90812
di e h c a n cro
Il più certo modo di celare
agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli Giacomo Leopardi
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 12 AGOSTO 2009
Una sentenza che sconvolge il mondo
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
GUERRE CULTURALI
Nuova condanna per San Suun Kyi Il mondo chiede: «Liberatela»
«Il nazismo e ogni forma di totalitarismo nascono dal nichilismo». Queste parole, pronunciate da Benedetto XVI, hanno provocato due giorni di aspre polemiche. Quale nervo scoperto dell’Occidente ha toccato il Pontefice?
Tra anni poi ridotti a diciotto mesi. Ma bastano per tenerla fuori dalle elezioni. Usa, Onu e Ue per una volta concordi: pronti ad altre sanzioni
Chi ha paura del Papa
alle pagine 2 e 3
di Antonio Picasso a Giunta militare birmana ha scritto ieri una nuova pagina nera nella storia del suo regime dittatoriale e repressivo. Il premio Nobel per la pace e leader dell’opposizione nazionale, Aung San Suun Kyi, è stata condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari. Dopo 14 anni di reclusione e censura.
L
a pagina 17
Sempre più profonde le crepe nel regime d’Iran
Alì Khamenei e la solitudine del numero uno
Cecenia, la morte continua Ieri altri due omicidi. I misteri di un massacro infinito di Maurizio Stefanini hi tocca la Cecenia muore. Lunedì cinque uomini armati, due in abito civile e tre in uniforme nera, spacciandosi per agenti delle forze di sicurezza sono entrati negli uffici dell’ong “Salviamo la generazione”, in pieno centro della capitale cecena Grozny, e hanno portato via Zarema Sadulayeva e suo marito Alik Dzhibralov. Entrambi di etnia russa, lei era direttrice dell’ong, il cui obiettivo è quello di aiutare i giovani ceceni a reinserirsi nella società. Lui aveva invece trascorso quattro anni in carcere per partecipazione a gruppi armati illegali, sposandola poi una volta scarcerato. Rapimento? L’accusa è stata subito formulata da “Memorial”, l’ong sui diritti umani cui era appartenuta Natalia Esterimova: la giornalista, essa stessa mezza russa e mezza cecena, trovata cadavere in un bosco lo scorso 15 luglio, dopo
C
di Gennaro Malgieri l rifiuto opposto da Alì Khamenei al presidente eletto Mahmoud Ahmadinejad, nel corso della cerimonia di insediamento, di farsi baciare l’anello non ha precedenti nella storia della Repubblica islamica iraniana. In regimi come quello dell’ayatollah la forma è sostanza. Bisogna allora dedurne che la Guida Suprema abbia voluto platealmente prendere le distanze dall’autocrate di Teheran dopo averlo immediatamente riconosciuto, il 12 giugno scorso, quale legittimo capo dello Stato ed aver avversato coloro i quali hanno denunciato i brogli elettorali. Khamenei, come abbiamo rilevato più volte su questo giornale, sente franare la terra sotto i suoi piedi. Ritiene la sua posizione precaria dopo gli scontri degli ultimi mesi.
I
a pagina 18 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
Quella di Grozny è una delle ferite ancora aperte peggiori d’Europa
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
158 •
Solo parole rituali da Ue e America
E il mondo libero guarda in silenzio
una vita di indagini su rapimenti, scomparse, torture e uccisioni per cui aveva ottenuto anche il premio intitolato a Anna Politkovskaya. Pure Memorial aveva a suo tempo collegato il delitto Esterimova a una sua denuncia sulla fucilazione in pubblico di un sospetto collaboratore della guerriglia che sarebbe avvenuta il 7 luglio nel Akhinciu’ Borzoi: a 20 km da quella Gudermes che è il feudo del presidente ceceno Ramzan Kadyrov. «Non è stato rapimento: i due sembrano aver seguito gli uomini armati volontariamente», è stata l’argomentazione con cui la polizia di Grozny ha rifiutato di occuparsi del caso. Risultato: i corpi dei due sono stati ritrovati senza vita nei sobborghi della città in capo a poche ore, crivellati di colpi.
ltre due vittime del regime. Una scia di sangue, prima e dopo l’assassinio di Anna Politkovskaya, che continua senza pause. A Mosca e a Grozny non piacciono i giornalisti e i difensori dei diritti umani. Li considerano elementi di disturbo, come mosche fastidiose. E per neutralizzarli ricorrono al sistema più semplice: la della loro eliminazione fisica. In altri Paesi autoritari, gli oppositori vengono arrestati, talvolta condannati dopo un processo, magari sommario. In Cecenia e nel Caucaso, niente arresti, niente processi. Solo condanne a morte con esecuzione immediata.
a pagina 4
a pagina 4
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Aldo Forbice
A
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 12 agosto 2009
prima pagina
Parla Giovanni Reale. «Papa Ratzinger ha ragione: è stato il relativismo a partorire gli orrori del Novecento»
Il Male è il nichilismo
«Chi contesta le tesi del Pontefice come fa Repubblica dovrebbe rileggersi Nietzsche. L’abisso del nulla non è alle nostre spalle» di Riccardo Paradisi olti purtroppo non hanno capito che cosa è il nichilismo». Il filosofo Giovanni Reale replica così a chi– tra gli altri Adriano Sofri ieri sulla prima pagina di Repubblica – sostiene sia stato arbitrario da parte del Pontefice far derivare il male totalitario dal nichilismo e l’l’autopromozione dell’uomo a Dio dall’ateismo seppure umanistico. «Non hanno capito il nichilismo, non lo hanno visto in faccia quelli che oppongono al Joseph Ratzinger queste letture edulcorate del nichilismo. Non hanno compreso la terribile annunciazione fatta da Nietzsche, il filosofo per eccellenza del nichilismo: la morte di Dio, la trasmutazione di tutti i valori, la fedeltà alla terra come unico principio di realtà».
«M
Giovanni Reale nel suo studio La saggezza antica (Raffaello Cortina) ha dimostrato in modo analitico che tutti i mali dell’uomo di oggi derivano appunto dal nichilismo, l’ospite più inquietante come lo chiamava appunto Nietzsche, il suo vero, incompreso e terribile profeta . «Il nichilismo – riflette Reale – non è una semplice posizione filosofica, è un modo di pensare, di essere, di vivere che può assumere molte forme ma la cui sostanza resta identica a se stessa. Ebbene questa sostanza è il nulla. Molti usano il concetto nichilista in una maniera a cui sfugge questa essenza abissale dentro cui non c’è un principio né un fine, non c’è una verità, non c’è un senso. Il nichilismo è un buco nero che risucchia tutto, relativizza e disintegra quelli che noi siamo soliti chia-
mare i valori e i principi umani, che cancella ogni ontologia e ogni metafisica». Il nichilismo è la morte di Dio «Ma non solo del Dio cristiano – specifica Reale rispondendo così a chi nella sua replica al Papa parla di altri umanesimi religiosi – ma di ogni possibile Dio. Di ogni possibile idea di Dio e quindi di ogni valore e di ogni ideale. Camus era uno psicologo metafisi-
co di altissimo livello: se anche non c’è Dio – diceva – io credo nei valori. Ma Camus che aveva ben compreso la trappola aggiungeva che questa è una finzione: se i valori non sono agganciati a dio, a una verità, al principio dell’essere, sono valori revocabili, storici, convenzionali. Non valori. Valori artificiali che vengono dal nulla e vanno nel nulla.
Sopra un’immagine del Pontefice, contestato da Repubblica per la sua lettura del lager come conseguenza del nichilismo. A destra, il filosofo Giovanni Reale
Quando sento molti ragazzi fare professioni di scetticismo programmatico sento al lavoro il nichilismo. Il nichilismo può prendere diverse forme: minimalismo, ideologia, pensiero debole, relativismo, libertarismo. Maschere. Ma se strappi la maschera sotto trovi il niente. Nietzsche le chiamava le maschere d’oro del nichilismo. Sirene che alla fine traggono nell’abisso».
«Far coincidere il nazismo con il nichilismo riduce e offusca l’orrore nazista» scrive Sofri. «La morte di Dio – dice Reale – do-
L’editoriale dell’ex leader di lotta continua accende la polemica sulle parole di Benedetto XV
Sofri e quella laica paura di Benedetto XVI ROMA. «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere su che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte». Così il pontefice nei giorni scorsi era tornato ad attaccare il relativismo come grande male dell’epoca contemporanea, e ancora aveva paragonato la stagione attuale a quella della Rivoluzione francese, cioè all’epoca dell’Illuminismo che nega Dio. Benedetto XVI ha invitato a «riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l’umanesimo ateo e l’umanesimo cristiano; un’antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta ad un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato». Le reazioni alle parole di Benedetto XVI,
come era prevedibile, non si sono fatte attendere e già lunedì, Adnkronos, il rabbino Giuseppe Laras, in un’intervista all’A presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia aveva dichiarato: «Vorrei ricordare al Papa che i campi di concentramento sono stati messi in piedi dai nazisti che erano dei cristiani e anche loro avevano usurpato a Dio il diritto di dare la vita e la morte, di fare il bene e il male, il Papa dimentica insomma che molti nazisti erano cristiani». Affrontando questi temi con un taglio solo teologico e filosofico si corre il rischio, secondo Laras, di «destoricizzare il fenomeno che invece oltre alla filosofia ha bisogno di un’analisi sociologia e antropologica». Ieri, infine, un lungo editoriale di Adriano Sofri – che si è detto «sconcertato» e ha attribuito al Papa «distrazione» e «avventatezza» nel pronunciare alcune frasi – su Repubblica ha riacceso la miccia sul discorso di Benedetto XVI in merito al nichilismo.
prima pagina veva segnare l’avvento del superuomo secondo Nietzsche, del vero umanesimo sosteneva Marx. Invece alla morte di Dio segue a breve distanza la morte del suo assassino. Ucciso Dio l’uomo passa a uccidere se stesso. A leggere certi articoli si resta atterriti: perché si parla di filosofia morale e di religione senza pensare con le categorie adatte, senza arrivare al principio. E il principio è esattamente questo, la morte di dio è antropologica, non solo teologica. È la morte degli ideali. Conta ciò che è funzionale: e se il mezzo per ottenere il mio fine pratico è lo sterminio di milioni di persone non è un problema. Se funziona il mezzo è buono in sé».Visto in questa prospettiva il nichilismo non offusca l’orrore totalitario: semmai ne svela l’abisso. «Nietzsche – continua Reale – parlava di trasmutazione di tutti i valori. Della liberazione da ogni morale. Un umanesimo ateo compiuto, l’uomo come fine di tutte le cose. La vita di Nietzsche è emblematica. L’esito di una vita nichilista è la morte nella follia
“
Ha fatto un grande effetto che il Papa abbia detto che i totalitarismi sono stati l’inferno sulla terra. L’inferno è la cancellazione del bene, l’arbitrio assoluto. Nazismo e comunismo sono stati inferni sulla terra
”
assoluta. Se tu cancelli i principi ma se non ti inganni ti accorgi di essere ormai in un vicolo cieco. Non c’è più un punto solido di riferimento. Se niente esiste tutto è permesso». Reale rimanda a Platone: «Aveva capito: la libertà non è un valore assoluto. Quando non s’aggancia a una verità diventa licenza, arbitrio. E relativizzando la verità l’arbitrio apre le porte alla demagogia dei sofisti e all’arrivo dei tiranni». Vedere i totalitarismi del ventesimo secolo in questa ottica non li assolve, piuttosto smaschera il loro cuore di tenebra. L’origine della loro lunga marcia fino al loro esplodere in superficie nella modernità.
«Ha fatto un grande effetto – continua Reale - che il Papa abbia detto che i lager sono stati l’inferno sulla terra. L’inferno è la cancellazione del bene, l’arbitrio assoluto a costo dell’olocausto degli altri. Lo sganciamento totale dalla verità. Il demonio è un angelo che si è ribellato a Dio: l’uomo che si è fatto dio lo segue. L’essenza del nichilismo è questa. Il nichilismo non è solo pensare il niente ma anche volere il niente. Quei ragazzi che lanciavano i massi dal cavalcavia sono segnali di un mondo accesso dal nichilismo. Alla domanda perché aveva fatto questo, all’obiezione che non
12 agosto 2009 • pagina 3
David Rosen, Giovanni Maria Vian e Anna Foa commentano la polemica sul Papa
Molto rumore per Nulla di Vincenzo Faccioli Pintozzi buoni e i cattivi «esistono in tutte le religioni. È strumentale pensare che ci sia una correlazione fra nazismo e cristianesimo, così come è ingiusto non ricordare che Benedetto XVI ha sempre condannato con la giusta forza gli orrori della Shoah». Ne è convinto l’ex rabbino capo di Israele, David Rosen, che interviene nella polemica sulle frasi pronunciate dal Papa prima dell’Angelus di domenica scorsa. Parole che - ricorda il direttore de L’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian - «non appartengono a un trattato di storia, ma sono una riflessione a partire dalla memoria dei santi di questi giorni». Rosen spiega: «Io non voglio commentare le dichiarazioni del rabbino capo italiano: non sono bene inserito in quei contesti e non credo sia giusto giudicare o smentire le dichiarazioni rilasciate da chi invece lo è. Personalmente, non ho alcun dubbio sul fatto che Benedetto XVI sia totalmente convinto di continuare, nel miglior modo possibile, sulla traccia di Giovanni Paolo II. Segue con onestà il tratto che ha ereditato. Dal punto di vista invece delle polemiche sulla questione della sociologia o la teologia della Shoah, la risposta è semplice: non è il mio ruolo commentare la teologia del Papa. Abbiamo bisogno, tutti insieme, di ricordare che ci sono stati moltissimi buoni cristiani che - a rischio della loro stessa vita - hanno salvato migliaia di ebrei durante il terribile periodo delle persecuzioni naziste. Certo, ci sono stati anche cristiani cattivi: ma questo va inteso in un senso generale. Ci sono i buoni e i cattivi in tutte le religioni, che usano la loro teologia in maniera costruttiva e distruttiva. D’altra parte, il Papa ha ricordato più volte che la Shoah è stato il male peggiore del secolo ventesimo: e su questo non credo che nessuno possa essere in disaccordo».
I
Stessa linea anche per Vian, che a liberal sottolinea: «Quelle di Benedetto XVI erano brevi parole rivolte ai fedeli prima dell’Angelus. Il Papa, ricordando i santi di questi giorni (come aveva fatto già due domeniche fa), ha parlato di due martiri del nazismo: Edith Stein, la filosofa ebrea poi divenuta cristiana ed entrata tra le carmelitane con il nome di Teresa Benedetta della Croce, e Massimiliano Kolbe, francescano conventuale polacco che, deportato in un campo nazista, si offrì di morire in modo atroce al posto di un padre di famiglia condannato per una rappresaglia. In questo c’era più il nesso tra causa e effetto, uno di loro ha risposto: “Ci sentivamo di fare così”. L’animalità, capisce? Un pensiero che non c’è più, un sentire che diventa azione. Istintualità pura. Come i surrealisti. Sparare dalla finestra al primo che passa. Ieri provocazione di un elite oggi fenomeno diffuso. Il fine del nazismo era togliere Dio dal mondo e mettere al centro la bestia bionda da preda profetizzata da Nietz-
Secondo il direttore dell’Osservatore, «le reazioni critiche alle sue parole mi sembrano del tutto infondate: quello sul nichilismo è un discorso che va avanti da anni»
contesto, il Papa ha ricordato ancora una volta l’orrore dei lager, di tutti i lager, e della Shoah, come con grande chiarezza ha sottolineato Renzo Gattegna. Non c’è dubbio che da parte di Benedetto XVI ci sia un giudizio di totale condanna della Shoah, nonostante le opinioni secondo cui questo Papa saprebbe poco di storia e addirittura di filosofia: affermazioni che si commentano da sole. Benedetto XVI si è rivolto a tutti con parole semplici
sche». Ma non è solo stato il nazismo, nel Novecento degli orrori, a produrre l’inferno sulla terra. «ll comunismo ha fatto lo stesso: la creazione del nemico oggettivo, da nullificare nel gulag, il dissidente da riprogrammare nel campo di lavoro o nel manicomio. I figli che denunciano i padri perché in casa si parlava ancora di Dio». Infine Reale fa una critica al metodo di chi polemizza con il professor Ratzinger: «Ho
che non è proprio il caso di strumentalizzare, come ha detto il rabbino Rosen». Il nazismo - riprende il direttore de L’Osservatore Romano - «è stato caratterizzato da un’ideologia pagana, a cui purtroppo hanno aderito anche cristiani, ma che è stata nettamente avversa all’ebraismo e alle radici ebraiche del cristianesimo, e dunque al cristianesimo stesso. Non pochi oppositori in Germania, soprattutto cattolici ma anche protestanti, sono stati perseguitati e uccisi: basti pensare alle beatificazioni dei martiri del nazismo volute da Giovanni Paolo II. È storicamente fuori di ogni dubbio che nazionalsocialismo e cristianesimo siano realtà incompatibili. Per quanto riguarda il cenno al nichilismo, si tratta di un discorso che Benedetto XVI va facendo da molto tempo e che domenica ha ripreso, ben consapevole ovviamente della sua complessità e alludendo a “grandi letterati e pensatori”. Per ripetere che sostituirsi a Dio, o volerlo eliminare dall’orizzonte umano, porta frutti tremendi: come i lager, “punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti”. Le reazioni critiche mi sembrano dunque del tutto infondate».
Secondo Anna Foa, professoressa di Storia moderna all’Università La Sapienza di Roma, «le dichiarazione di Di Segni e Laras, che riguardano la metafora della Shoah come male assoluto, vanno messe da parte: mi sembra che il Papa non abbia voluto fare un discorso storico sullo sterminio. Sofri sostiene invece che il pontefice abbia voluto dire: una persona che non è cristiana in un umanesimo cristiano è un qualcosa che porta al male assoluto. Non mi sembra che Benedetto XVI volesse dire questo; credo si tratti di polemiche giornalistiche. Ma credo che su questo qualcosa da dire ci sia: esiste un umanesimo non religioso che però tiene fede a valori etici forti. Non è necessario che l’etica sia sempre legata alla religione: non è un’etica del male, ma del bene. D’altra parte, come dimostra la storia, la religione ha portato al male. Non necessariamente la fede porta al bene, come non porta al male. In questo credo che Sofri abbia ragione, anche se il pontefice deve essere libero di usare la metafora della Shoah». una grande stima di giornali come Repubblica ma quando Repubblica parla di problemi religiosi sembra non capire cosa siano, li riduce a politica, sociologia. A chi fa questa operazione risponderei con Heidegger: “Se uno non ha un minimo di esperienza religiosa tenga giù le mani dai problemi religiosi”. È come chiedere a un cieco di parlare della luce o a un sordo di parlare della musica».
mondo
pagina 4 • 12 agosto 2009
Rapporto. L’omicidio dei due dirigenti di “Salviamo la memoria” riporta l’attenzione su una delle più grandi piaghe (ancora aperte) dell’Europa contemporanea
Cecenia, la morte continua Ieri due assassinati. Da anni, chi indaga su Grozny perde la vita I misteri del Cremlino e la storia di un crimine che non “può” finire di Maurizio Stefanini hi tocca la Cecenia muore. Lunedì cinque uomini armati, due in abito civile e tre in uniforme nera, spacciandosi per agenti delle forze di sicurezza sono entrati negli uffici dell’ong “Salviamo la generazione”, in pieno centro della capitale cecena Grozny, e hanno portato via Zarema Sadulayeva, assieme a suo marito Alik Dzhibralov. Entrambi di etnia russa, lei era direttrice dell’ong, il cui obiettivo è quello di aiutare i giovani ceceni a reinserirsi nella società, per non essere arruolati nei gruppi armati. Lui aveva invece trascorso quattro anni in carcere per partecipazione a gruppi armati illegali, sposandola poi una volta scarcerato. Rapimento? L’accusa è stata subito formulata da “Memorial”, l’ong sui diritti umani cui era appartenuta Natalia Esterimova: la giornalista, essa stessa mezza russa e mezza cecena, trovata cadavere in un bosco lo scorso 15 luglio, dopo una vita di indagini su rapimenti, scomparse, torture e uccisioni per cui aveva ottenuto anche il premio intitolato a Anna Politkovskaya.
