Ci sono casi in cui un uomo deve rivelare metà del suo segreto per tener nascosto il resto
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Philip Dormer Stanhope IV 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 31 LUGLIO 2009
Un’altra giornata di alta tensione in Iran
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dati allarmanti dal rapporto Istat
I SEGRETI DI COSA NOSTRA
Scontri sulla tomba di Neda
Otto milioni di italiani sono poveri Sul decreto anti-crisi vince Napolitano: oggi il governo ne varerà un altro. Modifiche su Corte, fisco e ambiente di Franco Insardà
Cariche, arresti e lacrimogeni contro tremila manifestanti. Arrestato Jaafar Panahi, il più celebre regista iraniano. Mousavi allontanato con la forza dalla polizia di V. Faccioli Pintozzi
lettera aperta
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dossier
La vera storia della “blogger revolution” di James Jay Carafano
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Bossi, il premier e l’exit strategy
La guerra a Kabul non si vince con i sondaggi di Enrico Singer xit strategy. La formula magica l’ha pronunciata Silvio Berlusconi durante un cocktail con i senatori del Pdl sulla terrazza di Palazzo Caffarelli. È molto più politically correct del «se fosse per me riporterei subito i nostri ragazzi a casa» di Umberto Bossi, ma pur tra le cautele, quella che era stata frettolosamente archiviata come l’ennesima uscita di lotta della Lega di governo è diventata un’ipotesi condivisa dal premier. Con una singolare coincidenza: la pubblicazione di un sondaggio che rivela che il 56 per cento degli italiani è per il ritiro dall’Afghanistan.
E
Caro sindacato, ora devi tornare unito
«Il papello c’era. Vi dico io cosa voleva la mafia dallo Stato»
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
di Savino Pezzotta
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Un modo di aggirare la legge sull’aborto
Pillola Ru486: come legalizzare la clandestinità di Gabriella Mecucci
L’ex procuratore antimafia, Pier Luigi Vigna, torna sulle stragi di Capaci e via D’Amelio: «È vero, le cosche volevano trattare, poi arrivarono le bombe»
l dibattito sulla pillola abortiva Ru486 si fa rovente. Ma al di là delle contrapposizioni ideologiche, appare chiaro che l’introduzione del farmaco interroga ancora una volta l’Italia su un importante tema etico. Non si fa attendere la presa di posizione della Chiesa, che per bocca del monsignor Elio Sgreccia ha ricordato che l’eventuale uso della Ru486 verrà punito con la scomunica. Contraria anche il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella.
alle pagine 8 e 9
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NUMERO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 31 luglio 2009
Conti in rosso. Berlusconi cerca di tranquillizzare i ribelli meridionali: «Al Sud ci penso io: ho già sbloccato i fondi Fas»
Ha vinto Napolitano
Il governo vara un nuovo decreto dopo i rilievi del Quirinale su fisco, ambiente e Corte dei Conti. Ma l’Istat: «I poveri sono otto milioni» di Franco Insardà
ROMA.
La moral suasion del Quirinale dà i suoi frutti. Il presidente Napolitano aveva raccomandato al governo «correzioni contestuali» alla promulgazione della manovra economica, E così, dopo aver nicchiato, l’esecutivo è pronto a modificare il decreto anticrisi che tante incongruenze porta con sé. Questa sera il Senato voterà la fiducia al decreto legge anticrisi, blindato a Montecitorio. Subito dopo, però, il governo approverà un decreto correttivo seguendo le indicazioni del presidente Napolitano. Le modifiche che verranno introdotte dovrebbero riguardare il “lodo Bernardo” che limita l’autonomia della Corte dei Conti, le competenze del ministero dell’Ambiente in materia di nucleare e la tassazione delle riserve auree di Bankitalia. Il sì del governo al Colle arriva nonostante l’intenzione fosse quella di approvare le correzioni nell’ultimo Consiglio dei ministri del 7 agosto o addirittura il 28 di agosto. Così non è stato e la partita si è chiusa con la vittoria del presidente della Repubblica.
Berlusconi è dovuto correre ai ripari anche per sedare i siciliani guidati dal sottosegretario con delega al Cipe, Gianfranco Micciché, che l’altro giorno aveva paragonato il premier al conte Ugolino. E così questa mattina il Cipe delibererà stanziamenti per oltre 4 miliardi per le infrastrutture della Sicilia. Decisione che arriva dopo tre mesi di “mal di pancia”dell’Mpa
di Raffaele Lombardo e dei ribelli del Pdl: la minaccia di fondare il Partito del Sud ha sicuramente giocato un ruolo importante in questa decisione, ma è un segnale molto pericoloso di un governo strattonato da Nord a Sud. Il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, smorza gli entusiasmi: «Ben vengano i 4 miliardi alla Sicilia, ma sia chiaro che non è un atto di grande generosità, bensì un atto dovuto. Si tratta , infatti, di finanziamenti dell’Unione europea legati alla diminuzione del divario tra aree territoriali. Il governo a suo tempo li ha presi per altri utilizzi, con l’obbligo di restituirli al più presto in modo che potessero tornare a essere utilizzati per le loro finalità. Lo stesso diritto per questi fondi lo hanno altre aree del Paese».
Il caso Prestigiacomo era un altro dei dossier per il premier. I due hanno avuto un incontro «lungo, cordiale e chiarificatore». Il ministro dell’Ambiente avrebbe ricevuto garanzie sul fatto che il famigerato articolo 4 del decreto anticrisi sarà modificato, presumibilmente nel decreto “correttivo”. Dopo il premier ha pranzato con i “lealisti” siciliani, ai quali si è affrettato a dire: «Nessuno può minare l’unità del Pdl. La mia missione è, è stata e sarà quella di costruire questo grande soggetto politico a qualsiasi sacrificio. Io ci tengo ancor più dell’attività di governo». Sul Pdl ha ricordato l’esistenza di regole e di una struttura «spero che anche Miccichè,
Identikit dei nuovi poveri
Meridionali, operai, due figli e genitori a carico di Alessandro D’Amato
che conosco da tanto tempo, si adegui a questa realtà. Stiamo lavorando a un grande piano per il Sud. Noi sappiamo che il Mezzogiorno è uno dei problemi prioritari per l’esecutivo». Il coordinamento siciliano ha anche consegnato al premier un documento con le priorità per la Sicilia: l’utilizzazione «virtuosa e non con fondi a pioggia» delle risorse, la creazione di una cabina di regia fra fondi europei e Fas e la necessità che il governo regionale metta in campo i soldi già disponibili. Per tutti arriva l’avvertimento Umberto Bossi: «Sul piano per il Sud non sono così negativo, purché i fondi non vengano sprecati». Per il partito del Sud, il leader della Lega ha osservato: «Chi lo chiede sono gli stessi che hanno buttato i soldi in questi anni e quindi c’è il rischio che nasce male».
«Peccato che , come ha sottolineato il senatore “lealista” Antonio D’Alì, alla riunione mancassero coloro che hanno posto in essere
un ricatto, quelli che non hanno agito in modo corretto, per esempio, non votando la fiducia sul decreto anticrisi». Una lettura molto lucida e che consegna un quadro certamente non pacificato del Pdl siciliano, avanguardia di un malessere generalizzato in tutto il partito di Berlusconi.
Pier Ferdinando Casini, ieri mattina illustrando proprio il passaggio del deputato ligure Gabriella Mondello dal Pdl all’Udc, non ha lesinato critiche: «Sono preoccupato per le sorti della Repubblica. Oggi per evitare una sedizione politica e il
della Regione Basilicata,Vito De Filippo: «Se nella strategia del governo ci sono figli e figliastri nel Mezzogiorno, la voce della Basilicata si leverà forte contro ogni prevaricazione dei fondamentali diritti della nostra comunità». Casini ha evidenziato il pericolo della «nascita di gruppi territoriali pronti a ricattare il governo, costretto a sottomettersi per sedare le rivolte. Si sta spezzettando la politica in piccoli rivoli corporativi che portano a casa ciascuno il proprio bottino».
L’accusa nei confronti del governo Berlusconi è precisa: «C’è
Casini: «Oggi per evitare una sedizione politica e il naufragio del Pdl si promettono quattro miliardi ai siciliani. E gli altri? Sono meridionali di serie B?» naufragio del Pdl si promettono quattro miliardi ai siciliani. E i calabresi e i campani e i pugliesi? Sono meridionali di serie B? Quando arriverà una fetta per loro?». Facile profezia subito confermata dalle dichiarazione del presidente
ROMA. Abita al sud, ha due figli, spende 784 euro al mese, il capofamiglia possiede un basso livello di istruzione (licenza media inferiore) e, se lavora, fa l’operaio; ma è più probabile che sia disoccupato o sia un lavoratore autonomo. Questo l’identikit della famiglia in condizioni di povertà assoluta disegnato dall’Istat nel suo Rapporto del 2008: in totale sono 8 milioni e 78mila le persone povere in Italia, il 13,6% dell’intera popolazione. Quelle che si trovano in condizioni di povertà relativa sono stimate nel 2008 in 2 milioni e 737mila (11,3%). La stima dell’incidenza della povertà assoluta viene calcolata dall’istituto sulla base di una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un determinato paniere di beni e servizi essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia (nel 2008 è di 999,67 euro) ven-
una grande superficialità nel procedere. L’Italia deve andare avanti assieme Non si può usare il potere politico per comporre delle finte unità politiche sulle spalle degli italiani. Impegnarsi a dare quattro miliardi ai siciliani in questo modo, significa perpetrare l’idea di un clientelismo politico». Casini ha anche auspicato un recupero di dignità della politica «dando risposte nazionali a problemi locali. Nei prossimi mesi ipotizziamo tante vicende come quella siciliana. Questo governo non ha piu’un disegno generale, cerca solo di evitare lo smottamento della maggioranza. Ma lo smottamento si evita solo governando per gli italiani e non
gono classificate come assolutamente povere. E allora vediamo qual è l’identikit del povero: abita nel mezzogiorno, ha un basso livello di istruzione e, se lavora, fa l’operaio, e chiaramente è l’unico ad avere un reddito nel proprio nucleo familiare. Ha figli, più di uno, minori, e magari anche i genitori anziani in casa. Il budget familiare viene innanzitutto utilizzato per coprire le spese fisse: locazione o mutuo, utenze, trasporti. Il rimanente va a coprire i consumi alimentari, che vengono compressi il più possibile prima di tutto in qualità, e se necessario anche in quantità, per cercare di far fronte ad altre spese correnti se ci sono bambini, come l’abbigliamento e il materiale scolastico: spese che anche in questo modo vanno effettuate a rotazione decidendo secondo l’urgenza del momento; e quelle relative alla cultura non scolastica, cinema, libri sono tagliate del tutto. I consumi per la cura personale, parrucchiere, barbiere sono sostituiti dal fai da te. La macchina è presente ma
politica
31 luglio 2009 • pagina 3
Parte la stagione dei contratti: la crisi si supera solo con l’unità
Cari sindacati, adesso dovete tornare uniti di Savino Pezzotta a riflessione sul sindacato e sul suo ruolo sembra essere relegata nella cronaca quotidiana delle polemiche che, di tanto in tanto, il ministro Brunetta riesce a innescare, non sempre in modo provvido. Eppure il sindacalismo, piaccia o no, continua a rappresentare un soggetto rilevante per il nostro modello di democrazia pluralista basata sul riconoscimento dei corpi intermedi. Sono convinto che anche questa sottovalutazione sia uno degli effetti indotti da un bipolarismo a vocazione “maggioritaria”e pertanto tendente al bipartitismo. In uno schema di questo genere il sindacato deve essere incardinato, direttamente o indirettamente, in una parte o nell’altra. L’autonomia del sindacato troverebbe una maggior valorizzazione in un sistema bipolare di coalizione, formato su un programma di governo con cui le forze politiche si presentano all’elettorato. Questa è la stagione dei rinnovi dei contratti e la riflessione si fa molto più stringente. Per alcuni questo fine mese potrebbe rilevarsi decisivo, soprattutto per quelli che potrebbero chiudersi senza dover aspettare la pausa delle ferie. I contratti riguardano gli elettrici, gli alimentaristi e i metalmeccanici. Questi ultimi sono il punto di maggiore tensione tra i sindacati e sicuramente ci sarà un rinvio a settembre. Per gli altri due sembrano esistere delle speranze di una conclusione. Gli elettrici hanno piattaforme distinte e diventa problematica una soluzione unitaria, contrariamente agli alimentaristi che ne hanno presentato una unitariamente ma che recentemente vivono difficoltà di relazione tra federazioni. L’elemento che divide i sindacati è l’intesa separata sui modelli contrattuali del 22 gennaio che Cisl, Uil e Confindustria vogliono far rispettare ma alla quale si oppone la Cgil che non ha firmato e chiede di andare oltre i recinti dell’accordo.
L
per una parte di essi». E l’Istat nel suo rapporto sulla povertà non dà certamente una mano all’ottimismo berlusconiano e disegna una mappa drammatica con un Sud sempre più in difficoltà. Oltre otto milioni le persone in difficoltà in Italia che rappresentano il 13,6 per cento dell’intera popolazione. Il fenomeno è maggiormente diffuso al Sud (23,8 per cento), dove l’incidenza di povertà relativa è quasi cinque volte superiore a quella del resto del Paese. E, se non bastasse tutto questo, arriva un nuovo allarme sul versante occupazione: l’aumento a maggio di 90 ore di ricorso alla cassa integrazione ogni mille lavorate rispetto a maggio 2008.
Giorgio Napolitano ha ottenuto una modifica al decreto anticrisi che oggi il consiglio dei Ministri riformulerà. Il governo, poi, terrà conto delle esigenze specifiche del Sud, espresse in questi giorni a gran voce da Gianfranco Miccichè. Accanto, Angeletti, Bonanni e Epifani: sono molti i contratti in rinnovo in queste settimane
utilizzata solo per i trasporti non evitabili. Ovviamente le vacanze si passano a casa, e tutte le spese relative al tempo libero sono assenti. E far fronte a spese impreviste, vista l’impossibilità di riuscire a limare una piccola cifra ogni mese da risparmiare, è un problema che si ripercuote sul budget.
Territorialmente, come detto il fenomeno continua ad essere maggiormente diffuso nel Mezzogiorno (23,8%), dove l’incidenza di povertà relativa è quasi cinque volte superiore a quella osservata nel resto del Paese (4,9% nel Nord e 6,7% nel Centro), e tra le famiglie con tre o più figli e con membri aggregati (l’incidenza è rispettivamente del 25,2% e del 19,6% ). L’Emilia Romagna appare la regione con la più bassa incidenza di povertà (pari al 3,9%), seguita dalla Lombardia e dal Veneto, con valori inferiori al 5%. La peggiore è la Sicilia, dove il valore osservato, pari al 28,8%, è significativamente superiore rispetto alla media.
Tra i metalmeccanici le maggiori tensioni. Forse il loro contratto non ha più il ruolo orientativo per il settore privato che svolgeva un tempo ma resta comunque importante. La Cgil ha chiesto il rinnovo sul biennio anziché sul triennio non ritenendo valida la disdetta della parte normativa avanzata dalle due altre organizzazioni sulla base dell’intesa di gennaio. Le distanze tra i sindacati metalmeccanici appaiono profonde e di difficile ricomposizione: la Fiom chiede un aumento di 130 euro mensili per il biennio 2010 - 2011, mentre Fim e Uilm chiedono 113 euro per il triennio 2010 – 2012. Il prossimo incontro
tra sindacati e rappresentanza imprenditoriale si svolgerà a settembre. Non tocca certo al sottoscritto dare le pagelle e definire chi ha ragione o torto. Credo però che sia corretto da parte mia manifestare preoccupazioni per questa situazione. Speriamo di cuore di sbagliarci ma a settembre la crisi economica - anche in previsione di una ripresa - potrà avere effetti pesanti sui livelli occupazionali, sulle crisi aziendali aperte, sulle piccole imprese e provocare elementi di alta tensione sociale. Questo chiederebbe un sindacato molto più unito ma purtroppo in questa direzione non sembra ci siano segnali positivi. Anzi, la firma di contratti separati potrebbe accentuare le divisioni.
Nonostante tutto, continuo a sperare che si possano trovare soluzioni e convergenze unitarie. Ne hanno bisogno le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati. Ne ha bisogno l’Italia. Un sindacato unito sulle grandi questioni dell’economia potrebbe dare indicazioni anche alla politica e aiutarla a rintracciare, pur con distinzioni di ruoli, quelle convergenze utili a far uscire l’Italia dalle difficoltà attuali, a mettere in campo un vero disegno riformatore, innovatore di profonda modernizzazione del Paese e delle sue strutture. Prendiamo i temi portanti della politica e della programmazione sociale italiana: 1) grandi riforme dell’economia; 2) rafforzamento anche in senso partecipativo dell’economia sociale di mercato; 3)riforma del welfare per renderlo più equo e attento alle nuove generazioni; 4) realizzazione di quelle grandi infrastrutture di cui si avvertono l’urgenza e il bisogno; 5) avvio di politiche famigliari strutturali a partire da quella fiscale; 6) nuova politica per il Mezzogiorno. Ebbene, tutti questi temi non possono fare a meno dell’apporto del sindacato confederale. Nel nostro Paese non sono mai state fatte grandi riforme contro o senza il sindacato e un suo ruolo deciso potrebbe aiutare a sconfiggere la politica del galleggiamento e dell’attendismo che sembra oggi predominare nelle politiche governative. È la complessità della situazione economica e dei problemi sociali che mi fa pensare che oggi, sulla base della sua rappresentanza e come sempre ha fatto nella storia della repubblica, il sindacato debba contribuire a far crescere la coesione sociale e nazionale, senza la quale i processi di innovazione e di trasformazione si fanno più difficili e sempre subordinati ad altri interessi. Come si vede la democrazia è un processo complesso che non può ridursi solo alla dialettica tra due blocchi politici, ma chiede un confronto e un apporto continuo, costante, dialettico e propositivo di tutti i soggetti che operano nella società.
I lavoratori e i loro rappresentanti non devono seguire il cattivo esempio offerto dal falso bipartitismo della politica italiana di questi anni
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politica
Passato & presente. È dai tempi dell’Unità che i governi dicono di voler risolvere la “questione nazionale”
I mille partiti del Sud
Centocinquanta anni di emergenza, da Cavour a Berlusconi. La storia insegna che non sarà un’ennesima formazione a risolvere il problema di Marco Palombi uestione meridionale. Lo stato unitario esisteva da poco più d’un decennio quando questa definizione echeggiò per la prima volta nell’aula di Montecitorio. Da allora, a intervalli più o meno regolari, è ospite fissa nel dibattito pubblico essendo per chi voglia parlare seriamente – l’unica vera “questione nazionale”.Va da sé che il ventilato Partito del Sud, specchio verticistico e notabilare della Lega Nord, non ne è l’espressione più nobile e politicamente rilevante, ma tant’è. Quel che accade oggi
nazionale, ma anche «l’attaccamento per le città (dal 41 al 26%) e le regioni (dal 34 al 23%), mentre è cresciuta l’identificazione nelle macroregioni. In particolare, nel Nord. Era espressa dal 9% dei cittadini nel 2000, oggi dal 14%. Che però sale al 26% fra i cittadini del Nord ‘padano’ (senza l’Emilia Romagna)». Insieme a questa psicosi geografica negli ultimi tre anni sono cresciuti pure i segni di «reciproco risentimento»: «Oggi il 26% di coloro che risiedono nel Nord “padano”e il 20% di chi abita nelle regione “rosse” dichiara la propria “distanza”dal Mezzogiorno.Viceversa, Molti sostengono il 29% dei cittadini del Mezzogiorche la questione no si dice lontano dal Nord. Ancora: meridionale oltre un terzo dei cittadini del Nord sia nata (più del 40% nel Nordest) ritiene con Cavour che il Mezzogiorno sia “un peso per il quale, lo sviluppo del paese”». Non propiù che l’Unità prio una novità, a dire il vero: per il d’Italia, in reatà Nord, scriveva Gramsci, «il Mezzoprogettò e giorno è la palla di piombo che imrealizzò all’ultimo pedisce rapidi progressi allo svilupminuto po civile dell’Italia; i meridionali soun’annessione no biologicamente degli esseri infedel Regno riori, dei semibarbari o dei barbari delle Due Sicilie completi, per destino naturale». Qualche anno prima Alfredo Niceforo, presidente della società itaè però una nuova, più profonda “questio- liana di Antropologia, proponeva di trattarli «col ferro e col fuoco». Pochi anni or ne”. La divisione psicologica del paese. sono Mario Borghezio - che oggi plaude Ilvo Diamanti ha recentemente ripor- ai“patrioti”del Sud - scandiva che «la Patato su Repubblica alcuni dati imbaraz- dania è una realtà politica, culturale ed zanti: tra il 2000 e il 2008 si è ridimensio- economica ben nota in tutto il mondo, nato non solo il senso di appartenenza anche se la classe politica stracciona del
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Mezzogiorno finge di non saperlo, mentre per noi il Meridione esiste solo come palla al piede, che ci portiamo dolorosamente appresso da 150 anni».
