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Non dovete combattere troppo spesso contro un solo nemico, altrimenti imparerà tutte le vostre tattiche

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Napoleone Bonaparte di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 6 AGOSTO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’Unione di Centro lancia la sua nuova campagna d’agosto

Meno tasse per chi ha più figli

GRANE PADANE

Tutte le spiagge d’Italia verranno coinvolte per firmare la petizione che chiede deduzioni fiscali per le famiglie numerose di Franco Insardà

ROMA. «Preferisco la famiglia» non è uno slogan, ma un’iniziativa concreta che l’Udc ha lanciato per supportare la proposta di legge di iniziativa popolare sul quoziente familiare. Il segretario Lorenzo Cesa è chiaro: «Anche questa estate l’Udc non va in vacanza. Raccoglieremo le firme in montagna, al mare e nelle piazze per sostenere la famiglia italiana, abbandonata da questo governo che non ha mantenuto la promessa di istituire il quoziente familiare. Il ministro dell’Economia Tremonti sottolinea spesso come l’Italia sia riuscita a sopportare meglio di altri la crisi. È vero, ma tutto ciò è stato possibile proprio grazie al sistema delle famiglie che ha retto all’urto. Siamo l’ultimo Paese al mondo per natalità, non esiste una politica della famiglia e i dati sulla povertà sono inquietanti». a pagina 6

Il Carroccio attacca di nuovo il tricolore. Dopo le polemiche su gabbie salariali, ronde e clandestini, Bossi alza ancora il tiro della sua aggressività. Ma fino a quando Berlusconi potrà far finta di niente?

L’estate violenta della Lega

alle pagine 2, 3, 4 e 5

Il parallelo del Papa con la Francia post Rivoluzione

Assenti i leader riformisti. Altre 24 impiccagioni nella capitale

Benedetto XVI: «Contro il relativismo, come nel 1789»

Iran, scontri di piazza e governo Ahmadinejad giura mentre la folla contesta di Antonio Picasso

di Guglielmo Malagodi

CASTELGANDOLFO. Nuovo attacco alla modernità di Benedetto XVI: «All’epoca attuale si registra una sorta di“dittatura del relativismo”». Il Pontefice lo ha denunciato ieri nel discorso all’Udienza Generale, che si è tenuta a Castelgandolfo. Per il Papa, «il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo». La catechesi di ieri è stata incentrata sulla figura di san Giovanni Maria Vianney. «Nella Francia postrivoluzionaria che sperimentava una sorta di “dittatura del razionalismo”volta a cancellare la presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella societa», egli «visse prima un’eroica clandestinità percorrendo chilometri nella notte per partecipare alla Santa Messa. E da sacerdote si contraddistinse per una feconda creatività pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli autentici bisogni dell’uomo e quindi, in definitiva, non vivibile». segue a pagina 6 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

ra nuovi arresti e contestazioni popolari, l’atteso giuramento è arrivato. Ieri, Mahmoud Ahmadinejad ha rinnovato la sua fedeltà alla religione islamica e ha quindi iniziato ufficialmente il suo secondo mandato presidenziale. La cerimonia si è svolta in un clima di fredda soddisfazione in seno al Parlamento di Teheran, quando fuori dal palazzo la folla di dimostranti veniva respinta per l’ennesima volta da polizia e basiji.Tensione e pericolo erano percepiti da ambo le parti. Dei 70 parlamentari riformisti, solo 13 hanno assistito all’evento. Assenti d’eccezione: i due ex presidenti Khatami e Rafsanjani e i candida-

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

154 •

L’Inghilterra scopre i limiti dell’inclusione

ti sconfitti da Ahmadinejad che stanno guidando le contestazioni in queste settimane, Mousavi e Karrubi. A differenza di una qualsiasi altra cerimonia di insediamento, il presidente è arrivato di nascosto ai palazzi del governo. Ha evitato di mostrarsi in pubblico e di percorrere le strade di Teheran, dove certo non avrebbe raccolto applausi o consensi. È giunto in elicottero, perché teme il popolo e non vuole affrontarlo. Il regime degli ayatollah, così facendo, allarga ogni giorno di più il solco che lo separa dalla società civile nazionale.

uelli di noi che argomentano contro la sharia talvolta si chiedono per quale motivo la legge islamica rappresenti un problema quando le moderne società occidentali molto tempo fa accolsero l’halachà o legge ebraica.La risposta è semplice: una basilare differenza separa queste due leggi. L’islam è una religione missionaria: i suoi fedeli vogliono applicare la legge coranica a tutti.

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Teniamo la sharia (e i suoi fanatici) fuori dall’Occidente di Daniel Pipes

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 6 agosto 2009

Nuovi padroni. Le ronde, lo schiaffo a Scajola, gli ultimi blitz: i lumbàrd approfittano di un Pdl allo sbando. E dei dati di Bankitalia

Carroccio senza freni

Dopo le “buste paga territoriali” arriva l’attacco dei senatori leghisti al Tricolore: «Inseriamo bandiere e inni regionali nella Costituzione» di Errico Novi

ROMA. Nella furia del pestaggio può sempre scapparti quel ceffone che lascia tumefatta la mano. Così capita alla Lega, in un inizio d’agosto vissuto senza freni. Il ministro alla Semplificazione normativa Roberto Calderoli è costretto a puntualizzare davanti alle telecamere di Sky Tg24 la proposta sui salari territoriali: «Nessuno ha mai parlato di gabbie salariali», sbotta. Poi però la mano gli scappa di nuovo: «È evidente che se noi ci impegniamo a recuperare il gap infrastrutturale fra Nord e Sud, alla fine (il salario, nda) dovrà essere diversificato rispetto al territorio». I meridionali non credano di farla franca: Bossi ha generosamente concesso il via libera a un piano infrastrutture per il Mezzogiorno, ma i meridionali pagheranno tanta magnanimità con stipendi più bassi. Dal Pdl non s’indigna nessuno. Deve provvedere il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa a ricordare che i dati sul costo della vita andrebbero integrati con un altro non trascurabile elemento: «Il 30 per cento delle persone che vivono nel Mezzogiorno è senza lavoro».

Eppure le statistiche di Bankitalia subito rilanciate da Calderoli e dalla Padania (che con molta più franchezza titola “È tempo di gabbie salariali”) sono riportate, per esempio, dal Corriere della Sera di ieri insieme ad altre che dovrebbero smorzare ogni fantasia antimeridionalista: se su alcuni prodotti i prezzi al Sud sono più bassi del 30 per cento, il reddito pro capite in Campania è inferiore del 50 per

cento rispetto alla Lombardia. Ma il Carroccio fa agio su una diffusa tendenza a interpretare la realtà in modo arbitrario, che appunto non trova argine nel Pdl. Inascoltato è rimasto l’appello con cui martedì Claudio Scajola aveva chiesto di intervenire sulla sanatoria per i lavoratori stranieri irregolari. In un campo così scarsamente presidiato gli uomini di Bossi sciamano allegramente e piantano le loro ban-

diere: proprio con un affronto alla bandiera nazionale, anzi, il capogruppo leghista al Senato Federico Bricolo suggella lo spettacolo. «L’articolo 12 della Costituzione riconosce quale simbolo della Repubblica italiana il tricolore, ma non è incluso alcun riconoscimento dei simboli identitari delle Re-

gioni», protesta l’esponente del Carroccio.Tale lacuna, dice ,«è oggi inammissibile», bisogna quindi inserire un secondo comma all’articolo suddetto per «riconoscere il rilievo costituzionale dei simboli identitari di ciascuna Regione», ossia «la bandiera e l’inno». Provocazioni disgregatrici, le

Nella pagina a fianco: in alto, Federico Bricolo; in basso Umberto Bossi e Roberto Calderoli. Nel riquadro, Don Luigi Sturzo

chiama Francesco Storace. Rese però possibili dalle diserzioni del Pdl e dalla manipolazione delle notizie. Come quelle sul potere d’acquisto e i dati sui «voti gonfiati» accreditati dallo stesso Centro studi di Bankitalia e contemporaneamente dal ministero all’Istruzione: ne trarrà forza la battaglia del Carroccio per inibire agli insegnanti del Sud l’accesso alle cattedre del Nord,

Il Mezzogiorno ha bisogno di veder crescere il settore del lavoro privato, che oggi è troppo gracile e marginale

No alle gabbie salariali, sì alla flessibilità di Carlo Lottieri opo la diffusione dei dati del centro studi di Bankitalia sul diverso costo della vita tra Centro Nord e Sud, alcuni esponenti della Lega (con il ministro Roberto Calderoli in testa, almeno prima della “smentita”) sono tornati a chiedere le gabbie salariali. Secondo i ricercatori di via Nazionale, d’altra parte, «posta pari a 100 la media nazionale, l’indice complessivo del costo della vita risulta pari a 89,3 nel Mezzogiorno e a 107,8 al Centro Nord. Nelle regioni meridionali il livello dei prezzi è del 17% inferiore a quello del Centro Nord». La conseguenza è che nel Mezzogiorno la vita costa il 16-17% in meno rispetto alle regioni del Centro e del Nord: e questo spiega la ri-

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chiesta leghista di stipendi nominalmente differenziati e quindi tali da assicurare a tutti il medesimo potere di acquisto.

Le reazioni, però, sono state per lo più negative: e spesso sulla base di buoni argomenti. Ben al di là di ogni considerazione più o meno astratta sull’equità, la proposta della Lega richiama all’esigenza di un rapporto più stretto tra produttività e salari. Se al Sud abbiamo un’alta disoccupazione (pari al 40%, ad esempio, tra i giovani della Calabria) e se invece in certe aree del Nord è difficile trovare forza lavoro, anche il meno liberale tra gli economisti sarà portato a rilevare come tutto questo derivi dalla rigidità dei prezzi. Se assumere un dipendente a Cosenza co-

sta quanto assumerne uno a Vicenza, non si capisce perché qualcuno dovrebbe trovare interessante investire in Calabria. Ma le gabbie salariali avrebbero il difetto di riprodurre a livello sub-regionale le stesse difficoltà create dalla contrattazione unica: perché una cosa è Milano e altra cosa è la Valtellina, una cosa è Treviso e altra cosa è Rovigo, e via dicendo. Bisogna allora dirigersi vero un rafforzamento della negoziazione aziendale, anche evitando – ogni volta che ciò sia possibile – il livello nazionale. In sostanza, è urgente togliere potere alle centrali sindacali (che si tratti della Cgil come della Confindustria) e dare più autonomia negoziale a chi lavora davvero: imprenditori e dipendenti. La provocazione lanciata dalla Le-

ga mantiene però una sua validità per ciò che riguarda il settore pubblico. In questo caso non soltanto è difficile avviare contrattazioni locali, ma la stessa “contrattazione” non ha molto senso.

Mentre nel privato a confrontarsi è chi paga e ottiene un servizio (l’impresa) e chi riceve soldi e fornisce una prestazione (il lavoratore), nel caso del lavoro pubblico tutto è differente. Ministri e funzionari di Stato sono assai meno motivati a “resistere”di quanto non lo siano i titolari di un’azienda privata, che dopo ogni aumento vedono ridursi gli utili dell’impresa. Per questo motivo, la strada dei mille contratti a livello aziendale è irragionevole quando si parla di funzione pubblica e quindi è qui ben


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L’opzione sturziana nella questione moderna dell’unità nazionale

Un’alternativa al localismo egoista di Francesco D’Onofrio tutte le questioni che toccano il pur fondamentale rapporto tra la dimensione locale e la dimensione globale vi sono due possibili risposte: il localismo egoista da un lato e l’alternativa sturziana dall’altro.Vi è infatti un modo antropologico prima ancora che politico di considerare la piccola dimensione in senso localistico e quindi egoistico, come appare sempre più chiaro ogni volta che ci si trovi ad affrontare il problema dell’immigrazione, o del salario, o dei trasporti; per parlare delle più attuali questioni che hanno posto all’attenzione degli italiani le iniziative ufficialmente promosse dal governo ma sostanzialmente volute dalla Lega. Non vi è dubbio che si tratti di questioni certamente rilevanti: non si può affrontare la vicenda dell’immigrazione facendo finta di ritenere che il problema sia soltanto da vedere in termini per così dire buonisti; non si può discutere dei diversi livelli del costo della vita al Nord e al Sud del Paese senza considerare le ricadute possibili sui livelli salariali; non si può discutere dei trasporti pubblici nelle diverse località urbane del Paese senza sapere che essi sono frequentati in modo molto diverso a seconda delle diverse ore della giornata.

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certo è difficile che nella maggioranza qualcuno si chieda perché le scuole settentrionali funzionino meglio nonostante siano invase da docenti meridionali impreparati.

Maroni a sua volta può tranquillamente dire che le ronde (legalizzate da dopodomani) non saranno “politiche”, nonostante la prima scuola per volontari della sicurezza stia per na-

più legittima l’esigenza di differenziare gli stipendi delle diverse aree del Paese.

Soprattutto perché assegnare stipendi “reali”più alti al Sud – come avviene oggi – significa creare un sistema di incentivi che spinge proprio verso il pubblico impiego. Al contrario, il Mezzogiorno ha bisogno di veder crescere il settore del lavoro privato, che ora è troppo gracile e marginale. Fin ad oggi l’impiego alle Poste o nell’istruzione pubblica è servito da ammortizzatore sociale. Quale che fosse la produttività dei dipendenti, si è garantito un salario reale maggiore a quanti lavoravano in Sicilia rispetto a quanti (anche meridionali) erano impiegati in Emilia, e ciò in ossequio ad un’idea del

scere da un’idea di Max Bastoni, capo delle camice verdi milanesi. Non saranno certo i colleghi della maggioranza a ricordargli che il presidente della Repubblica ha sollevato «dubbi di irragionevolezza e insostenibilità» sul ddl sicurezza. E sulla richiesta di estendere la sanatoria per le badanti a tutti i lavoratori stranieri avanzata da Scajola e bruscamente «respinta» da Maroni, l’unico a non demordere è Benedetto Della Vedova: «Faccio una previsione: nel mese di agosto un solerte pm provvederà, preferibilmente sotto i riflettori delle telecamere, all’incriminazione di qualche datore di lavoro e dei suoi dipendenti clandestini. Ci sarà una valanga di processi, ma a mungitori e pizzaioli, non ai trafficanti di droga. Questo non piacerà neanche all’opinione pubblica nordista, e alla fine saranno le toghe, magari rosse, a spingerci sulla retta via, quella indicata da Scajola». Beffa – nel caso ci fosse – ampiamente meritata.

tutto astratta (e iniqua) di eguaglianza. Ma nel medio-lungo periodo la serena del “posto” ha creato molti danni, dato che ha ostacolato il radicarsi di una cultura dell’impresa. In sostanza, il risultato è stato il trionfo del clientelismo e degli uomini di partito. Differenziare stipendi e salari nel vasto arcipelago pubblico e parapubblico è molto importante anche per permettere al Sud di trarre beneficio da ogni progresso sulla strada del federalismo. Se vuole attirare aziende e capitali (dal Nord come dall’estero), il Mezzogiorno deve poter essere in condizione di pretendere imposte regionali inferiori a quelle adottate da altre regioni, e per provare a percorre questa strada può giocare proprio sul fatto che nel tempo esso è in condizione di attribuire salari più bassi ai propri dipendenti. Fino ad oggi, i capitali hanno preso la strada di Sofia e di Bucarest, di Pechino e di New Dehli. Perché non dovremmo provare a farli approdare anche sulle coste del nostro Sud?

del localismo egoista, che vede nell’istituto delle gabbie salariali la risposta tipica di chi immagina la immodificabilità della dimensione locale medesima, e la cultura sturziana tipica di chi intende combinare autonomia locale e dimensione nazionale.

Sta tutta qui la questione moderna della unità nazionale: il localismo egoista non si sente partecipe della dimensione nazionale dei problemi dell’immigrazione, dei salari e dei trasporti, mentre l’autonomismo sturziano chiede appunto alla dimensione nazionale dei problemi la consapevolezza delle specifiche diversità locali. Un partito di centro, di ispirazione cristiana, radicato nella antropologia sturziana della comunità locale territoriale vede pertanto le questioni locali come questioni che richiedono tutte la flessibilità delle soluzioni concernenti anche immigrazione, salari e trasporti ma non la messa in opera di decisioni politiche che tendono al respingimento purchessia degli immigrati, alle gabbie salariali per i lavoratori dipendenti, alle carrozze divise per razza nei servizi di trasporto. Sarebbe opportuno che di tutte queste grandi questioni si discutesse in termini culturali appunto e non sloganistici perché si tratta di grandi questioni identitarie che non possono diventare oggetto di battute più o meno felici di questo o quell’esponente politico. La costruzione del nuovo partito di centro deve infatti fondarsi su una scelta antropologica di fondo: la nostra scelta è stata e non da oggi nel senso del primato della persona umana. Non si tratta di una semplice questione lessicale (la persona al posto dell’individuo), ma di una grande questione culturale e quindi politica: la coesione nazionale che in tanti riteniamo essenziale soprattutto in questa drammatica stagione di crisi economico-finanziaria non può essere perseguita da chi ragiona in termini egoistici e quindi in fondo di “avarizia” istituzionale, ma lo sarà da quanti hanno ritenuto e ritengono che la centralità della persona umana è l’elemento costitutivo della identità locale, regionale o nazionale che sia.