C
Pure Memorial aveva a suo tempo collegato il delitto Esterimova a una sua denuncia sulla fucilazione in pubblico di un sospetto collaboratore della guerriglia che sarebbe avvenuta il 7 luglio nel Akhinciu’ Borzoi: a 20 km da quella Gudermes che è il feudo del presidente ceceno Ramzan Kadyrov. “Non è stato rapimento: i due sembrano aver seguito gli uomini armati volontariamente”, è stata l’argomentazione con cui la polizia di Grozny ha rifiutato di occuparsi del caso. Risultato: i corpi dei due sono stati ritrovati senza vita nei sobborghi della città in capo a poche ore, crivellati di colpi. Ma non era finita. Qualche altra ora ancora, e alla periferia di Makhackala, capoluogo di quella repubblica del Daghestan che è stato per anni retrovia del conflitto ceceno, è saltato fuori anche il cadavere di Malik Akhmedilov: corrispondente del giornale in lingua avara Khakhikat (“La Verità”). Secondo il ministero dell’Interno daghestano, il corpo stava in un’auto parcheggiata in un quartiere periferico, con addosso i segni di numerosi colpi di arma da fuoco: in particolare sullo stomaco. Stando a un recente documento di “Reporter senza Frontiere”, con Akhmedilov sarebbero ormai 22 i giornalisti uccisi in Russia dal marzo del 2000. Ma i calcoli di Radio Radicale, che partono dall’ottobre del 2000, arrivano a 109. Primo fra tutti, proprio l’italiano della stessa Radio Radicale Antonio Russo, che aveva però sempre rifiutato di iscriversi all’Ordine dei giornalisti e di lavorare per grandi testate in nome della propria libertà. Dopo aver
Da Obama all’Ue, solo parole rituali per gli omicidi
E intanto l’Occidente sta a guardare di Aldo Forbice ltre due vittime del regime. Una scia di sangue, prima e dopo l’assassinio di Anna Politkovskaya, che continua senza pause. A Mosca e a Grozny non piacciono i giornalisti e i difensori dei diritti umani. Li considerano elementi di disturbo, come mosche fastidiose. E per neutralizzarli ricorrono al sistema più semplice: la della loro eliminazione fisica. In altri Paesi autoritari, gli oppositori vengono arrestati, talvolta condannati dopo un processo, magari sommario. In Cecenia e nel Caucaso, niente arresti, niente processi. Solo condanne a morte con esecuzione immediata. E dopo ogni omicidio si ripete il rituale delle dichiarazioni di Putin, di Medvedev e di tutti i capi e sotto capi del regime ancora strettamente legati a Mosca come ai tempi dell’Urss. A che cosa sono servite infatti le promesse pubbliche di Putin e degli altri dirigenti della Federazione russa sui «colpevoli degli atti criminali», che sarebbero stati assicurati alla giustizia e quindi processati, con la comminazione di «condanne esemplari»?
A
to enorme: più di 300mila morti, Grozny ancora ridotta in un cumulo di macerie, gli sfollati nelle Repubbliche vicine sono ancora centinaia di migliaia.
Ricordiamo, ancora una volta, che la lunga scia di sangue ha coinvolto in Russia e nel Caucaso oltre 200 giornalisti e forse altrettanti operatori umanitari. Il filo rosso che unisce tutti questi delitti è rappresentato dal fatto che le vittime si erano impegnate nella tutela dei diritti umani e si erano occupati di Cecenia. Ufficialmente per il governo di Mosca, la Cecenia è “pacificata”dopo due guerre. Il costo di questa pace apparente, come è noto, è sta-
I giovani, anche se ridotti a poche migliaia, continuano a lottare sulle montagne, con piccole e sistematiche azioni di guerriglia. Ma di tutto questo il mondo non sa nulla perché i giornalisti stranieri e i rappresentanti di Amnesty International e di Medici senza Frontiere non riescono ad entrare in Cecenia. Quelle rare volte che ottengono un visto di ingresso, vengono controllati a vista dai militari russi. Al confronto gli studenti di Teheran sono più fortunati: possono almeno contare sui siti internet per le loro denunce sulla repressione del regime teocratico. Persino gli uomini del dissenso cinese, (dai tibetani agli urighuri, ai cristiani) possono sperare nell’attiva solidarietà dell’Occidente. Ma gli sfortunati ceceni sono lasciati nell’oblio. Il silenzio dell’Europa e degli Usa è assordante: da Obama ai presidenti dell’Ue solo parole rituali in occasione di qualche omicidio. La preoccupazione di non creare attriti col potente Putin è troppo forte. Le nuove “sfere d’influenza” vanno tutelate e il motto continua ad essere cinicamente quello di “non disturbare il manovratore”, cioè la Russia. Al prossimo omicidio, al prossimo orrore, la scena delle lacrime di coccodrillo irrimediabilmente si ripeterà con buona pace della libertà di stampa e della tutela dei più elementari diritti degli esseri umani.
Una delle foto più famose di Anna Politkovskaya, la giornalista uccisa a Mosca per il suo impegno contro la dittatura russa. Nella foto a destra, soldati ceceni su un carroarmato di fabbricazione sovietica. Lo scontro fra le due popolazioni è stato lungo e molto cruento documentato guerre e stragi in Algeria, Burundi, Ruanda, Ucraina, Colombia e Bosnia ed essere stato l’unico giornalista occidentale rimasto in Kosovo durante i bombardamenti Nato, a documentare la pulizia etnica degli albanesi, il quarantenne Russo fu trovato morto il 16 ottobre del 2000 in Georgia, su una stradina di campagna a 25 Km da Tblisi, e in prossimità della base russa di Vasiani. Ferocemente torturato, il suo cadavere livido presentava chiare tracce di uccisione attraverso quello schiacciamento del torace che era un metodo tipico dei servizi segreti sovietici. Non solo le videocassette, articoli e appunti che portava con sé non furono mai ritrovati, ma anche il suo alloggio era stato trovato completamente privo di appunti e video, anche se gli oggetti di valore non erano stati invece toccati. Dopo aver cominciato a trasmettere in Italia notizie scottanti sulla guerra in Cecenia, due giorni prima della morte Russo aveva parlato alla madre di una videocassetta scioccante, contenente torture e violenze dei reparti speciali russi ai danni della popolazione cecena. Secondo i suoi amici, Russo avrebbe raccolto prove dell’utilizzo di armi non convenzionali contro bambini ceceni.
Una terza stima è stata fatta alla Cnn da Alexei Simonov, della Fondazione di Difesa della Glasnost: 220 giornalisti assassinati in Russia tra il 1991 e il dicembre del 2007, e solo cinque delle relative indagini condotte a termine. E una quarta stima è quella della Wikipedia: 195 morti tra 1992 e 2009. Ovviamente non tutti i giornalisti uccisi si occupavano di Cecenia. Serghiei Protazanov, tipografo impaginatore di un giornale di opposizione di Khimki, alle porte di Mosca, morì il primo settembre del 2008 in ospedale dopo essere stato aggredito e brutalmente picchiato da sconosciuti il gior-
mondo
12 agosto 2009 • pagina 5
NATALIA ESTEMIROVA Russa, morta il 15 luglio 2009. Considerata l’erede di Anna Politkovkaya, anche lei giornalista della Novaya Gazeta, era una delle più accese critiche del regime russo. Considerava Putin «un nuovo zar, con la preparazione dei leader sovietici di un tempo»
proprietario del sito Ingushetiya.ru, fu ucciso a colpi di pistola in un’auto Italiano, morto il 16 della polizia. E Anna Steottobre 2000 panovna Politkovskaja, in Georgia mentre appunto. Cittadina russa indagava sui crimini di etnia ucraina, corriin Cecenia. Era stato torturato. Il materiale spondente in Cecenia, autrice di articoli infuocati che aveva con sé non sulla Novaja Gazeta a fu ritrovato. proposito dello scarso imLe circostanze della pegno del governo e delmorte non sono mai l’esercito russi sul fronte state chiarite, dei diritti umani sia in Cema molti puntano cenia sia in Russia, il 7 otil dito contro tobre 2006 venne assassiil governo di Putin nata a colpi di pistola nell’ascensore del suo palazno precedente, presumibilmente per zo, mentre stava rincasando. Da ricoraver appoggiato il movimento che cerca- dare che già nel settembre del 2004 era va di difendere il locale bosco dal pro- stata colta da un improvviso malore getto di costruzione di un’autostrada. E proprio mentre si stava recando a Beneanche tutti gli uccisi per la Cecenia slan durante la crisi degli ostaggi, l’aeerano operatori della stampa. Come ri- reo era stato costretto a tornare indietro cordato, la Sadulayeva e il marito lavo- per permettere un suo immediato ricoravano in un’ong. vero, e non era mancato chi aveva soLa stampa e la Cecenia sono però le due spettato un tentativo di avvelenamento. punte emergenti dell’iceberg. E già la La sua morte consentì alla polizia di selettura di qualche pur sommario dato di accomZAREMA SADULAYEVA pagnamento sui vari casi Russa, uccisa insieme basta a dare un’idea di al marito l’11 agosto cosa può succedere nella 2008. Direttrice Russia di oggi. Ilyas dell’organizzazione Shurpayev, giornalista non governativa che daghestano responsabile si occupa di giovani per la copertura delle no“Salviamo la tizie del Caucaso Settengenerazione”, aveva trionale su Channel One 33 anni. La coppia fu ad esempio strangolato indagava sui con una cintura, a Mosca. sopravvissuti Gaji Abashilov, responsaai massacri russi bile della Tv di Stato del in Cecenia: era stata Daghestan Vgtrk, fu fredrapita il giorno prima dato a fucilate nella sua auto. Magomed Yevloyev,
ANTONIO RUSSO
questrare il suo pc e tutto il materiale di un’inchiesta che stava facendo, proprio alla vigilia della pubblicazione di un lungo articolo sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al già citato Kadyrov.
E ancora, Adlan Khassanov: reporter della Reuters, ucciso a Grozny.Vladimir Yatsina: corrispondente di Itar-Tass, rapito e poi ucciso da un gruppo di guerriglieri islamici ceceni. Aleksandr Yefremov: fotoreporter del giornale siberiano Nashe Vremya, anche lui ucciso in Cecenia dai ribelli. Iskandar Khatloni: di Radio Free Europe, molto attivo sugli abusi dei diritti umani in Cecenia, è ucciso nottetempo da uno sconosciuto nel suo appartamento di Mosca. A colpi d’ascia, come in un film di Dario Argento. Adam Tepsurgayev; cameraman ceceno della Reuters, aveva prodotto la maggior parte delle riprese dell’agenzia dalla Cecenia nel 2000, tra cui gli scatti del capo ribelle Shamil Basayev. Cynthia Elbaum: fotografa di Time magazine, è uccisa nel corso di bombardamenti russi nel 1994. Vladimir Zhitarenko: veterano militare corrispondente del quotidiano delle forze armate russe Krasnaya Zvezda (“Stella Rossa”), è colpito da due proiettili di un cecchino al di fuori della città di TolstoyYurt, nei pressi di Grozny. Nina Yefimova: reporter del giornale Revival, è stata rapita dal suo appartamento e uccisa, assieme a sua madre; pensano in molti, per i suoi articoli sulla criminalità in Cecenia. Jochen Piest: corrispondente
di Stern, è ucciso il 10 gennaio 1995 in un attacco suicida da un ribelle ceceno nel villaggio di Chervlyonna, a nord-est di Gorzny. Farkhad Kerimov, autore delle riprese di Associated Press dei “ribelli” della Cecenia, è morto in circostanze mai chiarite. Natalya Alyakina, freelance per giornali tedeschi, è stata uccisa da un soldato vicino a Budyonnovsk: città russa, ma teatro di azioni cecene. Shamkhan Kagirov, reporter per il quotidiano di Mosca Rossiyskaya Gazeta e per il giornale locale Vozrozheniye: colpito e ucciso in un agguato in Cecenia, assieme a tre agenti della polizia locale. Viktor Pimenov: colpito alla schiena da un cecchino posizionato sul tetto di un edificio a Grozny. Nadezhda Chaikova: il suo corpo è stato trovato sepolto nel villaggio ceceno di Geikhi bendato e recante segni di percosse, finito con un colpo d’arma da fuoco. Supian Ependiyev: muore in un affollato mercato all’aperto nel centro di Grozny, in un raid che causò l’uccisione o il ferimento di centinaia di persone. Ramzan Mezhidov: ucciso in un attacco aereo a un convoglio di rifugiati lungo la RostovBaku, strada da Grozny a Nazran nella vicina Inguscezia. Il free-lance inglese Roddy Scott: il 26 settembre del 2002 soldati russi hanno trovato il suo corpo nella regione di Galashki, vicino al con-
ALEXANDER CHERKASOV Il direttore della Ong “Memorial” è ancora vivo. Eppure infastidisce non poco le autorità russe. L’Organizzazione da lui diretta, infatti, ha un ufficio a Grozny (molto spesso colpito dalle autorità) che monitora le violazioni ai diritti umani della popolazione e fornisce aiuto legale
fine tra Inguscezia e Cecenia, dopo una sanguinosa battaglia tra russi e ceceni. E la 25enne Anastasia Baburova, studentessa di una scuola di giornalismo impegnata nella ricerca del sicario di Stanislav Markelov: già avvocato di Anna Politkovskaya, difensore delle famiglie dei ceceni rapiti e torturati dalle milizie filorusse; e della famiglia di Elza Kungayev, stuprata e uccisa da militari russi, per conto della quale aveva appena promosso un ricorso contro la scarcerazione del colonnello russo Yurij Budanov, responsabile dell’episodio. Lo scorso 19 gennaio è morta per un colpo di pistola in faccia, sparato dal sicario che aveva appena assassinato alle spalle Markelov.
diario
pagina 6 • 12 agosto 2009
Polemiche agostane. La differenziazione retributiva dovrebbe essere rivendicata da sindacati e istituzioni meridionali
Le vere gabbie del nostro Sud
Il gap tra redditi diversi e consumi uguali è colmato dal sommerso di Giuliano Cazzola iustamente ha scritto Alberto Orioli, sul Sole 24 Ore di ieri, che la discussione sulle zone salariali - per come è stata impostata – scomparirà insieme alle zanzare di agosto. Nonostante che il tema dei differenziali retributivi e reddituali tra Nord e Sud sia serio, non ha senso banalizzarlo come se si trattasse di una delle tante pagine di lotta politica incline allo spettacolo. Anche la linea di condotta della Banca d’Italia ha lasciato a desiderare. Dapprima, con lo studio sulle differenze del costo della vita tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, l’Istituto di via Nazionale ha scoperto «l’acqua calda», evidenziando uno scarto del 16% tra le differenti latitudini del costo del vivere. Sollecitata dal «drappo rosso» del“Sud ladrone”, la Lega ci si è buttata a pesce: se nel Mezzogiorno la vita è meno cara anche i salari devono essere più bassi. Oppure - che è poi la stessa cosa - i bravi lavoratori del Nord devono avere retribuzioni maggiorate del 16%. A tali considerazioni hanno replicato - come vestali violate - le personalità politiche del Sud evocando
G
norma citata, la Uil ha proposto di scambiare nelle regioni meridionali retribuzioni inferiori ai minimi con nuova occupazione regolare. Nessuno può onestamente pensare di risolvere il problema per legge o che la contrattazione collettiva possa far ricorso alla riproduzione di un modello di «zone salariali» che rappresenta un capitolo chiuso della storia del Paese, ma la questione dei differenziali retributivi è un problema che si ripresenta, oggi e da tempo, in forme rinnovate e diverse. Non a caso a proporre il tema, da anni, è la Svimez (il centro studi sull’economia del Sud) nei suoi rapporti annuali, ribadendo la necessità che nel determinare i livelli retributivi si tenga conto anche della produttività del territorio. Per uscire da questo cul de sac, che genera solo lavoro irregolare, occorre mettere in discussione il principio della inderogabilità delle norme contrattuali in forza del quale due livelli di negoziazione continuano ad essere contemplati, da noi, in una prospettiva aggiuntiva e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In Germania, ad esempio, tale ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate nel 35 per cento delle aziende e nel 22 per cento degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi.
lavoro, al mattino, e rincasare, la sera, con la metropolitana o l’autobus. La stessa possibilità è solo teorica per un napoletano, dal momento che la qualità del servizio pubblico (non solo nel settore dei trasporti locali) lascia molto a desiderare.
Se in Italia vi fosse un po’di sano realismo, la differenziazione retributiva i sindacati e le istituzioni meridionali farebbero bene non a respingerla, ma a rivendicarla. La diffusione dell’economia sommersa al Sud (al dunque tollerata da tutti, perché la realtà è sempre più forte delle ideologie) è la prova provata di una struttura sociale e produttiva che - da quando (all’inizio degli anni novanta) è terminato l’intervento straordinario e con esso è venuta a mancare la droga degli sgravi fiscali e contributivi - non è in condizione di reggere regole e costi forzatamente uniformi sul territorio nazionale. Ecco perché quei contratti uguali da Bressanone a Lampedusa, finiscono per essere applicati correttamente solo in un numero limitato di imprese, quando si attraversa il confine del Garigliano. Si spie-
Già nel 1997 la Commissione Giugni prefigurò un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto alla contrattazione nazionale discriminazioni e torti e minacciando di «fare come la Lega». Che tempi ! I nostri nonni cantavano: «E noi faremo come la Russia.....». Adesso si vuole contrapporre la Terronia alla Padania. Persino il Cavaliere - senza darsi cura della minaccia del «partito del Sud» - si è speso a sostegno di retribuzioni ragguagliate al costo della vita. Pochi giorni dopo, come se volesse porre rimedio al caos suscitato, la Banca d’Italia ha pubblicato i dati sulle retribuzioni attribuendo al Mezzogiorno - siamo di nuovo alla scoperta dell’acqua calda - livelli pari alla metà di quelli erogati al Nord.
A conti fatti, dunque, il problema sembrerebbe non sussistere: i lavoratori meridionali spendono meno, ma guadagnano anche meno. Giustizia è fatta, allora. In verità, la questione meriterebbe qualche ragionamento più articolato e complesso. Sarà anche vero, per esempio, che al Sud sono meno cari i servizi. Ma un lavoratore di Milano o di Varese può recarsi al
ga, così, perché i redditi medi al Sud sono pari a circa la metà di quelli del Nord, a fronte di standard di consumi praticamente equivalenti. Il gap è colmato dal reddito derivante dal lavoro nero. Le sole retribuzioni paragonabili, anche nel loro potere d’acquisto, sono quelle erogate della pubblica amministrazione, che rimane il «grande elemosiniere» del Sud. Nel pubblico impiego vanno assunte misure che aggancino gli stipendi alla produttività e ai risultati effettivi, superando trattamenti uniformi, ma non corrispondenti alla qualità dei servizi. Quanto al mondo del lavoro privato, nel paragrafo 16 dell’accordo quadro sulla riforma della contrattazione è indicata una strada maestra per il Mezzogiorno: le parti possono negoziare deroghe ai minimi contrattuali per affrontare situazioni locali di crisi e favorire lo sviluppo dell’occupazione. È quanto è previsto, in vari modi, in altri Paesi europei. Basti pensare che nei giorni scorsi, avvalendosi della possibilità offerta dalla
Bankitalia: i tassi sono superiori a quelli del Centro-Nord
Mutui e prestiti più alti ROMA. La Banca d’Italia continua a diffondere dati sulle differenze tra Nord e Sud. L’ultimo in ordine di tempo è un altro “occasional paper”, pubblicato sul sito dell’istituto di via Nazionale, secondo il quale un mutuo per la casa o un finanziamento all’impresa continua a restare più caro al Sud, con tassi superiori a quelli concessi al Centro-Nord. Nello studio di Bankitalia si evidenzia che dove il tasso di criminalità è più elevato il costo del credito è più alto, la richiesta di garanzie reali è maggiore e le imprese ricorrono in misura inferiore ai prestiti autoliquidanti, prevalentemente anticipi su fatture, e in misura maggiore ai prestiti in conto corrente. L’impatto della criminalità sul debito è da calcolare in circa 30 punti base. Il tasso annuo effettivo globale sui nuovi prestiti a medio e lungo periodo (Taeg) presenta valori più elevati con una punta massima del 4,96 per cento in Puglia (il valore più alto a livello nazionale) seguita dal 4,91 per cento della Calabria fino al valore più basso in assoluto del Piemonte con un 3,9 per cento. Una percentuale più contenuta del Taeg anche in Lombardia con il 4,2 per cento e in Emilia Romagna con il 4,5. La forbice media oscilla fra lo 0,4 e lo 0,6 per cento, inferiore rispetto al divario di oltre un punto raggiunto nel corso del 2008 ma più o meno stabile in confronto al dato di inizio anno. Altro fattore preoccupante è costituito dalla crescita dei flussi di nuove sofferenze, un fenomeno su cui la Banca d’Italia a livello nazionale ha più volte lanciato un allarme in questi ultimi mesi a causa del perdurare della crisi economica.
Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni studiò - per incarico del primo governo Prodi - il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte sia Massimo D’Antona che Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale. Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di «sostenere» una regolazione del lavoro sostanzialmente e forzatamente uniforme. È singolare l’embrassons-nous tra le confederazioni storiche (Cgil compresa) e la Confindustria, tutte divenute propagandiste del «benaltrismo» e protese a negare la validità e l’utilità dei differenziali retributivi. Si vede che la droga di una Cassa degli anni 2000 sembra essere più confortante.
diario
12 agosto 2009 • pagina 7
Il quotidiano: “Non ha commesso alcun delitto nella sua vita privata”
I tunisini andranno in un carcere di massima sicurezza della Lombardia
El Mundo (Rcs) scende in campo e difende Berlusconi
Guantanamo, intesa tra Roma e Washington su tre detenuti
ROMA. La Rcs sta per scendere
R OMA . Il ministro della Giu-
in campo come antagonista del gruppo Espresso-Repubblica? Il terreno di gioco a cui ci si riferisce è ovviamente quello delle abitudini sessuali del presidente del Consiglio e della loro inevitabile ricaduta sul governo del Paese e accidentale sulle vicende della famiglia Berlusconi (divorzio da Veronica Lario, critiche della figlia Barbara, litigi sull’eredità tra i figli di primo e secondo letto e, in particolare, tra Marina e Barbara per il loro ruolo in Mondadori). Come sanno anche i sassi, Repubblica continua a porre al premier le sue dieci domande, descrivendolo negli editoriali come un uomo anziano in preda ad ossessione egomaniaca. Il Corriere della Sera, invece, si è sempre tenuto basso sulla vicenda, anche se fu proprio il quotidiano di via Solferino ad ospitare lo scoop sull’inchiesta barese e la prima intervista a Patrizia D’Addario.
stizia Angelino Alfano ha notificato al suo omologo degli Stati Uniti, Eric Holder, il nulla osta del nostro governo ad ospitare tre detenuti tunisini, con precedenti penali per terrorismo in Italia, che si trovano nel carcere di Guantanamo. Riadh Nasri, Moez Fezzani e Abdul bin Mohammed bin Ourgy, saranno dunque riportati nel nostro Paese con un volo diretto su Malpensa e saranno subito messi a disposizione dei magistrati della procura della Repubblica di Milano che ne avevano richiesto da tempo l’estradizione, e pertanto saranno “custoditi” per un pri-
Se qualcosa sia cambiato nell’atteggiamento dei soci Rcs non si sa, ma è un fatto che El Mundo - quotidiano madrileno di proprietà del gruppo - ieri ha rotto il sostanziale unanimismo con cui la stampa estera si occupa della vicenda, difendendo a spada tratta Silvio Berlusconi. In un editoriale il giornale catalano definisce “l’immonda cam-
Il nuovo codice militare piace (quasi) a tutti Riforma delle regole d’ingaggio: solo l’Idv contraria di Guglielmo Malagodi
ROMA. A poco più di una settimana dalle elezioni in Afghanistan, nel nostro Paese pare essersi finalmente riaccesa una parvenza di dibattito pubblico sulla presenza e i compiti dei militari italiani a Kabul. Per farlo però «serve un intervento del governo», dice il presidente della commissione Difesa della Camera Edmondo Cirielli. Il primo a parlare era stato il ministro Ignazio La Russa: «Il codice militare di pace è insufficiente. Se ci sono morti e feriti è come se questo avvenisse in una normale esercitazione», ha sostenuto lunedì, augurandosi un «nuovo codice più di guerra che di pace». Gli ha dato manforte ieri il collega Franco Frattini: «Basta con le ipocrisie, quelle in Afghanistan non sono esercitazioni», ha detto il titolare degli Esteri: «È sbagliato adattare alla partecipazione del contingente italiano le regole del codice militare di pace, perché pace non c’è». Ieri, tra le immancabili polemiche, ci ha pensato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga a fare una proposta“tecnica”che potrebbe incontrare il favore anche di una parte consistente dell’opposizione: «È ormai venuto il momento – ha spiegato in una nota – di adottare in quelle zone un codice penale militare“speciale”, che magari non sia di“guerra”, ma che non sia neanche“di pace”, e insieme porre in funzione tribunali militari speciali di terra e di bordo, che dette speciali norme applichino sia ai militari che ai civili che si trovino nelle zone di impegno». A questo strumento «si dovrà ricorrere ogni volta che il nostro Paese intraprenda operazioni militari all’estero che implichino l’utilizzazione di armi e mezzi di guerra in quel tipo che hanno ormai assunto i conflitti, che non sono “guerre tradizionali”, ma “guerre”o “conflitti asimmetrici”».
strumenti, anche normativi, idonei a difendersi e a svolgere la loro missione». Sostanziale via libera dal Partito democratico, che non rinuncia però ad una polemica col governo: «Lo stessa – dice la responsabile Difesa del Pd Roberta Pinotti – già nella scorsa legislatura presentai una proposta di legge per introdurre un nuovo codice militare, oltre ai due esistenti, di pace e di guerra, che si applichi specificamente alle missioni internazionali», ma «dire che debba essere più di guerra che di pace è un modo vago e propagandistico di affrontare il problema. Si mostrano i muscoli, quando servirebbe invece stanziare più risorse, quelle che il governo nega».
Pollice verso all’esecutivo pure dall’ex ministro della Difesa Arturo Parisi: «Vedo che il ministro Frattini, traendo spunto da alcuni episodi circoscritti arriva ad ipotizzare, pur con tutte le cautele del caso, una legge costituzionale o una integrazione dell’articolo 11 della Costituzione». La risposta è: non se ne parla nemmeno, perchè «una cosa è riconoscere che le azioni militari fuori dal territorio nazionale necessitano di una disciplina specifica, un’altra è ipotizzare che questa nuova disciplina possa essere formulata meglio a partire da un qualche superamento dell’articolo 11». L’Italia dei Valori, dal canto suo, continua a perseguire la sua strategia di occupazione, per così dire, militare dello spazio politico lasciato sguarnito dalla sinistra non rappresentata in Parlamento: «Noi non siamo d’accordo né con Frattini né con La Russa», dice il capogruppo in Senato Felice Belisario. In primo luogo perché «la Costituzione non va svuotata come sta facendo troppo spesso il Pdl, e le nostre missioni devono essere di pace. Se sono altro le truppe vanno ritirate come già si fece per l’Iraq» e poi perché «è giunto il tempo di andare via da una zona diventata di guerra» chiude Belisario. Porta chiusa pure sul nuovo codice militare: «In Afghanistan siamo per una missione di pace – sostiene il deputato Fabio Evangelisti - Adottare il codice militare di guerra significherebbe cambiare la natura della missione».
Cesa: «Il ministro può contare sul nostro via libera. È inutile far finta di non vedere la pericolosità del contesto afghano»
pagna che la batteria della sinistra e i suoi utili idioti stanno orchestrando contro di lui” come frutto di “invidia e opportunismo spacciati per purintanesimo”. Il premier italiano, scrive El Mundo, “non ha commesso alcun delitto nella sua vita privata. Anche se l’infedeltà e la lussuria possono essere peccato per i benpensanti, gli ipocriti e i preti, non sono crimini”. Insomma,“quello che fa Berlusconi, se lo fa, con le veline o con chiunque nella sua villa sarda è lo stesso che faceva Marco Antonio ad Alessandria, Tiberio a Capri, Nerone nella città che allora non era eterna, e tutti i cesari dove gli veniva la voglia”. Paragoni, peraltro, non si sa quanto graditi a palazzo Chigi.
Anche l’Udc con il suo segretario Lorenzo Cesa appoggia l’iniziativa di La Russa: «Il ministro può contare sul nostro via libera - ha detto Cesa - per presentare in Parlamento un disegno di legge che introduca il codice speciale per la missione in Afghanistan. È inutile far finta di non vedere l’estrema pericolosità del contesto afghano e la necessità che i nostri soldati siano dotati di
mo momento in un carcere di massima sicurezza della Lombardia. Sui tempi non si sa molto ma il presidente Obama ha già fatto sapere che più presto sarà, meglio è, avendo promesso la chiusura in tempi brevi del carcere cubano nel corso della sua campagna elettorale.
Il Guardasigilli italiano dovrà adesso decidere se dare il nulla osta anche ad altri tre detenuti di Guantanamo. La richiesta dell’amministrazione americana è piuttosto pressante, ma si stanno ancora verificando le vere identità dei tre e soltanto su uno di loro ci sarebbe la certezza che ha avuto a che fare con l’Italia. Potrebbe trattarsi del tunisino Adel Ben Mabrouk, 40 anni, catturato dagli americani in Afghanistan, dove si era recato durante il regime talebano, dopo una lunga permanenza a Milano, dove aveva frequentato il centro islamico di viale Jenner. Le pratiche sono al vaglio del ministro Alfano, ma sembrerebbero più complicate di quelle già accolte perché i detenuti che gli Stati Uniti vorrebbero trasferire nel nostro Paese, in atto non avrebbero alcuna pendenza giudiziaria con la giustizia italiana.
politica
pagina 8 • 12 agosto 2009
Verso le primarie. Gli equilibri che si verranno a creare nei gruppi dirigenti locali condizioneranno il candidato vincente
Fuoco amico su Franceschini
I candidati regionali di Bersani attirano voti dalle correnti del segretario di Antonio Funiciello e primarie del 25 ottobre non serviranno al Pd solo per scegliersi il nuovo segeratrio nazionale, ma anche 21 segretari regionali. Non che i democratici nella confusione generale non sappiano più quante sono le regioni italiane, ma in ossequio alla Costituzione e per essere più federalisti di Bossi, s’è deciso che Trento e Bolzano facciano storia a sé. E però stavolta la concomitanza tra assise nazionale e congressi locali assume un valore del tutto diverso dalle primarie che elessero Veltroni due anni fa. C’è da dire che dovrebbe essere l’ultima volta che il Pd elegge lo stesso giorno il segretario nazionale e quelli regionali, almeno stante l’attuale statuto di cui tutti (soprattutto quelli che l’hanno scritto e votato) parlano male. Al prossimo giro, in nome dei principi federalisti e della struttura federale sanciti nello statuto, ogni Pd regionale si sceglierà il suo leader quando gli pare. Due anni fa, l’ascesa che sembrò inarrestabile di Veltroni, trainò tutti i segretari regionali eletti: non c’è ne fu uno, che non l’appoggiasse nella conta nazionale, a non essere eletto. Di più: ci fu una quasi perfetta rispondenza tra l’arcobaleno delle correnti nazionali a sostegno di Veltroni e le coalizioni tra correnti locali a sostegno del candidato segretario regionale poi risultato vincente. Così, come quelle primarie nazionali furono sostanzialmente finte, anche quelle regionali rimarcarono per lo più lo stesso carattere; con la sola eccezione di quelle piemontesi, assai combattute tra Susta e Morgan-
L
do, dove comunque alla fine vinse quest’ultimo, candidato più legato all’establishment. Oggi, con una dichiarata balbuzie politica del progetto del Pd, una situazione generale di minore entusiasmo e una chiara debolezza politica del partito registrata con nettezza alle ultime elezioni, potrebbe accadere esattamente il contrario.
Non saranno Bersani e Franceschini a trainare l’elezione dei segertari regionali, bensì accadrà il contrario, risultando quasi certamente la sfida per le segreterie regionali determinante per la vittoria finale a li-
capibastone locali ad esprimere un voto disgiunto: per Franceschini al duello nazionale e contro il candidato regionale di Franceschini per il voto locale. Confusione che si aggiunge a confusione, in un quadro assai povero di dibattito politico anche a livello periferico. Ma quali sono le componenti che fanno il doppio gioco? Non è solo il caso dei rutelliani romani, enfatizzato dalla stampa, da sempre a Roma alleati dei dalemiani contro i veltronianbettiniani. Le clamorose emorragie che potrebbero far considerare chiusa la partita tra Franceschini e Bersani, in favore di quest’ultiriguardano mo, niente poco di meno che la componente popolare dell’attuale segretario del Pd. In Lombardia, Puglia, Marche, Abruzzo, Campania, Piemonte, si registrano defezioni importanti da parte dei popolari sul candidato regionale franceschiniano.
In Lombardia, Puglia, Marche, Abruzzo, Campania, Piemonte, si registrano defezioni importanti da parte dei popolari vello nazionale. E, comunque, i diversi equilibri che si verranno a creare nei gruppi dirigenti dei partiti regionali condizioneranno massicciamente il segretario nazionale eletto, chiunque egli sia. Al netto di questa inversione di tendenza e visti i candidati segretari regionali in campo e gli schieramenti locali che li sostengono, un nuvolone estivo minaccia burrasca nell’estate di Franceschini. Alcune correnti interne che a Roma stanno con lui, nei capoluoghi regionali votano candidati bersaniani: un paradosso che complica maledettamente la strada dell’attuale segretario democratico alla ricerca della conferma. Il 25 ottobre gli elettori delle primarie si troveranno a dare due indicazioni di voto, una per il congresso nazionale, l’altra per quello regionale, e spesso saranno chiamati dai
In Piemonte, con la Bresso sponsor di Bersani e Chiamparino fuori dai giochi, l’attuale segretario regionale mariniano doc, Gianfranco Morgando, ha fatto sapere di tenere per Bersani. Con lui una parte consistente della corrente guidata a Roma da Fioroni. Lo stesso fenomeno, a tinte più grottesche, si registra in Campania. Se nel resto della Campania i popolari di distribuiscono equamente tra il candidato alla segreteria regionale di Bersani (Amendola) e quello di Franceschini (Impegno) - fatto di per sé già eclatante, visto che dovrebbero stare tutti con il franceschiniano - a Napoli (che è mez-
za Campania) sono pressocché tutti con il candidato bersaniano. I popolari napoletani, insomma, quelli che dovrebbero fare capo al segretario nazionale Franceschini più di tutti gli altri, il 25 ottobre eserciteranno voto disgiunto. Naturalmente non sarà facile spiegare a un elettore la logica dello stare, allo stesso tempo, con Franceschini e contro Franceschini. E siccome per i dirigenti locali la conta regionale influirà molto di più sui propri destini personali, si capisce quanto depotenziata sia la spinta che dovrebbe riportare alla riconferma l’attuale segretario nazionale. Il colpo di grazia alle ambizioni di Franceschini parrebbe insomma venire proprio dai suoi. Un fuoco amico inatteso, giustificato con imbarazzanti richiami al federalismo interno da parte di esponenti politici tra i più centralisti che l’Italia oggi si trovi ad avere. Da Roma non arrivano reprimende per l’anarchia localista. Segno, per i più maliziosi, che i popolari hanno già in mente una exit strategy per la plausibile vittoria di Bersani alla conta del 25 ottobre.
La schizofrenia di scelte e atteggiamenti che appaiono incomprensibili al potenziale elettore medio del Pd, è dovuta essenzialmente a due aspetti.Anzitutto, perché Franceschini e Bersani non sono ancora riusciti a mostrare il giusto appeal per rendere il congresso se non appassionante, almeno interessante. L’anarchia che regna a livello locale nelle correnti è, infine, da far risalire al tramonto dei vecchi capi corrente romani, che comandano poco e non riescono ad esercitare un ruolo di direzione politica per i loro correntisti.
N
a c q u e
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
o g g i
12 agosto(1868)
Nicola II
Dall’impero alla rivoluzione di Lenin, che, nel 1917, s’impadronì del potere
L’errore dell’ultimo Romanov di Mauro Canali
iglio di Alessandro III e dall’imperatrice Maria Fedorovna, Nicola II, ultimo zar della Russia, aveva preso sin da giovane ad accompagnare il padre nei suoi viaggi attraverso l’impero. Relativamente presto si era dato a viaggiare all’estero dove aveva dovuto sperimentare personalmente l’odio che i moltissimi esuli russi nutrivano per i Romanov. Come, una volta, in Giappone, quando subì un attentato da cui uscì miracolosamente illeso. Salito al trono nell’ottobre 1894, Nicola, anche se dotato di una cultura cosmopolita, non tollerò mai che venisse messo in discussione il suo potere autocratico, e trattò sempre con non dissimulata ostilità gli uomini politici in odore di «progressismo», anche quando dovette servirsene per governare il paese. Giudicava l’ideologia liberale un prodotto della cultura occidentale, estraneo quindi alla tradizione russa, e non mostrò mai alcun dubbio sul carattere sacro del suo potere. Anche se nel periodo in cui regnò, la Russia venne interessata da un intenso processo di industrializzazione, egli oppose sempre una forte resistenza agli elementi di modernità che il paese andava suo malgrado assorbendo e alle istanze di modernizzazione avanzate un po’ da tutti i ceti sociali. Se concedeva qualcosa erano in genere riforme d’importanza marginale e le concedeva solo quando non ne poteva fare a meno, quando cioè intuiva che una eccessiva opposizione alla spinta al cambiamento avrebbe potuto travolgerlo. Ma anche in questi casi egli poi si attivava per vanificare o svuotare di contenuti ciò che aveva in precedenza concesso. Insomma, tra il 1895 al 1905, il paese correva più di lui. In politica interna Nicola II continuò la politica conservatrice di suo padre, Alessandro III, affidando i compiti repressivi al reazionario Vyacheslav Plehve, già apprezzato dal padre, che fu capo della polizia fino al 1902 e ministro dell’Interno fino al 1904. Anche sul piano politico e istituzionale egli intese continua a pag. II
F
SCRITTORI E CIBI
LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA
CAPOLAVORI DI PIETRA
I tordi di Carducci
Zama 202 a.C.
La centrale di Firenze
di Francesco Napoli
di Lamberto Ippolito
di Massimo Tosti
pagine 4 e 5
pagina 6
pagina 7
pagina I - liberal estate - 12 agosto 2009
In alto a sinistra, in senso orario, lo Zar Nicola II, il ministro Pyotr Stolypin (1862-1911) e il ministro Sergei Yulyevich Witte (1905). Sopra la nave da guerra corazzata Potëmkin. Accanto a sinistra la rivoluzione d’ottobre, a destra il monaco Grigory Rasputin, tra il generale Putyatin e il colonnello Lotman (1904-1905)
seguire le orme del padre, cioè abolizione delle riforme concesse da Alessandro II, e laddove non fosse stato possibile, ostacolo ai processi di cambiamento e di modernizzazione da esse avviati. Le conseguenze furono disastrose per il paese e per il suo trono, poiché, mentre mortificava i settori progressisti moderati, che premevano per una prudente politica di riforme, favoriva lo sviluppo delle componenti radicali dell’opposizione. Le masse alla fine colsero i limiti fisiologici di tale politica e giudicarono il potere autocratico incapace di riformare se stesso.
