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ISSN 1827-8817 90819

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La libertà consiste

nel poter dire che due più due fa quattro.

9 771827 881004

George Orwell di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 19 AGOSTO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Domani un popolo prostrato e impaurito va alle urne, mentre i terroristi talebani continuano a colpire

Una scia di sangue sulle elezioni afgane Più di dieci morti in due attentati contro l’Isaf. Fuoco su un convoglio italiano di Luisa Arezzo

Suraya Pakzad di “Voice of Woman”

HERAT. Tutto come previsto. Anzi, zionari delle Nazioni Unite; non è tutto come temuto: le elezioni in Afghanistan si tingono di sangue. Ieri si sono tinte del sangue di almeno quindici persone, senza contare un attacco, per fortuna senza conseguenze, a un convoglio italiano. Dieci persone sono morte alla periferia Est di Kabul, lungo la strada che porta a Jalalabad, dove un kamikaze su una vettura imbottita di tritolo si è fatto esplodere proprio vicino a un convoglio di truppe della missione Isaf. Il bilancio conta anche cinquanta feriti E tra questi, confermano fonti Onu, ci sarebbero almeno tre fun-

chiara invece la nazionalità delle persone rimaste uccise. «Nessuna vittima tra i militari», s’è affrettato a dichiarare il responsabile della polizia afgana, ma che proprio le forze Nato fossero il bersaglio dell’attentato, non ci sono dubbi. E infatti nel pomeriggio il comando Usa ha confermato che due soldati sono rimasti uccisi in seguito all’esplosione. Ma altre voci suggeriscono che tra le vittime dell’attentato ci sarebbero anche dei soldati britannici. Ma la scia di sangue non finisce qui. segue a pagina 2

«Ma per noi donne cambierà poco» HERAT. Per i talebani è in cima alla lista delle donne afgane da eliminare. Per Time, quest’anno, è fra le 100 donne più importanti del pianeta. L’abisso che separa l’ideologia islamista e l’Occidente, oggi è anche questo e ha un nome e un cognome: Suraya Pakzad, 38 anni e 6 figli, fondatrice della Voice of Woman Organization. Che dice a liberal: «Per noi cambierà poco». a pagina 4

Perché i mercati temono la bolla di Shangai

LA BABELE DELLA MAGGIORANZA

Le banche giocano ancora in Borsa. La crisi non è bastata

Per Verdini il Carroccio non è un problema, per La Russa è un piccolo problema, per Bondi è un grande problema. La confusione sui rapporti con Lega e Udc regna sovrana tra i coordinatori del Pdl. Mentre Berlusconi risponde all’Avvenire: «Non organizzo festini»

di Gianfranco Polillo l contraccolpo più duro l’ha preso l’Economist. Nel numero in edicola, la copertina si sofferma sull’«incredibile balzo dell’Asia». Solo qualche ora dopo l’uscita del numero, il grande tonfo di borsa, che ha colpito tutte le piazze internazionali, ma con l’epicentro del piccolo terremoto proprio a Shangai. Il motore dell’ipotetico decoupling, come dicono gli economisti: vale a dire una ripresa quasi autarchica che potesse prescindere dai grandi scenari internazionali.

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segue a pagina 17

Una nuova ricerca della Banca d’Italia

Gli immigrati non ci rubano lavoro Adesso è ufficiale di Marco Palombi desso la Banca d’Italia si premura di farci sapere che gli immigrati non tolgono lavoro agli italiani: la crescita di presenza straniera, si legge in uno studio di palazzo Koch, «non si è riflessa in minori opportunità occupazionali». Anzi, c’è «complementarietà tra stranieri, italiani più istruiti e donne», nel senso che la manodopera immigrata, specialmente nel settore dei servizi, attenua i vincoli legati alla presenza dei figli o all’assistenza degli anziani.

A

Popolo In Libertà alle pagine 6 e 7

segue a pagina 8 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

163 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


mondo

pagina 2 • 19 agosto 2009

Il voto a Kabul/1. Una serie di kamikaze in azione contro i convogli Isaf: i talebani rivendicano subito gli attacchi

Sangue sulla democrazia Più di dieci morti e una lunga scia di attentati ieri in Afghanistan, aspettando le elezioni di domani. Anche gli italiani sotto attacco di Luisa Arezzo segue dalla prima Nel Sud del Paese, si è verificato un altro attacco suicida davanti a un seggio a Urzagan nel quale sarebbero morte altre cinque persone di cui ancora non si conosce la nazionalità. Infine, poche ore prima dell’attentato nelle periferia est, i talebani avevano sparato due razzi contro il palazzo presidenziale e la sede del ministero della Difesa nel centro della città. Inutile aggiungere che il portavoce dei miliziani taleban, Zabihullah Mujahid, ha subito rivendicato l’attacco. Neanche i militari italiani sono stati risparmiati dalla violenza talebana. Prima, infatti, i nostri soldati qui a Herat hanno arrestato dieci presunti terroristi, poi un nostro convoglio è stato attaccato a Farah durante un’operazione di ricognizione: per fortuna in questo caso non c’è stato nessun ferito.

In serata, poi, è arrivata la notizia della morte di due militari statunitensi in servizio nella Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf). I due sono morti (e altri tre) sono rimasti feriti quando il veicolo su cui viaggiavano è saltato su un rudimentale ordigno esplosivo collocato sul ciglio della strada che percorrevano.Un comunicato diramato dall’ufficio stampa dell’Isaf non precisa la località dell’attentato, indicando solo che si tratta dell’Afghanistan orientale. La nazionalità statunitense dei due soldati, invece, è stata confermata dal capitano Elizabeth Mathias, appartenente al contingente militare degli Stati Uniti. Dall’inizio del conflitto sono 787 i militari americani morti nel conflitto afghano. lntanto, tra mille difficoltà, proseguono i preparativi per il voto di domani. Secondo gli osservatori europei nel Paese sarebbero frequenti le «irregolarità nella procedura di iscrizione dei cittadini nei registri elettorali» che potrebbero condurre ad un «potenziale rischio di brogli». Lo ha detto John Clancy, portavoce della Commissione europea a Bruxelles. «Questo - ha aggiunto il portavoce - rappresentra un rischio potenziale di brogli, ma è importante vedere ciò che succederà nel giorno del voto». Clancy ha anche ricorda-

to che gli osservatori Ue non hanno «il mandato per interferire nel processo elettorale, ma potranno porre delle domande e osservaranno da vicino ciò che succede». Il rapporto degli osservatori Ue, in ogni caso, sarà reso pubblico dopo il voto.

Mentre, ormai da qualche giorno, i talebani intensificano le minacce con la promessa di «punizioni severe» per chiunque andrà a votare, secondo Habiba Sarabi, governatrice di Bamyan (provincia centrale del Paese), «i pericoli principali per l’Afghanistan sono il terrorismo e il fondamentalismo». In un’intervista all’AdnKronos International, la Sarabi sottolinea che nella provincia di Bamyan la «popolazione è pronta per il

voto e non ha paura dei Talebani». «Da noi - afferma la governatrice - ci sono 166 seggi e in ognuno la sicurezza è garantita dalle forze di polizia locali». Difficile fare previsioni sul voto per il governatore di Bamyan (in Afghanistan non si vota soltanto per eleggere il presidente), secondo cui l’unico dato certo è che la campagna elettorale è stata condotta con «più entusiasmo rispetto alle elezioni del 2004». In merito alle possibilità di trattare con l’ala “mo-

smo e dal fondamentalismo». La Sarabi, infine, si dichiara contraria a un ritiro precipitoso da parte delle forze alleate. «Sono qui - dice - per ripulire il Paese dal terrorismo e dal fondamentalismo. Per questo non sarebbe positivo se abbandonassero la missione prima che sia stata completata». Anche perché, in questa movimentata vigilia elettorale, i talebani continuano - ora dopo ora - a giocare senza scrupoli la carta del terrore. Ieri, in un comunicato

Per Habiba Sarabi, che governa la provincia di Bamyan, «la popolazione è pronta per il voto e non teme i terroristi». E gli alleati «non devono abbandonare prima che la missione sia completata» derata” dei talebani, invece, la Sarabi afferma che a suo avviso «scendere a patti con i Talebani non è la decisione giusta da prendere per un candidato alla presidenza o per un presidente». «Si tratta di una scelta che va fatta dal governo afghano e della forze della coalizione prosegue - perché queste ultime hanno accettato di assumersi la responsabilità di ripulire l’Afghanistan dal terrori-

diramato dai vertici della guerriglia ultra-islamica e recapitato ai mass media (soprattutto stranieri), gli “studenti della fede” avevano rinnovato il loro monito: «L’Emirato Islamico ancora una volta comunica a tutti i compatrioti che nessuno deve prendere parte a questa procedura americana, estranea e truffaldina. Debbono invece boicottarla». «Tutti i mujaheddin - prosegue la nota - debbono portare

«Apprezzamento per il lavoro dei militari italiani»

La solidarietà di Schifani e il cordoglio di Karzai ROMA. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha inviato un messaggio ai soldati italiani in Afghanistan, colpiti ieri da un attacco talebano. Il presidente «desidera esprimere la propria vicinanza alle truppe italiane impegnate nella missione militare in Afghanistan, a tutela della pace e della democrazia. L’offensiva terroristica, che ha colpito anche le forze Isaf e che mira ad impedire il sereno svolgimento delle libere elezioni e il consolidamento della democrazia in Afghanistan, deve essere assolutamente combattuta e respinta». Schifani, prosegue la nota, «conferma il proprio profondo apprezzamento per il prezioso lavoro che i militari italiani stanno coraggiosamente svolgendo con altissima professionalità a tutela della democrazia afgana e della sicurezza dell’intero Occidente».

Anche da Kabul sono arrivate addolorate parole di rito da parte del presidente uscente Karzai, a proposito degli attentati di ieri. «I nemici dell’Afghanistan - ha dichiarato Karzai - temono un’elevata affluenza alle urne della popolazione e stanno provando a intimidire l’elettorato con questi attentati terroristici». Il presidente Karzai ha poi rivolto le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, concludendo: «Gli afgani sono consci del significato che hanno queste elezioni e si recheranno ai seggi per dimostrare che si oppongono ai gesti selvaggi dei nemici».

a compimento i piani contro il nemico, sulla base del programma precedentemente assegnato loro, e cioè far fallire il complotto ordito dai nemici dell’Islam e del nostro Paese. Se a qualcuno i mujaheddin nuoceranno per aver partecipato all’iter elettorale sarà direttamente responsabile per quanto gli sarà capitato, giacché i mujaheddin hanno ripetutamente lanciato avvertimenti al riguardo.Tranne che in poche grandi città e nei capoluoghi di alcune province», sottolineano i talebani, «non è stato fatto nulla in nome delle elezioni, e non vi è dunque alcuna possibilità di tenerle». Nonostante un’atmosfera che si fa ovunque sempre più incandescente, l’Isaf aveva annunciato la sospensione durante le elezioni delle proprie «operazioni offensive» in corso, con l’unica eccezione di quelle «ritenute necessarie per proteggere la popolazione». Era un modo, per la Nato, di raccogliere l’appello a favore di una “Giornata della Pace”, lanciato dal presidente uscente Hamid Karzai e dal suo esecutivo. In una nota l’Isaf precisava che le truppe multinazionali si sarebbero concentrate «sul compito di tutelare la popolazione dell’Afghanistan dagli insorti, così da permetterle di esercitare liberamente il suo diritto a scegliere il proprio nuovo presidente e i propri rappresentanti a livello provinciale».

Un gesto reso vano dalla terribile offensiva dei terroristi che, nella provincia settentrionale di Jawzjan (finora considerata relativamente tranquilla) è riuscita addirittura a colpire in profondità lo stesso processo democratico. Vittima di un’imboscata, infatti, è caduto uno dei 72 candidati in lizza per il locale Consiglio Provinciale, che insieme a quelli di tutto il Paese sarà rinnovato con la consultazione di domani. La vittima, Abdul Rahim, è stata falciata a colpi di arma da fuoco mentre si stava recando a tenere un comizio. E con la sua morte sono ormai almeno quattro i candidati assassinati in tutto l’Afghanistan in vista del voto. Perché è la democrazia il nemico più pericoloso per i terroristi che non vogliono far uscire l’Afghanistan dalla lunga scia di sangue che sconvolge il Paese ormai da decenni.


mondo

19 agosto 2009 • pagina 3

La mappa dei pericoli per la difficile giornata elettorale, regione per regione

Il terrore nelle urne: non solo talebani Sarà un’affluenza a macchia di leopardo, secondo i contorni del terrorismo armato aura dei coltelli talebani che hanno promesso menomazioni di varia natura o disgusto per le autorità corrotte – ora bombe e attentati – ma questo appuntamento alle urne negli altopiani dell’Asia centrale non sarà come quello del 2005. L’affluenza è prevista a macchia di leopardo, a seconda della forza del terrore o del gradimento della popolazione afghana nei confronti degli amministratori locali. Le forze militari si sono acconciate per creare delle zone di sicurezza intorno ai principali centri di voto. Sia l’Isaf ( International security assistance force con 42 Paesi partecipanti), l’operazione della Nato – con i 2.800 militari italiani – che Enduring Freedom, a guida americana, hanno prodotto il massimo dello sforzo nelle ultime settimane. Ora i problemi non vengono solo dai talebani del mullah Omar, ma anche dalle lotte tra pashtun, che vedono il loro predominio etnico in pericolo, e gli altri gruppi come uzbeki e hazara. Poi ci sono i talebani amici di Islamabad e quelli cattivi, amici di al Qaeda.

P

Da Hizb-e Islami (Partito Islamico) di Gulbuddin Hekmatyar alla rete che fa capo al clan Haqqani, passando per movimenti jihadisti legati ad al Qaeda e per diverse organizzazioni criminali: sono questi i gruppi principali dell’insorgenza afghana, che rappresentano una minaccia per la sicurezza del Paese, alla vigilia delle elezioni presidenziali e provinciali in programma per giovedì. Le zone nelle quali la guerriglia è più attiva sono soprattutto quelle del Sud e dell’Est, ma ultimamente sono aumentati gli attacchi anche nell’Ovest e in alcune zone del Nord. l’Italia comanda il settore Ovest e ha alcuni reparti dislocati in quello orientale. La guerriglia, ha affermato di recente il ministro degli Esteri britannico David Miliband, «è una coalizione di convenienza, vasta, ma vuota». Ricordiamo che l’esercito di sua Maestà è prossimo alla bancarotta, a causa dell’estremo sforzo prodotto in Iraq e ora in Afghani-

di Pierre Chiartano

Al terrorismo del mullah Omar, si aggiunge la lotta tra pashtun, uzbeki e hazara. Poi ci sono gli estremisti amici del Pakistan e i nemici, vicini ad al Qaeda stan. Mancanza di fondi e carenza di rimpiazzi per il Royal Army costituito da 90mila professionisti di cui ben 8.300 in Afghanistan. Secondo Miliband, la zona dove attualmente i ribelli sono meglio organizzati è quella «dell’Afghanistan meridionale». «In quell’area, l’insorgenza è guidata da esponenti dell’ex governo talebano», ha detto il ministro britannico, e «conta un maggior numero di combattenti». Nel Sud, dove nell’ultimo periodo si sono intensificati gli attacchi contro le truppe internazionali, dominano i talebani, presenti

soprattutto nelle province di Helmand e Kandahar. Ed è in quest’area che hanno il proprio quartier generale molte organizzazioni criminali dedite al narcotraffico. Secondo l’agenzia Onu Unodc, nel 2008 in Afghanistan c’è stata una riduzione delle coltivazioni di oppio pari al 19 per cento e per quest’anno sono attesi risultati più confortanti, soprattutto nelle province meridionali e in quelle del sudovest, dove si trova il 98 per cento delle coltivazioni. Nella parte centrale del Paese opera la rete jihadista degli Haqqani. Al gruppo, uno dei più pericolosi dell’insorgenza afghana, viene fatta risalire la frangia della guerriglia guidata dall’ex comandante dei mujahidin, Jalaluddin Haqqani, e da suo figlio Sirajuddin. Sulla testa di quest’ultimo lo scorso 25 marzo, il dipartimento di Stato Usa ha posto una taglia di cinque milioni di dollari.

Super-ricercato e inserito da Washington nella lista nera dei terroristi è anche suo padre, che sembra aver lasciato al figlio le redini del movimento. Secondo alcuni esperti, Sirajuddin Haqqani sarebbe una delle menti del cambiamento di strategia di attacco dei talebani, ora focalizzata sugli Ied (Improvised explosive device), ordigni fai-da-te disseminati lungo le strade, e sugli attacchi suicidi. Nell’area settentrionale, invece, è attivo Hizb-e Islami di Hekmatyar, legato anche ai movimenti che agiscono nel Sud. Hekmatyar, di etnia pashtun, è uno dei protagonisti della storia afghana degli ultimi 30 anni e vanta una buona conoscenza del territorio. Premier nel 1993 e ’94 e poi per soli tre mesi nel ’96, in un video trasmesso nel 2006 ha promesso di combattere contro le forze occidentali in Iraq e Afghanistan «sotto la bandiera di al-Qaeda». Hizb-e Islami è un’organizzazione strutturata gerarchicamente, con una formazione di supporto logistico, una di supporto economico, il gruppo dei comandanti e quello dei guerriglieri. Il movimento sarebbe dotato anche di una buona rete d’intelligence.


mondo

pagina 4 • 19 agosto 2009

Il voto a Kabul/2. La questione femminile è ancora centrale: «Anche se la situazione dai tempi dei talebani è cambiata»

«Ma il futuro non è donna» «Nessuno dei candidati si occupa di noi, per questo continueremo a lottare»: parla Suraya Pakzar, la leader di «Voice of Woman» di Luisa Arezzo

