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Si soffocano i clamori, ma come vendicarsi del silenzio?
Alfred de Vigny
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 22 AGOSTO 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Si cercano in mare i corpi dei settantanta migranti abbandonati e morti tra l’indifferenza generale
La Cei: «Clandestini, una nuova Shoa» Tragedia di Lampedusa e caso Lockerbie: è polemica sui rapporti Italia-Libia di Franco Insardà
ROMA. Mentre Tripoli festeggiava il ritorno
La ”festa” del 30 agosto a Tripoli
Il sottosegretario Alfredo Mantica
E ora Berlusconi non vada ad abbracciarlo
«Ma Europa e Nato ci hanno lasciato soli in questa guerra»
in patria da “eroe” dell’attentatore di Lockerbie, al porto di Lampedusa arrivavano i cinque eritrei con il corpo ridotto a uno scheletro. E non meno spaventoso è il racconto dei superstiti. Non a caso la morte di oltre 70 immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia è per monsignor Bruno Schettino, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e arcivescovo di Capua «una grave offesa all’umanità e al senso cristiano della vita». Un episodio che dall’Avvenire viene paragonato alla Shoah. «Nessuna politica di controllo dell’immigrazione – si legge sul quotidiano della Cei – consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufragi al suo destino». Per Rocco Buttiglione la vicenda «è agghiacciante: se quel barcone è stato avvistato e nessuno li ha soccorsi è la dimostrazione, di quanto si è indurito il cuore del popolo».
di Giuseppe Baiocchi
di Riccardo Paradisi
iavolo di un Gheddafi. A pochi giorni della festa del 30 agosto, data che celebra l’improvvisa e ritrovata amicizia italo-libica, il Colonnello non si lascia scappare nessuna occasione per dimostrare al mondo la sua tracotante “autonomia”. Ma Silvio Berlusconi, in nome degli affari e di una generica Realpolitik, non se ne preoccupa e si prepara ad andare a Tripoli per abbracciarlo. Con Frecce Tricolori al seguito.
l sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica risponde agli attacchi della Cei e delle opposizioni sui rapporti tra Italia e Libia: «L’accordo che abbiamo firmato sull’immigrazione, i suoi frutti sta cominciando a darli. Certo, in Libia esiste una situazione drammatica per quanto riguarda i flussi migratori: un problema che Onu e Ue dovrebbero affrontare. E invece su questo fronte difficilissimo siamo stati lasciati assolutamente soli».
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Perché l’Afghanistan ha sconfitto i talebani
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CRONACA DI UN FALLIMENTO PREVISTO Da giorni vengono denunciati da passeggeri e organismi internazionali ritardi e disservizi. E per giunta i conti sono in rosso. Perché il governo non parla più di Alitalia?
Pacificazione, ecco l’unico futuro di Kabul Karzai e Abdullah si proclamano entrambi vincitori, ma i risultati arriveranno solo la prossima settimana di Mario Arpino e elezioni ci sono state e prima o poi sapremo anche chi ha vinto. È inutile spendere eccessivo tempo ad analizzarle, a discutere sulle frodi, sulle intimidazioni e sui voti comperati.Tutto questo è scontato, e già da oggi appartiene al passato. Anche i bilanci, comunque prematuri, sembrano inutili, se non impossibili, in un contesto come quello afghano. Non sapremo mai quale compenso abbiano ricevuto i capi tribù che hanno favorito il voto, i capi famiglia che hanno consentito alle donne di uscir di casa.