È in discussione la radice di fondo che attribuiamo al termine “identità”. Se con questa parola intendiamo conservare l’esistente in quanto tale. O se partiamo dal concetto stesso di persona

Ma è di tutta evidenza che in ciascuna di queste questioni è in discussione la radice di fondo che attribuiamo al termine “identità”: se con questa parola intendiamo conservare l’esistente in quanto tale senza alcuna considerazione per tutto ciò che le è estraneo, siamo indotti a ritenere che l’identità locale si traduca in una sorta di egoistica tutela del localismo. Se invece guardiamo al tema dell’identità partendo dal concetto stesso di persona umana come è stato ripetutamente detto nella ispirazione sturziana della cultura delle autonomie, la dimensione locale cessa di produrre l’egoismo e diviene promotrice di una cultura della socialità che considera l’immigrazione, i salari e i trasporti quali parti essenziali della socialità medesima. Anche le ultimissime vicende concernenti le cosiddette gabbie salariali pongono in evidenza la diversità di fondo tra la cultura


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L’intervista. Per Gilberto Oneto, Lega e Pdl hanno abbandonato la rivoluzione liberale: «Non hanno diminuito le tasse, né ridotto il peso dello Stato»

«Il tradimento di B&B» L’allievo di Miglio all’attacco: «Berlusconi è ormai uno statalista. E Bossi e soci pensano solo alle poltrone» di Marco Palombi

ROMA. «Mi pare normalissima amministrazione, non è cambiato nulla. D’altronde in questo Paese quando mai è cambiato qualcosa? Non ci sono novità: qualcuno si lamenta, qualcuno chiede più soldi, la Lega strepita ma poi si allinea». Parola di Gilberto Oneto, classe 1946, scrittore e architetto del paesaggio, ma anche uno degli allievi di Gianfranco Miglio e, quindi, una sorta di coscienza ideologica della Lega Nord degli albori. Il nostro vive a Belgirate, paesino di poco più di 500 anime sulla riva occidentale del Lago Maggiore, e da lì continua a dirigere e animare i Quaderni Padani, bimestrale che dal 1995 pubblica interventi su cultura e identità dell’Italia settentrionale. Per Oneto, al di là delle episodiche frizioni, non ci sono sostanziali novità nella struttura del centrodestra: «L’assetto aziendale, per così dire, è lo stesso del 2001-2006», quando il Carroccio s’è seduto sulla «cadrega», rimanendoci attaccato. Come vede il rapporto tra la Lega e il Pdl? Intanto distinguerei tra movimento e gruppo dirigente. Vede, la Lega è un aggregato strano, molto vitale, fatto da migliaia di persone diciamo nervose, quelli del gruppo dirigente fanno altro. Cioè? Gestiscono il potere che hanno. D’altronde non è che abbiano mai cambiato molto: fanno la sparata e poi tornano indietro. Perché? Loro hanno una base che non ne può più, ma devono stare tranquilli, fare andare avanti le cose per senso di responsabilità verso la coalizione. Lo dico con tutta l’ironia possibile. Ma questa base cosa vuole? La base, con migliaia di diverse sfumature, chiede in sostanza riforme vere: autonomia, meno tasse, padroni a casa propria… le vecchie cose della Lega.Vogliono un cambiamento vero, non parole. Prenda il federalismo: oramai pure quelli di Rifondazione sono federalisti. E invece secondo lei… Succede una cosa strana: i giornali sono pieni di statistiche sulle macroscopiche differenze economiche tra Nord e Sud, tipo il costo della vita, tutte cose che noi dicevamo anni fa sui Quaderni padani e la Lega cavalcava, ma oggi su questo non dicono più niente. La Lega tace, non soffia sul fuoco. Da qui francamente non sembra. Prenda la controversia sul 150esimo dell’unità d’Italia: la Lega tace, mentre anni fa ne avrebbe fatto il suo cavallo di battaglia. In realtà certe cose alle feste, nei comizi, le dicono, ma non ufficialmente: sono in difficoltà, imbarazzati. Anni fa, sulla sanatoria per le badanti, avrebbero fatto fuoco e fiamme. Veramente già nel 2001-2006 ci fu una grossa regolarizzazione. Certo, l’assetto aziendale - per così dire - era

La risposta della Locride al Carroccio

Ronde di immigrati per sfidare la ’ndrangheta di Franco Insardà

ROMA. «Se ronde devono essere che ronde siano. Ma le faremo con gli immigrati contro la ‘ndrangheta». Così Ilario Ammendolia, sindaco di Caulonia paese della Locride, rispose qualche mese fa all’annuncio della Lega di voler regolamentare i “volontari della sicurezza”. «Perché da noi la minaccia – spiega il primo cittadino - non è rappresentata dagli immigrati che invece accogliamo, favorendo il loro inserimento». È ormai prassi da qualche anno che chi richiede asilo la trovi a Riace (dove ne risiedono 100), Caulonia (60) e Stignano (45). L’esperienza è stata battezzata “modello Riace” ed è diventata anche una legge regionale. Domenico Lucano, sindaco di Riace, conosciuto come “Mimmo dei curdi”, va fiero di questa iniziativa: «L’arrivo dei migranti ha rivitalizzato il centro storico e la marina di Riace, contribuendo anche alla rinascita degli antichi mestieri. Senza dimenticare che i bambini immigrati hanno garantito la riapertura della scuola». In questi centri si guarda avanti: il comune di Riace ha riservato uno dei due posti di operatore ecologico agli immigrati e ha affidato loro anche dei terreni espropriati, mentre il consiglio comunale di Caulonia ha modificato lo Statuto per consentire ai migranti di votare alle amministrative. «Maroni ha annunciato un ricorso al Consiglio di Stato, ma noi andiamo avanti» dice soddisfatto il sindaco Ammendolia.

lo stesso. Fare le loro sparate gli dà un certo margine di consenso, ma poi non fanno niente. Un po’li ammiro: come si ammira un ginnasta, un equilibrista. C’è chi pensa che Bossi punti a sostituire il Pdl nel Nord. Fanno già parte del Pdl, ma la ragione sociale è leggermente diversa. Comunque questa idea di fare la Csu italiana c’è da diverso tempo e non è nemmeno stupida. Secondo me però dà vantaggi elettorali più apparenti che reali: non ci dimentichiamo che, in termini assoluti, la Lega ha perso parecchi voti dalle politiche alle Europee. Beh, le percentuali salgono. Io starei attento con questa storia delle per-

centuali. L’astensione è un fatto evidente: il pericolo che la gente non vada più a votare esiste davvero. Anche la base leghista? C’è un’insoddisfazione emotivo-ideologica (l’immigrazione, i soldi al Sud) e poi quella che tocca il portafogli. È anche vero che qui da noi va sempre male, ma si sopravvive a tutto: è il vero miracolo italiano. Magari ha ragione Tremonti a dire che stiamo benissimo, ma non a stare a quello che si vede in giro: le aziende chiudono, c’è disoccupazione e l’insoddisfazione emotiva si somma alla crisi economica che colpisce soprattutto i piccoli proprietari e gli artigiani, il vero popolo del Carroccio. Lei ha scritto che i dirigenti della Lega sono «attaccati alla cadrega». Beh, un po’ d’affetto glielo dimostrano. Avendoli conosciuti vent’anni fa posso dire che non gli importava così tanto del “posto di lavoro”. Mi sembrano molto interessati a dividersi posti con gli altri. Il bello è che non lo fanno per fare politica, per comandare, ho l’impressione che prendano tanto per prendere. Basta vedere quelli che hanno messo in Rai…

Il Carroccio è già parte del partito di Berlusconi, ma con una ragione sociale leggermente diversa: puntano a diventare la Csu italiana, ma questo li penalizzerà alle urne

Nella foto grande, Berlusconi e Bossi. Qui sopra, Gilberto Oneto. Nella pagina a fianco, Gianfranco Miglio

E del governo in generale che giudizio dà? Semplicemente che non sono liberali: come dice Pagliarini, Berlusconi è comunista. D’altronde: hanno diminuito le tasse? Hanno ridotto il numero degli statali? Hanno tolto potere allo Stato? No. E allora? Dicono che c’è la crisi. Lo dicono, magari è pure vero: però l’impressione è che non solo non possono, ma non ne hanno la minima intenzione. La verità è che quando arrivano lì sono tutti statalisti. E ora che succede? Penso ci sia enorme spazio per un autonomismo, anche duro, un po’ dappertutto. Mi sembra che la gente si sia convinta che le cose gestite vicino siano più controllabili: un potere pubblico che gestisce poco atti-


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Da 14 anni, il bimestrale indaga sull’omogeneità culturale del settentrione d’Italia

I Quaderni Padani, custodi della nordica purezza perduta ROMA. «Beh, io sarei secessionista, quindi il federalismo per noi è già un’ampia concessione. D’altronde ci si confronta con le opinioni degli altri e il mio motto è che bisogna essere estremi nelle idee quanto moderati nei fatti». Gilberto Oneto lo dice ridendo, ma non scherza affatto. D’altronde il suo maestro Gianfranco Miglio - pur con qualche significativo aggiustamento nel corso del tempo - cominciò a parlare di autonomismo già nel primo dopoguerra, quand’era ancora iscritto alla Democrazia cristiana (lo fu fino al 1959): «Dal confine alpino al crinale dell’appennino tosco-emiliano l’Italia transpadana e cispadana ha una sua specifica ragion d’essere - scrisse sul settimanale Il Cisalpino nel luglio 1945 - una sua fisionomia economica produttiva storica e perfino linguistica da richiedere, per il suo pieno sviluppo, anche a beneficio dell’intera nazione, una sua posizione esatta e spiccata in seno all’Italia che sta nascendo. L’unità d’Italia non potrà essere fatta che su altre basi [...] La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l’Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare se stessa».

no sostanzialmente due: la ricognizione storico-culturale attorno al «padanismo» (le cui origini affonderebbero nell’insediamento celtico nella regione) e i materiali per servire alla battaglia politica contingente. Un’agile redazione di sei persone e numerosi collaboratori provvedono a fornire a un’affezionata platea di autonomisti - dai fan del modello svizzero fino ai secessionisti più spinti - pensosi saggi in cui si certifica l’unitarietà del modello antropologico padano a partire dalla comune matrice linguistica: trattasi della «lingua del mi», ingiustamente ignorata da Dante nella celebre tripartizione in volgari d’oc, d’oil, del sì. I materiali più strettamente politici sono altrettanto ponderosi. «Indagine sul tema delle suddivisioni delle entità componenti una federazione italiana», è il contributo di Gilberto Oneto sul numero inaugurale: una cavalcata su tutti i progetti di suddivisione federale (o confederale) dello stivale dall’Ottocento alle macroregioni di Gianfranco Miglio. Notevole anche la cosiddetta «rubrica silenziosa», una sfilata di statistiche sulle differenze Nord-Sud: dalla «Dislocazione geografica delle località di nascita dei cento Prefetti “in sede” nel 1995» al«Rapporto dipendenti pubblici/lavoratori” nel 2003, fino a “L’assegnazione di fondi alle città» e persino agli «Acquisti in libreria» del 2006.

Fin dal primo numero, nel 1995, le linee di intervento sono due: la ricognizione storica e culturale sul «padanismo» e i materiali per servire alla battaglia politica contingente

ra di meno quelle persone che hanno scarsa attitudine alla santità e all’onestà. Con la crisi finanziaria però l’intervento statale è tornato di moda. Io direi al contrario che c’è sempre più spazio per l’autonomismo e il liberismo. D’altronde basta guardare al fatto che c’è chi prende i voti facendo l’autonomista e il liberista e poi non è né l’uno né l’altro. Ora la Lega che farà? Non azzecco mai le previsioni e sulla Lega ancora meno: d’altronde si gioca tutto a cavallo della famiglia Bossi. Comunque i margini di libertà dei dirigenti della Lega mi sembrano molto ridotti. Per via della cadrega? Gli vorrei direi che la cadrega è bella, ma la dignità e le idee lo sono altrettanto.

Oggi la battaglia autonomista Oneto la porta avanti dalla ridotta dei Quaderni Padani, il bimestrale che dirige, distribuito fin dal 1995 ai soci dell’associazione “La libera compagnia padana”. Per i curiosi l’articolo 2 dello Statuto è decisamente esaustivo: «L’Associazione tende alla promozione della cultura, delle lingue, delle tradizioni e delle aspirazioni autonomiste della Padania e promuove ogni iniziativa che porti alla unità e alla libertà dei popoli Padani». Il termine “Padania” è peraltro ben delimitato: «Tutte le regioni dell’Italia settentrionale più le province di Massa-Carrara, Pesaro-Urbino, i comuni toscani sul versante settentrionale dell’Appennino, i cantoni svizzeri di lingua italiana e romancia, il Nizzardo e i paesi istriano-dalmati di cultura veneta». Ci sono poi i «popoli padani», ovvero «quelli di lingua padana (piemontesi, liguri, lombardi, emiliani e romagnoli), i veneti, i friulani e i ladini». Ed esistono pure le dieci nazioni storiche della macroregione: «Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria, Tirolo, Trentino, Ladinia, Veneto, Emilia Romagna, Friuli e Trieste». La «libera compagnia», comunque, è un gruppo rigidamente apartitico e politico “solo nella misura in cui fare cultura significa anche e necessariamente fare politica”. I Quaderni Padani sono, per così dire, il braccio armato di questa Kulturkampf identitaria e libertaria (e in larga parte liberista). Fin dal numero dell’estate 1995, il primo, le linee di intervento del bimestrale di Oneto so-

Siccome, però, alla «Libera compagnia padana» sanno che anche l’iconografia ha il suo peso nella costruzione di un mito culturale, sul sito non manca una sezione di “oggettistica” pensata per il perfetto autonomista: si parte dal Sole delle Alpi (rosso, verde e argento) - simbolo dell’associazione finché non lo adottò pure la Lega di Umberto Bossi - ma si possono trovare anche manufatti come «la riproduzione in argento di una statua-stele della Lunigiana» o «del Mascherone celtico di Vigogna» o ancora della «incisione camuna di un cavaliere». Non manca nemmeno il reparto sui «Vessilli Padani»: dalla bandiera «nazionale» dell’Arpitania a quella della «Ladinia» fino agli stendardi della comunità valdese o delle Valli provenzali. Non è certo l’epopea violenta di «Nascita di una nazione», ma buona parte dei culti involgariti e un po’ cialtroni che la Lega Nord mette in scena nelle sue feste e che animano i sogni «di libertà» delle genti di verde vestite traggono origine dal lavoro culturale di gruppi come quello dei Quaderni Padani: viaggiatori nostalgici lungo le strade di una nazione che non è esistita mai. (m.p.)


politica

pagina 6 • 6 agosto 2009

Campagne estive. Dal prossimo fine settimana parte la raccolta di firme per la proposta di iniziativa popolare dell’’Udc

La famiglia al centro Una deduzione per tutti i nuclei in base al numero dei figli a carico di Franco Insardà

ROMA. “Preferisco la famiglia” non è uno slogan, ma un’iniziativa concreta che l’Udc ha lanciato per supportare la proposta di legge di iniziativa popolare sul quoziente familiare. Il segretario Lorenzo Cesa è chiaro: «Anche questa estate l’Udc non va in vacanza. Raccoglieremo le firme in montagna, al mare e nelle piazze per sostenere la famiglia italiana, abbandonata da questo governo che non ha mantenuto la promessa di istituire il quoziente familiare». Attacca il ministro dell’Economia Tremonti che «sottolinea spesso come l’Italia sia riuscita a sopportare meglio di altri la crisi. È vero, ma tutto ciò è stato possibile proprio grazie al sistema delle famiglie che ha retto all’urto.

monite con le mentine». Una preoccupazione confermata dalle cifre, come ha detto De Poli: «L’Italia spende lo 0,9 per cento del Pil per le politiche familiari, mentre in Europa la media è del 3, per cento. Non bastano le una tantum, servono politiche concrete. Dobbiamo salvaguardare la famiglia per dare un futuro ai nostri figli. C’è una grande differenza tra le famiglie con un figlio e quelle più numerose, e questo contra-

miglia non ha colore politico, né appartenenza.Va tutelata».

Il segretario Lorenzo Cesa: «Non sono state mantenute le promesse fatte in campagna elettorale sul quoziente familiare». Antonio De Poli: «I soldi spesi per i figli non devono essere tassati» Siamo l’ultimo Paese al mondo per natalità, non esiste una politica della famiglia e i dati sulla povertà sono inquietanti e colpiscono proprio i nuclei più numerosi».

La campagna è stata presentata dallo stesso Cesa insieme con il portavoce nazionale dell’Udc Antonio De Poli, Francesco D’Onofrio e i responsabili del movimento giovanile Gianpiero Zinzi e Barbara Graffino. Dal prossimo fine settimana su 128 spiagge i militanti dell’Udc, con la t-shirt bianca con il simbolo del partito e la scritta “preferiamo la famiglia”, saranno impegnati a raccogliere le firme. «L’anno scorso – ha detto il segretario dell’Udc – abbiamo avuto l’adesione di 200mila cittadini per la reintroduzione del voto di preferenza alle Politiche, quest’anno l’obiettivo è la famiglia. Occorrono fatti concreti, non spot: le famiglie hanno bisogno di investimenti seri, perché non si può curare la pol-

Sotto il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini e in basso il segretario Lorenzo Cesa che ieri ha presentato la raccolta di firme per la proposta di legge per il quoziente familiare

sta con l’articolo 53 della Costituzione per il quale ognuno deve concorrere alla spesa pubblica secondo la propria capacità contributiva. È evidente, invece, che, a parità di reddito, un padre con tre figli ha minore capacità contributiva di chi non ne ha. Noi riteniamo che i soldi spesi per i figli non devono essere tassati». E De Poli ha ricordato anche il caso delle badanti, sul quale l’Udc ha avuto ragione: «Tanti spot, ma senza alcuna politica familiare concreta che riguarda giovani, padri e nonni. La fa-

L’obiettivo della proposta dell’Udc è quello di destinare nell’arco di una legislatura il 2,5 per cento del Pil per sostenere una politica fiscale a sostegno delle famiglie. Nel dettaglio i centristi propongono una rimodulazione del sistema contributivo che prevede deduzioni per le famiglie a seconda del numero di figli: 2mila euro per un figlio a carico, 3mila per due, 4mila per tre e 5mila per chi ha quattro bambini. La mancata progressività dell’imposta viene poi risolta con una correzione dell’attuale sistema degli assegni familiari, che vengono incrementati in base al numero dei figli e del reddito. La proposta di legge prevede anche agevolazioni per i genitori che diminuiscono l’attività lavorativa a seguito della nascita di un figlio con la possibilità di avere un’indennità per 14 mesi. Francesco D’Onofrio ha sottolineato gli elementi di novità contenuti nella proposta dell’Udc: «L’Italia ha retto meglio rispetto ad altri Paesi per merito delle famiglie e dei piccoli Comuni. La nostra non è una proposta familistica di vecchio tipo, ma mai come in questo caso è legata alla situazione economica e attuale». Il ruolo della famiglia è stato evidenziato anche da Gianpiero Zinzi: «Si tratta del futuro dei giovani, dei loro progetti di vita sui quali costruire qualcosa di importante. È su questo che si regge la nostra società».