HERAT. Per i talebani è in cima alla lista delle donne afgane da eliminare. Per Time, quest’anno, è fra le 100 donne più importanti del pianeta. L’abisso che separa l’ideologia islamista e l’Occidente, oggi è anche questo e ha un nome e un cognome. Suraya Pakzad, 38 anni e 6 figli, fondatrice della «Voice of Woman Organization». Khaleed Hosseini, l’autore afgano-americano de Il cacciatore di aquiloni, di lei ha detto: «Non so quanto coraggio ci voglia per farle aprire la porta di casa ogni mattina». I seguaci del mullah Omar che hanno già assassinato Malalai Kakar, la principale poliziotta del paese, Safia Hama Jan, direttrice del ministero per le donne della provincia ultraconservatrice di Kandahar, Zakia Zaki, giornalista, continuano a darle la caccia. E non passa settimana che a Suraya non arrivino minacce. Suraya, quando e come è nata «Voice of Woman Organization»? Nel 1998. I talebani erano al potere già da due anni e molte cose non si potevano più fare. Tutte le scuole erano state chiuse e c’era il divieto di insegnare, in qualsiasi forma, alle bambine. Io ero già madre e pensai che non potevo lasciare le mie figlie nell’ignoranza. Decisi allora di mettere su una classe di bambine, anche con figlie di amiche che avvertivano la stessa esigenza. Nel giro di qualche mese arrivarono tantissime mamme e io insegnavo dalla mattina alla sera. Capii che non potevo più farcela da sola e cominciai a chiedere aiuto a un gruppo ristretto di amici. In pochissimo tempo avevamo più di dieci scuole clandestine, tutte sovraffollate. Mi dissi che se c’era un momento in cui uno capisce che deve fare qualcosa, quel momento, per me, era arrivato. Non era un lavoro facile. I talebani avevano equiparato l’insegnamento a un crimine e assieme al mio gruppo sapevamo di giocare con il fuoco. Ma eravamo convinti e abbiamo continuato, anche grazie al supporto dei nostri mariti, che ci hanno sempre sostenuto. Dopo qualche tempo i talebani hanno comin-

ciato a sospettare qualcosa e noi abbiamo preso delle piccole precauzioni: insegnavamo nelle case circondate dai muri di argilla, sempre in cucina e sempre con il forno tradizionale acceso. Alle bambine avevamo detto – in caso di controlli a sorpresa – di non dire mai che studiavano. Mai. In caso di emergenza, libri e quaderni finivano dentro il forno in e noi facevamo finta di festeggiare un compleanno. Oggi però la sua associazione si occupa di violenza domestica e divorzi, più che di istruzione… Per tre anni siamo andati avanti così, organizzando finte feste in cucina e lasciando i forni sempre accesi. Ma già nel 2000 mi resi conto che mentre le bambine aumentavano il loro sapere, molte madri restavano indietro, alcune di loro erano analfabete. Allora ho pensato che avremmo potuto istituire dei corsi anche per loro. In questo modo avrebbero avuto, se il regime fosse cambiato, la

possibilità di trovare un lavoro. Decidemmo di lavorare con le madri perché dovevano davvero occuparsi di qualcosa: rischiavano di impazzire senza fare nulla. Dopo la caduta dei talebani nel 2001 abbiamo cominciato a lavorare in molte province del paese e ad occuparci anche di donne a rischio, donne sottoposte a violenza, donne ripudiate, ragazze madri e spose bambine.Venivano al-

Credo nella libertà del mio popolo e voglio dare un sogno alle nuove generazioni.Se questo significa stare in prima linea,ci sto volentieri

le nostre sedi di Kabul ed Herat da ogni parte del paese.Abbiamo cominciato ad ospitarle, a fornirgli assistenza legale, a negoziare con le loro famiglie per reintegrale nel tessuto familiare, la cosa forse più difficile. In qualche caso abbiamo avuto successo. Nel 2008 siamo riusciti a far riaccogliere 515 donne. Può raccontarci una storia? Ne abbiamo quante ne volete, al-

meno una al giorno. Ma una volta sono stata colpita da un caso che non mi faceva dormire la notte, tanta era la pena. Di solito non mi lascio scoraggiare, cerco di pensare positivo, di trovare una soluzione. Se soffrissi troppo non potrei essergli di alcun aiuto, non potrei dare alcuna speranza. Ma spesso la realtà è troppo dura. Quel giorno arrivò a casa mia una bambina di 9 anni, la stessa età di mia figlia. Era scappata da suo marito, un uomo di 45 anni, che la violentava e picchiava tutti i giorni. La invitai a sedersi, ma lei non poteva. Era piena di piaghe e infezioni e su tutto il corpo si vedevano i segni dei lividi. Ci chiedevamo come era possibile che i genitori la avessero fatta sposare così piccola, poi scoprimmo che era violentata anche a casa dal fratello. È rimasta con noi un anno e siamo riusciti a curarla e farle avere il divorzio. Oggi è tornata a casa, ma la sua famiglia sa che noi la controlliamo e la tratta bene. A 18 anni, se

vorrà, potrà finalmente sposarsi, ma fino ad allora nessuno la può toccare. Pochi mesi fa, invece, è arrivata una donna – madre di 6 figli – scappata di casa con gli ultimi due, ancora neonati, perché continuamente picchiata e violentata dal marito. Aveva cercato prima rifugio a casa sua, ma i fratelli avevano cercato di ucciderla gettando un cavo elettrico nell’acqua dove si stava facendo il

bagno. Per loro era un’enorme vergogna riaverla a casa. Si è salvata ed è riuscita a fuggire. Siamo riuscite a farle avere il divorzio, ma secondo la legge islamica i figli non può più tenerli e li ha dovuti lasciare al marito. All’emissione della sentenza, in tribunale piangevano tutti: io, i miei colleghi, lei, il giudice e i suoi figli più grandi che capivano la situazione e non volevano separarsi da lei. Ma questa è la legge islamica a cui dobbiamo sottostare, e non c’è via di uscita. Adesso stiamo tentando di concordare che almeno una volta al mese lei li possa vedere, ma ancora non ci siamo riusciti. E stiamo anche cercando di cambiare la legge, per ammorbidire alcune restrizioni del diritto. Ma ci vorrà tanto tempo… Il presidente Karzai ha appena votato una legge che consente agli uomini di picchiare o ripudiare le proprie mogli se si sottraggono al soddisfacimento del suo piacere… Sì, ed è stato uno shock apprendere che la lettera sia stata firmata dal nostro presidente. Purtroppo i leader religiosi hanno molto potere in questo paese e possono pretendere questo genere di cose. Per fortuna la Civil Society organization era stata messa al corrente di quello che stava per accadere, ed ha avuto la possibilità di ammorbidire la legge. Credeteci o no, questa non è la legge più dura che abbiamo e speriamo che il nuovo presidente possa migliorala. Per chi voterai domani? Sfortunatamente ogni candidato è più o meno uguale. Nessuno pensa a come migliorare la condizione delle donne. Vivi con la minaccia di morire ogni giorno, dove trovi il coraggio? Credo nella libertà e desidero dare una speranza alle nuove generazioni. Se questo significa stare in prima linea, ci sto volentieri. Le donne sono senza voce, io riesco a dargliene un pochino. Un sogno? Avere un giorno una nipotina istruita e libera, molto orgogliosa di sua nonna. (si ringrazia Carmela Giglio)


mondo

19 agosto 2009 • pagina 5

I candidati alle presidenziali di domani sono quarantuno, ma i veri competitori di Karzai sono tre osì come Hamid Karzai appare fascinoso nei abiti tradizionali pashtun, Abdullah Abdullah sa essere elegante nel suo stile occidentale. L’ex Ministro degli Esteri è il candidato che può dare maggior filo da torcere all’attuale Presidente afghano nella pericolosa corsa elettorale di domani. È apprezzato all’estero, quanto rispettato in Patria.

C

Abdullah è nato nel 1960 e si è laureato in medicina. La sua cultura scientifica è quella che nel complesso tessuto tribale può ottenere la stima più sincera. Nei villaggi afghani, infatti, il medico è ancora degno di un rispetto ancestrale. Sua madre era tajika, ma suo padre pash-

o sprint iniziale di Ashraf Ghani si è rivelato una falsa partenza. Fino a qualche settimana fa, l’ex dirigente della Banca mondiale e docente di economia alla Columbia University di New York era dato per favorito. Oggi i sondaggi lo hanno retrocesso solo al quarto posto, tra i 41 candidati alle presidenziali afghane e si limitano ad attribuirgli uno striminzito 6%.

L

Ghani ha 60 anni, è di etnia pashtun e per correre alle presidenziali ha rinunciato al passaporto statunitense. Denunciando il governo Karzai di «corruzione, mancato rispetto dei diritti umani, collusione con il nemico talebano, ma soprattutto spreco di fondi pubblici», si è messo alla gui-

er quanto sia il candidato meno noto agli osservatori occidentali, Ramazan Bashardost potrebbe rivelarsi la vera sorpresa di queste elezioni in Afghanistan. Il suo populismo, ma al tempo stesso l’esperienza di governo acquisita come Ministro della Pianificazione fanno di questo libero battitore un amalgama di contraddizioni. Bashardost è di etnia hazara, sciita, quindi è lontano dall’identità maggioritaria della popolazione nazionale – pashtun, di ligia confessione sunnita. Per giunta ha vissuto più di vent’anni in esilio in Francia.

P

Tutto questo farebbe di Bashardost un afgano ormai alieno rispetto alle sensibilità quotidiane del suo Paese.

Abdullah, il pashtun che vuole fare l’americano di Antonio Picasso tun. Questo lo rende la personalità più rappresentativa delle due componenti etniche più numerose del Paese. Abdullah è stato poi il braccio destro di Ahmad Shah Massud, il leggendario «Leone del Panshir» che fermò prima i sovietici e dopo le forze talebane, pagando con la vita il suo eroismo. L’ex capo della diplomazia di Kabul è quindi, oltre che un politico, un comandante con un passato da reduce. Altro punto d’onore per la società afgana. La sua cam-

pagna elettorale è stata impostata su una pesante critica all’Amministrazione Karzai che, a dire di Abdullah, non ha saputo sfruttare le risorse economiche e militari messe a disposizione dalla comunità internazionale per riportare la sicurezza in Afghanistan. Oggi l’ex Ministro degli Esteri propone una modifica costituzionale che introduca progressivamente un sistema federale, al fine di favorire le realtà locali e attribuire maggior peso alle rappresen-

Ashraf Ghani, ex dirigente dell’Istituto di credito Mondiale

Il banchiere che punta tutto su Facebook (a Kabul) da di un“nuovo Afghanistan”. La sua convinzione, infatti, è che insicurezza e guerra siano la diretta conseguenza della povertà diffusa nella popolazione. Da qui una campagna elettorale puntata sulla lotta alla disoccupazione e sulla ricostruzione edilizia. Ghani ha promesso un milione di posti di lavoro e altrettante nuove abitazioni. Contestualmente ha indicato l’agricoltura come il settore essenziale per il rilancio economico del Paese. Interessante l’atteggiamento,

palesemente polemico, riguardo ai fondi che la sua Presidenza dovrebbe rintracciare per tutto questo. «I soldi non sono un problema – ha dichiarato Ghani recentemente – perché l’Afghanistan è sommerso dalle centinaia di milioni di dollari degli aiuti internazionali. Il guaio è che sono sprecati al 70%, per incompetenza e corruzione». Evidente l’allusione all’Amministrazione Karzai; della quale peraltro ha fatto parte anche lui come Ministro delle Finanze.

Ramazan Bashardost, ex ministro della Pianificazione

L’esule che ha scoperto la forza del populismo Perché allora i sondaggi gli attribuiscono un corposo 10% delle preferenze? Il Times ieri lo definiva un maverick populist, in pratica un politico dalla fortuna spacciata, che è riuscito a costruirsi una campagna elettorale indipendente impostata su cardini estremamente semplici. Bashardost, a differenza dei suoi competitor, è andato personalmente nei villaggi. Ha visitato 28 delle 36 province afghane. Ha stretto la mano agli elettori, si è fatto rac-

contare le loro sofferenze. Alla fine dei comizi, è sceso dai palchi per entrare in diretto contatto con chi era venuto ad ascoltarlo. Si dice inoltre che metà del suo stipendio di parlamentare sia devoluto a sostegno dei tanti indigenti suoi connazionali. In Italia verrebbe accostato a Masaniello. Ma, forse, la sua temerarietà è ancor maggiore di quella del capo-popolo partenopeo. Nell’ambito dei contenuti, anche Bashardost non ha risparmia-

tanze elette. Grazie a questo schietto realismo, i sondaggi Usa gli stimano un solido 25% dei voti, contro il 45% in favore del Presidente. Se questo scenario si realizzasse, Karzai e Abdullah andrebbero al ballottaggio. Sarebbe comunque uno smacco per l’attuale Capo dello Stato.

Il punto debole di Abdullah? Il suo trascorso come Ministro degli Esteri per Karzai fino al 2006. L’aver cambiato cavallo non è onorevole in Afghanistan, dove la fedeltà al capo è un valore indiscutibile. Peraltro se il Paese si trova nella situazione odierna la responsabilità non può ricadere unicamente sul Presidente.

Logico quindi che lo scetticismo nei confronti di Ghani sia simile a quello nutrito verso Abdullah Abdullah. Entrambi puntano l’indice sul governo di Kabul, come responsabile del baratro da cui l’Afghanistan sembra non avere le forze per uscire. Ma sia dell’uno che dell’altro non si può dimenticare proprio il trascorso impegno a fianco dello stesso Karzai.

Un’ultima annotazione. Ghani, ispirato dalla campagna elettorale on line di Barack Obama, ha indirizzato molte delle sue risorse anche nei social network.Tuttavia, in un Afghanistan in cui solo il 2% della popolazione ha accesso a internet, è difficile che Facebook o Twitter possano essere d’aiuto.

to accuse dirette a Karzai; per le compromettenti relazioni con alcuni Signori della guerra e per la corruzione latente nel Paese.

I detrattori lo accusano di non avere una strategia effettiva per poter guidare l’Afghanistan. Le osservazioni più asettiche sostengono che Bashardost non abbia nulla da perdere, differenza di Karzai, Abdullah e Ghani. Per questo avrebbe deciso di muoversi con la più spregiudicata libertà. Ma l’Afghanistan è un Paese dove le elezioni si vincono venendo a patti con i capi tribù e gli anziani dei villaggi. Difficile, quindi, che Bashardost riesca a incrinare questo sistema di clientele che resiste dai tempi della monarchia.


politica

pagina 6 • 19 agosto 2009

Il fattore Lega. Se il Senatùr continua a spadroneggiare, il centrodestra può sfaldarsi. È il momento di archiviare questo “bipolarismo straccione”

Il Pdl in ostaggio L’alleanza con Bossi è diventata una prigione: ma nella maggioranza non tutti se ne accorgono di Gennaro Malgieri adesso nel Pdl tutti “scoprono” l’Udc. Da tempo Silvio Berlusconi non nasconde l’intenzione di “ricucire” con Pier Ferdinando Casini. Auspica alleanze omogenee in tutte le regioni dove si voterà l’anno prossimo. Lavora, a quanto si sa, per accorciare le distanze tra i due partiti. Nei giorni scorsi, tra i pronunciamenti più significativi, vi sono stati quelli dei triumviri Sandro Bondi e Denis Verdini. Il primo ha detto che la collaborazione con l’Udc deve ripren-

E

sione che nel Pdl, almeno al vertice, s’è avviata dopo un anno e più dalla rottura consumatasi alla vigilia delle elezioni politiche con l’Udc.

Imprudentemente nel costituendo partito berlusconiano si pensò e si operò affinché la Lega detenesse la golden share della coalizione, senza immaginarne l’uso che ne avrebbe fatto. Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti. E con buona pace di chi continua a sostenere la bontà dell’operazione, la sua

Improvvisamente nel Popolo della Libertà tutti “scoprono” l’Udc. Anche se due dei triumviri (Bondi e Verdini) remano da una parte, mentre il terzo (La Russa) sembra avere opinioni diverse dere «partendo da ciò che ci unisce», vale a dire «la comune appartenenza al Ppe, senza dimenticare la posizione responsabile» tenuta in Parlamento dai centristi su molti provvedimenti del governo. Il secondo ha sostenuto che il loro apporto «può essere importante per ottenere una vasta maggioranza anche nelle regioni e permettere al governo nazionale di ragionare in maniera diversa».

Dissonante il terzo dei triumviri, Ignazio La Russa, il quale ritiene che ci sono differenze che difficilmente possono essere colmate poiché l’Udc è contro il bipolarismo e «non riconosce Berlusconi come premier». Ineccepibile sulla diversità di vedute in tema di assetti politici, francamente incredibile che un partito possa non riconoscere come presidente del Consiglio chi lo è diventato secondo procedure assolutamente legittime. Nel triumvirato non sempre le opinioni coincidono. Poco male, fino a quando le differenze non diventano insanabili. Storicamente la formula adottata per dirigere il Pdl non è tra le più felici. Il triumvirato segnò la fine della repubblica aristocratica romana ed aprì la strada all’oligarchismo prima ed al dispotismo poi. Ma queste sono divagazioni agostane... Quel che c’interessa è la sostanza della rifles-

azione ha minato alle fondamenta quel bipolarismo nel quale pure chi scrive (ed in tempi non sospetti) ha fermamente creduto arrestandosi sulla soglia del disastro provocato nel sistema politico dalla sua disinvolta interpretazione. Il “bipolarismo molesto”, come su questo giornale è stato definito, ha fatto sì che forze intrinsecamente antisistema, come l’Italia dei Valori sul versante di sinistra e la Lega Nord sul versante di destra si qualificassero come formazioni di disturbo alla legalità repubblicana. Di Pietro agisce, comunque,“in solitaria”posto che il suo partito non può influire più di tanto sulla politica nazionale e semmai arreca fastidi a chi gli ha permesso di crescere, cioè al Pd. Bossi, invece, come ministro e capo carismatico del suo movimento condiziona la coalizione fino a stravolgerne la natura poiché usa l’arma del ricatto politico permanente al fine di ottenere ciò che vuole.

La situazione è diventata talmente insostenibile che il Pdl, ed in primo luogo Berlusconi, cercano di correre ai ripari come possono. Consapevoli loro stessi che non è sopportabile un partito di governo che fa politica contro il governo stesso. Un’anomalia tutta italiana alla quale ci stiamo abituando, purtroppo. Ed è un sintomo inquietante. Vuol dire che l’anti-

politica è penetrata nelle nostre fibre e ai cittadini non importa più niente di quel che accade nella sfera pubblica. Sono comprensibilmente nauseati per tutto ciò che è riconducibile alla politica, nazionale e locale. Guardano nelle loro tasche e le vedono sempre più vuote. Intorno scorgono disfacimenti morali e istituzionali difficilmente descrivibili. Non hanno neppure voglia di sperare in una ripresa che ritengono non del tutto infondatamente impossibile. Il pessimismo italiano sta mettendo radici nel terreno ben dissodato dalla partitocrazia e dagli oligarchi. Di fronte a tutto ciò, cosa volete che interessi ai nostri connazionali dell’inno, del dialetto, della bandiera, del centocinquantesimo anniversario di un’unità mai realizzata? Fanno il conto dei disastri con i quali sono costretti a convivere e aspettano. Magari maledicendo le “gabbie salariali” ed un destino saragattianamente “cinico e baro” che li priva delle ragioni di un doveroso impegno politico e civile.

