ad una cultura e ad un sistema di valori civili ci fa cittadini di una comunità nazionale. Sbaglierebbe chi pensasse che la difesa della nazione dovrebbe configurarsi come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno all’intangibilità dei sacri confini. La nazione a cui pensiamo si configura piuttosto come un atteggiamento che trascende i particolarismi e afferma il diritto alla sovranità per tutti popoli e tutti gli Stati. La nazione è un’idea antica che si rinnova, insomma, e di questa non irrilevante circostanza il partito che si candida a rappresentarla dovrebbe modellare il suo progetto, senza pregiudizi né idiosincrasie che sarebbero quantomeno ridicole dopo il superamento delle appartenenze ideologiche. Ritenere di poter evitare di riferirsi ad essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche è come pretendere di attraversare un deserto privi di generi di conforto. È quanto sta accadendo a chi dovrebbe ricucire il tessuto nazionale ed invece, magari non accorgendosene, lascia che si laceri ogni giorno un po’ di più. Ritornare alla nazione per costruire istituzioni condivise e recuperare un’identità in frantumi: può suonare come un programma rivoluzionario, e forse lo è. Ma di questi tempi il minimo che si possa fare è guardare in alto, oltre gli steccati di un giardino invaso dai rovi.
La progressiva scomparsa della dimensione nazionale degli Stati quale conseguenza evidente del processo di globalizzazione in atto ha man mano posto in evidenza la necessità di fare dei programmi la base essenziale per le scelte politiche di coalizione, la-
La definizione dei programmi ritenuti essenziali per il miglior governo di ciascuna regione dovrà pertanto essere combinata con la proposta di un modello organizzativo di partito che non può essere più soltanto quello delle tessere, dei gazebo, delle primarie perché si tratta di un modello organizzativo funzionale all’idea stessa di democrazia liberal-popolare che si vuol costruire. Il nuovo Partito di centro – che l’Assemblea di ieri ha definitivamente posto al centro dell’iniziativa politica dell’Udc – dovrà pertanto saper combinare la definizione dei programmi con il proprio modello organizzativo. Anche in questo caso dobbiamo saper combinare novità e tradizione alla ricerca del nuovo equilibrio generale tra passato e futuro: vivere di solo presente si dimostra sempre più una illusione; vivere di sola combinazione di passati anche se nobili si dimostra sempre più velleitario. Spetta all’Udc, pertanto, dimostrare che il governo dell’Italia richiede anche in questa stagione una sapiente capacità di far vivere insieme innovazione politica e continuità di ispirazione ideale.
diario
pagina 6 • 29 luglio 2009
Verso la rivoluzione dell’energia Presentato il “Rapporto” dell’Enea: il futuro dipende dall’innovazione di Alessandro D’Amato
ROMA. Efficienza energetica e nucleare come novità che si aggiunge, ma non in alternativa, alle altre fonti, tra cui le rinnovabili. Questi i temi affrontati dal presidente dell’Enea, Luigi Paganetto, durante la presentazione del Rapporto annuale dell’ente su Energia e ambiente. Il rapporto di quest’anno, ha detto Paganetto, ultimo dell’attuale gestione Enea, sottolinea «l’impatto della crisi economica sul sistema energetico, con scenari che evidenziano per un verso la riduzione dei consumi e, di conseguenza delle emissioni, per effetto del minor livello dell’attività economica e la riduzione che la recessione determina sull’attività d’investimento del settore energetico. Ma anche “l’importanza in generale dell’investimento in ricerca e tecnologia come strumento per affrontare la sfida».
da proveniente dai paesi emergenti, e ben il 55% da Cina e India. Da questi dati, evidenzia il rapporto dell’Enea, diventa necessario un forte impegno sulle tecnologie, «un’accelerazione senza la quale è di fatto impossibile raggiungere risultati concreti in materia di contenimento delle emissioni». Tra le opzioni aperte nel quadro italiano, il presidente dell’Enea ha ribadito la centralità dell’efficienza come scelta per il breve medio periodo, e l’esigenza di concentrare l’attenzione sugli usi finali dell’energia, nel residenziale (che assorbe da solo circa il 30% dei consumi finali di energia), nei trasporti e nell’industria, anche per i suoi effetti positivi sul sistema economico. Regno Unito, Germania e Spagna hanno aumentato di molto i loro investi-
In più, secondo l’istituto, c’è la necessità di guardare al ritorno al nucleare come una novità importante che si aggiunge, ma non è in alternativa, alle altre fonti, in particolare rinnovabili, e che consente il rientro in un settore tecnologico di cui occorre catturare l’evoluzione. Per prepararsi a quella che Paganetto definisce la prossima «rivoluzione energetica». l’Italia dovrà ridurre l’impiego delle fonti fossili e investire nell’innovazione tecnologica. «Senza investimenti e innovazione - ha concluso il presidente dell’Enea gli obiettivi di stampo europeo non si realizzano». Ma è il nucleare il punto di rottura: «È assolutamente condivisibile l’enfasi posta nell’innovazione tecnologica e in particolare sull’efficienza energetica per quanto riguarda la qualità del nostro futuro, ma il Presidente Luigi Paganetto sbaglia quando guarda con favore a una tecnologia vecchia come quella nucleare», dice rancesco Ferrante, dell’esecutivo nazionale degli Ecologisti Democratici.
Per il presidente Luigi Paganetto il sostegno alla ricerca (anche nel settore nucleare) è l’unica strada sicura per battere la crisi
Secondo le stime preliminari, infatti, spiega l’Enea, a causa della crisi nel 20082009 si è verificata una riduzione delle emissioni di Co2 del 6% per ciascun anno. Per l’Italia il gap rispetto all’ obiettivo del 2020 si riduce al di sotto di 100 milioni di tonellate di Co2. Il rapporto sottolinea come il raddoppio della domanda di energia prevista a livello mondiale dalla Iea per il 2030 dipenderà per l’85% dall’incremento della doman-
introducono innovazione». Giappone, Germania e Usa, si rileva, hanno la leadership per i brevetti nel fotovoltaico. Il paese del Sol levante, in compagnia di Germania, Svezia e Finlandia investono, nel settore privato, intorno al 2% del pil, contro lo 0,5% dell’Italia, in ricerca & sviluppo per le rinnovabili. Spagna, Danimarca, Svezia, Finlandia e Germania, investono sulle rinnovabili, tra il 45% e il 25% della loro spesa di ricerca energetica, l’Italia il 15%
menti in ricerca negli ultimi anni: la forte espansione del mercato delle rinnovabili in Germania rappresenta un caso di successo. In Italia, invece, «l’espansione del settore ne ha messo in evidenza alcuni suoi limiti, a cominciare dall’eccessiva frammentazione produttiva, un’organizzazione di filiera che vede prevalere le attività di assemblaggio su quelle d’innovazione, un’assai ridotta attività verso l’estero». Sottolinea l’Enea che «per dare una decisiva spinta al settore occorrerebbe puntare su un sistema d’incentivazione che scoraggiasse le posizioni di rendita e premiasse quelle che
Il vicepresidente, attaccato dall’Italia dei valori su mafia e politica negli anni Novanta, è andato anche al Quirinale
Il Csm difende Mancino da De Magistris di Andrea Ottieri
ROMA. Si sposta al plenum del Consiglio superiore della magistratura la polemica sulle dure accuse rivolte dall’eurodeputato dell’Italia dei valori Luigi De Magistris al vicepresidente del Csm Nicola Mancino. La prima parte della riunione è stata presieduta dal laico Michele Saponara (Mancino è stato, infatti, ricevuto al Quirinale dal presidente della Repubblica) che ha espresso la solidarietà sua e del Csm al vicepresidente per le accuse «infondate» rivolte da De Magistris. Il rifiermento è alle dichiarazioni rese ieri l’altro dall’ex magistrato contro Nicola Mancino e irpportate da alcuni giornali, a proposito di un suo incontro con Paolo Borsellino sullo sfondo della torbida vicenda della presunta trattativa tra Stato e mafia all’inizio degli anni Novanta. De Magistris, per altro, aveva anche chiesto le dimissioni di Mancino dalla vicepresidenza del Consiglio su-
periore della Magistratura. Saponara, nel corso dell’assemblea del Csm, ha fatto riferimento in particolare a quesi passaggi di De Magistris nel quale Mancino (all’epoca ministro dell’Interno) viene definitio «ambiguo e inquietante» sulle stragi e reo di aver contribuito a fermare alcune inchieste sui rapporti tra mafia e politica.
Nicola Mancino, non appena rientrato al Csm dal Quirinale, si è difeso dalle
Solidarietà all’ex ministro degli Interni è stata espressa anche dal Partito democratico attraverso una dichiarazione di Giorgio Merlo accuse e, riprendendo la guida dell’assemblea come previsto dal regolamento ha detto: «Io vi chiedo scusa per il ritardo, ma avevo un coincidente impegno con il Capo dello Stato. Riprendendo la presidenza non posso non ringraziare il collega Saponara per le espressioni di
solidarietà che mi ha rivolto. Certo, io ringrazio anche i componenti del Consiglio. Non è facile prendersi accuse che io ritengo di non meritare - ha proseguito Mancino -; e di non poter meritare l’attacco che ho ricevuto piuttosto duro e violento. Sono i fatti che stanno a dimostrare che cosa si è fatto durante la mia presenza al Viminale e con quanta determinazione e con quanto senso dello Stato si è combattuto contro la malavita organizzata siciliana».
Duro, contro De Magistris il commento di Giorgio Merlo, vicepresidente della commissione per la Vigilanza della Rai, del Partito democratico: «La storia politica, cultura ed istituzionale di Nicola Mancino è nota a tutti tranne, forse, all’onorevole De Magistris che si esercita in accuse infamanti e paradossali. A scanso di equivoci, la storia e la biografia del senatore Mancino sono e restano un modello per tutti coloro che credono nei principi e nei valori della democrazia».
diario
29 luglio 2009 • pagina 7
Un’ordinanza del sindaco prevede multe fino a 500 euro
Ieri la nota del direttore del quotidiano Dino Boffo
A Pordenone è vietato stare in due per strada
“L’Avvenire”: «Nessun silenzio di convenienza su Berlusconi»
PORDENONE. «Vietato fermarsi
ROMA. Nessun «silenzio di convenienza» sulle vicende private del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e di fronte agli «spettacoli niente affatto confortanti» che in questo momento offre la scena pubblica. Lo scrive il direttore di Avvenire, Dino Boffo, rispondendo sul quotidiano dei vescovi alla lettera di un sacerdote, don Angelo Gornati di Limbiate, che si era detto deluso dal comportamento del giornale (che si sarebbe mostrato «quasi servile» con il premier) e aveva protestato per quello che è, a suo dire, un atteggiamento di silenzio della Chiesa di fronte alla vita privata del presidente del Consiglio. «Quale spazzatura, quale disgusto, quale miseria», ave-
in due in strada». È questo l’assunto decisamente assurdo, di un’ordinanza firmata dal sindaco di Pordenone, Sergio Bolzonello, che dispone il divieto di «stazionamento e di assembramento di persone, intendendosi tale la contemporanea presenza di due o più persone» nell’area di piazza Costantini, via Rovereto, via Sturzo e piazzale Duca d’Aosta, tutti luoghi di Pordenone, sino al 31 dicembre. L’ordinanza (la numero 21) è stata adotta - si legge in un comunicato del Comune- dopo i «frequenti casi di occupazione del suolo pubblico e di damnnegiamento al patrimonio sia pubblico che privato» che hanno «determinato e determinano un notevole scadimento della qualità oltre che dell’intralcio alla percorrenza degli spazi». «La situazione di degrado e disagio ambientale - continua l’ordinanza - è ormai tale da costituire un’obiettiva quanto realistica premessa sia all’insorgere di fenomeni criminosi sia ad un epilogo violento della tensione sociale in atto». Da qui la decisione del sindaco sul divieto di assembramento in queste aree della città per evitare che «gli elevati toni di voce, il comportamento aggressivo tra di loro o verso gli altri, il modo di fruire degli spazi pub-
La manovra di Tremonti rimandata ad agosto Nuovo passaggio alla Camera per il decreto anticrisi di Francesco Pacifico
ROMA. Il governo deve rivedere i suoi piani per l’estate: la manovra anticrisi, che si sperava di approvare definitivamente a fine settimana in Senato, necessità di ulteriori aggiustamenti. Ieri la maggioranza ha dato alla Camera il suo sì, nella consapevolezza che sarà necessaria una nuova lettura visti i tanti nodi ancora da risolvere. E che le vacanze dovranno slittare almeno una settimana, l’ha anche chiarito Silvio Berlusconi. «Sì, penso che ci saranno modifiche al Senato sul decreto anticrisi», ha detto ieri il premier prima di infilarsi alla buvette di Montecitorio per mangiare un panino con Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Proprio il ministro dell’Economia ha già chiesto un incontro al presidente Giorgio Napolitano per discutere le modifiche ai punti più controversi del decreto come la stretta ai poteri della Corte dei conti o la tassazione sulle riserve aree della Banca d’Italia. Anche perché non vuole mettere a rischio un pacchetto nel quale sono previsti lo scudo fiscale, l’equiparazione dell’età pensionistica tra uomini e donne nel pubblico impiego, la defiscalizzazione degli utili reinvestiti fino alla sanatoria per le badanti. Tremonti, infatti, guarda con molta apprensione all’ulteriore passaggio parlamentare. Teme di dover respingere al Senato un colpo di mano simile a quello registrato alla Camera con gli emendamenti sulle banche. E a Palazzo Madama la maggioranza avrebbe già rivendicato maggiore spazio. Sa bene che di questi tempi l’astensione è una variabile pericolosissima: non a caso ieri alla Camera, su 340 aventi diritto,“soltanto”285 rappresentanti del centrodestra hanno votato la manovra. Se non bastasse, il titolare dell’Economia teme di essere logorato ancora di più dalla polemiche sul piano per il Sud, che in ogni caso dovrà scrivere lui. A quanto pare ieri, arrivando a Roma in aereo con Berlusconi, Bossi e Calderoli, avrebbe chiesto al premier di porre un freno alle critiche e alle aspirazione di
Gianfranco Miccichè, che vuole diventare ministro per il Mezzogiorno. In questo clima la manovra è arrivata a Palazzo Madama. Dove, fa sapere un senatore, «la tensione è alta. Provvedimenti come questi andrebbero gestiti e vagliati con più cura e tempo. Pensare di farli passare a luglio senza intoppi è sinonimo di disorganizzazione». Così sull’asse tra Palazzo Chigi e via XX settembre sono molti i dossier ancora aperti. Innanzitutto il ridimensionamento delle deleghe del ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che ha perso competenze sui controlli sulla costruzione di nuove centrali. Non meno complesso il “lodo Bernardo” con i suoi paletti che riducono il potere di indagine della Corte dei Conti sui danni erariali. Si attendono poi nuovi pressioni dalla Bce, che chiede di rimodulare la tassazione sulle plusvalenze delle riserve auree di Bankitalia. Come nel vaso di Pandora, va da sé che modificati quelli che Berlusconi considera i nodi più stringenti, altri provvedimenti possano ingrossare la lista di quelli emendabili. Così sono in tanti a pronosticare già in questo passaggio qualche misura per il Sud. In realtà Berlusconi ha convocato questa mattina i ministri competenti – Tremonti, Scajola, Fitto e Matteoli – per discutere del piano che ha intenzione di lanciare a breve. E il primo passo potrebbe essere convocare la prossima settimana il Cipe per sbloccare i fondi per i Por di Sicilia e Puglia.
Primo sì da Montecitorio. Corte dei Conti, riserve auree e poteri della Prestigiacomo: tanti i nodi ancora da sciogliere al Senato
blici» sia tale «da non consentire analoga fruizione da parte degli altri cittadini».
Non è chiaro, insomma, se l’ordinanza sia rivolta contro i giovani colpevoli di cosiddetti “semplici“ schiamazzi, o contro immigrati. L’ordinanza del sindaco, per altro, vieta il consumo di bevande alcoliche in luoghi pubblici sia di giorno che di notte, a eccezione degli spazi riservati agli esercizi pubblici; e, più in generale, dispone il divieto di tutti i comportamenti che determinino il degrado dell’area e ne compromettano il senso di sicurezza. Pur essendo il nostro un paese che vieta spesso senza comminare multe, in questo caso sono previste multe da 25 a 500 euro.
Sempre nell’elenco delle norme da ritoccare ci sono i prelievi fiscali nelle zone terremotate, con un ulteriore rinvio per i cittadini dell’Abruzzo, la proroga degli studi di settore in revisione e le agevolazioni per le misure sull’interconnessione nel mercato elettrico. Da oggi quindi il Senato è chiamato a un lavoro ancora più duro e veloce di quello fatto negli ultimi dieci giorni dalla Camera. Anche perché il governo e la sua maggioranza parlamentare condividono la necessità di chiudere questa partità entro e non oltre il 4 agosto.
va commentato il prete chiedendo «una parola chiara».