Fu l’inizio della fine di Nicola II. Le immediate conseguenze furono i moti popolari di Pietroburgo del gennaio 1905, con l’assalto al Palazzo d’Inverno. Le timide aperture successive non fecero altro che acuire il conflitto sociale, che riprese più intenso, inasprito per di più dalle misure repressive attuate dal primo ministro Stolypin. In questo clima anche l’istituzione della Duma, la cui attività tra l’altro deluse le aspettative popolari, venne considerata un palliativo in una situazione che necessitava ormai di provvedimenti ben più radicali. Secondo il suo stile, Nicola II, ostile a qualsiasi organo che rappresentasse una perdita del suo potere, anche in questo caso con una mano dette e con l’altra riprese;
e la Duma, che doveva rappresentare un passo decisivo per la democratizzazione della vita politica, venne alla fine trasformata in un docile strumento della reazione. Durante i primi dieci anni del suo regno, l’afflusso di capitali stranieri aumentò considerevolmente, favorito dalla stabilità finanziaria raggiunta grazie a un geniale ministro delle Finanze, il liberale moderato Sergei Witte, il quale da una parte s’impegnò con successo a contenere il deficit dello stato e dall’altra a non disperdere le scarse risorse finanziarie che indirizzò verso specifici settori,
pur non modificando i tratti sostanzialmente agricoli del paese, consentirono tuttavia in alcune zone del paese l’insediamento d’importanti poli industriali con la conseguente formazione di forti aggregati di proletariato moderno. La nascita anche in Russia della «questione operaia» e la diffusione di movimenti e ideologie a carattere classista acuirono i conflitti sociali, che, favoriti dalla persistente arretratezza politica delle classi dirigenti, vennero affrontati dal potere zarista con il costante ricorso alla repressione violenta.
La Russia soffrì in questo periodo dell’assenza di un ceto medio autenticamente liberale. Infatti la borghesia, se in un certo senso non era pregiudizialmente contraria al confronto sociale, inteso come mezzo per l’elevamento del tenore di vita delle classi lavoratrici, con il prevedibile aumento dei consumi e con esso del suo potere economico, tuttavia non esitava a ritrarsi spaventata quando gli scioperi e le lotte rivendicative tendevano ad assumere i caratteri dello scontro. Era evidente
Salito al trono nell’ottobre 1894, l’imperatore Nicola II, anche se dotato di una cultura cosmopolita, non tollerò mai che venisse messo in discussione il suo potere autocratico dando in tal modo un forte impulso all’industria ferroviaria – la rete ferroviaria raddoppiò tra il 1894 e il 1905 – all’industria tessile e a quella metallurgica. Non mancarono riflessi importanti sia sul piano economico sia sul piano sociale. Gli intensi processi d’industrializzazione,
pagina II - liberal estate - 12 agosto 2009
la debolezza del liberalismo russo, incapace di agire in coerenza con i propri valori e manifestamente privo di una ideologia e di un progetto autonomi. Nei momenti più critici della vita politica e sociale, i liberali russi si rivelarono sempre al traino dei settori reazionari e conservatori raccolti intorno al trono. Questo oscillare da parte della debole borghesia russa tra la consapevolezza della necessità dello sviluppo, da cui l’adesione al libero svolgersi della dialettica sociale, e la paura di sommovimenti più radicali, da cui il sostegno alla politica repressiva dello zar, fu un elemento di debolezza del processo di modernizzazione del paese, e finì per indirizzare le masse verso soluzioni più radicali della «questione sociale».
Malgrado lo sviluppo tumultuoso che in questo periodo ebbe il partito socialdemocratico ispirato al marxismo, proprio per il carattere sostanzialmente agricolo che continuava a conservare il paese, si affermò a sinistra il partito socialista rivoluzionario, che giunse ad occupare posizioni dominanti in seno alla opposizione politica. Eredi del vecchio populismo
russo ottocentesco, da cui ereditarono anche l’esaltazione dell’atto terroristico, i socialisti rivoluzionari rifiutavano l’idea per la quale la modernizzazione del paese dovesse passare inevitabilmente per la forzata industrializzazione delle sue strutture produttive, e rifiutavano quindi il ruolo primario che i marxisti attribuivano al proletariato industriale per condurre la Russia fuori dal medioevo. Essi ponevano al centro delle loro lotte e del loro modello di sviluppo i valori espressi dalle masse contadine. La loro ideologia si presentava assai confusa, priva di un’adeguata analisi del potere autocratico, e infarcita di non pochi elementi ideologici mutuati dalla vecchia concezione anarco-populista. L’ideologia marxista si diffuse tra le classi lavoratrici e in alcuni settori della intelligencija attorno al 1890. Essa si presentava nella versione revisionistica di Bernstein. I primi teorici russi l’accolsero iniettandovi forti dosi di determinismo, convinti che fosse necessaria allo sviluppo della Russia una fase di intensa «occidentalizzazione». Nel 1898, era stato fondato il partito so-
L
o stesso giorno... nacque
Cecil B. De Mille il Coppola del primo Novecento di Francesco Lo Dico
adrino della settima arte, archetipo del cineasta, americano. La grande rapina al treno lo innamora del cinema, i film dopo di lui fanno una grande rapina del suo cinema. Cecil B. DeMille nasce ad Ashfield nel 1881 da un padre predicatore di sermoni. Ascolta la Bibbia, si appassiona al racconto, impara l’arte. La mette da parte fino al 1923. Durante la prima guerra mondiale realizza The Little American, film bellico legato alla cronaca. Si specializza in commedie piccanti. Gira Fragilità, sei femmina! Lascia la lussuria, riprende l’arte nel 1923, quando lascia al pubblico I dieci comandamenti e un altro centinaio di manuali di scrittura cinematografica. Lascia anche molte polemiche per i costi proibitivi del kolossal. Fonda una sua casa di produzione, ha un solo grande succes-
P
cialdemocratico russo, con una componente maggioritaria, i bolscevichi, che era per una rigida e giacobina centralizzazione del partito, e per obiettivi rivoluzionari ambiziosi, e da una componente minoritaria, i menscevichi, riformisti e non del tutto contrari a stringere alleanze con settori liberali. Con il paese scosso da scioperi e lotte sociali, con le conseguenze della sconfitta militare della guerra contro il Giappone, che colpiva l’economia e indeboliva il prestigio già fortemente scosso del ceto politico dirigente, Nicola II nel dicembre del 1904, promise alcune riforme istituzionali che tuttavia, si affrettò a precisare - non dovevano scalfire il potere autocratico dello zar.
La protesta popolare assunse allora dimensioni di massa. Il 9 gennaio del 1905 un immenso corteo si dirigeva, con alla testa il prete Gapon, verso il Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar una amnistia per tutti i detenuti politici e maggiori libertà politiche e sindacali. La risposta di Nicola II fu la violenza poliziesca. La polizia sparò sulla folla dei dimostranti provocando numerose
vittime, e la manifestazione passò alla storia come la «domenica rossa». Avvenne allora la definitiva frattura tra Nicola II e le masse popolari. In definitiva il 1905 preparò il 1917. Se infatti fino ad allora v’era stato tra i lavoratori chi si dichiarava ancora convinto che la soluzione dei suoi problemi fosse nelle mani dello zar, dopo il gennaio 1905, nessuno si fece più tali illusioni. Le conseguenze furono un evidente rafforzamento dei movimenti che miravano all’abbattimento violento dello zar, un inasprimento della questione sociale, la moltiplicazione degli scioperi; e non bastarono i consigli allo zar dell’intelligente ministro Witte per l’avvio di una politica riformatrice moderata con lo scopo di staccare gli elementi moderati dell’opposizione da quelli più radicali. Nicola II sulle prime si mostrò sordo a questi inviti, anzi indusse Witte a dimettersi. Ma, quando il clima diventò ancora più arroventato, con gravi episodi di ribellione, come quello che vide protagonisti i marinai della Potemkin, Nicola II s’impegnò pubblicamente, nell’ottobre del 1905, a concedere libertà di coscienza, di riunione e di associazione, e di affidare un ruolo centrale alla Duma. La prima Duma venne inaugurata nell’aprile del 1906. Scossa da profonde lacerazioni intestine venne sciolta nell’estate del 1906. Le elezioni del febbraio 1907 decretarono il rafforzamento delle sinistre che si opposero efficacemente alle manovre dello zar
Biblico nel midollo, suo padre faceva il predicatore di sermoni, epico per vocazione, il celebre regista pretende da chiunque metta piede a Hollywood giuramento scritto di fede anticomunista
so con Il re dei re (1927) e per il resto molti fiaschi. Produttore di spicco alla Paramount, è il Coppola del primo Novecento. Ammirato da tutti, executive brillante, finanziato da nessuno come regista. Non demorde, realizza anche un western, La conquista del west (1936). Torna al successo e fa il bis con La via dei giganti, epopea della ferrovia americana. Lancia Gloria Swanson fino al Viale del tramonto. Talmente celebre, recita la parte di se stesso. Premio Oscar nel 1952, sbaraglia tutti con Il più grande spettacolo del mondo. Ne offre uno meno invidiato nel periodo maccartista. Biblico nel midollo, epico per vocazione, pretende da chiunque metta piede a Hollywood giuramento scritto di fede anticomunista. Torna all’antica vocazione con Sansone e Dalila (1949), e conclude la para-
intese a controllare la Duma. Il conflitto condusse, nel giugno del 1907, a un nuovo scioglimento.
La terza Duma durò dal 1907 al 1912 e fu del tutto controllata da conservatori e reazionari, i quali vinsero anche grazie ad alcune modifiche apportate al sistema elettorale dal governo Stolypin. Si aggravò vieppiù il distacco tra il paese reale e le istituzioni, tra le forze politiche riformiste e lo zar. Le tensioni sociali e politiche si
flitto erano infatti quasi tutte le forze politiche e gli ambienti intellettuali. Si formò una sorta di «unione sacra» che vide riunite tutte le forze politiche russe, dai conservatori ai socialisti rivoluzionari, ad eccezione dei bolscevichi contrari alla guerra, da loro definita «imperialista». Il clima di solidarietà nazionale durò tuttavia poco, soffocato dai reciproci sospetti. Le sinistre interventiste, dai menscevichi ai socialisti rivoluzionari, temevano gli intrighi dello zar, e non erano soddisfatti della conduzione della guerra. Gli sviluppi delle operazioni militari destavano infatti preoccupazione, acuite dalla scarsità dei beni di prima necessità. Molto criticato era inoltre il dominio a corte di Rasputin, un monaco dissoluto che simpatizzava per i tedeschi. La Duma non veniva per lo più convocata, e quando si riuniva manifestava in modo evidente le spaccature all’interno dell’«unione sacra», dove la sinistra insisteva per una democratizzazione della vita interna del paese. Più volte venne chiesta invano un’amnistia per i reati politici. Gli ultimi giorni di vita del potere di Nicola II sono pervasi da un’atmosfera torbida che ne rappre-
Il potere bolscevico esiliò la famiglia imperiale in una località prossima agli Urali, ma i capi rivoluzionari erano convinti che lo zar, libero, avrebbe potuto ancora riunire sotto un’unica bandiera i loro nemici. Il 18 luglio 1918, a Ekaterinburg, dov’era stata relegata, la famiglia imperiale veniva massacrata acuirono di nuovo, mentre il ricorso al terrorismo riprese decisamente quota.Tra le sue vittime vi fu lo stesso Stolypin. L’ultima Duma durò dal 1912 al 1917 e venne abbattuta dalla rivoluzione. Lo scoppio della guerra rappresentò sulle prime una boccata di ossigeno per Nicola II. Favorevoli al con-
bola da regista con il remake dei Dieci Comandamenti (1956). «Credeva davvero che Mosè si comportasse così e, con vostro e mio stupore, il resto del mondo era d’accordo con lui. Teneva il dito sul polso del pubblico mondiale», scrisse di lui Joseph Mankiewicz. «Improvvisamente capivo perché lo chiamassero il re, e che non c’era ironia in questo titolo, assai meritato», commentò Oriana Fallaci dopo averlo conosciuto. Pioniere e veterano, Mosè del cinema, sancì la sacra alleanza tra lo schermo e la gente.
senta il degno sigillo. Rasputin veniva assassinato e poco dopo, nel febbraio 1917, iniziavano gli ammutinamenti di reparti militari. Era la fine del potere dello zar.
Il 4 marzo 1917, Nicola II abdicava a favore del fratello Michele, il quale molto saggiamente rifiutava l’investitura. La Russia si avviava rapidamente verso la soluzione rivoluzionaria. Il governo moderato del menscevico Kerenskji prese alcuni provvedimenti in direzione di una democratizzazione della vita politica e sociale del paese, ma era troppo tardi. I bolscevichi, nel nuovo clima di libertà, mostrarono di avere dalla parte loro la maggioranza degli operai. La debolezza di Kerenskji verso i tentativi controrivoluzionari e le sconfitte a ripetizione sui teatri di guerra aprirono la strada al tentativo rivoluzionario di Lenin, che, il 25 ottobre 1917, s’impadroniva del potere. Il nuovo potere bolscevico esiliò la famiglia imperiale in una località prossima agli Urali, ma con la guerra civile in cui era sprofondato il paese dopo l’armistizio, dove le armate «bianche» fedeli allo zar si battevano con una certa efficacia contro l’Armata rossa, i capi rivoluzionari non si sentivano tranquilli ed erano convinti che, libero, lo zar avrebbe potuto ancora riunire sotto un’unica bandiera i loro numerosi nemici. Il 18 luglio 1918, all’approssimarsi di alcune truppe cecoslovacche a Ekaterinburg, dov’era stata relegata, la famiglia imperiale veniva prelevata e subito dopo massacrata.
pagina III - liberal estate - 12 agosto 2009
SCRITTORI E CIBI
Tordi e cacciagione alla tavola
DI CARDUCCI Non solo poeta, il professore era anche appassionato dell’arte venatoria e divoratore di pennuti di Francesco Napoli
S
ono già nel futuro. «La nebbia agli irti colli/ Piovigginando sale,/ E sotto il maestrale/ Urla e biancheggia il mar», Fiorello ha immortalato per le prossime generazioni questi versi di San Martino del terzo Vate della poesia italiana, Giosuè Carducci, andandoli a riprendere qualche anno fa per cantarli da par suo. Il tutto ora giace consegnato nell’archivio del terzo millennio costituito da YouTube. Ma su questo archivio novello non si trova altro di Giosuè Carducci e allora forse non guasta tratteggiarne qualche breve nota biografica. Nacque il 27 luglio 1835 a Valdicastello nei pressi di Lucca e studiò presso la Scuola Normale di Pisa, dove ottenne il diploma in magistero.
A soli venticinque anni giunse a Bologna, il 10 novembre 1860, professore di letteratura italiana chiamato dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani che lo convinse con questa lettera (come son cambiati i tempi): «Il Prati per ragioni al tutto speciali rinunzia alla cattedra di eloquenza italiana nella Università di Bologna.
Io mi riterrei un poco fortunato ed anche un poco superbo se Ella, caro Signore, mi concedesse di nominarla a quel posto», da non crederci che una volta si faceva così. Nell’aula universitaria di Via Zamboni 33 non ripeté, in tanti anni, mai la stessa lezione e, infastidito da una platea spesso formata da studenti di altre discipline ma attratti dalla sua sapienza, allontanava gli intrusi e fra questi una volta anche Dino Campana, che lo adorava e l’aveva studiato a lungo. Non si mosse più dalla città felsinea se non per recarsi nella sua Maremma per ritrovarsi con amici vecchi e nuovi e villici locali per occasioni prevalentemente conviviali. Nel 1878 con l’Ode alla regina d’Italia diventa anche poeta ufficiale di Casa Savoia e nel 1906 gli fu assegnato il Premio Nobel, forse con qualche trama diplomatica di troppo, un anno prima della sua morte a Bologna. Riparto dall’inizio con lirica citata in apertura dove Carducci descrive l’atmosfera festosa del giorno di San Martino, cioè l’11 novembre in un borgo della Maremma toscana. Questo
pagina IV - liberal estate - 12 agosto 2009
Docente di letteratura italiana già a 25 anni, non ripeté mai la stessa lezione e, infastidito da una platea spesso formata da studenti di altre discipline, ma attratti dalla sua sapienza, allontanava gli intrusi, fra cui anche Dino Campana, che lo adorava giorno è molto particolare per i contadini in quanto segna la fine del lavoro nei campi e l’inizio della sventura, cioè del travaso del vino dai tini, dove è stato messo a fermentare, nelle botti ( «Ma per le vie del borgo/ Dal ribollir dei tini»).
All’allegria del borgo si contrappone la malinconia del paesaggio autunnale avvolto nella nebbia e colto all’ora del tramonto «tra le rossastre nubi». Nella prima strofa Carducci disegna lo sfondo della lirica, il paesaggio viene descritto con la nebbia che copre tutti gli alberi spogli e secchi sui colli e quando piove l’altezza della nebbia aumenta. Nella seconda, invece, si sposta l’attenzione al borgo, richiamando alla mente un luogo
certo noto al poeta e dove tante e tante volte nei suoi soggiorni in Maremma in prima persona deve aver sentito nelle narici con forza l’odore aspro dei vini, un odor che inebria. Ma lo sguardo del poeta viene attirato d’improvviso quasi dall’ambiente domestico interno dove «Gira su’ ceppi accesi/ Lo spiedo scoppiettando:/ Sta il cacciator fischiando/ Su l’uscio a rimirar». Appassionato dell’arte venatoria ed entusiasta divoratore di pennuti, Giosuè Carducci ha lasciato diverse «cronache» delle sue giornate di caccia, del lavoro in cucina attorno alla selvaggina e delle feste a tavola che era solito fare in tali occasioni al termine delle sue battute. E questa immagine in versi, la posa del cacciatore che scruta le rossa-
stre nuvole della quarta e conclusiva strofa dove volano «Stormi di uccelli neri», tutto ciò potrebbe perfino essere un autoritratto di Carducci, gran cacciatore e ottimo intenditore non solo di vini ma soprattutto di spiedi e cacciagione.
Sui ceppi accesi gira lo spiedo facendo colare il grasso della carne messa ad arrostire e il poeta sa bene come si preparano questi schidioni succulenti. Anzi, lo descrive in una cronaca del 1899 dove ricorda accese discussioni attorno a un problema molto avvertito nelle sue terre d’origine e tra la gente di quei luoghi e relativo alla dispersione che uno spiedo fa dei suoi sapori e umori percolanti per il caldo del fuoco. Sullo spiedo, ricorda, «dispute a non finir sorgevano», il tema di questi diverbi era sul rendimento degli stessi. Naturalmente tutto questo parlottare avveniva durante un «ricercato pasto ed abbondante libagione, fra gesti, moccoli e promesse» e «toccavan toni accesi». D’altro canto a tener presente la biografia del poeta e
L’autore ha lasciato diverse «cronache» delle sue giornate di caccia, del lavoro in cucina attorno alla selvaggina e delle feste che era solito fare al termine delle sue battute. Preferiva trascorrere il tempo così che non discettando di classici latini o greci babilmente sapevano cosa significasse «ammannitura» mentre oggi il pc lo segna in rosso come errore e bisogna ricorrere al vocabolario per esser certi che si tratta di un sinonimo molto in disuso per «preparazione». Chiusa la parentesi ritorno alla «ammannitura» di questa merlata così come Carducci la descrive.