Intanto la Lega gongola perché i suoi alleati del Pdl fingono di scandalizzarsi ed indignarsi ad ogni mattana che sforna. Poi, in Parlamento, sono baci, abbracci e ammiccamenti, mentre il vecchio secessionismo – poiché questo è il cuore della questione – avanza in maniera morbida ed apparentemente indolore a dispetto delle reiterate affermazioni di principio sullo spirito unitario e sull’abbandono della lotta per «l’indipendenza della Padania». La Lega è davvero “soltanto”un partito di lotta e di governo, come si sarebbe detto una volta? La formula francamente sembra superata. Piuttosto ci appare sotto le sembianze di un partito di governo in lotta contro la coalizione della quale fa parte: non s’è mai visto da nessuna parte, perciò mi permetto di indicarlo come oggetto di studio a politologi un tantino eccentrici. È così e non piace per niente a chi guida l’esecutivo e si è tagliato i ponti alle spalle dando le chiavi di Palazzo Chigi a Bossi, neppure sospettando

che il leader del Carroccio ogni giorno avrebbe preteso qualcosa di più. Eppure finora il centrodestra non gli ha fatto mancare niente. Ronde, reato di immigrazione clandestina, federalismo fiscale e altre cosucce del genere. Non è finita, naturalmente. In autunno non cadranno soltanto le foglie, ma s’infittirà la strategia di demolizione del Pdl da parte della Lega la quale, non paga di ciò che ha già intascato, mira a costi-

si possono sopportare le pressioni leghiste? È un interrogativo che Berlusconi responsabilmente si sta ponendo da qualche tempo. Non so se tutti suoi colonnelli stiano facendo altrettanto. La quiete, per ora, è stata rotta da Formigoni e da Galan i quali hanno scosso dal torpore il Pdl e qualche scompiglio lo hanno seminato. La speranza è che la partita aperta dai due governatori che Bossi vorrebbe sostituire, diventi una

L’antipolitica è penetrata nelle nostre fibre e ai cittadini non importa più niente di quello che accade nella sfera pubblica. Sono nauseati per tutto ciò che è riconducibile alla politica tuirsi come “polo padano” in grado di esprimere una nuova egemonia culturale tale da condizionare l’intero centrodestra. Quest’ultimo se non si rende conto della prospettiva leghista e continua a minimizzarne la portata è destinato, soprattutto nelle regioni del Nord, a diventare subalterno del Carroccio.

Chi si riconosce, sia pure a diverso titolo nel Pdl, è sconcertato dalla sudditanza psicologica prima che politica alla Lega e vive male il rapporto con il riottoso alleato, mentre gli elettori, la “base” faticano a comprendere le dinamiche che sottostanno al problematico rapporto. Insomma, fino a quando

salutare tormenta politica poiché soltanto da un qualche scossone può derivare l’auspicato aggiustamento di tiro di cui la coalizione che sostiene il governo ha bisogno.

Si ha forse paura delle reazioni? Non c’è altro da fare che andare a vedere le carte della Lega. Il Pdl potrebbe scoprire che si tratta di un bluff. O, al contrario, che il Carroccio voglia davvero portare fino alle estreme conseguenze la sua sfida. In questo caso altro non si potrebbe fare che regolarsi di conseguenza ed imboccare strade inevitabili, a cominciare da un rapporto inizialmente di buon vicinato con l’Udc nell’augurio


politica

19 agosto 2009 • pagina 7

Tre versioni diverse sull’apertura a Casini e l’argine all’aggressività del Carroccio

I triumviri in Libertà

Berlusconi: «Risolverò tutto io, come sempre» Poi attacca “Avvenire”: «Io non organizzo festini» di Riccardo Paradisi on queste sparate la Lega magari guadagna per sé lo 0,2 per cento ma rischia di far perdere al centrodestra il 2 per cento dei consensi». Silvio Berlusconi – che intanto replicando alle critiche di Avvenire nega di aver mai organizzato festini «Ho sempre partecipato a cene ineccepibili sul piano dell’eleganza» – è preoccupato per i raid mediatici leghisti che occupano da settimane le prime pagine dei giornali. Dai dialetti da insegnare a scuola alle bordate su tricolore e inno nazionale la Lega in effetti non sembra preoccuparsi troppo degli effetti che queste sortite possono avere sulla coalizione.

«C

E non sembra

che sfoci in un’alleanza organica su fondamenta politiche che oggi non è neppure dato immaginare dopo i traumi verificatisi nello schieramento che aveva tutte le caratteristiche per proseguire sulla via di una politica omogenea e sostanzialmente ispirata agli stessi valori di fondo. Naturalmente se questa ipotesi dovesse incontrare ostilità preconcette, tutto resterebbe in alto mare. E, di contro, se ad ogni “provocazione”leghista si continuerà a rispondere con dichiarazioni circostanza è fin troppo facile che lo snaturamento del Pdl risulterà completo. Certamente esulteranno i “padani”, ma l’altra Italia, per di più maggioritaria, non ci resterà bene. Inutile ipotizzare scenari apocalittici, ma la previsione di uno sfaldamento del Pdl è nell’ordine delle cose se la Lega dovesse continuare a spadroneggiare.

Non sarà un partito del Sud a mettere in crisi il quadro politico, d’accordo. Ma si può oggettivamente convenire che almeno due o tre possibili movimenti interni al centrodestra nasceranno per reazione o disperazione. Prima che ciò accada, tentare l’“invenzione”di una nuova stagione politica, archiviato questo bipolarismo straccione, potrebbe essere un’avventura votata al successo. Basta crederci.

farsi impressionare nemmeno dalle reazioni che sono finalmente arrivate da alcuni esponenti del Pdl che in queste ore hanno invitato la Lega a non superare il limite.Tanto, come dice il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, «Alla fine Bossi e Berlusconi, che sono due grandi uomini e due leader carismatici, un accordo lo trovano sempre». Un incontro tra i due leader è già in programma per questo week end e c’è da scommettere che seguirà la rassicurante intesa di sempre: il premier del resto ha già detto di volere bene a Bossi come a un fratello, e poi «le esternazioni di Umberto, sono carezze al proprio elettorato». E però è difficile sostenere che quelli di Bossi siano solo state ”carezze” o botti ferragostani caricati a salve, destinati a non lasciare tracce durature. A guardar bene infatti un certo scompiglio all’interno del Pdl la Lega con la sua campagna estiva l’ha prodotto, generando riflessi diversi dentro il partito alleato e una babele di valutazioni sulla politica delle alleanze del centrodestra che fa pensare a contraddizioni non di superficie nel quartier generale berlusconiano. Di tre coordinatori del Pdl non c’è n’è uno che esprima un’analisi simile a quella del suo collega. Se infatti per il ministro Sandro Bondi «la Lega non dà nessun contributo alla modernizzazione del Paese» e la prospettiva realistica per bilanciare la bulimia politica di Bossi «è un’alleanza con l’Udc da costruire a partire dalle prossime regionali», per Ignazio La Russa quelle leghiste sono solo provocazioni agostane, che non stanno né in cielo né in terra. «La Lega utilizza

il silenzio politico d’agosto per riempirlo di parole d’ordine propagandistiche. E per poi fare continue marcia indietro». E non esiste nessuna egemonia culturale leghista secondo il ministro della Difesa: «Si tratta piuttosto di un’egemonia propagandistica. Nei fatti la Lega è venuta a miti consigli». Insomma si tratta di far passare l’estate, di trovare degli accordi per le regionali e la Lega tornerà alla ragione e al buon senso. Dalla preoccupazione di Bondi passando per il moderato fastidio di La Russa si giunge al rassicurante minimizzare di Denis Verdini. «La Lega dovrebbe usare più prudenza – ammette Verdini – perché così si ravvivano i critici e l’opposizione» ma come ogni estate Bossi parla ai suoi elettori e usa quello che ritiene il ”linguaggio più adatto”, «mentre le tante e tante volte che ho avuto occasione di parlare con lui – testimonia Verdini – l’ho sempre trovato moderato e pieno di buon senso. Il patto tra Berlusconi e Bossi e l’incontro tra Pdl e Lega è fondato sulla forte volontà di cambiare il Paese e modernizzarlo. E le regionali saranno una tappa importantissima».

Verdini minimizza dunque il problema leghista ma non chiude all’Udc, anzi, rileva che con il centro il Pdl ha in comune 14 anni di battaglie insieme, la presenza nel Ppe, lo stesso elettorato, gli stessi valori e il fatto che in molte amministrazioni Pdl e Udc governano insieme. Resta da capire quali effetti hanno le cannonate estive sul consenso leghista, se esista un effetto negativo nel proprio elettorato. Certo, la Lega consolida il proprio consenso sicuro, quello ideologizzato che si fa battezzare sul Po e crede alla nazione padana, ma col resto come la mettiamo? Cosa pensano degli insulti al tricolore e dell’esame di dialetto per i docenti delle scuole quelli che hanno votato il Carroccio magari nelle regioni del centro-Italia come le Marche per esempio, o del centro-Nord, come l’Emilia, leghisti per protesta più che per adesione? La Lega non rischia di alienarsi le simpatie di questo elettorato? «In ogni scelta pubblica – ragiona Renato Mannheimer con liberal – esistono sempre costi e benefici. Bossi lo sa e d’estate, ormai da anni, decide di investire emotivamente sul suo zoccolo duro di riconsolidare, dopo i compromessi dell’inverno, il suo elettorato istituzionale. Del resto - continua Mannheimer -

Bossi lo ha detto chiaramente: a lui interessa parlare alla gente della Valli piuttosto che a quella delle grandi città. È lì la fonte sempre viva di consenso e di forza della Lega». Poi arriva l’autunno, il linguaggio leghista si fa più morbido, la prassi diventa più politica, diplomatica: «La Lega ci ha abituato a questa strategia a fisarmonica e non è mai capitato che abbia perso consenso per avere utilizzato il bastone oltre alla carota».

Non si discosta molto dall’analisi di Mannheimer quella di Maurizio Pessato della Swg. La Lega ha una grande attenzione a non perdere il suo elettorato, a fidelizzarlo ogni volta che sia possibile e questo «perché i dirigenti del Carroccio hanno tratto lezione da quello che è accaduto alla sinistra quando ha perso il contatto con la base e la sua identità. Del resto non si può pensare di rappresentare tutto l’arco politico e così la Lega si impegna a rappresentarne una parte». La Lega insomma deve assicurare di essere la Lega di sempre. Ci sono dei motivi insomma per cui ogni anno o in periodi diversi vengono fuori sortite per richiamarsi alle origini, per dire: «L’animo nostro è sempre quello». «Si tratta di una forma di richiamo periodico – dice Pessato – vòlto proprio a serrare i propri ranghi e tenere caldo il proprio elettorato più duro». Ma nel consolidare questo elettorato già acquisito la Lega non rischia di allontanare quello più moderato? «Certo, dice Pessato, ma in questo momento alla Lega non interessa. Ricordiamoci che la comunicazione politica è immediata e che il prossimo appuntamento politico sono le elezioni regionali dove la Lega vuole fare il pieno proprio in quel profondo nord dove i messaggi hard di queste settimane non creano scandalo ma simpatia e consenso». Insomma, da qui a marzo il Carroccio ha l’obiettivo di fare il pieno nelle regioni che rappresentano il suo bacino caldo anche a costo di perdere popolarità in Marche, Liguria, Emilia Romagna dove il Carroccio è approdato da poco. «Siamo di fronte di nuovo ad uno stop and go. Forzeranno fino alle regionali – dice Pessato – e poi faranno partire di nuovo un meccanismo comunicativo meno aggressivo avendo però incassato quello che devono incassare». La cena tra Bossi e Berlusconi è l’incasso più grosso. Il Carroccio tratta col capo del Pdl e detta le sue condizioni dopo averne alzato il prezzo.

Secondo i sondaggisti, la strategia leghista è sempre quella di solleticare «gli istinti delle Valli»


politica

pagina 8 • 19 agosto 2009

Occupazione. Secondo Palazzo Koch, la presenza straniera «aumenta le opportunità per i più istruiti e le donne»

È ufficiale, non ci rubano lavoro Bankitalia: «Gli immigrati non tolgono opportunità d’impiego agli italiani» di Marco Palombi segue dalla prima Un altro bel colpo per una delle teorie dominanti in quelle che Beppe Pisanu chiama “osterie padane”: questi ci rubano il lavoro. Non è la prima volta - e nemmeno il primo decennio che Bankitalia si trova a mettere un freno alla deriva mitologica del discorso pubblico nel nostro Paese in nome del principio di realtà, ma nell’era del nuovo centrodestra a trazione leghista (e della scomparsa della sinistra come corpo organizzato) la Banca centrale si ritrova spesso ad essere il ridotto d’una diversa capacità di vedere ed essere Paese. Non si tratta certo d’una opposizione frontale, il ruolo di palazzo Koch d’altronde non può essere questo, ma una sorta di ferma quanto sommessa indicazione di un’altra prospettiva: i vertici di Bankitalia sanno troppo bene che, al di là degli immaginari complotti evocati dal Times e da Berlusconi, la sua autorevolezza sarà necessaria al Paese se e quando la realtà presenterà il conto al governo.

Questa estate ad esempio, significativamente in estate peraltro, l’ufficio studi di palazzo Koch non ha mancato di “far uscire”dati spiacevoli per la maggioranza. Oltre a quelli di ieri su mercato del lavoro e stranieri, i più citati sono stati quelli contenuti in uno studio sulle economie regionali nell’ultimo decennio. La sparata del ministro Roberto Calderoli sulle gabbie sa-

In libreria

Noi europei pagine 100 • euro 12

Non è la prima volta che dall’ufficio studi della Banca centrale escono dati spiacevoli per la maggioranza: soprattutto per Tremonti e la Lega. L’ultimo scontro sulle entrate tributarie lariali, tanto per dire, è stata rilanciata proprio in occasione della pubblicazione dei numeri sul costo della vita nelle varie aree del Paese (4 agosto): nel Meridione i prezzi sono più bassi in media del 16,5% rispetto al Nord Italia. Una settimana dopo però - quando anche il premier Berlusconi s’era già schierato col Carroccio sulla questione salariale - la stessa Bankitalia ha fatto sapere che se il costo della vita era più basso, anche gli sti-

LE

pendi subivano la stessa sorte per via dell’assenza di secondo livello retributivo: un operaio del Sud guadagna circa il 16% in meno di un suo collega“padano”, differenza che sale al 22% per gli impiegati del settore privato. Non fosse bastato l’indomani le agenzie hanno rilanciato un altro dato proveniente da Bankitalia: anche i mutui nel Mezzogiorno costano più che nel Centro-Nord (in media dello 0,4-0,6%).

OPERE DI

L’Europa riletta lungo un secolo di grandi trasformazioni. La società e la politica italiana osservate attraverso la lente di una transizione incompiuta. La lezione dei “ribelli al conformismo” che hanno saputo, nel Novecento, indicare un’alternativa ai percorsi della libertà. Questi i temi dei tre libri di Renzo Foa “Noi europei”, “Il decennio sprecato” e “In cattiva compagnia”. Il primo, firmato insieme al padre Vittorio, è un confronto tra due testimoni del “secolo breve” che con occhi

Questa fase antileghista della comunicazione di Bankitalia si somma alle schermaglie (sciabola più che fioretto) che il governatore Mario Draghi si scambia col ministro dell’Economia Giulio Tremonti fin da prima dell’insediamento di quest’ultimo: quando Draghi presentò al G7 le sue proposte contro la crisi finanziaria a metà aprile 2008, Tremonti – ministro in pectore – dettò ai giornali la seguente dichiarazione: «A occhio è come un’aspirina per una malattia grave». Nel dicembre successivo il governatore concluse il suo lavoro come coordinatore del Financial Stability Forum e il ministro commentò: «È demenziale stare ad ascoltare chi ha sbagliato».

RENZO FOA ed esperienze diverse osservano le mutazioni del Vecchio Continente e soprattutto degli uomini che lo hanno abitato. Nel secondo, l’autore riflette sulle speranze e le delusioni messe in campo da quel cambiamento iniziato nel 1994 e mai davvero concluso. Il terzo raccoglie gli esiti di un meraviglioso viaggio personale nella vita e nelle opere di quei “grandi irregolari” (da Koestler alla Buber-Neumann, dalla Berberova a Joseph Roth, ma anche De Gaulle e Wojtyla) Il decennio sprecato che per Renzo Foa sono stati pagine 204 • euro 14 maestri riconosciuti.

Ci fu poi il braccio di ferro sul blocco del credito alle Pmi col governo impegnato ad assegnare ai Prefetti, cioè a se stesso, il ruolo di controllore delle inadempienze. A maggio peraltro, poco prima delle Considerazioni finali del governatore, Tremonti cercò la sponda di Draghi proprio sulla per così dire eccessiva cautela delle banche nella concessione di prestiti: quest’ultimo, davanti alla selezionata platea di palazzo Koch, fece accenno al problema ma non mancò nemmeno di assestare uno schiaffone al “rivale” sottolineando la necessità di immediate riforme strutturali per agganciare la ripresa (Tremonti invece ripete a tutti che ogni iniziativa va rinviata al dopo-crisi). Nel centrodestra, peraltro, c’è chi non esita ad attribuire i cattivi rapporti tra via XX settembre e Bankitalia alle frizioni tra Tremonti e il sistema bancario partite con la Robin Hood tax dell’anno scorso: le grandi banche italiane, d’altronde, «sono l’azionista di Bankitalia anche se tutti fanno finta di dimenticarselo», dicono. L’ultimo capitolo di questo scontro s’è consumato sulle entrate tributarie: sono mesi che da palazzo Koch sottolineano con preoccupazione il loro calo, mentre il Tesoro parlava di “tenuta”. Sette giorni fa il Bollettino statistico di Bankitalia ha chiuso la partita: nei primi sei mesi del 2009 sono entrati 6 miliardi in meno rispetto al 2008.

EDIZIONI

In cattiva compagnia pagine 177 • euro 12


N

a c q u e

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

o g g i

19 agosto(1883)

Coco Chanel

Era nata povera. Conquistò il mondo. Per prima introdusse l’uso del jersey

E la Francia creò la donna moderna di Roselina Salemi

e piacerebbe Audrey Tautou, deliziosamente aristocratica nel film che racconta la storia della sua vita. Sotto sotto le piacerebbe vedersi romanzata, abbellita, trasformata in un’eroina (quasi) sentimentale. Ma ci farebbe dell’ironia, giocherellando con le memorabili collane di perle false. Direbbe qualcosa alla Margareth Atwood, tipo: «Non sono una santa. Non sono un cranio decorato». Era nata povera, a Saumur, il 19 agosto 1883, ma se nella mappa genetica si potesse isolare il cromosoma dello snobismo, lo troveremmo di sicuro, mescolato a una creatività rivoluzionaria. Sì, perché dopo di lei le donne non sono più state le stesse, almeno nel modo di vestire, dai cappelli, (il suo primo successo l’aveva avuto a Deauville, nel 1914), alle scarpe bicolori per slanciare le gambe, dai tailleur, alla petite robe noir, senza tralasciare il mitico Chanel numero 5, ne bastano due gocce, come sussurrava Marilyn Monroe, e siamo pronte per andare a letto. La tivù e il cinema ci hanno messo anche troppo a impadronirsi della sua lunga, avventurosa esistenza, la biografia - romanzo di Alfonso Signorini («Chanel, una vita da favola», Mondadori) saldamente in classifica, la accompagna dalla solitudine triste dell’infanzia a quella dorata dell’hotel Ritz, alla fine di un grande sogno, il 10 gennaio 1971. Coco era malata, magrissima, segnata, ma ancora vivace e orgogliosa. Era stata in atelier il giorno prima, vestita di tutto punto con uno dei suoi tailleur e un collo di colpe. Aveva sempre dichiarato: «Non rinuncerei mai a un cappello, né alla pelliccia. Che femmina sarei?» Non si era sposata, ma l’aveva desiderato, non aveva avuto figli, ma ci aveva provato (con Arthur “Boy” Capel, affascinante e traditore, uno di quegli amori a corrente alternata, mai compiuti), aveva vissuto anni turbolenti e indimenticabili, un paio di guerre mondiali, il nazismo, continua a pag. II

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SCRITTORI E CIBI

LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA

CAPOLAVORI DI PIETRA

Les madeleines di Proust

Villa Balmain

di Filippo Maria Battaglia

di Roberto Dulio

Khe Sanh 1967-1968 di Stranamore

pagine 4 e 5

pagina 6

pagina 7

pagina I - liberal estate - 19 agosto 2009


le spie, da Edith Piaf ai Beatles, che le piacevano molto, e non si era arresa di fronte agli ostacoli. Bambina, aveva giurato: «Non piangerò mai».