Boffo ha respinto le accuse e spiegato: «Avvenire non è stato zitto. Ha parlato sul tema e a più riprese». E neanche i vescosi hanno taciuto: «Sia il presidente cardinal Bagnasco sia il segretario generale monsignor Crociata hanno colto le occasioni pastorali che si sono presentate per prendere posizione in modo netto sul piano dei contenuti come della prassi scrive Boffo -. Chiunque è stato raggiunto dai loro interventi ha capito quello che si doveva capire: alla comunità cristiana tocca tenere alto il contenuto della fede e non cedere a compromessi». Il direttore di Avvenire ha elencato anche gli interventi del suo giornale, che pochi giorni fa aveva pubblicato altre missive di lettori indignati. Lo stesso Boffo aveva parlato di «uno scenario» «apparso nella sua potenziale desolazione», e sottolineato come questo suo giudizio avesse fatto intitolare in prima pagina, ad un grande quotidiano nazionale «Berlusconi, spuntano altre ragazze e il giornale dei vescovi lo attacca». Per tutto ciò, ha affermato, «pur con tutto il garbo possibile, non me la sento di accogliere la sua accusa di «convenienza».
politica
pagina 8 • 29 luglio 2009
Cabine di regìa. In un partito in cui «la politica è ancora latitante», come dice Quagliariello, tutto si regge attorno al lavoro di chi fa girare la macchina
La signora dell’Umiltà È una donna, dietro le quinte, il vero capo organizzativo del Pdl: Francesca Stagno di Errico Novi
ROMA. Intorno all’epopea di Forza Italia è fiorita negli anni una letteratura proibita, non ufficiale. Con i suoi personaggi misteriosi e invisibili, oppure conosciutissimi ma imprevedibili nella loro influenza. A tale schiera, e in particolare al gruppo di quelli che non compaiono mai nelle vetrine più frequentate sembra appartenere Francesca Stagno, una delle veterane di via dell’Umiltà, uno dei pochi funzionari – ormai si contano sulla punta delle dita – che lavorano nel partito di Silvio Berlusconi praticamente dalla sua fondazione. Sarda di Cagliari, entrò nella grande famiglia forzista con il conterraneo Gianni Pilo, il mitico (lui lo è senza dubbio) sondaggista che accompagnò i primi successi politici del Cavaliere. Francesca aveva lavorato presso vari istituti di ricerca, come il suo mentore era dunque esperta di una scienza indispensabile nel mondo berlusconiano, quella dei movimenti d’opinione. Tra le vicende avvolte nel mistero alle quali il nome della Stagno sarebbe riconducibile c’è una“indagine interna” ordinata dal Cavaliere sul suo stesso partito nel 2006. Dopo la sconfitta alle Politiche Silvio ritenne di dover capire meglio cosa succedeva tra i suoi dirigenti. Soprattutto voleva verificare se davvero, come alcuni lo inducevano a sospettare, si era creata una rete “corporativa”tra i coordinatori locali e il vertice nazionale di Forza Italia. Se insomma la certezza dell’inamovibilità aveva demotivato i suoi colonnelli, al punto da provocare una “diserzione bianca” alle elezioni, un lassismo che secondo Berlusconi poteva essere stata la principale causa della sconfitta. Venticinquemila voti alla Camera erano un’inezia, uno scarto minimo determinato probabilmente da disattenzioni imperdonabili come quella sui rappresentanti di lista: i “difensori del voto” azzurri in molte sezioni erano rimasti sulla scarta. Così Berlusconi pensò di affidare a un ristrettissimo gruppo di persone di sua fiducia questa indagine riservata, e Francesca Stagno, secondo fonti vicine al Cavaliere, fa-
ceva parte di questa avanguardia. Nel frattempo è successo di tutto, da Forza Italia si è passati al Pdl, ma Francesca è ancora lì, al primo piano di via dell’Umiltà. E in una fase in cui il partitone unico sembra in particolare affanno – al punto che, come ha detto Gaetano Quagliariello nell’intervista pubblicata ieri da liberal, «la politica è ancora molto latitante» – l’anima stessa del Popolo della libertà sembra essere custodita proprio da quei pochi, irriducibili funzionari che lavorano in silenzio, sempre, anche quando
dirimere liti tra dirigenti e a promuovere nuove, giovani risorse si è quasi del tutto annullato: basta fare il paragone con il biennio 2006-2008, quando fu costretto dall’agitazione creata con il lancio dei circoli di Marcello Dell’Utri prima e di Michela Brambilla poi a sorbirsi almeno una riunione al mese con i coordinatori locali. Ma l’intensità del rapporto tra Palazzo Chigi e via dell’Umiltà è impercettibile anche se confrontata con la stagione del precedente governo Berlusconi, quando l’impegno di presidente
Entrata con il sondaggista Gianni Pilo nel ’94 oggi guida l’ufficio delle relazioni esterne e cura i grandi eventi: che in una forza mediatica e leaderistica sono l’unica cosa davvero importante tutt’intorno il resto della macchina sembra girare a vuoto.
Certo il destino del Pdl è comune ai grandi movimenti politici, condizionati dalla rapidità dell’impatto mediatico che rende insostenibili le fluviali riunioni di una volta. Ma a via dell’Umiltà la differenza si nota di più. Innanzitutto perché mai come in questo caso la leadership politica è nettamente separata dalla leadership organizzativa. Silvio Berlusconi si interessa delle questioni interne meno di quanto abbia fatto in passato con Forza Italia. Il tempo dedicato a
del Consiglio non impedì al Cavaliere di cambiare due coordinatori nazionali, Claudio Scajola e la meteora Roberto Antonione, avvicendato con l’assai più durevole Sandro Bondi.
C’è campo libero per i triumviri, dunque per un potere burocratico-aziendale più che politico. Dei tre coordinatori per giunta, due hanno un peso inevitabilmente attutito dai rispettivi impegni nel governo: Ignazio La Russa è stato invitato nei giorni scorsi da un deputato della sua stessa maggioranza, Giancarlo Lehner, a dimettersi da coordinatore del Pdl per fare solo il mini-
stro della Difesa «visto che purtroppo i nostri soldati muoiono»; Bondi a sua volta aveva intuito con chiaro anticipo la difficile compatibilità dei due incarichi e aveva infatti chiesto al premier di dispensarlo dal ministero dei Beni culturali e lasciare a lui soltanto la conduzione del Pdl. Non se n’è fatto nulla, ed ecco che adesso nell’organizzazione di via dell’Umiltà si riconosce Ignazio La Russa e Denis Verdini, coordinatori del Pdl. In alto, Francesca Stagno che del partito cura l’organizzazione
quasi esclusivamente l’impronta di Denis Verdini. Dei suoi modi severi al limite dello sbrigativo, del suo pragmatismo aziendale a cui le categorie del politico non servono. A via dell’Umiltà comanda lui, e il coordinamento nazionale del Pdl assomiglia sempre più a un ministero. Anche perché come in qualsiasi ministero che si rispetti, ancor più del ministro conta il capo di gabinetto. E nel caso specifico a impersonare il ruolo sarebbe proprio Francesca Stagno. Sarà anche perché la 48enne cagliaritana ha fatto parte a pieno titolo della prima vera struttura burocratica organizzata dentro Forza Italia, quella di Claudio Scajola, e non a caso è lei ancor più di Verdini la custode di quell’efficientismo spietato e vagamente impersonale introdotto a via dell’Umiltà dall’attuale ministro allo Sviluppo economico. «A volerla dire tutta, Verdini ha affidato il partito nelle mani della Stagno», raccontano preoccupati alcuni berlusconiani. Lei decide, lei rivolge ordini imperiosi per telefono a dirigenti e attivisti, come se appunto il Pdl fosse un ministero, un qualsiasi ufficio della pubblica amministrazione dove non si fa politica ma si disbrigano pratiche.
È così a quanto pare anche perché la Stagno detiene formalmente una postazione assolutamente cruciale, in un partito mediatico come il Pdl: è la responsabile relazioni esterne del coordinamento nazio-
politica re per esempio che i due responsabili del dipartimento Organizzazione, Maurizio Lupi e il postfiniano Marco Martinelli, abbiano scarso potere. Ma è l’impostazione che conta, e quella di via dell’Umiltà sembra accusare la rigidità tipica delle burocrazie. È evidentemente il risultato di un sistema elettorale che mortifica il legame dei parlamentari con il territorio ed enfatizza il ruolo dei coordinatori che stilano le liste dei candidati. Chiunque sia stato eletto o aspiri ad entrare in Parlamento sotto le insegne del Pdl teme Verdini e La Russa come fossero i depositari del loro destino. Il che scoraggia l’iniziativa politica in periferia, quasi rende inutile l’articolazione sul territorio: è la fedeltà ai capi ad essere determinante. Gli effetti di questa ormai arcinota distorsione sono però meno evidenti nella componente ex An del partito: quel minimo di dinamismo e di dialettica in più rispetto ai forzisti viene considerato un valore aggiunto sempre utile nel confronto interno. Così ragionano La Russa e il responsabile dell’ultimo circolo territoriale di An.
nale. Ha quindi un compito decisivo nell’organizzazione di congressi e manifestazioni. «Senza di lei il mega-congresso della Fiera di Roma non avrebbe mai potuto svolgersi», raccontano dal partito, «grazie alla sua efficienza e ai suoi modi anche antipatici quando è necessario, siamo stati in grado di mettere in piedi un evento gigantesco, studiato e riuscito nei minimi dettagli, anche dal punto di vista tecnico». Chi ha lavorato al suo fianco ne parla come di «una molto seria e assai diversa dallo stereotipo di donna
Nei pochi casi in cui un residuo di movimentismo (e di autonomia) ancora sopravvive, la struttura centralista del Pdl verdiniano esce sconfitta. Il caso siciliano è emblematico: lì ha avuto ragione l’eretico Gianfranco Miccichè contro l’istituzionale Giuseppe Castiglione, inutilmente sostenuto da via dell’Umiltà. Alla fine Berlusconi ha dato ragione al suo pupillo di sempre, che ora vorrebbe dispiegare le ali fino a formare un nuovo Partito del Sud. Quello che è certo – e anche un po’paradossale – è il fatto che da una parte Berlusconi consegna il partito nelle mani di un pragmatico uomo d’ordine come Verdini e di pochi funzionari, dal-
Secondo alcuni berlusconiani «Verdini ha affidato a lei la gestione del partito, sempre più ridotta all’aspetto burocratico». «È seria, efficiente e sa tenere a bada schiere di dirigenti», dicono forzista che prevale all’esterno: quando si tratta di organizzare eventi complicati come le convention Francesca ha l’efficienza e il piglio giusto per tenere a bada squadre di uomini».Avvenente lo è, molto accurata nel look e «particolarmente attenta all’abbronzatura», dicono. Ma non tanto da distrarsi dall’esercizio del potere. Certo è inevitabile che in una formazione politica fondata sul carisma del leader più che sulla dialettica interna, risulti importantissimo il ruolo di chi organizza quei pochi, rarissimi grandi eventi in cui il condottiero convoca le truppe. Francesca Stagno deve aver ereditato il suo peso anche da questo: dal ridursi della vita del Pdl (e, prima, di Forza Italia) a quegli irripetibili atti fondativi la cui suggestione si propaga nel tempo. Esistono senza dubbio le varie articolazioni del coordinamento nazionale, e non si può di-
l’altra incoraggia lui stesso una controparte movimentista. «È sempre stato così, è esattamente quello che Silvio ha fatto anche in passato, con i circoli, per esempio», dicono dal fronte Pdl. Certo è che nel predisporre l’antidoto al modello Verdini, il Cavaliere si affida a pochi fidatissimi uomini della sua protostoria aziendale: Miccichè, appunto, sostenuto dal suo padre putativo Marcello Dell’Utri, e l’ex dirigente della Standa Mario Valducci. A quest’ultimo è stato affidato l’incarico di costituire un’ala movimentista del Pdl diffusa a livello nazionale: i Club della libertà.
L’esistenza di queste cellule si è manifestata sui media solo in una primissima fase, a ridosso del congresso fondativo. Nel frattempo hanno continuato a vivere, e a riprodursi, ma con molta discrezione, assecondando anche
un po’ lo stile riservato del loro presidente. Sulla cartina inserita nel sito internet dell’organizzazione, di club se ne contano oltre cinquanta, con tanto di video delle inaugurazioni e biografie dei responsabili. Ma il dato sarebbe in continua crescita, tanto che nella realtà dovrebbero già essercene quasi centocinquanta. Si tratta in parte di articolazioni inedite, in qualche caso dei circoli di Michela Brambilla passati sotto la nuova insegna, in altri di club e sezioni ereditate dalla struttura di Forza Italia. Che è trasmigrata naturalmente in buona parte nella cornice principale del Pdl, ma che il Cavaliere ha preferito riprodurre anche in questo nuovo progetto movimentista. Perché? «Nei club confluiscono i tanti dirigenti e attivisti locali che non hanno trovato spazio nei coordinamenti del Pdl», spiegano i berlusconiani, «va tenuto presente che tutti gli organismi territoriali sono formati solo in parte dalla precedente struttura forzista, visto che una quota ampia è riservata ad An e alle forze minori. In tanti che avevano un loro ruolo sul territorio sono rimasti esclusi e finiscono per formare i club».
Quanto durerà questa ennesima sperimentazione movimentista di Berlusconi? Certo è che quella dei club e delle adesioni realizzate soprattutto via internet (come avviene in questo caso) è una formula indicata come prioritaria fin dalle prime riunioni bilaterali Forza Italia-An di un anno fa. Colpisce poi il fatto che il premier, nel promuovere le avanguardie del suo movimento, si affidi sempre a uomini ai quali è legato da un rapporto personale, prepolitico, che come Dell’Utri, Valducci e Miccichè non solo hanno partecipato alla fondazione di Forza Italia ma erano dirigenti del suo gruppo quando la discesa in campo non era nemmeno un’ipotesi. È come se nelle occasioni in cui il Cavaliere decide di fare politica in modo minimamente partecipato, fosse inevitabile per lui non affidarsi a politici di professione ma a persone a lui vicine da anni, da prima del 1994. La stessa Michela Brambilla era già nel 1991 una giovanissima inviata della trasmissione di Canale 5 “I misteri della notte”. La cerchia delle persone su cui contare, per il premier, è sempre la stessa. «Se Miccichè è necessario per prevenire e intercettare l’onda del dissenso al Sud, i club della libertà sono anche un modo per controllare la struttura del Pdl», dice un berlusconiano della prima ora. «Al presidente serve sapere in tempo cosa avviene in periferia e nella struttura del partito in generale». Come se sussistesse un timore: che quell’apparato burocratico e impersonale di cui Verdini rappresenta il vertice potesse assumere un’incontrollabile autonomia, come capita spesso ai grandi apparati pubblici che si svuotano di senso politico e, capovolgendo i ruoli, finiscono per dettare la linea.
29 luglio 2009 • pagina 9
La sede dell’Eur dismessa dopo le Politiche
Il motore azzurro che non gira più
ROMA. È un luogo quasi metafisico. Il Motore azzurro, se potesse essere esposto in un museo, sarebbe un inimitabile esempio di modernariato politico. Nulla di più tecnologicamente avanzato è stato mai messo in piedi nella storia dei partiti italiani, eppure quel capolavoro di ingegneria mediatico-organizzativa è stato abbandonato. A via dell’Industria a Roma non ci sono più né sale conferenze né impiegati: la struttura nata a fine 2005 è stata dismessa dieci giorni dopo la vittoria elettorale del Pdl alle Politiche dell’anno scorso.
Curioso che non si sia pensato di riconvertirla, visto che il Pdl è pur sempre la somma di due partiti e la vecchia sede di Forza Italia ne ospitava uno solo. Il Motore azzurro fu concepito a fine 2005, in vista di un’altra sfida elettorale, quella che nell’aprile 2006 avrebbe visto il Cavaliere battuto di un nonnulla dall’Unione prodiana. Da lì avrebbero dovuto essere coordinati i “comitati elettorali per la vittoria”, enfatica definizione con cui si sarebbero dovute chiamare le cellule della campagna elettorale. Il principio ispiratore era nel sostanziale fallimento della rete dei rappresentanti di seggio allestita cinque anni prima. In vista di una sfida che si presentava decisamente più improba della preceden-
te, Berlusconi provò a dare una scossa alla troppo leggera struttura di Forza Italia. Ne seguì un paradosso: i delegati territoriali del Motore azzurro vennero adocchiati con sospetto dai dirigenti locali del partito e la loro iniziativa fu spesso boicottata.