Il messaggio di Benedetto XVI dalla residenza di Castelgandolfo

L’allarme del Papa: «Siamo in piena dittatura relativista» di Guglielmo Malagodi segue dalla prima «Le sfide della società odierna - ha continuato Benedetto XVI - non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse. Se allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di “dittatura del relativismo”. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi». Il Papa ha poi spiegato che proprio a questa sete di

verità, che arde nel cuore di ogni uomo, i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II vollero rispondere quando affermarono che spetta ai sacerdoti, quali educatori della fede, formare «un’autentica comunità cristiana» capace di aprire «a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo» e di esercitare «una vera azione materna» nei loro confronti, indicando o agevolando a che non crede «il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa». «L’insegnamento che a questo proposito continua a trasmetterci il Santo Curato d’Ars - ha concluso - è che, alla base di tale impegno pastorale, il sacerdote deve porre un’intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Solo così potrà toccare i cuori della gente ed aprirli all’Amore Misericordioso; solo così potrà infondere entusiasmo e vitalità spirituale alle comunità che il Signore gli affida. Preghiamo perché Dio faccia dono alla sua Chiesa di santi sacerdoti e cresca nei fedeli il desiderio di sostenere e coadiuvare il loro ministero».


politica

6 agosto 2009 • pagina 7

Parla Savino Pezzotta: «Il quoziente familiare va bene, ma serve anche la cassa mutua»

«Dal governo solo misure tampone» di Riccardo Paradisi

Quando si parla di famiglia e di povertà il pensiero va automaticamente al Mezzogiorno, verso il quale la politica dell’Udc è da sempre molto attenta. E Lorenzo Cesa ha ricordato: «Durante l’ultima campagna elettorale, ogni volta che richiamavo l’attenzione sulla destinazione dei Fas qualche ministro di questo governo replicava polemicamente. Oggi tutti hanno scoperto i Fas, anche se, come è successo per la Sicilia, vengono destinati soltanto quando qualche regioni alza la voce. Ci aspettiamo reali investimenti e che sia riservato la stessa attenzione anche alle altre Regioni del Sud». Il segretario dell’Udc boccia l’ipotesi di una nuova banca per il Meridione e chiede al governo un piano serio per l’area, rimarcando l’importanza delle infrastrutture: «Bisogna ammodernarle: non c’è una ferrovia, non c’è un’autostrada che possano chiamarsi tale. La Salerno-Reggio Calabria è tristemente famosa. In queste condizioni quale imprenditore investirà mai al Sud? E senza sviluppo non ci può essere legalità. Tutta la fiction alla quale stiamo assistendo in questi giorni non ci interessa. Non servono casse del Mezzogiorno, ma interventi straordinari per dare una prospettiva concreta al Sud». L’Udc quindi non va in vacanza, pensa alla famiglia e si dà appuntamento a Chianciano dall’11 al 13 settembre per gli Stati generali. Come simbolo di questa tre giorni una cartolina con in primo piano le mani di un bambino in quelle di un padre e la scritta “Nasce dal Centro l’Italia di domani”.

ROMA. L’Italia spende lo 0,9% del Pil per le politiche famigliari, mentre in Europa la media è del 3,4%. Ora l’Udc chiede che nell’arco di una legislaturasia destinato il 2,5% del Pil per sostenere una politica fiscale a sostegno delle famiglie. Chiedendo il quoziente famigliare. Lei come vede questa proposta? Con grande favore. Vede io parto da una considerazione: i problemi che l’altro giorno ha messo in evidenza l’Istat sulla questione della povertà non si affronta con le gabbie salariali perché è una risposta sbagliata. Il nostro problema è come si affronta la questione dei redditi in termini complessivi, come si affronta per intenderci la questione di un salario famigliare. Insomma non basta intervenire solo su salari e occupazione. Come si fa a parlare solo di salari se ci sono centinaia di migliaia di disoccupati in Italia. C’è da costruire un’idea di salario famigliare. Questa è la risposta che si può dare alla crisi. Il governo ha presentato delle misure tampone, che non sono strutturali, sono, come la social card, delle una tantum che variano a seconda delle situazioni. E le famiglie stanno male al nord con la

crisi industriale e stanno male al sud, dove i ragazzi non possono più trovare più nemmeno occupazione al nord. Per questo il centro è la famiglia. Per questo si deve cambiare il welfare riequilibrandolo intorno alla famiglia. Lei è stato tra gli organizzatori del Family day, autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo avevano preso in quell’occasione degli impegni sul sostegno al quo-

ziente famigliare. Allora perché l’hanno promesso. Ma poi nessuno ha chiesto il quoziente famigliare tutto e subito.Vogliamo farlo gradualmente partendo dai più deboli. Un governo però che non è in grado di programmare un quoziente famigliare in dieci anni sbaglia. In modo che fra 5 o 6 anni il quoziente sia applicato. Applicato il quoziente famigliare si possono anche ridurre alcune spese. Spiegando alla gente che alcune spese pubbliche vengono ridotte per incrementare il sostegno alla famiglia. Nell’enciclica Veritas in caritate il Santo Padre sostiene che l’alternativa al mercato selvaggio non è l’assistenzialismo di Stato ma la sussidiarietà. Uno degli elementi da introdurre nella contrattazione è il concetto della mutualità. Se alcuni servizi costano di più nel Mezzogiorno, bisogna inventare forme di cooperative e di mutualità. Noi abbiamo liquidato le casse mutue aziendali col servizio sanitario nazionale ma abbiamo liquidato un servizio importante. Oggi bisognerebbe reintrodurre queste forme di mutualità, che vanno a integrare il salario in termini di servizi e assistenza.

La questione della povertà non si affronta con le gabbie salariali. Ma col sostegno alle famiglie ziente famigliare. Berlusconi stesso venne alla manifestazione e si disse favorevole al quoziente famigliare. E alla vigilia delle ultime elezioni, in campagna elettorale, il Pdl aveva sostenuto il quoziente famigliare. Oggi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi dice che non c’è copertura per il quo-

Il presidente del Forum della famiglie, Belletti, denuncia: interventi marginali rispetto all’Europa

«Oggi è il contrario: più figli, più tasse» di Francesco Pacifico

ROMA. «È difficile una svolta se continuiamo a considerare i soldi a favore delle famiglie come assistenzialismo puro e non come un investimento». Per il presidente del Forum delle famiglie, il sociologo Francesco Belletti, il problema principale sta nelle risorse a disposizione. Soltanto lo 0,9 per cento del Pil. È risaputo che le politiche familiari da noi siano marginali rispetto al resto d’Europa. E questo perché il nostro welfare è concentrato sulla protezione del lavoro, dimenticando l’importanza di questo istituto per la società. Che chiede di più. Il precariato e la doppia carriera, con la donna che non sta più a casa a badare ai figli, ha messo in crisi un sistema retto sullo stipendio, fisso, del capofamiglia. Cambiate le condizione, sono seguite maggiori richieste di servizi. Può aiutare il quoziente familiare? Lo strumento consente di spalmare meglio i carichi familiari. È una battaglia di equità, non la protezione di una categoria, perché chi ha più figli paga più tasse. Spesso ci si affida all’Isee. È nato per fornire servizi sociali, quindi per contenerne l’erogazione. E forte di

questa logica, questo quoziente tende a non premiare le famiglie numerose. In Francia il quoziente è criticato. Oltralpe non sono mancati correttivi e altri provvedimenti per la famiglia. Ma questo strumento regge se si coniuga l’equità orizzontale, aiutare in base al numero dei figli, e quella verticale, chiedere di più a chi ha maggiore reddito. Qual è la vostra proposta? Come Forum guardiamo a un quoziente

Ancora oggi troppe donne perdono il posto quando arriva il secondogenito. È un dramma

tarato sul criterio usato in Germania: i soldi per allevare un bambino non possono essere tassati. Di conseguenza, se in Italia la fascia di incapienza parte da un reddito di 7.500 euro, si dovrebbero concedere sgravi pari a questa cifra per ogni componente di una famiglia. Non sarebbe caro per l’Erario? Il nostro progetto costerebbe tra i 14 e i

16 miliardi di euro. Come si recuperano? Si possono rimodulare gli scaglioni, introdurre una maggiore gradualità, va da sé attraverso la lotta all’evasione fiscale e i tagli alla spesa pubblica improduttiva. Senza dimenticare che su quello che le famiglie comprano, ci pagano l’Iva. Qual è la situazione in Italia? Ancora oggi troppe donne perdono il posto quando hanno il secondo figlio. Responsabilità le ha anche il sindacato, che si concentra solo sulla protezione del lavoro dipendente. Mancano gli asili. Certo, tanto che il livello del 33 per cento previsto dall’Agenda di Lisbona resta una chimera. Eppure si potrebbe guardare a forme più flessibili come gli asili condominiali o il Tagsmutter, un servizio nel quale una madre si occupa a casa sua di altri 4 o 5 bambini oltre al suo. Eppoi il monte totale degli assegni familiari viene usato dall’Inps per altri scopi, i prestiti d’onore di fatto non esistono, per non parlare dell’atteggiamento delle banche. Il governo ha rifatto la social card. È una politica emergenziale, non strutturale. E non mi sembra che sostenga principalmente la famiglia.


politica

pagina 8 • 6 agosto 2009

Scandali sessuali. Secondo l’ex esponente del Pdl, il premier sarebbe un «porco che ha corrotto la femminilità italiana»

Il Quirinale smentisce Guzzanti Napolitano respinge l’accusa di aver spinto i direttori dei giornali a non pubblicare alcune intercettazioni “scabrose” di Berlusconi di Gaia Miani

ROMA. «È assolutamente pri-

del contenuto incriminato. Oltre a specificare di essere «tra quelli che pensano e anzi sanno che davvero tutto è politico, che la vita privata di una persona pubblica è pubblica e che si risponde di tutto», Guzzanti scrive di aver lasciato Berlusconi anche «per il suo atteggiamento puttaniero di disprezzo per le donne, tutte le donne, essendo un gran porco e una persona che ha corrotto la femminilità italiana schiudendo carriere impensabili a ragazze carine che hanno imparato solo quanto sia importante darla alla persona giusta al momento giusto, sollecitate

va di fondamento l’insinuazione, riferita da Paolo Guzzanti, secondo la quale il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, avrebbe sollecitato non si sa quali direttori di giornali a non pubblicare taluni atti giudiziari che sarebbero in loro possesso». Dopo una giornata di polemiche, in serata arriva la nota del Quirinale che smentisce quanto scritto dall’ex-esponente del Pdl (ora deputato iscritto al gruppo Misto della Camera per il Pli) sul suo blog.

Guzzanti aveva affermato di essere eventualmente pronto a recarsi dal magistrato per testimoniare sull’esistenza di intercettazioni di Silvio Berlusconi eseguite nell’ambito dell’inchiesta di Napoli e fatte distruggere a Roma, in cui il premier parla della sua attività sessuale con «persone che ora ricoprono altissime cariche». Secondo Guzzanti «un famoso direttore ha mostrato e fatto leggere a un numero imprecisato di persone (deputati e deputate di Forza Italia per lo più) i verbali che tutti i direttori di giornali hanno, ma che avrebbero deciso di non usare su sollecitazione del presidente Napolitano». Da qui la secca smentita del Quirinale.

Per il deputato del Pli, il Cavaliere rovina la gioventù e mina le basi della società distruggendo il rispetto nei confronti della donna Sulla vicenda era intervenuto anche il presidente dei deputati dell’Italia dei Valori, Massimo Donadi, annunciando che l’Idv è pronta a presentare una denuncia alla magistratura perché indaghi su quanto afferma il deputato del Pli. Nel momento in cui scriviamo, il blog di Guzzanti è ancora inaccessibile (probabilmente per l’enorme numero di visitatori accorsi), ma il sito de L’Espresso aveva provveduto ad “appropriarsi”

in questo anche dalle madri, quando necessario. Quest’uomo ai miei occhi corrompe la gioventù e mina le basi della società minando il rispetto nei confronti della donna».

E ancora: «Ciò è avvenuto in concomitanza delle voci, che io ho potuto verificare come purtroppo attendibili (non prove, ovviamente, altrimenti le avrei presentate io), secondo cui un famoso direttore ha mostrato e fatto leggere a un

numero imprecisato di persone (deputati e deputate di Forza Italia per lo più) i verbali che tutti i direttori di giornale hanno, ma che avrebbero deciso di non usare su sollecitazione del Presidente Napolitano. Si tratta di trascrizioni da intercettazioni avvenute nell’ambito dell’inchiesta di Napoli e poi fatte distruggere da Roma, in cui persone che ora ricoprono cariche altissime si raccontano fra di loro cose terribili che la decenza e la carità di patria mi proibiscono di scrivere, anche se purtroppo sono sulla bocca di coloro che hanno letto i verbali. Io ne conosco almeno tre. Dunque io non ho molti dubbi su quanto è accaduto ed accade». Poi, rispondendo a un lettore che gli chiedeva ulteriori chiarimenti, Guzzanti va oltre: «Io dico, e lo confermo, che le cose che mi sono state raccontate da più fonti (e io sono uno dei mille e più di mille raggiunto dai dettagliati resoconti di chi ha letto) sono assolutamente disgustose: rapporti anali non graditi, ore e ore di tormenti in attesa di una erezione che non fa capolino, discussioni sul prossimo set, consigli fra donne su come abbreviare i tormenti di una permanenza orizzontale pagata come pedaggio. I dettagli sono centinaia e non sono io che li nascondo, perché io sono sol-

tanto uno cui alcuni lettori dei verbali (persone serissime, uomini e donne, tutti della stessa area di centro destra) hanno raccontato ciò che hanno letto, ovviamente con una massiccia concordanza dei dettagli stessi. Il giorno in cui un magistrato, lette queste mie parole, volesse interrogarmi per sapere da chi ho avuto queste relazioni e chi fosse il giornalista che ha fornito il materiale in lettura, farei il mio dovere e farei i nomi».

Una vicenda , secondo il deputato del Pdl (e legale di Berlusconi) Niccolò Ghedini, «che non merita alcuna attenzione né alcun commento». «Ricordo - continua Ghedini che i nastri che erano custoditi a Roma e poi distrutti su ordine della magistratura, non sono mai stati ascoltati né trascritti. La stessa magistratura napoletana giudicò tali bobine non pertinenti alla inchiesta poi trasmessa per competenza nella Capitale. Non si capisce come Guzzanti possa averli ascoltati, visto che neppure gli stessi magistrati li hanno mai ascoltati né trascritti. Insomma è una vicenda che si commenta da sola e io non voglio farlo». Secondo le agenzie di stampa, a Piazzale Clodio, ieri sera non era ancora giunta alcuna denuncia sulla vicenda.


N

a c q u e

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

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6 agosto(1868)

Paul Claudel

Poeta, drammaturgo e diplomatico francese. Scoprì la conoscenza come solidarietà

Alla ricerca della fede trovata di Francesco Napoli

a voce e la parola di Paul Claudel sembrano ancora oggi opporsi con forza anche all’uomo del XXI secolo. «Io non voglio morire, ma vivere!» seppe urlare contro la società degli uomini di fine Ottocento avvinta dalle maglie ormai sfibrate di un positivismo in rapida consunzione e un nichilismo materialista in arrivo. Ma chi è Paul Claudel? Nato nella provincia francese il 6 agosto del 1868, a Villeneuve-sur-Fère, era l’ultimo di quattro figli. Sua sorella, Camille, sarà una scultrice di nome. Il padre, un alto funzionario dello Stato, è costretto a muoversi in diverse sedi e la famiglia con lui fino al definitivo trasferimento a Parigi che avviene nel 1882. Al suo paese natale e al nonno materno resta profondamente legato e il giovane Claudel soffre e rimane scosso dalla lunga e penosa malattia del progenitore scomparso nel 1881. Se Villenueve lo ha visto nascere, è tuttavia Parigi che plasma la sua personalità. Gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza passati nella capitale coincidono con una traumatica crisi esistenziale sorta su un quesito per tutti sempre fondamentale, «chi sono io?», che il giovane Claudel si pone guardando e osservando la società parigina dei suoi tempi. In questo periodo, abbandonate le pratiche religiose di un’infanzia trascorsa in una famiglia comunque «indifferente alle cose di Chiesa», egli non ha saldi punti d’appoggio, cresce come un orso solitario e introverso. Chi gli vive intorno, però, famigliari e amici, non ha il benché minimo sospetto della crisi profonda che sta maturando nel suo animo. Le sue prime letture avvengono un po’ random, seguendo un istinto personale che lo avvicina ai romanzi di Emilé Zola e Victor Hugo, e in particolare a un’opera, La vie de Jésus di Renan, che gli trasmette una visione del mondo e della vita angosciosa e disperata che nel suo scoraggiato solipsismo non fa trasparire in alcun modo. Frequenta il liceo Louis Le-Grand dove a farla da padrone è il positivismo materialista continua a pag. II

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SCRITTORI E CIBI

LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA

CAPOLAVORI DI PIETRA

Il risotto di Gadda

Azincourt 1415

Il corridoio vasariano

di Filippo Maria Battaglia

di Claudia Conforti

di Massimo Tosti

pagine 4 e 5

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pagina 7

pagina I - liberal estate - 6 agosto 2009


di Taine e dello stesso Renan che inasprisce la sua crisi e la sua sentita inquietudine personale. L’ambiente e gli insegnanti lo colpiscono ma negativamente, lo stesso clima descritto con qualche astiosa rimostranza da Romain Rolland, premio Nobel nel 1915: «un positivismo materialista, piatto e grasso, spandeva il suo olio rancido sullo stagno dei pesci. Il piccolo gettato in acqua, nell’acqua sporca che lo accora, non osa, per il disgusto, chiedere aiuto (quale aiuto?), chiude la bocca e muore». Ma Paul Claudel non ha davvero alcuna intenzione di morire e a tutto ciò tenta di ribellarsi con una reazione centrata su pessimismo e rivolta.