Coco (ma si chiamava Gabrielle Bonheur) Chanel, «l’angelo sterminatore del diciannovesimo secolo, era una pastora, mandava un buon odore di maneggio, fienagione, cuoio di stivali, sottobosco» ricorda l’amico Paul Morand, «Come Colette sbarcava a Parigi con lo stesso grembiule da scolara e portava la stessa cravatta a fiocco, le stesse scarpe d’orfanotrofio. Lo spirito di rivalsa non abbandonerà mai: il suo gusto di far male, il suo bisogno di castigare, la fierezza, il rigore, il sarcasmo, la rabbia distruttiva, il suo genio inventivo, saccheggiatore. Quella belle dame sans mercy avrebbe inventato la povertà per i miliardari, la semplicità dispendiosa, la ricerca di quel che non attira l’occhio. Mai lo snobismo fu meglio diretto contro se stesso». Una bella rivincita per la ragazza che avrebbe voluto sposare Etienne Balsan, bello, nobile, ricco, ma poco disposto a scegliere una cenerentola come moglie, e addirittura imbarazzato, al punto di non volerla presentare alla madre, una bella rivincita per la ragazza che

tutti prendevano in giro, da quando aveva manifestato la curiosa ambizione di guadagnare denaro creando cappellini, per la ragazza che si era inventato un nome portafortuna cantando una canzone al Cafè Concert. «Chi ha visto Coco nel Trocadéro?» (era stato, in verità, un karaoke ante litteram e lei ci si era buttata). Ma certo, il bel mondo frequentato grazie a Etienne e a Boy Capel, poteva esserle utile e lei non sfigurava, anzi sembrava nata per viverci

ta proprio con i famosi cappellini, uno in particolare, rosso cremisi, suggerito da Coco alla principessa Vittoria Melita di Sassonia-Coburgo-Gotha, che a dispetto dei vari cognomi e titoli, era preoccupata di non essere all’altezza di un ricevimento francese. Era stata lei la prima testimonial Chanel, era stata lei a far arrivare ansiose clienti nel piccolo atelier, dove all’improvviso c’era anche troppo da fare. E addirittura una lista d’attesa. Niente dà più fiducia del successo. Così Coco osava immaginare (e indossare) il primo costume da bagno di spugna, sexy, rispetto all’impalcature dell’epoca, e discretamente, le signore la imitavano. Conquistava la capricciosa duchessa Kitty de Rothschild che aveva appena scaricato il suo sarto, l’impaziente Paul Poiret. Finiva sui giornali, negli schizzi satirici sulla mondanità; una figuretta sottile che nessuna caricatura riusciva a rendere ridicola. A quel punto l’atelier Chanel era diventato anche un buon affare. E un giorno, senza

La sua idea rivoluzionaria fu eliminare il punto vita, tagliare giacche sciolte, dritte, abiti a sacchetto ingentiliti da una sciarpa annodata sui fianchi. Un successo

dentro. Adorava i passatempi costosi, i cavalli, le feste, la bella gente. Aveva un gusto naturale, un fiuto per lo stile, per l’eleganza, anche se non aveva i mezzi. E all’inizio era Boy a pagare i conti, a finanziare l’atelier come si finanzia il costoso giocattolo di una mantenuta. La rivincita sarebbe comincia-

pagina II - liberal estate - 19 agosto 2009

dirgli niente, in uno scatto d’orgoglio, Coco decise di rimborsare Boy Capel, ricomprandosi la libertà.

In tutta questa storia di cavalli, feste, abiti e cappellini, è facile dimenticare le difficoltà della guerra, fra le tante, quella di avere tessuti preziosi per cucire vestiti eleganti. È lì che il genio di Coco si esprime con intuizioni veloci, come quella di usare il jersey, una maglia povera che nessuno voleva, difficile da modellare. Ed ecco l’idea: eliminare il punto vita, tagliare giacche sciolte, dritte,

abiti a sacchetto ingentiliti da una sciarpa annodata sui fianchi. Nessuno l’aveva mai fatto prima.«Harper’s Bazaar» pubblicò le foto e definì tutto ciò «davvero delizioso, pieno di charme, fantasia, talento». Era famosa, ma con una vita sentimentale complicata e incerta. Boy Capel aveva deciso di sposare un’altra, e c’era stato un diplomatico addio. Quando lui morì, nel 1919, in un incidente stradale a Frejus -lo scoppio di una gomma- si fece portare lì per dargli l’ultimo saluto e lo archiviò. Si lanciò subito nell’avventura del profumo.


Coco Chanel durante un viaggio a Londra nel febbraio del ’32. Sotto a sinistra Madame Chanel con Jean Coteau e miss Weiseveiller in via Veneto nel marzo del 1958, a destra con il ballerino e coreografo Jacques Chazot a Parigi nel gennaio del 1968

L

o stesso giorno... nacque

Tre uomini senza camicia segnano la fortuna di Gustave Caillebotte di Francesco Lo Dico ittore, parigino, mai amato dai contemporanei, ignorato dai successori. Figlio di industriali tessili, lega la sua fama di artista a tre uomini senza la camicia, in ginocchio: I raschiatori di Parquet. Gustave Caillebotte nasce nel 1848, frequenta l’atelier di Leon Bonnat. Studia legge ma sogna l’arte. Si iscrive all’Ecole des Beaux-Arts nel 1873, e due anni dopo ha già dipinto il suo capolavoro. La morte del padre, gli lascia in eredità un notevole patrimonio e il lusso di dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Conosce Degas e Monet, che lo presentano agli impressionisti che lo presentano a Renoir e altri che gli presentano il conto. Partecipa alla seconda mostra degli impressionisti come pittore, e alla terza come mecenate. Si ripete nel ruolo nel 1879, nel 1880, nel 1882 e a New York tre anni dopo. Acquista molte

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opere di impressionisti, ne realizza qualcuna. Dai suoi pennelli nasce una Parigi viva e lussureggiante di colori, festival di genti che ne rimarcano la solitudine. Prova a tenere il movimento unito, ma deluso si dedica alle navi da diporto e al giardinaggio. Si allontana dagli artisti rissosi, si riavvicina alla quiete dell’arte. A Gennevilliers, di fronte ad Argenteuil, riprende a dipingere in riva alla Senna. Stanco dei vecchi, accoglie i neoimpressionisti nella sua vita e i loro principi nelle sue tele. Nel 1888 partecipa al Salon des XX di Bruxelles. Dopo una breve malattia, conclude una vita ancora più breve il 21 febbraio 1894 a soli 46 anni. Lascia allo Stato francese sessantacinque dipinti suoi e dei più grandi impressionisti, e molti grattacapi a Renoir che deve districarsi tra le rimostranze degli artisti

di Wall Street e della seconda guerra mondiale, il bisogno delle donne di uscire dagli abiti scomodi della Belle Epoque, che toglievano il respiro.

Nel 1926 «Vogue» le aveva dedicato un vero e proprio omaggio: «Coco Chanel ha creato la nuova uniforme della donna moderna». Era il successo, il passaporto per volare alto. Del resto l’aveva detto: «Se sei nato senz’ali, non fare mai nulla per impedire loro di crescere».

Ernest Beaux era un chimico, convinto che le vecchie miscele di essenze (fiori, muschio) non avessero futuro e stava studiando una fragranza di sintesi (aldeidi, zuccheri fermentati). Nel 1921 Coco gliene commissionò una che fosse «all’altezza del suo nome», entro due mesi. Puntualissimo, Beaux si presentò con una serie numerata di bottigliette, da 1 a 5 e da 20 a 24. Coco ne scelse due, e alla fine rimase soltanto la 5: non le cambiò neanche il nome, come ben sappiamo, aggiungendoci soltanto il suo. Uno shock per un’epoca in cui le fragranze,

che sapevano di trasgressione e di bodoir, venivano lanciate dopo complicati battesimi: «Magica ossessione» ,«Ebrezza di una sera» e «Sublime incantesimo». Ma era una shock ancora maggiore la confezione, ispirata allo stile di Pablo Picasso e Georges Braque, un parallelepipedo rettangolo di cristallo trasparente con i bordi smussati, il tappo a forma di smeraldo. «Chanel numero 5» stava per diventare il profumo più venduto del mondo. Coco aveva capito il senso della modernità. Aveva capito prima degli altri, prima del crollo

Pittore, parigino, mai amato dai contemporanei, appare di spalle ne “La colazione dei canottieri” di Renoir. Dagli anni Novanta, presero a guardarlo negli occhi, e ci scorsero un grande artista

Trasgressione: i pantaloni, anticipo della futura donna in carriera. Lei lo era. Fumava. Come un uomo. «Irritata, irritabile e irritante» si definiva, tanto concentrata su se stessa, «da non aver mai avuto il tempo di pensare all’infelicità, a esistere per un’altra persona, ad avere figli». Così si era riscritta, per non ammettere che aveva avuto più fortuna e astuzia negli affari che in amore. Eppure c’erano stati molti uomini nella sua vita, dopo Etienne Balsan, che non l’aveva sposata perché povera, dopo Boy Capel che non ne aveva avuto il coraggio. Quando erano arrivate le proposte di matrimonio, era ormai troppo ricca e troppo cinica per prenderle in considerazione. Ma lasciava che chiacchierassero su di lei e Pablo Picasso, su di lei e Jean Cocteau, su di lei e Salvador Dalì, su di lei e Igor Stravinskij. Amava il lavoro, con gli alti e bassi,con le sfide, con la necessità di affrontare ogni giorno il giudizio del mondo, senza uno straccio di pari opportunità. C’erano gli scioperi (i suoi operai la chiusero fuori nel ’36), c’era la crisi che la costrinse a licenziare tutti nel ’39 e aspettare tempi

Innovativa anche la confezione della sua celebre fraganza ispirata allo stile di Pablo Picasso e Georges Braque: un parallelepipedo rettangolo di cristallo trasparente con i bordi smussati, e il tappo a forma di smeraldo. “Chanel numero 5” diventò il profumo più venduto del mondo

L’atelier di Parigi, in rue de Cambon, 31, era diventato una tappa irrinunciabile per le signore che risolvevano ogni incertezza con il total look: giacchino, gonna e camicia, cappello, borsa, scarpe e quattro-cinque giri di costosa bigiotteria. Colori dominanti: blu scuro, grigio e beige. Must: il jersey.

presenti nella raccolta. «Mi sembra che Caillebotte avesse intuito il dramma dell’uomo- individuo, senza importanza collettiva e che lo abbia finemente colto, pensieroso e triste, per il suo destino di solitudine», disse Tommaso Megna della sua pittura. Appare di spalle ne La colazione dei canottieri di Renoir. Dagli anni Novanta, presero a guardarlo negli occhi, e ci scorsero un grande artista.

migliori. C’era la concorrenza di un certo Christian Dior con il «New look» e dell’eccentrica Elsa Schiapparelli, creatrice di abiti difficili, concettuali, che i critici di moda le preferivano. Dopo la seconda guerra mondiale, restava in piedi il business del profumo, in netto calo. Bisognava inventarsi qualcosa. E Coco reinventò Chanel. Il 5 febbraio 1954, a settantuno anni, sfilava con una nuova collezione, sempre ispirata agli anni Venti, ma con l’occhio ai Sessanta, un po’ in anticipo. Troppo, forse.

Non la capirono. Dissero che era vecchia, che guardava al passato. E lei, schiumante di rabbia: «È Dior il passato: io ho in testa la moda dei prossimi decenni». Per fortuna c’erano gli americani, pronti ad adorarla, a consacrarla «la più grande creatrice di moda del ventesimo secolo» c’era Liz Taylor a farle da testimonial e presto ci sarebbe stata anche Jackie Kennedy. Avrebbe lasciato il segno. Ancora oggi Karl Lagerfeld, che disegna Chanel è prigioniero delle invenzioni di Coco, la doppia C, i tailleur, le catene, i giri di perle, le camelie bianche, le scarpe, le borse, e i cappellini che stanno tornando di moda, cloche, piccole visiere leganti. E naturalmente Chanel numero 5, rilanciato da Nicole Kidman e poi da Audrey Taoutou, la brunetta molto francese che quando sorride, giocherellando con una delle famose collane, sembra quasi Coco. Solo, non fuma.

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SCRITTORI E CIBI

Les Petites Madeleines

DI PROUST

innamorato I tempi dei pasti segnano i ritmi di famiglia che l’autore rievoca dal suo scrigno di odori e di sapori di Filippo Maria Battaglia

I

n ogni capolavoro della letteratura mondiale ci sono parole decisive che sono destinate a essere stravolte grazie al genio narrativo di chi le usa. Parole fino ad allora perlopiù misconosciute, relegate al senso comune dei pochi che le conoscono e che però, a un dato momento, sembrano esplodere del loro significato. La madeleine di Marcel Proust è una di queste. Non solo è uno degli elementi decisivi della trama narrativa del suo capolavoro. Oltre all’abbrivio della narrazione, è l’architrave ideale attorno a cui sono aggrappati i sogni di milioni di lettori, i loro desideri e le loro immedesimazioni. È da lì che Proust inizia a raccontare: la madeleine fa infatti la sua comparsa nel primo capitolo del primo volume della saga prosutiana, Dalla parte di Swann, in un giorno d’inverno non meglio specificato: «al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti

e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente,

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Con il mitico dolcetto francese arriva il flusso inarrestabile dei ricordi e, insieme ad esso, la straordinaria innovazione della poetica proustiana che non nasconde la sua prima essenza: quella di racconto, di storia tutta umana, vasta e lenta non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda».

La ricerca dura lo spazio di qualche riga. Poi, «tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Leonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non mi aveva nulla prima che ne

sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticcieri, e la loro immagine si era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato». Con il mitico dolcetto francese si accompagna il flusso inarrestabile dei ricordi ed, insieme ad esso, la straordinaria innovazione della poetica proustiana: abbandonata la rigorosa costruzione del romanzo dell’Ottocento, la narrazione è interamente innervata ad un pensiero radicalmente innovativi. Come ha notato Daniela De

Agostini, la «diversità e la ricchezza che tanto innalza la Ricerca, e insieme la fa sembrare opera disperata, mal definibile, non deve nascondere la sua prima essenza: quella di racconto, di storia tutta umana, vasta e lenta, ma legata da un rodine visibile e segreto, da rispondenze ideali, da “ritorni” musicali» aggiungendo come «la materia che, nella sua prima parte era subito parsa un flusso inarrestabile di ricordi, e di cui dunque non veniva percepita la rigorosa costruzione architettonica di insieme, è improntata a un pensiero, a una visione nuova. La realtà esteriore, coperta dalla vita pratica, dall’uso sociale, dall’abitudine, è da noi veramente apprezzata quando è spiritualizzata, sciolta nella nostra vita interiore, ricreata dalla fresca intuizione:la personalità umana, fluida, discontinua, mutevole, è rivelata a sé stessa dal sogno, dalle fresche impressioni che, serbate intatte dall’oblio, tali risorgono per la memoria involontaria». Per questo, le pietanze, i sapori, i riti della buona cucina domestica sono disseminati in tutti e


«Mi lasciavo andare con delizia al gusto che avevo per le frasi, come un cuoco che, per una volta che non deve cucinare, trova infine il tempo di essere goloso» scriverà nel suo carnet. Affidando alla cuoca Francoise un ruolo quasi speculare

LA RICETTA = MADELEINE

(PER 8 PERSONE) 125g di farina 135g di zucchero 125g di burro fuso 4 uova 1 cucchiaino di lievito in polvere 1 limone o un’arancia Unite il lievito alla farina. Montate le uova e lo zucchero, unite la scorza grattugiata, quindi amalgamatevi la farina dividendola in tre parti uguali, aggiungendo il burro con l’ultima quantità di farina. Fate raffreddare per 20/30 minuti fino a quando il burro non si è leggermente indurito e l’impasto è diventato solido. Scaldate il forno a 230°C. Ungete e infarinate gli stampi. Con un grosso cucchiaio, versate la pastella negli stampi così che si riempiano per 2/3. Cuocete le madeleines per circa 5 minuti, riducete il calore a 200°C e continuate la cottura fino a quando non assumono un bel colore dorato (altri 5-7 minuti). Ponetele su una gratella a raffreddare.

sette i volumi del capolavoro proustiano: lo scrittore di Auteuil se ne serve grazie a un sapiente dosaggio nella composizione narrativa e dei suoi personaggi.

Tra questi, un certo rilievo occupa la cuoca Francoise che alla preparazione culinaria frammezza sgrammaticature e proverbi dialettali, ritratta «mentre dava ordini alle forze della natura, diventate suoi aiuti, come accade nelle favole in cui i giganti si fanno impiegare come cuochi». Un’autorità in cucina, che di fronte ai suoi manicaretti non ammette repliche o tentennamenti di sorta: «Alla sua consueta produzione di uova, costolette, patate, confetture, biscotti, che neppure più ci annunciava, Francoise aggiungeva – secondo i lavori dei campi e dei frutteti, la pesca della marea, le occasioni delle bancarelle, le gentilezze dei vicini e il suo genio, come pure il nostro menù, simile a quelle quattro foglie che si scolpivano nel XIII secolo sui portali delle cattedrali, rifletteva un po’ il ritmo delle

stagioni e gli episodi della vita: un rombo perché la pescivendola ne aveva garantito la freschezza, un tacchino perché lei ne aveva visto uno bello al mercato di Roussain-ville-le-Pin, dei cardi al midollo perché non ne aveva mai cucinati in quel modo per noi, un cosciotto arrosto perché all’aria aperta viene appetito e che tanto c’era tutto il tempo che scendesse nello stomaco da qui alle sette di sera, degli spinaci così tanto per cambiare, delle albicocche perché erano ancora una rarità, del ribes perché in meno di quindici giorni non ce ne sarebbe più stato, dei lamponi portati appositamente dal signor Swann, delle ciliegie le prime del ciliegio del giardino dopo ben due anni che non ne produceva più, del formaggio alla crema che a me piaceva tanto a un tempo, una torta alle mandorle perché lei l’aveva ordinata la sera prima, una brioche perché era il nostro turno di offrirla». Il rito si conclude con una prelibata crema al cioccolato, di cui il padre del protagonista è ghiottissimo, «sfuggevole e leggera come un’opera di circo-

stanza nella quale ella aveva messo tutto il suo talento». Impossibile rifiutarla. Chi tenta di farlo, o semplicemente chi ne ha lasciato anche una sola goccia sul piatto, è degradato al rango di maleducato e di villano. La sacerdotessa del piccolo tempio di Venere, come la definisce Proust nel romanzo, è una cuoca dal proteiforme ingegno.