Un Paese ancora da costruire, come si vede. O da ricostruire, per gli amanti del buon tempo andato. Per farlo servono i ponti, forse, ma sarebbe probabilmente più utile una grande operazione di riconciliazione nazionale, culturale prima che politica se queste parole hanno ancora un senso. Si potrebbe forse cominciare con una narrazione, anche scolastica, meno “risorgimentale” della storia del Sud all’interno di quella d’Italia, evitando al contempo il meridionalismo piagnone di chi racconta una terra di latte e miele che non è esistita mai. Andrebbe chiarito, ad esempio, che il reale esplicarsi di quella che i sussidiari chiamavano pomposamente “liberazione del Mezzogiorno”, vide quei territori entrare nella vicenda unitaria già condannati alla minorità: in un certo senso l’annessione del regno di Napoli a quello di Sardegna fu un’Opa ostile lanciata a debito. A debito del Sud, ovviamente. Tanto per capirci, al momento dell’annessione, il Regno delle due Sicilie era, sì, dal punto di vista economico un’entità statale arretrata, priva di borghesia imprenditoriale e in una situazione sostanzialmente precapitalista - latifondo, industria e infrastruttu-
re quasi assenti, enorme divario ricchi-poveri - ma aveva pure la terza flotta mercantile d’Europa, una situazione invidiabile dei conti pubblici e tasse bassissime. Il Nord, invece, viveva una fase del suo sviluppo pienamente borghese, ma l’aveva finanziata col
Marco Minghetti fu uno dei fedelissimi di Cavour e, dopo la morte del Conte nel 1861, ne raccolse l’eredità politica diventando capo del governo due anni dopo. Prima era stato anche ministro dell’Interno
debito pubblico (il più alto del continente): il risparmio storico dei territori borbonici – 500 milioni in oro e argento, cinque volte più di quanto avessero in cassa a Torino – arrivò proprio al momento giusto per mantenere in piedi il nuovo stato unitario. La maggior parte di quell’oro, invece di essere convertito in carta moneta dal Banco delle Due Sicilie, prese la via del settentrione per non fare più ritorno. Ovviamente un po’ si perse nel viaggio. Chi benedice Giulio Tremonti per la Banca del Sud può rintracciare in queste vicende l’abbrivio della triste condizione del sistema creditizio sotto Roma. Se a questo
politica saccheggio sommiamo i novemila “ribelli”fucilati dall’esercito piemontese solo fino all’agosto del 1861, si capisce come un deputato a novembre sia arrivato ad urlare in Aula: «Questa è invasione. Non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico» (non che i Borbone si comportassero meglio con i loro sudditi).
Il modello amministrativo scelto dagli eredi di Cavour - dirigista, autoritario, oppressivo delle autonomie locali - non fece che confermare l’impressione. Il ministro dell’Interno Minghetti, in realtà, presentò una proposta di legge che prevedeva un notevole decentramento, ma non superò l’esame del Parlamento e fu ritirata. Risultato: le leggi sabaude vennero estese al resto d’Italia. Il sistema economico meridionale si limitò a collassare. In sostanza l’alleanza tra ceto industriale del Nord e grande rendita meridionale, su cui s’è sempre basata la politica unitaria, era già in funzione un minuto dopo l’annessione. Altrove lo chiameremmo colonialismo. La “questione meridionale” nasce qui: un inestricabile groviglio di fattori endogeni ed esogeni che hanno soffocato un terzo del paese. E da qui inizia pure la sua La rimozione. Giunta d’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno (1876) nella sua relazione non ritenne ad esempio di doversi occupare di “brigantaggio” ed escluse senz’altro che al Sud esistesse «una questione sociale o politica». Lo stesso anno, nell’indagine coordinata da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (La Sicilia nel 1876) si leggeva di bambini al lavoro, di corruzione politica, di briganti e mafiosi, del cancro dell’usura che uccideva la piccola proprietà contadina, della dissennata politica fiscale piemontese che colpiva i poveri senza toccare i latifondisti, del problema della leva militare. Riforma dei patti agrari, allargamento della base politica del nuovo stato, riforma fiscale (e risveglio morale della popolazione) erano le proposte di questo gruppo di lavoro formatosi sulle Lettere meridionali di Pasquale Villari. La risposta, non stupirà, fu invece una piog-
fallita e tutti lo sapevano, «eppure il Governo le prodigò allora altri 5 milioni, e gli organi ministeriali giustificarono l’enormità adducendo che proprio in quei momenti la pubblica opinione esigeva dei riguardi per la Sicilia». Segue un ritratto senza tempo dei potenti siciliani: «In gran maggioranza, invece di proporsi essi stessi un compito di rigenerazione, aumentavano i guai dell’isola con l’egoistica, subdola e falsa insinuazione presso le Autorità che i propri interessi, sia privati, sia di partito, s’identificavano coi pubblici, specialmente nel campo delle amministrazioni locali».
Da allora nessuno ha pensato di cambiare politica: soldi per pochi che garantiscano il silenzio di tutti. Il ciclo malato delle politiche del soi disant liberalismo italiano - culminato nella polverizzazione del piccolo e medio risparmio meridionale e con l’enorme drenaggio dei redditi agricoli durante la Grande Guerra - fu rotto dal fascismo, ma con esiti poco commendevoli: la rivalutazione della lira distrusse quel che restava dell’agricoltura “industriale” del Sud e l’imponente messe di opere pubbliche non L’economista arginò la disocLeopoldo cupazione. La Franchetti, battaglia del fu incaricato grano, poi, fece dal governo, il resto. Nel donel 1876, poguerra la tidi studiare il Sud. mida riforma La sua indagine agraria varata mise in luce dalla Dc non il conflitto quasi riuscì a comantropologico pensare la sceltra Nord e Sud ta “industrialinel neonato sta”dei governi Regno d’Italia De Gasperi: dal 1957 poi la neonata Cassa del Mezzogiorno - un’altra delle “nuove”pensate di Tremonti - provvide, a colpi di sovvenzioni a fondo perduto e sgravi fiscali ai grandi gruppi del Nordovest, alla industrializzazione forzata del Sud. I risultati sono sotto i nostri occhi: un’indagine del Sole 24 Ore sulla Basilicata, ad esempio, ha mostrato che nessuna delle iniziative industriali finanziate dallo Stato dal 1960 (175 milioni di euro) è andata a buon fine. Lo stesso dicasi per la pioggia di miliardi – tutto compreso 180 negli ultimi 10 anni - destinati a colmare il gap infrastrutturale: i soldi se ne sono andati (per la gran parte ad ingrassare l’economia criminale), ma il gap è ancora lì. C’è da dubitare, insomma, che il problema del Mezzogiorno sia lo sblocco dei cosiddetti fondi Fas o una riedizione con la pummarola ncoppa del Piano Marshall a cui si ferma la lungimiOltre ad essere ranza degli attuali “ribelli” siciliani. stato uno dei Non induce all’ottimismo nemmeprotagonisti della no la constatazione che il docupolitica estera mento sui ritardi del Mezzogiorno italiana ai tempi preparato dai capigruppo berluscodella prima niani Cicchitto e Gasparri non facguerra mondiale, cia alcun cenno alla criminalità orSydney Sonnino, ganizzata. L’Italia che, pur nata nelda giovane, la merda e nel sangue, è stata per partecipò un secolo e mezzo una nazione, all’indagine affoga nelle speculari smargiassate di Franchetti e ne dei caudillos di paese, rendendo ficondivise il valore nalmente carnale quello “scontro di di denuncia civiltà” con cui l’antropologo Altan descriveva il cozzo tra “le due Italie”. «Una diversità etico antropologia di contanti nelle tasche dei soliti noti. gica così radicale», ha scritto Galli della Enea Cavalieri, nella prefazione alla se- Loggia, che finisce per essere «il punto conda edizione de La Sicilia nel 1876, ri- critico per antonomasia dell’identità itacorda il caso della compagnia di naviga- liana». È la questione meridionale, belzione La Trinacria: la società era quasi lezza. La vera questione nazionale.
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Parla Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali siciliani
«Meglio ridare i soldi alla Ue che sprecarli» di Francesco Pacifico
ROMA. «Lo dico con sincerità: meglio restituire all’Unione europea questi fondi che spenderli male come stiamo facendo». Questa mattina il governo sbloccherà i 4 miliardi di euro e più in fondi Fas destinati della Sicilia ma Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria dell’isola e bandiera della lotta antiracket, non nasconde i suoi timori guardando la parcellizzazione di progetti degli enti locali. «Lo sperpero e l’assenza di programmazione sono alla base della profonda delegittimazione della classe dirigente meridionale presso il governo nazionale e l’Europa. In Lombardia si spende per i servizi, che funzionano, un terzo di quello che si impiega che in tutto il Sud». Come Berlusconi, anche le imprese chiedono di usare i Fas per progetti destinati all’intero Sud. Ma non se n’è mai fatto nulla perché nella classe dirigente prevale una logica di frammentazione, la volontà di usarli come ammortizzatori sociali. Do un dato: la Sicilia tra il 2000 e il 2006 è cresciuta in media dello 0,6 per cento mentre gli altri Mezzogiorni d’Europa, a parità di fondi, del 3 per cento. Non è soltanto un problema di risorse. Qual è il problema? La classe dirigente meridionale ha la responsabilità di essersi mossa senza una linea strategica. Oggi rischiamo di ripetere lo stesso errore del passato: moltiplicare gli interventi, non fare una programmazione congiunta di Fas e fondi comunitari, non concentrare le risorse su grandi obiettivi. Quali sono le priorità? Le infrastrutture, quelle realmente utili allo sviluppo. Il Ponte e la Salerno Reggio Calabria hanno una dotazione garantita, quindi bisogna lavorare sui collegamenti ferroviari e stradali per ridurre le distanze tra Campania e Calabria, Puglia e Basilicata. Non è possibile che l’alta velocità si fermi a Napoli e che per andare da Palermo e Catania ci vogliano cinque ore e mezzo! Basterà il piano Sud del governo? Siccome i Fas e gli altri fondi comunitari vanno programmati congiuntamente da Stato e Regioni, vedo con favore l’istituzione di una cabina di regia. E dico di più: anche a costo di perdere dei soldi, le misure vanno riprogrammate se non sono nella direzione di progetti che coinvolgano più aree del mezzogiorno. I Fas hanno coperto i tagli all’Ici. Non c’è dubbio che non è stato l’optimum utilizzare questi fondi per altri esigenze. Ma la questione è semplicissima: il Sud per crescere ha bisogno di una strategia
sui soldi da spendere e di una diffusa responsabilizzazione della sua classe dirigente. E non mi riferisco soltanto alla politica. Invece nel dibattito di questi giorni stanno prevalendo le spinte rivendicatrici: oltre alla richiesta dei fondi bisognerebbe anche chiarire che cosa si vuole fare di essi. È questo pezzo che manca, non certo i finanziamenti. Come ottenere trasparenza? Il federalismo fiscale può essere una grande opportunità, perché finisce per alzare in loco i livelli di responsabilità. Ma invece di dire “Dateci le nostre tasse e amministreremo noi i nostri soldi senza chiederne altri”, la classe politica sembra interessarsi soltanto ai fondi perequativi. Tremonti rimpiange la Cassa del Mezzogiorno. La Cassa ha funzionato fino agli anni Cinquanta. Fino a quando è stata legata a un chiaro progetto di sviluppo. Dopo è stato soltanto un carrozzone. Da imprenditore, non ha autocritiche da fare? La mia categoria l’ha iniziato già a fare tanto che il tema degli incentivi non è più centrale per la stragrande maggioranza degli iscritti di Confindustria. Allo stesso modo è stata messa in discussione la pacifica convivenza con forme criminali e mafiose. Non siamo dei santi, almeno abbiamo cominciato a porci dei problemi. Da presidente del Banco di Sicilia, non è da facilitare l’accesso al credito alle Pmi? Le banche devono fare un passo avanti migliorando le capacità di valutazione delle richieste di finanziamento, guardando più ai progetti e non soltanto alle coperture finanziarie. Le aziende però devono capire che le difficoltà di accesso al credito saranno un problema endemico, indipendente dalla crisi, fino a quando non risolveranno i loro problemi di sottocapitalizzazione. L’importante è evitare le guerra di religione. Quando ci sarà la svolta? Quando guariremo dall’ipertrofia di pubblico. E le distorsioni riguardano sia la concorrenza tra imprese sia il mondo del lavoro. È per questo che tutti i fondi europei si sono diretti verso business protetti, che hanno indebolito il manifatturiero. Serve un partito del Sud? Credo ci sia bisogno di un rinnovamento della classe dirigente del Mezzogiorno. Nella quale – e non mi riferisco soltanto alla politica – vedo convivere atteggiamenti contraddittori: la voglia modernizzazione accanto al peggiore del trasformismo.
Sperperi e assenza di programmazione sono alla base della crisi della nostra classe dirigente
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diario
pagina 6 • 31 luglio 2009
Il respingimento del prof meridionale La sparata sui test è solo l’ultimo caso: da un anno la Lega impone la linea alla Gelmini di Errico Novi
ROMA. Finora il muro è stato insuperabile. E nulla dovrebbe cambiare, giacché quel muro è la Costituzione stessa. Eppure la Lega impegna tutte le energie possibili pur di trovare una breccia, di violare il principio sancito dall’articolo 51 della Carta: tutti i cittadini possono accedere ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza. In particolare al partito di Bossi interessa negare quel diritto agli insegnanti meridionali. E per riuscirci, i lumbard hanno messo in moto una macchina infernale, fatta di trabochetti, codicilli e limitazioni imposte allo stesso ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Così la proposta subito accantonata di selezionare i professori con dei test sul loro «sistema valoriale» e la loro conoscenza del territorio è solo il tentativo più estremo e sfacciato di una stra-
che ben 160mila provengono dal Mezzogiorno, mentre solo 50mila sono quelli del Centro e altrettanti si trovano al Nord. C’è una banalissima sproporzione tra domanda e offerta. Eppure la Lega vuole a tutti i costi proporre una linea gotica, attuare dei veri e propri “respingimenti”.
ne». Un’enormità che ha lasciato di sasso la presidente in questione, Valentina Aprea («in questo modo si esautora il Parlamento delle sue prerogative istituzionali») colpevole di aver sospeso la discussione sulla legge per il reclutamento dei docenti dopo che la proposta leghista di introdurre i test non era stata accolta dal resto della maggioranza. Ieri la Aprea ha congedato i commissari con l’augurio di riprendere i lavori a settembre «in un clima di serenità». Difficile che accada, perché con il Carroccio le divergenze sono su un fatto essenziale: nel testo da lei stessa messo a punto, la presidente della commissione si è spinta in modo fin troppo generoso incontro alle aspettative lumbard ipotizzando l’istituzione degli “albi regionali degli insegnati, eppure al Carroccio non basta, giacché Cota e i suoi pretendono che, tra i requisiti per l’iscrizione
Lo fa con tale pervicacia da mostrarsi scomposta persino nei suoi uomini abitualmente più misurati, come il capogruppo a Montecitorio Roberto Cota: il quale mercoledì scorso è arrivato a sostenere che «le proposte di riforma della scuola le deve fare il ministro Gelmini e non devono essere affidate a estemporanee iniziative nemmeno se assunte dai presidenti di commissio-
Il ministro costretto a mediare di fronte al pressing dei lumbard, che hanno preteso il divieto di trasferimento per i precari tegia che va avanti da quasi un anno. Come impedire ai supplenti meridionali di prendere incarichi al Nord? Con pretesti come quello agitato da una delle rappresentanti del Carroccio nella commissione Cultura della Camera, la deputata padovana Paola Goisis: «Quelli del Sud sono sempre avvantaggiati sia per la laurea che per l’abilitazione, perché nel Meridione i voti sono gonfiati. Sia per le università, che per le abilitazioni che per i master comprati».
È la concorrenza sleale il vero problema? Dati alla mano non sembra. Spiega il rappresentante della Pd in commissione Cultura Antonio Russo: «In molte province del Settentrione se non ci fossero i precari che fanno domanda dal Sud mancherebbe la materia prima: i dirigenti scolastici sarebbero costretti ad assegnare le supplenze ai non abilitati, ossia a semplici laureati che non hanno mai vinto un concorso né seguito una scuola di formazione per l’insegnamento». E allora? «E allora è evidente che il Carroccio in questa battaglia è animato semplicemente da un pregiudizio razzista». D’altronde il motivo per cui gli istituti padani sono stracolmi di presidi e professori dall’accento meridionale è semplicemente nei numeri: i 260mila precari della scuola italiana sono distribuiti in modo disomogeneo, visto
Il Carroccio chiede una sezione dedicata alle “Lingue municipali”
E spuntò il Sanremo in dialetto di Andrea Ottieri iù dialetto per tutti! La nuova parola d’ordine della Lega non conosce confini. Qui e là fioccano ordinanze in dialetto, cartelli stradali in dialetto, comizi in dialetto, esami di dialetto, lettere di licenziamento in dialetto eccetera. Per un posto in tv (quale altro significato hanno le esternazioni dialettofile, se non la conquista di un titolo sui tg?) si fa di tutto, figuriamoci per avere una settimana in prima serata. Pure in eurovisione. Se lo deve essere chiesto il presidente del Consiglio comunale di Sanremo, Marco Lupi; naturalmente esponente di punta della Lega Nord sanremese. E, scartata la possibilità di tradurre in dialetto i nomi latini dei fiori (e poi, in fondo, anche il latino è un dialetto...) il nostro ha pensato bene di far parlare in dialetto il festival della canzone italiana. Che è quasi un ossimoro, ma tant’è. Dice un comunicato ufficiale del signor Lupi: «Al festival ci sarà una sezione dedicata alle “Lingue Municipali”». Ossia, spega ancora il nostro neo-filologo: «I cantanti, provenienti da tutte le regioni italiane e selezionati dalle varie case discografiche, si dovranno esibire davanti al pubblico televisivo del Festival con canzoni nuove, eseguite in lingua regionale». Ma siccome l’importante è vincere, non partecipare, «al vincitore della gara sarà assegnato un premio specifico, denominato:“Premio Festival della Canzone Italiana categoria Lingue Municipali”». L’iter burocratico del colpo di genio del Nostro non è semplice: costui promette di presentare la sua proposta in consiglio comunale onde ottenere la richiesta di una modifica di una convenzione tra la Rai e il Comune di Sanremo.