Tutto gli diventa intollerabile, la morte e la vita, la solitudine e la compagnia, l’autorità e lo spirito critico. Comincia a cercare altrove risposte che diano appagamento a questa sua fame spirituale: simpatizza con il movimento anarchico del tempo e comincia a frequentare i famosi «martedì letterari» di Mallarmé. In quel salotto cultu-

rale conobbe e si legò a personalità quali Gide, Verlaine, Villiers de I’Isle-Adam, Rivière e con loro partecipò al grande progetto della «Nouvelle Revue Française», nata nel 1908, rivista letteraria di riferimento che occupò un ruolo guida nei dibattiti della società francese pur

zioni: rimane abbagliato, quasi folgorato. Si riconosce nel grande poeta suo conterraneo, si rivede nella medesima sostanziale solitudine, nell’anelito verso la verità e si rispecchia nel medesimo attaccamento al mondo e in un’attrazione liberatrice verso qualcosa di sconosciuto, superiore e ben più importante dello stesso essere umano. Claudel ha imparato in questo modo a respirare, a dar voce e spessore alle sue domande interiori nella consapevolezza della vacuità dell’animo umano che fa di ogni persona un essere condannato alla perpetua insoddisfazione.

Frequenta i «martedì letterari» di Mallarmé. Conosce e si lega a Gide, Verlaine, Villiers de I’Isle-Adam, Rivière e con loro partecipa alla rivista «Nouvelle Revue Française» restando, di fatto, un autore slegato da qualsivoglia movimento letterario. Ma è l’incontro con l’opera e la vita di Arthur Rimbaud a dargli una prima ciambella di salvataggio nei marosi della crisi. Nel 1886 comincia a leggerlo, partendo da Una stagione all’Inferno e le Illumina-

pagina II - liberal estate - 6 agosto 2009

Una simile intuizione ha come esigenza primaria il bisogno di colmare il vuoto che esiste tra l’uomo e il soprannaturale, cioè «l’incarnazione del soprannaturale», come dice Clau-

del stesso. È questo il punto di partenza fondamentale del suo cammino verso la fede che troverà la sua piena maturazione nella conversione del Natale

1886. Colpito dal canto del Magnificat mentre assiste alla funzione dei Vespri nella cattedrale parigina di Notre-Dame, egli avverte il sentimento vivo della


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o stesso giorno... nacque

Non bello, non innamorato del cinema, sporco e cattivo. Preferisce fare a pugni con il mondo. Gli riesce così bene, che il mondo lo paga per fare il bruto, e ne fa una stella di Hollywood. A dodici anni ha già collezionato due espulsioni da scuola e altrettante da casa. di Francesco Lo Dico A venti ha nel carniere un arresto, un’evasione e parecchi incontri ndomito figlio di un portuale del nista nel ’44. Le da pugile professionista. Connecticut, Robert Mitchum na- catene della colpa sce nel 1917 a Bridgeport, in una lo trasformano in un terra piena di polvere. Non bello, divo, ma Robert non si non innamorato del cinema, sporco e monta la testa. Sul set di Oceano Rosso cattivo. Preferisce fare a pugni con il getta un manager nella Baia di San mondo. Gli riesce così bene, che il mon- Francisco e viene espulso. Ha molti fan, do lo paga per fare il bruto, e ne fa una e altrettanti nemici. Nel ’48 viene incristella di Hollywood. A dodici anni ha minato per possesso di marijuana. Si già collezionato due espulsioni da difende e viene assolto. Interpreta La scuola e altrettante da casa. A venti ha gang, L’avventuriero di Macao e Sedunel carniere un arresto, un’evasione e zione mortale. Gli anni ’50 e ’60 segna- po 57 anni di matrimonio, in mezzo ai parecchi incontri da pugile professioni- no un’escalation: fa lo psicopatico ne figli ormai maturi. «Sono una speranza sta. Fra tanti lividi un amore fatale, si La morte corre sul fiume, il dottore ma- per tutti. La gente mi guarda sullo chiama Dorothy. Ne fa la sua sposa, e la nesco in Nessuno resta solo e il pazzo schermo e dice: ’Se ce l’ha fatta quel sua svolta. In California fa il macchini- criminale ne Il promontorio della pau- coso lì posso farcela anch’io’», disse di sta, tre figli e le ore piccole. Diventa in- ra. Gli anni ’70 lo trasformano in un mi- sé. «Mitchum è l’anima del film noir», sonne e sempre più truce: diventa il più te ispettore Marlowe, gli anni ’80 in po- disse di lui il critico Roger Elbert. Canbel brutto ceffo dei b-movies. Ironia co più di un cameo, i ’90 in poco più di tava benissimo ma lo sanno in pochi. della sorte, deve il salto definitivo a I un attore di miniserie televisive. L’ani- Divo a progetto e rabbioso a tempo inforzati della Gloria: non attore, viene ma noir l’aveva lasciato da tempo. Il determinato. Anima fiera e selvaggia. candidato a miglior attore non protago- corpo lo lascia in un’estate del ’97, do- Pugni di ferro e ugola d’oro.

Robert Mitchum canzoni e sregolatezza per l’anima del film noir

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Lo scrittore Paul Claudel. A sinistra è con due attrici del “Soulier de Satin”, Mony Dalmès e Claude Nollier. Sotto la nipote Dominique che fu fidanzata con Vittorio Emanuele di Savoia

presenza di Dio: «in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti (…) semplicemente perché ero io e perché era Lui». Ma è come se la chiamata non avvenne solo con il ritrovamento della fede, indirizzandosi anche alla scrittura in quanto l’attività letteraria nasce in quello stesso frangente e poggia dunque le sue fondamenta sulla acquisita certezza della presenza divina e la risposta a quell’anelito condiviso con Rimbaud: «il grande libro che mi s’era aperto era la Chiesa».

L’avvenuta conversione, dunque, non è un mero accadimento intellettualistico. Nella sua Art Poetique Claudel attribuisce un significato del tutto originale alla parola conoscenza (connaissance = conaissance), e cioè “nascita con”, egli acquista la consapevolezza della solidarietà che lega l’uomo a tutto il creato in una trama di rapporti. Claudel mostra una solida continuità tra la ritrovata fede e l’arte e in una conferenza del 1927, a Baltimora, dal significativo titolo «Religione e poesia», ha una posizione illumi-

nante a riguardo della relazione esistente tra la scrittura e la fede: «Non si può capire una cosa, non si ha alcun mezzo per servirsene in modo adeguato, se non si capisce ciò che questa cosa è chiamata a fare e a significare, se non si capisce la posizione, nella comunione totale delle cose visibili e invisibili, se non se ne ha un’idea generale, se non se ne ha un’idea universale, se non se ne ha un’idea cattolica (…) anche per il semplice volo di una farfalla ci vuole un cielo intero. Non si può capire una margheritina nell’erba, se non si capisce il sole tra le stelle». L’amore divino gli si è già rivelato nell’armonia universale e a lui non resta altro che accoglierlo, abbandonarsi ad esso facendo sì che attraverso l’intelligenza e la volontà umane esso viva e si dispieghi in ogni angolo dell’esistenza. L’arte allora sarà la parola che crea, la parola che canta la gloria di Dio: l’artista sarà colui che ricrea, riconosce, riunisce. Metterà in pratica questa rinnovata dottrina nelle Cinq Grandes Odes (1904-1908) dove, consapevole che la sua parola conasce al mondo, ripercorre il suo cammino di fede dando li-

bero sfogo al suo entusiasmo per la trovata comunione col mondo e con Dio. Con le Odi è fissata la poetica claudeliana che resta comunque punto di partenza per ogni forma artistica da lui toccata: la vocazione propria del poeta è accogliere l’essere e restituire l’eterno.

Avvicinato anche dalla critica italiana ai grandi francesi come Mallarmé e Rimbaud, i fari della poesia moderna e contemporanea, Paul Claudel non ebbe una

In Italia, ad esempio, lo stesso Carlo Bo, nume e voce di prima grandezza nella critica letteraria cattolica, ebbe nei suoi confronti un atteggiamento oscillante tra un giudizio non proprio lusinghiero della sua opera, «in generale i suoi testi sono come delle preghiere lontane e inutili», e lungimiranti parole, «verrà un giorno, ma lontanissimo, in cui si potrà avere una giusta idea dell’enorme valore del suo lavoro», relegandolo però «fuori dal gioco dei nostri movimenti». Carlo Bo gli preferì dunque più un Gide o un Rivière. Nella vita di tutti i giorni Paul Claudel fu un diplomatico che dal 1890 girò tra Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone, forse il paese che maggiormente lo colpì, e poi ancora Brasile e Italia. Dopo il suo ritiro dall’attività avvenuto nel 1935, nel suo castello di Brangues dedicherà la maggior parte del suo tempo a esplorare i segreti e i misteri di quella che per lui è la fonte di ogni poesia: la Bibbia. Moltiplica i suoi commenti alla Scrittura, da poeta più che da teologo, applicando la forza delle sue intuizioni a indagare con sempre maggior forza il mistero divino. Scaturiscono opere esegetiche come

Colpito dal canto del Magnificat mentre assiste ai Vespri a Notre-Dame, Claudel avverte il sentimento vivo della presenza di Dio: «In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti (…) semplicemente perché ero io e perché era Lui». E con la fede trovò una nuova scrittura fulgida considerazione da parte della critica che avvertiva un certo disagio verso questa figura che aveva ritrovato entusiasmo dalla sua conversione, un sentimento bollato come il tipico del neofita e del convertito. Questo atteggiamento che si riverbera anche nelle sue opere non è stato compreso, anche in ambiti culturalmente prossimi.

L’Introduction au Livre de Ruth (1937), Un poète regarde la Croix (1938), Le Cantique des Cantiques (1948-1954), Les Psaumes (1949), L’Evangile d’I(1951), L’Apocalypse sdie (1952), per non ricordare che i più famosi. Non solo a questo si limita però la produzione letteraria del Claudel di questo periodo: viene come colpito da una sorta di bulimia della scrittura, con la paura di non riuscire ad esprimere tutto quello che vorrebbe dire si adopera in un’intensa attività pubblicistica con numerosi articoli sulla politica, sulla letteratura, sulla musica, sulla scienza.

Ma è la storia dell’arte e la pittura, forse per un rinnovato rapporto con la sorella Camille, ad attrarlo. Ne derivano studi su Rubens e Rembrandt, quest’ultimo scoperto durante un suo soggiorno in Belgio. In questi ultimi anni si vede finalmente riconosciuto un consenso da parte della critica e del pubblico come fino ad allora mai era riuscito ad avere. In particolare è la sua opera teatrale (La crisi meridiana del 1906, L’Annuncio a Maria del 1912 e La scarpina di raso del 1929) a essere sempre più rappresentata e applaudita, imponendosi sulle scene europee. Nel 1946 l’Accademia di Francia gli spalanca finalmente le sue porte ed è nel momento di maggior notorietà che, nel 1955, muore per una crisi cardiaca: viene seppellito a Brangues e sulla sua tomba verrà posto l’epitaffio che egli stesso aveva scritto: «Qui riposano i resti e la semenza di Paul Claudel».

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SCRITTORI E CIBI

GADDA un appetito da fare invidia a Pantagruel L’Ingegnere più amato della nostra letteratura aveva nel sangue il risotto alla milanese. Ma non solo... di Filippo Maria Battaglia

A

lla romana e alla milanese, alla siciliana e alla toscana, alla mensa dell’esercito e al tavolo dei nobili, come ha scritto Massimo Novelli, «la fame di Gadda è omnicomprensiva: se da un lato è fame letterario-esistenziale, dall’altro si svela, da copione, fame autobiografica nella risicata età scolare, si sa, penosa e penata, e fame della guerra 1915-1918». Si riflette così, quale riverbero inevitabile, anche sulla sua opera, non solo quella più strettamente autobiografica. Si mangia tanto, nei libri di Gadda, anzi: «si mangia troppo!». Questa è l’accusa che il dottore nella Cognizione del dolore muove al protagonista, don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, «la cui cupidigia di cibo, ad esempio, era diventata favola». Fuor di romanzo, e dunque fuor di metafora, l’appetito dell’Ingegnere più amato della nostra letteratura sfiora quasi la dimensione pantagruelica. È lui stesso ad ammetterlo in una lettera datata 1928 e indirizzata ad Alberto Carocci. Una debolezza ammessa sempre con il tono fané ed ironico della sua

scrittura: «Dio mi ha inaspettatamente ma giustamente punito della mia gola, della mia avidità, della mia rapacità di Vitellio». Gadda confesserà pubblicamente i suoi punti deboli, ed insieme ad essi dimostrerà una straordinaria competenza, in un breve racconto culinario tratto dalla rivista dell’Eni Il gatto selvatico, pubblicato nell’ottobre del 1959.

Protagonista indiscusso è il risotto alla milanese, la cui preparazione richiede un vero rituale che inizia ben prima della cottura. Come un paziente direttore d’orchestra, l’autore della Cognizione del dolore si muove innanzitutto dall’elemento centrale del piatto, il riso. Raccomanda che deve essere «di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente “sbramato”, cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina.

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Lo scrittore ha sempre ammesso, con il tono fané ed ironico del suo stile, la sua debolezza: «Dio mi ha inaspettatamente ma giustamente punito della mia gola, della mia avidità, della mia rapacità di Vitellio» Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo l’aurato battesimo dello zafferano».

Ma il riso, va da sé, non basta. Occorre anche il pentolame adeguato. Qui Gadda raccomanda il «recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese», ovvero la casseruo-

la rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: «la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del “rame” o dei “rami” di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici “interni”», ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio». Ora, finalmente, si può iniziare a cucinare: «la casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per

una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe». Di quest’ultimo ingrediente, quantum prodest, «udito il numero de’ commensali». L’attenzione deve riversarsi «al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira».

Il rituale, ammonisce lo scrittore va seguito con una certa attenzione. L’obiettivo è che «i chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria “personalità”: non impastarsi e neppure aggrumarsi».


LA RICETTA = RISOTTO ALLA MILANESE

(PER 6 PERSONE) 400 g di riso 50 g di midollo di bue 1 cipolla 20 pistilli di zafferano 1,5 l di brodo di carne 100 g di burro 100 g di formaggio grattugiato Affettate sottilmente la cipolla e mettetela in una casseruola con 50 g di burro ed il midollo di bue sbriciolato. Lasciate rosolare a fuoco basso, mescolando per circa 10 minuti e facendo attenzione a non far colorire la cipolla. Nel frattempo mettete in una tazza i pistilli di zafferano e versatevi mezzo litro di brodo bollente. Eliminate la cipolla ed aggiungete il riso: fatelo tostare per qualche minuto rimestando con un cucchiaio di legno. Unite 2 mestoli di brodo bollente e mescolate. Coprite con un coperchio e lasciate che il riso assorba il brodo. Aggiungete il resto del brodo, 2 mestoli alla volta, aspettando man mano che venga completamente assorbito. Il risotto sarà pronto in circa 20 minuti. Togliete la casseruola dal fuoco, incorporate il burro rimasto e la metà del formaggio. Mantecate per un paio di minuti, versate il risotto in un piatto da portata e servitelo con il restante formaggio a parte.

Per raggiungere lo scopo, l’attenzione deve essere tutta rivolta al burro. «Quantum sufficit, non più, ve ne prego», ripete Gadda, dato che «non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo».

Torniamo adesso al riso, che «ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella “marginale”, che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore». Per otto persone, suggerisce Gadda, la quantità ideale è due cucchiaini da caffè. E poi il colore, altro elemento decisivo del piatto: «Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-

ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino». L’importante, osserva lo scrittore, «è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro “risotto alla milanese” ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline». Per il brodo, invece, ci si dovrà procurare «un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta», ironizza Gadda, lasciando intendere che per il risultato che se ne ottiene ne vale davvero la pena. Ma occhio a «non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli

ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!».

Qui la scelta è davvero radicale ed intransigente. Non ammette repliche, l’Ingegnere, che invece è disposto ad accettare qualche variante, ma sempre con ragionevole moderazione: «Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si

adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione».

La meticolosa preparazione, però, è a rischio fallimento se non si bada ad un elemento essenziale: la cottura. «Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza». Gli ultimi suggerimenti vanno all’uso moderato del parmigiano grattuiggiato («è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi») e a qualche altra variante caldamente sentita dallo scrittore meneghino. Poche, le sortite tollerate: «Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose

fatte, a festa consunta». Ammesse solo perché «né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese». Il piatto è pronto. A questo tipo di cucina deve aver pensato il povero Don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino quando sua madre nella Cognizione del dolore le spiattella davanti una minestrina, sciapa e fatta alla svelta. Un risotto vero, un risotto doc, magari servito dal «reverente frac» del cameriere, in un ristorante a modo e in compagnia di tante prime lame della società che conta, che parlano di affari e di alta finanza, ma soprattutto che ordinano, a coro unisono e «con perfetta serietà “un ossobuco con risotto”». Annaffiarlo con un buon vino è d’obbligo, evitando magari quello che il vecchio Zavattari beve con cupidigia nell’Incendio di via Keplero, «come fosse nettare ambrosio, quel panerone rosso, maturato su a ferragosto dalle cantine della Martesana, che gli lasciava due millimetri di una polta violacea sulla lingua barbugliosa». Panerone, spiega più avanti Gadda, è «nel gergo dei bevitori, d’un vino corposo e di molto tinto, il quale non manchi di deporre sulla lingua dei buongustai la desiderata fanghiglia». No, il risotto alla milanese non meriterebbe un simile oltraggio. Chi avrebbe poi il coraggio di sostenere lo sguardo arcigno dell’Ingegnere?

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LE GRANDI BATTAGLIE Lo scontro combattuto nel nord della Francia era stato originato da ragioni dinastiche. Dopo la morte di Filippo il Bello, sul trono francese erano saliti i suoi tre figli Filippo V Luigi X e Carlo IV, ma nessuno di loro ebbe una discendenza maschile d Azincourt (nel nord della Francia, quasi al confine con il Belgio) fu combattuta, nel 1415, una battaglia che – a giudizio di moltissimi studiosi – merita un posto importante nei libri: per ragioni militari, ma anche storiche. Francesi e inglesi si combattevano ormai da quasi ottant’anni, e la guerra si sarebbe protratta per altri quarant’anni scarsi.