LA RICETTA = TORDI ARROSTO
(PER 4 PERSONE) 4 tordi 2 foglie di salvia 8 crostini o fette di pane di un giorno 4 fettine di lardone un filo d’olio un pugno di sale
l’immagine che alcuni ritratti ci hanno consegnato di lui non è neppure tanto difficile immaginarlo seduto a queste tavolacce, d’osteria o case rurali che siano, a discettar non di classici latini o greci, non di odi barbare o altri metri, non di politica e di reali di Savoia, bensì proprio di spiedi, merli e contorni vari. Il problema però di come ottimizzare l’uso dello spiedo per arrostire la selvaggina rimaneva in tutta la sua difficile soluzione. E così la cronaca-racconto di Carducci attribuisce la soluzione più adatta proprio a uno dei bifolchi del paese, tal Giusto (il nome, un programma). Il giovanotto di paese armeggiando per un’intera estate tra tralicci di ferro, lamiere e arnesi vari, si dispose ad esser pronto per l’autunno quando le prime battute di caccia avrebbero portato Carducci e tutta la combriccola a mangiar pennuti. Il busillis era quello di non perdere la colatura saporita che i tordi allo spiedo rilasciavano man mano che la cottura procedeva. Giusto non ci pensò su e architettò uno spiedo a tre piani, ciascuno sotto aveva un piatto di lamiera at-
to a raccogliere quanto rilasciato e da questo poi scivolava a quello inferiore fino al terzo e tutto, infine, colava «per finire poi in un lungo tegame donde si potevan ripescare per ricominciare daccapo».
C’è però la prova del fuoco e a sera, raccolta la compagnia, Giusto è pronto a inaugurare questa sorta di scultura. Carducci a capotavola osserva incuriosito «al fortunato pian terreno, il citato tegame posato su un treppiede e sospeso su poco fuoco: in guazzetto d’olio e di vino bianco si agitavano foglie si salvia e d’alloro, bacche di ginepro e mirto, peperoncino e stecchi di finocchio selvatico». Il sistema funzionava perfettamente perché gli umori secreti durante la cottura venivano raccolti da un rametto di ramerino e, passando di piano in piano, venivano riportati su per «proseguire il giro infernale». Tocco finale, prima di assaporare i tre gustosi spiedini, fu quello di piazzare «un quarto spiedo di pane smanioso di raccoglier gli umori più alti». Il rapporto di Carducci sarà steso sicuramen-
I tordi, non vuotateli mai e prima d’infilarli acconciateli in questa guisa: rovesciate loro le ali sul dorso onde ognuna di esse tenga ferme una o due foglie di salvia; le zampe tagliatele all’estremità ed incrociatele facendone passare una sopra il ginocchio dell’altra, forando il tendine, e in questa incrociatura ponete una ciocchettina di salvia. Poi infilateli collocando i più grossi nel mezzo tramezzandoli con un crostino, ossia una fettina di pane di un giorno grossa un centimetro e mezzo, oppure, se trovasi, un bastoncino tagliato a sbieco. Con fettine di lardone, salate avanti e sottili quanto la carta, fasciate il petto dell'uccello in modo che si possa infilare nello spiede insieme col pane. Cuoceteli a fiamma e se il loro becco non l’avete confitto nello sterno, teneteli prima fermi alquanto col capo penzoloni onde facciano, come suol dirsi, il collo; ungeteli una volta sola coll'olio quando cominciano a rosolare servendovi di un pennello o di una penna per non toccare i crostini, i quali sono già a sufficienza conditi dai due lardelli e salateli una volta sola. Metteteli al fuoco ben tardi perché dovendo cuocere alla svelta c’è il caso che arrivino presto e risecchiscano. Quando li mandate in tavola sfilateli pari pari, onde restino uniti sul vassoio e composti in fila, che così faranno più bella mostra.
te dopo la gustosa mangiata ma nonostante i possibili fumi d’occasione ricorda perfettamente che anche al termine del riuscito esperimento di ingegneria culinaria vi furono discussioni «ma fu concorde per elogi e approvazioni». Elogi e approvazioni che arrivarono, c’è da scommetterci su, anche al termine di una stramangiata descritta in un’altra cronaca, questa volta del 1904, dove racconta come ci si deve predisporre per una bella scorpacciata di merli arrosto. La gran merlata ha inizio intorno alle 14 e «solo merli, onde non affatturare gusto e giudizio, e di domenica dalle due in poi, finché sarebbe durata». I tenaci propositi a riguardo della compagnia in cui sedeva anche il poeta son mantenuti fino in fondo. Ma Carducci scende nei particolari della preparazione compiu-
ta da Goccino (anche questo che nome!) dopo che in una battuta di caccia era riuscito con gli amici a procurasene un’ottantina di merli. Nella preparazione, almeno stando alle parole di Carducci, «Goccino si rivelò subito artista sommo, sbuzzandone una cinquantina e salvando, di ciascuno d’essi fegato, cipolla e budella aperte per lungo», una preparazione che suscitò larghi consensi nei commensali.
Allora anche il poeta di buon animo si dispone all’abbuffata: «decisi cinque assaggi (crostini, brodo, merli lessi, arrosto e in umido)». Ma la preparazione della cacciagione richiede tempo e pertanto tutto inizia già dal sabato quando questi poveri pennuti «buscarono fusioni e insaporite diverse, a seconda dell’ammannitura». Ora ai tempi del Carducci quasi tutti pro-
L’indomani domenica, dopo una notte in infusione dei preziosi merli, Goccino e i suoi aiutanti cominciarono presto seguendo una procedura che Carducci riporta puntigliosamente, da grand gourmet quasi, e che forse val la pena a mia volta riportare perché sia bella e pronta la ricetta: «Spiedo. La trentina di merli interi erano stati i fusione, s’intende senza sale, in olio, vino, olive, bacche di ginepro, mirto e lallero. Levati e asciugati, s’ebbero un chicco di pepe in culo (il sedere serve all’uomo, osservò Goccino); poi furono infilati con alloro e salvia, avviluppati in sottil nastro di rigatino, messi a fuoco lento per cinque ore e salti alla fine. Brodo. I quindici merli, insaporiti solo in odori d’orto, furono bolliti lentissimamente in paiolo, con cipolla, sedano, aglio, minutaglie d’odori, carota, pallini di sale e pepe. Crostini. Furon messi in fusione quindici merli, insieme ai veni destinati all’umido, con cipolla, odori, olive e funghi rinvenuti, grappa e aceto. Poi furon manipolati con tritume di salvia e ramerino, arroselliti in olio con metà rigaglie, spruzzati di vino rosso e lasciati a cuocere con cincini d’acqua, in fine tritati dopo disosso e impastati con acciughe e panna. Umido. I venti merli, con l’altre rigaglie e le teste schiacciate, finirono in uno sfritto di cipolla e carote, s’ebbero poi tutta la fusione e, a turni vari, vino bianco, farina, sale e pepe, acqua e conserva che appena si vedesse. Cotti che furono, vennero levati, passato il ricco intingolo e rimessi in esso il fuoco a insaporire». Ma l’appetito dev’esser montato se Carducci, ormai pronto a sedersi a tavola visto che la lunga preparazione durò fino alle due, tronca la sua descrizione e conclude, una volta avuti i piatti dinnanzi, «il racconto cronachistico cede il posto all’immaginazione».
pagina V - liberal estate - 12 agosto 2009
LE GRANDI BATTAGLIE Il 18 ottobre le truppe romane guidate da Scipione l’Africano sconfiggono quelle cartaginesi guidate da Annibale. La città africana, come potenza militare e politica del Mar Mediterraneo, viene per sempre ridimensionata Zama Annibale aveva gli elefanti, Scipione la cavalleria numida, al comando di Massinissa. Gli elefanti – nella campagna d’Italia – non avevano svolto alcun ruolo. Se ne parlava ancora soltanto perché aveva suscitato molta impressione il fatto che il condottiero cartaginese avesse valicato le Alpi con i pachidermi al seguito. Ma poi quasi tutti gli elefanti erano morti, e nessuno fu impiegato in battaglia. A Zama, viceversa, ce n’erano ottanta ai quali Annibale affidò il compito di caricare contro il nemico. Quanto a Massinissa, Annibale sperò fino all’ultimo che non facesse a tempo a rientrare dalla spedizione che lo aveva trascinato fino ai confini della Mauritania, ben lontano dunque dal teatro della battaglia. Lo sceicco di Citra, viceversa, ce la fece a rientrare. Anche i cartaginesi avevano la cavalleria, il cui comando era affidato a un principe berbero di nome Zicheo. I due eserciti erano numericamente alla pari (circa 40mila uomini per parte).
DELLA
ZAMA 202 A. C.
Il vanto di Roma
A
La prima mossa brillante di Scipione fu quella adottata per neutralizzare l’attacco degli elefanti: ordinò le sue legioni su tre linee, ma lasciando liberi una serie di corridoi che permettessero di assorbire la forza d’urto dei pachidermi. La mossa ebbe successo: gli elefanti, durante l’attacco, s’imbizzarrirono e finirono per far più danni fra i cartaginesi che fra i romani, e finendo al di là delle linee nemiche. Teodoro Mommsen, illustre storico tedesco del XIX secolo, sottolinea che «più seria fu la lotta delle fanterie. Il
Cartagine è presa, così finì la seconda guerra punica di Massimo Tosti
combattimento fra le due prime linee durò lungo tempo e nella micidiale mischia si disordina-
Il condottiero che passò le Alpi con gli elefanti sperò fino all’ultimo che Massinissa non facesse in tempo a rientrare dalla spedizione che lo aveva portato in Mauritania rono entrambe, sicché fu loro necessario ripiegare sulle seconde linee per raccogliersi. I romani vi riuscirono, la milizia cartaginese invece si mostrò così incerta e vacillante che i mercenari si credettero traditi,
pagina VI - liberal estate - 12 agosto 2009
così da venire alle mani con quella». Era accaduto che i mercenari impiegati in prima linea ebbero la sensazione di essere stati abbandonati dalla seconda linea dei cartaginesi. Annibale in tutte le sue campagne aveva fatto quasi esclusivo conto su soldati di ventura, arruolati nelle terre che attraversava. Anche a Zama contava su uno schieramento cosmopolita: Celti, Liguri, Baleari e Mauritani, mercenari libici, Celtiberi, Galli, Italici, Sanniti.
Una specie di Legione Straniera che aveva gravissime difficoltà di intendersi per via delle troppe lingue in cui si esprimeva. A Zama riuscì a schierare anche alcune migliaia di cartaginesi, ai quali aveva spiegato come – in caso di sconfitta – tutti gli abitanti della città avrebbero corso rischi gravissimi. Ma i cartaginesi, abituati a delegare ad altri il compito di im-
bracciare le armi, non brillarono per iniziativa, insospettendo i mercenari che – a un certo punto della battaglia – ripiegarono, non avendo intenzione di sacrificarsi oltre misura. La battaglia – per Annibale – non era ancora perduta. La terza linea era quella sulla quale faceva affidamento: i veterani che avevano combattuto con lui in Italia, combattenti espertissimi e coraggiosissimi. «Scipione, per contro», racconta Mommsen, «raccolse nel centro tutte le truppe della prima linea e fece accostare la seconda e la terza linea. I veterani d’Annibale non si persero d’animo, fino a quando non giunse a stringerli da tutte le parti la cavalleria dei romani e quella di Massinissa, reduce dall’inseguimento della sbaragliata cavalleria nemica. Così finiva la battaglia, e finiva anche l’esercito cartaginese». Roma era corsa ai ripari: aveva compreso
STORIA
i propri errori e fatto il possibile per correggerli. Publio Cornelio Scipione, dotato di pieni poteri, aveva conferito all’esercito un aspetto professionale. Portata la guerra in Africa, riuscì a sconfiggere Annibale, dopo averne studiato a fondo i metodi e le tattiche. A Canne – 14 anni prima, nell’anno 216 a. C. – Annibale aveva vinto nonostante disponesse di metà dei fanti schierati da Varrone: aveva però una considerevole superiorità nella cavalleria. Scipione, alleandosi con Massinissa, ribaltò la situazione. Negli anni precedenti aveva dimostrato di essere un eccellente stratega militare, a differenza dei consoli che avevano combattuto in Italia contro i cartaginesi.
Scipione rivelò le qualità dell’eroe. Riconosciute negli anni e nei secoli successivi. Ci sarà pure una ragione se, nella prima strofa dell’Inno degli Italiani, Goffredo Mameli indicò come simbolo del risveglio nazionale l’elmo di Scipio. Un percorso a ritroso di duemila anni per trovare il campione assoluto dell’indipendenza nazionale. «Per il fatto che egli fu l’uomo più illustre fra quasi tutti quelli che vissero prima di lui», scrisse di Scipione lo storico greco Polibio, suo contemporaneo, «tutti cercano di sapere chi egli fu e da quali particolari doti naturali egli mosse per compiere tali e tante imprese». Per lui fu coniato un detto che pochi altri uomini illustri hanno meritato nel corso della storia: «Tanto nomini nullum par elogium» (per un tale nome nessun elogio è pari alla grandezza). Scipione, ha scritto uno storico moderno, Basil Liddel Hart, «parve riunire nella sua formazione gli aspetti migliori del mondo greco e del mondo romano, così che lo spirito severo e ristretto dei primi secoli della repubblica si raffinò in lui senza peraltro perdere la sua virilità». I romani erano convinti che fosse di discendenza divina, e lui incoraggiava questa interpretazione. Gustav Faber, storico e biografo di Annibale, racconta che «quando Scipione presentava alle truppe un piano di guerra – e questo di solito avveniva solo poco prima della sua attuazione – non parlava del duro lavoro concettuale che l’aveva preceduto, bensì di ispirazione divina, ma è impossibile stabilire con certezza se vi credesse veramente oppure se utilizzasse l’accenno al trascendente come strumento di persuasione». E persino John Milton, nel Paradiso Perduto (Libro IX, 642-645), dedicò quattro versi alla “divinità” dell’Eroe: «Si tenne che l’Ammonio Giove / Ed il Capitolino un dì s’ascose, / Per Olimpiade l’un, l’altro per lei / Che in Scipio partorì di Roma il vanto».
CAPOLAVORI DI PIETRA n posizione baricentrica tra la stazione di Santa Maria Novella a Firenze e la futura stazione per l’Alta Velocità, si eleva il blocco dinamico della Centrale termica e Cabina apparati centrali. L’opera si colloca tra le immagini più pregnanti della modernizzazione dei trasporti e delle comunicazioni promossa dal regime fascista. Progettista fu Angiolo Mazzoni, talentoso ingegnere del Servizio Lavori e Costruzioni del Ministero, la cui vasta e originale produzione architettonica é stata di recente oggetto di studi e mostre. L’adesione di Mazzoni alle poetiche neo-futuriste è databile, non a caso, al 1933 coincidendo con la messa a punto del progetto per la centrale termica della nuova stazione fiorentina, il cui progetto era appena stato assegnato, dopo un controverso concorso, al Gruppo Toscano dell’architetto Giovanni Michelucci. Nei disegni di studio per la centrale é evidente la volontà di Mazzoni di interpretare in termini architettonici le specificità del tema, enfatizzando la componente avveniristica attraverso l’esibizione di componenti tecniche significative. Dallo sfaccettato blocco della sala caldaie si impennano infatti quattro camini metallici, sostenuti da cavalletti e collegati in sommità da una passerella; una scala a chiocciola, anch’essa in metallo, collega il piano di esercizio attiguo alla sala con la passerella stessa. La composizione macchinistica e sincopata trascrive l’entusiasmo di Mazzoni per le avanguardie artistiche europee, in particolare per il costruttivismo russo evocato dalle scattanti silhouette dei camini e nell’elica della scala a chiocciola.
I
L’idea di base, confermata nella realizzazione, é legata al concetto di un edificio-macchina, secondo una corrispondenza stretta tra organizzazione degli spazi e funzioni, dove gli impianti meccanici costituiscono parte integrante della qualificazione formale e delle scelte espressive. Si tratta di un edificio che ha programmaticamente istituito una perfetta coerenza tra formulazione architettonica e ragione tecnica, capace di risolvere senza compromessi le esigenze strutturali e materiali. La struttura portante a telaio in cemento armato si propone con elementi d’eccezione nella sala caldaie, ritmicamente cadenzata da portali di 17.8 metri di luce. Alle campate strutturali corrisponde la localizzazione delle singole caldaie (realizzate in numero di tre rispetto alle quattro previste inizialmente), rese indipendenti dall’impalcato di esercizio e direttamente appoggiate sul piano del livello stradale, dove si espleta la raccolta delle ceneri di combustione.
AVANGUARDIA La Centrale termica della Stazione di Santa Maria Novella a Firenze
Poetiche neo-futuriste per Angiolo Mazzoni di Lamberto Ippolito
rizzazione raffinata, protetto da una plastica pensilina e nobilitato esternamente da un rivestimento in mosaico vetroso di colore rosso imperiale. Il versante opposto del settore caldaie, a pochi mesi dalla redazione del progetto della Centrale Termica, rischiava di venire parzialmente compromesso dalla costruzione accessoria di una cabina degli apparati centrali. La deviazione del reciproco orientamento planimetrico dei due edifici viene espressivamente riscattata da un corpo cilindrico a prevalente sviluppo verticale che funge visivamente da cerniera. L’intero complesso architettonico mostra a livello d’immagine una doppia valenza, diversificata tra il versante che fronteggia la città e quello che guarda ai binari. All’ermetica compattezza dei volumi verso strada, intaccati da limitate e rarefatte aperture, corrispondono diaframmi sempre più aerei, dinamici e trasparenti in aderenza al fascio dei binari. Non si tratta di una scelta squisitamente estetica,
L’edificio ha saputo reggere all’incuria e a una manutenzione ordinaria che ha ricoperto, con un intonaco marrone, la tonalità originaria di rosso acceso
quanto di una risposta formalmente espressiva all’esigenza funzionale di consentire la massima visibilità del traffico ferroviario alla cabina, ritagliata da una lunga parete vetrata che una scattante pensilina in forte aggetto protegge dai raggi abbaglianti del sole.