All’Eur c’erano sale conferenze in cui dieci persone potevano parlare da dieci luoghi diversi, una marea di computer, telecamere, una sala regìa degna della Cnn. Si tentò di riconvertire la mirabilia come sede romana (quella principale venne aperta a Milano) dei Circoli della libertà di Michela Brambilla. Non si videro mai più di sette persone, in quei duemila metri quadri
Tecnologie da film di fantascienza di fatto mai utilizzate: nell’immenso quartier generale non hanno mai lavorato più di sei o sette persone che, lontani dai palazzi del potere capitolino, ricordavano un film di fantascienza più che una sede di partito. Michela non ci investì più di tanto, si ipotizzò in una prima fase di utilizzare la struttura come location della Tv della libertà, poi si ripiegò sui collaudati studi di Euroscena, nel quartiere Aurelio. Finché la vittoria dell’anno scorso non ridimensionò l’ambizione tecnologica, consegnando definitivamente il Motore azzurro all’archeologia. (e.n.)
speciale / G2
pagina 10 • 29 luglio 2009
Summit. Nel secondo giorno di lavori (a porte sbarrate) Stati Uniti e Cina pongono le basi per una collaborazione «duratura e vantaggiosa per tutti»
Il duopolio del XXI secolo Geithner annuncia una riforma della governance finanziaria, Pechino la fine del protezionismo di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Le istituzioni finanziarie internazionali, ha aggiunto il capo economico degli Stati Uniti, «devono essere più rappresentative delle dinamiche economie emergenti, oltre che lavorare per rafforzare le proprie capacità in vista di crisi future. Che vanno evitate a tutti i costi». Gli Stati Uniti, ha concluso, «sono impegnati a ridurre il deficit nei prossimi quattro anni ed aumentare il tasso di risparmio.La Cina deve mantenere gli sforzi per limitare e allentare gli impatti della recessione globale. Siamo impegnati ad assumere le misure necessarie per ridurre il deficit a un livello sostenibile entro il 2013». Sul primo punto, Geithner ha trovato il pieno appoggio degli ospiti. La Cina chiede da anni una maggiore presenza all’interno del Fondo monetario internazionale e altri organismi similari. In effetti, negli ultimi tempi la richiesta è divenuta una legittima pretesa: Pechino ha messo da parte, come tutti sanno, un ingente quantitativo di Buoni del Tesoro americani e ora detiene circa 800 miliardi di dollari americani. In pratica è il maggior creditore di Washington, e le sue richieste non possono più essere messe da parte, come si faceva un tempo, con indifferenza. È finito il tempo di Nixon, che sorrideva a Mao con simpatia perché «ho visto tanta ricchezza, ma anche tanta povertà in questo Paese».
Oggi la Cina continua a essere straziata da tensioni sociali quotidiane, da disparità economiche che presentano gradini quasi insormontabili, ma almeno nei piani alti dei palazzi del potere gioca un ruolo decisivo per il resto del mondo. E se la richiesta di accantonare il dollaro come valuta internazionale di riferimento appare per adesso quanto meno velleitario, va detto che tutte le altre verranno accettate nel breve periodo. Wang, capo negoziatore, non vede l’ora di tornare da Hu Jintao per annunciare una vittoria devastante: la fine del protezionismo e l’abolizione dei dazi sull’importazione del Made in China. Una concessio-
Il presidente perde 10 punti sulla legge sanitaria
Intanto Obama crolla di Michael Novak segue dalla prima Più i cittadini americani conoscono il progetto di legge, più aumentano le ritrosie. Il suo grande piano di stimolo dell’economia non ha sortito i tanto auspicati effetti positivi. Un programma economico di quel tipo rappresenta la consueta alternativa messa in campo dai democratici ad un aumento della pressione fiscale, sulla scorta della teoria del cosiddetto “aumento della domanda”contrapposta ad un “aumento dell’offerta”. In alcuni dei maggiori stati, il tasso di disoccupazione ha raggiunto picchi vertiginosi. Inoltre, se Obama vanta ancora percentuali di tutto rispetto in termini di popolarità personale, lo stesso non si può dire per la sua amministrazione, il cui gradimento precipita da un iniziale 60 per cento al 50. Le sue politiche non sono gradite: un deficit sorprendentemente alto, un controllo statale mai così ferreo sul settore industriale, l’insistenza su una grossolana ideologia di sinistra. Per fare un esempio, di recente Obama ha dimostrato una sfacciata noncuranza nell’affermare che alcuni pazienti in età avanzata dovranno d’ora in poi riflettere sul se l’assistenza sanitaria che attualmente ricevono apporti loro sostanziali benefici, e forse dovranno convincersi ad accantonarla.
Cioè condannarli a una morte precoce. Un controllo governativo totale, anche nel momento del trapasso, può mai essere definito una “riforma”? Dopo una lite tra un docente di colore dell’università di Harvard e un agente di polizia, Obama ha commesso lo stupido errore di difendere nel corso di una conferenza stampa il suo “amico”, il docente di colore, defi-
nendo i membri del corpo di polizia locale come degli “stupidi”. La grande divisione classista degli Usa non contrappone più la borghesia al proletariato (in quanto non vi è più un proletariato, ma solo un grande ceto medio); non contrappone più un’élite ben istruita alla gente comune, alle famiglie dei quartieri urbani e ai normali lavoratori. Dando dello stupido a un agente, Obama ha rivelato tutta la propria arroganza in tipico stile harvardiano.
Le molte proteste hanno costretto il Presidente a fare marcia indietro. E per sembrare un tipo alla mano (come il poliziotto, non come il docente), Obama li ha persino invitati alla Casa Bianca per bere “una birra” insieme. Troppo tardi Presidente! Questo improvviso fulmine a ciel sereno, ulteriore riprova della coscienza di classe del Presidente, era proprio ciò che molti sospettavano già da tempo. Al di là del tono mellifluo ed ampolloso di Obama, tale episodio risulta rivelatore di una pretesa ormai insopportabile; una superiorità che egli non ha ancora saputo guadagnarsi. Inoltre, quando parla a braccio, Obama non riesce sorprendentemente a fare breccia: sconclusionato, noioso, incline all’errore ed evasivo. Inoltre sembra incapace di ammettere i propri sbagli o di affermare quanto tutti noi riteniamo sia vero o evidente. “Calibrato” è un participio dietro a cui si trincera spesso, come quando ha dovuto ridimensionare gli epiteti rivolti al poliziotto, come se non avesse utilizzato alcuna offesa. No, le sue parole non sono state molto “calibrate”. Ditemi voi quanto calibrato può essere l’aggettivo “stupido”. Obama ha smarrito il proprio potere di persuasione.
Il Consigliere di Stato cinese Dai Bingguo incontra il Segretario di Stato americano Hillary Clinton. I due hanno discusso della situazione in Corea del Nord e del nucleare iraniano. In basso il presidente Usa Barack Obama
ne del genere, probabilmente, non verrà dall’incontro di questi giorni. Ma le dichiarazioni di ieri mattina del vice premier non lasciano dubbi: «Chiederemo agli Stati Uniti di astenersi dal prendere ogni misura protezionistica». Una richiesta alquanto perentoria. Il secondo giorno di lavori del Dialogo strategico ed economico (come è ufficialmente conosciuto il summit) sembra essere stato dunque improntato a una grande cooperazione, almeno di facciata. Per bocca del vice premier cinese, inoltre, la Cina ha esortato gli Stati Uniti a un’attenta gestione delle massicce misure di stimolo varate per contrastare la crisi economicofinanziaria onde equilibrare gli effetti sul dollaro.
Secondo Wang, «come Paese la cui divisa rappresenta una valuta di riserva chiave nel mondo, gli Stati Uniti dovrebbero bilanciare adeguatamente e gestire attentamente l’impatto dell’offerta di dollari sull’economia domestica e l’economia mondiale nel suo comples-
so». Da parte sua, «la Cina si impegna a stimolare la domanda interna per sostenere la crescita, come da tempo chiedono gli Stati Uniti». D’altra parte, sono numerosissimi gli analisti che biasimano proprio la correlazione fra le due economie di mercato: le imputano, nella fattispecie, proprio l’origine della crisi finanziaria.
E in questo senso, l’operato di Obama è molto più complicato di quanto possa sembrare. Come riporta un insolitamente acre commento pubblicato ieri dall’edizione nazionale del New York Times, «il presidente dovrà faticare molto in questo summit. Non si tratta di convincere i suoi alleati, i repubblicani moderati o degli economisti scettici. Deve convincere la Grande Sala del Popolo [dove si riunisce l’Assemblea nazionale cinese ndr] che il suo piano di stimulus funziona». In effetti, c’è una sottile - per quanto reale - possibilità che i cinesi vendano il loro debito estero americano. Uno dei maggiori funzionari della Banca centrale cinese, in un editoriale apparso sul People’s Daily, sottolinea infatti: «Dato che siamo i maggiori proprietari di Buoni del Tesoro statunitense, siamo anche quelli che verrebbero più
speciale / G2
29 luglio 2009 • pagina 11
I nuovi imperi economici vogliono cambiare la valuta di riferimento
Ma scavalcare il dollaro resta un sogno proibito di Enrico Singer il sogno proibito dei nuovi imperi del XXI secolo. Mandare in pensione il dollaro come moneta di riferimento. E togliere, così, agli Stati Uniti lo strumento-chiave della loro supremazia sul sistema finanziario mondiale. Un sogno comune alla Cindia, come è chiamata la possibile, futura alleanza tra Cina e India, le due tigri dell’economia emergente, e al gruppo di Shanghai che unisce alla Cina la Russia e quelli che gli americani chiamano gli stancountries: i Paesi che finiscono in stan (Kazakhstan, Kyrghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) di cui poco si parla, ma che sono ricchi di materie prime. L’idea tenta anche il Brasile che, non a caso, si è avvicinato a Russia, India e Cina in quell’embrione di cartello che ha preso il nome di Bric. Ognuno ha una sua proposta per trasformare il sogno in realtà. Il gruppo di Shanghai ipotizza il ruan (fusione di rublo e yuan), il Bric punta su una moneta virtuale emessa dal Fondo monetario internazionale. L’Europa ha gettato nella mischia l’euro che, dopo i primi successi (molti Paesi, soprattutto i produttori di petrolio arabi, hanno diversificato le loro riserve affiancando al dollaro la valuta europea) è, tuttavia, rimasto al palo. Il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha addirittura pubblicato un saggio che teorizza la creazione di una nuova valuta di riserva che inneschi una completa revisione del sistema finanziario globale. Nessun serio osservatore poteva immaginare che tutto questo intricato capitolo sarebbe stato sciolto nel vertice Usa-Cina che si è appena concluso a Washington. Ma il tema era nell’agenda ufficiale dei colloqui e questo, di per sé, è una svolta come l’appello di Obama ad una santa alleanza sulla difesa dell’ambiente. Al punto che qualcuno già parla di G2: di una specie di direttorio a due che, se scattasse davvero, potrebbe dettare le sue regole al resto del pianeta.
È
colpiti in caso di panico nelle Borse americane».
Un primo segnale d’allarme venne dopo il crollo di Fannie Mare, avvenuto alla fine dello scorso anno. Dopo le comunicazioni ufficiali, i dirigenti economici di Pechino si attaccarono al telefono per chiedere di-
li. Ma ci siamo impegnati a renderli tali entro la fine dell’amministrazione Obama». Anche soltanto cinque anni fa, sarebbe stato molto complicato immaginare un’agenzia economica statunitense che sfodera il suo gotha per spiegare ai cinesi cosa sta combinando. Cosa forse più grave, per giustificar-
Nell’incontro di Washington, il gotha del Tesoro statunitense si è affannato per spiegare agli ospiti che lo stimulus è necessario e sostenibile. È fondamentale che Pechino non venda il debito Usa rettamente a Washington come i loro soldi sarebbero stati protetti. Non furono, in quell’occasione, formulate minacce di alcun tipo sugli investimenti futuri: ma il messaggio recapitato era chiaro. Per calmare gli animi, ai colloqui di ieri ha partecipato anche Peter Orszag, direttore del budget del Tesoro, e il coordinatore dell’Agenzia per gli affari cinesi, David Loevinger. Che, ieri, ha spiegato: «È stato necessario sottolineare quanto lo stimulus fosse stato necessario. È la cosa giusta da fare, abbiamo detto ai nostri ospiti, e continueremo fino al 2011 nel portarlo avanti». Certo, ha ammesso l’economista, «i tassi attuali non sono sostenibi-
si e convincere di essere nel giusto. Obama ha nel merito molte giustificazioni: come spesso si diceva dei rapporti fra Stati Uniti e Giappone, l’interdipendenza è divenuta talmente forte da rendere necessario ogni accorgimento per mantenerla vitale e in salute.
E probabilmente ogni giustificazione nel merito è inutile, dato che la spaventosa potenza commerciale cinese - pur nelle sue numerose crepe strutturali - è una realtà con cui tutti siamo chiamati a fare i conti. È invece utile guardare con i giusti occhi quello che è successo negli ultimi due giorni a Washington. È nato un duopolio.
Che Cina e Stati Uniti, al di là di tutte le differenze politiche e sociali, siano interdipendenti è dimostrato dal volume degli scambi commerciali (gli Usa importano dalla Cina merci per quasi 350 miliardi di dollari) ed anche dal fatto che Pechino è al primo posto fra gli investitori stranieri in titoli del Tesoro Usa. È vero che negli ultimi mesi la Cina - insieme a Giappone e Russia - ha drasticamente ridotto gli acquisti di treasury tagliando di 4,4 miliardi di dollari i propri investimenti in titoli di Stato americani, ma il volume totale resta enorme: 763,5 miliardi di dollari del debito pubblico Usa è nelle casse della Banca centrale di Pechino e l’amministrazione Obama punta a venderne altri per finanziare il piano di stimolo dell’economia che ha varato per uscire dalla crisi. Ma è proprio l’interdipendenza il tallone d’Achille del nuovo impero cinese che ha un tasso di crescita vorticoso legato, però, all’esportazione dell’85 per cento dei beni che produce. Ecco, il punto è proprio questo. La politica economica del capitalismo di Stato lanciata ormai da anni a Pechino ha indubbiamente registrato una serie di successi: la lunga marcia a caccia di materie prime in Asia e
in Africa e il potenziamento del sistema industriale hanno fatto della Cina la “fabbrica del mondo” che sforna qualsiasi prodotto - dalle magliette di cotone all’elettronica - ai prezzi più bassi. Ma non ha ancora sviluppato un mercato interno in grado di assorbire almeno una quantità significativa della sua produzione. Il risultato? Si è visto negli ultimi mesi con la crisi innescata dall’esplosione della bolla dei mutui subprime americani che ha provocato più disoccupati e tagli di commesse nelle fabbriche cinesi che in quelle Usa.