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Perché forse non tutti sanno che il festival della canzone è un marchio del comune di Sanremo che lo cede, in cambio di denaro e ferrei patti, al miglior offerente. Fin qui, per mezzo secolo e più lo ha ceduto alla Rai, è vero, ma non è detto che le cose non possano cambiare. Anzi, a ogni rinnovo della convenzione il Comune è abituato da un lato ad alzare la posta e dall’altro a minacciare di passare armi, canzoni, fiori (e da ora dialetti) a Mediaset. Insomma, quando si fanno le aste, se gli acquirenti ci sono, i venditori possono chiedere quel che vogliono e stavolta la Lega chiede la canzone italo-dialettale. Certo, la canzone dialettale è la colonna vertebrale della nostra identità popolare quasi quanto l’opera e la canzonetta, ma vallo a spiegare al leghista che, a parte un paio di splendide canzoni di Fiorenzo Carpi che godono di testi in milanese scritti dal triestino Giorgio Strehler, la canzone dialettale è strettamente napoletana. A essere certosini, si trova qualcosa di romanesco (Romolo Balzani) o di fiorentino (Odoardo Spadaro) o di veneziano, ma la sostanza è meridionale e quindi è ragionevole immaginare che questo simpatico “Premio Festival della Canzone Italiana categoria Lingue Municipali”, ove mai dovesse essere indetto, finirebbe nelle mani di qualche napoletano. Magari neo-melodico e neo-leghista, beninteso.
agli albi, la «conoscenza delle tradizioni locali» conti più dei titoli di studio.
È uno dei casi in cui la moderazione della Aprea e della stessa ministra Gelmini viene messa a dura prova dell’estremismo della Lega. Il responsabile dell’Istruzione ha tentato sempre di mediare, anche con l’intervista pubblicata ieri dalla Stampa in cui rilancia l’idea di legare residenza e lavoro dei docenti. È già questa un’interpretazione assai spinta, giacché negli ultimi due anni il Tar del Lazio ha bocciato con un diluvio di sentenze il divieto di cambiare provincia imposto ai precari. Ciononostante la Gelmini ha tentato limitare con forme più indirette la mobilità scolastica, pur di venire incontro al partito di Bossi. Lo ha fatto durante la discussione sulla riforma della scuola approvata nell’autunno scorso, sostenendo proprio un emendamento della Lega sul divieto di cambiare provincia. In quell’occasione l’arroventato confronto in commissione Cultura aveva portato, peraltro, a un accantonamento della norma, finché nel successivo passaggio in commissione Bilancio, con un blitz i deputati di Bossi sono riusciti a infilare di nuovo l’apartheid scolastico, ottenendo il via libera definitivo anche dall’aula. Sono venute ulteriori pronunce del Tar laziale surrogate da quelle del Consiglio di Stato. Eppure la direzione del ministero dell’Istruzione ha sostanzialmente riproposto lo stop alla mobilità degli insegnanti con il decreto per l’aggiornamento delle graduatorie di inizio aprile: chi chiede di insegnare in un’altra provincia viene immesso in coda, senza i punti pregressi. Anche stavolta i magistrati del Tar hanno sanato l’anomalia, ma solo per i ricorrenti coalizzati con un agguerritissimo sindacato siciliano, l’Anief. La storia infinita prosegue ora con una nota con cui il ministero invita i provveditori a «non tenere conto» delle sentenze. Un’estrema forzatura compiuta per intercettare l’inesausto pressing leghista, che a fatica la Gelmini tenta di contenere entro l’alveo dei diritti costituzionali. Tutto in nome dell’assurdo pregiudizio coltivato dagli uomini di Bossi.
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31 luglio 2009 • pagina 7
Si sospetta l’illecito finanziamento dei partiti
Anche Giovanni Boitano via da Berlusconi per i centristi
Centro sinistra sotto inchiesta per la sanità di Bari
La deputata Mondello lascia il Pdl e passa all’Udc
BARI. È stata una mattinata di perquisizioni e sequestri ieri, a Bari, nell’ambito di due differenti indagini su sanità e illecito finanziamento ai partiti. Nel Policlinico della città, i militari della Guardia di Finanza hanno fatto accertamenti, sequestri e perquisizioni nel reparto di neurochirurgia del professor Ciappetta nell’ambito dell’indagine del pm Giuseppe Scelsi sul presunto giro di mazzette legato alla fornitura di protesi a strutture pubbliche da parte di società riconducibili all’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. Quest’ultimo è indagato a Bari, sempre dal pm Scelsi ma in un’altra indagine, per favoreggiamento della prostituzione per aver inviato, pagandole, giovani donne, tra cui l’escort barese Patrizia D’Addario, nelle residenze private del premier Silvio Berlusconi.
ROMA. Si avvia per il Pdl «un piccolo inizio di smottamento». Lo ha detto ieri Pier Ferdinando Casini, nel corso di una conferenza alla Camera, per annunciare il passaggio all’Udc di due esponenti ”di peso” del Pdl in Liguria. Si tratta della deputata ed ex sindaco di Lavagna (in provincia di Genova), Gabriella Mondello, e dell’ex coordinatore del partito di Berlusconi per la Provincia di Genova Giovanni Boitano. Mondello ieri ha inviato una lettera al presidente dei deputati Pdl, Fabrizio Cicchitto, per comunicargli il passaggio al gruppo parlamentare del’Udc. Boitano è stato nominato, dal segretario centrista Lorenzo Cesa su proposta del segretario regionale
Nuova girandola di nomine per i media Feltri al Giornale, Giordano a Mediaset, Bechis a Libero (forse) di Francesco Capozza
ROMA. Indiscrezioni, rumors, smentite e poi L’altra inchiesta riguarda invece i bilanci dei partiti politici del centrosinistra della Regione Puglia, che sono stati acquisiti dai carabinieri a Bari nell’ambito dell’indagine del pm Desirè Digeronimo sul presunto intreccio tra mafia, politica e affari nella gestione degli appalti pubblici nel settore sanitario. Le acquisizioni sono state fatte nelle sedi regionali di Pd, Socialisti, Prc, Sinistra e Libertà, e Lista Emiliano. Gli accertamenti disposti dal magistrato, che ha firmato decreti di esibizione di documentazione, riguardano l’ipotesi di illecito finanziamento pubblico ai partiti in riferimento al periodo compreso dal 2005 a oggi, comprese le ultime elezioni al Comune di Bari. Nell’inchiesta del pm Desirè Digeronimo sono finora indagate una quindicina di persone tra cui l’ex assessore regionale alla Sanità Alberto Tedesco, ora senatore. Le ipotesi di reato sono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, alla concussione, al falso, alla truffa; per alcuni reati si ipotizza l’aggravante di aver favorito un’associazione mafiosa. Al centro dell’indagine anche l’ipotesi della contiguità tra un clan della criminalità barese e un partito politico.
note ufficiali. La ridda di voci che si era scatenata negli ultimi due giorni ha fatto centro: Vittorio Feltri tornerà alla guida del Giornale dal prossimo 24 agosto (con Alessandro Sallusti condirettore), mentre il direttore uscente della testata, Mario Giordano, da quello stesso giorno sarà il direttore delle nuove iniziative news di Mediaset. Il passaggio di Vittorio Feltri (che secondo alcune voci dovrebbe essere sostituito a Libero da Franco Bechis) al timone de Il Giornale, dovrebbe dare il via a una girandola di cambi di poltrone da far impallidire i più incalliti giocatori di Risiko. All’inizio s’era vociferato che, sostituito da Feltri, Mario Giordano sarebbe approdato alla direzione del Tg5. In realtà per quella poltrona sembrerebbe ben più attagliato Maurizio Belpietro (il cui nome per la direzione che fu di Mentana era già stato fatto tempo addietro). Poi qualcun altro aveva azzardato per Giordano un approdo a Panorama. E invece, ieri pomeriggio la nota ufficiale di Mediaset. Continuando con la girandola di nomine, arriviamo a Clemente Mimun: piuttosto improbabile un suo rientro in Rai, sarebbe già stata proposta la super direzione di rete e Tg a La7 (con la benedizione del premier che vedrebbe così riequilibrata una rete fino ad oggi non molto filo-governativa). Non solo, nel frullatore di nomine entrerebbe anche il neodirettore del Sole24 Ore Gianni Riotta, del cui operato a viale dell’Astronomia non sarebbero contenti. Come paracadute gli sarebbe stata offerta la direzione di SkyTg24 al posto di Emilio Carelli.
mentare di An, ora nel Cda, Guglielmo Rositani, in cambio del via libera, nello scorso consiglio, alla nomina di Massimo Liofredi alla direzione di Raidue. Magliaro prenderà il posto di Fabrizio Maffei, destinato alle Relazioni esterne. Quindi, toccherà alla Radiofonia. A prendere il posto di Marcello Del Bosco (area Ds-Pd) a gran capo dell’intera struttura sarà Bruno Socillo (area Pdl-An), mentre il primo canale di Radiorai toccherà ad Antonio Preziosi, che darà il cambio ad Antonio Caprarica (che, come Marcello del Bosco tornerà a disposizione del direttore). Flavio Mucciante (quota Udc) sale alla guida di Radiodue, mentre Marino Sinibaldi (quota Pd) a Radiotre.
Ma il gran valzer della nomine non finisce qui. Riccardo Berti lascerà la guida di Isoradio per trasferirsi al Gr Parlamento e al suo posto andrà Aldo Papa, già capo ufficio stampa del ministero della Giustizia quando a via Arenula stava Roberto Castelli. ll vero fiore all’occhiello della nuova infornata riguarda lo spacchettamento della radiofonia. Le reti, infatti, torneranno a essere tre ma la testata giornalistica sarà unica ma con due condirettori di peso: Flavio Mucciante (anche direttore di Radiodue) con delega giornalistica sul secondo canale, e Riccardo Berti (neodirettore di Gr Parlamento) con il medesimo ruolo. Ancora in stallo la questione legata a Raitre. La partita per la terza rete, infatti, è tutta interna al Pd. E con molta probabilità, fino alle primarie di ottobre non si muoverà nulla. Il presidente dell’azienda di viale Mazzini, Paolo Garimberti, ha annunciato che il Cda tornerà a riunirsi lunedì prossimo prima della pausa estiva. All’ordine del giorno, probabilmente le nomine dei vicedirettori di rete e di testata. Proprio su quest’ultimo punto, si gioca la partita tutta interna al Tg1. Il 6 agosto, infatti, la redazione diretta da Minzolini si riunirà per il voto di fiducia al neodirettore. Al momento sembrerebbe scontato un esito negativo, ma c’è chi è pronto a giurare che quei sei nomi che “Minzo” proporrà al Cda potrebbero capovolgere l’apprezzamento redazionale.
Nel valzer delle poltrone spunta anche Mimun, al quale sarebbe già stata proposta la direzione di rete e Tg a La7
Intanto a viale Mazzini le tessere del mosaico corninciano a comporsi.Tra i nomi che il direttore generale, Mauro Masi, ha portato ieri in Cda, c’è quello di Massimo Magliaro, giornalista, ex direttore di Rai International, già capo ufficio stampa del Msi, che, ormai prossimo alla pensione, si vede allungare per i futuri tre anni la carriera con la nomina a presidente di Rai Corporation. Una poltrona caldeggiata - raccontano fonti ben informate Rai - dall’ex parla-
Udc della Liguria Rosario Monteleone, commissario Udc per la Provincia del capoluogo ligure. Casini, nel corso della conferenza stampa, ha dato il benvenuto ai due ”nuovi acquisiti” sottolineando che «lasciano un partito che è al governo, che è al potere, per passare a un partito che non è né al governo né al potere. Di solito – ha aggiunto - capitava il contrario. Chissà che non sia un piccolo inizio di smottamento in una direzione inversa, è la prima volta che capita che un “granellino” di sabbia vada dal grande al piccolo».
Il passaggio all’Udc di due esponenti liguri del Pdl è significativo in vista delle elezioni regionali del 2010 e delle alleanze ancora da definire della stessa Udc. «La Liguria – ha spiegato Casini - è una Regione dove l’Udc è decisiva, senza di noi non si vince, chiediamo che ci sia una discontinuità». Monteleone, poi, ha precisato che quella di Mondello e Boitani «non è una campagna acquisti»: il segretario dell’Udc in Liguria ha spiegato che il partito si «sta organizzando sul territorio dove il progetto dell’Unione di centro sta riscuotendo un notevole consenso. Abbiamo l’esigenza di trovare una classe dirigente sul territorio».
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Misteri. Troppi politici alludono a scenari occulti ma non vanno oltre. Perché non fare una commissione d’inchiesta sui fatti del ’92-’93?
«Sì, il papello c’era» L’ex procuratore antimafia Vigna sulle stragi: «Ecco che cosa voleva la mafia dallo Stato» di Riccardo Paradisi il 22 aprile del 1996, nell’aula bunker di Firenze il procuratore antimafia Pierluigi Vigna e quello di Palermo Giancarlo Caselli interrogano il capo dei capi di Cosa Nostra. Neppure il tempo di finire la prima domanda che Totò Riina interruppe Vigna: «Dottore, la prego si fermi lì... Lei ha sbagliato persona... la prego di risparmiare il fiato... mi faccia il piacere io non parlo, io ho il diritto di non rispondere... non vorrei fare il maleducato...». Riina non aveva nessuna intenzione di parlare con noi ed era molto brusco nei modi – ricorda oggi Vigna parlando con liberal di quei feroci primi anni Novanta italiani e delle polemiche innescate in queste settimane dalla riapertura dei casi di Capaci e via d’Amelio – «Io però gli ricordo che non solo le sentenze ma anche molti libri ormai parlavano estesamente di Cosa nostra gli chiedo dunque quale fosse il suo pensiero su questa organizzazione criminale. Riina mi risponde, sbottando: “Lei mi vuol farmi diventare come Buscetta dottore” facendo per alzarsi e andarseme. «No guardi lei va via quando lo dico io – gli dico – chiedendo ai carabinieri di trattenerlo con la forza se avesse di nuovo tentato di andarsene. Da quel momento in poi Riina si chiude in un silenzio di tomba, non risponde più alle mie domande si limita solo a impercettibili cenni del capo per evitare che la sua voce venga registrata dai nastri usati per gli interrogatori».
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Un silenzio tombale durato fino ad oggi, fino a quando Totò Riina dichiara che con la strage di via d’Amelio lui non c’entra niente, niente con la presunta trattativa tra Stato e mafia per mettere fine all’offensiva stragista di Cosa nostra. «Già Riina interrompe il suo proverbiale silenzio – dice Vigna – ma per fare dichiarazioni intorbidanti. L’affermazione di Riina, riportata dal suo avvocato, che nella strage di via d’Amelio sarebbero implicati servizi deviati, non è altro che nebbia, perché uno che non ammette nemmeno i delitti o l’esistenza storica di Cosa nostra non è uno attendibile. Parla si, ma per dire cosa? Per coprire
chi? Vede, oggi le mie sono osservazioni esterne alle indagini, sono in pensione…ma una delle idee che mi sono fatto è che avendo saputo che Gaspare Spatuzza sta rendendo dichiarazioni lui voglia con queste frasi fumogene coprire qualcuno che possa essere raggiunto dalle dichiarazioni di Spatuzza, oppure vuol fare solo confusione ripetendo cose trite e mai provate. I magistrati sono andati a sentirlo ma non mi pare che abbiano ottenuto molto da lui».
Però quella stagione delle bombe che ha il suo acme con la serie di attentati sul continente, a Roma, a Milano e a Firenze, per i quali sono stati condannati al-
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a individuare il momento e la natura della connessione. Anche perché non esiste il terzo livello come diceva Falcone, due entità, una mafiosa e una politica che coordinano l’azione criminale, due grandi vecchi che fanno la sintesi e progettano. Quando Falcone parlava di terzo livello parlava di terzo livello dei delitti. Erano quei delitti che colpivano uomini politici contrari alla mafia. Nel magistrato resta però questa suggestione, ecco perché parlai di mandanti dal volto coperto. Non siamo mai riusciti però nelle indagini ad andare oltre questa intuizione…». Eppure nessuno tra i protagonisti politici di quei primi anni Novanta, tutti nomi di primo livello
È impressionante che personaggi politici che in gran parte stimo alludano a scenari oscuri dietro agli attentati, ma poi si fermino lì. Anche perché con le allusioni i processi non si fanno
l’ergastolo 15 esponenti di Cosa nostra, aveva lasciato dei sospetti anche al giudice Vigna. Lei dottore parlò infatti dei cosiddetti “mandanti a volto coperto” e il giudice Gabriele Chelazzi – con cui la notte del 27 maggio ‘93 lei si trovò tra le macerie dei Georgofili a Firenze – parlò di un “dinamismo politico” affiancato a quello militare della mafia. «Ho riflettuto molto nel corso del tempo sui rapporti tra mafia e Pubblica amministrazione e anche tra mafia e soggetti politici a quel tempo nazionali e ora prevalentemente locali.Vede, quando lei si trova di fronte a un crimine dell’entità di quegli attentati del 93’, commesso sicuramente da Cosa nostra, le viene subito in mente questa ragnatela, coglie immediatamente questa differenza tra i crimini economici e i crimini di natura stragista. Se c’è un appalto truccato e vinto da cosa nostra in un opera pubblica è altamente plausibile anzi è sicuro che c’è un collegamento tra cosa nostra e qualche politico anche locale che procura i finanziamenti per l’opera. E quindi uno è portato a prospettare sempre questo collegamento e però quando si tratta di stragi e di omicidi, non riesce
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e di primo piano, esclude il livello che lei sta ipotizzando, anche se gli scenari prefigurati sono diversi l’uno dall’altro. Dal complotto internazionale teorizzato da Paolo Cirino Pomicino all’uso politico di fatti mafiosi e all’uso mafioso di fatti politici di Luciano Violante, dalle opacità a cui allude Oscar Luigi Scalfaro alla convinzione espressa da Scotti che dietro la strage di via d’Amelio non poteva esserci solo la mafia. Forse Riina fa delle provocazioni ma sono provocazioni che risvegliano qualcosa di irrisolto. Sassi in un vespaio non bonificato dalla luce della verità. «È molto impressionante, negativamente impressionante – dice Vigna – che personaggi politici che in gran parte stimo dicano questo, ma non vadano oltre. Anche perché con le allusioni i processi non si fanno. Più volte, di fronte all’insoddisfazione dei parenti delle vittime, mi sono chiesto perché non si costituisce una commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce su certe presunte collusioni. Così che dove non possono arrivare i magistrati potrebbero arrivare loro, arrivare almeno a spunti che indichino queste responsabilità
anche politiche di cui si parla. Anche se vede, si pensa sempre che Cosa nostra abbia bisogno di input esterni per agire ma ad ammazzare Falcone la mafia ci pensava dall’82. Prima ci doveva essere il camioncino imbottito di esplosivo che portava il caffè dentro il palazzo di giustizia. Poi c’era l’ipotesi di utilizzare il bazooka ma negli addestramenti non riuscivano a orientarlo bene. Poi ci fu l’Addaura, nell’89. Se ci fosse stato un input politico poteva andare avanti dieci anni questa storia?».
Dopo il fallito attentato all’Addaura Falcone parla ad Ayala di menti raffinatissime. «Beh ma Cosa nostra è piena di menti raffinatissime. Far saltare in aria 200 metri di autostrada mandando a carte quarantotto tutte le scorte non è una cosa da poco. Davanti al Csm Falcone disse: io non ho mai parlato di un terzo livello inteso in un senso organizzativo. Che poi i mafiosi abbiano avuto contatti con personale dei servizi è pacifico. Ma dobbiamo intenderci su cosa significhi trattativa». Forse è meglio spiegarlo visto le accezioni che vengono date in questi giorni. «Nell’epoca in cui non esistevano le operazioni sotto copertura, né le infiltrazioni nell’organizzazione criminale e quando l’uso delle intercettazioni era limitatissimo perché c’erano pochi telefoni era ovvio che si prendessero contatti con le organizzazioni, intavolando trattative, facendo piccole concessioni
in cambio di informazioni. Questa non è trattativa è uno stato di necessità». Però oltre a questo c’è stato un altro livello di trattativa, è qui che spunta il papello che Massimo Ciancimino il figlio dell’ex sindaco di Palermo imputato per mafia dice essere in suo possesso, la lista delle richieste che la mafia fa allo Stato per interrompere la stagione delle bombe. Che idea si è fatto giudice Vigna del papello? «Che l’esistenza del papello è dimostrata proprio dagli attentati del ’93. Dalle stragi che la mafia mette a segno nel continente. La mafia voleva che il governo e il parlamento eliminassero la legge sui collaboratori, il 41 bis e il sequestro e la confisca dei beni riconducibili a Cosa nostra. Le bombe esplodono perché lo Stato non accetta quelle condizioni e procede per la sua strada. La risposta della mafia è durissima, i suoi sono attentati di una tipologia particolarmente odiosa. Ci si era accorti che le uccisioni dei giudici non erano risolutive, i giudici si possono sostituire. Invece le opere d’arte, il patrimonio artistico dello Stato non è riproducibile, è una ferita nella psicologia del Paese oltre che un colpo profondo al turismo.Volevano cospargere le spiagge dell’Adriatico di siringhe infette, volevano far crollare la Torre di Pisa».