La centrale termica costruita a Firenze da Angiolo Mazzoni Il corpo emergente della sala caldaie, sul lato corto rivolto ad ovest, é posto in aderenza al fabbricato degli alloggi e degli uffici, orientato ortogonalmente rispetto al primo. L’ingresso, utile anche per accedere al blocco principale, gode di una caratte-
L’opera è considerata tra le immagini più significative della modernizzazione dei trasporti e comunicazioni promossa dal regime fascista
Il telaio in cemento armato è raccordato con archi di contrasto in laterizio; le grandi vetrate sono irrigidite da profilati metallici saldati in officina: con consumata maestria Mazzoni sa associare materiali di uso tradizionale (mattoni di laterizio a vista, travertino lavorato alla martellina per le profilature) e materiali di moderna concezione (materiali vetrosi, leghe di alluminio, intonaco Terranova, rivestimenti in gres). La centrale di Mazzoni si attesta oggi come un piccolo, incontestabile capolavoro dell’architettura modernista, che ha saputo reggere all’incuria e agli attacchi di una manutenzione ordinaria cieca e noncurante, che ha ricoperto con un miserabile intonaco plastico marrone il rivestimento originario in intonaco che Mazzoni aveva voluto in una tonalità accesa di rosso, per esprimere simbolicamente l’energia del calore prodotto all’interno della Centrale.
pagina VII - liberal estate - 12 agosto 2009
ORIZZONTALI 1 Teoria dell’xxxxxxx elaborata da Buridano nel sec. XIV n 8 Scr. ital. Nobel 1934 n 18 Nobel ital. per la Letteratura nel 1959 (iniz.) n 20 Commedia dell’8 or. n 23 Comic xxxxx n 24 “Diana e la Xxxx” dell’8 or. n 25 Parte dell’intestino tenue n 26 Amata da Zivago n 27 Tit. nobiliare inglese n 28 Spiaggia n 29 Sacro Cuore n 31 Lo era Attila n 33 Allegri n 34 Romanzo di A. Oriani n 35 ...la xxxx bella e mansueta n (Petrarca) n 36 Amatore famoso per il suo Tiremm innanz n 38 Salah al-Xxx, sultano che sconfisse i crociati n 40 Romanzo di Steven King, tit. it. La cosa n 41 Guglielmo Xxxx (in La ragione degli altri) n 42 “Finzione! Xxxxxx! ma andate tutti al diavolo! (in Sei personaggi in cerca d’autore) n 43 Il cognome di Giacomino (che deve pensarci) n 46 L’azzurra xxxxxx di San Marino (Pascoli) n 48 Corona Xxxxxx n 49 Xxxx Belcredi (in Enrico IV) n 50 Torino n 51 Xxx mi fec’io per mia virtute stanca (Inf. II) n 52 Protagonista del Berretto a sonagli n 53 Xxxx Fallada n 54 Bollettino Ufficiale n 55 La “sposa” nei Giganti della montagna n 57 Divinità dell’antico Egitto n 59 La “blu” e la “nera” delle vocali di Rimbaud n 60 Leone Xxxx (in Il gioco delle parti) n 61 Alan..., attore am. n 63 Non capitano spesso n 65 n Raymond..., filosofo francese n 67 Città russa sul Kama n 68 Al xxxxx del camino aspro e selvaggio (Orl. Fur. XV/94) n 69 Commedia dell’8 or. n 74 Iniz. del poeta Guerrini n 75 Una delle tre caravelle n 76 Preziosi ornamenti del capo
VERTICALI 1 La “Contessa” nei Giganti della Montagna n 2 Esseri umani che si incontrano nei romanzi di fantascienza n 3 Verruca n 4 Xxxx Gilels, pianista n 5 Xxx model n 6 Unione Librai n 7 Fra i suoi cultori, Giovenale e Swift n 8 Bastone nodoso da pastore n 9 Xxx Barzizza n 10 Radio-telegrafia n 11 Prep. art. n 12 Navigazione Alta Italia n 13 Insoddisfatta n 14 Xxxxx Orgera (in La ragione degli altri) n 15 Capol. del Dipartimento dell’Aisne n 16 55 n 17 Ant. lingua provenzale n 18 Vi si trova la cel. Villa Pisani n 19 Le xxxx des brûmes film di Marcel Carné n 21 Si fuse con Pest nel 1872 n 22 Insidiano le mosche n 28 Xxxx Battista Alberti n 29 Tiziano..., aut. del romanzo Stabat Mater n 30 Musicò L’Arlesiana n 32 Clifford..., drammaturgo USA n 35 La signora Xxxxx (in Così è, se vi pare) n 36 Discorso latino n 37 L’xxx dell’innocenza di E. Wharton n 39 Capostipite della dinastia troiana n 40 Enrico XX n 41 Ex n 42 Autore di Spaccanapoli n 43 Xxxx Galli, attrice teatrale n 44 Nel Medioevo = Università n 45 Pronome n 47 Xxxxx and stripes: bandiera USA n 48 Perché, ben mio, xxxxxx, farmi languir così? (Le nozze di Figaro) n 49 Libro sacro degli ebrei n 52 Pittore paesaggista francese n 53 Mata Xxxx n 54 Giovanni dalle Xxxxx Nere n 55 L’xxxx e il furore (pessima traduzione di un titolo di Faulkner) n 56 Peter Xxxx, direttore d’orchestra n 58 Scrisse La montagna incantata n 60 Città della Sicilia n 61 Der Wanderer di Schubert, per es. n 62 Ersilia Xxxx (in Vestire gli ignudi) n 64 Ghiaccio tedesco n 66 Infatti in latino n 67 Il partito di Spadolini n 68 Xxx di Bruno n 70 Iniz. di Albertazzi n 71 Xx non è una cosa seria dell’8 or. n 72 Xx non è guari n 73 Il nichelio
CRUCIVERBA
di Pier Francesco Paolini
QUIZ LETTERARIO
L’amata di Zivago
CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? ................................. (1431?-1498)
DI QUALE ROMANZO DEL 1834 È QUESTO INCIPIT? a signora Vauquer, nata de Conflans, è una donna anziana che da quarant’anni tiene a Parigi una pensione familiare situata in rue Neuve-Sainte-Geneviève, tra il quartiere latino e il faubourg Saint-Marceau. La pensione, nota come Casa Vauquer, accetta sia uomini che donne, giovani e vecchi, senza che i costumi di questa rispettabile istituzione abbiano mai prestato il fianco alla maldicenza. Ma è anche vero che da trent’anni non vi si è mai vista una fanciulla e perché un giovane vi alloggi deve ricevere ben pochi soldi dalla famiglia. Ciò nonostante, nel 1819, anno in cui ha inizio il nostro dramma, vi si trovava una povera ragazza. Per quanto screditato, il termine dramma di cui è stata prodiga in maniera abusiva e persecutoria la lacrimevole letteratura dei nostri tempi nel nostro caso è necessario usarlo: non che questa storia sia drammatica nel vero senso della parola, ma alla fine dell’opera forse qualche lacrima sarà stata versata intra muros e extra. La capiranno fuori di Parigi? È lecito dubitarne. Le particolarità di una vicenda ricca di osservazioni e di colore locale non possono essere apprezzate se non tra le colline di Montmartre e le alture di Montrouge, nell’illustre vallata di calcinacci sempre sul punto di cadere e di rigagnoli neri di fango; vallata piena di sofferenze reali, di gioie spesso ingannevoli, e così frenetica che occorre un qualcosa di esorbitante per crearvi una sensazione di una certa durata. Capita però che ci s’imbatta in dolori che il coacervo di vizi e di virtù rende grandi e solenni: alla loro vista, gli egoismi, gli interessi, si arrestano e s’impietosiscono, ma l’impressione che ne ricevono è come di un frutto saporito subito divorato. Il carro della civiltà, simile a quello dell’idolo di Jagernatt, spezza rapidamente anche un cuore meno fragile degli altri che tenti di frenarlo...
L
pagina VIII - liberal estate - 12 agosto 2009
L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È: Pieter de Hooch “Die Mutter” (1659-1660)
Il cruciverba di ieri
LA SOLUZIONE DI IERI È: Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” (1947)
inserto a cura di ROSSELLA FABIANI
quadrante
a Giunta militare birmana ha scritto ieri una nuova pagina nera nella storia del suo regime dittatoriale e repressivo. Il premio Nobel per la pace e leader dell’opposizione nazionale, Aung San Suun Kyi, é stata condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari. Dopo 14 anni di reclusione e censura politica - denunciati dall’intera comunità internazionale - a maggio si era aperto uno spiraglio di speranza. San Suu Kyi, 64 anni, figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, sarebbe dovuta tornare in piena libertà proprio il 21 maggio. Le autorità di Rangoon però, mediante l’istituzione di un tribunale speciale, sono riuscite a prorogare lo stato di fermo per un altro anno e mezzo. Motivo: la violazione del domicilio coatto, in quanto all’inizio dello stesso mese di maggio San Suu Kyi ha ospitato l’attivista statunitense John Wiliam Yetham. Quest’ultimo, a sua volta, ha subito una condanna a sette anni di lavori forzati.
L
Altri 18 mesi di carcere per Aung San Suu Kyi I domiciliari prolungati per non farla candidare di Antonio Picasso la condanna. Così facendo si é anche scansato il pericolo che la “pasionaria” birmana, una vola scarcerata, potesse intervenire nella campagna elettorale del 2010. Prevenzione immediata e sul lungo termine, quella adottata a Rangoon. L’obiettivo era continuare a tenere sotto controllo la leader dell’opposizione ed evitare
per martire e avrebbe confermato tutte le accuse che la comunità internazionale imputa al regime. L’esilio e la cacciata dal Paese sarebbero stati ancora più controproducenti.
San Suu Kyi, in questo modo, avrebbe potuto proseguire la sua battaglia fuori dai confini nazionali, incrementando il consenso e le risorse di cui già dispone presso i governi stranieri e le organizzazioni umanitarie. La sola carta, di conseguenza, non poteva che essere quella di ricorrere allo stratagemma della giustizia, mobilitare la magistratura di Rangoon affinché identificasse un cavillo legale adeguato e, attraverso questo, arrestarla nuovamente. L’episodio non può che suscitare tristezza e indignazione. In questo senso, l’Occidente é riuscito a replicare alla decisione di Rangoon con una sola risposta compatta. Da evidenziare la dichiarazione del premier britannico. «Sono costernato e in collera», ha detto Gordon Brown, che da sem-
Il Consiglio di Sicurezza Onu in seduta straordinaria, mentre l’Ue annuncia sanzioni. Che però colpiscono il popolo
A due anni di distanza dalle manifestazioni pacifiste dei monaci buddhisti, represse con il sangue, il regime di Rangoon torna a mostrare i suoi muscoli e la sua brutalità verso coloro che da anni ne denunciano gli eccessi. La scelta di mettere nuovamente “sotto chiave” Aung Sang Suu Kyi é stata giocata tutta sul tempistica. Rangoon ha saputo approfittare del passo falso compiuto dalla sua peggior nemica. Aver accolto Yetham all’inizio di maggio ha permesso alla Giunta di agire contro Sang Suu Kyi a neanche un mese dalla termine del-
12 agosto 2009 • pagina 17
che acquisisse voce in capitolo nella corsa elettorale. D’altra parte, se provassimo a vedere la situazione dalla prospettiva della Giunta militare, ci renderemmo conto che alternative alla dilazione degli arresti domiciliari non ce ne erano. Quella del Myanmar, infatti, é una dittatura nel più classico dei termini. Il fatto che Yetham sia stato condannato ai lavori forzati, dimostra come il regime viva anacronisticamente nel passato.
I soli metodi che conosce per zittire la dissidenza sono la repressione violenta, la censura e l’esilio degli oppositori. L’eliminazione fisica di Aung San Suu Kyi, tuttavia, non sarebbe tornata vantaggiosa. Con la morte sarebbe passata
pre si spende per la causa birmana. Importante è stata anche la reazione della Farnesina. Il ministro Frattini è stato fra i primi a esprimere la propria amarezza. Tuttavia, al di là del regime di sanzioni internazionali al quale é sottoposto il Myanmar e che si vorrebbe irrigidire, andrebbe ricordato come la sopravvivenza di una dittatura d’altri tempi - ma che ricorre a strumento attuali e reali - sia legata alla protezione cinese. Finché non si vorrà affrontare il problema dell’ombrello che Pechino offre per riparare le autocrazie alleate, queste continueranno
sulla loro strada, imbavagliando tutte le espressioni di dissenso. L’Unione europea, da parte sua, «sta preparando nuove sanzioni contro il Myanmar, che includono restrizioni commerciali nei confronti delle aziende pubbliche e il divieto di ingresso nell’Ue per i quattro responsabili della sentenza».
Lo ha affermato il premier svedese Fredrik Reinfeldt, in qualità di presidente di turno dei Ventisette. Renfieldt ha dunque ricordato che l’Ue «è unita nel condannare il verdetto contro il premio Nobel, di cui chiede il rilascio immediato e senza condizioni». Nel frattempo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di riunirsi, nella serata di ieri. Conoscendo i componenti dell’importante organo, ci si può legittimamente attendere una dichiarazione di condanna e l’adombrarsi di nuove sanzioni. Ma, per il Paese del Sud-Est asiatico, ulteriori restrizioni economiche non farebbero altro che cadere sulle spalle di una delle popolazioni più povere dell’Asia. E proprio sulla questione economica, la “Signora” - come viene affettuosamente chiamata dai birmani Aung San Suu Kyi - aveva fondato la sua vincente campagna elettorale molti anni fa. I democratici avevano infatti alzato come bandiera la fine della corruzione della Giunta militare guidata da Than Shwe e l’introduzione di nuovi regolamenti economici. Una svolta che avrebbe danneggiato i frequentatori del Paese.
quadrante
pagina 18 • 12 agosto 2009
Analisi. Sempre più acuto l’isolamento di Khamenei, indeciso fra clero e riformisti l rifiuto opposto da Alì Khamenei al presidente eletto Mahmoud Ahmadinejad, nel corso della cerimonia di insediamento, di farsi baciare l’anello non ha precedenti nella storia della Repubblica islamica iraniana. In regimi come quello dell’ayatollah la forma è sostanza. Bisogna allora dedurne che la Guida Suprema abbia voluto platealmente prendere le distanze dall’autocrate di Teheran dopo averlo immediatamente riconosciuto, il 12 giugno scorso, quale legittimo capo dello Stato ed aver avversato coloro i quali hanno denunciato i brogli elettorali. Khamenei, come abbiamo rilevato più volte su questo giornale, sente franare la terra sotto i suoi piedi. Ritiene la sua posizione precaria dopo gli scontri degli ultimi mesi. Il fatto stesso che non sia riuscito ad imbrigliare gli estremisti del regime, lo ha delegittimato di fronte all’opinione pubblica iraniana. Ma il colpo di grazia gli è stato inferto dal clero sciita che di fatto, con le pronunce dei più autorevoli esponenti (a cominciare dal Grande ayatollah Montazeri) non lo riconosce più nel ruolo che proprio al delfino di Khomeini, esiliato a Qom, aveva sottratto con una congiura di palazzo. Khamenei, dunque, cerca maldestramente di recuperare la credibilità perduta, ma a Teheran nessuno è disposto a scommettere su di lui. Dicono che è questione di tempo, che il suo destino è comunque segnato. Bisognerà vedere chi uscirà vincitore dallo scontro tutto interno al clero e come si comporteranno Ahmadinejad ed i suoi sostenitori più accesi, vale a dire le milizie basiji ed i pasdaran i quali sono pronti, in caso di conflitto aperto tra le fazioni politico-religiose iraniane a tentare il colpo di forza e ad impadronirsi del potere. Khamenei non sta a guardare: ritrarre la mano al bacio di Ahmadinejad ha significato marcare il suo distacco dal presidente, come se avesse voluto far capire ai nemici di oggi che possono ancora immaginare di diventare suoi alleati domani, magari costruendo una grande coalizione religiosa che faccia appello al popolo e si metta contro il presidente contestato. Dalla sua avrebbe l’appoggio della maggioranza degli iraniani e degli sconfitti alle presidenziali, oltre, naturalmente, la condivisione dei più autorevoli esponenti storici del khomeinismo, da Rafsanjani a Khatami. Entrambi gli ex Presidenti, infatti, hanno fatto sapere che non guideranno più la preghiera del venerdì a Teheran, ufficialmente per evitare tumulti e per non offrire il pretesto per nuovi arresti.
I
guito della loro partecipazione alle manifestazioni in favore di Moussavi.
tate. La comunità iraniana tutta si sente offesa. È come se i falsi difensori della fede islamica avessero pubblicamente rinnegato il Corano. Come può Khamenei voltarsi dall’altra parte di fronte a tanta bestialità? E come possono Moussavi, Rafsanjani, Khatami, i teologi di Qom, i nove Grandi Ayatollah e perfino il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione far finta di niente? Probabilmente al corrente della denuncia di Karrubi, la Guida Suprema non ha voluto il baciamano di Ahmadinejad ritenendolo oggettivamente responsabile delle nefandezze enumerate. E non è detto che non si stia convincendo che la strada più difficile è anche quella più coraggiosa: separare le responsabilità del clero sciita, che lui incarna al più alto livello, dai politici che di fatto hanno tradito Khomeini proprio nel trentesimo anniversario della rivoluzione islamica. Una sorta di sacrilegio. Intanto, i sostenitori di Ahmadinejad cercano di parare i colpi esponendo il presidente del Majlis, Alì Larijani, ad una brutta figura: gli hanno imposto, infatti, di smentire Karrubi dicendo che la veridicità delle affermazioni del suo predecessore alla guida del Parlamento è tutta da verificare. Ma la gente sa dove sta la verità e , oltretutto, non necessitavano nuove rivelazioni per mettere il Paese al corrente di quello che avviene nei luoghi di tortura frequentati in gioventù da Ahmadinejad non certo come torturato. L’altro fronte che il presidente ha aperto per smorzare i toni della polemica contro di lui è quello solito dell’ accusa all’Occidente di “ingerenza” nella politica iraniana. Secondo i “conservatori” quel che è accaduto dopo le elezioni è frutto di una macchinazione esterna, pilotata dai nemici di sempre dell’Iran. Curioso.
La stessa sorte è toccata a molti ragazzi violentati solo perché oppositori. Karrubi ha definito «una tragedia per la Repubblica islamica» queste azioni che gridano vendetta. La missiva è del 29 luglio: non avendo avuto risposta, l’ha resa nota. Conoscendo Rafsanjani, non è escluso che non abbia dato seguito alla circostanziata ed indignata rivelazione proprio perché venisse resa di pubblico dominio creando imbarazzo al regime e sdegno nel Paese. L’effetto è riuscito. A Teheran non si parla d’altro. Le associazioni che tentano di tutelare, per quanto precariamente, i diritti umani, si sono mobili-
Ahmadinejad non si esprimeva così quando Obama gli tendeva imprudentemente la mano. Adesso tutto è cambiato. Non sono cambiati i vecchi vizi, però, a cominciare dal complottismo. Infatti, i tre americani che a fine luglio hanno sconfinato dall’Iraq e sono stati arrestati, vengono ritenuti spie e, dunque, come tali trattati. Dicono le autorità di Teheran che ci vorrà molto tempo per accertare le loro posizioni. Il tempo necessario perché si sistemino i conti all’interno del regime. Ahmadinejad non è saldo come pensava prima del voto. Khamenei è frastornato. Il clero (e i pasdaran) agguerriti. Prima che scada il trentennale della rivoluzione, non è improbabile che una nuova si prepari.