I nuovi imperi saranno di sicuro i protagonisti del XXI secolo e la crisi di strutture di governance globale come il G8, che non li comprende, lo dimostra. La Cina s’imporrà come l’impero dell’hardware. L’India sarà un impero più tecnologico e flessibile. Poi ci saranno il Brasile, già definito l’impero verde-oro per-
La Cina ha nelle sue casse 763,5 miliardi del debito pubblico americano ed esporta in Usa merci per 350 miliardi: l’interdipendenza è la base di una “coesistenza competitiva” più che di un direttorio
ché, oltre al petrolio, investe anche nei biocombustibili (insieme agli Usa produce il 70 per cento dell’etanolo mondiale) e la Russia, che è - e che continuerà ad essere - il più grande impero energetico per le sue riserve di gas e di petrolio. Ma nessuno dei nuovi imperi, in una prospettiva di medio periodo, potrà fare a meno della dipendenza dai vecchi imperi: che si chiamino Usa o Europa. E il rapporto, più che muovere in direzione di un direttorio globale, continuerà ad essere di competizione. Un mondo multipolare non è per forza multilaterale: al contrario è prevedibile che ognuno cercherà di conservare - o di conquistare pezzi di potere e di supremazia ai danni degli altri. Il caso della difesa dell’ambiente è esemplare. Cina, India e Brasile hanno detto no all’intesa del G8 sul taglio delle emissioni di gas serra per difendere il loro apparato industriale, potente ma inquinante. E non è un caso che proprio su un’intesa sull’ambiente insista Obama con la Cina nella linea di quella che si potrebbe definire coesistenza competitiva.
speciale / G2
pagina 12 • 29 luglio 2009
tiamo entrando in una nuova era della storia mondiale che sancirà il tramonto del dominio occidentale e l’alba del secolo asiatico. Ormai lo pensano un po’ tutti. Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, il rapido sviluppo economico che ha caratterizzato la regione ha sospinto a ritmi sostenuti tanto la produzione economica quanto le infrastrutture militari della regione. Ma sarebbe una grossolana esagerazione affermare che l’Asia emergerà come il principale attore nelle dinamiche mondiali. La crescita del continente asiatico determinerà al massimo l’avvento di un mondo informato da logiche multipolari, in contrapposizione all’unipolarismo che ha contraddistinto il XX secolo. L’Asia non è al momento neanche lontanamente in grado di assottigliare il divario economico e militare che la separa dall’Occidente. La regione contribuisce per circa il 30 per cento alla quota totale della produzione mondiale, ma a causa della sua vasta popolazione, il suo prodotto interno lordo pro capite risulta pari a 5.800 dollari; ed il raffronto è evidente se paragonato ai 48mila dollari annuali pro capite degli Stati Uniti. I paesi asiatici si stanno impegnando in un’affannosa opera di ammodernamento delle rispettive forze armate, ma la somma delle spese militari da
S
Non credete alle voci sul presunto declino degli Usa e l’avvento di una nuova era asiat
Ma la Cina è (ancora
di Minx questi sostenute nel 2008 ha rappresentato solo un terzo di quella statunitense. E nonostante gli attuali, frenetici tassi di crescita annui, all’asiatico medio occorreranno 77 anni per eguagliare il reddito dell’americano medio. Il cinese avrà invece bisogno di 47 anni. Per ciò che concerne gli indiani, le statistiche prevedono un periodo di attesa di 123 anni. E il budget militare complessivo non eguaglierà quello statunitense per i prossimi 72 anni. In ogni caso, appare insensato
venisse il centro di gravità della geopolitica mondiale, questo sarebbe un centro dominato da logiche piuttosto instabili. Coloro che ritengono che l’aumento di hard power dell’Asia comporterà inevitabilmente un aumento del suo peso specifico a livello geopolitico dovrebbero forse dare un’occhiata a un altro ingrediente essenziale per uno suo futuro ruolo egemone: le idee. La Pax Americana è stata resa possibile non solo grazie al travolgente potere economico e militare degli Sta-
La Pax Americana è stata possibile anche in virtù di una serie di idee visionarie: il libero commercio, il liberalismo di matrice wilsoniana e le istituzioni multilaterali. Che all’Asia mancano parlare dell’Asia in quanto singola entità di potere, ora o in futuro. Ciò che invece risulta molto più probabile è che la rapida ascesa di un singolo attore regionale verrà salutata con timore dai suoi vicini. La storia asiatica è costantemente segnata da esempi di competizione per il potere e persino di conflitti militari tra i suoi attori più influenti. Giappone e Cina hanno ripetutamente combattuto l’uno contro l’altra per assicurarsi il controllo della Corea; l’Unione Sovietica si è più volte alleata con India e Vietnam al fine di contenere l’espansionismo cinese, mentre la Cina ha fornito supporto al Pakistan al fine di controbilanciare l’egemonia dell’India nella regione. E la fase di sviluppo che sta ora caratterizzando la Repubblica Popolare Cinese ha già reso più stretti i rapporti tra Giappone ed India. Se l’Asia di-
ti Uniti, ma anche in virtù di una serie di idee visionarie: il libero commercio, il liberalismo di matrice wilsoniana e le istituzioni multilaterali. L’Asia odierna potrà anche disporre delle economie più dinamiche su scala mondiale, ma ciò non è sufficiente a svolgere un ruolo tanto esaltante quale quello di un leader del pensiero. L’acquisizione di potere è la grande idea che anima i progetti degli attori asiatici; ed essi si ritengono giustamente orgogliosi della nuova rivoluzione industriale a cui hanno dato il via. Ma la fiducia in sé stessi non costituisce un’ideologia, ed il tanto pubblicizzato modello di sviluppo asiatico non appare un prodotto esportabile.
L’ascesa del continente non conosce soste? Non fateci troppo affidamento. Le percentuali che il conti-
nente asiatico ha recentemente fatto registrare sembrerebbero garantirgli lo status di superpotenza economica. Goldman Sachs, ad esempio, stima che la produzione economica cinese supererà quella statunitense nel 2027, mentre quella indiana raggiungerà tale risultato solo nel 2050. Quantunque il reddito pro capite delle popolazioni asiatiche si attesti su percentuali relativamente modeste, nel prossimo futuro il tasso di crescita della regione sopravanzerà in realtà quello dell’Occidente. Ma nei decenni a venire l’Asia dovrà misurarsi con gli enormi problemi dati dal boom demografico. Nel 2050 più del 20% degli asiatici avranno varcato la soglia della terza età; e l’invecchiamento della popolazione rappresenta la causa principale della stagnazione in cui si trova invischiato il Giappone. La popolazione anziana della Cina aumenterà vertiginosamente a partire dalla metà del prossimo decennio. Il suo livello di accumulazione del risparmio scenderà bruscamente mentre i costi per l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale toccheranno picchi im-
pressionanti. L’India rappresenta la sola eccezione a questi trend generali, ognuno dei quali potrebbe determinare uno stallo nella crescita della regione. Le restrizioni allo sfruttamento delle risorse ambientali e naturali potrebbero rivelarsi anch’esse causa di un rallentamento nei ritmi produttivi. L’inquinamento rende sempre più limitata la disponibilità di acqua, mentre l’inquinamento dell’aria esige un pesantissimo tributo dalla salute delle popolazioni (è responsabile di più di 400mila decessi l’anno nella sola Cina). In assenza di progressi rivoluzionari nel campo delle energie alternative, l’Asia potrebbe dover far fronte a una crisi energetica di enormi proporzioni. E gli effetti del cambiamento climatico potrebbero causare la devastazione del comparto agricolo della regione. Inoltre, l’attuale crisi economica determinerà un eccesso della capacità produttiva in quanto la domanda dei paesi occidentali diminuirà considerevolmente. Le compagnie asiatiche, costrette a fare i conti con un’asfittica domanda interna, non saranno in
speciale / G2
29 luglio 2009 • pagina 13
tica. Ci vorranno molti decenni prima che Pechino o Delhi possano dominare il mondo
a) una tigre di carta
xin Pei grado di vendere i propri prodotti nella regione. Il modello di sviluppo asiatico incentrato sulle esportazioni si dissolverà o cesserà in ogni caso di fungere da produttivo motore di crescita. L’instabilità politica potrebbe altresì spingere la locomotiva economica asiatica fuori dai binari. Il collasso delle istituzioni governative in Pakistan o un conflitto militare nella Penisola di Corea potrebbero causare immani devastazioni. In Cina, l’aumento delle diseguaglianze e la corruzione endemica potrebbero alimentare disordini sociali ed imprimere una brusca frenata alla crescita economica del paese. E se una svolta democratica dovesse in qualche modo costringere il Partito Comunista ad abbandonare il potere, la Cina dovrà molto probabilmente affrontare una lunga fase di transizione caratterizzata da frequenti motivi di instabilità, con un governo centrale debole e delle performance economiche mediocri.
Pechino dominerà l’intero Oriente? Poco probabile. Quest’anno la Cina è sulla buona strada per strappare al Giappone il titolo di seconda economia del pianeta. In quanto fulcro economico della regione, la Cina si è ora messa alla testa dell’integrazione economica dell’Asia. Anche il peso diplomatico di Pechino sta aumentando considerevolmente, apparentemente grazie al suo nuovo soft power. Persino l’esercito un tempo antiquato ha acquisito tutta una serie di nuovi sistemi di armamenti e ha significativamente migliorato le capacità di gestire le proprie forze. Sebbene sia vero
che la Cina diventerà il primo paese della regione sotto ogni punto di vista, la sua ascesa denota limiti strutturali. È improbabile che la Cina eserciti un proprio dominio sull’Asia nel senso che così facendo si sostituirebbe agli Stati Uniti nel mantenimento della pace e influenzerebbe in maniera sostanziale le politiche estere degli altri Paesi. La sua crescita economica non è poi in alcun modo garantita. Le insofferenti minoranze secessioniste (i Tibetani e gli Uighuri, in questi giorni sotto la morsa del regime) risiedono in aree importanti dal punto di vista strategico che rappresentano il 30% del territorio cinese. Taiwan, il cui ritorno all’ovile di Pechino non appare come una prospettiva realistica quantomeno nell’immediato futuro, costringe la Cina a mantenere dislocati in quell’area ampi settori delle proprie forze armate. Il Partito Comunista Cinese al potere, nella cui visione il mantenimento del sistema monopartitico risulta più importante dell’espansionismo d’oltremare, non sembra incline a farsi sedurre L’articolo di Minxin Pei riportato in queste pagine si può trovare - in versione integrale nel numero di “Risk” in edicola. Dedicato integralmente alla crisi ancora in corso nei Balcani, l’edizione numero 52 dei quaderni di geostrategia ospita interventi di Vincenzo Camporini, Carlo Jean, Andrea Margelletti, Michele Marchi e Mario Arpino
dalle illusorie prospettive di grandezza imperiale. La Cina ha dei formidabili vicini quali la Russia, l’India ed il Giappone che opporranno un’accanita resistenza ad ogni tentativo cinese di egemonizzare la regione. Anche il sudest asiatico, dove negli ultimi anni la Cina sembra aver guadagnato i maggiori vantaggi in termini geopolitici, si è dimostrato riluttante a gravitare completamente attorno all’orbita di Pechino. Né tantomeno gli Stati accetterebbero di capitolare di fronte alla forza d’urto dello schiacciasassi cinese. Per ragioni complesse, l’ascesa della Cina ha generato paure ed inquietudini, e non di certo entusiasmo, tra gli asiatici. Solo il 10 per cento dei giapponesi, il 21 per cento dei sudcoreani ed il 27 per cento degli indonesiani intervistati dal Chicago Council on Global Affairs
hanno dichiarato il proprio favore a una Cina leader dell’Asia. Fin troppo per l’offensiva dello charme di Pechino.
Gli Usa perdono influenza nell’area? Assolutamente no. Impantanati in Iraq e in Afghanistan ed avvolti nelle spire di una gravissima recessione, gli Stati Uniti appaiono certamente come una superpotenza in declino. Conformemente con questa visione, l’influenza statunitense in Asia sembra aver conosciuto una battuta d’arresto, con il dollaro un tempo potente che arranca nei confronti dello yuan cinese e il regime nordcoreano che fa la voce grossa nei confronti di Washington. Ma è prematuro dichiarare la fine della preminenza americana in Asia. Con
Che il fenomeno asiatico sia eccessivamente gonfiato o meno, la regione è destinata a incrementare rapidamente la propria influenza geopolitica ed economica nei decenni a venire ogni probabilità, i meccanismi di autoregolazione che contraddistinguono il sistema economico a stelle e strisce permetteranno agli Stati Uniti di recuperare il terreno perduto. La leadership americana in Asia prende le mosse da vari fattori, non solamente il suo peso militare o economico. Come la bellezza, l’influenza geopolitica di una nazione balza spesso agli occhi dell’osservatore. Sebbene alcuni ritengano la minore influenza statunitense nella regione un dato di fatto, molti asiatici la pensano diversamente. Il 69 per cento dei
cinesi, il 75 per cento degli indonesiani, il 76 per cento dei sudcoreani e il 79 per cento dei giapponesi interpellati dal Chicago Council affermano che l’influenza degli Stati Uniti è cresciuta nel decennio appena trascorso. Un altro motivo, forse più importante, della duratura preminenza statunitense nella regione è la constatazione di come la maggior parte dei paesi asiatici veda di buon occhio il ruolo di Washington in quanto garante della pace in Asia. Le élite asiatiche da Nuova Delhi a Tokyo continuano a fare affidamento sullo Zio Sam per tenere sotto controllo Pechino. Quantunque il fenomeno asiatico sia eccessivamente gonfiato o meno, la regione è destinata ad incrementare rapidamente la propria influenza geopolitica ed economica nei decenni a venire. È già diventata uno dei pilastri del nuovo ordine internazionale. Ma nel pensare al futuro dell’Asia, proviamo a non fare il passo più lungo della gamba. La sua ascesa economica non è scritta nel firmamento. E date le differenze culturali ed una storia di intensa rivalità tra i paesi della regione, appare improbabile che l’Asia pervenga ad una qualsiasi forma di unità regionale ed evolva sino a divenire un’entità stile Unione Europea, almeno nel prossimo futuro. Molti anni or sono, Henry Kissinger fece la famosa domanda: «Se devo parlare con l’Europa, chi chiamo?» Potremmo dire la stessa cosa per l’Asia. Tutto sommato, lo sviluppo dell’Asia dovrebbe presentare più opportunità che minacce. La crescita della regione non solo ha fatto uscire milioni di persone dalla povertà, ma ha altresì fatto accresciuto la domanda di prodotti occidentali. Le sue crepe interne consentiranno agli Stati Uniti di testare l’influenza geopolitica di potenziali rivali quali Cina e Russia a costi e rischi ragionevoli. E si spera che l’Asia possa fornire le pressioni competitive di cui gli occidentali hanno urgentemente bisogno per rimettere ordine in casa propria: senza cadere preda degli slogan o dell’isteria.
mondo
pagina 14 • 29 luglio 2009
Sicurezza, allargamento, difesa, consenso, rapporti con Ue e Onu: tutto è da riscrivere. E molti non vogliono
Il mondo cambia, il Patto no. Ma qualcuno ci prova di Stranamore a Nato ha bisogno di un nuovo concetto strategico, di un nuovo libro guida, perché il mondo cambia e il documento attuale, che risale al 1999, è terribilmente invecchiato. Anzi, se la Nato fosse un po’ più efficiente e meno pachidermica ci avrebbe già pensato da qualche anno. Ma il pur dinamico precedente segretario generale, Jaap de Hoop Scheffer, non è riuscito nell’intento di portarlo alla approvazione prima della fine del suo mandato. Il concetto strategico non può naturalmente avventurarsi sul terreno davvero minato, quello relativo al meccanismo di funzionamento della Nato, basato sul consenso. Un consenso sempre più difficile da ottenere a mano a mano che l’Alleanza si espande. Un gruppo di generali coraggiosi qualche tempo fa osò
L
violare il tabù proponendo una revisione del trattato istitutivo che sancisca il principio delle decisioni a maggioranza. Qualificata, ma a maggioranza. Una bella provocazione. Che resterà tale, perché mai ci sarà il… consenso per una simile rivoluzione. Possibile per la Ue, ma solo perché la Ue non si occupa di operazioni militari “toste”. Ma se la Nato ha ancora un senso è proprio perché il suo core business è quello militare. Altrimenti ci basterebbe (e avanzerebbe) l’Osce o l’Onu. Dunque un nuovo concetto strategico. Nel quale si deve almeno chiarire se è possibile coinvolgere l’Alleanza in operazioni di pace/gestione crisi, anche se qualcuno preferisce stare alla finestra. Ma se non può svolgere missioni di gestione delle crisi e imposizio-
Il dibattito. In 60 anni l’Alleanza è stata capace di rinnovarsi solo 4 volte ecco perché è necessario aggiornare il suo concetto strategico
La quinta Nato Non si può lottare contro il terrorismo con delle regole ferme alla guerra fredda di Mario Arpino n concetto strategico altro non è che una linea di pensiero che risponde alle domande “dove stiamo andando? dove vogliamo andare?”Tutti, tranne coloro che vivono giorno per giorno, ne hanno uno. Quale che sia questo concetto, la vita è lunga e le circostanze cambiano, per cui è necessario essere pronti a mutarlo. Chi sarà in grado di adattarlo non tanto a situazioni contingenti, quanto alla più probabile visione del futuro,
U
cina d’anni, essendo stato adottato a Washington, al vertice per il cinquantennale, nell’aprile del 1999. In piena guerra del Kosovo, e quindi ben prima del fatidico undici settembre. E prima anche della missione in Afghanistan, che si svolge al di fuori dell’area euro-atlantica. Nella storia della Nato i cambiamenti del Concetto Strategico non sono stati frequentissimi. È accaduto nel 1952, nel 1967, nel 1991 e da ultimo, come si è detto, nel 1999. Ma dopo l’11
Dopo l’11 settembre la Storia ha cominciato a scorrere più veloce, e l’Organizzazione si è trovata ad inseguire gli eventi, piuttosto che anticiparli, con una strategia che ormai mostra i propri limiti sarà l’elemento vincente. Vale per l’uomo, la donna, l’industria, per una qualsiasi organizzazione e perfino per uno Stato o per un’alleanza di Stati. Nelle scuole di business si fa spesso l’esempio di Madonna. Quante volte ha cambiato? Ogni volta che ha avvertito, con buon anticipo, segnali di declino. La Nato non sfugge a questa logica. Il concetto strategico in vigore, che ne rappresenta il core business, ha una maturità di una de-
settembre la Storia ha cominciato a scorrere più veloce, e l’Alleanza si è trovata ad inseguire gli eventi, piuttosto che ad anticiparli, con una strategia che ha immediatamente mostrato i propri limiti. Già nel febbraio 2007, infatti, il Segretario Generale della Nato si era espresso in favore di un nuovo concetto strategico, argomentando che le operazioni in corso in Afghanistan e, ancora prima, quelle nei Balcani, avevano in-
segnato molto sulla sicurezza nel XXI secolo. «…Dobbiamo farne tesoro in un documento guida, che poi sia applicabile nella pratica…». Ma, come al solito, ogni procedura della Nato richiede il consenso, e alcuni Paesi membri hanno mostrato di nutrire dubbi sulle conseguenze del cambiamento, temendo di riattizzare il “dissidio” transatlantico di qualche anno fa. Altri, che nutrono gli stessi timori e paventano nuove av-
venture, si sono affrettati a dichiararsi paghi del “Comprensive approach” varato al vertice di Riga nel 2006. Solo Angela Merkel si era pronunciata apertamente in favore di una rapida predisposizione del documento, da approvarsi possibilmente già nel recente vertice di Strasburgo. Ma i tempi erano stretti e a Strasburgo ci si è quindi limitati a riconoscere che le condizioni erano mature per riscrivere il Concetto, e di ciò veniva dato mandato al Segretario Generale. Jaap de Hoop Scheffer coglieva la palla al balzo e il 7 luglio scorso, alla presenza del
successore designato Anders Fogh Rasmussen, lanciava un pubblico dibattito per l’elaborazione del nuovo documento, che dovrebbe essere predisposto per l’approvazione nel prossimo Summit.