La sua arte tocca però lo zenit con alcuni piatti, che lo scrittore indugia più di una volta a raccontare.Tra gli altri, il boeuf en geléè, vale a dire l’arrosto di bue e carote in gelatina: «fin dal giorno prima Francoise, felice dell’opportunità di dedicarsi a quell’arte della cucina per la quale aveva un sicuro talento, stimolata, perdipiù, dall’annuncio di un nuovo inviato, e sapendo di dover comporre, secondo metodi a lei sola noti, del manzo in gelatina, viveva nell’effervescenza della creazione». L’attenzione non va distolta però dall’«estrema importanza alla qualità intrinseca delle materie prime». Occorre poi l’aiuto delle maestranze della zona: «il giorno preceden-

te, Francoise aveva mandato a cuocere nel forno del panettiere, protetto dalla mollica di pane e simile a marmo rosa, un pezzo di quello che lei chiamava “prosciutto di New York”». Una definizione, questa, nata dalla testarda ignoranza della cuoca: «probabilmente, credendo la lingua meno ricca di quanto non sia, e fidandosi poco delle proprie orecchie, la prima volta che aveva sentito parlare del prosciutto di York aveva pensato – sembrandole un’inverosimile prodigalità che nel vocabolario potessero coesistere sia York che New York – di aver capito male, e che il nome che avevano voluto pronunciare fosse quello che lei già conosceva. Così, da allora, la parola “York” si faceva precedere nelle sue orecchie o, se leggeva qualche annuncio, davanti ai suoi occhi, da “New”, che lei pronunciava “Nev”». La cucina di Francoise, in effetti, spopola. Proprio quel piatto riceve i complimenti dell’illustre ospite, deciso ad elogiare il banchetto fino ad affermare che in «alcun luogo si gustano un arrosto di bue freddo e dei soufflé di formaggi come i vostri». La lode è subito girata alla chef, che «con l’aria modesta di voler render omaggio alla verità, lo riconobbe, senza pe-

raltro essere impressionata dal titolo di ambasciatore» del commensale. Per lei, il signor de Norpois, è solo «un vecchio gentile come me». Le giornate trascorrono tra la preparazione di una crema al cioccolato, un rombo alla griglia, un soufflé al formaggio, una composta di pesche e un arrosto di vitello in cocotte.

Francoise è il gran cerimoniere dei fornelli: predispone, cucina, intima ai suoi sottoposti, reagisce con fermezza ai tentavi di invasione della sua inaccessibile realtà. È lei a dettare i tempi dei pasti, incidendo come nessun’altro sui ritmi della vita della famiglia Proust. Marcel si limita a rievocarla, mettendo a frutto lo straordinario scrigno di odori e di sapori, sublimemente dilatati dalla rievocazione e dal ricordo. Si affida così a Francoise fino a coprire un ruolo quasi speculare. «Mi lasciavo andare con delizia al gusto che avevo per le frasi, come un cuoco che, per una volta che non deve cucinare, trova infine il tempo di essere goloso» scriverà nel suo carnet. Il cerchio è chiuso. La lettura della Recherche può riprendere, magari accompagnata da mitico dolcetto, rigorosamente intinto nel tè o nel tiglio.

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LE GRANDI BATTAGLIE Poteva essere l’equivalente americano della disfatta francese di Dien Bien Phu. Resta però un simbolo della guerra contro il Vietnam iniziata nel ’64 con l’incidente del Golfo di Tonkino e che portò gli Usa a schierare 540mila soldati a guerra del Vietnam, combattuta da Stati Uniti e pochi alleati contro Vietnam del Nord e i Viet Cong, coinvolgendo in larga misura anche i Paesi limitrofi, Laos, Cambogia e Thailandia ha segnato una generazione, non solo negli Usa. La guerra, conclusasi nel 1975 con l’occupazione del Vietnam del Sud da parte del Nord Vietnam iniziò nel 1964, con l’incidente del Golfo del Tonkino e portò gli Usa a schierare fino a 540mila soldati e costò oltre 58mila morti e 153mila feriti.

DELLA

KHE SANH 1967–1968

Sud-est asiatico

L

Scegliere una battaglia che possa simboleggiare cosa fu il Vietnam non è facile, ma dal punto di vista emotivo/politico, più che militare, l’anomalo assedio di Khe Sanh, svoltosi tra il 1967 e il 1968, ha un particolare valore, perché per molti avrebbe potuto diventare l’equivalente americano della disfatta francese di Dien Bien Phu. Khe Sanh è un altopiano collinare, si trova nella parte nord occidentale della provincia di Quang Tri, al confine con il Laos e la zona demilitarizzata. Un luogo remoto, difficilmente accessibile attraverso la strada nazionale QL9, caratterizzato da condizioni meteo sfavorevoli, con pioggie costanti, nebbie, nuvole basse, scarsamente popolato. Nondimeno rappresentava un ottimo punto di ancoraggio per condurre pattugliamenti ed attività di interdizione per cercare di arginare il flusso di uomini, armi e rifornimenti che da Nord e dal Laos, attraverso i vari «sentieri di Ho Chi Min», raggiungevano il Vietnam del Sud. Sia l’esercito sud Vietnamita (Arvn) sia le

Assedio durissimo per i marines che resistettero oltre 60 giorni di Stranamore

forze americane avevano in zona quindi basi più o meno grandi e stabili. In particolare

È un altopiano collinare, si trova nella provincia Quang Tri, al confine con il Laos. Difficilmente accessibile attraverso la strada nazionale, il sito è martirizzato da pioggie costanti, nebbie e nuvole basse la Khe Sanh Combat Base fu creata nel 1962 e dotata di una pista di atterraggio. Infrastruttura poi ampliata e protetta da una guarnigione di Marines a livello battaglione. Khe Sanh divenne davvero importante

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quanto entrambi i contendenti decisero di «utilizzarla» per lo stesso scopo: costringere l’avversario ad impegnarsi a fondo per difenderla/conquistarla, distraendo uomini e risorse che avrebbero altrimenti potuto essere impegnate per combattere la prima Offensiva del Tet, che nel 1968 si risolse in una pesante sconfitta militare per le forze di Hanoi e che portò alla distruzione dei Viet Cong.

L’intelligence Usa cominciò a cogliere i segni di una concentrazione di forze nemiche nella zona agli inizi del 1967 e questo portò ad un progressivo irrobustimento delle difese e ad una espansione della guarnigione. I Marines occuparono buona parte delle colline che circondavano la valle, con scontri sanguinosi. A novembre era chiaro che le diverse divisioni nordvietnamite erano state concentrate nella

regione e fu avviata l’operazione Scotland, per difendere l’area di Khe Sanh. I nord vietnamiti isolarono presto la base via terra tagliando la QL 9, poi si dedicarono a occupare/conquistare colline e a restringere l’area controllata dalle forze americane e sud vietnamite, con la conquista del villaggio di Khe Sanh. Gli Usa iniziarono la operazione Niagara, volta a garantire per via aerea i rifornimenti, i rinforzi alla base e alle unità che occupavano le colline. L’assedio durò 77 giorni e richiese uno sforzo formidabile a entrambi i contendenti: i Nord Vietnamiti impegnarono 4 divisioni, due delle quali, la 304 e la 325C direttamente, nonché una quantità di reggimenti di artiglieria. La base di Khe Shan era difesa dal 26° Reggimento Marines, al quale si aggiungeva un battaglione del 9° Marines, un battaglione

STORIA

d’artiglieria del 13° Marines e il 37° battaglione ranger sudvietnamita, oltre a varie unità minori di supporto. Concentrati in un’area di 2.300 x 4-600 metri i difensori non erano più di 6.700, ma potevano contare su una potente artiglieria e su un formidabile supporto aereo. I consumi giornalieri erano di 126 tonnellate, che non vennero mai a mancare. I Marines non si sentirono mai realmente assediati. A febbraio i Nord Vietnamiti distrussero la base delle forze speciali a Lang Vei, i cui sopravvissuti si rifugiarono a Khe Sanh. Il 21 fu tentato un attacco di assaggio contro le posizioni del 37° Ranger, respinto, mentre un successivo tentativo fu stroncato dai bombardamenti aerei. I Nord Vietamiti condussero un’intensa attività con la propria artiglieria, arrivarono a sparare 1.307 colpi in un solo giorno, il 23 febbraio. Ma non riuscirono né ad infliggere danni vitali, né a porre le condizioni per un attacco in massa. Le forze Nord Vietnamite erano, meteo permettendo, sottoposte a attacchi aerei condotti da elicotteri, cacciabombardieri e bombardieri B-52. Nel corso dell’assedio i soli B-52 effettuarono 2.600 sortite, sganciando 75.600 tonnellate di bombe, altre 39mila tonnellate furono sganciate dagli aerei dei Marines, della Marina, dell’Aeronautica. Senza contare il fuoco degli elicotteri. In tre mesi i velivoli sganciarono più o meno la stessa quantità di bombe lanciato sul Giappone in tutto il 1945. E le forze Nord Vietnamite subirono perdite devastanti.

Ad un certo punto ad Hanoi decisero che il gioco non valeva la candela. Gli americani poi, una volta rintuzzata l’offensiva del Tet, impegnarono, con l’operazione Pegasus, la 1° Divisione di cavalleria aerea e i suoi 350 elicotteri per spezzare l’assedio, con una serie di operazioni aeromobili. L’assedio finì ufficialmente l’8 aprile. Ma a quel punto gli Usa decidevano che Khe Shan non era più così importante. Il 19 giugno veniva avviata l’operazione Charlie per abbandonare e smantellare la base, chiusa il 5 luglio. È proprio questo epilogo a riassumere bene cosa fu il Vietnam. Gli Usa vinsero praticamente tutte le battaglie in Vietnam, compresa quella di Khe Shan, ma come fu osservato da un comandate Nord Vietnamita, «ciò fu del tutto irrilevante».. perché alla fine lasciarono il Sud Vietnam al suo destino, perdendo la guerra. A Khe Shan persero la vita circa 350 americani, 2.540 furono feriti. Le perdite Nord Vietnamite non sono mai state rivelate, ma arrivarono a circa 10mila uomini.


CAPOLAVORI DI PIETRA l funambolico dispositivo spaziale della villa che l’architetto fiorentino Leonardo Ricci progetta sull’isola d’Elba per il noto couturier Pierre Balmain, è prefigurato fin dai primi schizzi datati 1956: due piattaforme ellittiche sovrapposte, librate su tre appoggi, sono perforate da una scala a chiocciola, che si avvita in sommità a una più piccola piattaforma di coronamento.

I

È probabile che un’idea architettonica tanto singolare sia balenata a Ricci in termini di pura ricerca progettuale ben prima che si concretizzasse la possibilità della sua costruzione. Quando Balmain si rivolge al giovane artista fiorentino, già affermato in Francia, aspira a una casa eccentrica, dall’aspetto anticonvenzionale e futuribile, che corrisponda all’istanza di modernità degli abiti che escono dal suo atelier e del suo stravagante stile di vita. Convinto che «la couture è architettura del movimento» Balmain vede la questione come un problema formale; per Ricci invece la villa è l’esito di una rivoluzione sostanziale dello spazio e dell’abitare. Le due interpretazioni non coincidono, ma non si scontrano: si integrano invece in un bizzarro dialogo, intrecciato sul terreno comune dello spazio e del suo uso. Gli ambienti di servizio, adeguatamente sviluppati dato il tipo di residenza, e il collegamento verticale tra i vari livelli dell’abitazione alternativo alla scala a chiocciola, trovano posto in un corpo a monte della villa, dal quale aggettano le piattaforme ellittiche che materializzano i piani di vita della casa. Il blocco della servitù è serrato tra due setti leggermente divaricati e tessuti da conci irregolari di pietra annegati nel calcestruzzo. Le forme squadrate dei setti e le loro superfici scabre e irregolari istituiscono un vivace contrasto con le lisce pareti tondeggianti e intonacate del nucleo padronale, al quale si accede da un ponte collegamento lanciato sul retro dell’edificio e parallelo al corpo dei servizi. Il passetto aereo approda direttamente al primo piano, dove si dispiega lo spazio avvolgente del soggiorno immerso in una luce d’acquario. Funge da filtro tra l’ingresso e il soggiorno la scala a chiocciola, incapsulata in una teca sfaccettata di lastre di vetro, con i gradini di pietra incastrati su un ruvido tronco di bugne di pietra e calcestruzzo armato. Attraverso di essa si può scendere al giardino e alla piscina o salire alla terrazza del secondo piano. L’oculo ellittico che, facendo

ISOLA D’ELBA Costruita per il noto couturier dall’architetto fiorentino Leonardo Ricci

Villa Balmain vitale come un suo abito di Roberto Dulio

statica di sostegni verticali. Soprattutto la trave inclinata che si slancia come una proboscide ad agganciare il suolo, è con ogni evidenza del tutto superflua dal punto di vista strutturale, dal momento che, proprio in corrispondenza del suo innesto sulla soletta, si attesta un poderoso pilastro. La giustificazione di tali ridondanze non è certo statica, ma risponde alla volontà di stabilire una relazione stringente tra gli spazi della villa e quelli del giardino. Il contrafforte in pietra è quasi una propaggine della roccia su cui sorge l’edificio, che lo sostiene, e proprio a tale suggestione allude anche il rivestimento lapideo del corpo di servizio. La scala e la trave inclinata - una sorta di remo gigante - sono tentacoli artificiali che agganciano le piattaforme aeree della villa al giardino, la cui lussureggiante vegetazione mediterranea ed esotica lo assimila a un vero e proprio orto botanico. Anche la piscina, nella quale si immerge

Il giardino si compone di una vegetazione mediterranea ed esotica che lo rende simile a un orto botanico. Nella piscina si immerge un remo gigante

il remo gigante, è parte attiva di questo amalgama. Il suo perimetro, ellittico come quello della villa, è traslato rispetto a essa e la trave inclinata ne segnala lo slittamento.

Villa Balmain all’isola d’Elba eco al profilo della scala, fora la copertura della terrazza, si rivela un ingegnoso dispositivo per illuminare il soggiorno, filtrando la luce. Il piano calpestabile della terrazza è ridotto rispetto alla superficie della seconda soletta ed è posto a una quota più bassa rispetto al suo perimetro, cosicché in alcuni tratti un’asola finestrata, alla quota del pavimento, traguarda il soggiorno, garantendogli un’altra fonte di luce naturale, oltre a generare inaspettate relazioni tra gli ambienti della

Il progetto: due ellittiche separate, librate su tre appoggi, perforate da una scala a chiocciola, che in alto si avvita a una piattaforma villa. Fin dai primi schizzi sono abbozzati anche gli altri due sostegni della soletta del primo piano: lo sperone triangolare in pietra a vista con un’anima in cemento armato e la trave inclinata, sul fronte opposto, in cemento armato li-

scio e intonacato: ancora si ribadisce il contrasto tra materiali e superfici del nucleo di ingresso. In realtà entrambi questi elementi esibiscono una forma ridondante e del tutto incongrua con la supposta funzione

Non solo: la conformazione stessa della vasca, con la conca centrale destinata a piscina vera e propria e un bacino anulare per la coltura di piante acquatiche, rafforza, anche tra gli elementi esterni, il labile confine tra differenti funzioni dello spazio. All’Elba Ricci supera la nozione di continuità tra spazio esterno e interno propugnata dalle avanguardie del Novecento. Nella villa per l’estroso sarto francese Ricci frantuma, attraverso la danzante instabilità dell’ellissi, la scatola muraria e ogni altro limite convenzionale dell’architettura: la gerarchia dei fronti, la stereometria dura dei volumi, la distinzione tra elementi portati e struttura portante, sono travolte da una vitalistica fusione di materie e di spazi: turbinante e moderna come un abito di Balmain, la villa dispiega una trionfante continuità spaziale, che risucchia in un vitalissimo vortice natura e artificio, luce e materia, architettura e paesaggio.

pagina VII - liberal estate - 19 agosto 2009


ORIZZONTALI 1 Militari dell’aeronautica n

n

CRUCIVERBA

di Pier Francesco Paolini

Le figlie di Atlante

21 Tetralogia di Thomas Mann

24 Xxxx est fabula – ultime parole di Au-

gusto n

7 Diana

15 n Xxxxxx Mafai, giornalista battaglie-

ra n

n

n

25 Bagna Berna

n

26 Il Tallio

n

27 Nega a Berlino 28 Xxxx de Cespe-

des – Nessuno torna indietro (1938) n

29 ...xxx cana eternità (G.G.Belli)

n

30 Tempo perso n 31 Walter Xxxx, ro-

manziere: Scuola di nudo n 33 Ali hanno xxxx... le Arpie dell’Inferno dantesco n

35 Mira in inglese n 36 Xx confesso, film

di Hitchcock n 37 Composizione musicale da camera n 38 accessori di poco conto n

41 Nichelio n 42 La Maga che seduce Ri-

naldo n 44 Parte dell’intestino n 45 Il Divino Marchese n

n

46 Bagna Hyderabad

48 Vita da xxxx, film di Chaplin n 49 Au-

tocrate russo (var.) n

n

50 Fondamenta

51 Fibra tessile n 53 Nota n 54 Precur-

sore 57 Il Colosso di Xxxx n 58 Xx hoc signo... n

n

59 Età

n

61 Figlie di Atlante

62 Fiume della Francia n 63 Settimana-

le americano n 64 Mercato Comune Europeo n 65 Xxxx Whitman, poeta americano n

67 Città sul fiume Hudson n 69 Soldato

QUIZ LETTERARIO

L’ AUTORE DI QUESTO QUADRO È ................................................ (1922)

USA (abbr.) n 70 Cortina di xxxx n 71 Xxxx e patta n 72 Romanzo di G. Ohnet n 77 Dardo n 78 Settimanale ital. n 79 Inventò il fonografo

1 Xxxxxx di Efeso, nome di due scultori greci n 2 Pseudonimo di Catarina Albert i Paradis, poetessa catalana n 3 Tessuto per sacchi n 4 Vale sei nei prefissi n 5 n Mon

n

6 Opera teatrale di Mario Luzi

7 Aria nei prefissi n 8 Colpevoli n 9 Xx

con zero di Calvino n 10 Xxxxxx catastale n

11 Ammende n 12 Fu tramutata in gio-

venca n 13 Misura di sensibilità delle pellicole 14 Lentiggini n 15 Dormirò sol nel xxxxx mio regal... (Don Carlos) n 16 As You Like Xx di Shakespeare n 17 Xxx Silvia n

18 Xxxx Lesbia n quam Catullus unam...

19 Poeta dialettale di Tursi n 20 Città della Florida

n

22 Coppia

n

23 I Bronzi di

Xxxxx n 30 Li prende il prete n 31 Uccello acquatico n 32 Folli n 34 Mircea Xxxxxx, storico delle religioni n 37 Xxxx Pica, attrice n

n

38 Altopiano dell’Asia Centrale

39 Il Xxxx di Gogol n 40 Canti n 43 Xx-

non è una cosa seria di Pirandello n 44 Fecondò una nube n 47 Nicoloso xx Recco n