DELLA

AZINCOURT 1415

Nasce l’era moderna

A

Non a caso, quel conflitto è conosciuto come Guerra dei Cent’anni (furono, in totale, centosedici: un’enormità, come se oggi due Nazioni incrociassero le armi senza ancora aver risolto una disputa cruenta avviata alla fine del XIX secolo). In quel lasso di tempo l’Europa cambiò profondamente il proprio volto, passando dal periodo più buio del Medioevo (segnato anche dalla peste nera che, fra il 1346 e il 1350, ne ridusse di un terzo la popolazione, da 40 a 25 milioni) all’inizio dell’Era moderna, che per convenzione viene datato al 1492, data della scoperta dell’America, ma che di fatto si aprì con la pace fra Parigi e Londra e con la nascita delle coscienze nazionali. Tutto era stato originato da ragioni dinastiche. Dopo la morte di Filippo il Bello si erano avvicendati sul trono di Francia, fra il 1314 e il 1328, i suoi tre figli Luigi X, Filippo V e Carlo IV (ultimo re capetingio), nessuno dei quali ebbe una discendenza maschile. Un’assemblea di baroni e vescovi conferì allora la corona a Filippo VI, figlio di Carlo di Valois (che era il fratello di Filippo il Bello), escludendo dal-

Lì, quasi al confine con il Belgio, la svolta della Guerra dei cent’anni di Massimo Tosti

la successione – con argomenti che nei secoli successivi avrebbero trovato un fonda-

In quel lasso di tempo l’Europa cambiò profondamente il proprio volto, lasciandosi alle spalle per sempre il periodo più buio del Medioevo mento nella legge salica – tutte le figlie dei precedenti sovrani e in particolare Isabella, figlia di Filippo il Bello e moglie di Edoardo II d’Inghilterra e madre di Edoardo III. Il conflitto dinastico venne alla luce nel 1337 allorché, in rispo-

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sta al tentativo di Filippo VI di sequestrare i feudi inglesi in Aquitania, Edoardo III si proclamò re di Francia. C’era dell’altro, naturalmente. La corona inglese aveva appoggiato le città della Fiandra in rivolta contro Carlo di Valois e cercato di svincolare la Bretagna dal vassallaggio nei confronti della corona francese.

La prima fase del conflitto fu favorevole agli inglesi – che ottennero brillanti vittorie campali a Crecy e Poitier e occuparono Calais, che sarebbe rimasta inglese per altri due secoli – e si concluse con il trattato di Bretigny (1369). Nei dieci anni seguenti i Valois riuscirono a riprendere quasi tutti i territori perduti, ma nell’ultimo decennio del secolo Carlo VI manifestò i segni della sua follia che finirono per aprire profonde lacerazioni all’interno del Paese fino a degenerare in una

vera e propria guerra civile scoppiata nel 1407, tra le fazioni dei borgognoni e degli armagnacchi. Il disordine interno e la mancanza di un’autorità centrale aprirono la strada a una nuova invasione inglese. Le campagne militari del Medioevo – a differenza di quelle moderne – non avevano lo scopo di incontrare l’esercito nemico e di sfidarlo a battaglia, quanto piuttosto quello di devastare il territorio e procurarsi bottino dalle popolazioni inermi che erano le vittime principali. Nel 1415, ad Azincourt, Enrico V di Lancaster sgominò 30mila francesi schierando 2.500 uomini d’arme e 8mila arcieri. Questi ultimi furono determinanti. Imbracciavano il longbow, l’arcolungo, capace di penetrare qualsiasi corazza da una distanza di 200 metri, come le migliori balestre genovesi, ma con una cadenza di tiro molto

STORIA

maggiore. Trentotto anni dopo (quando si concluse la guerra dei Cent’anni) si erano già affacciate sulla scena bellica le prime armi da fuoco; la guerra da contesa dinastica si era trasformata in guerra di popolo; i rituali cavallereschi erano stati cancellati definitivamente. Ad Azincourt andò fallito il tentativo di riporre le armi: l’andirivieni di araldi fu bruscamente interrotto quando i Francesi chiesero agli inglesi di rinunciare alla corona di Francia. Su ordine di Enrico V, un vecchio maresciallo dell’esercito cavalcò con lo stendardo davanti alle file degli arcieri per impartire ad essi le ultime istruzioni. Poi il re ordinò: «Avanti o bandiera! In nome di Dio Onnipotente, e che San Giorgio sia oggi il tuo aiuto». Ogni soldato si inginocchiò, fece il segno della croce, baciò la terra e ne mise una zolla in bocca: poi i tamburi rullarono e l’esercito inglese avviò la sua marcia. I Francesi non furono in grado di rispondere colpo su colpo: anche loro avevano gli arcieri, ma i nobili non accettarono di cedere la prima linea ai balestrieri; si misero in prima fila, impedendo ai tiratori di svolgere il proprio ruolo con la necessaria tempestività. I campi arati erano inzuppati di pioggia e quando la cavalleria francese partì alla carica si trovò impantanata e sotto il tiro degli arcieri.

Gli inglesi non potevano immaginare che – quindici anni più tardi – Dio Onnipotente avrebbe cambiato schieramento. La rivincita francese si sarebbe concretizzata con la discesa in campo di una contadina diciassettenne, Giovanna d’Arco, capace di trascinare i soldati alla riscossa sotto la sua guida mistica. Il delfino Carlo VII, figlio del pazzo, descritto dagli storici come una specie di travicello (gli inglesi lo soprannominarono Re di Bourges), sempre incerto sul da farsi, ebbe bisogno della spinta della Pulzella per riscoprire il proprio orgoglio e quello di una nazione intera. Fu incoronato a Reims nel 1429, ma poi ebbe paura di seguire Giovanna fino a Parigi. Riappacificatosi nel 1435 con i borgognoni, Carlo VII sconfisse ripetutamente gli inglesi che, dopo la caduta di Bordeaux, dovettero abbandonare la Francia, conservando solo Calais. Attraverso le guerre civili che l’accompagnarono in Francia e la seguirono in Inghilterra (la guerra delle Due Rose) la Guerra dei Cent’anni ebbe l’effetto di indebolire i ceti nobiliari e di rafforzare le strutture statali facendo inoltre prendere coscienza a entrambe le parti in lotta delle proprie peculiarità nazionali.


CAPOLAVORI DI PIETRA gli inizi del 1565 nelle cancellerie europee si diffonde la notizia degli accordi matrimoniali tra il duca di Toscana Cosimo I de’ Medici e Massimiliano II d’Asburgo per l’unione del principe ereditario Francesco con Giovanna, sorella dell’imperatore. Le nozze, fissate in dicembre, chiameranno a Firenze i principi d’Europa che resteranno stupiti dalla magnificenza dei Medici, tale da riscattarne la recente e contestata ascesa al potere. Come accade oggi per le Olimpiadi, la città e l’architettura sono rinnovate in funzione dell’evento. Viene riconfigurato il cortile di palazzo Vecchio con vedute di città, motti e medaglioni in stucco, tratti dalla numismatica antica, che celebrano l’unione tra l’Austria e Firenze; piazza della Signoria si dota di una fontana monumentale, dove il colossale Nettuno di Bartolomeo Ammannati celebra la flotta toscana potenziata dall’Ordine cavalleresco di Santo Stefano, fondato a Pisa dal duca per proteggere i mercantili toscani dai pirati saraceni.

A

In funzione delle nozze si costruisce anche un formidabile percorso aereo di collegamento tra palazzo Vecchio e Pitti, le due residenze ducali sulle sponde opposte dell’Arno. Lungo oltre ottocento metri, questo tragitto che sovrasta la città, prende il nome di Corridoio vasariano dall’architetto Giorgio Vasari che lo ideò e ne curò l’eccezionale costruzione, compiuta in soli cinque mesi. Sotto il profilo tipologico questa architettura aerea gode di una tradizione risalente ai palazzi imperiali romani; rinnovata nel Rinascimento, ebbe grande notorietà grazie al passetto tra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, che consentì a papa Clemente VII di sfuggire ai Lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527. A Firenze il percorso sopraelevato si rende necessario poiché le due residenze granducali, teatro entrambe del cerimoniale nuziale, ma distanti circa un chilometro e separate dal fiume, rischiavano di restare isolate in caso di alluvione o di tracimazione delle acque del fiume, fenomeno non raro nella stagione invernale. Come quando, pochi anni prima, nel 1557, una terribile alluvione abbatté i ponti sull’Arno, sommerse ponte Vecchio (l’unico che resistette) e lasciò la città spezzata in due. Per scongiurare il ripetersi dell’eventualità, Cosimo sollecita il suo architetto di fiducia, Giorgio Vasari appunto, di predisporre velocemente un progetto che, attraversando in quota buona parte della città, sia in grado di trasformare le due re-

VECCHIO E PITTI Francesco de’ Medici e i reali d’Amburgo uniti dalla costruzione di Vasari

Un matrimonio e un corridoio di Claudia Conforti

doio penetra nel corpo vivo delle povere abitazioni soprastanti le botteghe, allora dei beccai, oggi degli orefici, sul lato orientale di ponte Vecchio. Questa parte della costruzione trovò non poche opposizioni tra i proprietari, le cui case furono brutalmente scoperchiate dagli sbirri di Cosimo, affinché il cantiere procedesse senza intoppi. Riuscì ad evitare che il corridoio penetrasse nel vivo della sua proprietà solo la nobile famiglia Mannelli, la cui torre medievale, sulla spalla meridionale del ponte, come si vede ancora oggi, è perimetrata, ma non attraversata dal viadotto ducale. Dopo il superamento di alcune strade, l’attraversamento della chiesa di Santa Felicita, con relativo affaccio, e quello delle case dei Guicciardini, il corridoio approda nel giardino di Boboli, a ridosso della grotta Grande, da dove raggiunge gli appartamenti di Pitti.

Anche da questa sintetica descrizione il corridoio rivela la volontà di suscitare nei sudditi e nei forestieri ammirazione e meraviglia per l’ardimen-

In ogni istante del giorno e della notte i fiorentini dovevano essere consapevoli dello sguardo intimidatorio del duca e del suo dominio sulla città

Arrivo a Pitti del Corridoio visto da un oculo sidenze ducali in un’unica reggia articolata su scala urbana.

Il corridoio prende le mosse dagli appartamenti ducali, al piano nobile di palazzo Vecchio poi, sovrappassata via della Ninna tra il palazzo e gli Uffizi, allora in costruzione, si dispiega sulla sommità degli Uffizi, nella lunga loggia dove verrà esposta la collezione ducale di statue antiche. Dopo un tratto issato sulle arcate che costeggiano l’Arno, il corri-

L’evento nuziale richiamerà a Firenze i principi d’Europa, che resteranno stupiti dalla magnificenza della famiglia Medicea mostrata per l’occasione

to ideativo e tecnologico, che manifesta il potere del duca e il suo diretto dominio sul corpo vivo della città. In ogni istante del giorno e della notte i fiorentini dovevano essere consapevoli dello sguardo protettivo e intimidatorio che il duca, invisibile, indirizzava loro dall’alto: uno sguardo simbolicamente evocato dai 42 oculi che, in origine, traforavano le pareti dello stupefacente percorso aereo lanciato sui tetti della città. La metamorfica capacità del corridoio di dissimularsi nel tessuto edilizio e la sua esclusività funzionale, riservata strettamente alla cerchia ducale, ne hanno fatto nel tempo oggetto di leggende nere, legate a morti misteriose e ad amori clandestini, prive di fondamento storico. Il corridoio, che oggi espone gli autoritratti degli artisti, si rivelò invece un segreto vitale per i partigiani negli ultimi mesi dell’occupazione dei nazisti, che nell’estate del 1944 fecero saltare tutti i ponti di Firenze, tranne ponte Vecchio, risparmiato in quanto prediletto da Hitler.

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ORIZZONTALI 1 Iniz.. di Menotti n 3 Il “mezzo” di Zeno

CRUCIVERBA

di Pier Francesco Paolini

Il sergente nella neve

Colò n 6 Nonno di Edipo n 13 Richiesta di soccorso n 16 Iniz. di Giolitti n 18 Film di Claude Lelouch n 23 Le belle xxxx / del vostro sangue (Leopardi) n

n

24 Bevanda

25 ...cominciar con fiera xxxxx / a tirar

archi e a menar lance e spade (Orl. Fur. C. 26) n 26 Il poeta di Ossi di seppia (iniz.) n n

27 Fiume della Russia

n

28 Xx fu...

29 Due dipartimenti del Guatemala, Alta

e Baja... n 32 Xx xxxxx al panico n 35 Nichelio n 36 ...e un’aura dolce movendo quei fiori e gli xxxxx... (Carducci, Sogno n

d’estate) n

38 Teatro

41 L’xxxxx fenice

n

n

40 Rovigo

43 Il morbo della

mucca pazza n 44 Piante velenose delle aristolochiacee n 46 Scrisse Il Sergente nella neve n 49 Blandire n 52 “xxxxx impetus” (impeto dissennato—Lucrezio) n

53 Colpevoli n 54 Punta..., aeroporto di

Palermo n n

n

55 Iniz. del regista Ioseliani

56 Dolori

n

58 Ne è capitale Lhasa

60 Carolina del Nord n 61 Callas e Tebal-

di n 64 Stoffa di lana molto pelosa (var.) n

66 Xx Pacino n 68 Pungente n 70 Secon-

do n

n

71 Curva del fiume

n

73 Bon xxx

vocale “blu” e la “nera” in Rimbaud n

82 Cio-cio-xxx

n

84 Xxx Barbare n 85 Aosta

n

83 Pittore olandese

VERTICALI 1 Gli anori pastorali di Dafni e Xxxx di Longo Sofista

n

2 Ha riportato sulla scene

Chicchignola di Pratolini n 3 Scrisse Senilità n 4 Xx ne fossero! n 5 Zuppi n 6 Lucca n 7 Opera del Sannazzaro n 8 ...il raggio tuo fra macchie o xxxxx o dentro / a deserti edifici... (Leopardi) n 9 Nostra Xxx di Bontempelli n

n

10 Edmonda... attrice

11 Città della Normandia n 12 Iniz. di

Vergani n 13 Di Sem, di Cam e di Giapeto il xxxx (Leopardi) n 14 Xx ne badine pas avec l’amour di De Musset n 15 Dinastia scozzese n 16 U.K. n 17 L’Abate del Socrate immaginario n 19 Iniz. del poeta Magrelli n 20 Tea for Two canzone n 21 Balconcino n 22 Antica città sull’Eufrate n 30 Le casse dello Stato n 31 Personaggio del Mercante di Venezia n 33 Xxxxxxxxx mari e monti n 34 Il regista di Mai di domenica n

37 ...i Xxxx e’ Fabi / ebber la fama... (Pa-

rad. VI) n 39 Città russa che vale “Aquila” n

42 E quando dal nevoso xxxx inquiete /

tenebre... (Foscolo) n 43 Xxxxxxx delle montagne di Dino Buzzati n 45 Pseudonimo di Josè Martinez Ruiz n 47 La xxxx scienza n

48 Inzuppato n 50 Città dell’Isola di Fio-

nia n 51 Xxxxxx Naria Rilke n 57 Le tre Forcidi n 59 Xxxxx turchi n 62 Xxxx della Tortilla di Steinbeck n 63 La Xxxx, dramma di D’Annunzio n

n

65 Quantità imprecisata

67 Figlio del 6 or. n 69 Dio del sole egi-

zio n 72 Xxx Benelli (La cena delle beffe) n

QUIZ LETTERARIO

74 Antica danza n 76 Una fiaba n 81 La

75 Le sorelle oceanine / che ancor pian-

CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? .................................... (1794-1795)

DI QUALE ROMANZO DEL 1913 È QUESTO INCIPIT

lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava di essere io stesso quello di cui il libro si occupava; una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V. Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi, impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa. Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di una esistenza anteriore dopo la metempsicosi; l’argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recuperavo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un’oscurità che era dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente, alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come qualcosa di veramente oscuro. Mi chiedevo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni che, più o meno da lontano, come il canto d’un uccello in una foresta, dava risalto alle distanze, descrivendomi la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vicina, e il sentiero che percorre è destinato ad essere impresso nel suo ricordo dall’eccitazione che gli viene da luoghi nuovi e gesti non abituali, dai discorsi e dagli addii scambiati poco fa sotto una lampada straniera e che ancora lo seguono nel silenzio...

A

L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È: Pablo Picasso, “Bambina con una colomba” (1901)

Il cruciverba di ieri

gono per Xx... (D’Annunzio, Alcyone, “Innanzi l’alba”) n 77 Scrisse Luomo è forte (iniz.) n

78 Iniz. di Vittorini n 79 “Xx quel guerrier

io fossi...” n 80 Congiunzione

pagina VIII - liberal estate - 6 agosto 2009

LA SOLUZIONE DI IERI È: Thomas Mann “La morte a Venezia” (1912)

inserto a cura di Rossella Fabiani


mondo

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Analisi. La legge coranica non è inclusiva ma tende a inglobare tutto ciò che la circonda. In Inghilterra lo stanno scoprendo

La sharia resti fuori dall’Occidente di Daniel Pipes

Q

uelli di noi che argomentano contro la sharia talvolta si chiedono per quale motivo la legge islamica rappresenti un problema quando le moderne società occidentali molto tempo fa accolsero l’halachà o legge ebraica. La risposta è semplice: una basilare differenza separa queste due leggi. L’islam è una religione missionaria, il giudaismo no. Gli islamisti aspirano ad applicare la legge islamica a tutti, mentre gli ebrei osservanti cercano di vivere secondo i precetti della legge ebraica senza imporla ad altri. Due recentissimi esempi provenienti dalla Gran Bretagna dimostrano l’innato imperialismo della legge islamica. Il primo riguarda il Queens Care Centre (Qcc), un pensionato per la terza età che fornisce anche assistenza diurna agli anziani, nella cittadina di Maltby, famosa per i suoi giacimenti di carbone, 40 miglia ad est di Manchester. Attualmente, secondo il Daily Telegraph, nessuno dei 37 membri del personale o dei 40 residenti del centro è musulmano. Sebbene la direzione della casa di riposo parli di rispetto per le “convinzioni religiose e culturali” dei propri ospiti, Zulifikar Ali Khan (proprietario del Qcc dal 1994) quest’anno ha preso la decisione di acquistare la carne per l’istituto da un macellaio halal. La sua furtiva decisione implica che gli ospiti del pensionato non potranno più mangiare

uova e bacon, salsicce con purè di patate, panini al prosciutto e al bacon, tortini a base di carne di maiale tritata o rotolini di sfoglia ripieni di carne tritata.