Ma è davvero necessario cambiare? Il Concetto Strategico del 1991 inaugurava l’epoca post-murale e differiva quindi profondamente dai precedenti sia nel contenuto che nella forma. Era un documento pubblico, che manteneva al centro la sicurezza dei paesi membri, combinandola però con la necessità di espanderla al resto dell’Europa e, in forma di parternariati e di cooperazioni, ai
mondo ni/stabilimento della pace, la Nato rischia davvero l’irrilevanza. Poi bisogna definire se si vuole o meno una Nato super allargata, anche a partner asiatici, come vogliono gli Usa, che premono perché la Nato diventi alleanza globale, cui fare accedere almeno Australia, Giappone e Corea del Sud. Un modo per coinvolgere la Nato in quelle crescenti beghe di sicurezza che ora gli Usa si sfangano da soli o quasi. Personalmente non la trovo una buona idea, così come penso che la Nato si sia allargata già troppo, ma il tema è al centro del dibattito.
Altra questione spinosa, quella della difesa antimissile, specie con Obama alla Casa Bianca. Bush aveva quasi fatto il miracolo di fare della difesa antimissile un core business Nato. Ora sarà più dura. Poi naturalmente c’è la lotta al terrorismo. Ma probabilmente si è perso l’attimo. Il momento buono era il post 11/9, ora sono in pochi ad accettare l’applicazione della clausola di autodifesa collettiva dell’articolo 5 se un Paese membro è vittima di un attacco terroristico “puro”, anche se su vasta scala. E in
nome della lotta al terrorismo si sono fatti troppi scempi per poter oggi accettare una nozione “ampia” di terrorismo. Ovviamente un nuovo concetto strategico amplierà le responsabilità Nato, se non altro perché la difesa contro una aggressione militare diretta è diventata la missione eventuale, non principale dell’Alleanza. I “nuovi”compiti da svolgere sono innumerevoli, tanto più vista la pochezza nel campo della sicurezza di tutti gli altri attori, Europa in testa. Un nuovo concetto strategico servirà anche per definire più realisticamente quali forze e capacità servono all’alleanza e come realizzarle. Se ci fosse il coraggio, si potrebbe anche tentare di spingere sulla strada della specializzazione, che chiede a ciascun membro di fornire una o più capacità militari specifiche, ma di crearle e fornirle davvero. O di aumentare la responsabilità diretta della Nato come gestore di capacità molto costose da finanziare in comune: fino ad oggi si è fatto davvero poco. Dunque sì, ci serve un nuovo concetto strategico. Ma se mai questo documento vedrà la luce sarà purtroppo timido. Solo quanto basta per giustificare il permanere della Nato.
A sinistra, de Hoop Scheffer, segretario generale Nato, che il 7 luglio, alla presenza del successore designato Anders Fogh Rasmussen (in basso), ha lanciato un dibattito per l’elaborazione di un nuovo documento da discutere nel prossimo Summit Nato. Le altre foto: missioni dell’Alleanza
L’Alleanza ha bisogno del consenso di tutti i suoi membri, che vogliono veder legittimato, prima di autorizzarlo, l’uso della forza militare in operazioni al di fuori dell’articolo 5 (autodifesa) paesi europei già membri del Patto di Varsavia. Il documento del 1999, quello attualmente in vigore, rappresenta solo una revisione del precedente, anche se impegna gli Alleati non solo alla difesa comune, ma anche alla ricerca della pace e della stabilità nel più ampio contesto dell’area euro-atlantica. Oltre che da compiti specifici per l’Alleanza, il documento è caratterizzato da un più ampio approccio al concetto di sicu-
29 luglio 2009 • pagina 15
rezza, comprendendone i fattori politici, economici e sociali, un forte impegno transatlantico, un adeguato livello di capacità militari, una capacità - prima non prevista - di prevenire e gestire le crisi, l’allargamento dell’Alleanza (politica delle “porte aperte”), uno sforzo continuo verso un maggior controllo degli armamenti (armi di distruzione di massa), il disarmo e gli accordi di non proliferazione. Oggi, tutto ciò non è
più ritenuto sufficiente, e Jaap de Hoop Scheffer ne sembra pienamente convinto. Altrettanto convinto ne è l’Ammiraglio Gianpaolo Di Paola, presidente del Comitato Militare della Nato, che venerdì scorso, in un brillante intervento tenuto qui a Roma presso il Nato Defense College, ha spiegato con molta semplicità i motivi per cui, anche contro il parere di alcuni, è necessario tenere su questi temi un dibattito che,
pur rischiando di aprire un vaso di Pandora, abbia il coraggio di “lavare in pubblico” alcuni panni dell’Alleanza.
Ci sono almeno quattro pressanti ragioni per cui è necessario ricalibrare il Concetto Strategico. La prima è che l’Alleanza ha bisogno di avere un consenso pieno e convinto da parte di tutti i membri, che vogliono veder legittimato, prima di autorizzarlo, l’uso della forza militare in operazioni al di fuori dell’articolo 5 (ovvero, superando il concetto di autodifesa). Questo era stato un irrisolto punto controverso già durante la stesura del concetto del 1999, e tale è rimasto. Basti dire che, mentre il documento della Ue sulla European Security Strategy del 2003 recita che «l’Europa non è mai stata così prospera, così sicura e così libera», l’analogo documento del 2006 di un altro membro della Nato, gli Stati Uniti, si apre con le testuali parole «L’America è in guerra». È una dimostrazione di schizofrenia tra Alleati non più sostenibile, che costringe la Nato a focalizzarsi concettualmente più sulle operazioni correnti che sul futuro. La seconda ragione sta nel modo di interpretare l’articolo 5 del Trattato, quello sulla difesa collettiva, invocato e votato all’unanimità subito dopo l’11 settembre. Si tratta di lotta al terrorismo, quindi la Nato è di fatto in uno stato di guerra che, in un mondo globalizzato anche dal terrorismo, deve per forza superare i confini che si è imposta con il Concetto del 1999. Quello nuovo dovrà necessariamente spiegare in modo inequivocabi-
le qual è il significato dell’art. 5 nel XXI secolo e, basandosi sulla nuova definizione, porre dei limiti allo scopo e alla natura (anche non militare) delle missioni a guida Nato. La terza ragione è che la Nato deve cambiare la sue relazioni con la Ue, con l’Onu e con altre eventuali organizzazioni regionali. In Afghanistan, per esempio, nell’Isaf ci sono truppe australiane, mentre sono totalmente assenti o recalcitranti alcuni Stati membri a pieno titolo. La Nato rischia quindi di trasformarsi in una “coalizione di volonterosi”, snaturando la sua identità. Se la Nato decide di diventare globale, allora tutti i partner devono sapere chiaramente quali siano la loro posizione, con i diritti e gli obblighi. Il Nuovo Concetto deve chiarire le regole del gioco. Le operazioni sono in atto, ed è necessario uscire quanto prima dall’informale. Se non altro, per motivi di legittimità. Il quarto motivo è che alcuni Stati membri vedono con favore una globalizzazione, altri invece temono che questa via possa portare ad impedire l’edificazione di una solida casa europea. Sono contenti dello status quo e temono di confrontarsi su questa materia. Questo è certamente il nodo più difficile che i redattori del Nuovo Concetto dovranno affrontare.
Non c’è dubbio che si tratti di una specie di quadratura del cerchio, che alcuni si ostinano a ritenere missione impossibile. Ma l’alternativa è il declino certo, mentre alcune situazioni di stallo già si profilano all’orizzonte. Il Segretario Generale ha fatto bene a dare l’annuncio dell’inizio dei lavori anche se era ormai in scadenza. Altrettanto coraggio avrà il suo successore se saprà raccogliere l’asset e continuare con determinazione. È una questione che va risolta, anche senza disturbare Madonna.
quadrante
pagina 16 • 29 luglio 2009
Mitchell ricuce lo strappo con Israele Una nota congiunta con Netanyahu afferma: «Sull’Iran la vediamo allo stesso modo» di Antonio Picasso opo due ore e mezzo di colloquio, il premier israeliano Netanyahu e l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, George Mitchell, hanno deciso di rinviare il confronto per risoluzione dei problemi a un altro incontro, fissato per metà agosto. Nulla di fatto, quindi. Anche questa volta il rappresentante di Obama nella regione torna a Washington con le mani vuote. I nodi da sciogliere restano. Gli insediamenti israeliani nel West Bank - per i quali la Casa Bianca chiede a Israele di fare le sue concessioni - ma anche la questione di Gerusalemme capitale, rivendicata da entrambe le parti, e (cosa di cui nessuno parla) il diritto al ritorno nella vecchia Palestina delle popolazioni arabe fuggite dopo la nascita di Israele nel 1948, una comunità di circa 8 milioni di persone. Questi sono gli ostacoli al piano di Obama. Dall’incontro è emersa solo una certezza: i due governi non riescono a trovare un punto di accordo. La richiesta di Washington di congelare l’avanzata dei coloni in Cisgiordania ancora una volta non è stata raccolta dalla controparte israeliana. Netanyahu avrebbe proposto uno stop di tre mesi, in attesa che l’Autorità palestinese presenti le proprie concessioni. Gli Usa, tuttavia, vorrebbero di più, vale a dire un ritiro che inizi già ora e che prosegua oltre i novanta giorni. Ma Israele ha sottolineato che, fino a quando dall’Anp non giungeranno “gesti concreti di distensione”, la sua posizione sarà quella attuale. Abu Mazen, nel frattempo, deve gestire l’atteso congres-
iraniana. Le dichiarazione della Clinton della scorsa settimana, in merito alla futilità di mantenere alto il livello di allerta per le ambizioni nucleari degli ayatollah, sembrano essere state metabolizzate da Israele. Inizialmente quest’ultima aveva reagito nel modo più polemico possibile.
D
so di Fatah, fissato per il prossimo 4 agosto, che potrebbe partorire una nuova leadership, mettendo quindi in discussione la sua. Di conseguenza, non può permettersi aperture avventate. Il gioco al rimpallo continua e sembra rallentare ogni giorno di più le ambizioni nutrite da Obama di incassare una soluzione nel processo di pace.
Tuttavia, la fluidità dello scenario non lascia intravedere due elementi che, forse, potrebbero costituire il vero intralcio al dialogo fra Israele e Stati Uniti. Da una parte l’opinione pubblica interna, alla quale Netanyahu deve rispondere quotidianamente, dall’altra il “lodo Iran”, che vede i due governi molto più vicini di quanto si creda. Sappiamo che il problema degli insediamenti
è un cavo scoperto che, non appena viene toccato da qualsiasi governo israeliano, il Paese rischia di andare in cortocircuito. Ne è un esempio la manifestazione dell’altro giorno organizzata a Gerusalem-
razzista e se gli Usa continueranno su questa linea, arriveranno a disgregarsi», ha scandito il leader religioso durante il comizio. Il suo discorso era accompagnato da fischi e proteste ogni volta che veniva fat-
Ma gli ultra-ortodossi scendono in piazza e minacciano il premier: manderemo altri coloni in Cisgiordania, Obama si comporta da razzista me, proprio di fronte alla residenza privata di Netanyahu. “No al diktat degli Stati Uniti”, scandivano gli oltre 1.500 esponenti della destra ultraortodossa. Ad aizzarli c’era anche il rabbino Eliezer Waldman, capo del Consiglio nell’insediamento di Kiryat Arba e famoso nel Paese per le sue provocazioni. «Obama è un
to il nome Mitchell. Nella notte fra lunedì e martedì, inoltre, alcuni dei giovani dimostranti hanno inscenato un’ulteriore protesta andando a occupare 11 nuovi avamposti in Cisgiordania, per ricordare le operazioni che, nel 1946 durante il mandato britannico, permisero la creazione dei primi 11 agglomerati israeliani nel zona settentrionale del Negev.
I n s o m ma , un m e s s a g g i o chiaro al premier - sull’inviolabilità degli insediamenti - da parte di quell’elettorato che ha permesso a Netanyahu di vincere le elezioni di febbraio. Ed è appunto questo che il governo israeliano, la cui sopravvivenza politica poggia sulla fiducia dell’estrema destra e dello Shas, non può dimenticare. D’altra parte, il Primo ministro dovrebbe essere in grado di convincere l’opinione pubblica che, se Israele vuole la pace e se questa può essere raggiunta solo con determinate concessioni, il nodo Cisgiordania va visto come il male minore. Passiamo ora alla questione
Al contrario, lunedì, con la visita del Segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, si è avuta la conferma che, almeno sul piano della sicurezza la partnership tra i due Paesi non è materia di discussione. «Vediamo allo stesso modo la minaccia nucleare iraniana», si leggeva nella nota congiunta di Netanyahu e Gates. Una conferma politica che suggella le recenti operazioni militari effettuate dalle Israeli Defence Forces. Le manovre navali nel Mar Rosso e lungo il Canale di Suez, da parte della Marina israeliana, non avevano suscitato il risentimento di Egitto, Giordania o Arabia Saudita. Un silenzio strano, questo, che aveva fatto nascere il sospetto che gli arabi fossero stati preventivamente informati dei fatti e che avessero acconsentito, in quanto sicuri che si trattasse di manovre “anti-Iran” e non contro di loro. Ma erano state soprattutto le esercitazioni congiunte nell’oceano Pacifico tra Usa e Israele, per sperimentare l’ultima versione del sistema antimissilistico “Arrow 2”, che avevano fugato ogni dubbio. Per entrambi i Paesi, chiudere il dossier iraniano in qualunque modo significa togliere un blocco fondamentale al processo di pace. Senza Teheran, infatti, molti degli attori regionali più intransigenti nella politica anti-israeliana (vedi Hamas ed Hezbollah) rimarrebbero orfani del sostegno maggiore. La freddezza tra le due cancellerie, quindi, è molto più di facciata di quanto si possa pensare. Del resto, se davvero siamo tornati a fare una politica estera ispirata al realismo, sia Obama sia Netanyahu devono essere consapevoli della reciproca necessità. Agli Usa serve Israele e il suo sostegno per dialogare con tutti in Medioriente, quest’ultima continuerà ad avere bisogno dell’appoggio militare per sopravvivere. Su questa base, il processo di pace potrà andare avanti, ma solo in tempi molto più lunghi. E gli intoppi non saranno riconducibili a summit rinviati.
quadrante
29 luglio 2009 • pagina 17
Bloccata anche la preghiera
L’allarme della polizia
Khamenei vieta la marcia per i martiri
In Germania torna l’incubo della Raf
TEHERAN. La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha chiesto la chiusura del centro di detenzione di Kahrizak in cui non sarebbero rispettate le norme vigenti. Khamenei «ha dato ordine che nessuna ingiustizia venga commessa contro le persone e di prendere provvedimenti contro ogni violazione della sicurezza, della vita e dei diritti delle persone». Partendo da questo presupposto, Khamenei «ha ordinato di chiudere il centro di detenzione di Kahrizak in cui non si rispettavano a sufficienza i diritti degli accusati», ha detto il suo portavoce.Tuttavia, il religioso non ha dato il permesso alla giornata di memoria per i martiri della repressione. «Non è stato dato alcun permesso per adunanze o marce, nè a individui nè a organizzazioni politiche» ha detto Mahmoud Meshkini, direttore politico del ministero dell’Interno. La richiesta era stata presentata da Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, che volevano commemorare le vittime della repressione in una preghiera pubblica.