49 Xxxxx del Libano n 50 Autore di Lo

cunto de li cunti n

n

51 Isole africane

52 Xxxxxx Régime n 53 Scrisse il roman-

zo Babbit n 55 Gruppo montuoso dei Carpazi n 56 Fiume dell’Africa n 57 Poesie n

60 Montagna n 63 Pietra n 64 Nicolaes

Xxxx , pittore olandese 66 Tit for Xxx = pan per focaccia n n

ell’anno 1872 la casa numero sette di Saville Row, Bullington Gardens (la casa in cui morì Sheridan nel 1816), era abitata da Phileas Fogg, Esq., che sebbene sembrasse aver giurato di non far nulla che potesse dar nell’occhio, era uno dei più eccentrici e più noti soci del Reform Club di Londra. A uno dei più grandi oratori che onorano l’Inghilterra succedeva dunque questo Phileas Fogg, personaggio enigmatico, del quale non si sapeva niente, tranne che era un vero signore e uno dei più bei gentlemen dell’alta società inglese. Si diceva che somigliasse a Byron (la testa, i piedi erano senza difetti) ma un Byron con baffi e favoriti, un Byron impassibile che avrebbe potuto vivere mille anni senza invecchiare. Inglese (non potevano esserci dubbi in proposito), Phileas Fogg forse non era un Londoner. Infatti non lo si era mai visto né alla Borsa, né in banca, né in nessuna agenzia della City. E i bacini di carenaggio o i dock di Londra non avevano mai accolto una nave di cui Phileas Fogg fosse armatore. Questo signore non faceva parte di nessun consiglio di amministrazione. Il suo nome non aveva mai risonato in un collegio di avvocati né al Temple, né a Lincoln’s Inn né a Gray’s Inn. Mr Fogg non aveva mai difeso cause né alla Corte del cancelliere, né al Banco della regina, né allo Scacchiere, né al Tribunale ecclesiastico. Non era né industriale, né negoziante, né mercante, né agricoltore. Non face-

N

VERTICALI

narca

DI QUALE ROMANZO DEL 1873 È QUESTO INCIPIT?

n

68 Afferma a Londra

70 Città del Marocco

n

71 Religiosi

73 Direttore Tecnico n 74 Iniz.della scrit-

L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È DI: Claude Monet,“Estate” (1874)

Il cruciverba di ieri

va parte né del Regio Istituto Britannico, né dell’Istituto di Londra, né dell’Associazione Artigiani, né della Fondazione Russell, né del Circolo Letterario dell’Ovest, né dell’Istituto del Diritto, né di quella Società delle Ar-

ti e delle Scienze Riunite che si trova sotto il patronato diretto di Sua Maestà Graziosissima. Insomma, non apparteneva a nessuna delle numerose associazioni che pullulano nella capitale d’Inghilterra...

trice americana Parker n 75 Scrisse Todo modo (iniz.) n 76 Iniz. del poeta Darìo

pagina VIII - liberal estate - 19 agosto 2009

LA SOLUZIONE DI IERI È: Jane Austen,“Orgoglio e Pregiudizio” (1813) inserto a cura di ROSSELLA FABIANI


economia

19 agosto 2009 • pagina 17

Evasione. Il comandante della Guardia di finanza D’Arrigo: «Ogni anno tra 80 e 90 miliardi di euro vengono frodati al fisco»

Un jackpot da 250 miliardi Aumentano i capitali trasferiti all’estero. Da gennaio 3,3 miliardi recuperati di Francesco Pacifico

ROMA. Un tesoretto da 3,3 miliardi di euro nascosto all’estero e recuperato dalla Guardia di finanza nei primi sette mesi dell’anno. Pochi se si pensa che Oltreconfine sono stati trasferiti capitali e beni per almeno seicento miliardi. Molti per un’Italia in crisi che con lo scudo fiscale punta a riportare in casa tra i 3 e i 4 miliardi. La lotta all’evasione, almeno a leggere il bilancio dell’attività delle Fiamme gialle, va avanti, «in linea con i risultati ottenuti nello stesso periodo del 2008». Ma c’è molto da fare se il comandante generale Cosimo D’Arrigo ha denunciato che secondo le stime del ministero dell’Economia, e soltanto per i capitali, «l’evasione fiscale è al livello di 225-250 miliardi di euro. Al fisco viene sottratto qualcosa come 80-90 miliardi». Spiega Stefano Caselli, ordinario di economia degli intermediari finanziari alla Bocconi: «Senza voler fare trionfalismi, per la prima volta si sta schiacciando l’acceleratore sull’evasione fatta all’estero. Non quella in casa nostra. E credo per due motivi: la coperta è corta e servono soldi, il clima generale, come dimostra l’accordo tra gli Usa e la Svizzera, va in quella direzione». Il trend potrebbe incidere sullo scudo fiscale di Tremonti. «E bene», aggiunge Caselli, «se gli accertamenti o le indagini come quella sugli Agnelli metteranno sull’attenti chi porta soldi fuori». A fronte di 5.690 controlli 1,1 miliardi di euro sono stati scoperti in operazioni verso paradisi fiscali. Ammonta invece a 1,8 miliardi l’Iva evasa. E se 1,6 miliardi non è stato dichiarato in Italia da società

nostrane che operano all’estero, 600 milioni sono i redditi di persone fisiche e giuridiche che senza poterlo fare hanno trasferito la propria residenza oltre confine.

Più complessa la situazione del sommerso nel territorio nazionale. Forte di una stima di Krls Network of Business Ethics, l’associazione Consumatori.it ha denunciato che «nei primi sette mesi del 2009 l’imponibile evaso in Italia è cresciuto del 9,9 per cento ed ha raggiunto l’ammontare di 348 miliar-

Le truffe sull’Iva valgono 1,8 miliardi. Un altro miliardo va verso i paradisi fiscali. L’Europa studia una sua struttura comune per lo scambio di informazioni di di euro su base annua». Sottolinea l’esponente dell’Udc Bruno Tabacci: «Di fronte a un’evasione pari al 28 per cento del Pil devono cambiare i meccanismi del sistema fiscale: chi paga un servizio a un professionista deve avere la possibilità di detrarlo». Tre miliardi di euro evasi al fisco recuperati nei primi sette mese dell’anno contro i 3,6 in meno registrati nel computo totale del gettito del primo semestre 2009. Non poco visti i livelli di incertezza si muove l’economia mondiale. Al riguardo, emblematico che ieri le Borse mondiali (a Milano +1,36 per cento), dopo il tonfo di lunedì, abbiano di-

mezzato i guadagni dopo l’annuncio di un inaspettato -0,9 per cento dei prezzi di produzione in America. O che in Germania i curatori dell’indice Zew sulla fiducia degli investitori, al balzo di quasi 17 punti registrato ad agosto, si siano sentiti in dovere di aggiungere una postilla: «Non bisogna farsi prendere dall’euforia. La ripresa dell’economia tedesca avverrà in modo graduale». In un articolo su Finance & Development magazine il direttore del Fondo monetario, Olivier Blanchard, ha sottolineato che la ripresa che sta per iniziare «non sarà abbastanza robusta da ridurre la disoccupazione». E la cosa, in Italia, prende un significato ancora peggiore se crescita della spesa per il welfare rallenta al +2,8 per cento (al 9,9 nel 2008) mentre Bankitalia fa sapere che «la componente aziendale delle retribuzioni nell’industria, a parità di dimensioni delle imprese, è nel Mezzogiorno di 5-6 punti percentuali inferiore rispetto al Nord per gli operai e di 8-9 punti per gli impiegati». Ma la lotta all’evasione sta diventando prioritaria in tutta la Ue. Se oggi i governi di Usa e Svizzera e la Ubs illustrano l’intesa che affievolisce il segreto bancario svizzero, ieri Bruxelles ha annunciato la nascita di Eurofisc: una struttura operativa comune per scambiarsi informazioni e strategie contro le frodi transfrontaliere.

Le banche sono ancora nell’occhio del ciclone: ricomincia il gioco degli investimenti a rischio

Dove nasce la bolla di Shanghai di Gianfranco Polillo segue dalla prima Sarebbe bastato un piccolo punto interrogativo per ridimensionare l’incidente di percorso. Ma già la sua omissione dice molto di più di qualsiasi analisi. Nel mondo, gli economisti scrutano l’orizzonte nella speranza di vedere segni di ripresa immediata. Si aggrappano a questa speranza e giocano duro: anche a costo di dover fare poi fare marcia indietro. La verità è che questa crisi, ancora insondabile per tanti aspetti, inquieta e preoccupa.

Soprattutto rimette in discussione stili di vita e collocazioni nella gerarchia sociale. Basta vedere al comportamento delle principali banche internazionali. Hanno bisogno di fare utili per dimostrare che la grande tempesta è ormai alle loro spalle. E per conseguire questi risultati non si rivolgono tanto all’eco-

nomia reale, i cui ritmi di crescita sono inevitabilmente più lenti ed incerti, ma al grande gioco del trading internazionale. Investimenti in borsa, futures su materie prime, monete e, nuovamente, titoli più o meno tossici, che ancora circolano liberamente sui mercati, nonostante gli sforzi profusi dalle Banche centrali per sterilizzarli. Ma se si vogliono risultati immediati occorre rischiare. Più alto è il rischio e maggiori sono i proventi. Il segreto è uscire dal giro un minuto prima degli altri e lasciar loro il cerino ancora acceso. L’ottovolante, che dalle borse si è esteso a tutto quello che è commerciabile, si spiega così. Come si spiegano le offerte milionarie a favore degli specialisti che operano sui mercati più difficili, come quelli delle materie prime. Barclays Capital ha offerto trenta milioni di sterline ad un gruppo di traders di JP Morgan per sottrarli alla banca americana. Ne sono derivate polemi-

che a non finire ed il coinvolgimento delle Autorità di vigilanza. Nemmeno si trattasse di Zlatan Ibrahimovic. Per rendere più credibile questo gioco è necessario alimentare un pizzico di ottimismo. Chi comprerebbe nella prospettiva di una crisi ancora da sondare? Poi, quando inevitabilmente, arriva il momento della verità, le spiegazioni ex post tentano la quadratura del cerchio.

Sono i timori degli eccessi di liquidità: dicono alcuni. Le Autorità cinesi – controbattono altri – sono preoccupati di una crescita eccessiva e solitaria, alimentata da un intervento pubblico che non ha precedenti nella lunga cronologia delle crisi internazionali. Tutto vero. Ma basta per tranquillizzare? La verità è che si naviga a vista. Del resto non si può fare altrimenti. L’uscita dal tunnel della crisi presuppone comportamenti collettivi che ancora sono lungi dal manifestar-

si. Devono riprendere i consumi. Ma gli americani sono costretti soprattutto risparmiare per far fronte agli eccessi degli anni passati. Gli europei, a loro volta, non hanno mai condiviso quel consumismo un po’ cafone.Teorici dell’economia sociale di mercato, hanno subito una pressione fiscale ben più elevata per avere più beni pubblici, anche a scapito di un effimero smodato. Resta poi il tema dei temi: vale a dire la dinamica degli investimenti produttivi, in flessione da troppo tempo. A loro volta legati ad una domanda interna e internazionale che non cresce a ritmi adeguati. Una vera e propria trappola che non sarà facile disinnescare. Nel frattempo impazza il gioco finanziario, con i suoi alti e bassi. Ma non illudiamoci. È come al tavolo verde. I giocatori, però, sono sempre gli stessi. A volte perdono, altre volte vincono: un eterno ping pong, che non produce un grammo di ricchezza in più.


mondo

pagina 18 • 19 agosto 2009

Stati Uniti. Repubblicani e democratici uniti in una storia di tentativi (e fallimenti) che ormai dura da quasi un secolo

Chi tocca la sanità muore! Da Theodore Roosevelt a Clinton, nessun presidente è riuscito a riformare il sistema di Maurizio Stefanini quasi un secolo che i americani presidenti cercano di imporre una riforma sanitaria in grado di costituire un sistema nazionale; è quasi un secolo che chiunque ci prova vi scivola trova. Il primo fu Theodore Roosevelt: il presidente dell’anti-trust, delle prime legislazioni ecologiste e del decollo degli Stati Uniti come potenza mondiale. Eletto vicepresidente con William McKinley e a lui subentrato dopo il suo assassinio nel 1901, rieletto nel 1905, nel 1909 decise di passare la mano a William Howard Taft. Ma presto fu scontento della sua politica, e accusandolo di aver schierato il Partito Repubblicano già Lincoln con gli interessi conservatori decise di «ributtare in campo il suo cappello di cow-boy», o come diremmo no di «riscendere in campo», alla testa di un suo Partito Progressista, nuovo di zecca. E fu appunto la riforma sanitaria al centro della sua campagna. Di voti ne ottenne in effetti a valanga, ma con il solo risultato di spaccare l’elettorato repubblicano, permettendo così l’elezione del democratico Woodrow Wilson.

È

Ci riprovò suo cugino Franklin Delano, che invece era democratico. Il suo primo progetto, anzi, era quello di includere anche un sistema sanitario nazionale nel più ampio Programma di Sicurezza Sociale del New Deal. Ma la campagna subito scatenata dall’American Medical Association contro «l’assicurazione sulla salute obbligatoria» lo convinse nel 1935 a scorporare il pacchetto unico in due: uno sul Programma di Sicurezza Sociale; un altro più specificamente rivolto al sistema sanitario. Il primo infatti passò: quel Social Security Act che istituì il sistema universale delle pensioni e il sussidio di disoccupazione. Ma il secondo no. Ci riprovò il suo successore Harry S. Truman, come componente essenziale del suo Fair Deal del 1949: e il Congresso disse di no di nuovo. Da notare che del Fair Deal passò invece l’Housing Act, da cui un ampio programma di edilizia popolare. E anche il Social Se-

Dopo le voci sulla rinuncia della Casa Bianca alla “public option”

E adesso sono i “liberal” a rivoltarsi contro Obama di Guglielmo Malagodi opo la rivolta dei blue dogs (i democratici “moderati” in gran parte eletti al Sud), adesso Barack Obama si trova a fare i conti con gli esponenti liberal che costituiscono la maggioranza - almeno al Congresso - del suo partito. Per spingere i primi a votare, al rientro delle vacanze, il piano di riforma del sistema sanitario, la Casa Bianca nei giorni scorsi aveva fatto capire di essere disposta a rinunciare a uno dei punti più controversi del progetto obamiano, la cosiddetta “public option”, cioè la costituzione di un polo pubblico in concorrenza con quello privato. Ma, come era ampiamente prevedibile, questa scelta non è piaciuta all’ala sinistra del partito, che controlla di fatto almeno i tre quarti della rappresentanza democratica al Congresso. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, non ha mancato di esprimere le sue perplessità in merito. «C’è un forte sostegno per la public option alla Camera», ha detto ieri, evitando di approfondire l’argomento per non mettere in pericolo il difficile lavoro di ricucitura diplomatica con la Casa Bianca che la attende nei prossimi giorni. Ma Anthony Weiner, importante membro della commissione Energia e Commercio, ha dichiarato al Washington Post, che l’eventuale soppressione della public option potrebbe costare al presidente almeno un centinaio di voti alla Camera.

D

«Lo so che l’amministrazione sta cercando di ottenere il voto di due o tre senatori democratici, ma così rischia di perderne molte decine» ha detto Weiner. Finora, tre commissioni della Camera ed una del Senato hanno approvato

Da sinistra a destra: Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Dwight Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon Johnson e Bill Clinton. Qui a sinistra, Nancy Pelosi. Nella pagina a destra, Barack Obama

un testo della riforma in cui è previsto il polo pubblico.

Ancora più espliciti i senatori John Rockefeller, per il quale il l’approvazione della riforma così come è stata presentata è «un must», e Russel Feingold, senatore ultra-liberal del Wisconsin, secondo il quale «senza la public option non vedo come potremmo portare un reale cambiamento nel sistema che ha reso l’assistenza sanitaria un privilegio per chi ha possibilità economiche». E anche dai sindacati - pilastro importante della coalizione che controlla da decenni il partito democratico - sono partiti appelli affinché il presidente non molli sull’ente pubblico. Il vero problema, per Obama, è che si trova a gestire una coperta “troppo corta” senza la possibilità di accontentare tutte le parti in causa. Proprio mentre il neopresidente si trova di fronte a un ritrovato entusiasmo da parte della base repubblicana e a sondaggi che non lo vedono più nella forma smagliante di inizio 2009.

curity Act del 1950, che ampliò la fascia dei destinatari di quello del 1935. Insomma, sembra che il problema non sia stato a proposito di legislazioni sociali o dell’intervento pubblico in genere, ma proprio specifico dell’idea di un sistema sanitario nazionale e universale.

Nè il problema fu solo di presidenti progressisti. Anche il generale e repubblicano Dwight David Eisenhower, venuto alla Casa Bianca dopo Truman, riteneva che al problema bisognasse dare una qualche soluzione. Un po’ perché conservatore lui stesso, un po’ perché ammaestrato dai precedenti, pensò a una formula il più possibile moderata, volta più a dare stimoli agli assicuratori privati in favore di pazienti poveri e ad alto rischio che non a aumentare a dismisura il ruolo del governo federale. Niente da fare: anche all’Ike della vittoria in Europa risultò più facile lo sbarco in Normandia che non superare la resistenza del Congresso, da cui la sua proposta fu bocciata per due volte. A favore dei suoi ex-soldati, riuscì solo nel 1956 a far approvare

quel Dependents Medical Care Act che assieme al successivo Military Medical Benefits Amendments del 1966 ha generalizzato quel sistema sanitario a favore dei militari che in effetti era venuto espandendosi fin dalla Prima Guerra Mondiale, ma che ancora fino ad allora lasciava scoperto almeno il 40% degli uomini in divisa. A parte negli Stati Uniti c’è poi una Veterans Health Administration che assiste i congedati: un importante fringe benefit, per attrarre l’arruolamento dei volontari.

Naturalmente, tornato a battere il pendolo della politica americana dal lato progressista, un sistema sanitario nazionale fu di nuovo una colonna portante della “Nuova Frontiera”di John Fitzgerald Kennedy. Dopo averci fatto sopra la campagna elettorale, però, vide che era meglio concentrarsi intanto sulla sola assistenza agli anziani. Non ne ebbe il tempo. La bandiera fu allora ripresa in mano da Lyndon Baines Jonhson, con una maggioranza democratica alle Camere schiacciante ed una capacità mano-


mondo

vriera che pochi altri presidenti hanno avuto. E infatti riuscì a far approvare Medicare: il sistema che tuttora assicura l’assistenza federali a tutti gli anziani oltre i 65 anni. Ma, appunto, nel 1965 fece passare il solo Medicare e nient’altro, per la rivolta di una gran parte del suo stesso partito. Simbolicamente, al momento dell’entrata in vigore del nuovo sistema, il 30 luglio 1965, la prima tessera del Medicare fu consegnata a Harry S. Truman.