C’è anche da dire però – sempre a proposito di uso mafioso di fatti politici e di uso politico di
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Il 23 maggio del 1992 sull’autostrada tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, all’altezza di Capaci, una enorme carica di tritolo fa saltare in aria le auto su cui viaggiano Giovanni Falcone, la moglie e la scorta Il 19 luglio del 1992, a Palermo, in Via D’Amelio, proprio davanti all’abitazione del giudice antimafia Paolo Borsellino, un’autobomba esplode uccidendo il giudice insieme con la sua scorta
fatti mafiosi – che il sostituto procuratore di Roma Testaroli è tornato a ripetere anche recentemente che quello di via d’Amelio «è un attentato che insieme agli altri cambiò il corso della storia, creando le premesse per l’affermazione di nuove forze politiche e nuovi assetti istituzionali». «Vede – ragiona Vigna – sarebbe come dire che l’elezione di Scalfaro a presidente della Repubblica, che avvenne dopo l’omicidio di Falcone, sia stata un’operazione elettorale della mafia. No via, non diciamo enormità. La mafia va per binari propri, con connessioni, complicità certo, ma non si fa dettare la strategia. E poi per
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che ha iniziato la collaborazione e che delinea un quadro diverso da quello finora accettato dagli inquirenti. Stiamo a vedere cosa viene fuori». Oggi su Falcone e Borsellino esiste una giusta letteratura apologetica, a celebrarli ci sono fiction, memorie, testimonianze. Però quando Falcone viene chiamato alla procura nazionale antimafia ci sono forti resistenze da parte di molti magistrati. «Mi fa ricordare un momento molto particolare. Si molti colleghi pensavano che Giovanni si fosse venato di politica stando nell’ufficio del’onorevole Martelli che secondo me, e non solo secondo
La mafia voleva che il governo eliminasse la legge sui collaboratori, il 41 bis e il sequestro e la confisca dei beni riconducibili a Cosa nostra. Le bombe esplodono perché lo Stato non accetta il ricatto stabilire queste connessioni dirette non sono sufficienti le suggestioni, ci vogliono le prove. Non basta evocare ipotesi, scenari, coincidenze. E poi, come dicevo, la mafia non si ferma di fronte al nuovo scenario politico. Nel ’93 a Roma mette a segno tre attentati insieme: uno al museo dell’arte moderna, uno a San Giovanni in Laterano e l’altro a San Giorgo in Velabro. Poi in successione il 14 maggio a via Sauro e il 27 maggio a Firenze. Di nuovo ci sono le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza
”
me, è stato uno dei migliori ministri della Repubblica italiana. La cosa che mi viene in mente è che Giovanni Falcone mi telefonò a Firenze prima di assumere l’incarico: “Piero – mi disse – se fai tu la domanda alla procura nazionale non la faccio io”. Io gli dissi:“Giovanni sei un gran bischero”. Lui morì e io la domanda la feci dopo qualche anno...“Sei un gran bischero”, proprio così gli dissi al mio amico Giovanni… Via, ora salutiamoci però, sennò vede, finisce che mi commuovo».
Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, a Firenze, viene fatta esplodere un’auto imbottita di esplosivo nei pressi della storica Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili. Nell’esplosione muoiono cinque persone Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, la chiesa di San Giorgio al Velabro, fu oggetto di un attentato: un’autobomba parcheggiata nei pressi della facciata esplose, facendo crollo quasi tutto il portico della chiesa Il 27 luglio 1993 un’autobomba esplose nei pressi del Padiglione di arte contemporanea di via Palestro a Milano. I morti furono cinque: tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato che dormiva su una panchina
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società
Si prospetta un nuovo scontro su un grande tema etico: quello relativo all’uso della Ru486, quasi un aborto clandestino
Kill pill: nessuno neghi i danni I movimenti pro-life contestano l’uso della Ru486, perché lo considerano un modo per abbandonare la donna nel momento in cui deve affrontare una scelta difficile. Da più parti inoltre si sostiene che l’aspetto farmacologico del processo, e la sua relativa semplicità potrebbe portare le donne a sottovalutare l’importanza della decisione
di Gabriella Mecucci segue dalla prima La Ru486 è un metodo abortivo pericoloso, lungo, doloroso, incerto e costoso. E se ieri sera monsignor Elio Greccia, presidente emerito della Pontificia Academia pro Vita ha ricordato che «l’assunzione della Ru486 equivale ad un aborto volontario con effetto sicuro» e precisato che il suo uso prevede «la scomunica per il medico, per la donna e per tutti coloro che spingono al suo utilizzo», da parte sua Eugenia Roccella, sottosegretaria al Welfare, ha riportato l’attenzione sulle imprevedibili conseguenze cui potrebbe portare la sua introduzione. «La Ru486 – ha spiegato la sottosegretaria – porta intrinsecamente la donna ad abortire a domicilio, proprio perché il momento dell’espulsione non è prevedibile, creando così una situazione di clandestinità legale». Il farmaco, per di più, ha già provocato la morte di ben 29 donne. Una percentuale enormemente più alta dei decessi per aborto e per parto. Tanto è vero che il New York Times, quotidiano progressista e “pro choice”, non ha esitato a definirla kill pill, cioè assassina. E infatti la Ru, nel mondo sviluppato, se si eccettuano pochissimi Paesi – Francia, Svezia e Inghilterra – viene usata poco o pochissimo. In Spagna – dove pure è autorizzata – la percentuale di utilizzo è pari al 5 per cento e in Germania e in Olanda è vicina allo zero. Purtroppo sono i Paesi del Terzo Mondo o quelli emergenti ad aver scelto ampiamente questa via: basti pensare all’India dove questo farmaco viene assunto dalle donne fuori da strutture ospedaliere, nella solitudine domestica.
Che la Ru sia pericolosa è un giudizio diffuso, del resto i dati parlano chiaro. Ma al di là dei rischi per la vita, il metodo arbotivo tramite kill pill è lungo e doloroso. Funziona così: il primo giorno si assume il mifepristone che uccide il feto e il terzo si prende la prostaglandina che provoca le contrazioni e determina l’espulsione del feto. Nessuno è in grado di stabilire con precisione quando la donna abortisce: la maggior parte lo fa entro le 24 ore dall’assunzione della seconda pillola. Le doglie dell’espulsione sono dolorose, spesso dolorosissime. In rete si trovano centinaia di testimonianze che danno conto della drammaticità dell’evento e della gravità di alcuni effetti collaterali che si verificano con una notevole frequenza. Ecco un racconto fra i tanti: «Mi è stata data la Ru486 per abortire. Ho eseguito esattamente le istruzioni e, dopo aver preso la pillola, ho sentito un dolore fisico atroce, per almeno 12 ore ininterrottamente, e ho perso sangue in modo veramente eccessivo. Il sangue attraversava i pantaloni ma sentivo troppo dolore per potermi pulire: è stato il peggiore dolore fisico mai avuto in vita mia». Di effetti collaterali – come dimostra il racconto – ce ne sono parecchi. Il più grave è il rischio di forti perdite di sangue, ma anche il vomito, la diarrea, i crampi. Insomma, le donne che prendono la Ru sono costrette ad assumere pesanti antidolorifici: spesso addirittura degli oppiacei. Ma c’è di più: la pill kill non ha un’efficacia garantita: si sono contati sino al 20 per cento di insuccessi.Tanti dolori senza che il risultato sia certo. Non solo: con questo metodo o si corre il rischio di ricacciare la pratica abortiva dentro casa con un enorme aumento del pericolo di vita, o – come dovrebbe accadere
Dalla prima pasticca alla visita: un processo in tre tempi di Francesco Lo Dico
ROMA. Una prima pillola a base di mifepristone. Una seconda contentente misoprostol da assumere due giorni dopo, e infine una visita medica da effettuarsi a 15 o 20 giorni dall’inizio della procedura. L’aborto farmacologico è un’operazione in tre tempi, riservata a donne che intendono interrompere la gravidanza entro la dodicesima settimana, in ottemperanza alla legge 194 che in Italia regola la materia. Le modalità di utilizzo della Ru486 (nome commerciale della pillola), prevedono in primo luogo la somministrazione di un farmaco, il mifepristone, che blocca le funzioni svolte da un ormone, chiamato progesteone, che presiede alle strutture interne dell’utero e garantisce le condizioni ottimali perché la gravidanza possa evolversi al meglio. Nel 3-5 per cento dei casi, già l’assunzione di questa prima pillola genera l’interruzione del processo di gravidanza. A due giorni di distanza da questa prima pillola, è la volta del misoprostol, la più usata delle prostaglandine. Una sostanza dal nome complesso, che in pratica potenzia gli effetti della prima pillola assunta e alza la soglia di sicurezza del trattamento, perché riduce i rischi di espulsioni tardive. La prostaglandina favorisce il distacco della sacca che ospita l’embrione, dalle pareti interne dell’utero (l’endometrio). Una sorta di scollamento che si realizza attraverso meccanismi simili a quelli della mestruazione, e con effetti collaterali variabili da soggetto a soggetto. Il dossier Aifa parla di dolori di tipo crampiforme, nau-
sea (34-72%), vomito (12-41%) e diarrea (3-26%), per i quaIi possono essere prescritti ordinari antidolorifici. Il sanguinamento varia in quantità e durata, ma persiste per almeno una settimana e, in forma ridotta, più a lungo. Nello 0,36-0,71 per cento dei casi, si rende necessaria l’emostasi chirurgica per arrestare l’emorragia. A ventiquattro ore da questa seconda pillola, abortiscono in media otto donne su dieci. Una percentuale compresa tra il 12 e il 15 per cento, lo fa entro le due settimane successive. Dati che sommati, dicono che il 92-95 per cento delle donne, completano l’aborto farmacologico entro quindici giorni. Per il restante 5-8 per cento dei casi di insuccesso, interviene invece la necessità di un’operazione chirurgica. E cioè il ricorso al tradizionale raschiamento.
Tra i quindici e i venti giorni dall’assunzione della prima pillola, avviene infatti il terzo e conclusivo passaggio della procedura: la visita medica di controllo, atta a valutare la completezza dell’aborto farmacologico. A differenza di quello chirurgico, quello cioè legalmente praticato in Italia da trent’anni, la Ru486 ha statisticamente minori effetti collaterali rispetto al metodo abortivo tradizionale, ma non preserva meno le donne da eventuali stress posttraumatici. Secondo uno studio dedicato all’impatto psicologico della procedura, il 56 per cento delle donne che sceglie l’aborto farmaceutico riconosce l’embrione nel momento in cui viene espulso.
in Italia nel rispetto della legge 194 – si è obbligati a ricoverare una donna nelle strutture pubbliche per tre giorni, con un vistoso aumento dei costi: si parla di oltre 2.500 euro.
A fronte di tutte queste controindicazioni, non si capisce perché la Ru486 dovrebbe essere preferibile all’aborto: al di là delle convinzioni ideologiche o di natura religiosa, essa è certamente una “mina vagante” per il corpo e la salute della donna. Il problema – come è stato più volte detto – non è quello di introdurre la kill pill, ma piuttosto di far funzionare meglio la 194 ottenendo per questa via l’abbattimento delle intrerruzioni di gravidanza volontaria. I recenti dati indicano che una qualche flessione c’è stata, ma ancora è troppo poco. E soprattutto: fra le immigrate la percentuale degli aborti è in significativa crescita. La gravità delle controindicazioni nei confronti della Ru spiega perché la Exelgyn, ditta che la produce, è restia a chiederne l’introduzione in realtà dove l’opinione pubblica è particolarmente sensibile al tema.Tanto è vero che in Italia la richiesta non venne fatta nemmeno quando era ministro Umberto Veronesi. I rischi acclarati rendono meno decisi anche i sotenitori di questa pillola. Livia Turco, democratica, ex ministro della Salute, si è limitata a dire che «la validità del farmaco deve essere stabilita da organismi tecnici (l’Aifa, ndr.)». E il capogruppo del Pd al Senato, Dorina Bianchi, ha aggiunto: «Bisognerebbe evitare che con il via libera per l’inserimento della pillola Ru 486 passi soltanto il messaggio che abortire è diventato più facile». Molte invece le dichiarazioni contrarie alla Ru. L’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ha chiesto in una interpellanza al presidente del Consiglio dei ministri se il farmaco in questione «è intrinsecamente compatibile con la legge194», «se rientra nella legge 194, rispetto all’articolo 15, che parla di uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità psichica e fisica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». La parlamentare del Pdl, Laura Bianconi, poi, lamentava che «l’Aifa decidesse sull’introduzione della pillola Ru senza aver fornito a noi rappresentanti del Parlamento italiano i dovuti chiarimenti tecnici e scientifici richiesti da più tempo in merito alla pericolosità».
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Teheran.com
La prima vera storia dei blogger iraniani: la rivoluzione che sta cambiando il regime di James Jay Carafano opo i moti dell’Onda Verde, scatenati dai brogli elettorali in Iran, i media hanno parlato a lungo del ruolo dei social network nell’organizzazione delle manifestazioni e nella condivisione delle informazioni. L’uso globale di email, Facebook, MySpace, Wikipedia, YouTube, Flickr, Digg, LinkedIn, Twitter e di altri (chiamati comunemente Web 2.0) per facilitare il dibattito e lo scambio di informazioni è oggi un fenomeno diffuso. Ma l’utilizzo del cyber attivismo negli eventi iraniani è stato senza precedenti, ha condotto il dibattito internazionale là dove i governi e i media tradizionali hanno abdicato. Nonostante i drammatici fatti iraniani, tra cui le centinaia di migliaia di persone che hanno sfidato il regime di Ahmadinejad, non c’è dubbio che i social network abbiano giocato un ruolo di primo piano nella comunicazione “principale” della crisi. I modi in cui i manifestanti hanno utilizzato i social network dimostrano sia le opportunità che gli ostacoli del Web 2.0, ossia di seconda generazione. Da una parte “i cittadini reporter” hanno potuto condividere storie con persone dall’altro capo del mondo in pochi minuti, dall’altra “i van-
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dali” telematici e altri utenti nocivi hanno cercato di diffondere false verità. La guerra nelle strade è diventata una guerra online. I guerrieri di internet hanno lottato per la supremazia dell’informazione e per limitare gli ostacoli che il governo iraniano poneva all’accesso alla rete e allo spargere della disinformazione. La battaglia dei blog, tweet e messaggi on-line mostra la sfida principale nell’uso dei social network: assicurare l’informazione: ossia che le vere notizie arrivino alla persona giusta e al momento giusto, accertandosi che l’informazione trasmessa sia credibile, comprensibile e pratica. I governi dovrebbero prestare la massima attenzione all’esempio iraniano. Le tecnologie Web 2.0 possono avere un ruolo potenzialmente centrale nelle sfide collegate alla sicurezza nazionale, dalla diplomazia alle comunicazioni con i cittadini durante eventi catastrofici. Ma per raggiungere questo obiettivo bisogna prima sconfiggere i delinquenti on-line e assicurare la dinamicità del dibattito libero che circola sulla rete globale alimentata dai social network. Subito dopo l’annuncio di vittoria da parte di Ahmadinejad, stando ai resoconti dei media, il governo iraniano ha fatto di tutto per controllare il flusso delle informazioni, tra cui bloccare l’accesso a internet, alla televisione satellitare e limitare l’ingresso di giornalisti stranieri e nazionali.
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Poiché, stando alla Costituzione, il governo è proprietario di tutte le radio e le tv e per legge supervisiona ciò che esce sui giornali e periodici, il regime ha un netto vantaggio nel controllo dell’informazione pubblica. Anche dopo la fine delle proteste è continuata la censura preventiva delle notizie. Il 20 giugno il governo ha fatto chiudere l’ufficio iraniano di Al Arabiya e il giorno dopo il corrispondente della Bbc, Jon Leyne, è stato costretto a lasciare il paese. Secondo i dati di Reporter senza Frontiere, almeno 24 giornalisti sono stati arrestati. Senza i mezzi tradizionali d’informazione il mondo è stato costretto a rivolgersi ai social network, che hanno svolto il ruolo d’informatori e di canali per l’organizzazione di manifestazioni a livello globale. Il Web 2.0 è stato impiegato per quattro attività: il giornalismo fai da te, la mobilitazione della diaspora iraniana, l’organizzazione delle proteste e la guerra dell’informazione. Il governò ha tentato di bloccare l’accesso a internet, ma non ha potuto fare nulla contro l’attivismo internazionale nato come reazione alla crisi iraniana post-elettorale.
al 17 giugno iReport.com ha ricevuto circa 1.600 articoli sull’Iran da parte di cittadini comuni (la maggior parte foto e video) e 3mila persone si sono iscritti al portale». iReport è gestito dalla Cnn, ma sul sito viene riportato che «si tratta di un sito creato dagli internauti stessi i cui contenuti non vengono revisionati, corretti o controllati prima della pubblicazione».