BERLINO. Il sindacato di polizia tedesco ha lanciato un allarme per «un’ondata di violenza» di estrema sinistra a Berlino connotata da attentati incendiari che ultimamente colpiscono sempre più spesso le vetture delle forze dell’ordine. Reiner Wendt, capo del sindacato Dpolg, ha paragonato la situazione attuale ai primi anni di attivita’ della Raf, l’organizzazione terroristica di sinistra tedesca: «Non si può più escludere - ha detto il sindacalista all’edizione online del settimanale Der Spiegel - che in un prossimo stadio dell’escalation i politici possano tornare nel mirino». Il settimanale segnala che a Berlino è in corso “un’estate calda”: sono state date alle fiamme più di 150 vetture con una tendenza ad aumentare di numero.«Gli ambienti di estrema sinistra si connotano oggi per un’azione cospirativa come anche per una crescente militanza» ha detto ancora Wendt sottolineando: «Siamo estremamente preoccupati». La Merkel ha rifiutato di commentare.
Si nascondevano in Carolina
Arrestati sette americani pronti al jihad WASHINGTON. Una famiglia jihadista (il padre e i due figli) insieme a quattro altre persone - tutti americani aspiranti kamikaze secondo gli inquirenti sono stati arrestati in North Carolina: volevano esportare dal cuore degli Stati Uniti all’estero - in Kosovo, Giordania, nella Striscia di Gaza - la jihad, pronti a immmolarsi per la “guerra santa” in nome dell’islam. La procura ritiene che il capo del gruppo fosse Daniel Patrick Boyd (39), che aveva soggiornato in Afghanistan e Pakistan tra il 1989 fino al 1992: nei campi di addestramento per terroristi, aveva appreso le tecniche di guerriglia; e tornato in patria aveva voluto dar vita a una propria organizzazione per addestrare nuovi miliziani, raccogliere denaro per la causa e pianificare attentati in terra straniera. Secondo la polizia Usa, aveva cercato l’immolazione in Israele. I sette sono accusati di consegna di materiale in appoggio a terroristi, cospirazione, sequestro, mutilazioni e lesioni a persone in terra straniera. Rischiano l’ergastolo.
Vietnam, sacerdoti nel mirino: uno in coma Aumentano le violenze anti-cristiane nel Paese di Osvaldo Baldacci ue sacerdoti picchiati in Vietnam, uno è in coma. Una settimana fa le violenze anticattoliche si erano verificate su scala ancora maggiore. Non è facile la vita dei cristiani in certi posti del mondo. Dopo che in Corea del Nord una donna è stata fucilata per aver distribuito illegalmente Bibbie, e dopo che talebani nigeriani negli scontri che hanno causato almeno 150 morti hanno bruciato una chiesa, adesso è il Vietnam il teatro di un’altra triste e preoccupante vicenda. L’Asia d’altro canto si conferma come un continente complesso e decisivo, dove si alternano e a volte si confondono l’incontro e lo scontro tra culture antiche in rapida evoluzione. E questo vale anche per il cristianesimo, che in Asia è nato e ha una storia antica e importante anche in oriente, ma che non riesce a “sfondare”e anzi subisce repressioni e ondate di riflusso violento, come nei casi macroscopici di Cina e India. Il Vietnam si inserisce in questa situazione. Le comunità cristiane del Paese sono antiche e autoctone, ma hanno molto spesso avuto vita difficile. Prima perché identificate con i colonizzatori, poi perseguitate dal regime ateo comunista, infine spesso sottoposte a repressioni unitariamente con le minoranze etniche. Il Vietnam solo negli ultimi anni si è riaperto al mondo, e in questo ambito si è aperto anche il dialogo con la Chiesa cattolica. Perché appunto in quella striscia di terra la vita dei cristiani è dura, ma di fedeli ce ne sono molti. Il Vietnam e il Vaticano non hanno neanche relazioni diplomatiche, ma il cammino degli ultimissimi anni è stato talmente intenso che a dicembre il presidente incontrerà per la prima volta il Papa e in quella occasione potrebbero essere stabilite relazioni diplomatiche e soprattutto potrebbe arrivare a Benedetto XVI l’invito a visitare il Paese, magari durante quel 2010 che in Vietnam è anno giubilare in memoria dei martiri locali. Per le comunità cristiane vietnamite le violenze di questi giorni vanno lette proprio alla luce di questi sviluppi, nel tentativo di boicottare ogni forma di normalizzazione dei rapporti
D
dello Stato con i cristiani. Da domenica nella diocesi di Vinh due sacerdoti sono in condizioni gravissime (uno è in coma) dopo essere stati picchiati da “teppisti”sotto gli occhi della polizia. Uno è stato gettato dal secondo piano di un ospedale. Forze dell’ordine e ronde sono intervenute con violenza domenica per cercare di fermare le nuove manifestazioni di protesta di migliaia di cristiani e solidarizzanti che chiedevano giustizia di altre violenze contro preti e fedeli della parrocchia di Tam Toa verificatesi appena una settimana fa. La colpa delle vittime dell’aggressione del 20 luglio da parte anche di agenti in borghese, aver avviato il restauro di una chiesa in rovina.
Almeno sette fedeli sono ancora in carcere in seguito a quelle vicende. La colpa dei due sacerdoti picchiati il 26 è stata quella di aver soccorso dei bisognosi: il primo era intervenuto a difesa di alcune donne cattoliche malmenate, il secondo era andato in ospedale a trovare il prete ferito ed è stato circondato dagli squadristi. Anche donne e bambini hanno subito le aggressioni dei picchiatori. Ma le violenze non fermano i fedeli, che anzi si sono riuniti in manifestazioni di preghiera in tutto il Paese, chiedendo al governo di fermare le persecuzioni. Ma non è facile: dopo decenni di violenze e discriminazioni, la repentina inversione di tendenza delle autorità non ha ancora penetrato una società dominata da personaggi ottusi e abituati a spadroneggiare, che temono di veder riconosciuti nuovi soggetti che potrebbero minacciare il loro ruolo egemone. È stato il giornale del partito comunista dominante a lanciare la nuova campagna contro i cristiani accusandoli di attività controrivoluzionarie per aver eretto un altare nella chiesa in rovina. Ma i risultati non sembrano quelli sperati: violenza e repressione, sì, ma in risposta è arrivata la più grande manifestazione di ispirazione religiosa della storia del Vietnam. Evidentemente per i cristiani il martirio è ancora fecondo, anche se non vorremmo certo che ce ne fosse bisogno.
I cattolici si sono riuniti in manifestazioni di preghiera in tutto il Paese, chiedendo al governo di fermare le persecuzioni
Oltre 200mila verso Aden
Somali in fuga dall’islam e dal governo MOGADISCIO. Gli scontri a Mogadiscio e in Somalia centrale stanno costringendo migliaia di civili somali a rischiare la loro vita per attraversare il Golfo di Aden e cercare asilo in Yemen. Secondo le informazioni ricevute dalla rete di partner dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) in Somalia, circa dodicimila persone hanno raggiunto e trovato rifugio temporaneo nella città di Bossaso, nella Somalia settentrionale, dallo scorso 7 maggio. Lì, la maggior parte di loro sta aspettando la prima occasione offerta dagli scafisti per affrontare il pericoloso viaggio attraverso il golfo. Questi sfollati fanno parte di un gruppo di circa 232mila somali costretti a lasciare le loro case dal 7 maggio, quando in diversi quartieri della capitale somala sono divampati gli scontri tra i gruppi miliziani di al Shabaab e Hisb-ul-Islam e le forze governative. Secondo quanto riferito dall’Unhcr, le aree dove si stabiliscono generalmente i potenziali migranti stanno diventando «sempre più affollate».
cultura
pagina 18 • 29 luglio 2009
Miti. Nel 1610, dopo un anno in balìa della natura, il navigatore Sylvester Jourdan raccontò ciò che aveva scoperto
Prospero alle Bermuda Quattrocento anni fa, un naufragio svelò le isole che ispirarono “La tempesta” di Maurizio Stefanini embra che il cielo voglia rovesciare fetida pece, ma il mare, gonfiandosi fino al volto dell’aria, ne spegne bruscamente il fuoco. Come ho sofferto con quelli che ho veduto soffrire! Una bella nave, che senza dubbio aveva a bordo nobili creature, ora è un mucchio di rovine». Ed ecco qui la storia dell’addio al teatro di uno dei più grandi geni della letteratura mondiale; e di un paradiso fiscale e turistico ambiguamente legato a sinistre mitologie di distruzione e potenze ostili. Del modo in cui la modernità si è affermata; e del nuovo corso della Walt Disney. Di come sono cambiati restando in fondo eguali i sogni dell’umanità; e di un potente mito anticolonialista che però era stato pensato come apologia del colonialismo, con aggiunta rissa supplementare su chi è il colonizzato e chi il colonizzatore. Di un’Italia in decadenza che però restava ancora una specie di Far West dell’esotismo; e di un’Inghilterra all’inizio della sua epopea che doveva però ancora specchiarsi nell’immaginario dei nostri avi. Aggiungete appunto un grande uragano tropicale che avvenne esattamente 400 anni fa: il 28 luglio del 1609, anche se qualcosa in queste ricorrenze sballa sempre, per via del fatto che all’epoca l’Inghilterra protestante non aveva ancora conformato il suo calendario alla riforma voluta nel 1582 da papa Gregorio XIII. Mescolate il tutto, come nello shaker di un cocktail tropicale: ma, dato il soggetto, anche il pentolone delle streghe di Macbeth andrebbe bene. Et voilá, la tempesta della Tempesta!
«S
28 luglio 1609, sul vascello Sea Venture, un Titanic dell’epoca. A commissionarlo la Virginia Company, che due anni prima aveva mandato il capita-
no John Smith, quello della Pocahontas disneyana, a fondare Jamestown. Costruita apposta per trasportare i coloni che avrebbero dovuto rinforzare l’insediamento, costata la somma allora inaudita di 1500 sterline, per dare spazio ai suoi 150 passeggeri piazzava i 24 cannoni sul ponte principale invece che su quello inferiore, e dovette pure essere la prima nave mercantile armata con fasciame singolo, invece che doppio. Salpata il 2 giugno 1609 come ammiraglia di una flotta di ben
nove natanti, purtroppo la Sea Venture fece la fine di tutti i Titanic che si sopravvalutano rispetto alle forze della natura. «Pietà di noi! La nave va in pezzi, in pezzi! Addio, mia sposa e bimbi miei! Addio fratello! - La nave va in pezzi, in pezzi, in pezzi». L’uragano del Sea Venture fu però più pietoso che non l’iceberg del Titanic, anche non c’era dietro un Prospero col suo mantello di mago a padroneggiare gli elementi dietro le quinte perché lo spavento non si trasformasse in vero danno.
Intravista al secondo giorno di burrasca una terra in lontananza, l’ammiraglio Sir George Somers decise di puntarci sopra, raggiungendola in capo a altri giorni e incagliandosi poi apposta suoi scogli corallini. Stanchi da tutto quello squassare, tappare falle con le mani e buttare cannoni in mare, i 150 passeggeri si salvarono però tutti. E appunto, grazie a un po’ di materiale recuperato dai rottami, esattamente quattro secoli fa costruirono il primo insediamento abitato in quelle che oggi si chiamano Isole Bermuda. Un paesaggio magico di isolette, penisole, rive sabbiose, scogliere coralline, grotte, caverne e spiagge di sabbia rosa, benedetto dal calore della Corrente del Golfo e anche da un regime fiscale in cui non esistono tasse sul reddito. «È un paradiso», confermano tra un tuffo e l’altro alla stampa internazionale quei quattro uighur che gli americani hanno rilasciato a giugno da Guantanamo, e che grazie all’ospitalità dell’arcipelago hanno evitato un rimpatrio in Cina foriero di una condanna a morte pressoché automatica. Altrettanto sollievo dovettero provare i naufraghi, nell’asciugare i loro panni bagnati al caldo sole dell’alba.
Che fu un’alba di tante cose. «La nostra nave – solo tre ore fa creduta in pezzi – è intatta e pronta al comando e armata come quando scendemmo la prima volta in mare». Come già detto, non c’era nella realtà un Duca Prospero a riaggiustare fasciami a colpi di parole magiche, e dunque la cosa fu più lenta e più travagliata. Davvero, però, coi rottami della Sea Venture in capo a dieci mesi i naufraghi riuscirono a mettere assieme due navi più piccole, la Deliverance e la Patience. Una parte di loro restò nell’isola, a rivendicarne il possesso alla
Il diario di viaggio ebbe un successo vastissimo, non soltanto a Londra: era una via di mezzo tra un romanzo d’avventura e una incredibile storia di fantascienza Corona di San Giorgio, di cui tuttora dopo 400 anni è il possedimento d’oltremare più antico. Con sullo stemma lo scafo del Sea Venture e il cartiglio Quo fata ferunt. «Dove il destino ci porterà». Gli altri salirono sui due nuovi battelli, e il 23 maggio del 1610 arrivano infine a Jamestown, per scoprire che 450 dei 600 coloni erano morti di malaria. Insomma, la tempesta ai passeggeri del Sea Venture aveva praticamente salvato la vita.Tornati poi in Inghilterra, alcuni di loro raccontarono la storia. Uno fu Sylvester Jourdan, che già nell’autunno diede alle stampe A discovery of the Barmudas, Otherwise Called the Isle of Devils. «Isole dei Diavoli», perché popolate dagli striduli uccelli chiamati petrelli, cui a partire dal 1503 lo scopritore spagnolo Juan de Bermúdez aveva pensato bene di aggiungere un po’ di maiali rinselvatichiti. E gli strepiti degli uni e degli altri nascosti tra la vegetazione lussureggiante in principio avevano terrorizzato i naufraghi, facendo pensare a spiriti ostili in agguato. In fondo, qualcosa di quell’idea che un paradiso del genere è troppo bello per non celare una minaccia aliena resta ancora, nell’ambiguo mito del Triangolo delle Bermuda.
Sempre nell’autunno del 1610 uscì la True Declaration of the State of the Colonie in Virginia. E in quel periodo viene fatto conoscere in giro anche il True Repertory of Wrack di William Strachey, anche se sarà pubblicato solo nel 1625. Quando William Shakespeare si mette a scrivere La Tempesta deve avere inoltre presente anche i saggi di Montaigne sui cannibali, attraverso la traduzione inglese del 1603. Ma anche il suo Calibano il Bardo lo deve collocare in un’improbabile ambientazione italiana: per l’esotismo degli inglesi dell’epoca ambientare una storia di naufragi, magie e spiriti comunque al largo della nostra Penisola era altrettanto d’obbligo che non per l’esotismo dei nostri fumettisti degli anni ’70 ambientare comunque le loro storie di extraterrestri, vampiri e scienziati pazzi nell’improbabile Far West di Tex Willer e Zagor. Il naufragio, dunque, avviene sul tragitto tra Tunisia e Sicilia. La nave imbarca il re di Napoli Alonso e l’usurpatore del trono di Milano Antonio: ignari che sull’isola assieme alla figlia Miranda vive il legittimo Duca e fratello di Antonio Prospero, sopravvissuto alla loro congiura, e anzi ormai in grado di dominare sulle arti magiche, che
cultura
29 luglio 2009 • pagina 19
Tutte le fonti del grande testo del 1611
Shakespeare, Pulcinella e i cannibali di Nicola Fano ll’occorrenza, Shakespeare avrebbe scritto un buon dramma anche dall’elenco del telefono.Tanto poi, a trasformare l’ispirazione esterna (la fonte, in gergo tecnico) in una macchina teatrale da riso e da pianto, ci pensava lui. Questo per dire che il dibattito sulle fonti shakespeariane è un ameno gioco da filologi. Che tuttavia riserva qualche sorpresa e qualche buona guida alla lettura. Per esempio: il riconoscimento di A discovery of the Bermudas, Otherwise Called The Isle of Devils («Scoperta delle Bermude, altrimenti chiamate le isole del diavolo») del navigatore Sylvester Jourdan quale fonte sostanziale di alcuni tratti de La Tempesta è abbastanza recente. Anche se la filiazione del dramma dell’epilogo poetico shakespeariano dal resoconto di Jourdan è tutto sommato limitata al personaggio di Calibano, metà uomo e metà pesce, secondo la definizione ufficiale dell’autore. Figlio della strega Sicorax, il cattivo antropomorfo è uno dei personaggi più assurdi fra quelli di Shakespeare. Nella sostanza, rappresenta la capacità del registamago-creatore Prospero di dominare l’ignoto. Perché ignoto finanche a se stesso è Calibano. Quanto alla sua immagine, Shakespeare ha meno preoccupazioni: che richiami i “cannibali” descritti da Jourdan nel suo diario è solo una concessione (una delle tante) alle mode e ai vezzi del suo tempo. Ossia: ciò che gli permise di guadagnare assai denari quand’era in vita.