Lo stesso giorno entrò in vigore Medicaid, che copre invece i poveri: non solo cittadini, ma anche stranieri residenti. Non tutti, però, bensì quelli con determinati requisiti: essenzialmente minorenni, loro genitori, donne incinte e affetti da alcuni tipi di disabilità particolarmente gravi. Per questo solo il 40% dei residenti negli Stati Uniti a basso reddito vi rientra. Un’altra caratteristica è che Medicaid non è un programma federale, ma uno schema articolato sul territorio a geometria variabile, in cui il governo federale mette fino a metà dei fondi, ma il resto deve provenire dagli Stati o anche dalle Contee. Di nuovo colpo di pendolo conservatore nel 1968, e la proposta di un sistema nazionale la fece il repubblicano Richard Nixon. Dopo cinque anni alla Casa Bianca, grazie a un ampio consenso bipartisan nel 1974 l’obiettivo sembrava finalmente a portata di mano. Ma a quel punto ci si mise addirittura lo scandalo Watergate, far saltare tutto. Forse non per scaramanzia ma per la crisi economica in corso il pur progressista Jimmy Carter fu il primo presidente in quarant’anni a non tornare sul tema, e dopo di

Anche al Dwight Eisenhower della vittoria in Europa risultò più facile lo sbarco in Normandia che non superare la resistenza del Congresso, da cui la sua proposta di riforma fu bocciata per due volte lui venne il conservatorismo più ideologico di Ronald Reagan e George Bush, con un’epoca in cui la parola d’ordine era invece quella del più privato. E non solo negli Stati Uniti. Risale comunque all’epoca reaganiana quel Consolidated Omnibus Budget Reconciliation Act del 1985 che permette a varie categorie di lavoratori di continuare a usufruire della copertura sanitaria anche dopo aver lasciato l’impiego.

19 agosto 2009 • pagina 19

Prima di Obama, un ultimo tentativo per creare un sistema sanitario nazionale fu fatto da Bill Clinton, che nel 1993 sembrò a un passo dal riuscirci. Ma fece il peccato d’arroganza di porre al suo pacchetto di ben 1300 pagine la condizione del prendere o lasciare: o gli votavano tutto come era, disse, o lui avrebbe messo il veto a ogni possibile emendamento. Il Congresso allora gli bocciò tutto: anche perché, si sapeva, quella riforma era più farina del sacco di Hillary che non del Presidente. E su quello scivolone i democratici persero poi le elezioni di mezzo termine del 1994. L’Amministrazione Clinton riuscì solo a far passare quell’Health Insurance Portability and Accountability Act del 1996, che rende più semplice mantenere la copertura sanitaria mentre si

curazioni private e un nuovo schema governativo tipo Medicare. L’idea di John McCain era invece quella di estendere la capacità dei cittadini di accedere al mercato da una parte attraverso un programma di esenzioni fiscali per 2500 dollari a favore di cittadini o di 5000 dollari a favore di famiglie cui la copertura sanitaria non fosse offerta dal datore di lavoro; dall’altra con un altro Piano di Accesso Garantito a cura di governo federale e Stati per aiutare coloro a cui sia negata copertura dalle società assicuratrici.

Proprio avendo presente in particolare il precedente di Clinton, dopo la sua vittoria Obama ha pensato a un progetto che lasciasse a senatori e rappresentanti un ampio spa-

Bill Clinton (con Hillary) nel 1993 sembrò a un passo dal riuscirci. Ma fece il peccato d’arroganza di porre la condizione del “prendere o lasciare”. Il Congresso allora gli bocciò tutto sta cambiando lavoro o quando lo si perde, e che stabilisce anche uno standard nazionale sulla protezione delle privacy in campo sanitario. Durante la campagna elettorale del 2004 proposte di ampliamento dell’assistenza sanitaria furono fatte sia da George W. Bush che da Kerry, ma nessuno dei due parlò di un sistema nazionale.

George W. Bush ha comunque firmato un Medicare Prescription Drug, Improvement, and Modernization Act che aumenta la somministrazione di medicine cittadini per anziani e disabili. Di Universal Health Care ha ripreso a parlare invece nel corso dell’ultima campagna elettorale Barack Obama: un sistema da articolare attraverso l’interazione tra le assi-

zio decisionale. Secondo vari esperti di cose congressuali, però, ha poi commesso l’errore di fare loro pressione perché decidessero un testo prima dell’estate, in modo da poter poi discutere le possibili modifiche già a settembre, al ritorno dalle vacanze. Così, è stato costretto a un nuovo rinvio. E lui stesso si è messo a ricordare i pessimi precedenti. «Adesso viene la parte più difficile. La storia ce lo ha dimostrato chiaramente: ogni volta che siamo stati al punto di approvare una riforma del sistema sanitario, gli interessi toccati hanno fatto resistenza con tutte le loro forze». Il timore è che anche alle elezioni di mezzo termine del 2010, se ci si arriverà in condizioni di impasse, possa finire con un rovescio per il partito del presidente.


cultura

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Un quadro una storia. Nel volto scavato (di profilo) di Cosimo il Vecchio, il primo ritratto di un’epoca in grande trasformazione, alla ricerca di un nuovo codice estetico

Maniera Pontormo La grande pittura del Cinquecento entra a Corte: quando la Firenze dei Medici adottò il grande ritrattista di Olga Melasecchi r non sapeva il Pontormo che i Tedeschi e Fiamminghi vengono in queste parti per imparar la maniera italiana, che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?» si chiedeva perplesso Giorgio Vasari nel 1550 riflettendo sugli influssi dureriani contenuti nei lavori che il suo conterraneo e coevo Jacopo Pontormo aveva da poco terminato di dipingere. E in questa accorata difesa dello stile della pittura italiana rinascimentale, da parte di uno storico ma anche a sua volta pittore, seguace e grande ammiratore di Michelangelo, è racchiuso il giudizio che fin dall’inizio e per secoli è pesato sull’arte contorta, contraddittoria, anticlassica ma di grande eleganza del Pontormo.

«O

Tra i maggiori rappresentanti del primo manierismo fiorentino, Jacopo Carrucci, questo il suo vero nome, era nato a Pontorme, vicino Empoli, nel 1494. Figlio d’arte, ma rimasto presto orfano, dopo aver rivelato un precoce talento per il disegno entrò, per imparare il mestiere, nelle botteghe fiorentine dei maestri più noti. Fu in quella di Leonardo, di Piero di Cosimo, di Mariotto Albertinelli, ma l’artista dal quale ebbe i maggiori insegnamenti e la cui maniera risultò decisiva per la sua formazione fu Andrea del Sarto, un protomanierista, ed entrando nella cerchia degli allievi di quel maestro strinse amicizia con il suo alter ego, il Rosso Fiorentino, l’altro grande esponente della maniera fiorentina. Vasari, che criticherà, come abbiamo visto, la sua produzione dell’età matura per l’influenza di durezze gotiche, era inve-

ce entusiasta delle sue prime opere, sicuro di un futuro successo, molto promettente; lo descriveva come una specie di bambino prodigio nella pittura, anche i grandi Raffaello e Michelangelo riconoscevano in lui un talento eccezionale e gli avevano previsto una luminosa carriera artistica.

composizioni della coeva pittura ufficiale fiorentina. Nei ritratti che a lui venivano con insistenza richiesti è evidente un distacco dalle posizioni accademiche ufficiali, algide e distaccate, come era quella ad esempio del suo stesso maestro o del suo migliore amico, Agnolo Bronzino, il ritrattista di corte dei Medici. I

sonaggio, al giovane e astuto Alessandro de’ Medici nella collezione John G. Johnson di Filadelfia, si distinguono dalla coeva ritrattistica fiorentina per una moderna capacità di riflettere all’interno dell’anima del personaggio, trovando la posa e l’espressione più adatta ad esprimere la singola personalità. Oltre alla splendida produzione ritrattistica Pontormo dipinse ancora in ville, a Careggi e nella villa di Castello, cicli di affreschi purtroppo quasi tutti perduti, e nelle maggiori chiese fiorentine, ancora con affreschi e pale d’altare, e anche per lui, come per tutti i più grandi geni dell’arte, si può affermare

Del suo talento i principi si accorsero subito e gli fecero decorare la villa di Poggio a Caiano, tra il 1519 e il 1521, dove realizzò affreschi indimenticabili, come quelli della lunetta di Vertunno e Pomona

Del suo talento si erano accorti anche i Medici, che a lui affidarono la decorazione della villa di Poggio a Caiano, tra il 1519 e il 1521, dove Jacopo realizzò affreschi indimenticabili, come quelli della lunetta di Vertunno e Pomona, di eloquente tono popolare più vicino ad opere del verismo napoletano di metà Ottocento che alle paludate

ritratti del Pontormo, dal fiero Alabardiere del Getty Museum alla giovane e vibrante Dama con cagnolino dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte sul Meno, dal sublime Ritratto di Cosimo il Vecchio di profilo, in cui l’unico occhio visibile e le mani strette in un gesto consueto rendono l’umanità e nel contempo la grandezza del per-

che ogni sua opera è un capolavoro. Rimpiangiamo per questo ancora di più ciò che è andato distrutto, come, oltre agli affreschi delle ville citate, la sua ultima imponente fatica, il ciclo di pitture per il coro di San Lorenzo a Firenze, la chiesa padronale dei Medici. L’aver affidato a lui la decorazione della chiesa più cara alla nobile famiglia fiorentina rivela quanto in effetti l’artista fosse tenuto in conto, e si diceva che volesse con questa ultima fatica superare lo stesso Michelangelo.

Il ciclo, su cui il pittore lavorò dal 1546 al 1557 circa, anno della sua morte, raffigurava numerose scene tratte dall’Antico Testamento, dalla Creazione di Eva al Sacrificio di Isacco, più il Mar-

tirio di S. Lorenzo e il Giudizio universale, una insolita iconografia cristologica derivante dal trattato cripto-protestante, il Beneficio di Cristo, che circolava negli ambienti della Riforma Cattolica, in cui si proclamava la fiducia nella salvezza individuale attraverso la sola fede. Gli affrschi, andati distrutti nel 1738 in seguito a trasformazioni del coro, sono quasi tutti noti grazie alle descrizioni del Vasari e di altri letterati, e anche attraverso numerosi disegni preparatori dell’artista, incisioni di fine Cinquecento e


cultura metereologiche, i progressi giornalieri nel lavoro, gli amici che frequentava, tra i quali soprattutto il Bronzino, che lo invitava spesso a mangiare a casa sua, e anche la presenza, sporadica, di Alessandra, una compagna di notti allegre. Sarà forse per l’esistenza di questo umanissimo Diario insieme alla modernità di stile e di carattere della sua pittura, il Pontormo sembra appartenere ad una generazione successiva di almeno tre secoli, più vicino all’artista bohémien della fine dell’Ottocento. Possiamo immaginarlo in questa veste, di artista solitario e scorbutico, anche per una sua bizzarria narrata dal Vasari: ”alla stanza dove stava a dormire e talvolta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale, entrato che egli era, tirava su con una carrucola acciò che niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa”. E’ forse per questa sua modernità che la critica ha iniziato ad apprezzare le opere di questo singolare artista solo all’inizio del Novecento, dopo che la pittura astratta ci ha abituati a vedere le cose da un altro punto di vista.

Dal 1526 al 1528 lavorò

Qui sopra, la «Deposizione di Cristo» e, a destra, due ritratti di Jacopo Pontormo. Nella pagina a fianco, uno dei suoi dipinti più celebri: «Cosimo de’ Medici il Vecchio di profilo» diversi schizzi che lo stesso Pontormo aveva segnato a margine del suo famoso Diario redatto proprio in quegli anni. La lettura di questo manoscritto ha rivelato aspetti altrimenti oscuri della sua personalità, l’attenzione ossessiva ai pasti da lui consumati, i piccoli malanni da cui era infastidito, le condizioni

nella chiesa di S. Felicita, sempre a Firenze, dove, all’interno della cappella Capponi, già Barbadori, dipinse un’opera straordinaria: la nota Deposizione, un olio su tavola centinata di cm. 313 x 192, ancora fortunamente in loco e quindi ammirabile nelle condizioni di luce e nel contesto orginari, così come l’aveva concepito l’artista, che sulle pareti della cappella aveva affrescato anche una bellissima Annunciazione, con un angelo prebarocco, e tre tondi con inediti e splendidi Evangelisti (il quarto venne dipinto dal Bronzino). Come in altre sue opere la scena è tutta collocata in un avanzante primo piano, priva di qualsiasi ambientazione spaziale, popolata solo da undici personaggi collocati in un crescendo compositivo che parte dal giovane accovac-

19 agosto 2009 • pagina 21

ciato nel basso che sorregge le gambe del Cristo e si conclude in alto con una eterea figura di Maria. La composizione è inusuale, identificabile dal corpo del Cristo esangue ed abbandonato come nella Pietà di Michelangelo di dieci anni prima, e

Più che corpi in carne e ossa, i suoi personaggi sembrano entità spirituali purissime come perfette note musicali, plasmate solo da «colori chiarissimi e acerbi», come scrisse di lui il grande critico Giuliano Briganti

dalla gigantesca figura della madre addolorata. Gli altri personaggi sono quasi figure angeliche maschili e femminili, a parte una coppia di anziani alla spalle della Madonna, forse un allusione ai committenti, anche se si è

voluto vedere nella figura maschile all’estrema destra un autoritratto del pittore.

Più che corpi in carne e ossa sembrano entità spirituali purissime come perfette note musicali, plasmate solo da “colori chiarissimi e acerbi”, come li ha descritti Giuliano Briganti, “colori d’erba spremuta e di succhi di fiori primaverili, pervinche, rose, violette, giallo di polline, verde di chiari steli”. La critica ha visto in questo dipinto un ritorno al michelangiolismo, ma reso “disperatamente elegiaco, sognato, aereo: le grandi figure non hanno peso, il colore non ha chiaroscuro, la composizione non ha ordine. Il manipolo di eroi italiani di Cascina si è trasformata in una languorosa famiglia di Niobidi allucinati” (L. Berti). I visi, come nello stile del Pontormo, sono degli ovali perfetti dove campeggiano grandi occhi stralunati e piccole bocche semiaperte da cui sembra uscire un grido muto. Il cangiantismo delle vesti, come nella produzione pittorica di Michelangelo, sembra quasi liquefarsi sotto il bagliore allucinato di una luce chiarissima, luce divina, che proviene da destra. Scena raffinatamente teatrale in cui “il tragico, il sublime è proprio nel fatto che il pathos non si localizza nei gesti o nelle espressioni delle figure, ma si manifesta nella loro voluta incosistenza, nel loro trapassare dalla concretezza della forma all’astrattezza dell’immagine” (Argan). Non sapremo mai quale sia stata la reazione del committente davanti all’opera finita, davanti all’anticlassicismo di forme e colori, ma dovette essere sicuramente estremamente positivo se dopo questo lavoro il Pontormo potè permettersi di comprare casa e di avere una propria bottega. Ancora trent’anni dopo il solito Vasari stupefatto definiva questo stupefacente capolavoro “senz’ombra e con un colorito chiaro e tanto unito” e da fedele seguace del michelagiolismo più classico, non riuscendo a capire “la solita stranezza di quel cervello” di Pontormo si rifugia in un conclusivo “pensando a cose nuove”. Nuove appunto di tre secoli.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Figaro” del 17/08/2009

Turismo e povertà di Léa-Lisa li alberi delle barche si toccano delicatamente. Sulla banchina animata da locali e negozi, camerieri in uniforme si agitano nei caffé. «È veramente molto bello!» afferma la ventiquattrenne Sofia, seduta al bar con un gruppo di amici, davanti ai resti di una ricca colazione. Pasticceria marocchina, tè alla menta, è tutto lì sul tavolo. Sofia è una marocchina residente in Francia, è la prima volta che viene a vedere il nuovo porto. Situato alla foce del Bouregreg a Salé dove, come nella vicina Rabat, si è investito molto nello sviluppo delle infrastrutture. Il progetto è costato 750 milioni di euro. Sulla riva destra è stato costruito un porto turistico per duecento natanti e su quella sinistra un lungomare con caffè e locali. Entro il 2012 ci sarà anche un ponte e un tram che collegherà le due rive, con alberghi di lusso e 1.700 residenze. L’intero piano, che è finanziato al 50 per cento da imprese di Abu Dhabi, è veramente faraonico.

G

«È ciò che veramente vogliamo!» aveva esclamato, pieno d’entusiasmo, Omar Benslimane, nel suo ufficio nel centro cittadino. «È ciò che vogliono i turisti per venire a Rabat!», continuava il direttore della comunicazione dell’Agenzia per lo sviluppo della valle del Bouregreg. Un’iniziativa avviata nel 2006 dal Mohammed VI, su di un’area di circa 6mila ettari. È prevista anche la costruzione di una città su di un lago artificiale, per un costo totale di 3 miliardi di euro. «Un progetto che porterà la capitale a rango di metropoli internazionale» sottolinea Benslimane. Pochi chilometri dopo Salè, la strada conduce in una landa desolata. Alla fine si trova un porticciolo. All’ombra di una rete da pesca dei pescatori fumano, in attesa del

rientro dei loro colleghi. Loro sono meno entusiasti, quando si parla della riconversione della valle del Bouregreg. «Ovviamente nessuno è contrario a un progetto che creerà molti posto di lavoro e migliorerà le infrastrutture – reagisce Abdelftah Sbihi, 58 anni – ma noi che siamo stati i primi ad essere coinvolti, perché ci hanno trasferito. E non abbiamo ancora visto niente». Un nuovo porto è stato costruito per ospitare i 600 pescatori sfollati, ma è troppo piccolo per le 200 imbarcazioni che dovrebbe ormeggiare. «Il nostro lavoro merita qualcosa di meglio di questo posto. Il porto s’insabbia facilmente ed è pericoloso con la bassa marea» è il parere di Moustapha Saikouko, 35 anni, pescatore da quando ne aveva 12. Con due figli guadagna circa 280 euro al mese. La Medina, cuore storico e commerciale di Rabat, si trova sull’altra riva del fiume, dal lato della capitale, sulla cima di una scogliera a ridosso del Bouregreg. Alla fine di un vicolo tra mercanti di ciambelle e tessuti, sulla destra vicino a un muro c’è la Founduk Bragach. È un vero concentrato di povertà, dove vivono centinaia di famiglie. Qui la densità della popolazione varia dalle 6 alle 8 persone per metro quadrato. Aicha Nani, 31 anni, è nata e ha sempre vissuto in questo posto. Due secchi ricoperti di stagno vengono utilizzati come servizi igienici. L’acqua viene da una fontana pubblica e la corrente elettrica è presa da un lampione sulla strada. «Negli ultimi dieci an-

ni ho visto cambiare Rabat, il re ha fatto un sacco di lavori» afferma la giovane donna che ha la bocca rovinata dal fumo. «Ma noi siamo nascosti dietro il muro della Medina, nessuno fa attenzione alla nostra condizione». Aicha per vivere vende vestiti di seconda mano e sigarette. Guadagna circa tre euro al giorno. Proprio lì accanto c’era la Founduk Mastiri, un’altra baraccopoli che è stata smantellata dal comune nel 2007. Le famiglie sono state indennizzate e trasferite. Al suo posto c’è un mercato delle pulci, tra le macerie e la spazzatura.