Protestare online Secondo l’Unione Internazionale delle telecomunicazioni, un’agenzia dell’Onu, circa il 31 percento degli iraniani ha avuto accesso a internet nel 2008 (secondi in Medioriente agli israeliani), contro il 70 percento degli americani. In Iran tutti i gestori di servizi internet hanno una licenza governativa e devo-
La mole d’informazione sulle proteste è stata incredibile. Una ricerca su Google del 28 giugno ha dato più di un milione di risultati sulla crisi iraniana
Giornalisti fai da te Ovvero le notizie e le opinioni delle gente comune che di mestiere non fa il giornalista. Si tratta di una forma di giornalismo pubblico che ha due forme. La prima è quella dei giornalisti partecipativi, ossia coloro che mandano foto, video e notizie ai siti e ai giornali, per esempio Fox News e MySpace hanno un portale chiamato UReport (dove U sta per you). MySpace permette a chiunque di caricare i contenuti che vuole, mentre Fox News controlla e filtra il contenuto editoriale che appare sul sito o sui canali televisivi dell’emittente. La seconda forma è il reportage cittadino. Gli improvvisati reporter si creano dei propri siti internet dove pubblicare i contenuti. Portali che possono essere amministrati dal reporter autodidatta oppure da network gestiti da altri che ospitano notizie e foto dei volontari. Stando a Mediaweek «dal 13
no sottostare a delle restrizioni, nessuno di loro ha libero accesso al web. Il governo detiene una black list dei siti bloccati. In gran parte delle città iraniane (dove è concentrata il 70 per cento della popolazione) c’è un facile accesso al web, a differenza delle campagne. Ma la banda larga, che consente la rapida trasmissione di dati, filmati e file audio è spesso una prerogativa del governo e delle aziende. La maggioranza dei cittadini si deve accontentare della tradizionale connessione analogica, lenta e molto costosa. Il governo iraniano censura internet, blocca l’accesso a certi siti e vieta la ricerca di parole chiave. Nel 2005 i siti bloccati andavano dai 10 ai 15mila. Non solo, stando allo studio dell’OpenNet Iniziative il governo continua a perfezionare il suo apparato tecnologico di filtro, tra i più estesi al mondo. C’è un
RUOLLAH KHOMEINI
Ruollah Khomeini è stato il padre della Rivoluzione islamica. Ayatollah, capo spirituale e politico del suo Paese fino al 1989. Il suo governo fu di stampo religioso sciita, impostato sul moralismo
sistema centrale che filtra due volte ciò che già hanno filtrato i singoli operatori internet. La Guardia Rivoluzionaria gioca un ruolo di primo piano nell’imporre gli standard di contenuto.Tutto ciò non fa che promuovere l’auto-censura degli internauti e scoraggiare le opinioni contrastanti. Il 98 percento dei siti politici iraniani è censurato. Ma nonostante l’onnipresenza del governo nella rete, la gente si fida più di ciò che legge online che sui media tradizionali. I blogger e i social network proliferano, la “blogosfera persiana” conta tra i 20 e i 70mila blog. Sul web il giornalismo fai da te ha avuto un ruolo centrale prima e durante le proteste post-elettorali, nonostante i tentativi governativi di bloccare l’accesso ai social network. Un messaggio postato sul blog da Beirut del Los Angeles Times racconta che «gli operatori internet hanno bloccato l’accesso a Facebook sia agli utenti con la connessione analogica che a banda larga. Il governo iraniano teme che Facebook possa essere usato dai servizi segreti stranieri per reclutare attivisti e organizzare proteste di piazza anti-governative. Ma a gennaio, dopo aver visto come gli attivisti usavano Facebook per fomentare l’opposizione all’offensiva israeliana a Gaza, le autorità iraniane si sono ricredute e hanno tolto il divieto di Facebook». Tuttavia, con l’avvicinarsi delle elezioni, pare che il sito fosse stato di nuovo bloccato. Secondo l’Associated Press il divieto per Facebook fu comunque levato alcuni giorni dopo. Nel frattempo anche a Twitter, un altro nuovo e già popolare social network, furono tolte le maglie della censura. Oltre agli ostacoli governativi e alla lentezza di molti connessioni, alcuni funzionari iraniani si misero a diffondere online la disinformazione. Su Twitspam, un network che incoraggia gli utenti a tracciare e bloccare i “tweeters” cattivi, comparve un elenco di possibili “agenti iraniani”che operavano in rete. Lo stesso fecero anche Facebook e altri. Il governo iraniano, tuttavia, ha usato inter-
MEHDI KARROUBI
Mehdi Karroubi è un riformista, politico e religioso iraniano. Presidente del National Trust Party, ha fondato l’Associazione dei religiosi combattenti. È uno degli sconfitti alle ultime presidenziali
net anche per diffondere dichiarazioni ufficiali. La Guida Suprema e la presidenza hanno entrambe un sito. Press TV è l’emittente in lingua inglese del governo, il cui portale ha coperto le elezioni riportando le critiche dei media occidentali e dei social network. In un reportage si racconta che la Cnn ha intervistato un “anonimo” testimone durante una manifestazione, le cui dichiarazioni contrastavano con quelle del reporter della Press TV. «Non è ben chiaro - scriveva l’emittente televisiva del regime - se la Cnn, che si affida a fonti “affidabili” come i social network, sia stata tratta in inganno dal testimone anonimo o si sia inventata tutto con l’obiettivo occidentale di destabilizzare l’Iran». Questa storia è emblematica di come la televisione di stato abbia tentato trasmettere online un’immagine positiva del regime.
Teheran.com Nonostante i tentativi governativi di manipolare la percezione pubblica, gli iraniani si sono presto rivolti a internet a mano a mano che montavano le proteste. Da una parte, avevano poche alternative, il regime controllava i media tradizionali. Dall’altra, è proprio per questo motivo che negli ultimi dieci anni gli iraniani hanno imparato a usare internet per esprimere liberamente il proprio pensiero, dissenso incluso. Ancora prima delle elezioni molto iraniani invocavano un drastico “cambiamento sociale e politico”. Questo utilizzo della rete perdurava nonostante molto blogger fossero stati arrestati e torturati. A dispetto delle maglie del controllo governativo i social network iraniani sono riusciti a penetrare nel mondo esterno. Il governo censura internet tramite dei software che bloccano l’accesso agli indirizzi internet vietati. Ma i forum sociali, come Twitter, non sono legati a un particolare sito. Anche se l’accesso a Twitter
SEYYED ALÌ KHAMENEI
L’ayatollah Seyyed Alì Khamenei è un politico e religioso iraniano, attuale Guida Suprema dell’Iran. È stato presidente del Paese dal 1981 al 1989. Sembra in rotta con Ahmadinejad
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Dal cyberspazio ai network sul cellulare È la nuova via del dissenso e se i governi non si preparano saranno travolti viene ristretto gli utenti possono comunque accedervi tramite altri portali non ancora bloccati quali Twitterfall. Un altro modo per aggirare il governo è agganciarsi a un server remoto che utilizza indirizzi internet non presenti nella lista nera del governo e dunque capaci di dirottare a loro volta l’informazione ad altri siti web, inclusi quelli nella lista nera. Grazie a questi stratagemmi il flusso d’informazione ha continuati a viaggiare nel cyberspazio. L’unico modo in cui il governo poteva completamente sbarrarlo era vietare tutti gli accessi a internet, ma non lo ha mai fatto perché ciò avrebbe potuto oscurare anche importanti servizi online governativi ed economici. Il giornalismo fai da te, cominciato poco dopo il discorso vittorioso di Ahmadinejd su YouTube, Facebook, Flickr, Fox News.com e Cnn.com ha permesso ai media tradizionali di raccontare al mondo la realtà dei social network, facendo esplodere la sete di notizie urbane. Ma l’aspetto più importante è che il giornalismo fai da te ha spinto i social network a diffondere il dissenso.
La diaspora si mobilita Nel 2006 la diaspora iraniana comprendeva dai 2 ai 4 millioni di persone sparse per il mondo. Stando al Migration Policy Institute americano la popolazione migrante dell’Iran «è estremament etereogenea per etnicità, religione, status sociale, lingua, sesso, affiliazione politica, istruzione, status legale, tempistica e motivazione della partenza (per motivi politici, socioculturali ed economici)». La maggior concentrazione di iraniani al mondo si trova negli Usa, seguiti da Canada, Germania, Svezia e Israele. Gli Usa ospitano tre volte il numero degli iraniani residenti in Canada e questa popolazione è molto presente in internet. Questa diaspora è ben rappresentata anche nei social network. Nel 2005 uno studio della comunità multinazio-
nale online Orkut stabilì che dei 11.4 millioni di utenti circa 340mila erano iraniani, terzi al mondo per nazionalità. Sebbene molti di questi vivessero in Iran, il portale divenne uno strumento di collegamento della diaspora globale iraniana. Molti siti internet collegati alla diaspora sono stati usati per diffondere la notizie sulle proteste post-elettorali. Un esempio lampante è il Teheran Bureau, descritto online come «una fonte indipendente di informazione sull’Iran e la diaspora iraniana». Il sito è nato pochi mesi prima delle elezioni. Il direttore Kely Golnoush Niknejad, nata in Iran ed emigrata negli Usa da teenager, è una giornalista come il resto del suo staff. Nel pieno delle agitazioni di massa il sito (molto simile a un blog) ha ospitato i contributi di giornalisti improvvisati, commenti, foto e video.
Gli attivisti si organizzano I social network che hanno operato al di fuori dell’Iran spiegano il successo di questi mezzi. A causa dell’accesso ristretto a internet, le lente connessioni e le poche notizie su ciò che stava realmente accadendo nel paese, gli iraniani residenti fuori dall’Iran hanno vestito i panni degli attivisti per facilitare la diffusione dell’informazione. I blog, per esempio, davano consigli su come creare dei server remoti per trafugare le notizie fuori e dentro il paese. Il portale Translation Initiative for Iranian Protestors reclutò traduttori e andò a caccia di traduzioni di email, video suYouTube, messaggi su Facebook, articoli e comunicati stampa pubblicando una valanga di informazioni in pochi giorni. Il materiale originale in lingua Farsi e le traduzioni in inglese furono pubblicate sul portale di Wikipedia. Numerosi siti web sono stati usati come punti di smistamento delle informazioni con l’obiettivo di diffondere i luoghi delle proteste, gli avvisi di pericolo contro l’azione del go-
ALI AKBAR HASHEMI RAFSANJANI
Ali Akbar Hashemi Rafsanjani è un politico e religioso iraniano, attuale Presidente del ”Consiglio d’Esame Rapido” dell’Iran. Presidente dell’Iran dal 1989 al 1997, ha tentato un terzo mandato nel 2005
verno e i nomi delle vittime, i feriti, gli arrestati e chi era sparito. Stando al World Security Network «un esempio di social network iraniano è il “gruppo dei 100 milioni per la democrazia in Iran” presente su Facebook. Che in pochi giorni ha radunato 150mila membri capaci di individuare 108mila argomenti, creando 1759 messaggi, 6 video, 496 foto e 1098 link. E che è in continua crescita grazie a un semplice click del mouse». Non c’è dubbio che la quantità d’informazione sulle proteste è stata incredibile. Una ricerca su Google del 28 giugno ha dato più di un milione di risultati sulla crisi iraniana.
La guerra dell’informazione Oltre a facilitare il giornalismo fai da te e organizzare le proteste, i social network sono stati usati per condurre una guerra dell’informazione. Dopotutto, internet può essere usato sia per diffondere le notizie sia per distorcere o prevenire l’accesso all’informazione, identificare utenti pericolosi, seminare la propaganda e bloccare l’accesso alla rete. Di solito questa è opera dei governi, ma nesuno vieta che sia anche l’obiettivo di gruppi di individui e semplici persone. I leader dei social network oggi si chiedono quale sia il modo migliore per fermare i “troll” (utenti che diramano notizie controverse e offensive), gli utenti fantocci, i vandali (utenti che modificano negativamente le pagine di Wikipedia) e i cosiddetti topi (quelli che caricano sui siti software nocivi). Alcuni sostengono che la forza dei social network è la creazione di sistemi “aperti” che consentono l’auto-correzione. Dove i singoli possono facilmente individuare le informazioni sbagliate e suggerire delle correzioni. Recenti ricerche dimostrano che Wikipedia, per esempio, mantiene un alto grado di precisione nonostante la correzione dei contenuti sia aperta a chiunque. Durante le prote-
SEYYED MOHAMMAD KHATAMI
Seyyed Mohammad Khatami è un filosofo e politico iraniano. Presidente dell’Iran dal 2 agosto 1997 al 2 agosto 2005, è considerato un riformista. Ha vinto infatti grazie al voto di giovani e donne
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ste iraniane i social network hanno cercato di affrontare il problema della disinformazione. Twitspam ha creato una pagina web intitolata «I Tweeter delle false elezioni iraniane”, con una lista di “possibili falsi utenti collegati probabilmente ai servizi segreti iraniani. Utenti che fanno azione di spam, che cercano di intrappolare gli utenti Tweeter iraniani o di spargere la disinformazione». Fox News e la Cnn hanno utilizzato materiale proveniente da questo sito a tal punto che il quotidiano Huffington Post ha perfino pubblicato online «degli standard di pubblicazione per il giornalismo fai da te». Ma i social network, oltre a combattere la disinformazione, hanno anche organizzato attacchi ai siti e alle banche dati del regime. Tale fenomeno viene definito come “Hacktivismo”, e stando all’Associated Press una squadra di hacker ha perfino sviluppato e distribuito in rete dei software che neutralizzano o bypassano i programmi di censura digitale governativa.
Le lezioni imparate Il potere rivoluzionario dei social network è stato subito riconosciuto a livello globale. Il famoso blogger ed ex giornalista Andrew Sullivan ha scritto «che la gente non può più essere fermata né controllata. Scavalca i media tradizionali e si mette in contatto direttamente, si organizza come mai prima d’ora». Sebbene sia prematuro prevedere un cambiamento globale nell’ordine politico basato sugli eventi post-elettorali iraniani, possiamo comunque azzardare qualche conclusione: la geografia è importante. È sbagliato pensare che le tendenze e l’impatto dei social network saranno uguali per tutto il mondo. L’utilizzo di internet in Iran (sebbene significativo per gli standard del Medioriente) è nettamente inferiore rispetto a quello in Usa, Europa e alcuni parti dell’Asia. E nonostante la crescita della rete iraniana, l’accesso alla banda larga è ancora limitato, ma grazie alla mediazione della diaspora i cittadini dell’Iran hanno ottenuto un palcoscenico internazionale senza precedenti.
MOHAMMED MOSADEQ
Mohammed Mosadeq fu dal 1951 al 1953 Primo Ministro d’Iran, dopo i tragici avvenimenti connessi alla concessione sullo sfruttamento del petrolio che lo shah aveva rilasciato ai britannici
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Tale fenomeno suggerisce che anche le diaspore di altre nazioni - tra cui Marocco, Egitto, Turchia, Messico e Filippinie possono svolgere un ruolo centrale nei social network. Un altro aspetto unico dell’Iran è la natura della sua società civile. Poiché il governo controlla i media statali, la gente guarda ai social network per ritagliarsi una sfera privata dove discutere di politica, cultura, sport e religione. Ciò dimostra che la natura della società civile - dalle reti culturali a quelle fisiche - è un fattore importante nel determinare il ruolo dei social network come strumenti di risposta alle crisi. Internet è neutrale. Nessuno può vantare una posizione inattaccabile nello cyberspazio. Gran parte del dibattito si è incentrato sull’effettivo vantaggio dei social network per gli oppositori o il governo. Molti commentatori sostengono che la forza dell’attivismo politico online sia irreversibile, ma che ci sono dei limiti a ciò che i social network possono fare per i cittadini in una società autoritaria. Il governo, geloso del loro potere, può limitarli e anche le urla dei manifestanti possono servire ai regimi come “valvole di sfogo politico”. Le dittature possono impiegare infine i social network ai propri fini, diffondendo propaganda e disinformazione come ha fatto durante la crisi il governo iraniano. La tecnologia si evolve di continuo, come l’uso di internet. Il governo era convinto di mantenere un dominio permanente sul web semplicemente confidando nelle lente e costose connessioni. Ma si è sbagliato: i social network hanno sconfitto le restrizioni delle infrastrutture tecnologiche. È inoltre sbagliato considerare il cyberspazio come statico: occorre considerare la azioni degli utenti e riflettere su come farle progredire nel futuro. Soluzioni semplici non ce ne sono. Non c’è tecnologia, legge, regolamento o software che può arrestare la competizione nel cyber-universo.
Le potenzialità del web Il World Wide Web è molto più reattivo di ciò che si pensa. Nonostante la fatiscente
infrastruttura tecnologica dell’Iran, gli attacchi telematici e l’insaziabile richiesta globale di informazioni, internet ha risposto bene alla sfida. E ciò non dovrebbe sorprendere. Alcuni studi della National Academies effettuati all’indomani dell’11 Settembre hanno dimostrato che internet è sopravvissuto all’oscuramento delle telecomunicazione avvenute a Manhattan e all’incremento del traffico online. Il numero degli utenti dei social network dall’11 Settembre è schizzato alle stelle, così come la capacità dei social network di rispondere all’inaspettata crescita della domanda di informazione. Alla morte di Michael Jackson Google fu talmente inondato da ricerche su di lui che si pensava fossero attacchi di hacker. Wikipedia chiuse la pagine dedicata al Re del Pop per sei ore perché migliaia di utenti volevano modificarla contemporaneamente. La guerra civile cibernetica iraniana ha mostrato i limiti del blocco a internet. Se il governo avesse scelto “un’opzione nucleare”, ciò avrebbe deter-
Tecnologie certe e collaudate; sistemi semplici per chiunque; vantaggio chiaro per l’utente che si affida alla rete. Sono queste le tre regole alla base dei social network. Gli iraniani lo hanno capito minato l’annullamento della produzione industriale, energetica e finanziaria collegata alla rete, oltre a neutralizzare il suo controllo sui media. Allo stesso modo, in un’economia globale gli stati o gli individui che conducono pesanti attacchi cyber possono fare altrettanto danno a sé come ai loro nemici. Dunque, una sorta di politica di deterrenza sembra regnare nel cyberspazio. Di più: poiché i concorrenti non sembrano volere dichiarare una vera guerra cibernetica, rimangono aperti molti canali tramite i quali restaurare i servizi internet danneggiati. Durante gli
AHMAD JANNATI MASSAH
L’ayatollah Ahmad Jannati Massah è il presidente conservatore del Consiglio dei Guardiani, l’organo legislativo incaricato di controllare la costituzionalità di leggi ed elezioni
attacchi cibernetici russi in Estonia nel 2007 e in Georgia nel 2008, nonostante la neutralizzazione dei siti avvenisse da entrambe le parti, i governi furono in grado di ripristinare i servizi nel giro di poche ore. Nel caso degli attacchi in Georgia altri paesi crearono dei server remoti per ospitare i siti governativi georgiani messi fuori uso. Ma se internet resiste alla competizione cibernetica, è comunque sempre a rischio di calamità naturali e distruzione da parte dell’uomo. Durante l’uragano Katrina New Orleans venne tagliata fuori dall’accesso alla rete perché si interruppero del tutto le comunicazioni. Più che la protezione dei sistemi internet, la priorità nazionale dovrebbe essere assicurare la resistenza delle rete: ossia la capacità di mantenere il flusso delle attività online anche davanti alle minacce. È la reattività che assicura una vera sicurezza, sia fisica che economica. Si tratta di un approccio duplice e di una sfida centrale, che consiste nel neutralizzare gli attacchi e garantire la sopravvivenza degli utenti internet. Nel suo libro Here comes everybody Clay Shirky spiega come utilizzare al meglio i social network. Ecco le regole-base: • Le tecnologie devono essere consolidate. Shirky spiega che «i nuovi strumenti partono con uno svantaggio sociale enorme, poca gente li conosce e li utilizza». Nel caso dei social network è dunque meglio adottare programmi già sperimentati e diffusi. • I sistemi devono sembrare semplici. Shirky cita l’esempio di Wikipedia, dove chiunque può entrare e modificare i contenuti delle pagine. Regole e operazioni semplici sono alla base di un uso allargato dei social network. • L’utente deve poterne trarre dei vantaggi. «I social network non creano nuove motivazioni ma amplificano quelle già esistenti», spiega Shirky. Gli internauti vi partecipano perché credono che ciò porterà i benefici desiderati. Il caso iraniano sembra dare ragioni alle semplici regole di Shirky. Anche Twitter, tra i più moderni strumenti usati dai
MOHAMMAD REZA PAHLAVI
Mohammad Reza Pahlavi fu l’ultimo Scià del suo Paese: ha regnato tra il 1941 ed il 1979. Inviso ai religiosi per la sua politica, è stato rimosso da Khomeini. È morto in esilio ospite in Egitto
manifestanti, è nato due anni fa ed è facilissimo da usare. La malagestione della crisi è una grave pericolo. Assicurare l’informazione - sapere che è precisa e affidabile - è la sfida maggiore dei social network. Il dibattito post-elettorale iraniano ha dimostrato che le voci, le perfidie e l’informazione inesatta possono diffondersi tanto rapidamente quanto i fatti. Il Web 2.0 può anche creare “un sovraccarico di informazione”che intasa il network con notizie irrilevanti capaci di complicare, invece che facilitare, l’analisi e il processo decisionale. L’era dell’informazione ha dato potere alla cultura scientifica ma anche a quella narrativa. La tecnologia dell’informazione permette di fare ricerche più accurate agli scienziati, mentre agli opinion maker di rendere più “sexy” certe notizie diffondendole con maggiore successo.