A
gli danno il comando sullo spirito Ariel e sul rozzo schiavo Calibano. Ma dopo aver fatto prendere a tutti un po’ di spavento finirà per perdonarli, benedicendo anche le nozze tra Miranda e il figlio di Alonso Ferdinando. E da ultimo tornerà a Milano, dopo aver rinunciato ai suoi poteri magici.
Il tutto, però, al Teatro Blackfriars di Londra venne rappresentato il primo novembre del 1611 tra le due e lsei del pome-
Stefano, Trinculo e Calibano danno vita a una sorta di farsa: un omaggio diretto alle meraviglie italiane della Commedia dell’Arte
gnavi/ come chiamare la luce maggiore e la minore/ che ardono giorno e notte. E allora ti amavo/ e ti ho mostrato tutti i pregi dell’isola,/ le fresche sorgenti, le pozze d’acqua salata, i luoghi fertili o sterili./ Maledetto me per averlo fatto! Tutti i sortilegi/ di Sicorax, rospi, scarafaggi, pipistrelli. Si abbattano su di voi!/ Perché io sono tutti i sudditi che voi avete,/ io che un tempo ero re di me stesso; e ora mi relegate/ in questa dura roccia e mi rubate/ il resto dell’iso-
I critici hanno sempre considerato il copione come il vero e proprio testamento poetico dell’autore: un testo in cui la magia del teatro si mescola alla nostalgia della vita che se ne va riggio: lo stesso orario della vicenda fittizia. «Ora ogni mio incantesimo è infranto e la forza che in me resta è solo mia, debole forza», confida infine Prospero agli spettatori. L’addio di Shakespeare alle scene? Il mondo moderno che si affranca infine dal pensiero magico del passato, anche attraverso il rituale aggiogamento di Calibano, il figlio della strega Sicorax. Lo stesso Calibano il martinicano Aimé Césaire, poeta della negritudine, lo ha celebrato però come simbolo dei popoli in rivolta contro il colonialismo europeo. «Pure, è mia quest’isola, mi viene da mia madre Sicorax/ e tu me la sottrai. Al tempo in cui giungesti/ mi accarezzavi e mi tenevi in gran conto e mi davi/ infusi di bacche e mi inse-
la». Ma nel 1900 per l’uruguyano José Enrique Rodó era invece Caliban il simbolo dell’imperialismo Usa, e Ariel l’esprit de finesse dei latini.
Né è mancata una trasposizione fantascientifica, nel famoso film del 1956 Il pianeta proibito. Ma il robot Robby è un Ariel molto più terra terra, i mostri dell’Id scatenati dalla misteriosa civiltà extraterrestre un Calibano ben più inquietante, e Morbius un Prospero pasticcione cui alla fine la bacchetta magica scappa di mano. Ammonimento finale, mentre se ne va via l’astronave al comando di un Leslie Nielsen ancora lontano dalle pallottole spuntate: «Ricordate, che di Dio ce n’è solo uno!».
Alcune immagini de ”La tempesta“ di Shakespeare diretta da Giorgio Strehler del 1977 con Tino Carraro (Prospero) e Gulia Lazzarini (Ariel). In alto, una celebre tempesta di William Turner
D’altra parte, se la storia de La tempesta in sé è di prima mano (intendo la vicenda di Prospero, Mirando e Ferdinando), un’altra fonte può riconoscersi nel copione. Ed è la tradizione della Commedia dell’Arte nel suo complesso: ciò che di fatto dà corpo alle due farse inserite nel copione da Shakespeare e che riguardano gli incontri tra Stefano, Trinculo e – appunto – Calibano. Quando, nel 1977, Giorgio Strehler mise in scena una Tempesta che è rimasta nella storia del teatro mondiale del Novecento, chiese al grande Agostino Lombardo di preparare una nuova traduzione che trasformasse, tra l’altro, Stefano in Pulcinella e Trinculo in Arlecchino: è la testimonianza di un omaggio diretto di Shakespeare alla Commedia dell’Arte. D’altra parte fin nel testo originale l’autore mette in chiaro le cose: si sta parlando di una roba che va assai di moda a Londra e alla quale – comunque – egli dà il suo pubblico tributo. Dice Trinculo (nella traduzione di Agostino Lombardo), ammirando l’assurdità di Calibano: «A essere in Inghilterra, ora, e avere un pesce come questo anche solo pittato, nemmeno uno di quegli spettatori della domenica negherebbe un pezzo d’argento per vederlo. Un mostro così, in Inghilterra? Ti sistema un cristiano: qualunque bestia rara e curiosa, laggiù, ti sistema un cristiano. Quelli non darebbero un soldo per soccorrere un morto di fame, ma ne buttano dieci per vedere un pellerossa morto». Sì, così era Shakespeare: capace di unire Pulcinella e i cannibali per sfottere gli inglesi. È la forza del teatro: mettere insieme capre e cavoli. Basta saperlo fare bene.
spettacoli
pagina 20 • 29 luglio 2009
GIFFONI. È un piccolo paese vicino Salerno, solitamente non meta di turisti, lontano dallo splendido mare della Costiera, pochi abitanti abituati a salutarsi tra loro quando si incontrano nella piazza o lungo le viuzze della parte vecchia. All’improvviso può accedere che tra le facce capiti di incrociare Robert De Niro, Oliver Stone, Meryl Streep, Jeremy Irons, John Travolta. Non è un set, ma un evento che si ripete tutti gli anni, da ben 39 per l’esattezza. Il Giffoni Film Festival, che in vista di entrare negli “anta”, si rinnova e prende il nome di Experience, è oramai diventato il più importante appuntamento di cinema per ragazzi del mondo. Nato dalla mente di Claudio Gubitosi, con l’intento proprio di promuovere le pellicole per bambini o adolescenti. Una piccola intuizione che piano piano è cresciuta fino a coinvolgere nomi illustri del panorama cinematografico nazionale e internazionale. Questi i numeri dell’edizione in corso, almeno per farsi un’idea del prestigio della manifestazione: 30 lungometraggi e 42 cortometraggi in concorso, 73 film fuori concorso e 25 eventi speciali. Duemila giurati, di età compresa tra i 3 e i 17 anni, provenienti da 44 paesi del mondo chiamati a giudicare su quanto visto nei tredici giorni di programmazione. Nella Cittadella del cinema ad incontrare i giovani “inquisitori”, grandi star internazionali del calibro di Winona Ryder, Naomi Watts, Eva Mendes, Christina Ricci, Baz Luhrmann, Liev Schreiber, che vanno ad affiancare gli artisti italiani più apprezzati come Giovanna Mezzogiorno, Laura Morante, Raoul Bova, Claudio Santamaria, Filippo Timi, Kasia Smutniak, Claudio Bisio, Carolina Crescentini, Alba Rohrwacher e molti altri. In questo scenario quasi surreale, Giffoni Experience sceglie come filo conduttore della manifestazione un tema che fa discutere, pensare e sul quale ci sarebbe tanto da indagare: il tabù. Inteso come una forte proibizione nei confronti di comportamenti umani e sociali ritenuti degni di biasimo, un divieto che va a colpire le azioni che lo hanno infranto. Una sfida, un argomento ambizioso da analizzare in tutte le sue sfaccettature. Interrogati, gli ospiti illustri non hanno avuto dubbi su cosa rispondere e se Paolo Villaggio, in veste di Presidente della Giuria, non ha peli
Grande successo per la 39esima edizione del Giffoni Film Festival, che in vista di entrare negli “anta”, si rinnova e prende il nome di “Experience”. A fianco, un’immagine di Elio Germano durante la rassegna. In basso, due delle attrici in concorso: Laura Morante ed Eva Mendes
Cinema. Il tema della 39esima edizione del Giffoni “Experience” Film Festival
E i “giovani d’oggi” fanno le pulci ai tabù di Annalisa Iannetta sulla lingua («Non credo in Dio, in Allah, nei dietologi, nei cartomanti non sono superstizioso. Mi sono liberato di tutti i tabù. E rubo nei supermercati. Piccole cose, specialmente scatolette di fagiolini e formaggini. Approfitto della mia notorietà per evitare i controlli all’uscita»), c’è chi come Eva Mendes liquida il tutto con un «Io non ho tabù!». Ancora più sintetici Francesco
Salvi e Patrizio Oliva, il pugile olimpionico di Mosca ’80, insieme per presentare Il senso della Farfalla, per la regia di Luciano Capponi: «La morte è sicuramente un tabù» afferma il primo, «oggi ho preso a pugni un tabù», replica il secondo. Più acuto Milo Manara, il più importante autore di fumetti italiano, che sta scrivendo per la Marvel le ultime pagine della storia dedicata alle X-Girl incentrato sulle figure femminili degli X-Men: «Ho un sacrosan-
continuato dicendo: «Forse un tabù me lo creerei se fossi una che vota per Forza Italia, credo che in quel caso questa cosa dovrei tenermela per me: mi ammazzerebbero in famiglia!». Archiviato il tabù su cui ci sarebbe ancora da scrivere, il Giffoni è stato un luogo per aprire dibattiti importanti, a volte ai limiti del polemico, ma sintomo di una situazione generale del no-
30 lungometraggi e 42 cortometraggi in concorso, 73 fuori gara e 25 eventi speciali. Per 2.000 piccoli giurati, provenienti da 44 Paesi del mondo to rispetto della morte - ha dichiarato - Nei miei fumetti raramente si vede un morto e mai un assassinio. L’unico vero tabù nell’erotismo deve riguardare l’infanzia, quel momento delicatissimo in cui si forma la coscienza dell’individuo, sarebbe un vero delitto infrangere un equilibrio così delicato».
Un parere squisitamente femminile, infine, quello di Laura Morante, che sarà l’amante di Riccardo Scamarcio nel nuovo film di Michele Placido Il grande sogno: «Credo che questo sia un argomento interessantissimo - ha detto - non credo di averne, forse perché sono cresciuta in una famiglia piuttosto aperta», e poi scherzando ha
stro Paese piuttosto decadente. Ed ecco che Elio Germano, attore poliedrico e “pasionario”ne approfitta per dire la sua: «È un momento di stanca cinematografica, un po’ triste. Mi sono stancato di prendermela con chi ci governa e chi ci produce - ha spiegato - Me la prendo con chi abbassa la testa e fa poco per cambiare le cose. È una malattia che riguarda tutti noi, la responsabilità è nostra, anche dei produttori che non hanno coraggio di puntare su sceneggiature fastidiose. Io sogno di continuare a fare quello che mi piace ma ho paura che sia sempre più difficile».
Non poteva mancare il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, chiamata per presentare Autovelox, il cortometraggio studiato per diffondere il tema della sicurezza stradale. Il ministro ha parlato tra l’altro dell’ipotesi di abbassare a zero la soglia di alcol per i neopatentati: «Si tratterebbe di una discriminazione nei confronti dei giovani affermare che la soglia zero vale solo per i neopatentati, se si vuole discutere la soglia zero, cioè il principio che chi beve non guida, allora il limite va abbassato per tutti». Autovelox è un esperimento nuovo, che il ministero ha promosso utilizzando canali meno istituzionali, attraverso l’utilizzo di un linguaggio giovanile, semplice, ma allo stesso tempo efficace. Chiusi i battenti, soddisfatti dei risultati ottenuti, l’organizzazione quest’estate riposerà poco, non potrà permettersi di arrivare a spegnere le candeline dell’importante traguardo che li aspetta nel 2010 senza escogitare un qualcosa che possa stupirci di più.
spettacoli
29 luglio 2009 • pagina 21
Ritratti. Merce Cunningham: ovvero la fusione tra l’arte, il Maestro e la sua ineguagliabile tecnica di far vibrare i corpi umani
L’ultima danza di un genio compreso di Diana Del Monte
In basso, due immagini del grande artista e coreografo Merce Cunningham, scomparso due giorni fa a 93 anni. A fianco, uno scatto della “Merce Cunningham Dance Company”, realizzato a Nearly Ninety dalla fotografa Stephanie Berger
l mio lavoro - o almeno ciò che io cerco di fare - è prendere ogni persona così com’è». Merce Cunningham accoglieva in questo modo i visitatori del suo sito, guardandoli dritto negli occhi. Da lunedì, però, lo sguardo del maestro è preceduto da alcune sue foto che lo ritraggono al lavoro, e dalla comunicazione della sua scomparsa, avvenuta domenica. Una scomparsa che, benché non si possa certo definire prematura - aveva da poco compiuto 93 anni - ci getta tutti, amanti dell’arte in genere, in una profonda tristezza.
«I
La verità, evidente quanto indiscutibile, è che Merce Cunningham era un genio e, come succede a tutti i geni, negli anni aveva subito una trasformazione: era diventato un’icona e un modello da seguire, da venerare, da contestare o da studiare. Sempre meno un uomo, sempre più un’idea, fino al punto di non poter più pensare alla sua morte. Con l’età, la malattia e, infine, la morte, però, il maestro si è riappropriato di tutta la sua umanità e i suoi ritratti ci restituiscono il suo sguardo, oggi, un po’ meno tagliente. Ma Cunningham era, soprattutto e prima di tutto, un innovatore, un amante della sperimentazione che non cedeva mai alla faciloneria del nuovo o all’approssimazione. Un perfezionista, uno studioso, un cu-
rioso. Insomma, un grande artista, il padre della visione postmoderna nella danza. A dimostrarlo, una carriera straordinaria che ha permesso alla danza di uscire dagli schemi irrigiditi del dualismo modern dance/balletto e che ha incontrato il lavoro, anch’esso geniale e fortemente sperimentale, di altri artisti d’eccezione, primo fra tutti John Cage. Cunningham, che aveva studiato al Cornish School of Seattle per diventare attore, aveva iniziato la sua carriera di danzatore nel 1939 nella Martha Graham Dance Company e, sebbene avesse ottenuto quasi subito ruoli da solista, non ne era soddisfatto. Merce cercava altro, un “altro”che non trovava neanche nel balletto, all’epoca unica alternativa alla modern dance. Fu così che, nel 1945, decise di lasciare la Graham e di costruire una terza via, la sua. Lontana dalla leziosità e dalle regole narrative del balletto ro-
mantico, la danza di Cunningham respingeva, allo stesso tempo, lo psicologismo della modern. Dall’altra parte, però, manteneva la tecnica classica come elemento fondamentale per la formazione dei suoi danzatori a vantaggio della pulizia delle linee, il tratto più evidente
mettono in scena Season, il primo lavoro costruito secondo questo principio, e nell’estate del 1952 il coreografo partecipa al primo happening della storia organizzato da Cage al Black Mountain College.
Era soprattutto un innovatore, un amante della sperimentazione che non cedeva mai all’approssimazione. Era un perfezionista, uno studioso, un curioso della sua danza. Accusato a volte di eccessivo formalismo, Cunningham focalizzava la sua attenzione esclusivamente sulle linee che il corpo disegnava nello spazio ed il danzatore, svuotato dalla sua emotività, diventava una forma plastica nelle sue mani. Niente donne o uomini, ma solo corpi ammantati da “tutine cunningham”, appunto e, in questo, molti hanno visto la realizzazione della Supermarionetta di Craig.
Verso gli anni Cinquanta il suo operato si avvicina alla tradizione zen, Cage e Cunnigham si appassionano all’I Ching, il libro cinese dei mutamenti, e ne estrapolano il metodo della casualità. Nel 1947
Con questo procedimento Cunningham rompe un altro tabù: la separazione tra musica e danza. Il metodo della casualità, infatti, prevede che compositore e coreografo lavorino separatamente e che accompagnamento musicale e coreografia si uniscano solo la sera dello spettacolo quando, poco prima dell’inizio ed in maniera del tutto casuale, si abbinano i brani alle sequenze danzate. Nella sua continua ricerca, infine, Cunningham volle far uscire la danza dagli ambiti “tradizionali”per andare verso la vita quotidiana, nei suoi spazi, accorciando le distanze tra spettatore e danzatore. Ma Cunnin-
gham, l’abbiamo detto, era uno sperimentatore che, oltretutto, sapeva leggere il suo tempo. Amante della tecnologia e della videoarte, nel 1978 collabora con Nam June Paik al video Merce by Merce by Paik, ormai un pezzo di storia della videoarte, e nel 1986 crea Life Form, un programma per la scrittura coreografica in grado sia di catturare istantaneamente, attraverso la motion capture, i movimenti dei danzatori trasformandoli in una partitura, sia di elaborare una composizione coreografica virtuale.