Il cambiamento alimentare ha provocato una rabbia diffusa. Il parente di un ospite del Qcc l’ha definito «una vergogna. Le persone anziane che sono ospiti del pensionato e che stanno vivendo gli ultimi anni della loro vita meritano il meglio (…) è scandaloso che debbano essere private del cibo di loro gradimento per il capriccio di quest’uomo». Un membro del personale ha detto che è «del tutto sbagliato che qualcuno debba imporre le proprie convinzioni religiose e culturale ad altri, come in questo caso». Interrogato in merito alla decisione da lui presa, Khan, ha risposto dicendo di

ne halal, ma deve pensarci su a causa delle discussioni sorte in merito alla faccenda». Un secondo esempio di imposizione della sharia ai non-musulmani arriva dalla parte sudorientale dell’Inghilterra. La polizia di Avon e Somerset, che pattuglia le città di Bristol e Bath nonché le circostanti aree, ha da poco provvisto di hijab [il foulard che copre il capo] le agenti donne. Gli hijab, distribuiti su iniziativa di due gruppi musulmani e al costo di 13 sterline cadauno, arrivano completi dell’emblema della polizia. Ora, la distribuzione degli hijab come parti integranti delle uniformi britanniche non è una novità: nel 2001 la polizia di Londra fece da battistrada, seguita da altre forze di polizia, da almeno un corpo dei vigili del fuoco e perfino dalla catena di mobili Ikea. Ciò che distingue gli hijab in dotazione alla polizia di Avon e Somerset da quegli altri è il fatto che essi non sono esclusivamente destinati alle devote donne musulmane del personale, ma altresì a quelle che non sono musulmane: in particolare, il foulard va usato per accedere alle moschee. Rashad Azami della Bath Islamic Society trova «molto piacevole» che la polizia abbia adottato questo provvedimento. Una delle

L’ultimo caso (eclatante) viene da Manchester, dove il proprietario musulmano di una famosa casa di riposo ha proibito di servire agli ospiti il bacon aver ordinato l’acquisto di carne halal a beneficio del personale musulmano (inesistente). Egli è poi ritornato sui propri passi: «Ordineremo tutti i tipi di carne». Ed è arrivato al punto di ammettere che le convinzioni religiose non dovrebbero essere imposte ad altri. Il suo dietrofront non convince un ex membro del personale del Qcc, secondo il quale Khan «intenderebbe servire agli ospiti solamente pietanze a base di car-

sette poliziotte non-musulmane che ha ricevuto un hijab tutto suo, il vice-capo della polizia della contea Jackie Roberts, lo definisce «un’aggiunta molto positiva alle uniformi e di quelle che sono sicura sarà gradita a molte delle nostri agenti». La dhimmitudine è un termine coniato da BatYe’or per descrivere la subordinazione alla sharia da parte dei non-musulmani. L’entusiasmo per l’hijab da parte del vice-capo della polizia Roberts potrebbe essere definita come «una dhimmitu-

dine di livello avanzato». I “bulli dell’hijab” (come li chiama David J. Rusin di Islamist Watch) che obbligano le donne non-musulmane a coprirsi il capo sono solamente una frangia degli islamisti che impongono all’Occidente i precetti della sharia.

Altri focalizzano la loro attenzione sull’impedire discussioni incensurate su argomenti come Maometto e il Corano, le istituzioni islamiste o i finanziamenti ai terroristi; altri ancora tentano di avere scuole, ospedali e carceri col denaro dei contribuenti, conformemente alla legge islamica, per non parlare poi di taxi e piscine comunali. I loro tentativi non sempre vanno a buon fine, ma nel complesso essi stanno rapidamente cambiando le premesse della vita occidentale, specie di quella britannica.Tornando al maiale: tanto l’islam quanto il giudaismo detestano la carne di maiale; pertanto, questo divieto offre un raffronto diretto e rivelatore delle due religioni. In parole semplici, gli ebrei accettano che coloro che non sono ebrei mangino la carne di maiale, ma i musulmani si offendono e cercano di impedire il consumo di tale carne. A farla breve, ciò spiega perché l’adeguamento da parte del mondo occidentale all’halachà non ha nulla a che vedere con la sharia. E perché la legge islamica come politica pubblica deve essere osteggiata.


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Caos. Assenti tutti i riformisti dall’insediamento di Ahmadinejad ra nuovi arresti e contestazioni popolari, l’atteso giuramento è arrivato. Ieri, Mahmoud Ahmadinejad ha rinnovato la sua fedeltà alla religione islamica e ha quindi iniziato ufficialmente il suo secondo mandato presidenziale. La cerimonia si è svolta in un clima di fredda soddisfazione in seno al Parlamento di Teheran, quando fuori dal palazzo la folla di dimostranti veniva respinta per l’ennesima volta da polizia e basiji. Tensione e pericolo erano percepiti da ambo le parti. Dei 70 parlamentari riformisti, solo 13 hanno assistito all’evento. Assenti d’eccezione: i due ex presidenti, Mohammad Khatami e Akhbar Rashemi Rafsanjani, oltre che i candidati sconfitti da Ahmadinejad che stanno guidando le contestazioni in queste settimane, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi. A differenza di una qualsiasi cerimonia di insediamento, il presidente eletto è arrivato di nascosto ai palazzi del governo. Ha opportunamente evitato di mostrarsi in pubblico e di percorrere le strade di Teheran, dove certo non avrebbe raccolto applausi o consensi. È giunto infatti in elicottero, confermando di temere il popolo e di non volerlo affrontare. Il regime degli ayatollah, così facendo, allarga ogni giorno di più il solco che lo separa dalla società civile nazionale. Lo dimostra anche il discorso che Ahmadinejad ha pronunciato. Un discorso altamente retorico e cadenzato da parole quali «cambiamento», «resistenza all’oppressione delle potenze straniere», prosecuzione della politica di lotta «per cambiare i meccanismi discriminatori nel mondo a beneficio di tutte le nazioni». I destinatari del messaggio presidenziale erano, facile deduzione, gli Stati Uniti, Israele e l’intera comunità internazionale in merito alla questione nucleare.

F

L’Iran di Khamenei e Ahmadinejad ribadisce di non aver la minima intenzione di arretrare di un passo dai propri obiettivi. Del resto, da Occidente è giunto un messaggio altrettanto chiaro. Sia Obama che Sarkozy, infatti, hanno vo-

Iran, scontri di governo e piazza di Antonio Picasso

lutamente evitato di mandare le loro personali congratulazioni ad Ahmadinejad per la sua rielezione. Washington e Parigi hanno preferito limitarsi a riconoscere l’avvenuto insediamento. E la Clinton ha pubblicamente «ammirato» la resistenza dei riformisti.Tuttavia, per le opposizioni iraniane in esilio questo disconoscimento chiaro e netto del regime non è sufficiente. Laconica, a sua volta, la replica di Teheran. «Nessuno in Iran sta aspettando i vostri messaggi», ha detto lo stesso Ahmadinejad.Nel frattempo, fuori dai palazzi, protesta e repressione continuano. Lo stato di arresto, al quale sarebbero soggetti i tre cittadini statunitensi fermati domenica al confine tra Iran e Iraq, non ha avuto conferma. Ieri un porta-

voce del ministero degli Esteri di Teheran diceva che, in mancanza di notizie certe di cui sarebbe sprovvisto il suo stesso governo, non ci può esporre in dichiarazione di qualunque sorta. Al momento, quello che si sa è che si tratta di tre giovani giornalisti Usa, Shane Bauer, Sarah Shroud e Joshua Fattal, i quali essendo stati segnalati per i loro articoli “filo-

va il sito riformista Ghalamnews e che aveva diretto l’intera campagna elettorale dello sconfitto. Motivo dell’arresto di Hassanzadeh: aver svolto attività anti-governativa, appunto durante la corsa per le presidenziali. Contemporaneamente è finito dietro le sbarre anche Reza Nourbakhsh, capo redattore del quotidiano Farhikhtegan, il giornale della libera Università islamica che ha sempre sostenuto Mousavi. Un altro nome eccellente che compare nella lista degli arrestati è quello di Haleh Sahebi. Si tratta della pasionaria figlia di Ezatollah, l’ex direttore di IranFarda, il giornale del Movimento Nazionale per la Libertà. Ezatollah Sahebi, a suo tempo, era finito in carcere e lì torturato per volontà della

Proteste delle Ong per le esecuzioni che non si fermano. Impiccati infatti ieri a Teheran 24 presunti trafficanti di droga, che potrebbero essere oppositori sionisti” potrebbero rischiare di passare come spie. Ben più rilevante e accompagnato da maggiori informazioni è il fermo al quale è stato sottoposto uno dei più vicini collaboratori di Mousavi, Mir Hamid Hassanzadeh, lo stesso che cura-

Guida Suprema, Alì Khamenei, perché troppo vicino al leader Khatami.

Sul fronte delle violenze, sembra che il regime abbia trovato un alibi, che a suo giudizio può reggere, in merito al crescente numero di condanne a morte eseguite da metà giugno a oggi. Il fatto di impiccare continuamente trafficanti di droga sta cominciando a insospettire le poche organizzazioni umanitarie che ancora riescono a ricevere notizie direttamente dall’interno del Paese. Ieri, secondo la Iran Human Rights, 24 detenuti nel carcere di Karaj sarebbero stati giustiziati perché accusati e condannati di narcotraffico di eroina. L’episodio fa il paio con l’esecuzione di altre 20 persone avvenuta a metà luglio. Quello dell’eroina afghana spacciata in Iran è effettivamente un problema che affligge le autorità di Teheran, le quali ricorrono ai metodi più violenti e sbrigativi per reprimere il fenomeno. Tuttavia, la mancanza di un processo, come della pubblicazione dei nomi dei condannati e soprattutto il fatto che le esecuzioni non vengano più effettuate in pubblico, cosa che invece avveniva in passato, fa pensare che si tratti di oppositori politici al regime e non di delinquenti comuni. Concludiamo con il “caso Ashraf”. Anche nel campo iracheno centro di raccolta di molti iraniani in esilio, per lo più “Mujaheddin del Popolo”, che si trova appunto nella città di Ashraf, proseguono gli scontri. Dopo l’intervento delle forze di polizia per volere di Bagdad, adesso le notizie che ci arrivano dalla regione ci informano che sono molti gli attivisti iraniani in Iraq scomparsi. Si teme che siano stati espatriati e quindi caduti nelle mani del regime. È una repressione, quella che Teheran sta portando avanti, che trova spazio di manovra anche oltre i confini del Paese. Ashraf è un implicito ma concreto endorsement che il premier iracheno, Nouri al-Maliki, concede ad Ahmadinejad. Per ragioni di buon vicinato, ma forse anche per motivi di sicurezza politica personale.


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Il dialogo con la Corea «dipende soltanto da Pyongyang»

Il Cremlino auspica maggiore equidistanza della Nato

Clinton riporta a casa le due giornaliste: «Molto felici»

Mosca avverte gli Usa sugli armamenti alla Georgia

WASHINGTON. Un aereo priva-

MOSCA. Torna alta la tensione

to con Clinton e le giornaliste liberate grazie alla sua intermediazione è atterrato ieri al Bob Hope Airport, l’aeroporto di Burbank, un sobborgo di Los Angeles. Il blitz dell’ex presidente in Corea del Nord è durato 20 ore durante le quali Clinton ha anche incontrato il leader Kim Jong-il. Si è molto parlato del viaggio lampo di Clinton, che ha messo in allarme i governi dei Paesi confinanti con la Corea del Nord. Alcuni funzionari americani hanno precisato che a Pyongyang non sono state promesse contropartite specifiche in cambio della liberazione delle giornaliste e che la questione non è legata allo spinoso dossier del disarmo nucleare, circostanza confermata anche dalla moglie di Clinton, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, moglie di Bill, che ha aggiunto di sentirsi felice e sollevata. «L’abbiamo sempre considerata una questione totalmente separata dagli sforzi per convincere i nordcoreani a tornare al tavolo dei colloqui a sei e a lavorare per una denuclearizzazione della penisola coreana completa e verificabile». Un funzionario Usa ha detto che Clinton ha parlato con le autorità nordcoreane delle «cose positive che potrebbero scaturire» dalla li-

tra Usa e Russia a due giorni dall’anniversario della guerra tra Mosca e Tbilisi. La Russia ha accusato Washington e in secondo battuta l’Ucraina di continuare rifornire di armi la Georgia. Secondo il viceministro degli Esteri Grigori Karasin, «in base alle informazioni di cui disponiamo, le forniture di armi dagli Stati Uniti alla Georgia continuano». Karasin ha poi aggiunto, senza entrare nei particolari, che «questo ci preoccupa e ci spinge a prendere misure adeguate». Secondo il numero due della diplomazia moscovita «gli statunitensi non sono i soli fornitori di armi dell’esercito georgiano, che già abbiamo incontrato». Il riferimen-

Hillary all’Africa: «Dipende tutto da voi» Messaggio di Obama a sostegno del continente di Massimo Ciullo l tour africano del segretario di Stato Usa Hillary Clinton è iniziato dal Kenya, terra natale del presidente Barack Obama. In un incontro con i giornalisti a Nairobi, al quale hanno assistito anche diversi leader africani, Clinton ha parlato senza peli sulla lingua. «Un reale sviluppo economico in Africa dipenderà sempre più da governi responsabili che combattano la corruzione, rinforzino lo stato di diritto e ottengano risultati per il proprio popolo», ha detto l’ex-first lady. Il segretario di Stato non ha lasciato adito a fraintendimenti: l’economia e il commercio nel continente africano non potranno mai svilupparsi se non si porrà un argine deciso alla corruzione e alla malversazione dilaganti. Per Clinton è necessaria la crescita di buona pratiche di governance e una solida democrazia per consentire all’Africa di superare i suoi annosi problemi. «Non si tratta solo di buon governo, ma anche di buoni affari». Alla conferenza stampa erano presenti il presidente keniota e il suo primo ministro, protagonisti due anni fa di una tormentata campagna presidenziale che aveva gettato il Paese nel caos, provocando più di mille morti. Rivolgendosi proprio alla leadership keniota, il segretario Usa ha biasimato il fallimento del progetto di riforma che prevedeva una soluzione di potere condiviso, adottata per cercare un rimedio alla crisi post-elettorale. Clinton ha rimproverato l’attuale esecutivo per non aver avuto il coraggio di trascinare davanti ai tribunali coloro che hanno sobillato gli scontri e hanno fatto ricorso alla violenza, saccheggiando le città e uccidendo innocenti. Per l’esponente democratica, il governo keniota non sta ancora facendo abbastanza per combattere il fenomeno della corruzione. «Purtroppo, la conclusione della crisi non ha portato con sé un tipo di progresso politico che serve al popolo del Kenya» ha detto ai giornalisti, dopo il suo incontro con il presidente Mwai Kibaki e l’ex-leader dell’opposizione Raila Odinga, attuale primo ministro. «Invece, l’assenza di forti ed efficaci istituzioni democratiche ha

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permesso la crescita di corruzione, impunità, violenza politica e una mancanza di rispetto per lo stato di diritto», ha ribadito Clinton. «Queste condizioni hanno favorito lo scoppio della violenza dopo le elezioni e continuano a frenare il Kenya».

Il rimprovero più duro è andato all’attuale governo, per la sua decisione di non istituire un tribunale speciale che indagasse sulle violenze dell’inizio del 2008. I sospetti sono stati giudicati da tribunali locali, notoriamente poco affidabili e oberati da altri procedimenti. La dura reprimenda della Clinton non ha certo gratificato i leader locali. Molti esponenti politici non hanno nascosto la loro insofferenza per la nuova lezione di democrazia proveniente da oltre Oceano. Le critiche della Clinton hanno provocato una reazione ancora più forte rispetto alle parole dello stesso tenore pronunciate nel 2006 dall’allora senatore Barack Obama, che disse che la corruzione poteva danneggiare seriamente la credibilità internazionale del Paese. Il degli ministro Esteri di Nairobi, Moses Wetangula, ha assicurato che «le riforme sono in corso, che la battaglia contro l’impunità nel Paese è in atto, così come è in atto la guerra alla corruzione». Alcune ore prima dell’arrivo della Clinton, il primo ministro keniota aveva avvertito che l’Africa non ha bisogno di lezioni sulla democrazia poiché migliaia di uomini hanno combattuto contro l’oppressione politica in tutto il continente. Odinga ha poi scelto un tono più conciliatorio ieri, affermando che le nazioni africane possono imparare dall’esempio del segretario di Stato, che ha ammesso la sua sconfitta durante le primarie contro Obama. «Questa è una lezione che l’Africa ha bisogno di imparare seriamente - ha detto il premier - in Africa, in molti Paesi, le elezioni non sono mai vinte, sono solo manipolate. Chi perde non riconosce mai la sconfitta. Se ciò accadesse da noi, saremmo in grado di sviluppare una vera democrazia in tutto il continente africano».