Prossimi passi Le lezione imparata è un punto di partenza per la messa a punto di un’agenda nazionale incentrata sull’uso governativo delle tecnologie Web 2.0 per affrontare una eventuale situazione di crisi. Essendo americano, parlerò del mio paese, ma certamente la nota è valida per tutti. Iniziamo con le comunicazioni strategiche. Agli Usa mancano le fondamenta per condurre le comunicazioni strategiche nell’era dell’informazione e sfruttare le potenzialità del Web 2.0. Di tutte le istituzioni coinvolte nella sicurezza nazionale, politica estera e diplomazia, sono soprattutto quelle che si occupano di comunicazioni strategiche ad affrontare la sfida maggiore poiché mancano di leadership, risorse necessarie e coordinamento per svolgere i loro doveri in un mondo tecnologico multiforme che si affida sempre di più al Web 2.0. Perciò è fondamentale sia l’istituzione di una agenzia per le comunicazioni strategiche sia un programma quadro nazionale per l’utilizzo efficace dei social network. Washington necessita di una leadership professionale attiva e un piano di ricerca specifico. Se il governo non
ESFANDIAR RAHIM MASHAIE
Esfandiar Rahim Mashaie è capo dell’ufficio di Ahmadenejad. Era stato nominato vicepresidente, ma la carica è saltata per le posizioni dialogiche di Mashaie nei confronti di Israele
dossier iran
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Anche ieri tremila dimostranti sono tornati a chiedere l’annullamento del voto
Il giorno nero della memoria Cariche sui manifestanti riuniti per onorare Neda e le altre vittime. Mousavi allontanato dalla polizia. Arrestato il Leone d’oro Panahi di Vincenzo Faccioli Pintozzi
forgerà utenti imbevuti delle conoscenze e delle competenze necessarie ad operare nel mondo dei network non riuscirà mai a superare le sfide tecnologiche del web di seconda generazione.
Conclusioni Non è dato sapere se le proteste iraniane diventeranno un modello tramite cui innescare il cambiamento politico e l’attivismo globale. Ma le lezioni tratte dimostrano le sfide da affrontare per operare in un universo guidato dal Web 2.0, e soprattutto che Washington parte svantaggiata. Il governo Usa deve investire sullo sviluppo delle competenze richieste, sul ruolo delle agenzie federali e sull’implementazione di partnership pubblico-private più robuste. La lancette dell’orologio corrono. Già oggi metà della popolazione mondiale (più di tre miliardi di persone) possiede un telefono cellulare e fra una dozzina di anni diventerà una maggioranza consistente. Ogni giorno nascono applicazioni per i social network compatibili con i cellulari, non è affatto irrealistico dunque pensare che in un futuro non troppo lontano l’informazione ruotante attorno a una crisi planetaria correrà lungo le connessioni internazionali dei telefoni mobili. Quando questo succederà, il governo Usa (ma anche gli altri) dovrà essere pronto a svolgere il proprio ruolo nel flusso informatico: o perderà la parola.
JAMES JAY CARAFANO
È condirettore del Cullom Davis Institute for International Studies e Senior Fellow per la sicurezza nazionale al dipartimento Esteri dell’Heritage Foundation
TEHERAN. La dura repressione del regime degli ayatollah ha colpito ancora. Circa tremila persone sono state caricate ieri dalla polizia della capitale iraniana: si erano radunate senza il permesso delle autorità per ricordare i martiri dell’Onda verde, il movimento riformista che da oltre quaranta giorni chiede l’annullamento del voto presidenziale. La giornata di ieri serviva per commemorare appunto la fine del periodo che secondo l’islam deve essere rispettato per far riposare l’anima dei defunti. Pur strumentalmente, i leader dissidenti avevano chiesto al Consiglio della Rivoluzione di autorizzare la preghiera comune. Molti aspettavano una risposta positiva, visto anche l’atteggiamento tenuto dall’esecutivo, che aveva ammesso delle morti nel corso degli scontri. Speranza vana, come hanno dimostrato i poliziotti che sin dalla prima mattina hanno circondato i luoghi sensibili di Teheran. I primi scontri sono arrivati con la carica sui manifestanti che si erano radunati nel cimitero di Behesht-e Zahra, nel sud di Teheran, dove sono sepolti Neda Agha-Soltan e altri giovani uccisi nella manifestazioni del 20 giugno. Gli agenti hanno picchiato con bastoni, manganelli e cinture le persone che si erano raccolte nel camposanto. Secondo alcuni testimoni citati dalle agenzie internazionali di stampa, la polizia avrebbe anche compiuto diversi arresti.
Tra le persone arrestate ci sarebbero anche i registi Mahnaz Mohammadi e Jaafar Panahi. La notizia è stata diramata attraverso il web, in particolare dal sito per i diritti delle donne Women’s Field. Mohammadi è una giovane regista di documentari, mentre Panahi vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 2000 con il film Il cerchio e l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2006, oltre che di premi minori a Cannes e Locarno. Nel cimitero erano attesi i leader dell’opposizione Mir Hossein Moussavi e Mehdi Ka-
roubi i quali, aggirando il divieto delle autorità iraniane , avevano deciso di raccogliersi in preghiera sulle tombe. Si è poi saputo che gli agenti hanno costretto Moussavi a lasciare il cimitero praticamente subito dopo esservi giunto: il leader politico era riuscito a scendere dall’auto, accolto dagli slogan festosi dei manifestanti («Ya Hossein! Mir Hossein!»), e a camminare fino alla tomba di Neda, la giovane di cui oggi ricorre il qua-
La manifestazione voleva commemorare il quarantesimo giorno dalla morte dei primi civili trucidati dai pasdaran per le strade della capitale
rantesimo giorno dalla morte. «A Moussavi però - hanno rivelato alcuni testimoni - non è stato permesso di recitare i versi del Corano: è stato immediatamente circondato da agenti in assetto anti-sommossa che lo hanno ricondotto alla sua auto». Non sono mancati i tafferugli: «Altre persone che si erano raccolte al cimitero
hanno circondato la sua auto, tentando di non farlo andar via. Ma la polizia ha cominciato a spingere gli attivisti dopodiché Moussavi è ripartito». Migliaia di persone si sono poi radunate nelle strade che circondano la grande moschea «Mosallah» di Teheran. Le notizie sono state diffuse tramite Twitter e attraverso i siti di alcuni blogger presenti. Per le 16 (ora italiana) erano previsti 90 minuti di raccoglimento in onore dei manifestanti morti a giugno, a 40 giorni di distanza, come vuole la tradizione sciita. Ma anche in questo caso la polizia ha proceduto con modi alquanto spicci: gli agenti hanno caricato circa 3 mila sostenitori dell’opposizione che si erano già radunati al Grande Mossala di Teheran.
Gli agenti, in particolare, avrebbero picchiato alcuni manifestanti e fatto uso di gas lacrimogeni per cercare di disperdere il gruppo. «I manifestanti alzano le braccia, fanno il segno della vittoria, mentre la polizia cerca di disperderli», ha dichiarato un testimone all’Afp. «Alcuni dimostranti hanno incendiato dei cassonetti, mentre dei poliziotti in tenuta anti-sommossa attraversano la folla in moto per tentare di disperderli», ha detto la stessa fonte. «La polizia ha rotto i finestrini di numerose auto», ha aggiunto. Centinaia di automobilisti suonano il clacson, come è ormai abitudine tra i sostenitori del capo dell’opposizione Mir Hossein Mousavi da quando è nato il movimento di contestazione contro la rielezione il 12 giugno del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Ora la palla torna nelle mani dell’esecutivo, che ha voluto dimostrare una volta di più la sua indisponibilità a trattare con il movimento riformista. Nonostante le posizioni assunte da Rafsanjani e da Khatami, ex presidenti della Repubblica islamica, la Guida suprema della Rivoluzione ha annunciato che l’ordine deve tornare nelle strade. Costi quel che costi.
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I talebani: «Niente voto, basta il jihad» Un comunicato dei terroristi afghani invita a evitare le urne e unirsi alla lotta “santa” di Antonio Picasso on l’appello al jihad, diffuso ieri grazie a un comunicato on line, la variegata compagine talebana in Afghanistan è entrata ufficialmente in campagna elettorale. A modo suo però. Infatti, a differenza dei 37 candidati che concorrono con l’attuale presidente Karzai per la poltrona di Capo dello Stato, i combattenti islamici invitano la popolazione a disconoscere l’appuntamento delle urne fissato il 20 agosto. «Partecipare a queste elezioni - si legge nel testo del documento - significa simpatizzare con gli invasori americani, sostenerli e dare loro legittimità». Tuttavia, facendo riferimento alla “guerra santa” in nome di Allah, l’invito dei talebani non si riduce al semplice boicottaggio. Ciò che essi desiderano è aumentare gli scontri nelle prossime tre settimane. Mirano non unicamente al fallimento del voto, ma anche a macchiarlo di sangue. Se poi, come prevede nella sua accezione di globalità il jihad, in soccorso della causa talebana giungessero anche mujaheddin da oltre confine, sarebbe ancora meglio.
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Il mese di luglio si chiude con un bilancio pesantemente negativo per le forze occidentali. Sono 39 i caduti statunitensi e 20 quelli britannici. A questi si aggiunge anche la morte del caporalmaggiore italiano, Alessandro Di Lisio, ucciso due settimane fa. Nell’offensiva in corso, i talebani hanno dimostrato di essere riusciti a migliorare significativamente le loro tecniche di attacco, in particolare per quanto riguarda gli ordigni piazzati lungo le strade. Sul fronte politico, le ipotesi di exit strategy, di cui si sta parlando in questi giorni in Italia, hanno raccolto reazioni generalmente contrarie. Ieri il nostro Sottosegretario agli Esteri, Stefania Caxi, in visita ufficiale in Nuova Zelanda e Australia, si è incontrata con il capo della diplomazia del governo di Canberra, Stephen Smith. Dal summit non è emerso alcuno spazio per parlare di ritiro dei contingenti. Neanche nella prospettiva di lungo periodo, dopo il 20 agosto. L’impegno
Il mese di luglio si chiude con un bilancio pesantemente negativo per le forze occidentali. Sono 39 i caduti statunitensi e 20 quelli britannici. A questi si aggiunge anche la morte dell’italiano Alessandro Di Lisio australiano, nello scenario afgano, è incontestabile: 1.100 uomini, comprese le forze speciali del Sas, dispiegati nella provincia di Oruzgan, nel
sud del Paese. Una zona molto calda. Contestualmente il premier spagnolo Zapatero ha dichiarato la disponibilità di aumentare il contingente ibe-
rico, attualmente di 800 uomini, «se le condizioni dovessero richiederlo». Altrettanto esplicita è stata la presa di posizione del Ministro degli Esteri
L’exit strategy dall’Afghanistan secondo Silvio Berlusconi
La guerra non si vince coi sondaggi di Enrico Singer segue dalla prima È facile fare due più due sapendo quanto Silvio Berlusconi sia attento all’andamento dei polls - oltre che ai mal di pancia degli alleati - per decidere le sue mosse e intercettare il consenso. Ma quando si parla di sondaggi sulla guerra in Afghanistan, sarebbe il caso di guardarsi anche un po’ intorno: si scoprirebbe che il primato dei contrari alla missione internazionale non spetta a noi. In Francia, addirittura, il 68 per cento è contro. In Germania la percentuale dei contrari è a quota 63. In Gran Bretagna il 52 per cento vorrebbe ritirare il contingente che è secondo soltanto a quello americano e che ha avuto nel mese di luglio 20 morti in combattimento. In Canada - i soldati canadesi impegnati con la Nato hanno avuto 125 morti dall’inizio delle operazioni - il 54 per cento della popolazione (con un record del 73 per cento tra le donne) è contraria all’intervento. Anche negli Usa i sondaggi cominciano a dire no alla strategia di Barack Obama che ha appena aumentato a 68mila il numero dei militari impegnati contro i talebani. Nel gennaio del 2002, quando cominciò
l’intervento, pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, soltanto il 6 per cento degli americani era contrario, oggi l’ultimo sondaggio Gallup rivela che i contrari sono il 42 per cento: una quota che si avvicina a quella degli americani che non condividevano la guerra nel Vietnam alla fine degli Anni Sessanta.
Se la politica si dovesse decidere in base ai sondaggi d’opinione, la missione Enduring Freedom guidata dagli Usa e quella Isaf della Nato sarebbero da tempo liquidate con tanti ringraziamenti da parte dei talebani e di al Qaeda. Certo, non è difficile immaginare che, quando si chiede se non è meglio riportare sani a salvi a casa i propri soldati da un inferno come quello afghano, è duro rispondere di no. Anzi, sorprende il numero di chi - in Italia e negli altri Paesi impegnati in Afghanistan - è convinto che vale la pena di morire per Kabul. Tra l’altro, il sondaggio italiano specifica che la quota dei contrari alla missione è del 62 per cento tra gli elettori di centrosinistra e del 35 per cento tra quelli di centrodestra. Forse sarebbe meglio chiedere - e chiedersi - che cosa si può fare per riuscire a vincere la guerra al terrorismo. E di sicuro bisognerebbe avere anche il coraggio di prendere decisioni impopolari. José Luis Zapatero ha appena annunciato un rafforzamento del contingente, nonostante il 56 per cento degli spagnoli sia contrario. Che Bambi - come è soprannominato per i suoi occhioni un po’ smarriti - sia diventato più impavido di Berlusconi?
del Regno Unito, David Miliband, fresco del confronto con Hillary Clinton giovedì. «Credo che il popolo britannico voglia rimanere lì, perché c’è una chiara strategia e una chiara determinazione da parte degli Stati Uniti e degli altri membri della coalizione ad andare avanti». Vista la situazione attuale, la lista di cose che possono peggiorare nelle prossime tre settimane in Afghanistan è lunga. Possono aumentare gli scontri con i talebani, rendendo lo scenario ancora più incandescente. Teniamo presente che, parlando di talebani, facciamo riferimento a una costellazione di soggetti in armi che, per semplicità, noi vediamo come un unico avversario. Al contrario, si tratta di forze attive spesso senza una strategia comune. Da qui l’eventualità che gli scontri siano portati avanti da un gruppo - per esempio i signori della guerra, oppure alcuni capi tribali ribelli, i narcotrafficanti, o ancora i combattenti islamici - ma non da un altro. Si possono poi verificare attentati mirati ai singoli candidati. Come già successo la scorsa settimana, quando il convoglio di auto del leader tagiko, Mohammad Qasim Fahim - egli stesso signore della guerra ed ex vicepresidente nel governo di transizione - è caduto in un’imboscata. Qualche giorno prima, era toccato al mullah Salam Rocketi, a sua volta comandante talebano di posizioni moderate, ad essere stato attaccato.
Proseguendo, è plausibile un’escalation di violenze nel corso delle votazioni, contro l’elettorato. Stando al comunicato di ieri, chi si presenterà ai seggi sarà tacciato automaticamente di tradimento e collaborazionismo con il nemico occidentale. Senza contare infine l’ipotesi che emerga dalle urne il risultato più un voto di protesta contro Karzai, accusato di collusione con la criminalità organizzata e il sistema di corruzione locale, anziché una scelta motivata in favore di un candidato specifico. Sarebbe ingenuo se le forze occidentali pensassero di poter evitare completamente tutto questo nel futuro prossimo. D’altra canto, è realistico cercare di contenerlo. Questo è possibile dimostrando all’Afghanistan che non è nostra intenzione andarcene.
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Sotto accusa i Paesi donatori: non danno quanto promesso
L’isola è stata blindata per impedire la fuga dei terroristi
L’Onu: meno fondi da dare al Programma alimentare
Maiorca, l’Eta colpisce ancora: uccisi due agenti
GINEVRA. Il Programma ali-
MAIORCA. Due agenti della
mentare mondiale (Pam) ha annunciato il taglio degli aiuti ai Paesi poveri per la mancanza di fondi. Rispetto al budget preventivato per il 2009, l’organismo Onu afferma di aver ricevuto solo un quarto dei finanziamenti promessi dai governi dei Paesi sviluppati, 1,8 miliardi di dollari a fronte dei 6,7 miliardi necessari per realizzare i progetti di sicurezza alimentare in programma. Tra i Paesi colpiti dalla mancanza di fondi ci sono soprattutto quelli dell’Africa e della regione Asia Pacifico, dove si calcola che le persone che non hanno accesso al cibo sono 642 milioni. Il Pam afferma di aver già tagliato, dal 1 luglio, il 50% delle razioni di cibo destinate ai malati di tubercolosi della Cambogia e di aver sospeso il programma alimentare a favore di bambini in 1.344 scuole dello stesso Paese per l’aumento del prezzo del riso. Colpita dai tagli anche la Nord Corea. Marcus Prior, portavoce del Pam, afferma che l’organizzazione ha dovuto sospendere gli aiuti alimentari per 4milioni di persone. Situazione simile anche per il Bangladesh dove non può iniziare un programma a favore di 1.75 milioni di abitanti per combattere la malnutrizione.Il Programma Onu è sostenuto al 95% dai governi. Il primo donatore sono gli Stati Uniti passati dallo stanziamento di 1,2 miliardi di dollari dello scorso anno a 620 milioni del 2009. Stesse percentuali per l’Unione Europea, da 1,3 miliardi a 574 milioni, e per gli altri donatori più importanti, Giappone, Canada e Arabia Saudita. Gli analisti affermano che il drastico calo dei finanziamenti è uno dei risvolti della crisi economica che ha costretto i governi a rivedere le promesse fatte nel corso degli ultimi summit mondiali contro la fame. Alcuni commentatori fanno però notare che i tagli rimettono a tema anche i costi di struttura dell’Onu, che spende più del 50% del budget annuo per personale.
Guardia civil sono morti ieri nell’esplosione avvenuta in una caserma nell’isola di Maiorca. Lo ha reso noto la radio spagnola. Un veicolo è esploso poco prima delle due davanti alla caserma della Guardia Civil a Palmanova, Maiorca. «Due agenti della guardia civil che si trovavano nell’auto di servizio sono state uccise da un’esplosione». Lo ha detto il portavoce della guardia civil delle Baleari. Secondo i media, la bomba sarebbe stata messa sotto l’auto degli agenti, secondo un metodo comunemente usato dall’organizzazione separatista basca Eta per i suoi attentati. Nell’esplosione ci sarebbero stati anche diversi feriti di cui due gra-
Islamici nigeriani all’attacco: è strage Almeno seicento morti in quattro regioni del Paese di Osvaldo Baldacci uona l’allarme in Nigeria. Per l’ennesima volta, mentre l’Occidente rimane distratto. Sono almeno 600 i morti in cinque giorni di scontri nel Nord del gigante africano. O forse molti di più, perché da quelle parti è difficile fare i conti. Le violenze hanno coinvolto almeno quattro stati: Borno, Bauchi, Kano e Yobe. E i miliziani islamisti sono accorsi anche da Niger e Ciad. Per giorni i talebani nigeriani hanno tenuto in ostaggio 180 donne e bambini e dalle loro basi intorno ad alcune moschee hanno lanciato violenti attacchi contro caserme, commissariati, chiese. La minoranza cristiana è il loro bersaglio preferito e, oltre ai morti, si contano migliaia di profughi. Quando poi l’esercito è intervenuto, lo ha fatto indiscriminatamente (secondo alcuni operatori umanitari avrebbe ucciso civili al pari di miliziani), bombardando la casa del capo del movimento ribelle (che ieri sarebbe riuscito a fuggire con trecento seguaci), uccidendo il vice, e scatenando l’assalto finale alla moschea di Maiduguri – paese controllato dai talebani – dove si conterebbero duecento morti.
S
ché la situazione precipita. Per capire quello che sta succedendo, occorre ricordare alcuni elementi. Protagonisti di queste violenze sono i membri di una setta chiamata Boko Haram che ha già nel nome il suo programma: significa infatti “l’educazione è peccato”. Costoro non sono poveri emarginati e sfruttati, ma sono giovani spesso laureati, provenienti da famiglie influenti, guidati da un leader carismatico, Mohammed Yousuf, molto ricco e altamente istruito. Ma se loro sono fanatici studiosi e benestanti, il loro messaggio fa breccia soprattutto nelle masse di diseredati ignoranti.