Grazie a lui si erano aperti, così, altri, imprevedibili orizzonti; la post-modern dance e l’uso della tecnologia nella danza prenderanno, poi, altre direzioni e Cunningham, come succede a tutti i grandi, rimarrà unico e inimitabile nel suo genere. Oggi, le sue parole di benvenuto ci ricordano Merce Cunningham come l’uomo intelligente e acuto che era, capace di dire tutto in poche efficacissime parole. Mai superficiale, se ti parlava, ti guardava dritto negli occhi perché lui non faceva sconti a nessuno, e ogni sua frase era sottile come una lama, andava ascoltata - e capita - molto bene. Il suo sguardo resta nelle foto, www.merce.org, proprio così, solo Merce, perché non si può pensare a un Merce che non sia lui. E questo, lui, lo sapeva.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal “Daily Times” del 28/07/2009
Se la surge non funziona? di Rasul Bakhsh Rais a guerra statunitense in Afghanistan entra nel suo ottavo anno di vita, e la vittoria contro i talebani non si vede. Anzi, la crescita esponenziale degli attacchi da parte degli estremisti e la conseguente espansione della presenza militare nella zona hanno intensificato il conflitto. L’Afghanistan ha oggi molti più problemi di quanti ne avesse quattro anni fa. I talebani si sono riuniti, hanno ricostruito il loro network di combattenti e hanno migliorato le loro tattiche di guerriglia. Invece di essere in procinto di scomparire, gli “studiosi del Corano” minacciano l’esistenza stesso dello Stato afgano che - al momento - è in fase di costruzione e sviluppo. Ma se le forze internazionali dovessero lasciare il Paese, il governo di Kabul sopravviverebbe? No.Tutto ciò che è stato faticosamente costruito nel corso del tempo potrebbe crollare da un momento all’altro, e nessuno nella comunità internazionale vuole vedere una cosa del genere. Le implicazioni di un crollo dell’Afghanistan per la stabilità e la pace della nazione e della regione intera sarebbero disastrose. Qual è, dunque, la soluzione al conflitto afgano? Il punto di vista americano, quanto meno quello pubblico, prevede la distruzione di al Qaeda. Gli Usa, e i loro alleati britannici, non sembrano spaventati dall’aumento delle vittime nel conflitto e definiscono il loro sacrificio “fondamentale” per la disfatta del nemico.
L
Eppure, rimangono molti punti oscuri sulla questione: perché, ad esempio, sono stati colpiti per la maggior parte i pashtun? Perché molte altre etnie, i cui signori della guerra hanno compiuto crimini terribili, sono state lasciate in pace? La risposta è nelle cose che gli americani hanno fatto (o hanno dimenti-
cato di fare) nel corso della prima ondata di attacchi del 2001: non hanno capito gli effetti del loro intervento in una nazione che ha confini instabili ed etnie molto più forti, con il risultato che i dominanti - i pashtun - si sono trovati nel mirino. E gli altri in salvo. Un altro aspetto odioso della questione riguarda l’alleanza degli alleati con i signori della guerra del nord del Paese, che odiano i talebani e sono pronti a fare di tutto per sconfiggerli. Pur rimanendo dei criminali essi stessi. Gli americani hanno permesso loro di fare quello che volevano, pur di catturare dei leader estremisti. Non ci sono prove, ovviamente, ma le storie parlano di metodi medievali per ottenere informazioni.
Tutto questo ha condotto i pashtun a odiare gli americani. Se avessero letto un qualunque vecchio libro di storia dell’Afghanistan, gli statunitensi saprebbero che quello che succede oggi non è sorprendente. La maggior resistenza che incontrano era prevista da ciò che proprio loro hanno fatto. Ora bisogna cambiare: va ammesso che la maggior parte del Paese è sotto l’influenza dei talebani e che le ripercussioni sul Pakistan sono tremende. Washington può anche volere una strategia d’uscita, ma deve riconoscere che oggi è ancora pesantemente implicata nel conflitto: non sono in grado di dire nulla sul futuro di questa guerra. Inoltre, la guerra in cui l’America si è infilata - combattendo contro un muro che combina islam e nazionalismo - non può veramente condurre a una vittoria del ti-
po che quel Paese vorrebbe. E anche se riuscissero a ottenerla, se anche avessero quello struggente happy end, il costo umano e materiale sarebbe tremendo. La surge potrebbe temporaneamente ricacciare i talebani nelle aree remote del Paese, o costringerli a disperdersi, ma non potrà mai fermare la ribellione. E poi otto anni di guerra sono troppi, per tutti. Se le altre ipotesi - comprese la negoziazione con gli avversari e il ritiro - non sono prese perché simbolo di debolezza, vedremo nel Paese più sangue di quanto si sia mai sparso.
Questa è una guerra di attrito e la surge non farà la differenza. Il fattore temporale, in tutti i cicli bellici che prevedono lo scorrimento di anni, è sempre una variabile cruciale: è il tempo che determina i danni, le ripercussioni e che spartisce vittorie e sconfitte fra i belligeranti. I combattenti locali, in questo caso i guerriglieri islamici talebani, sanno che esso è dalla loro parte.
L’IMMAGINE
Il povero non deve autocommiserarsi Deve invece agire per arrivare al benessere La miseria è un male grande ma non definitivo. Il povero va aiutato: il dono d’un pesce lo sfama momentaneamente; insegnandogli a pescare, l’indigente si nutre per la vita. Nei trasferimenti e redistribuzioni di risorse, va evitato il rischio d’incentivare la pigra dipendenza. La necessità aguzza l’ingegno: il povero deve evitare l’autocommiserazione passiva; deve agire, operare e darsi da fare, per conquistare il benessere. Lavoro e risparmio possono modificare la povertà in ricchezza; ozio e dissipazione mutano spesso la prosperità in miseria. Secondo sperimentazioni e studi scientifici, la sconfitta della povertà è favorita dalla pianificazione familiare. Il controllo delle nascite limita le necessità alimentari e libera risorse da investire per uno sviluppo forte e durevole: istruzione, infrastrutture, capitale fisso sociale. I poveri possono morire per denutrizione. I ricchi hanno una speranza di vita media più lunga, ma soffrono e defungono anche per peccati di gola e ingordigia: obesità, ipertensione, ipercolesterolemia, diabete.
Franco Padova
L’INCREMENTO DEL LAVORO E BAGNOLI Ecco come si può incrementare il lavoro in Italia: realizzare delle strutture che uniscono la finalità didattica, con quella turistica, intersecando la possibilità di utilizzare i luoghi per pubblicizzare gli interventi stessi necessari sul territorio. E Bagnoli? Il prezzo delle case di questo litorale sono salite solo per l’odore di quello che si doveva fare, anche se la zona presenta ancora l’aria di un immenso deposito di scarto. La mancanza di soldi è giustificata anche dalla crisi, dalla recessione globale, che ha nascosto l’impossibilità di partire rimuovendo tutti i paletti che lo impediscono, dai finanziamenti assenti alle intromissioni malavitose. Intanto l’unica roccaforte del-
l’inattività, baluardo dell’ultima resistenza di chi lotta per la cultura, per il territorio, per l’urbanizzazione e la salvaguardia dell’ambiente, e invece fabbrica pubblicità, incontri e discussioni varie, è la Città della Scienza, mentre oltre, al di là di un ponte che non esiste, di un orizzonte che ancora odora di prodotti di combustione delle canne fumarie dell’Ilva, solo qualche invenzione, alcuni mattoni timidamente posti sul terreno, un bagnasciuga ove i napoletani tra un poco, torneranno a bagnarsi senza lamentarsi più di tanto.
Bruna Rosso
CARITAS IN VERITATE Caritas in veritate è il complemento sociale di due secoli di influenza del Cristianesimo sulla terra, una
Orso di mare Il caldo non perdona e quest’orso polare (Ursus maritimus) ospite dello zoo di Schoenbrunn, a Vienna, prova a rinfrescarsi con un bel tuffo. Dando sfoggio delle sue eccezionali doti di nuotatore. In acqua infatti questi enormi mammiferi che sfiorano talvolta gli 800 chili di peso, si sentono leggeri come piume e possono percorrere senza particolari difficoltà, a nuoto anche 300 chilometri
realtà che ha nel tempo risentito della sua stessa natura teologica: cioè essere più intenta a tramandare gli scritti, piuttosto che il messaggio fondamentale dato dal Messia all’umanità. Nel momento stesso che la Chiesa cristiana si raccoglie per la prima volta, dopo duecento anni di contese e distruzioni, sotto l’egida della globalizzazione e della sua contrapponibi-
le necessità della comunanza degli spiriti, il Pontefice spiega al mondo che il binomio vincente è amore=carità. Una carità non intesa come sacrificio, bensì come verità rivelatrice di gioia e di benessere per l’uomo. Una esperienza che non si è mai fatta compiutamente, perché essa dipendeva anche dall’economia generale, ma che adesso può significare nuovi
indirizzi secondo i quali le nostre risorse possono essere meglio sfruttabili e costituire la vera carità cristiana verso coloro che ne hanno bisogno. Nell’oscurantismo la verità non si vede, e tanto meno la carità: essa è un’elargizione morale e materiale distribuita per il benessere personale di alcuni, a danno di altri.
Girolamo Savio
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Cerco un posto dove il sole brilla sempre Che ragazzina prevenuta! «Dolphined» è una parola tua. Nessuno te la toglierà. La sola ragione per cui non ho finito la poesia in cui appariva la tua parola è che ho fallito nel tentativo di renderla passabile. E ora mi alzerò dal bel caminetto, mi schiaccerò a forza e dolorosamente il cappello in testa e uscirò nella giornata grigia. Sono forte, forte come un cavallo da crico. Camminerò, solo e severo, per miglia di colline grigie e berrò birra con i manovali che parlano in gallese. Poi rifarò i miei passi, solo e severo, coprendo la malinconia devastante e la debolezza che mi prende a spasmi con uno sguardo di determinazione tremenda, magari da Avamposto dell’Impero, e una falcata di sette leghe. Forza! (E in realtà non ho nessunissima voglia di uscire. Voglio suonare dissonanze al pianoforte, scrivere lettere sciocche e versi ancor più sciocchi, sedermi sotto il pianoforte e bestemmiare i topi). Se io avessi dei soldi, farei il giro del mondo, cercando un posto dove il sole brilla sempre, bello e vicino al mare. E là mi costruirei una casa magnifica, così che la chiamerebbero la casa della luce. Tutto il giorno dovrebbe esserci musica, e delle vergini olivastre, mescendo vino in coppe color loto, sarebbero pronte a ogni mio capriccio. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
UN VIAGGIO NELL’ESOTERISMO Ma chi l’ha detto che la Massoneria è un’entità oscura, segreta e cospirazionista? Taluni libelli, specie se culturalmente orientati, per così dire, che si rifanno alle scempiaggini elaborate nell’800 da Léo Taxil. Squinternato ex massone che, per farsi pubblicità come scrittore, andò divulgando astrusità come l’adorazione del Diavolo da parte delle Logge ed il culto del Palladismo, culto inventato di sana pianta, così come il presunto carteggio fra Giuseppe Mazzini ed Albert Pike che è divulgato anche su taluni siti web. E così, con la pazienza dello studioso, ovvero del curioso per definizione, possiamo scoprire come la più antica Obbedienza massonica italiana - il Grande Oriente d’Italia - sia un’istituzione più che aperta, impegnata socialmente e culturalmente, così come avviene in tutto il Mondo con particolare riferimento agli Stati Uniti d’America. Certo, la discrezione nell’universo massonico ed esoterico è d’obbligo. Ma ciò per il semplice fatto che, quando si parla di dimensione interiore e spirituale senza dogmi o ideologie di sorta, non è pensabile fare proseliti e/o divulgare concetti per lo più sperimentabili solo direttamente. Il fratello massone Giacomo Casanova, non a caso, scrisse che il Mistero della Massoneria è inviolabile in quanto il massone lo conosce solo per intuizione. È un’emozione dello spirito, per così dire. Nell’ambito del Grande Oriente d’Italia, oltre che ai tre gradi della Massoneria Azzurra (Apprendista, Compagno, Maestro), è
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
29 luglio 1954 Prima ascesa del K2 1957 Viene istituita l’Agenzia internazionale per l’energia atomica 1958 Il Congresso degli Stati Uniti crea la Nasa 1965 Guerra del Vietnam: i primi 4000 paracadutisti della 101esima Divisione aviotrasportata arrivano in Vietnam 1968 Si diffonde il testo dell’enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI, in cui si ribadisce il rifiuto cattolico dell’aborto, dei metodi contraccettivi non naturali, della sterilizzazione anche temporanea, dell’eutanasia 1975 Nigeria il generale Murtala Mohammed prende il potere con un colpo di Stato 1976 Italia: con la nomina a ministro del Lavoro, Tina Anselmi è la prima donna ad entrare nel governo 1981 Lady Diana Spencer sposa Carlo, principe del Galles 1993 La Corte Suprema israeliana assolve la guardia di un campo di sterminio nazista John Demjanjuk da tutte le accuse
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
possibile intraprendere un percorso iniziatico più ampio ed approfondito nell’ambito dei cosiddetti riti. Negli ultimi mesi, il rito che maggiormente si è aperto al pubblico cosiddetto profano, è il rito di York che è senza dubbio il più antico. Di origine e derivazione templare, il rito di York ha, dall’autunno scorso, avviato un processo di comunicazione esterna notevolissimo e di profonda rilevanza culturale. Consta di un blog quotidianamente aggiornato, di un sito web ufficiale recentissimamente rinnovato: www.ritodiyork.it e di due riviste: una interna ed una esterna. È proprio su queste che vogliamo soffermarci. YR Magazine, la rivista ufficiale del gran capitolo dell’arco reale rito di York in Italia, è giunta al suo secondo numero. Rivista patinatissima e dal taglio grafico giovane e multimediale curato dall’ottimo direttore editoriale Gianmichele Galassi, YR Magazine si propone quale strumento di approfondimento esoterico e ritualistico nell’ambito del rito e della massoneria in generale. Ma veniamo alla rivista, per così dire, esterna: Secreta Magazine: il Mistero, l’Uomo, l’Infinito. Edita dall’Editoriale Olimpia ed in distribuzione mensile in tutte le edicole d’Italia, Secreta, è l’unica rivista presente nel nostro Paese che tratti di esoterismo e mistero in maniera seria e senza voli pindarici. A garanzia di ciò, nel comitato editoriale, è presente Patrizia Santovecchi, educatrice e presidente nazionale dell’Osservatorio nazionale abusi psicologici.
Luca Bagatin
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
GLI XENOMODELLI DELLA SCUOLA Dopo anni di polemiche sull’insuccesso scolastico e le sue cause, vennero copiate alcune tecniche in uso altrove. Spesso ci capita di importare xenomodelli, che, in quanto tali, funzionano benissimo dove sono stati escogitati poiché calzano a pennello sulle tipicità sociali dei Paesi d’origine. Non sempre l’esito nelle nostra patria è quello supposto ab initio. Ad esempio: la valutazione oggettiva. Ossia i test a crocette. Avrei qualche perplessità: 1. perché mai un esercizio ad esempio di latino non dovrebbe essere oggettivo; 2. noi abbiamo un’impostazione culturale dialettica e retorica, ossia di ragionamento, l’impostazione ereditata dai Greci e dai Romani, perché mai dovremmo vergognarcene e abbandonarla? Se proprio vogliamo guardare bene in un test ad esempio di storia o di diritto difficilmente la risposta può essere univoca, a meno che per storia non si tratti di date e di diritto pure. In altri casi... dipende. Non parliamo poi di filosofia o di letteratura. Questo per “tenere in scacco” la docenza. Ogni cosa nel nostro Paese, purtroppo da tanto tempo, diventa un conflitto di classe anche quando non ce n’è alcun bisogno. Invece di introdurre strani meccanismi adatti ad altri approcci formativi perché non mantenere lo scambio dei docenti lungo tutto la penisola in sede di maturità, garantendo così pari livelli sul territorio nazionale? Perché non si è pensato a organizzare congressi per il corpo docenti delle superiori in cui i professori dovevano fare una relazione ai colleghi su un determinato argomento, invece di organizzare corsi di aggiornamento in cui tre o quattro relatori parlano da soli obbligando ad essere ascoltatori inerti i docenti che vi aderiscono? Io vorrei ricordare che i Paesi che da sempre utilizzano i metodi “oggettivi” hanno separato le scuole buone da quelle cattive, le prime normalmente private le altre pubbliche. Perché noi dobbiamo stravolgere il nostro sistema perché un tizio dell’Ocse ha trovato illuminante il metodo all’inglese? Vorrei ricordare che nel mondo anglosassone, in particolare nelle scuole superiori pubbliche, le comprehensive, l’impostazione didattica è molto fattiva e poco di ragionamento per dare una patina d’istruzione al maggior numero di studenti, è questo il motivo per cui vengono sintetizzate le poche nozioni in modo molto pratico. Le scuole però che danno accesso a facoltà importanti, quali medicina o giurisprudenza o ingegneria, non sono queste ma le grammar schools, rigorosamente private e dove si studiano in modo armonico e non dogmatico il latino, la filosofia etc. Memento! Marina Rossi P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L CI T T À D I MI L A N O
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30