Il primo ministro del Kenya attacca: «Non abbiamo bisogno di una lezione di democrazia. Ma ci sono altri problemi»

berazione delle due croniste, detenute nel Paese da marzo e condannate a 12 anni di lavori forzati. Secondo la responsabile degli affari esteri americani, tocca a Pyongyang mettere fine alle proprie «provocazioni» per migliorare i rapporti con gli Stati Uniti. Hillary Clinton, in particolare ha spiegato che la Corea del Nord ha nelle proprie mani «il futuro dei nostri rapporti». Il governo di Kim Jong Il , ha sottolineato il segretario di Stato, dovrà decidere se continuare sulla strada delle «azioni provocatrici che lo isoleranno ancora di più dalla comunità internazionale» o può scegliere invece di riprendere il dialogo sul nucleare. La Cina ha espresso soddisfazione.

to è al governo ucraino del presidente Viktor Yushenko: Kiev secondo Mosca sin dall’inizio della crisi dello scorso agosto ha avuto «un atteggiamento ostile» nei confronti del nuovo impero sovietico, che ha dimostrato di non temere le pressioni della comunità internazionale quando si tratta di confini. Che siano vecchi, nuovi, presunti o rivendicati. Karasin ha infine auspicato che il nuovo segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, sia più cauto nei confronti della Georgia rispetto al suo predecessore, Jap de Hoop Scheffer. Bruxelles dovrebbe evitare di far credere a Tbilsi «che l’Alleanza atlantica è al suo fianco». Per la Russia la riconquista dell’Ossezia del Sud tentata dal presidente georgiano Mikhail Saakashvili, all’origine del conflitto, venne originata anche dalla sensazione diffusa a Tbilisi che la Nato fosse pronta a sostenere la Georgia. Uno dei punti caldi della questione, infatti, riguarda anche l’ingresso di Tbilisi all’interno del Patto atlantico, una concessione che il Cremlino è pronta a interpretare come una sfida diretta alla sua autorità “morale” sull’area. Va ricordato che buona parte della popolazione civile osseta sostiene i militari russi e non quelli georgiani.


cultura

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Anniversari. Moriva il 6 agosto di quarant’anni fa l’autore di “Minima Moralia”, “Dialettica dell’Illuminismo” e “Dialettica negativa”

I fantasmi di Theodor

Passioni, tormenti, lacerazioni, paradossi e contraddizioni di Adorno Fermo immagine sul filosofo tedesco esponente della Scuola di Francoforte di Matteo Marchesini isogna continuare, non posso continuare, continuerò». La conclusione dell’Innominabile di Samuel Beckett, al quale Adorno avrebbe voluto dedicare la Teoria estetica cui stava lavorando al momento della morte, potrebbe far da epigrafe a tutta l’opera del più rigoroso e raffinato dei filosofi francofortesi. Nel ’900, quello di Theodor Wiesegrund Adorno è stato per eccellenza il pensiero dell’aporia e dell’afasia, del paradosso e dell’ossimoro.

«B

La sua filosofia ha rappresentato come nessun’altra lo smarrimento di una borghesia intellettuale ebraica e cosmopolita che è rimasta orfana dell’autorità paterna e ha sentito letteralmente mancarsi la terra sotto i piedi. Adorno guarda a Marx, ma ne rifiuta la traduzione totalitaria; sa che la cultura decadente è ormai inutilizzabile, eppure ogni altra prospettiva gli sembra condurre a rozze mistificazioni. Il suo è l’atteggiamento di chi, tra continui sensi di colpa, consuma le ultime riserve di un patrimonio che le future generazioni non potranno ereditare se non nella

versione di un umanismo consolatorio e contraffatto. Per dar corpo a questo pensiero apocalittico, Adorno ha allontanato da sé sia la tentazione di ritrarsi in un aristocraticismo sdegnoso (Nietzsche e Kierkegaard, due degli autori che meditò di più, non gli sono mai bastati) sia la tentazione di smussare la sua critica della cultura a uso di qualche prassi movimentista (poco prima di morire si scontrò con quei falsi anticonformismi del ’68 che alcuni suoi ex compagni di strada, come Marcuse, blandirono invece senza troppi scrupoli). Nella eterogenea palude di fatti e concetti in cui si è mosso dagli anni 30 alla morte, ha condotto una battaglia serrata contro nemici opposti e speculari: da un lato l’ontologia sacerdotale di Heidegger, dall’altro il marxismo lukacsiano; da un lato l’esistenzialismo, dall’altro il neopositivismo; da un lato le ideologie del vitalismo e dell’immediatezza, dall’altro il feticismo dei fondamenti primi. Il cuore del discorso filosofico sviluppatosi intorno

all’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, del quale Adorno fu magna pars sia in Germania sia durante l’esilio americano, poggia su una «teoria critica della società» che si nutre di Marx e al tempo stesso rigetta alcuni punti decisivi della sua dottrina. Secondo i francofortesi, in pieno ’900 non si dà più nessuna classe rivoluzionaria, poiché il «mondo amministrato» della società di massa è riuscito a omologare anche il proletariato, e i suoi media si sono rivelati così pervasivi da trasformare in struttura un’influenza ideologica da Marx ritenuta sovrastrutturale. Perciò i collaboratori principali dell’Istituto, in particolare Adorno e il direttore Horkheimer, hanno messo da parte l’economicismo del filosofo di Treviri per privilegiarne la critica

Nella eterogenea palude di concetti in cui si è mosso dagli anni 30 alla morte, ha condotto una battaglia serrata contro nemici opposti e speculari: da un lato l’ontologia sacerdotale di Heidegger, dall’altro il marxismo lukacsiano

della falsa coscienza, e hanno tolto alla dialettica storica ogni illusione di totalità.

In Adorno, il metodo coincide con la Dialettica negativa a cui si intitola il suo libro più importante. Questa dialettica, a differenza di quella idealista di Hegel e di quella materialista di Marx, rifiuta il momento della sintesi, denuncia ogni surrettizia assimilazione del particolare all’universale, e scalza lo schema concettuale che accetta pacificamente il principio d’identità-differenza introducendo nel cuore degli oggetti uno scarto definito come il «non-identico». Adorno inocula nel sistema di Hegel, già rovesciato dal marxismo, il bacillo kierkegaardiano della singolarità irriducibile. La sua bestia nera è il motto hegeliano secondo cui «il reale è razionale»: princi-

pio d’identificazione del quale lo slogan movimentista che sostiene che «il personale è politico» offre una prosaica ma efficace traduzione pratica. Simili parole d’ordine tendono a cancellare ogni “scarto” capace di minacciare l’equazione: e questa tendenza è il riflesso teorico della concreta sottomissione a quel che i francofortesi chiamano «il dominio». A partire da qui, il materialismo non viene recepito da Adorno come una dottrina, bensì come una forma di consapevolezza del fatto che l’oggetto mantiene un primato ineliminabile sul soggetto, e una resistenza invincibile alla razionalità (anche dialettica): cioè come una forma di salvaguardia filosofica della effettiva asimmetria tra pensiero e fenomeno, che s’incontrano sempre e solo asintoticamente. Insomma: bisogna che la dialettica negativa, costituendo «insieme l’impronta dell’universale contesto di accecamento e la sua critica, si rivolti in un ultimo movimento anche contro se stessa». Al di là delle diverse valutazioni sui movimenti comunisti, sta qui la differenza cruciale col marxismo neohegeliano propugnato negli anni 20 da Korsch e da Lukács, i cui studi sul con-


cultura

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scono da un’inaccettabile miscela di «magia» e «positivismo». Il fatto è che Benjamin si aggrappa davvero a due fondamenti eterogenei come la Tecnica e il Messianismo; mentre Adorno si nega ogni appiglio. Il suo pensiero è nomade; e la sua figura somiglia molto a quella di Münchhausen che tenta di tirarsi su per i capelli. Poiché a suo parere «non si dà vita vera nella falsa», ogni tentivo di agire collettivamente o di mantenersi puri nell’isolamento va incontro allo scacco; e l’utopia di una liberazione da questo status antinomico può esser rappresentata solo in negativo. E questo il compito per eccellenza dell’arte contemporanea, che nel pensiero di Adorno catalizza tutte le energie inutilizzabili a fini agitatori o meramente ascetici. Per esserne all’altezza, quest’arte non può rispecchiare contenutisticamente le tragedie senza senso tragico che costituiscono il nucleo del ’900, ma deve assorbirle nella propria tecnica formale: e così, grazie alla sua

Il suo era l’atteggiamento di chi, tra continui sensi di colpa, consumava le ultime riserve di un patrimonio che le future generazioni non avrebbero potuto ereditare se non nella versione di un umanismo consolatorio e contraffatto

In alto a sinistra, Theodor Adorno. In basso, Thomas Mann e Karl Marx. A destra, Herbert Marcuse. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace cetto di reificazione hanno offerto la prima base alle teorie dei francofortesi. Infatti quel marxismo inclina a identificare il fenomeno attraverso cui l’uomo oggettiva se stesso e il mondo con l’alienazione tout court. Di contro, l’Adorno maturo mette l’accento sul Capitale, che offre assai meno appigli in questo senso: e lo fa appunto perché teme che la lotta contro l’alienazione moderna si muti in lotta contro l’alieno, lo straniero, il diverso. Del resto, una simile tentazione è connaturata a ogni filosofia della storia che si pretenda autarchica. Il pensiero, da solo, non sopravvive: divora tutto e infine si autodivora, proprio come le dittature. E da questo incantesimo narcisista può liberarsi solo incontrando l’esterno, l’imprevisto cioè frustrando la sua aspirazione tirannica. Nel secolo delle masse e del fascismo, ogni sistematicità assume agli occhi di Adorno un aspetto mostruoso. Il pensiero del ’900 non può che farsi saggistico, frammentario, «micrologico». Deve partire dai dettagli, secondo l’esempio offerto dai Minima moralia; e anche quando vi si stacca astraendo e universalizzando, è incaricato sempre di ritornarvi, di aprire crepe nella trama di una razionalità che altrimenti rimuove i casi singoli imbrigliandoli in categorie generali. Questo è d’altronde il paradosso di ogni legge, morale o positiva: anche quando ha un alto contenuto etico, è la sua stessa natura astratta che, se da un lato arresta sul momento la violenza bruta, dall’altro induce al

nanza dodecafonica (Schoenberg, Webern, Berg). Alle loro esperienze, in letteratura corrispondono prima di tutto le parabole di Kafka. Ma anche quest’arte, nel moto incessante della massificazione, fatalmente invecchia. Ed ecco allora che i frammenti di un’estetica inconciliata si assottigliano senza scampo: in musica nascondendosi nell’aleatorietà di John Cage, in letteratura andandosi a ficcare nei microromanzi afasici e nelle sinistre clownerie di Beckett. Il rovesciamento dell’hegelismo obbliga Adorno a leggere nel movimento di spiritualizzazione dell’arte, contemporaneo a quello della più sofisticata alienazione umana, un vicolo cieco destinato a restringersi come un imbuto fino all’adimensionalità del punto. L’autore della Dialettica negativa registra il tramonto della modernità, e non potendo concepire altra vicenda che la sua costruisce una filosofia in cui la fine della storia iniziata col romanticismo coincide con la fine

rimando sine die di ogni solidarietà immediata con il prossimo. Portata alle estreme conseguenze, una tale razionalità torna a farsi Mito, si risolve in sadismo: e la conquista in apparenza più alta dell’Occidente civile ritrasforma la Società in Natura. Così la Dialettica dell’illuminismo, stesa da Horkheimer e Adorno alla fine della guerra, descrive la strada che conduce dall’età dei lumi alla barbarie nazista. Ma il mondo moderno non è che l’ultimo tratto di una lunga storia. Non a caso, l’esempio più indimenticabile del libro è quello del ragionatore Ulisse. Il re di Itaca, virtuoso del pensiero tattico, può ascoltare le sirene perché si fa legare, cioè si reprime - mentre l’equipaggio da lui dominato, coi tappi nelle orecchie, continua a eseguire il lavoro bruto.

Allo stesso modo, Ulisse può salire sul letto di Circe perché davanti alle prime lusinghe censura il desiderio - mentre i compagni, a causa della loro impulsività, diventano maiali. A questa scissione

tra una razionalità repressiva e un’istintività bestiale, la Dialettica dell’illuminismo oppone il modello di una ricettività attiva capace di percepire creativamente, e di ragionare adattandosi all’oggetto. Lo schema non è nuovo, ma esiste una differenza decisiva tra il modo in cui lo declinano un Heidegger o un Brecht e il modo in cui lo abbozzano i francofortesi. Perché questi ultimi non credono che un simile rapporto sia davvero a portata di mano: diffidano, cioè, di quella filosofia e di quell’arte che mimano una purezza “contadina” in un universo tecnologico dove si dà ormai solo come finzione. Soprattutto per Adorno, la ricettività attiva è appena un’ipotesi euristica, non una forma di esistenza che possa manifestarsi in modo continuativo tra gli uomini del ’900. E lo stesso discorso vale per tutti i concetti destinati a rappresentare un barlume di positività. È indicativa la querelle che negli anni 30 lo divise da Benjamin. Per Adorno, le riflessioni benjaminiane sulle possibilità offerte dai nuovi media na-

costitutiva doppiezza, contestarle mentre le riflette. È la natura monadica dell’opera che le consente di legarsi alla Storia nel momento stesso in cui si ripiega sulla sua logica interna. In particolare, all’arte novecentesca non restano che due possibilità: o recuperare forme neoclassiche ormai superate; oppure, come vuole la dialettica adorniana, negarsi nell’istante in cui si manifesta. Un prezzo così alto viene stabilito da una diagnosi storica altrettanto impietosa. Secondo Adorno, dopo Auschwitz «tutta la cultura (…) compresa l’urgente critica a essa, è spazzatura». E se chi vuole conservarne la funzione diventa «collaborazionista», chi le si sottrae «incrementa direttamente quella barbarie che la cultura ha mostrato di essere». Come si vede, l’unica strada aperta è il paradosso. I pochi esempi di questa via stretta e precaria, Adorno li trae soprattutto da musica e letteratura. Del linguaggio dei suoni è stato studioso finissimo e così deciso a negarne la presunta immediatezza da sottoporre anch’esso a una continua traduzione concettuale.

In quest’ambito, la rappresentazione più attendibile dello status paradossale dell’arte moderna sembra ad Adorno quella offerta dai compositori che hanno escluso l’armonia a favore della disso-

della storia tout court. Ma qui, servendoci delle sue armi, possiamo ben imputargli una tentazione autoritaria: perché il rimando sine die di ogni azione pubblica e il divieto di ogni armonia artistica o affettiva rischiano a loro volta di divenir ricattatori. Soprattutto nel passaggio tra teoria e pratica, o tra estetica e critica, la censura di Adorno nei confronti di ogni istinto alla pienezza vitale prende accenti intolleranti. Inoltre, poiché a differenza di Lukács non può legare la nozione di sviluppo storico ed estetico a una «prospettiva» socialista, la sua insistenza su termini come «progressivo» e «regressivo» assume caratteri quasi liturgici. Ma d’altronde, è suo grande merito averci offerto, insieme al suo pensiero, anche i vaccini adatti a curarne le possibili derive. Del resto, gli anatemi lanciati contro ogni sedicente movimento liberatorio e ogni presunta resa alla barbarie di massa dipendono anche dal fatto che Adorno si nutre della nostalgia profonda per un mondo culturale un tempo privilegiato ma oramai scomparso. E agli occhi di un sopravvissuto non può non apparir straziante il fatto che la promessa di un futuro innalzamento dell’umanità intera, già implicita in quel mondo, anziché avverarsi venga liquidata per sempre.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “Times” del 5/08/2009

40mila razzi contro Israele di Richard Beeston tre anni dalla sanguinosa guerra in Livano contro Hezbollah, molti temono che le ostilità possano riprendere. E questa volta, con il gruppo islamico armato nella migliore maniera possibile. Secondo Israele, le Nazioni unite e rappresentanti della stessa Hezbollah, le milizie sciite sono oggi più forti rispetto al 2006, quando scoppiò una guerra che costò la vita a 1.191 libanesi e 43 israeliani. Al momento, Hezbollah dispone di 40mila razzi e sta attrezzando i suoi militanti a usare i missili terra-terra in grado di colpire Tel Aviv e missili di contraerea in grado di contrastare la supremazia israeliana dell’aria. Il generale di brigata Alon Friedman, vice capo del comando settentrionale israeliano, ha spiegato dal suo quartier generale - che affaccia sul confine fra i due Paesi - che la pace degli ultimi tre anni «potrebbe cessare in ogni momento».

A

Le sue preoccupazioni sono dovute in parte alle minacce che provengono dalla leadership di Hezbollah. Lo scorso mese lo sceicco Hassan Nasrallah, leader della milizia sciita, ha avvertito che in caso di bombardamento delle periferie di Beirut si scatenerebbe un attacco contro Tel Aviv; la più grande città israeliana. «Abbiamo cambiato la vecchia equazione - ha spiegato - e non si tratta più di Beirut contro Tel Aviv, ma dell’intera parte meridionale del Libano contro Israele». Hezbollah si sta riarmando in nome della resistenza anti-israeliana. La vera ragione, in realtà, ha molto più a che fare con il suo alleato iraniano. Se Israele pensa di poter attaccare gli impianti nucleari di Teheran, non lo fa perché teme la reazione dei libanesi. Tutti gli attori coinvolti sono concordi nel definire reale questa minaccia. Lo scorso

mese, l’incremento del lavorio di Hezbollah è stato scoperto dopo che un bunker pieno di munizioni è esploso nel villaggio di Khirbet Slim, a dodici miglia dal confine israeliano. Alcuni fotogrammi di una telecamera di sorveglianza, ottenuti dal Times, mostrano gli uomini di Hezbollah mentre cercano di salvare razzi e munizioni proprio da quel rogo. Gli investigatori dell’Unifil inviati per indagini sono stati ostacolati. Alai Le Roy, capo delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza che l’eplosione rappresenta una seria violazione alla Risoluzione 1701 dell’Onu, che impone il cessate il fuoco e il bando delle armi dalla zona. Secondo Le Roy, «un numero ingente di indizi dimostra che il deposito apparteneva ad Hezbollahe e che, in contrasto con le precedenti indagini dell’Unifil, il traffico di armi invece di interrompersi si è intensificato».