Questi talebani nigeriani non hanno mezzi termini: vogliono rovesciare le autorità perché corrotte dall’Occidente e cancellare tutto ciò che esiste di occidentale: ogni minima influenza anche culturale, dal vestiario alla religione. Vogliono una rigida applicazione della legge islamica. Bisogna però chiarire che queste richieste fondamentaliste non vengono fatte in situazioni disagiate per l’oppressione di modelli stranieri e magari colonialistici: nei dodici Stati del nord della Nigeria, infatti, dal 2000 è in vigore la sharia, la maggioranza è saldamente islamica, i governi locali godono di grande autonomia e per di più l’attuale presidente, Umaru Yar’Adua, è un islamico (moderato, certo) proveniente dal Nord. Un estremismo pericoloso, quindi, con cui è difficile venire a patti e che, forse, trova anche appoggi in reti internazionali collegate ad al-Qaeda. Sembra quindi aver ragione il presidenteYar’Adua quando dice che, conoscendo lui bene quella gente e quelle regioni, occorre intervenire rapidamente e severamente, perché realtà come i talebani rappresentano una minaccia seria e che può destabilizzare l’intero Paese e anche l’intera regiome. Ma il governo centrale - insieme alla comunità internazionale - deve anche favorire lo sviluppo della popolazione e non limitarsi ad accontentare qualche leader locale con concessioni di autonomia e di legge islamica, anche a discapito delle minoranze.
La minoranza cristiana è stata il bersaglio delle violenze scatenate dai guerriglieri. L’esercito reagisce con i bombardamenti
L’ennesima tragica esplosione di violenza si ripete ciclicamente in Nigeria: negli ultimi anni sono state numerose le stragi. Se ne ricorderà una anche in occasione del concorso di Miss Universo e in quello, come in altri casi, si scatenò una caccia ai cristiani. Perché queste ribellioni violente hanno una indiscussa matrice di fondamentalismo islamico. In Nigria si mischiano odi tribali, rivalità sociali, scontri di potere e squilibri economici, ma nella crisi di questa settimana il furore ideologico è dominante. A scatenare le violenze sono quelli che si fanno chiamare i talebani di Nigeria. Il parallelo non è strano né azzardato: esistono parti del mondo, e il nord-est della Nigeria è una di queste, dove realtà come i talebani e al-Qaeda sono visti come modelli da imitare e alla luce del sole nascono associazioni, spesso dotate di milizie armate, che riprendono con orgoglio quei nomi che in Occidente sembrano impronunciabili. Sono tollerate, fin-
vi. L’isola di Maiorca è stata isolata per evitare “fughe di terroristi”. Lo hanno detto fonti ufficiali. La decisione è stata presa dalla Prefettura di Maiorca che ha annunciato il blocco degli accessi marittimi e aeroportuali nell’isola. Chiuso per motivi di sicurezza l’aeroporto e il porto di Palma di Maiorca, assieme ai porti sportivi dell’isola delle Baleari, per impedire la possibile fuga dei terroristi, autori dell’attentato in cui sono rimaste uccide due guardie civili, informano fonti del governo in un comunicato. La misura, chiamata “operazione gabbia’’, prevede la chiusura di ogni via d’accesso per mare e per aria dall’isola e mira ad impedire la fuga dei terroristi. Fino alle 15.00, un’ora dopo l’attentato avvenuto intorno alle 13.50, l’aeroporto di Palma ha continuato a funzionare regolarmente, nonostante le forti misure di sicurezza. A compiere l’attentato costato la vita a due agenti della guardia civil a Maiorca è stato probabilmente una «cellula itinerante dell’Eta». Lo ha detto il Prefetto dell’isola Ramos Socias, spiegando che non risultano esserci nell’isola «gruppi fissi» dell’organizzazione separatista basca. Cordoglio espresso dalla comunità internazionale e da tutta la scena politica.
cultura
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Festival. I film nelle 4 sezioni ufficiali sono 75, di cui 71 in prima mondiale e 4 in prima internazionale. Quelli in concorso sono 24, tutti in prima assoluta
Nuovo Cinema Italia Tornatore, Placido, Capotondi e Comencini: la Mostra di Venezia quest’anno parla italiano di Alessandro Boschi
ROMA. Inutile come la maggior parte delle conferenze stampa («troverete tutto nella cartella stampa», appunto, si affannava a precisare il direttore Marco Muller), si è svolta ieri mattina la… sì, conferenza stampa, della 66esima edizione della Mostra internazionale d’Arte cinematografica. Introdotta dalle parole dell’ottimo presidente della Biennale Paolo Baratta, la cui prolusione nonostante la brevità è sembrata un prolasso, la mattinata di lavoro dei numerosissimi giornalisti accorsi ha avuto un interessante prologo con l’ennesima encomiabile manifestazione contro i tagli al Fus apportati dall’esecutivo. Ma, essendo questa la parte più divertente ne riferiremo a parte.
Per quello che riguarda la Mostra il direttore Muller ha come sempre saputo cogliere il vento degli eventi e ha sottolineato come le «sfaccettature del nostro presente» siano presenti in maniera robusta nei film selezionati. «Nonostante tutto il cinema continua ad essere vivo e vitale», ha affermato. In verità Muller ha affermato anche che a volte è necessario saper sfruttare al massimo quel poco che passa il convento, studiando modi di produzione in grado di sopperire la mancanza di un sostegno statale. Il realtà Muller la parola “statale” non l’ha pronunciata, ma ci è sembrato evidente che il senso fosse esattamente quello. Poi, da bravo direttore, ha anche mostrato il petto con le numerose medaglie. I lungometraggi nelle quattro sezioni ufficiali saranno 75, di cui 71 in
prima mondiale e 4 in prima internazionale. Quelli in concorso saranno 24, tutti in prima mondiale. I Fuori concorso 20 di cui 18 in prima mondiale. La sezione di Orizzonti, che a nostro avviso da anni si segnala come una delle più interessanti della Mostra, prevedrà 245 lungometraggi di cui 22 in prima mondiale. Poi c’è la sezione Controcampo italiano con 7 produzioni tutte in anteprima assoluta. I bravi selezionatori hanno visionato 3859 titoli provenienti da 74 paesi, di questi 3859 ben 2519 sono lungometraggi. Ora, questi sono dati ufficiali. Volete davvero divertirvi? Ebbene, provate a calcolare quanto viene, in termini di ore giorni e anni tutto questa po’ po’ di roba. È una cosa spaventosa, che ci fa domandare: ma per selezionarli li avete davvero visti tutti a velocità normale? Uuuummh… lasciateci qualche dubbio. Ma questo è un semplice anche se inquietante dato statistico. Quello che conta è il programma che sembra davvero interessante. Per la prima volta, questa è una delle medaglie di cui Muller va più orgoglioso, due autori come Michael Moore e Fatih Akin, il primo con il documentario Capitalism: A love story e il secondo (che poi è quello del bellissimo La sposa turca) con Soul Kitchen, approdano per la prima volta al Lido, in concorso. Il fatto che due registi di questo calibro decidano di presentare le loro opere alla Mostra di Venezia bensì, che so al festival di Cannes, non può che essere un
motivo di vanto, davvero per tutti. Spiccano tra le pellicole in concorso le tre italiane: La doppia ora di Giuseppe Capotondi, con Ksenia Rappoport e Filippo Timi, Lo spazio bianco di Francesca Comencini, interpretato da Margherita Buy e Guido Caprino e Il grande sogno di Michele Placido, con un cast davvero formidabile: Laura Morante e Silvio Orlando, e poi, Riccardo Scamarcio, Luca Argentero e Jasmine Trinca. Oltre, naturalmente, al film di apertu-
A fianco, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia Marco Muller insieme con il presidente della Biennale Paolo Baratta. Sotto, Carlo Verdone e Sergio Castellitto. In basso, Luciano Ligabue e, nell’altra pagina, Liliana Cavani, entrambi giurati di questa nuova edizione
ra, l’attesissimo Baaria di Giuseppe Tornatore, interpretato da… beh, praticamente da tutti. Il film del regista premio Oscar siciliano ha davvero un elenco di attori lunghissimi, sembra quasi la riedizione, ma solo per quello che riguarda il cast, de Il giorno più lungo, o magari, visto che è italiano, Il giorno più corto. Sempre in concorso Patrice Chéreau presenterà il suo Persecution, con l’affascinante Charlotte Gainsburg. Da segnalare l’esordio di Tom Ford, i cui film sono probabilmente finanziati con i proventi della sua costosissima linea di occhiali da sole, con un film che però a detta di certi rumors è destinato a stupire.
tere la parola “dead”nel titolo di ogni suo film). Poi, sempre in concorso, Todd Solondz, il nerd del cinema alternativo, che presenterà Life during wartime. Dal titolo sembrerebbe interessante, certo, non pretenderemo che si avvicini agli splendori di Happiness, ma nemmeno a certe sue masturbazioni cinematografiche troppo autoreferenziali. Voi capite che “masturbazione autoreferenziale” è davvero troppo. Segnaliamo ancora, sempre in concorso, oltre a 36 vues du Pic Saint Loup del maestro Jacques Rivette, Tetsuo The Bullet Man, un nuovo capitolo, supponiamo, della saga del giapponese, anch’egli ovviamente “maestro”, Shinya Tsukamoto. Speriamo che il maestro e capofila del cinema cyberpunk nipponico ci proponga qualcosa di meglio del non riuscito Nightmare detective visto nel 2006. Tra i fuori concorso Jaune Balaguerò con Paco Plaza ci terrorizzeranno
Venendo a titoli più vicino alle nostre corde salutiamo con piacere il grande George Romero, con Survival of the dead (crediamo che il buon vecchio George abbia una clausola contrattuale che gli impone di met-
con il seguito di Rec, titolo tutt’altro che imprevedibile del nuovo prodotto: Rec2. Un maestro assoluto come Joe Dante ci darà modo di rivedere il volto scarno ed intenso di Bruce Dern protagonista del suo The Hole. Dobbiamo confessare che Joe Dante, essendo non solo un ammiratore ma anche un conoscitore e uno studioso del grandissimo Mario Bava ha tutta la nostra stima e ammirazione. Ciò detto non possiamo non segnalare The informant! di Steven Soderbergh, sempre fuori concorso. Molta India nella sezione Mezzanotte, scelta questa da far tremare i polsi e, temiamo, anche i timpani di chi dovrà subire prevedibili russate del vicino di poltrona. Gli “esordienti” Giuliano Montaldo (L’oro di Cuba) e Francesco Maselli (Anni Luce) sono invece stati inseriti nel Cinema del presente e, credeci, non è davvero un paradosso. Non a caso nella stessa sezione troviamo
cultura
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Precisazioni alle polemiche sui tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo
È vero, mancano i soldi Però anche i talenti... D
unque, come forse, bontà vostra, avrete modo di leggere altrove, la conferenza stampa della 66esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica ha avuto un prologo anti-Fus, organizzato dal gotha del nostro cinema rappresentato, come portavoce, da Sergio Castellitto, che non ha letto una cosa della moglie, Carlo Verdone, che ha denunciato un problema, questo sì, davvero impellente, e cioè la chiusura dl altre 300 sale cinematografiche. E infine da Andrea Purgatori, scrittore e sceneggiatore tra i più apprezzati. Il quale ha letto una missiva “inviata testé” dal ministro della Cultura, Sandro Bondi.
Oliver Stone con South of Border, Abel Ferrara con Napoli Napoli Napoli e John Turturro, affiancato da Roman Paska, che presenterà Prove per una tragedia siciliana.
Probabilmente, in media, questa è la sezione con il migliore rapporto qualità prezzo. Orizzonti, che come dicevamo è una delle sezioni che più ha avuto (e meritato) successo nelle ultime edizioni, si segnala per lo sguardo davvero a 360 gradi sulla produzione mondiale. Tra gli italiani vi segnaliamo Luca Guadagnino con Io sono l’amore, interpretato dall’amica (sua di lui) Tilda Swinton, Vincenzo Terracciano con Tris di donne & abiti nuziali, Marco Simon Puccioni con Il colore delle parole (titolo che, lo confessiamo, un po’ ci agghiaccia). Ma la nostra preferenza, sulla fiducia, va ad Alex Cox, con il suo Repo Chick, uno dei pochi film che davvero non… vediamo l’ora di vedere. Poi non dimentichiamoci del Leone alla carriera a John Lasseter della Disney Pixar (gran mossa, direttore!). E lo spazio retrospettiva, con la bellissima seconda edizione di Questi fantasmi. A proposito, ci rendiamo conto di avere dimenticato qualcuno, speriamo che non se la prenda se lo abbiamo messo da parte. D’altronde che cosa dovrebbe dire Tatti Sanguineti?
Ovviamente la lettera era opera, presumiamo, di Purgatori stesso. Ma la maggior parte della platea se ne è accorta solo verso la fine, quando era inimmaginabile, anche per i meno elastici, che quelle parole fossero potute uscire dal calamaio di un esponente governativo. Noi, che siamo molto più intelligenti, ce ne siamo accorti alla metà, forse oltre… Di fatto questa lettura, concepita con intenzioni di ironica denuncia, ha dato fiato vieppiù a quella parte di platea che a ogni pie’ sospinto inveisce contro il governo, qualunque esso sia. Oddio, meglio se di destra. Questo la dice lunga sullo stato delle cose. Innanzitutto ci dice che non sempre l’ironia “passa”. Spesso si impiglia nel rancore e nella rabbia, magari giustificati, di inveire e gridare. E spesso ci fa perdere di vista il vero bersaglio di una stralegittima protesta. Quando si dice che il governo taglia il Fus, vale a dire il Fondo Unico per lo Spettacolo perché l’arte è uno dei pochi strumenti di libertà che ci vengono lasciati, si dice, lasciatemelo dire, una castroneria enorme. Ma davvero voi pensate che quelle belle teste dei nostri governanti facciano un ragionamento del genere? E cioè che dietro al taglio delle gambe al «cinema, al teatro, alla musica, alle arti figurative e alla danza che sono i luoghi dell’espressione più difficilmente controllabili e condizionabili» ci sia una strategia censoria? Anzi, per usare le parole usate e «per questo li vuole morti»? «Il governo italiano - è stato ancora aggiunto - ha deciso che l’industria culturale del nostro Paese non ha diritto né a una politica economica e di sviluppo né ad alcun sostegno pubblico». Francamente queste ci sembrano parole, appartenenti allo stesso volantino firmato MovEm 09 – Movimento Emergenza Cultura Spettacolo Lavoro, molto meglio calibrate. Al di là delle lettura, necessariamente di parte (e vorrei vedere), emerge che queste, ripeto, belle teste dei nostri governanti, non hanno capito l’importanza di questo settore legato alla democrazia e alla identità culturale. Questi, semplicemente, si sono accorti che non hanno più soldi e, come avrebbe fatto il più sempliciotto degli amministratori, hanno tagliato dove secondo loro era possibile tagliare scontentando meno gente possibile. Le cose sono sempre più semplici di
Occorre ripensare il nostro cinema e studiare un nuovo percorso produttivo che riesca a sfruttare le risorse disponibili
quello che sembrano, non investite certi crani di ragionamenti troppo sottili. È pur vero che il capoccia ha le televisioni che fanno di tutto perché la cultura si uniformi al più becero dei paradigmi. Ma non sbagliamo bersaglio. E magari facciamo un passo indietro. Il cosiddetto “potenziale dei propri talenti creativi” va protetto, ma va anche trovato, e francamente tutto questo talento, almeno nel cinema, non si vede. La soluzione? Davvero difficile, criticare come stiamo facendo è molto più semplice e non ve lo nascondiamo. Forse occorre una strategia diversa. Forse, come ha suggerito in maniera paludata ma non troppo il direttore della Mostra Marco Muller, occorre studiare un nuovo percorso produttivo che permetta di sfruttare quel (poco) che c’é. E anche il presidente della Biennale Paolo Baratta, dopo avere illustrato i lavori incorso al Lido (lavori veri, di ristrutturazione), ha risposto a tutti coloro che nei giorni scorsi proponevano di boicottare la Mostra.
La Mostra, ha detto Baratta, è una occasione per tanti autori, e semmai va protetta, perché permette a un gran numero di opere di avere una risonanza a livello planetario. L’Italia è davvero la nazione dalla infinite risorse, dove, come diceva Montanelli, se un treno continua ad arrivare in ritardo, si cambia l’orario perché arrivi puntuale. L’ingegno, non solo quello artistico, non ci manca davvero. Detto questo, è però anche necessario che il problema venga affrontato in maniera seria, e se la protesta diventerà l’unico modo ben venga la protesta. Ma occorre entrare dentro al problema, studiarne le sfaccettature, ripensare senza spocchia lo stato del nostro cinema e dello spettacolo in generale. Perché è vero che non si può sempre dire che “il bisogno aguzza l’ingegno”, ci vuole altro, ci vogliono le risorse, è indubbio. Ma non possiamo nemmeno porci di fronte ad un simile problema con l’atteggiamento di supponenza che anima troppo spesso i depositari della nostra cultura, sempre gli stessi, sempre uguali, sempre supponenti. (a.b.)
In libreria
Noi europei pagine 100 • euro 12
LE
OPERE DI
L’Europa riletta lungo un secolo di grandi trasformazioni. La società e la politica italiana osservate attraverso la lente di una transizione incompiuta. La lezione dei “ribelli al conformismo” che hanno saputo, nel Novecento, indicare un’alternativa ai percorsi della libertà. Questi i temi dei tre libri di Renzo Foa “Noi europei”, “Il decennio sprecato” e “In cattiva compagnia”. Il primo, firmato insieme al padre Vittorio, è un confronto tra due testimoni del “secolo breve” che con occhi ed
EDIZIONI
RENZO FOA esperienze diverse osservano le mutazioni del Vecchio Continente e soprattutto degli uomini che lo hanno abitato. Nel secondo, l’autore riflette sulle speranze e le delusioni messe in campo da quel cambiamento iniziato nel 1994 e mai davvero concluso. Il terzo raccoglie gli esiti di un meraviglioso viaggio personale nella vita e nelle opere di quei “grandi irregolari” (da Koestler alla Buber-Neumann, dalla Berberova a Joseph Roth, ma anche De Gaulle Il decennio sprecato e Wojtyla) che per Renzo Foa pagine 204 • euro 14
In cattiva compagnia pagine 177 • euro 12
spettacoli
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Musica. Lo stakanovista dello spettacolo si esibisce in tre band contemporaneamente e incide il nuovo album “Horehound”
Jack White e le sue «sorelle» di Alfredo Marziano on ci sono più dubbi: James scomparso Brown oggi è John Anthony Gillis, in arte Jack White, the hardest working man in show business, lo stakanovista numero uno del mondo dello spettacolo. Con i debuttanti Dead Weather diventano tre le band tra cui divide il tempo, neppure un’ernia del disco e una bronchite sono riusciti a tenerlo fermo.
N
A destra, Jack White e la copertina del nuovo album “Horehound”. Sopra, i White Stripes; i Raconteurs; Alison Mosshart dei Kills e Dean Fertita dei Queens of the Stone Age. In basso, la nuova band Dead Weather al completo
Era in tour con i Raconteurs, in vacanza dai White Stripes che lo hanno reso ricco e famoso, e piuttosto che annullare gli ultimi concerti in programma ha chiesto ad Alison Mosshart dei Kills di sostituirlo come cantante. Abituati entrambi a confrontarsi con un alter ego dell’altro sesso, si sono subito trovati a meraviglia: tanto che poco dopo, insieme al bassista Jack Lawrence (un altro “Raconteur”) e al chitarrista/tastierista dei Queens of the Stone Age Dean Fertita, si sono dati appuntamento nello studio di registrazione che Jack ha aperto a Nashville.Volevano incidere un singolo 7 pollici, si sono ritrovati con materiale sufficiente per un album, Horehound, registrato a tempo di record su un otto piste vintage. Il signor Strisce Bianche, stavolta, ha preferito ritagliarsi un ruolo da regista, lasciando (parzialmente) microfono e proscenio ad Alison per tornare al suo primo amore, la batteria. Dietro l’immagine Southern Gothic della copertina e la voce sensuale della Mosshart, però, la sua impronta è facilmente riconoscibile: quaranta minuti di immersione profonda in quel punk blues che caratterizza tutta la sua produzione, punteggiato da qualche inatteso ritmo funk o reggae/dub, ispessito da chitarre hendrixiane, zeppeliniane e sabbathiane, arricchito da una quasi iconoclasta rilettura dal quaderno dylaniano (New Pony, dal discusso e semidimenticato Street Legal del 1978). Suoni crudi, primitivi, tribali, rigorosamente analogici (dallo studio di Jack sono banditi i computer). È l’etica professionale di un musicista serio e coerente a dispetto dei comportamenti eccentrici, del caratterino nervoso (qualche anno fa è finito in tribunale per una scazzottata con il leader di una banda rivale, i Von Bondies) e delle frequentazioni hollywoodiane (prima di sposare in seconde nozze la
È un personaggio sempre iper trendy nel suo essere fuori moda, ma anche cool nella ricerca accurata di un’immagine che sia fuori dagli schemi modella inglese Karen Elson aveva avuto un chiacchierato flirt con l’attrice texana Renée Zellweger, incontrata sul set di Ritorno a Cold Mountain: perché, non bastasse, il nostro ama anche esibirsi davanti alla macchina da presa). Mr. White incarna un ossimoro del mondo rock contemporaneo: iper trendy nel suo essere ostentatamente fuori moda, cool nella ricerca accuratissima di un’immagine fuori dagli schemi.