C’è uno striscione appeso dove si legge: «I venditori del mercato delle pulci chiedono alle autorità di rendere omaggio a questo posto, nel contesto dello sviluppo sociale, e di permettere la costruzione di veri e propri negozi». «Questi progetti daranno risultati solo nel medio termine» spiega Driss Ben Ali, economista dell’Università di Rabat. Le fragili entrate del turismo, dei marocchini all’estero e degli investitori stranieri sono ora indebolite dalla crisi

L’IMMAGINE

Insegnanti di sostegno con il superenalotto: sottoscrivete questa dichiarazione Paolo Fasce, cittadino genovese, ligure, italiano, europeo e del mondo, genitore, insegnante di matematica e di informatica, insegnante di sostegno delle aree tecnica e scientifica, ingegnere elettronico, giornalista, letta la newsletter del sindacato “Famiglie italiane diverse abilità” dichiara quanto segue: parteciperò al concorso SuperEnalotto, acquistando un biglietto a tariffa minima fino al giorno dell’assegnazione del super premio milionario di più di 100 milioni di euro. Qualora questo biglietto risulti vincitore di quella somma, investirò parte di queste risorse per l’assunzione di 1000 insegnanti di sostegno sull’intero territorio nazionale, in deroga ai vergognosi limiti adottati da diversi uffici scolastici regionali, per la durata dell’intero anno scolastico; l’allocazione di tali insegnanti sarà concordata con il ministero della Pubblica Istruzione e riguarderà le scuole statali. Con la presente intendo invitare tutti i cittadini e, in particolare, i colleghi precari, ad esplicitare una dichiarazione di questo tenore.

Paolo Fasce

SMS E INCIDENTI STRADALI Vedere una persona alla guida che parla al telefonino è frequente, nonostante ci siano norme che lo vietano e relative multe. Ma i controlli sono quel che sono, cioè scarsi, anche perché sono sempre meno le pattuglie della polizia sulla strada. Il legislatore si sta dimostrando attento al clamore dei provvedimenti piuttosto che alla sostanza pragmatica degli stessi: e invece di aumentare i fondi perché la polizia sia meglio pagata, abbia più fondi e faccia più controlli con l’etilometro e sia più diffusa ai bordi delle nostre strade, usa il proprio tempo istituzionale per provvedere solo ad aumentare le pene e per levare i punti a ciclisti che commettono un’infrazione ed hanno anche

una patente di guida. Visto il periodo di intensa mobilità soprattutto su gomma, sarebbe bene evitare di farsi male da soli, soprattutto mentre usiamo uno dei sistemi di comunicazioni oggi tra i più diffusi, gli sms. La conferma ci arriva da uno studio dell’Università Tech della Virginia che evidenzia che se un conducente invia un messaggino mentre sta guidando aumenta di 23 volte il rischio d’incidente. Dopo aver istallato videocamere nelle cabine dei tir e osservato il comportamento dei camionisti riguardo agli sms, i ricercatori Usa hanno rilevato che l’atto del digitare sottrae 5 secondi all’attenzione che spetterebbe alla strada. Il risultato trova parziale conferma in un esperimento condotto dall’Uni-

Grotta di ghiaccio Per godersi lo spettacolo, questo scalatore si è dovuto addentrare all’interno del ghiacciaio Langjokull, in Islanda. Spingendosi fino a 25 metri di profondità sotto il ghiaccio. Non proprio una passeggiata ma ne è valsa la pena: intorno a lui una grotta di “cristallo” dovuta all’azione erosiva dell’acqua e a particolari fenomeni geotermici. Questo tipo di caverne è molto diffusa in Islanda

versità dello Utah, in quel caso con l’aiuto di studenti e simulatori di guida. Risultato? Un rischio otto volte superiore rispetto a chi si astiene dagli sms.

Lettera firmata

FACEBOOK, MEZZO AMORALE Adesso è facebook al centro dell’imputazione di turno: essere strumento amorale di contatto

sociale. A tal uopo desidererei narrare la stora di uno sfortunato padre che non poteva vedere sua figlia per questioni legate al suo ex matrimonio; pur avendo ragione da vendere, l’ex moglie gli aveva messo i figli contro. Neanche di fronte alla richiesta fatta di avere almeno una foto della figlia, si era sentito la risposta: tua figlia non si fa una foto da anni

perché non vuole. Poi il consiglio di un caro amico: tentare di vedere se la sedicente sedicenne faceva parte del grande mondo di facebook. Il risultato è stato che finalmente ha trovato tantissime foto della figlia e ha potuto sapere che tipi di amici frequenta, senza peraltro per discrezione, entrare in cntatto con la stessa, per ora.

B.R.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il lavoro deve continuare Caro fratello, è già tardi ma voglio scriverti ancora una volta. Non sei qui, ma vorei che tu lo fossi, e a volte mi sembra che non siamo molto lontani l’uno dall’altro. Oggi mi sono ripromesso una cosa, di considerare la mia malattia o meglio gli strascichi di essa, come non esistenti. Si è già perso abbastanza tempo, il lavoro deve continuare. Così, che io stia bene o meno, riprenderò a disegnare regolarmente, dal mattino alla sera. Non voglio che qualcuno mi dica di nuovo: «Oh, questi sono soltanto i soliti disegni». Oggi ho fatto un disegno della culla del bambino, con qualche tocco di colore. Sto anche lavorando a un disegno come quello dei campi che ti ho mandato recentemente. Le mie mani sono diventate troppo bianche, ma è forse colpa mia? Andrò fuori a lavorare all’aria aperta anche se questo dovesse provocare il ritorno della mia malattia. Non posso trattenermi dal lavorare più a lungo. L’arte è gelosa, non vuole che a lei si preferiscano le malattie, così faccio quanto desidera. Quindi spero che tra breve riceverai di nuovo qualche nuovo disegno abbastanza buono e duramente per afferrarne l’essenza. Quello a cui miro è maledettamente difficile, eppure non penso di mirare troppo in alto. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

RONDE E RONDISTI C’è polemica sulle ronde e i rondisti volontari che presto verranno arruolati anche sul nostro territorio. Protezione in più, non fattore di disordine, questo è il pensiero del senatore secondo cui le regole fissate sia per la scelta dei volontari sia per l’ingaggio sono precise e rigide, quindi non c’è motivo di agitare rischi. I volontari per la sicurezza rappresentano una protezione aggiuntiva rispetto a quella tradizionale assicurata primariamente dalle forze dell’ordine. La parola ronda non è adeguata, dal momento che si è politicizzata in questi anni; meglio utilizzare la terminologia neutra di volontari per la sicurezza. Sbaglia chi suona le trombe della paura, minando la legittimità data allo schema volontaristico di una sicurezza non armata e di supporto ai tutori e ai difensori dell’ordine pubblico e della legge. Si tratta di sentinelle pacifiche, di occhi e orecchie che possono avvisare e allertare gli organi deputati ad intervenire in caso di situazioni di pericolo o anomale. Forme di monitoraggio del territorio che di certo non creano allarmismi o pericoli di alcun tipo; non capisco quanti gettano ombre sulle funzioni e il significato di questi volontari per la sicurezza. Il fatto che questi volontari vadano formati con corsi ad hoc dovrebbe bastare per mettere a tacere gli scettici; inoltre ricordiamoci che stiamo parlando di volontari che comunque operano in stretta sinergia con le forze dell’ordine e di certo

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

19 agosto 1944 Virgilio Savona, componente del Quartetto Cetra, sposa la cantante Lucia Mannucci, che entrerà nel gruppo tre anni più tardi 1945 I Viet Minh guidati da Ho Chi Minh prendono il potere ad Hanoi nel Vietnam 1953 Guerra Fredda: la Cia aiuta a rovesciare il governo di Mohammed Mossadegh in Iran e reinsedia lo Scià Mohammad Reza Pahlavi 1954 Muore Alcide De Gasperi, statista italiano, nella sua casa in Val di Sella, nel Trentino 1960 L’Unione Sovietica lancia la Sputnik 5 con a bordo i cani Belka e Strelka, 40 topi, 2 ratti e diverse piante. La navetta rientrerà sulla Terra il giorno successivo e tutti gli animali verrano recuperati sani e salvi 1974 Si apre a Bucarest in Romania, per iniziativa dell’Onu, la Conferenza mondiale sulla popolazione, con l’adesione di oltre 140 Paesi. Al centro le tematiche legate a un migliore approccio globale ai problemi dell’umanità

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

non si sostituiscono a queste ultime; a riprova dell’assoluta legittimità si pensi che questi cittadini-volontari sono inseriti in un controllo che fa capo al prefetto e al questore, ovvero alle autorità massime deputate all’ordine e alla sicurezza pubbliche. Non si tratta di forme auto-gestite di sicurezza, tanto meno di rondisti fai da te, bensì di cittadini istruiti allo scopo, selezionati secondo criteri fissati dalla legge, e in maggior parte di ex agenti di polizia che, quindi, non sono di certo volontari improvvisati o schegge impazzite di un sistema che crea paure, semmai questo nuovo sistema di supporto alla sicurezza tradizionale potrà rassicurare ulteriormente la comunità.

Ferruccio Bodoli

IL PARTITO DEL SUD NON VA CREATO Il dibattito intorno alla possibile nascita di una formazione politica meridionale è assurdo. Il partito del Sud, purtroppo, esiste già da più di sessant’anni. È una formazione trasversale, che ha sempre bloccato ogni ipotesi di riforma e sviluppo di questo Paese. Le pretese rivendicazioni portate avanti da certi esponenti politici del Mezzogiorno, altro non sono che rigurgiti di assistenzialismo. Un maldestro tentativo di ridare corpo al fantasma della questione meridionale per mettere il silenziatore alla ben più concreta questione settentrionale che, grazie alla Lega di governo, è stata finalmente affrontata.

PARTITO DEL SUD: FINTA NOVITÀ (I PARTE) Non basta il carisma di un uomo a governare una nazione di 60 milioni di abitanti, settima potenza industriale del globo qual è l’Italia. Ma vicende recenti dimostrano che il carisma non basta neanche a tenere insieme un contenitore onnicomprensivo quel’è il Pdl, che a quattro mesi dal suo congresso fondativo rischia, con la proposta del Partito del Sud, la sua prima scissione. Certo il carisma ha un suo ruolo in politica (ne sa qualcosa il Pd, passato dal scialbo Veltroni all’ancor più scialbo Franceschini), ma non bastano sorrisi e barzellette a nascondere l’annosa questione del divario Nord-Sud. Gli esponenti di questo Partito del Sud parlano di novità ma la loro visione politica è la solita da decenni: si lamentano che al sud non vengano dati soldi e ne chiedono altri. Come se un aumento dei fondi al sud possa risolvere una questione ancora irrisolta a 150 anni dall’Unità d’Italia. In realtà al mezzogiorno di fondi ne sono arrivati tanti negli ultimi 60 anni, e ne riceve tuttora in misura maggiore del suo contributo all’erario, non solo tramite canali nazionali ma anche grazie ai fondi della politica europea di coesione e lavoro. Il problema non è quantitativo ma qualitativo, non basta dare risorse al Sud ma bisogna anche avere una pubblica amministrazione che sappia spenderli nel modo giusto. Nonostante i progressi fatti nel meridione permane una classe dirigente in buona parte clientelare e particolaristica, ostile ai mutamenti venuti dall’avvento dei fondi comunitari (fino agli anni Novanta più di metà dei fondi europei destinati alle regioni meridionali non erano nemmeno spesi), i quali essendo allocati a Bruxelles e non a Roma, sono più impermeabili all’intervento delle clientele locali. L’attuale boutade del partito del sud, la proposta ventilata per mesi di costituire un Pd del nord e il sempre maggiore peso della Lega danno l’idea di una politica italiana che rischia di spaccarsi tra nord e sud invece che tra destra e sinistra. Finora i partiti hanno sempre costituito un elemento di collante insostituibile tra le diverse parti del Paese. Una divisione di partiti secondo logiche territoriali farebbe venir meno questo collante, minando la governabilità del Paese e il sentimento di unità nazionale. Emanuele Maldotti R E S P O N S A B I L E GI O V A N I L E CI R C O L I LI B E R A L P R O V I N C I A D I CR E M O N A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Sarah Ostinelli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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Emilio Spedicato, Davide Urso,

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Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Business. La sepoltura di Michael Jackson è un caso economico. Come quelle di tanti altri divi prima di lui

Se il caro estinto diventa di Marco Ferrari lsie ha posato la mano sulla facciata di marmo grigio della tomba del marito e ha sussurrato: «Caro Richard, vali più da morto che da vivo, scusami ma è proprio così». Poi, pentita, ha aggiunto una frase che rimettesse a posto le cose in modo giocoso: «Tutti lo sanno che sei seppellito a testa in giù!». Il fatto è che Richard Poncher, scomparso nel 1986, riposa in pace, ma non troppo, nel tumulo situato proprio al di sopra di quello di Marilyn Monroe, al Westwood Village Memorial Park di Los Angeles. Afflitta dal mutuo della sua casa, la moglie Elsie Poncher ha pubblicato un’inserzione su eBay per mettere all’asta la tomba usando lo stesso tono ironico: «Ecco un’occasione unica per passare l’eternità proprio sopra Marilyn Monroe». Richard Poncher comprò due tombe da Joe Di Maggio, campione di baseball ed ex marito della Monroe. Così si è trovato a condividere l’eternità con Marilyn. Per il povero Richard non si tratterà di un vero e proprio sfratto, ma di un semplice trasloco al piano superiore. Infatti Elsie trasferirà le spoglie del marito nella tomba sopra a quella attuale, in origine destinata a lei, e anziché farsi seppellire si farà cremare. Le prime offerte hanno già superato i 2,5 milioni di dollari, ben più del milione e seicentomila dollari che gravano sulla sua abitazione di Beverly Hills come mutuo bancario a tasso fisso.

E

Il Westwood Village Memorial Park, in Avenue Glendon 1218, ospita le tombe di molti personaggi famosi, tra cui James Coburn, Roy Orbison, Burt Lancaster, Truman Capote, Natalie Wood, e, da quest’anno, Farrah Fawcett. Il ricco e noto Hugh Hefner, fondatore di “Playboy”, ha comprato la tomba a fianco di quella della Monroe nel 1992. Recentemente anche Paris Hilton ha acquistato un’area di terreno nel cimitero per seppellire la sua vecchia capra, Billy, vicino alla tomba di Marilyn. La notizia, riportata dal Daily Star, ha fatto infuriare i parenti dei vip che riposano nel camposanto già alle prese con frotte di visitatori. Quello delle visite ai miti della nostra storia artistica recente sta diventando un vero e proprio business e addirittura un modo di passare le vacanza. I cimiteri sono entrati da tempo nei rapidi city tour delle capitali mondiali. Succede a Parigi con il Père Lachaise, a Buenos Aires con i viali alberati della Recoleta a Los Angeles con il Forest Lawn dove tra poco riposerà anche il mito di Michael Jackson accanto a spoglie immortali come quelle di Stan Laurel, Oliver Hardy, Tyrone Power, Humphrey Bogart, Clark Gable, Jean Harlow, Buster Keaton, Dean Martin e l’immarcescibile ribelle Franck Zappa. Un’altra stella tra le stelle. Per chi ha vagheggiato senza successo l’idea di stringere la mano o ottenere un autografo dal divo del momento, quale migliore occasione di posare un fiore sulla sua tomba e connettersi idealmente con la sua anima? Con l’arrivo di Jacko, il Forest Lawn rischia di superare per numero di visitatori la casa-museo di Elvis Presley a Graceland dove il cantante giace assieme alla madre e qualche altro famigliare. Una guida accompagna i visitatori in giardino dove la tomba kitsch esalta ancora di più lo stile tutto rock della dimora. Un gruppo di persone vicinissime ad Elvis ha voluto mettere una fiamma permanente sulla tomba con una incisione sulla base scritta da Janelle McComb.

Dall’alto in basso, le tombe di Marilyn Monroe (Los Angeles), Jim Morrison (Parigi), Elvis Presley (Memphis) e Edith Piaf (Parigi)

Questo sobborgo di Memphis, nel Tennessee, è il luogo più visitato negli Stati Uniti dopo la Casa Bianca con un giro d’affari di 150 milioni di dollari e 600 mila presenze l’anno. Come ci ha insegnato Evelyn Waugh con Il caro estinto, la morte è un affare anche dal punto di vista estetico. Figuriamoci chi è stato divo in vita se non si trasforma in un santo in paradiso! E i loro campi elisi sono costellati d’oro e piastrellati con dischi di platino, targhe ricordo, Cd alla memoria e Dvd celebrativi.

Con il Forest Lawn e il Westwood Memoria Park, le mete della “eternomania” in California sono il cimitero di Glendale dove hanno l’ultimo dominio conosciuto Walt Disney, Erroll Flynn e Nat King Kole, il Joshua Tree Park con la tomba di Sonny Bono, il Desert Memorial Park di Cathedral City con le spoglie dell’italianissmo Franck Sinatra sepolto con la maglia del Genoa in onore della madre ligure. L’area di New York è invece più gradita all’eternità dei musicisti, così nel Bronx riposano Miles Davis e Duke Ellington, a Farmingdale John Coltrane e Count Basie, nel Queens Louis Armstrong e Dizzi Gillespie e a Bloomfiled, nel New Jersey, Sarah Vaughan. Esotici viaggi ci conducono poi in lontani luoghi di sepoltura, quelli scelti per Jacques Brel alla Isole Marchesi, per Bob Marley a Nine Male in Giamaica o per Jobim nel quartiere Botafogo di Rio de Janeiro. Più a por-

UN AFFARE tata di mano il famoso Père Lachaise a Parigi con le tombe di Molière, Rossini, Chopin, Oscar Wilde, Marcel Camus, Edith Piaf, Gilbert Bécaud, Michel Petrucciani,Yves Montand, Simone Signoret, Marcel Marceau, Henri Salvador e soprattutto Jim Morrison, ancora oggi oggetto di una venerazione senza limiti, a parte quelli imposti dall’orario di apertura del celebre camposanto.

Al Verano di Roma si possono incontrare i tumuli di Luchino Visconti, Giuseppe Ungaretti, Trilussa, Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi,Vittorio Gassman, Rino Gaetano, Alberto Moravia e gran parte del nostro cinema nostrano del Novecento. Non manca mai una sigaretta davanti alla tomba di famiglia di Fabrizio De André al Cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, terra di riposo dei grandi della patria risorgimentale. Luoghi di indelebile culto restano la tomba di Augusto Daolio a Novellara, quella di Lucio Battisti a Molteno e quella di Luigi Tenco a Ricaldone, nonostante la recente e inutile riesumazione della salma. Sono nel vento invece le ceneri di Janis Joplin e Freddie Mercury, sono nelle acque del Gange quelle di George Harrison e sono nel mondo della poesia quelle di John Lennon. Grandi mausolei e semplici loculi sembrano comunque interpretare a dovere il desiderio di resistenza psicologia dei sopravvissuti al mito, cioè noi anonimi viventi.

Una donna ha venduto su e-bay la tomba del marito: era accanto a quella di Marylin Monroe. Dal Memorial di Los Angeles al Père Lachaise di Parigi, il turismo cimiteriale è sempre in attivo


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