La solitudine del numero uno di Gennaro Malgieri
In realtà per segnare il loro distacco da quella parte del clero che ancora sostiene Khamenei. Non sappiamo se la Guida Suprema, a questo punto, muterà completamente avviso su Ahmadinejad cercando di riprendersi l’autonomia perduta. Se lo facesse rischierebbe indubbiamente molto, ma quanto meno salverebbe la faccia sia pure in ritardo. Ipotizzare quali esiti avrà lo scontro nell’ambito del composito potere iraniano, al momento è difficile. Si può solo dire che la “solitudine” di Khamenei cresce insieme con il disagio dei khomeinisti ortodossi i quali inorridiscono di fronte alle prepotenze dei miliziani di Ahmadinejad, alle migliaia di persone arrestate, alle centinaia di giovani
processati da magistrati corrotti e codardi, e soprattutto a soprusi inimmaginabili nella Repubblica islamica. È dei giorni scorsi, infatti, la devastante denuncia di Medhi Karrubi, già presidente dei Majlis, competitore di Ahmadinejad alle ultime elezioni che ha lasdcito allibiti tutti. L’alto esponente sciita ha scritto una lettera all’ex-pre-
Il regime degli ayatollah è sull’orlo del collasso, fra denunce di violazioni in carcere e sonori “gran rifiuti” alla collaborazione dei leader moderati sidente Hashemi Akbar Rafsanjani, che oggi guida il potente consiglio consultivo della Guida Suprema, con la quale lo ha informato che numerose ragazze sono state brutalmente stuprate nelle carceri e nelle caserme a se-
quadrante
12 agosto 2009 • pagina 19
Fra gli eletti anche Marwan Barghouti, in carcere dal 2004
Morakot ha colpito anche Cina, Giappone e Filippine
Palestina: Fatah rinnova la leadership e il Comitato
Taiwan, oltre 60 morti per la furia del tifone
BETLEMME. La nuova guardia di Fatah entra nel comitato centrale dello storico partito laico palestinese. Vent’anni dopo il precedente congresso di Tunisi, il nuovo congresso di Fatah in corso a Betlemme ha sancito l’ingresso ai vertici del partito di molti dei protagonisti degli ultimi anni, a partire da Marwan Barghouti, il popolare leader di Fatah in Cisgiordania, che dal 2004 sta scontando l’ergastolo in Israele. Al momento resta escluso l’ex primo ministro Ahmed Qurei (Abu Ala), che ha guidato la squadra palestinese all’ultima tornata di negoziati con gli israeliani. Qurei è per ora l’ultimo dei non eletti, ma non si escludono cambiamenti al momento del risultato definitivo. Fuori dal comitato anche l’ex segretario presidenziale Tayib Abdel Rahim. I dati preliminari del voto degli oltre 2mila delegati, permettono al momento di confermare l’elezione di 11 dei 21 membri del comitato, cinque dei quali vengono nominati dai vertici del partito. Il più votato è risultato Mohammed Ighniem, più noto come Mohammed Ghneim, che è stato riconfermato ed è uno dei fondatori di Fatah. Ostile agli accordi di Oslo, è tornato solo due settimane fa in Cisgiordania dopo anni di esilio. Al secondo posto Mahmoud al Aloul, governatore di
TAIPEI. Centinaia di persone a Taiwan potrebbero essere rimaste sepolte da una colata di fango provocata dal ciclone Morakot nel villaggio di Hsiaolin del sud dell’isola non lontano dalla città di Kaohsiung. Lo hanno reso noto i servizi di soccorso.“Morakot”, che ha colpito l’Asia del nordest nel fine settimana, ha già causato diverse vittime nell’area, secondo i mezzi d’informazione locali. Per il governo, sono 62 i morti accertati a Taiwan per il tifone, mentre 57 persone risultano disperse. Nelle ultime ore sono stati trovati 10 cadaveri nelle vicinanze del fiume Chishan nella contea di Kaohsiung county, la zona più colpita. Ma si sono perse le tracce anche di
Esplode la Chinatown della vecchia Algeri Decine di feriti in scontri etnici e commerciali di Angelita La Spada commercianti algerini hanno avviato una campagna esterofoba ai danni di tutti i cinesi presenti nel Paese. Nei giorni scorsi le strade del quartiere di Bab al-Zawar, nella periferia orientale di Algeri, sede della Chinatown della città, sono state teatro di violenti scontri fra gli autoctoni proprietari degli esercizi commerciali e gli immigrati cinesi, con un bilancio di decine di feriti. I primi accusano i secondi di non rispettare l’islam, di fare uso di alcolici in pubblico, nonché di indossare indumenti poco decorosi come gli shorts, adottando un comportamento contrario alla religione e alla cultura musulmana. I membri della comunità cinese ritengono che i moti xenofobi di cui sono stati vittime siano frutto di «sentimenti di competizione e gelosia»: solo ad Algeri, nel quartiere Bab Ezzouar, i cinesi sono proprietari di oltre 200 esercizi commerciali. A scatenare le violenze, un alterco sorto fra commercianti delle due comunità. Nacer Jabi, docente di sociologia all’Università di Algeri, individua la causa degli scontri in una concomitanza di fattori come «il risentimento degli algerini per la disoccupazione [dilagante nel Paese] e le incomprensioni culturali» tra le due comunità. Apparentemente comunque non vi è alcuna prova di un diretto collegamento tra le violenze anti-cinesi e l’ala nordafricana di al Qaeda, che a luglio ha minacciato i lavoratori cinesi del Maghreb in seguito agli aspri scontri fra gli uighuri ed i cinesi di etnia Han scoppiati ad Urumqi, la capitale della provincia cinese dello Xinjiang. Di fondo, le motivazioni che si celano dietro gli episodi di violenza nel quartiere di Bab alZawar sono di natura economica.
I
edilizio, o la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec) che ha di recente firmato una transazione multimilionaria. Pechino non può permettersi di perdere simili contratti, il che spiega per quale motivo chiede ai suoi cittadini residenti nel paese magrebino di mantenere la calma e di rispettare leggi e costumi del Paese ospite. Secondo le stime ufficiali del governo algerino sono 35.000 i cinesi che vivono e lavorano nell’ex-colonia francese (750.000 in tutto il continente africano) di cui 8.000 hanno trovato occupazione nel settore edilizio. E questa ingombrante presenza è divenuta fonte di malcontento nella popolazione locale che ha raggiunto punte di disoccupazione del 70 percento al di sotto dei 30 anni.
Non c’è dubbio che la Cina come superpotenza voglia avere un libero ed esclusivo accesso alle copiose risorse naturali del continente nero, specie alle fonti energetiche. La bandiera rossa cinese sventola da Capo di Buona Speranza alle dune di sabbia del Sahara: sono stati conclusi accordi commerciali molto lucrativi e oltre 800 imprese sono operative in tutta l’Africa. Come le superpotenze occidentali nei secoli scorsi, le autorità cinesi considerano il continente antico una sorta di Stato per procura nonché ravvisano in esso una soluzione ai loro problemi di sovrappopolazione e di semiesaurimento delle risorse naturali. La speranza - non troppo velata - di Pechino è quella di inviare lì milioni di concittadini. Va poi considerata l’incomprensione della popolazione cinese nei confronti della storia e della cultura africana: complice l’isolamento dell’Impero di Mezzo, infatti, i due popoli praticamente non si conoscono. Questi scontri, che riflettono un’endemica tensione fra cinesi e algerini, potrebbero minare gli amichevoli e solidi rapporti fra Pechino ed Algeri. La riottosità fra le due comunità rischia di deteriorarsi se la crisi economica persiste ed il cauto atteggiamento assunto da Pechino rivela l’estrema delicatezza della questione che esplode in questi giorni.
La riottosità fra le due comunità rischia di deteriorarsi se la crisi economica persiste. Ma i rapporti sono fondamentali
Nablus dal 1995 e poi deputato, mentre terzo si è piazzato Barghouti. Eletto anche Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza a Gaza e acerrimo avversario di Hamas, al quale molti rimproverano tuttavia la cacciata di Fatah dalla Striscia. Con lui entrano l’ex responsabile della sicurezza in Cisgiordania Jibril Rajoub, oggi a capo della Federazione calcio palestinese, e l’ex capo dell’intelligence Tawfiq al Tirawi, oltre al negoziatore Saeb Erekat e Nasser al Qidwa, nipote del fondatore di Fatah Yasser Arafat ed ex delegato palestinese all’Onu. Ingresso anche per Hussein al Sheikh, che coordina i i rapporti amministrativi civili con Israele.
La presenza cinese nell’Africa settentrionale - così come nel resto del Continente nero, ricco di materie prime e fonti energetiche - è cresciuta in modo esponenziale dal 2004. Un’alta percentuale di importanti progetti in Algeria sono nelle mani di gruppi cinesi come la Csec (China State Construction and Engineering Corporation), che opera nel settore
un centinaio di persone in un remoto villaggio nella parte meridionale del Paese. Il ciclone ha colpito anche la Cina. Una frana causata dalle piogge torrenziali ha provocato il crollo di sei o sette condomini nella città di Pengxi, nella provincia del Zhejiang. Non si conosce il numero delle persone sepolte sotto le macerie, nè se ci sono state vittime: sei persone, hanno affermato i soccorritori, sono state estratte vive dalle macerie. Il tifone si è indebolito, trasformandosi in una «tempesta», secondo l’ufficio metereologico cinese, ma gran parte della regione continua ad essere battuta da una pioggia insistente, che provoca frane ed ostacola le operazioni di soccorso. Le autorità avevano evacuato circa 1,4 milioni di persone dalla zona costiera. La tempesta ha comunque distrutto oltre 6mila abitazioni e causato danni pari 9 miliardi di yuan (circa 900 milioni di euro). La tempesta Etau, che marciava insieme al tifone, ha poi raggiunto il Giappone, poche ore dopo che Tokyo era stata colpita da un forte terremoto. Le violenti piogge hanno causato 13 morti e 15 dispersi nelle prefetture di Hyogo e Okayama, Giappone occidentale. Nei giorni scorsi il tifone aveva già ucciso oltre 80 persone.
cultura
pagina 20 • 12 agosto 2009
Riletture. Il dramma che il Re impersona è la prima grande critica della Storia che il poeta comincia a sedimentare, prima dell’essere o non-essere di Amleto
Un sublime egoista Il “Riccardo” III di William Shakespeare tra narcisismo, potere, malvagità e sensi di colpa di Franco Ricordi er partire nel progetto di un viaggio nell’Europa shakespeariana scegliamo il testo intitolato a quello che risulta il primo grande personaggio del Bardo, la sua prima forte caratterizzazione, il Duca di Gloucester che diviene poi Re Riccardo III. Shakespeare lo scrive tra il 1592/94, quindi non ancora trentenne. E certo si avverte la giovinezza del personaggio, che compare già nel dramma antecedente (la terza parte dell’Enrico VI), nella quale già si prefigge di “imparare così bene l’assassinio da mandare Machiavelli a scuola”! E il richiamo al nostro Segretario fiorentino è più che mai significativo: si sottende infatti un concetto ben preciso di politica, quella spirale di violenza in cui saranno coinvolti tutti gli eroi di Shakespeare.
P
sica è direttamente proporzionale alla sua forza politica, quasi che la malvagità sia connaturata alla stessa sopraffazione che inevitabilmente si consuma in quella “guerra in tempo di pace”che è la politica. Ma in tal maniera Riccardo riuscirà ad esorcizzare anche il suo problema con il gentil sesso: di lì a poco conquisterà, in una memorabile scena, il cuore di Lady Anna. Nessuno più di lei odia Riccardo: gli ha ucciso il suocero e pure il marito. Riccardo la affronta proprio al funerale del marito e, in uno straordinario
morato più che mai anche del proprio essere deforme:“E finché non mi sia comperato uno specchio, risplendi sole bello, ch’io possa ammirarmi nella mia ombra, passo dopo passo, andando.” Ecco, in qualche modo è diventato bello anche lui, è riuscito a conquistare la sua amata attraverso l’azione malvagia, attraverso la politica che tutto può. Non è certo un messaggio ottimista che ci tramanda Shakespeare, si direbbe semmai il contrario. Riccardo va avanti così per tutto il dramma, e più infierisce sule proprie vittime, più riesce ad andare in alto, fino a diventare Re.
Nel monologo di apertura sembra un Leopardi in azione: accusa la Natura, che lo ha creato brutto e storpio, tanto che “i cani gli abbaiano”
Nel celebre monologo di apertura il Duca di Gloucester ci appare una sorta di “Leopardi in azione”: egli accusa la Natura, come fa il poeta di Recanati, anche per lui madre-matrigna; lo ha creato brutto, piccolo, storpio, tanto che “i cani gli abbaiano contro”. Così ora che il celebre “inverno dello scontento è fatto estate in questo sole diYork”, e la guerra si è tramutata in una pace anche troppo lasciva, che mai potrà fare lui, scherzo e aborto della Natura? Con le ragazze, evidentemente, non riscuote grande successo.Tuttavia, contrariamente al poetino di Recanati che si lamentò per tutta la vita senza mai trovare rapporti con l’altro sesso, Riccardo sceglierà una strada diversa. Deciderà di entrare in azione, ovvero “in politica”, farsi malvagio, divenire ciò che è, il più grande villain del teatro shakespeariano. Fa impressione, ma la sua deformità fi-
dialogo in cui afferma tra l’altro come “le belve a volte hanno pietà, io non ne ho alcuna, dunque non sono una belva”, riesce non solo a farsi rispettare ma addirittura a donarle un pegno d’amore. È una scena folgorante, alla quale non crede lui stesso. Ma alla fine si autoconvince di poter essere in qualche maniera, come rilevato da Jan Kott, affascinante seppure orribile; pertanto lo vediamo in un momento di smisurato narcisismo, inna-
Riccardo III è il dramma dell’ascesa al Potere, della sua più spregiudicata conquista, come Riccardo II sarà invece quello della perdita del Potere e Enrico IV segnerà l’altrettanto importante descrizione del mantenimento del Potere: le tre fasi fondamentali della politica, come rilevato recentemente anche da E. Krippendorff nel libro Shakespeare Politico. Si è parlato spesso, a proposito del Riccardo III, del Grande Meccanismo del Potere, che si ritorce inevitabilcontro mente a chi ne fa uso: negli anni Settanta si era peraltro cercato di incentrare il discorso, in chiave semiologica, sul Grande Meccanismo del Linguaggio, proprio in riferimento alla suddetta paradossale battuta della belva: un meccanismo che può uccidere con altrettanta freddezza. Così la lettura che ne aveva dato Luca Ronconi con Vittorio Gassman protagonista, faceva perno su quella struttura spietata e distaccata della costruzione linguistica. Ma al di là dei formalismi, la metafora shakespeariana sul Potere – e sulla Storia, che come Riccardo III risulta a Jan Kott “impersonale”– si con-
In basso, un ritratto del drammaturgo William Shakespeare. A sinistra, una delle locandine del suo “Riccardo III”. Nella pagina a fianco, un dipinto che ritrae Riccardo III. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace
cultura
12 agosto 2009 • pagina 21
che senso attinge l’ultima disperata battuta del protagonista che afferma “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”, quando si vede sconfitto da quelli che lui ha definito ribelli, e che nel nome di S. Paolo si riprenderanno il Potere sull’Isola scettrata? Ecco, Riccardo III è la prima grande critica della Storia che il poeta Shakespeare comincia a sedimentare, quasi ad interpretare la Poetica per la quale il dramma è“qualcosa di più elevato e più filosofico della storia”. Il grande dramma che Riccardo III impersona ci parla della tragedia della storia, e non a caso è stato interpretato da Ian Mc Kellen come un possibile antesignano di Hitler, in una implacabile nemesi storica.
Eppure la sua deformità fisica è direttamente proporzionale alla sua forza politica. E riesce a conquistare la sua amata attraverso l’azione malvagia cretizza per la prima volta con folgorante drammaticità. E alla potenza del protagonista si contrappongono non soltanto le 4 regine (ragione per cui il dramma risulta assai difficile da mettere in scena, come ricordato anche da John Gielgud. che raccomanda la presenza di una grande attrice nel ruolo di Lady Margherita) ma tutti i personaggi cosiddetti minori che in realtà, da Buckingham a Clarence, dai Sicari a Richmond, non sono affatto scontati e sono – come sempre avviene in Shakespeare – dei veri e propri mondi infiniti da interpretare. Ciò non toglie come in tal caso, analogamente a quanto avviene in Hamlet, la figura del protagonista risulti centralizzata: e lo si deve anche allo smisurato “Io”che promana da quest’uomo.
Per approfondire Riccardo III, più che a Nietzsche (che peraltro ci risulta il filosofo shakespeariano per eccellenza), bisogna fare ricorso a Max Stirner, l’ancor più
scandaloso autore della celebre opera di pieno Ottocento L’Unico e la sua proprietà. Riccardo III è l’Unico di Stirner, l’uomo che afferma senza esitazioni, e anche con un certo candore: “Non c’è nulla che m’importi più di me stesso!”. L’egoismo di Riccardo è in qualche modo sublime, e finirà per condurlo alla stessa rivelazione finale di Stirner, quando afferma alla fine del suo testo: “Io ho fondato la mia causa su nulla”. E sarà proprio quel nulla a perseguitarlo quando, in una Inghilterra Cristiana degna del Contrappasso del poema dantesco, gli appariranno in sonno tutti gli Spettri delle sue vittime. È la prima grande scena di “colpa cristianizzata” creata dal grande drammaturgo, che ne farà uso anche nei capolavori Hamlet e Macbeth. E in tale dimensione appare più che mai quella che crediamo sia l’inizio della vera e propria filosofia shakespeariana, la problematica sull’essere e sul non-essere che rappresenta l’im-
palcatura di tutte le sue commedie e tragedie.Tutti o quasi tutti i testi shakespeariani presentano un personaggio o una situazione che si può dire analoga o simile al celeberrimo Essere o non essere di Amleto. A cominciare da Riccardo III che, nel finale della tragedia, si esprime tragicomicamente nella propria crisi di identità: “Che cosa temo? Me stesso? Nessun altro è qui; Riccardo ama Riccardo; io sono io. C’è qui un assassino? No. Si, sono io. Allora fuggiamo. Come, da me stesso?”
Qui Riccardo comincia per la prima volta a dubitare di sé, avvertendo quel cristiano senso di colpa, ovvero quella Voce della coscienza per la quale viene citato anche da Hannah Arendt nel libro La vita della mente. Quello di Riccardo è il primo grande“essere o non essere” che condurrà il protagonista e noi lettori e spettatori ad una considerazione sul senso della Storia. Che cos’è che definiamo Storia, qualcosa che ha a che vedere col nostro essere o col nostro apparire? E
È questa l’assurdità della battuta finale di Riccardo, quasi volesse definirsi come uno zimbello degli eventi, lui che ha provocato la guerra civile e che ora sembra voglia vendere il regno per un cavallo. Riccardo III ci insegna la terribile spettacolarità della storia, quel nostro essere presi e inevitabilmente tutti coinvolti nelle tensioni e diatribe dei nostri tempi, senza poter intravedere il senso più autentico della nostra realtà esistenziale, la vita di tutto e di tutti che supera anche i più importanti eventi storici: è quello che sarà chiarito da Leopardi e da Nietzsche, i soli filosofi che hanno saputo rilevare la superiorità della vita sulla storia, il primo nel Bruto minore e il secondo nelle Considerazioni inattuali. Shakespeare, Leopardi e Nietzsche, una triade di poeti-filosofi che ha rivoluzionato il pensiero moderno. Ma proprio questa critica della spettacolarità si è, in qualche modo, ritorta su sé stessa: in effetti Riccardo III, proprio in virtù di questa sua spietata e teatrale scansione, si è rivelato fin dagli inizi come uno dei testi di maggior successo. Il suo protagonista è stato irresistibile (si racconta che, ai tempi di Shakespeare, una donna sposata si innamorò dell’attore Richard Burbage mentre interpretava il ruolo), e ancora oggi detiene un forte imprimatur anche “di cassetta” nei confronti degli altri Re shakespeariani. Al Pacino ne ha tratto uno straordinario film-inchiesta, Looking for Richard, nel quale umilmente si chiede quanto sia portato, come attore americano, a recitare i decasillabi del blank verse shakespeariano. Una ricerca che non ha limiti, ma certo richiede anche dei requisiti tecnici non indifferenti. Ma ormai il mito è consacrato, e il banco di prova per tutti i grandi attori è garantito. E in questo modo Shakespeare crea veramente il suo primo grande successo, la sua prima grande attrazione teatrale, pur criticando implicitamente il senso storico e spettacolare che intuisce, e in cui tutti ancora tranquillamente viviamo. Evidentemente proprio questa dicotomia, insieme al suo fascino negativo, ha funzionato.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da “Haaretz” dell’11/08/2009
Ma Israele aiuta Hezbollah di Zvi Bar’el a per essere esatti, di quale Libano parla il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu quando dice che «verrà ritenuto responsabile di ogni azione compiuta da Hezbollah»? A due mesi dalle tormentate elezioni nel Paese dei cedri, il Libano di oggi infatti non ha ancora alcun governo in carica. Il primo ministro designato Saad Hariri (figlio di quel Rafic ucciso da un’autobomba il giorno di S. Valentino di alcuni anni fa) è appena tornato da una vacanza nella parte meridionale della Francia, che si è conclusa lunedì scorso. La distribuzione dei portafogli ministeriali deve ancora essere completato, e sembra che sarà una volta ancora rinviato data la decisione presa da Walid Jumblatt di abbandonare il blocco di maggioranza. Quindi, oggi, le minacce dirette da Israele al Libano non colpiscono in effetti nessuno. Allo stesso tempo, è ben chiaro a tutti i partiti politici libanesi che i proclami espressi dal governo israeliano - colpire le infrastrutture civili come rappresaglia per eventuali attacchi compiuti da Hezbollah - non hanno alcuna base, dato che gesta del genere non colpirebbero in maniera diretta nessuno all’interno del governo di Beirut.