Un Johnny Depp meno sexy ma altrettanto magnetico e cosciente del suo ruolo. Mentre i suoi colleghi fanno dischi con i ProTools chiamando intorno a sé produttori di grido, lui predica il fai da te e la “bassa fedeltà”, all’inseguimento ostinato di quell’antico suono da “garage” anni 50 e 60, del blues e del rock’n’roll più selvaggio e urticante come il nome di pianta selvatica che si è scelto per il nuovo gruppo. A Nashville, dove si è trasferito dalla natia Detroit («Ho sempre sentito il richiamo del Sud: qualunque posto, il Mississippi, la Georgia o il Tennessee. Altrove mi sono sempre sentito fuori posto»),
ha aperto un’etichetta discografica che pubblica soltanto dischi in vinile. E ci tiene a far sapere di non amare gli iPod e gli mp3, che «impediscono di vivere la musica come un’esperienza romantica». Tutta una posa, lo accusano i detrattori. Lussi e stravaganze di uno snob che si tiene alla larga dalle majors discografiche ma non disdegna di collaborare con Alicia Keys per la colonna sonora del nuovo James Bond, di un indie rocker abilissimo nel giocare con i media: per anni non si è saputo se Meg White, la sua compagna nei White Stripes, fosse sua sorella o la sua ex moglie (come poi è risultato essere). È un mago illusionista, Jack, ma il suo non è un bluff. Guardatelo risplendere al fianco dei Rolling Stones in Shine A Light, il docufilm di Martin Scorsese in cui non sfigura neanche a confronto del grande Buddy Guy. E ascoltate la sua musica da incantatore di serpenti, tre accordi e un ritmo tribale che ti imbambolano come in un rito voodoo: Seven Nations Army, il famigerato po-popopo-popopo dei Mondiali di calcio di tre anni fa, è solo il più emblematico e paradosale degli esempi.
Lo snob l’ha presa bene, divertito: «Sono onorato che gli italiani abbiano fatto loro questa canzone», dichiarò allora. «Nella musica niente è più bello di quando la gente si prende una melodia e la lascia entrare nel pantheon della musica popolare… la cosa che mi piace di più è che chi canta questa canzone non ha idea da dove provenga». Bisogna riconoscergli un merito non da poco: ha riportato a galla e riacceso l’attenzione sull’elemento primordiale, istintuale e misterioso del primo rock’n’roll. Chi non lo ama non speri di liberarsene facilmente. Dead Weather e Raconteurs, ormai è chiaro, non saranno parentesi effimere, Alison Mosshart e Brendan Benson non sono i partner da una botta e via. E i White Stripes, la formazione guida in cui Jack canta e strapazza le sue meravigliose chitarre d’altri tempi, non sono ancora pronti per la pensione. Meg ha superato il panico da palcoscenico e dopo essere convolata a nozze con il figlio di Patti Smith, Jackson, è pronta a pestare ancora i tamburi col suo stile approssimativo ma efficace. «Le collaborazioni alimentano la creatività», spiega Jack. «Non ho un capo a cui rispondere, sapete. E mi piace spingermi a fare di più, essere costretto a lavorare».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal “South China Morning Post” del 30/07/2009
Il mondo aiuti la Malaysia di Philip Bowring a luna di miele fra il nuovo primo ministro della Malaysia, Najib Razak, e il suo Paese si sta dimostrando di vita breve. Così come la vita vera di un esponente dell’opposizione morto in circostanze misteriose e il veloce, nuovo processo per sodomia contro il leader anti-governativo Anwar Ibrahim. Sono un importante memoriale per tutti noi: ci ricordano in che stato versi una nazione dove il dibattito politico è sostanzialmente aperto, ma governa da 52 anni lo stesso partito, l’Umno. Le speranze riposte nell’enorme numero di voti ottenuti lo scorso anno dall’opposizione si sono scontrate con il moloch di corruzione e potere comunale che rimane nelle mani del governo. Dopo i primi cento giorni di governo, Razak può ben dirsi soddisfatto.
L
Il suo tasso percentuale di gradimento è salito dal 42 al 65 per cento. Una lunga scia di misure populistiche e popolari hanno dimostrato la sua incisività, a differenza di un predecessore che pensava bene ma non faceva nulla. Dimostrano anche che il primo ministro sa come parlare, e come appellarsi, a gruppi diversi fra loro. I cinesi sono stati contenti di vedere rimossa l’imposizione secondo cui il 30 per cento di ogni industria deve essere di proprietà di un malay; i malay sono contenti che non sia più obbligatorio l’uso dell’inglese per insegnare matematica e scienze; gli indiani per il rilascio degli attivisti indù arrestati ai sensi dell’Atto di sicurezza interna; gli stranieri per l’ammorbidimento delle restrizioni sugli investimenti nel settore finanziario. Allo stesso tempo, lo scenario economico ha iniziato a brillare grazie al rifiorire dei prezzi delle commodity relative alle esportazioni e al mercato azionario. Najib è sta-
to aiutato anche dalle evidenti divisioni pubbliche avvenute all’interno della coalizione d’opposizione, l’Alleanza del popolo. Queste divisioni non sorprendono, dato che l’Alleanza raggruppa formazioni come il partito islamico della Malaysia - conservatore, rurale e musulmano - insieme al partito d’Azione democratica cinese e al Keadilan, la formazione centrista, multi-etnica ma fondamentalmente urbana di Anwar. A peggiorare le cose per la coalizione d’opposizione, alcuni tradizionalisti che ne fanno parte hanno ventilato l’ipotesi di unirsi al governo: la loro premessa è che l’unità dei malay è più importante rispetto alla creazione di una nuova realtà politica credibile che costringa l’Umno a ripulirsi per mantenere il potere. La corruzione su larga scala è spesso considerata normale, e le istituzioni giudiziarie e la polizia sono spesso poco inclini all’indipendenza. La difficoltà che si formi un processo di pulizia interno all’Umno si sono dimostrate evidenti lo scorso anno quando un distinto giurista, Zaid Ibrahim, venne nominato dall’allota primo ministro Badawi a capo di un’operazione tesa a ripulire il sistema giudiziario. Fu costretto alle dimissioni dopo poche settimane.
Eppure, una riforma del genere è fondamentale. La scorsa settimana, l’aiutante di un politico dell’opposizione è morto dopo essere “caduto”in circostanze misteriose da una finestra della Commissione anti-corruzione. Era sotto interrogatorio come testimone. La morte del ragazzo ha aiutato una riu-
nificazione dell’opposizione in nome della giustizia. Allo stesso tempo, però, Anwar è impantanato nel processo sulla sodomia.
Il caso è ovviamente di tipo politico, teso a screditare il leader, già arrestato nel 1998 dopo la caduta del primo ministro Mohamad. All’epoca, dopo il ritiro del suo padrino politico dalla scena del Paese, l’infamante accusa di sodomia venne ritirata dai magistrati della maggioranza. Le nuove accuse hanno consentito un ulteriore blocco al processo di formazione dell’alternativa politica nel Paese. Oggi ci si concentra anche sul passato di Najib, dopo la morte misteriosa di una modella presente nel suo staff. Ma questo è ovviamente meno rilevante. Questa crescita di violenza e morti deve essere fermata: gli amici della Malaysia non possono più dare carta bianca al suo governo, dato che «è quasi democratica e collabora contro il terrorismo». Devono intervenire per aiutarla.
L’IMMAGINE
Il Paese reale è vessato dal perdonismo e dall’esterofilia, come nel Paese legale L’onesto “uomo della strada” soffre per l’insicurezza, la delinquenza impunita, la vessazione dello Stato padrone, l’ebbrezza esterofila e la modesta efficienza dei pubblici servizi. È sconosciuto, non ha voce, né visibilità, perché spesso impegnato e stremato dal lavoro faticoso e produttivo. Il quarto potere massmediatico privilegia le persone note: politici, alte cariche pubbliche, ecclesiastici, baroni. I magistrati non sono eletti dal popolo. L’elettore è privato del voto di preferenza. Gli eletti non hanno vincolo di mandato e si discostano spesso dalle esigenze popolane e dalle promesse elettorali. Imperversano trasformisti e voltagabbana. Molti eletti curano i propri interessi particolari e soddisfano il loro appetito insaziabile, prima d’ogni altra cosa. Numerosi potenti appaiono fideisti: possono adorare la Costituzione, il Vangelo, il Corano e il giuramento d’Ippocrate come fossero documenti perfetti, assoluti, perenni e inemendabili. Il che non è, anche per la mutazione incessante dello scenario ambientale.
Andrea Cucchi
DISCRIMINAZIONI GONFIATE E DISCRIMINAZIONI TACIUTE Afferma una docente: «Posso criticare un allievo italiano, ma se lo faccio con uno straniero, rischio di finire sui media, come esterofoba e razzista». Queste storie d’esterofobia e razzismo, vere o presunte – riportate, gonfiate e ingigantite dalla prevalenza dei media – puzzano e insospettiscono. Anzi possono palesare interessi di bottega (partitici, sindacali, corporativi, confessionali) e affare (business) dell’assistenza, mascherati da buonismo, uguaglianza, equanimità e fraternità. L’esagerazione può risultare strumentale, dietro la patina morale e altruistica. Per dirla papale papale, può essere la soggezione al nuovo e futuro padronato, co-
stituito dalla crescente numerosità massificata, frutto dell’iperprocreazione e della bomba demografica mondiale. L’eventuale xenofobia è concausata pure da sovrappopolazione, massicce migrazioni clandestine ed elevata frequenza del crimine e dell’illegalità. «Alcuni lavoratori in nero per 1.100 euro mensili – prevalentemente immigrati – truffano: ottengono esenzioni e sussidi da Comune e Stato, dichiarandosi poveri», ho letto su un quotidiano locale. Discriminazioni vere o presunte vi sono sempre state e permangono in altri settori, senza alcuna protesta e nell’assoluto silenzio dei media prevalenti, che rischiano così il doppiopesismo. Ad esempio, si manifestano supponenza, alterigia e complesso di
Questa faccia non mi è nuova Lo riconoscete? Il mezzo busto della foto raffigura l’attore Klaus Kinski. L’opera d’arte di Paule Hammer è esposta alla Fiera dell’Arte di Colonia, in Germania. Come ve la cavate invece, con i volti meno famosi? Se avete buona memoria anche per quelli, avete qualche speranza di appartenere al gruppo di ”super-fisionomisti” recentemente individuato dagli psicologi dell’Università di Harvard
superiorità d’alcuni abitanti di centri cittadini, nei confronti di periferici e campagnoli. L’agricoltore è frequentemente definito “contadino”, che designa – in un’accezione – la “persona di modi rozzi e goffi o villani”. L’uomo ignorante e screanzato viene spesso chiamato “bifolco” (propriamente “guardiano di buoi”).
Molti altri sono i sinonimi e varianti spregiative di contadino: buzzurro, burino, tanghero, zappaterra, cafone, incivile, maleducato, grossolano, incolto e inurbano. Alcuni trattati di cattedratici spocchiosi definiscono i profani “volgo”. Tali discriminazioni possono allignare anche e soprattutto in altolocati,“progressi-
sti”, “solidaristi”, “egualitaristi” e fautori dell’“integrazione”. Detti insulti e svalutazioni sono inopportunamente riferiti a faticoni, persone che sgobbano in silenzio, vivono modestamente e sfamano l’umanità superfertile, generatrice della cronica esplosione demografica mondiale.
Giuseppe Argiuolo
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Com’è stato nutriente l’incontro con la sua fantasia Caro Simenon, voglio raccontarle una cosa per dirle quanto nutriente sia stato l’incontro con la sua fantasia, la sua creatività. Un piccolo sogno che ho fatto due anni fa prima di cominciare Il Casanova. Ero in un periodo nero. Inerzia, sfiducia, ristagno, odio verso il film. Che c’entro io con Casanova? mi dicevo. Che ne so del Settecento? Mi sentivo imprigionato, incatenato, condannato a fare un film estraneo al mio temperamento, un personaggio che non mi appartiene, che non mi è simpatico... Bene, una notte sogno di svegliarmi per il ticchettio di una macchina da scrivere. Mi accorgo che mi ero addormentato in un grande giardino con molte piante. Al centro di una radura erbosa, c’è una costruzione a forma di torre. Mi avvicino e sbircio attraverso una finestra e vedo un uomo, un monaco, che sta facendo qualcosa. È seduto e attorno ai suoi piedi in terra ci sono dei bambini che ridono, gli toccano i sandali, il cordone del saio. È Simenon con attaccata al mento una barba finta. Sono stupito, finché sento una voce che mi dice: «È finta. Non è vecchio. Anzi è giovanissimo». E cosa sta facendo?, domando. «Dipinge il suo nuovo romanzo su Nettuno». La voce svaniva e io mi svegliavo veramente questa volta. Federico Fellini a Georges Simenon
ACCADDE OGGI
MANCANZE E SPERPERI DI PUBBLICI POTERI LOCALI ll Belpaese conta una sovrappopolazione di 60 milioni. La densità demografica appare satura: non sopporta ulteriori incrementi, pena un grave deterioramento della qualità della vita. Il degrado aumenta, non solo nelle periferie. Zone verdi vengono trasformate in edificabili, con successiva cementificazione. Si scatena la speculazione edilizia di potenti e ammanicati (spesso parolai della solidarietà). Sorgono nuovi casermoni, torri e alveari umani. Il traffico evidenzia un aumento vertiginoso – e, talvolta, code – su autostrade, tangenziali e altre vie, ormai insufficienti. Vengono costruiti nuovi distributori di carburanti. Lo Stato sembra più confessionale che laico. Nuove moschee si aggiungono all’esistente moltitudine di chiese e d’edifici religiosi cristiani. L’inquinamento deborda. Sono estremamente carenti – specie nelle periferie e frazioni cittadine – i percorsi ciclabili, i marciapiedi, nonché la segnaletica, la manutenzione, l’adeguamento, il rinnovo dell’asfaltatura e la messa in sicurezza delle strade. Pedoni, ciclisti e automobilisti si muovono insicuri e tesi, fra rischi e pericoli incombenti. Troppi e gravi sinistri sono dovuti anche alla rilevante obsolescenza, carenza e inadeguatezza della rete viaria. Diversi poteri locali – che non trovano i soldi per ovviare alle suddette carenze – sperperano, soprattutto nel-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
31 luglio 1928 Amsterdam: Elizabeth Robinson vince i 100 metri piani alle Olimpiadi. È la prima gara femminile di atletica leggera nella storia delle Olimpiadi 1941 Olocausto: Hermann Göring inizia a pianificare la soluzione finale della questione ebraica 1954 La vetta del K2, nel Karakorum, viene conquistata dalla spedizione italiana guidata da Ardito Desio, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli 1964 Il Ranger 7 invia sulla terra le prime foto ravvicinate della Luna 1969 La sonda della missione americana Mariner 6 raggiunge Marte: invierà alla Terra un totale di 75 foto 1971 Gli astronauti dell’Apollo 15 sono i primi a viaggiare su un veicolo lunare 1976 La Nasa pubblica la famosa foto della Faccia su Marte, scattata dalla sonda Viking 1 sei giorni prima 1980 Dopo 66 giorni nello spazio rientra la navetta russa Soyuz 36 con due uomini di equipaggio
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
le voci “sport” e “cultura”. Per l’educazione fisica e lo sport, già esistono palestre non solo scolastiche, molte piscine, stadi, piste d’atletica, più campi sportivi comunali e parrocchiali, palazzi e cittadelle dello sport. Ulteriori spese pubbliche per nuovi impianti possono costituire sprechi elettorali: anche perché molte strutture esistenti sono sottoutilizzate; inoltre il moto fisico più semplice e sano è costituito da passeggiate, biciclettate, escursionismo, ecc. Altri sciali riguardano la voce “cultura”. Per l’educazione, ci sono già scuole pubbliche e private, biblioteche, patronati parrocchiali, ecc. Inoltre, il normale cittadino si accultura pure a casa propria: legge libri, giornali e riviste, vede film in dvd, ascolta musica da cd, lavora e naviga in internet, utilizzando proficuamente il pc. Enti locali organizzano una miriade di spettacoli, incontri, intrattenimenti, feste, carnevalate, concerti fracassoni, luminarie, fuochi d’artificio, ecc.: appaiono superflui ed elettoralisti. Commemorazioni di tragedie passate avvengono spesso come strumento di propaganda di parte, perché propongono tendenziosamente una mezza verità, non la verità integrale. Centri sociali, disubbidienti e gruppi analoghi disturbano o impediscono impunemente manifestazioni legali e autorizzate di leghisti (tacciati di razzisti) e d’altri movimenti.
GIOVANNI SPADOLINI Il 4 agosto saranno passati 15 anni dalla morte di Giovanni Spadolini. Se c’è una cosa che mi fa male è vedere come chi conta nel far opinione oggi, dedica più spazio ad un gossip, piuttosto che ricordare le persone e i caratteri di cui l’Italia ha tanto bisogno. Spadolini nel 1981 fu nominato da Pertini presidente del Consiglio dei ministri, il primo non Dc della storia dell’Italia repubblicana. La sua presidenza finì traumaticamente nell’estate del 1982, a causa di quella che lui stesso ribattezzò la lite delle comari tra i ministri del suo governo, il democristiano Nino Andreatta (Tesoro) e il socialista Rino Formica (Finanze). Questo, e cioè la prima presidenza non Dc, già dovrebbe bastare come motivo di approfondimento. Era un uomo di statura morale e intellettuale eccezionale, oltre che instancabile nel lavoro. Ricordo durante un convegno a Roma da lui presieduto sul tema della “Terza Via”, (erano gli anni in cui ci si chiedeva se poteva esserci un’alternativa tra i due schieramento monolitici Pci e Dc), mentre i relatori leggevano i loro lavori neppure per un secondo alzò la testa dallo scrivere appunti e leggere altro con una rapidità sconcertante. Lo osservavo e mi chiedevo come sarebbe andato a finire il suo intervento finale. Parlò come se non avesse fatto altro che ascoltare ed analizzare quanto veniva detto. Anzi, più che parlare, letteralmente strapazzo tutti con una tale forza che sicuramente più d’uno si pentì d’essere tra i relatori. La cosa che tuttavia voglio ricordare, è la vasta collezione di sue opere tra cui: Il papato socialista, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Il mondo di Giolitti, Il Tevere più largo e infine Cattolicesimo e Risorgimento. Come si può notare, ho scelto solo alcuni dei suoi libri, ma è evidente quanto per Spadolini fosse importante il rapporto tra i cattolici, la tradizione laica democratico repubblicana e liberale e la storia del nostro Paese. Vi assicuro, vale la pena leggere qualcuno di questi libri. E magari lavorarci un po’ su. Non si può ignorare colui che del rapporto tra laici e cattolici fece quasi una ragione di esistere sotto il profilo intellettuale. E che su un letto d’ospedale, malato, ebbe il coraggio di dire, con la morte che ormai lo stava abbracciando: «Il male che mi affligge si chiama Italia. Questo paese ha tanti problemi e io sono qui senza poter far nulla». Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Gianfranco Nìbale
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
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