Il mandato Unifil dovrebbe essere rinnovato dal Consiglio di Sicurezza proprio questo mese: Israele preme affinché siano «più robuste» le dotazioni delle forze Onu nella zona, chiamate a stoppare le infiltrazioni di Hezbollah nella zona del fiume Litani. La milizia sciita - armata, addestrata e finanziata dall’Iran - ha iniziato il reclutamento sin dalla fine della guerra del 2006. E i corsi speciali si tengono sotto l’egida dell’Iran: sono anni che militanti libanesi trovano rifugio in iran per imparare a costruire bombe, missili anti-carro e azioni di guerra. Hussam, 33enne membro di Hezbollah, spiega:

«La guerra ci sarà, senza dubbio. Israele non ci lascerà mai in pace». Fonti militari vicine alla milizia spiegano che il gruppo vuole aumentare il numero e l’effettività dei suoi sistemi di difesa aerei. Hezbollah avrebbe acquistato un gran numero di missili terra-area per abbattere gli elicotteri e i piccoli jet militari di Israele. Daniel Ayalon, vice ministro della Difesa di Israele, dichiara: «Hezbollah non ha soltanto rimpiazzato i suoi arsenali, ma ha migliorato la qualità dei suoi missili. Ora pensano di poter colpire direttamente Tel Aviv».

Da parte sua, la milizia rifiuta di commentare le sue migliorie tecniche dal punto di vista militare, ma non nega di essere in preparazione di una nuova guerra. Secondo lo sceicco Naim Qassem, vice capo di Hezbollah, «oggi siamo in condizioni migliori rispetto al 2006. Se Israele pensa di poter fare danni maggiori contro di noi, scoprirà invece che è vero il contrario».

L’IMMAGINE

Perché non ripartire da De Gasperi per dar vita davvero ad un Centro laico e liberale Complimenti per la vostra opera incessante di informazione da un lato e, dall’altro, di lettura dei fatti e delle vicende italiane ed internazionali. In particolare, un grazie per il lavoro culturale e di impegno civile che sta portando avanti Ferdinando Adornato anche per far nascere davvero un Centro autorevole e credibile, moderno ed europeo. Spero che gli stati generali del centro a Chianciano siano l’inizio di un percorso di rinascita della politica nel nostro Paese e di riferimento per la politica nazionale. E spero anche, che liberal diventi la voce autentica di questo Centro. Abito a Trento che non è solo una bella cittadina alpina, ma è anche la casa di Alcide De Gasperi, il fondatore di quel Centro autorevole, sobrio, europeo, laico-liberale e cristiano insieme, che ha segnato in bene la storia nobile dell’Italia e del continente. Perché non ripartire davvero da De Gasperi? Perché da questa terra non può ripartire quel collegamento con il mondo tedesco, che De Gasperi ha tanto cercato nella sua vita?

Maurizio Bassetti - Trento

SCUOLA APPIATTITA AL BASSO Parte della scuola italiana rischia d’apparire un parcheggio, che indottrina, intrattiene, ricrea, assiste, diverte e socializza gli studenti. Al contrario, dovrebbe essere formatrice ed educatrice di allievi, motivati e zelanti. La scuola ha il superfluo (l’animazione, la cura dell’affettività) e manca del necessario (la conoscenza rigorosa). Col pretesto del nozionismo, sono state abolite le cognizioni. Così, l’eruzione del Vesuvio può diventare “erezione”, l’Infinito di Leopardi “leopardare”; le rette possono essere definite “curve”, le parallele “perpendicolari” e le Fosse Ardeatine “un fenomeno carsico”. Il Passero solitario può venire considerato una poesia sessuale, perché tratta dell’“uccello”. Si

promuovono anche gli asini: i bocciati alla maturità sono scesi dal 28,4% del 1952 al 2,8% del 2006. Nella scuola egualitarista, pure la copiatura può diventare lecita. Fra i passati provvedimenti demagogici, si distinguono: la sostituzione dei voti con giudizi, l’abolizione del voto in condotta e degli esami di riparazione, il “modulo”di più maestri per classe e la Carta dei diritti dello studente.

Gianfranco Nìbale

LA RIPRESA DEL SUD Cosa dovrebbe significare la ripresa per il sud? Nuove opportunità senza dubbio, ma soprattutto la partenza di progetti mai resi possibili, insieme ad un ricambio umano nella gestione degli appalti e delle amministrazioni che

Beata gioventù Ancora qualche anno di spensieratezza e poi anche per questa leoncina (Panthera leo) ospite di uno zoo di Stara Zagora in Bulgaria, inizierà il faticoso tour de force degli accoppiamenti. Avere un erede è il “chiodo fisso” dei leoni maschi dai 5 anni in su. I giovani pur di perpetrare la stirpe arrivano ad accoppiarsi con leonesse diverse, dalle 20 alle 40 volte al giorno. Più di 2 incontri all’ora

dovranno ricevere in futuro carta moneta. Ma ricambio significa nuova canalizzazione dei finanziamenti con regole ferree e non più raggirabili: ma la deregulation non voleva proprio questo? Allora diciamo che occorre: tempi brevi, nuove gestioni, nuove norme che regolino i finanziamenti al sud e che siano ampiamente note, nel senso che si pos-

sa denunciare senza problema.

Gennaro Napoli

LA REALTÀ DELLE COSE La situazione internazionale è ad una svolta: dagli sforzi di Obama ai tentativi di ricomporre la pace con una nuova presa di coscienza del ruolo dei contingenti, si sta cercando di incalare il ruolo politico nelle prospettive future della

globalizzazione. Ma c’è anche chi pensa che di fronte a una crisi senza precedenti solo una guerra può ricomporre le discrepanze. È triste dirlo ma è la realtà: la democrazia è chiamata ad un nuovo ruolo; non la sterile diffusione del suo pensiero ma l’applicazione concreta delle sue regole, per il futuro del pianeta.

Barbara


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il possesso infiamma l’amore Oggi sarai stata tutto il giorno senza lettere da parte mia. Avrai ancora dubitato, povero amore. Perdonami. Non è colpa della mia volontà, ma della mia memoria. Credevo che la posta a Rouen chiudesse all’una e invece chiude alle undici. Ma guarda, se nutri ancora un po’ di rancore, voglio fartelo passare lunedì. Spero infatti in lunedì. Fidia sarà tanto bravo da scrivermi. Conto di avere la sua lettera domenica al massimo. Come mi piace il programma di festa che mi descrivi! Oh sì, mi ami, dubitarne sarebbe un delitto. E io, se non ti amo, come chiamare quello che provo per te? Ogni lettera che mi mandi, mi penetra più profondamente nel cuore. Quella di stamane, soprattutto, aveva un fascino raro. Era lieta, cara, bella come sei tu. Sì amiamoci, amiamoci poiché nessuno ci ha amato. Arriverò a Parigi alle 4 e sarò subito da te. Mi vedo già salire le scale, sento il rumore del campanello… C’è la signora? Avanti. Ah, le assaporo anticipatamente, quelle 24 ore. Ma perché ogni gioia deve portarmi dolore? Già penso alla nostra separazione, alla tua tristezza. Farai la brava, vero, poiché io sento che io sarò più addolorato della prima volta. Non sono di quelli per cui il possesso uccide l’amore, anzi l’infiamma. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

PIÙ REGOLE E MENO PENE SOMMARIE Che gli Usa dicano che la pena di morte è inutile è un segno positivo, ma che dicano che è anche costosa, fa venire i brividi, perché il peso in denaro di un tale evento non può essere messo in relazione con la vita umana. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha spesso ribadito il concetto italiano sulla pena capitale, che dovrebbe essere insito nella coscienza internazionale ed attuare la moratoria che tutti desiderano. Occorrono più regole, meno frammentarietà e meno relatività nell’applicazione della giustizia.

Bruno Russo

COMPLIMENTI Complimenti per aver pubblicato un’ampia sintesi del libro di Allawi sulla crisi della civiltà islamica in un momento nel quale altri quotidiani preferiscono l’effimero di moda. A differenza di altri scritti il libro di Allawi tocca davvero il nucleo cruciale non solo della crisi del mondo islamico vedi l’Iran - ma anche dell’intero mondo occidentale precisamente quando afferma che il rapporto religione/ modernità se vissuto in modo scizoide produce quegli effetti catastrofici tanto negli individui (sete di potere e condotte perverse) quanto nell’ambiente naturale (saccheggio di risorse) e sociale (iniquità economica) che ognuno quotidianamente constata. Come nel Corano emergono quelle virtù sociali di giustizia e moderazione che dovrebbero impregnare la Shariah,così nei Vangeli, rispetto alla pratica litur-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

6 agosto 1993 Louis Freeh viene confermato dal Senato Usa come direttore del Federal Bureau of Investigation 1996 La Nasa annuncia che il meteorite Alh 84001, originato da Marte, ha prove di forme di vita primitive 1997 La Microsoft compra una quota di azioni del valore di 150 milioni di dollari della Apple Computer, che si trova in difficoltà finanziarie 2001 Il presidente statunitense George W. Bush riceve un rapporto intitolato Bin Ladin determined to strike in US (Bin Laden è determinato a colpire gli Stati Uniti) 2002 Manindra Agrawal, insieme ad altri dimostrano la congettura algebrica dei “Primi in P” 2005 Un Atr 72 della Tuninter, la compagnia charter della Tunisair, partito da Bari con destinazione Djerba, precipita 2008 In Mauritania, un colpo di Stato da parte dell’esercito ha portato all’arresto del capo dello Stato, del primo ministro e del ministro dell’Interno

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

gica cattolica formalizzata in ipocritici rituali. Così Islam ed occidente devono rimettersi in cammino per ritrovare le proprie anime svendute al fanatismo ed al potere tecnocratico. È infatti proprio questo il perduto senso dello “sforzo” o Jihad.

Mauro La Spisa – Firenze

MILLE INSEGNANTI DI SOSTEGNO CON IL SUPERENALOTTO Paolo Fasce, cittadino genovese, ligure, italiano, europeo e del mondo, genitore, insegnante di matematica e di informatica, insegnante di sostegno delle aree tecnica e scientifica, ingegnere elettronico, giornalista, letta la newsletter del Sindacato Famiglie Italiane Diverse Abilità che allego in calce, dichiara quanto segue: a partire dalla giornata odierna parteciperò al concorso superenalotto acquistando un biglietto a tariffa minima fino al giorno dell’assegnazione del super premio milionario di più di 100 milioni di euro; qualora questo biglietto risulti vincitore di quella somma, investirò parte di queste risorse per l’assunzione di 1000 insegnanti di sostegno sull’intero territorio nazionale, in deroga ai vergognosi limiti adottati da diversi uffici scolastici regionali, per la durata dell’intero anno scolastico; l’allocazione di tali insegnanti sarà concordata con il ministero della Pubblica Istruzione e riguarderà le Scuole Statali. Con la presente intendo invitare tutti i cittadini e, in particolare, i colleghi precari, ad esplicitare una dichiarazione di questo tenore.

ISTITUZIONE DELL’OSSERVATORIO SCIENTIFICO “EDWARD C. BANFIELD” È del 1945 la scoperta della condizione contadina, con tutti i risvolti di ordine culturale-religioso, da cui prende avvio un crescente interesse per il mondo popolare nelle sue varie manifestazioni, più o meno intrecciato con progetti di riscatto delle masse contadine. Le prime avvisaglie di questo interesse verso il Mezzogiorno d’Italia giungono in occasione del viaggio di Levi negli Stati Uniti d’America. Prima che fosse disponibile la versione inglese, il libro era conosciuto in particolari ambienti ebraici o italo-americani; il viaggio in America di Levi nel 1947 si trasformò in un grande successo personale cui seguì immediatamente l’entrata trionfale del libro nella classifica dei best-sellers: mass-media entusiasti e recensioni lusinghiere sulla prima pagina della stampa che conta, New York Times e Herald Tribune. La breccia era ormai aperta con effetto trainante anche per altri autori della letteratura italiana. Carlo Levi schiudeva la conoscenza della tragica e diversa umanità del mondo contadino alla nazione più industrializzata venendo peraltro a colmare l’orizzonte di attesa di una massa enorme di emigrati che intendeva riconoscere e rivivere le proprie origini. Il Cristo non solo entrò come testo obbligatorio nei corsi di italiano di alcune Università, ma, come ci avverte la preziosa testimonianza di Tullio Tentori, al Dipartimento di antropologia e sociologia della Ohio State University di Columbus se ne faceva una utilizzazione in chiave squisitamente antropologica. Non diverso il taglio di lettura di George M. Foster, direttore dell’Istituto di Washington. Lo studioso non dà molta importanza al substrato politico-ideologico, ma vede nel Cristo un capolavoro letterario, che «ha portato all’etnografia uno dei più piacevoli e penetranti studi di cultura popolare europea e più vita e significato che una dozzina di artigiani dell’etnografia». Questa prorompente presa di coscienza sociale nei riguardi della condizione contadina consente la nascita di una sorta di movimento culturale con caratteristiche metodologiche del tutto nuove rispetto alla tradizione di studi sul Mezzogiorno d’Italia.Viene cioè raccolto, in varie forme, l’auspicio di Levi, ma il movimento ha meno propensioni letterarie e idoleggiamenti della cosiddetta civiltà contadina di quanto si creda; ha soprattutto capacità d’iniziativa favorendo la conoscenza di un diverso metodo di lavoro, un modello di collaborazione interdisciplinare tra l’attività di ricerca e la formulazione degli obiettivi di una nuova politica sociale. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Paolo Fasce

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO

Anniversari. Oggi e il 9 agosto, per la prima volta, l’Italia ricorderà i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki

Le lanterne arancioni della di Diana Del Monte ggi e il 9 agosto sarà l’anniversario dei bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki e le due città si preparano a commemorare, accompagnate dai molti eventi sparsi in tutto il mondo, i propri caduti. Autorità e gente comune si riuniranno all’Hiroshima Peace Memorial Park per ricordare i terribili avvenimenti che, dal 1945 a oggi, hanno condotto più di 250mila persone verso una morte orribile e, come ogni anno, la commemorazione si chiuderà con la cerimonia delle lanterne galleggianti: le toro nagashi.

O

Quest’anno, per la prima volta, l’anniversario dell’olocausto giapponese verrà ricordato, anche in Italia, con questa cerimonia. Le lanterne saranno accese e fatte galleggiare a Parma oggi, e a Bologna il 9. L’evento è stato organizzato dall’associazione culturale “Nipponica” di Bologna che, con il progetto “Un cerchio per Hiroshima e Nagasaki”, vuole costruire un ponte diretto tra il capoluogo emiliano e le città giapponesi. Con la collaborazione dei due artisti Mimasu Masanori e Kobayashi Hisao, infatti, “Nipponica” invierà a Hiroshima 100 lanterne disegnate da volontari per la cerimonia del 6, ricevendone, in seguito, altrettante per quella del 9 a Bologna. La cerimonia delle lanterne galleggianti fa parte da secoli di quella che noi chiamiamo la “cultura giapponese”, ma nella città di Hiroshima ha assunto da tempo anche un altro significato. Infatti, mentre “Little Boy” e “Fat Man”, così erano state soprannominate dagli americani le due bombe, cadevano sulle due città, i giapponesi si stavano preparando a festeggiare la ricorrenza buddista più importante del Giappone, l’O-bon. Questa festività, che si svolge ogni anno a metà agosto, o metà luglio per chi segue il calendario lunare, è dedicata alla commemorazione degli antenati e si chiude, appunto, con

MEMORIA la cerimonia toro nagashi. Ma da quando “Little Boy”venne sganciato sulla prima città giapponese, alle 8:15 del mattino, Hiroshima è diventata un simbolo globale, una città votata alla pace internazionale. L’aspetto più bello e interessante della cultura, di tutte le culture, è proprio la sua vitalità, ovvero il suo essere una materia viva costruita collettivamente che cambia, cresce e si adatta e questo è successo anche all’antica cerimonia di cui si sta parlando che, in questa città come in tutto il Giappo-

ta affatto un evento triste o dall’aspetto tetro, al contrario, è una vera e propria festa di bentornato che i vivi fanno ai loro parenti deceduti, con tanto di fuochi d’artificio e balli.

Durante l’ultima sera del periodo dei festeggiamenti, che in media dura quattro giorni, si svolge la processione delle lanterne galleggianti. Le toro nagashi vengono affidate alla corrente del fiume che lentamente le porta via con sé, serviranno a illuminare la via del ritorno alle anime dei propri cari, assicurando loro un viaggio sereno e sicuro. Lo spettacolo, molto suggestivo, è, spesso, anche colorato. Le lanterne, infatti, originariamente fatte di carta di riso, possono avere tutte le forme e, soprattutto, tutti i colori che si desidera quelle di colore bianco, in genere, sono dedicate ai defunti dell’ultimo anno - e i parenti vi scrivono sopra i nomi dei propri cari, frasi e pensieri. Alla base di questa cerimonia c’è un forte senso di comunione, una vera e propria riunione di famiglia che riporta parenti lontani, per qualunque ragione, a ricongiungersi. Da questo punto di vista, dunque, la commemorazione dell’olocausto giapponese non ha affatto stravolto il significato della cerimonia tradizionale anche se, per ovvie ragioni, assume toni meni festosi - ma mai tetri. Il suo significato, inoltre, benché meno religioso, è sempre molto sentito poiché il senso di comunione tra vivi e morti, in questo caso, viene alimentato, se non rafforzato, dall’obiettivo comune: la pace.

Saranno accese e fatte galleggiare a Parma e a Bologna. L’evento è stato organizzato dall’associazione culturale “Nipponica”, con l’intento di costruire un ponte diretto tra il capoluogo emiliano e le città giapponesi ne moderno e post-moderno, ha assunto un forte significato di commemorazione nazionale per tutte le vittime delle guerre.

L’O-bon “tradizionale” era celebrata già dalla prima imperatrice del Giappone intorno al 606, e nel periodo Edo (1600-1868), divenne un vero e proprio festival che coinvolgeva tutta la popolazione. L’O-bon, tutt’ora celebrata nella sua veste tradizionale, è chiamata anche la festa delle lanterne, la festa dei morti o - ad uso e consumo di noi occidentali - l’Ognissanti buddista. Si crede, infatti, che le anime dei defunti tornino sulla terra in quei giorni per ricongiungersi ai propri cari. Diversamente da quello che si può immaginare, però, non si trat-


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