M
Il segmento pubblico della vita sociale del Libano ha già espresso la propria preferenza nel corso delle ultime consultazioni elettorali, quando il movimento sciita ha subito un duro colpo. Anche se detiene tuttora un considerevole peso politico all’interno della nazione. Qualunque sia il futuro governo libanese, deciderà di mettersi dietro a Hezbollah in qualunque evento che veda colpiti da Israele delle installazioni civili. Il governo siriano, che è sempre stato l’indirizzo cui inviare la responsabilità di tutte queste
cose, si comporta (credibilmente) come se non fosse coinvolto in alcun modo nell’arena domestica libanese. È arrivata al punto, Damasco, di guadagnarsi persino i complimenti da parte di Stati Uniti e Francia per questo modo di fare. Questa volta, il governo siriano può evadere ogni ombra di responsabilità. Hezbollah, che ha immediatamente risposto alle minacce di Israele con delle controaccuse dello stesso tipo, non si farà smuovere in alcun modo dalle dichiarazioni del vice ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon. Fonti vicine al movimento - citate dai quotidiani libanesi - si dicono certe che attacchi di questo tipo non potranno mai verificarsi senza il sostegno della nuova amministrazione americana. Dal loro punto di vista, Washington non ha alcun interesse a provocare una escalation che possa far deragliare i piani diplomatici di Obama e far saltare in aria i legami sempre più stretti che si stanno creando fra la Siria e gli Stati Uniti. Nella scena interna del Libano, moltissimi sono convinti che uno straordinario ciclo di circostanze che dovesse portare a un attentato di peso da parte di Hezbollah (un gesto in grado di uccidere molte persone) lascerebbe a Israele poche alternative oltre a un attacco militare. Di conseguenza, in una situazione in cui il movimento islamico sta scegliendo con molta cautela le sue mosse politiche nel Paese, tutto fa pensare che un’ipotesi del genere sia quanto meno remota. Hezbollah si trova infatti in una situazione molto confortevole, nella quale le minacce di Israele non fanno altro
che migliorare i suoi argomenti. Che prevedono un massiccio ri-armo all’interno di un quadro “difensivo” del Paese dei cedri. La milizia, infatti, si considera un partner legittimo dell’esercito nazionale di Beirut. Diversa è invece la questione nata dal collegamento esistente fra il complotto teso a uccidere l’ambasciatore israeliano in Egitto ed Hezbollah.
Secondo alcune dichiarazioni rilasciate dalle autorità egiziane, la cellula terroristica appartiene a un gruppo di estremisti islamici che ha cospirato per compiere tutta una serie di attacchi e rapine nel Paese del Nilo. Il loro scopo ideologico è quello di distruggere l’ordine attualmente esistente in Egitto per arrivare al punto in cui il governo di Mubarak sia costretto a cedere. Eppure, in contrasto con la corsa sfrenata di Ayalon per collegare questa cellula con Hezbollah, gli egiziani non hanno detto nulla che possa pensare a una mano libanese dietro queste persone. E forse hanno fatto bene.
L’IMMAGINE
Federica Pellegrini, testimonial Admo, è una campionessa di altruismo Ai Giochi del Mediterraneo di Pescara 2009 Federica Pellegrini ha stabilito il nuovo record mondiale nei 400 stile libero e conquistato un’altra medaglia d’oro, della quale si è detta molto fiera. Ma tante persone, girando per la città e vedendola tappezzata con i poster di Federica, testimonial dell’Associazione donatori di midollo osseo, hanno scoperto che la Pellegrini, in quanto donatrice, è anche una campionessa di altruismo. La peculiarità distintiva dei testimonial Admo consiste nel fatto che ognuno di loro, prima di diventare personaggioimmagine dell’Associazione, viene tipizzato, per entrare così nel registro italiano donatori midollo osseo. Il testimonial Admo è dunque un donatore che molto può fare, in termini di comunicazione di sé e dunque del progetto Admo per incentivare la donazione di midollo osseo. Donazione che a tutt’oggi vede confondere il midollo osseo con il midollo spinale e pensare, di conseguenza, a un atto in qualche modo invalidante per il donatore.
Loredana Ranni
DEGRADO E WRITERS NELLA SCUOLA FERRINI Continua il degrado ambientale da writers. Abbiamo documentato come le scuole siano attaccate degli imbrattatori. L’Aduc scrive al sindaco e alla presidente del II Municipio. Ecco il testo. Signor Sindaco, Signora Presidente il 14 agosto dello scorso anno Lei dichiarava «Con il ministro Maroni abbiamo allo studio forme alternative di punizione per i “graffitari”: chi viene preso a sporcare i muri, dovrà non solo cancellare i propri graffiti, ma anche altri dieci». È passato quasi un anno da quelle dichiarazioni e la situazione non è cambiata. Gli sfregi che documentiamo sono quelli relativi alla scuola elementare ”Contardo Ferrini”(II Municipio, presi-
dente, Sara De Angelis) i cui effetti sono anche diseducativi per i bambini che acquisiscono l’immagine del degrado come normale motivo “ornamentale”. Certo, la colpa è dall’imbecille di turno che si diverte, a spese del contribuente, a sporcare monumenti, mura, saracinesche, edicole, autobus, barriere acustiche e quant’altro. Eppure qualche indizio sui responsabili di questo scempio possono essere individuati: sono i circoli partitici e quelli dei tifosi di questa o quella squadra di calcio che operano impunemente. Lei sa a chi ci riferiamo, specialmente in certi quartieri. Occorre provvedere. Al tutto si aggiunga lo stato di abbandono degli impianti idrici ai quali qualche malintenzionato
Sole nero Tutti per strada a far baccano con pentole, coperchi e bacchette. Così nell’antica Cina si “combattevano” le eclissi. Secondo una leggenda popolare infatti, in questi eventi il Sole (o la Luna) venivano inghiottiti da un terribile drago. Per scacciare il bestione quindi, si cercava di fare più rumore possibile, ciascuno con quello che aveva
può accedere. La sollecitiamo un intervento per ridare decoro alla Capitale.
P.M. IMMAGINI DA TERZO MILLENNIO
Immagini da terzo millennio, da George Orwell parte II; una popolazione minacciata ogni giorno dall’occhio segreto, dai virus che non si capisce da quale pianeta arrivano, da verità che travalicano il sospetto, giungendo a diffondere
sui giornali e alla radio telefonate compromettenti di natura privata. All’inizio del Novecento la scoperta scientifica era vista come strumento di libertà, ora l’uomo se ne è appropriato a tal punto da diventarne schiavo. Fermiamoci un attimo a tale fotogramma, e riflettiamo sul fatto che quando le possibilità diventano un fatto discriminatorio, l’uomo ne diventa succube perché non ne può fare più a me-
no. Eppure la tecnica è importante perché ci aiuta anche a superare dei problemi di natura sanitaria, ambientale e sociale. Mi sovviene che l’uomo non si è allontanato molto dalla scimmia, perché se gli viene dato uno scatolo di cioccolatini, non se ne prende uno o due e ripone la scatola, ma gira che ti rigira in poco tempo svuoterà la scatola.
B. R.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Non ho creduto alle poche parole d’amore che mi dicevi Kahlil amatissimo, per tutta la settimana, il passato si è aperto davanti ai miei occhi e i sono tornate alla mente altre cose che ho fatto e ho detto… le offese, gli sgarbi. Vedo lucidamente che non ho creduto alle poche parole d’amore che mi dicevi, né ho udito le tante che non pronunciavi; e mi rendo conto di quanto fosse lontano dalla semplicità e dalla tenerezza il mio amore per te. E riconosco quanto ti ho ferito e cosa ha scagliato lontano da me, cosa ho tenuto lontano da entrambi. Comprendendo tutto questo, ho temuto di avere arrecato danno a ciò che è tra noi, e di averlo per sempre sminuito rispetto a ciò che sarebbe potuto essere. Questo per me rappresenterebbe il castigo più duro, per tutta l’eternità. Ho chiesto ai nostri io più grandi se sia davvero così. Per un poco non ho udito nulla. Poi ho visto con i miei occhi una montagna attraverso le nebbie e ho capito che la mia mancanza non veniva dal cuore, ma dal fatto che io non ero ancora arrivata al cuore. La nostra vita, la tua e la mia insieme, è la vita dei nostri cuori più grandi; io non posso avere alcun effetto su di lei, è lei che per gradi agisce su di me e mi confermerà nel tempo a se stessa, come ha già confermato te. Ma mi dispiace per tutto ciò che ho devastato. Mary Haskell a Kahlil Gibran
ACCADDE OGGI
QUANDO LA BUROCRAZIA DORME I tempi di certa burocrazia rischiano di strangolare la città di Roma ed è opportuno che il ministero dei Beni culturali ricordi ai propri rappresentanti i doveri che hanno verso le istituzioni. È stato approvato il parere favorevole, a condizione del reperimento delle risorse necessarie alla manutenzione dell’area, al restauro del giardino dei Cedrati all’interno di Villa Pamphilj. Lo stanziamento di poco meno di 500mila euro servirà al ripristino dell’assetto dell’area agli inizi dell’800, a partire dai percorsi (quattro viali paralleli), dagli interventi vegetazionali, dall’impianto di irrigazione, per finire con il restauro delle serre, delle fontane, e poi con gli arredi e l’impianto di illuminazione. Ebbene, quest’opera registra un ritardo della decisione perché solo a maggio di quest’anno il direttore regionale del ministero, ingegner Marchetti, ha dato il proprio parere sollecitato un anno fa (11 luglio 2008!) dalla conferenza di servizi. Peraltro, limitandosi a confermare i pareri espressi a luglio e settembre del 2008 dalle Soprintendenze per i beni architettonici e per i beni archeologici. Particolare curioso: il parere della Soprintendenza per i beni archeologici di Roma è stato trasmesso il 14 luglio del 2008, ma la direzione regionale dei Beni culturali scrive di averlo ricevuto il 15 maggio del
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
12 agosto 1914 Il Regno Unito dichiara guerra all’Austria-Ungheria. Le nazioni dell’Impero Britannico sono automaticamente incluse 1944 Seconda guerra mondiale: Sant’Anna di Stazzema (LU), inizia la strage che in pochi giorni causò la morte di oltre 500 civili 1946 Nasce la Sampdoria, squadra di calcio di Genova dalla fusione di “Andrea Doria” e “Sampierdarenese” 1953 L’Urss detona la sua prima bomba all’idrogeno 1960 Viene lanciato Echo I, il primo satellite per telecomunicazione 1981 Viene presentato l’Ibm pc, uno dei primi personal computer 1984 Cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Los Angeles 1985 Un Boeing 747 della Japan Airlines si schianta sul Monte Ogura, in Giappone, uccidendo 520 persone 1994 Si svolge il concerto di Woodstock ’94 2000 Il sottomarino russo Kursk affonda nel Mare di Barents
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
2009. Ma si parlano al ministero? Certo è che se la burocrazia non comunica al proprio interno sarà difficile cambiare Roma.
Francesco
INTERVENTO AGLI OCCHI Nino è stato operato intanto all’occhio sinistro per cataratta. Appena possibile si passerà all’altro occhio. L’intervento è stato eseguito presso il Cto. Tutto bene. Ora è di nuovo al Frullone, fra gli altri ospiti, ex ricoverati dell’Ospedale psichiatrico per lo più in condizioni di gravissimo disagio ambientale. Ma il suo stato depressivo è al massimo. È stato accompagnato e poi riaccompagnato dalla struttura del Frullone (se ne è occupato il figlio di Gigino De Gregorio che è lì caposala). La famiglia è stata del tutto assente, non condivideva la decisione di rimuovere la cataratta, nonostante che questa gli impediva di leggere e di vedere la Tv dalla sua carrozzella. Non voleva “fastidi”. Ci troviamo di fronte ad una situazione incredibile che preferisco non aggettivare anche perché forse non riuscirei a trovare le parole adatte. Prego ancora tutti voi di andarlo a trovare. È semplicissimo, non ci sono vincoli orari trattandosi di una residenza e non di ospedale. Cerchiamo di fargli vivere questa dolorosissima fase della sua vita in un clima di cameratesca solidarietà.
NON POLEMICHE MA UN’ANALISI SERENA PER UNA CRITICA COSTRUTTIVA Le polemiche successive alla sconfitta elettorale del centrodestra a Massarosa, per quanto comprensibili sul piano umano, quali reazioni ad un risultato non previsto, non portano da nessuna parte, rischiando di innescare un circuito pericoloso. Al fine d’evitare l’aumento del frastuono è necessaria un’analisi serena che abbia un fine costruttivo. L’on. Pino Lucchesi e Liberal avevano auspicato una rapida ricomposizione del locale centrodestra subito dopo il ritiro della candidatura Dati in modo da poter vincere al primo turno, in modo sicuro, con un candidato unitario, Lorenzo Ghiara, indicato dal partito di maggioranza relativa. Il ragionamento dell’On. Lucchesi e del Circolo Liberal si fondava su quelle rigide regole che dominano la politica: la somma dei voti ottenuti dai partiti di centrodestra per le elezioni europee, erano sufficienti per vincere al primo turno. Ad oggi, non sono state chiarite le ragioni per le quali non si è deciso. Forse tali ragioni hanno la loro origine in un’ipertrofica valutazione di potenzialità poi rivelatesi non veritiere. Quanti elettori in campagna elettorale ci hanno domandato: perché non vi siete subito messi insieme, se poi dichiarate di volervi apparentare al ballottaggio? I troppi veleni, sparsi a dismisura sono una delle ragioni principali della disfatta. In certi momenti, per i toni polemici assunti, per i volantini messi in circolazione, per i frasari usati è parso che la competizione fosse soltanto tra le componenti del campo moderato, mentre, dall’altra parte, un candidato come Mungai, non sprovvisto di capacità e di comunicativa e favorito dall’aver potuto impostare per tempo la propria campagna elettorale, andava avanti indisturbato. Appare perciò del tutto chiaro che ci sono responsabilità “diffuse”e che qualcuno ha “giocato sporco” durante il ballottaggio, ma in politica è sempre necessario guardare avanti. Nella prospettiva dell’on. Pino Lucchesi, di liberal, della campagna elettorale e dei molti contatti con amici vecchi e nuovi, è maturato il convincimento, anche nella prospettiva del Partito della Nazione, di riordinare e rafforzare l’area centrale, liberandola al più presto da gestioni strumentali o di comodo per ritrovare quello spazio importante che è proprio della storia “moderata” di questo comune, nel convincimento che solo rafforzando il Centro moderato e riequilibratore si potranno affrontare le prossime scadenze elettorali ed impostare le basi per vincere di nuovo. On. Pino Lucchesi PRESIDENTE CENTRO NAZIONALE INIZIATIVE SOCIALI Avv. Micaela Muttini PRESIDENTE CIRCOLO LIBERAL DI LUCCA
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruno Esposito
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO Esposizioni. Le risorse idriche contese (e devastate) dall’uomo in immagini satellitari in mostra a Capalbio
La Terra, un pianeta assetato di Mauro Canali ue frasi forniscono la chiave di lettura di Planet Watch 2009 – Aqua, la bella mostra curata da Viviana Panaccia e allestita nei locali dell’Associazione culturale “Il Frantoio” di Capalbio, diretta da Maria Concetta Monaci. La prima è di John F. Kennedy: «Chi riuscirà a risolvere il problema dell’acqua meriterà due premi Nobel, uno per la scienza, l’altro per la pace»; l’altra viene dalla stessa brochure della mostra, che, alludendo naturalmente all’acqua, recita: «La cerchiamo così tanto su pianeti lontani, la proteggiamo così poco sul nostro»”. La lapidaria quanto profetica affermazione di Kennedy ci
D
fa tornare alla mente alcune immagini di 2001 Odissea nello spazio, il celebre film di Stanley Kubrick, in cui due gruppi di nostri lontani progenitori, esseri più vicini al gorilla che all’homo sapiens, si contendevano ferocemente, nell’alba della preistoria, il controllo d’una misera pozza d’acqua.
Ecco allora il primo tema sotteso alla mostra allestita nella graziosa cittadina maremmana: l’importanza strategica che sta assumendo la disponibilità di questa preziosissima risorsa, il cui controllo rappresenta sempre più il motivo diretto o indiretto di tensioni e conflitti che interessano oggi il mondo. Una situazione che sembra destinata fatalmente ad acuirsi, stando almeno alle cifre fornite da organizzazioni e istituti specializzati internazionali concordi nel giudicare assolutamente insoddisfacente quel poco che i governi hanno iniziato a fare per la tutela delle risorse idriche. Ma il discorso va molto più in là: l’arretramento dei grandi ghiacciai del pianeta; il dissennato uso individuale dell’acqua disponibile e la carente politica condotta dalle istituzioni per la tutela delle fonti idriche. Scarsità d’acqua = guerra probabile sembra il binomio destinato a dominare gli eventi del
secolo in cui ci stiamo inoltrando, come quello di petrolio = guerra lo è stato per il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. In Medio Oriente uno dei focolai di crisi provocati dal controllo dell’“oro blu” riguarda i due grandi fiumi Tigri ed Eufrate e paesi come la Turchia, la Siria e l’Iraq. Finché si è trattato di tensioni e conflitti che hanno interessato popolazioni emarginate e dimenticate dal mondo moderno, le istituzioni hanno potuto ignorarli, ma in questo caso si tratta di potenze regionali che se venissero in conflitto aprirebbero una crisi politica di vaste proporzioni e dagli sviluppi imprevedibili. La cosiddetta “idropolitica” si è attivata per evitare che un’area già così tormentata venga investita da altre tensioni e
crisi più gravi derivate dal controllo delle risorse idriche. La crisi dell’acqua si è manifestata in tutta la sua tragicità in Darfur, dove sono venuti a combinarsi due aspetti già di per sé critici del drammatico presente ambientale, uno diretta conseguenza dell’altro. L’estensione e l’accelerazione dei processi di desertificazione provocate dal climate change ha spinto infatti popolazioni arabe, stanziate al nord del Sudan, a un massiccio esodo verso il sud del paese, più ricco di risorse idriche e abitato per lo più da popolazioni nere di etnia nuba, dedite all’agricoltura.
La mostra fornisce immagini satellitari di grande suggestione ma anche fonte di preoc-
D’ACQUA conflitti armati. Ma la vera bomba ad orologeria è rappresentata dal continente africano. I più accreditati istituti di ricerca fanno assommare a 8 milioni le persone che ogni anno in Africa muoiono per mancanza d’acqua. Dalla fine degli anni Sessanta ad oggi il
cupazioni per le evidenti alterazioni della natura prodotte dall’uomo. Come, ad esempio la condizione attuale del grande lago Aral, a cui viene dedicata una magnifica fotografia dall’alto. Selvaggiamente aggredito dall’uomo, che lo ha privato del 75% della sua primitiva capacità idrica, il lago, una volta quarto al mondo per estensione, si presenta oggi sdoppiato in due laghi di modeste dimensioni. Da qui il giusto suggello della mostra: «La cerchiamo così tanto su pianeti lontani, la proteggiamo così poco sul nostro». E in questa prospettiva il percorso offre un modellino, scala 1:10, della sonda europea Mars Express, lanciata verso Marte con l’obiettivo primario di accertare l’esistenza di acqua, seppure in forma ghiacciata, sul “pianeta rosso”. Dove è evidente ciò che è sotteso alla missione: niente acqua, niente vita.
La vera bomba ad orologeria è l’Africa: sono ormai 8 milioni le persone che ogni anno muoiono per mancanza di liquidi potabili. Una crisi che si è manifestata sopratutto in Darfur bacino del lago Ciad, sul quale si affacciano Nigeria, Niger, Cameroun e Ciad si è ristretto del 95%, minacciando la sopravvivenza di 38 milioni di persone. Secondo il Global Water Policy Project, il 36% della popolazione africana non avrebbe oggi accesso ad acqua potabile. Non è quindi un caso che è proprio in Africa siano esplose le