L
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Bernanke: «Crisi addio» di Gaia Miani a pagina 17 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
Silenzio, non si vola
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
166 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
alle pagine 2 e 3 19.30
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Inchiesta. Lo scandalo di un’operazione rilancio, quella di Roberto Colaninno e Rocco Sabelli, che per ora non decolla
Disastro sotto silenzio
Conti in rosso, ritardi eccessivi, disservizi: l’Europa ha bocciato Alitalia. Perché dopo le promesse iniziali ora nessuno se ne preoccupa? ROMA. Quando si dice le risorse umane. Oggi e domani manager e collaboratori di Alitalia aiuteranno il personale di terra a Roma Fiumicino a scaricare i bagagli in un week-end a rischio ingorgo nei diversi servizi presso lo scalo romano. Un’iniziativa estiva voluta personalmente dall’amministratore delegato, Rocco Sabelli, per cementare il clima tra il personale che proviene da due diverse aziende (la vecchia Alitalia e Air One). Ma soprattutto per fronteggiare l’ennesima emergenza sul fronte aeroportuale. Negli anni passati, “Ali-caos” era quasi un must: i titoli dei giornali sui disservizi di Alitalia nel periodo estivo erano un appuntamento fisso, quasi come le ricorrenze del calendario. Ques’anno, invece, tutto sotto silenzio, nei giornali come nei palazzi della politica. Eppure, nonostante i licenziamenti, le seimila persone in cassa integrazione di cui 858 tra piloti e comandanti 1556 assistenti di volo e 3049 personale di terra – la Cai dei nuovi capitani coraggiosi benedetta dal governo non sembra ancora riuscita a trovare un’organizzazione funzionante e profittevole. Nel mese di luglio, tradizionalmente critico per i vettori, a Fiumicino la percentuale dei voli Alitalia in partenza puntuali, o con un ritardo inferiore ai 15 minuti, è andata in picchiata, toccando il 44%; solamente un anno fa, con la vecchia gestione e tutti i problemi
di Alessandro D’Amato finanziari dell’azienda, gli arrivi in orario erano il 55%. E nemmeno il paragone con la concorrenza aiuta: in giugno la puntualità generale di Fiumicino (tutti i vettori) è stata del 59,9%, e ad abbassare la media ha contribuito anche via della Magliana, 50,5%. Sempre nello scalo romano, ad agosto la puntualità della compagnia nazionale, secondo rilevazioni ancora informali, è scesa al 46,5%. Le altre compagnie evidenziano su Fiumicino tassi di puntualità tra il 65% e il 70%. In più, ci sono gli annosi problemi – mai risolti – nei servizi aeroportuali: a luglio per i voli Alitalia/AirOne le autorità aeronautiche hanno rilevato il mancato rispetto degli standard fissati dalla Carta dei servizi per oltre il 40% dei voli in arrivo e ad agosto il dato peggiora intorno al 50%. Secondo gli standard internazionali, il 90% dei bagagli dovrebbe poter essere ritirato entro 32 minuti dall’atterraggio dei voli nazionali ed entro 42 minuti per gli internazionali. Tra il luglio 2008 e il luglio 2009 la percentuale di Alitalia per i bagagli consegnati entro questo lasso di tempo è scesa dal 67 al 51%.
La compagnia si difende ricordando che la puntualità generale del vettore (cioè quella misurata su tutti gli scali) è al 73%, ma c’è anche da ricordare che ha ridotto di quasi un quarto l’ammontare totale dei voli ri-
spetto alle “vecchie” Alitalia ed air One. E ha cercato anche di addossare a Fiumicino la colpa dei ritardi nei voli, prendendosi la piccata replica del direttore generale di Aeroporti di Roma, Franco Giudice: «Se i dati di Eurocontrol bocciano Fiumicino in quanto scalo più ritardatario d’Europa la colpa è tutta di Alitalia». Che aggiunge: «Il problema numero uno resta la finora incompiuta integrazione fra l’ex
tutte le categorie dei lavoratori Alitalia».
Anche Claudio Genovesi della Fit Cisl la pensa pressappoco così: «Il sindacato negli anni difficili ha avuto un grande senso di responsabilità, ma a settembre saremo critici su tutti i nodi irrisolti dell’azienda». Ad esempio quali? «Ci sono delle difficoltà oggettive dovute allo start up di una nuova azienda, e
Nel mese di luglio, tradizionalmente critico per le compagnie aeree, a Fiumicino la percentuale dei voli Cai in partenza puntuali, o con un ritardo minimo, ha toccato il record negativo del 44% compagnia di bandiera ed Air One, e il ritardo nei voli, inoltre rallenta tutta l’operazione di transito e riconsegna dei bagagli. I ritardi di Alitalia congestionano il sistema». Mauro Rossi, segretario nazionale Filt Cgil, sembra quasi rassegnato e preannuncia un settembre caldo: «Inutile nasconderci che in Alitalia le cose non procedono bene. I risultati economici di cui si parla in azienda sono molto negativi, come del resto i valori della puntualità e della qualità del servizio. E, dal nostro punto di vista, anche le relazioni sindacali non migliorano, anzi: sono deficitarie. Continuando di questo passo la ripresa si annuncia difficile e settembre rischia di essere conflittuale per
vanno capite. Ma vi è anche una serie di carenze organizzative e nei presidi della procedura produttiva: chi dovrebbe operare il coordinamento (la direzione operativa), semplicemente, non è all’altezza. Un problema strutturale, comparso all’epoca di Cimoli, che persiste ancora oggi. Ci vorrebbe discontinuità». Anche Fabio Berti dell’Anpac è sul piede di guerra: «Quello che sta avvenendo deve far riflettere perché è la dimostrazione che non erano certo i privilegi dei piloti la causa dei problemi dell’azienda, visto che questi non ci sono più ma i disagi non sono mancati. Le sofferenze di Alitalia vengono da molto lontano: la totale mancanza di una politica del
trasporto aereo, l’”aiuto” alla concorrenza (Air One) sempre in primo piano: una volta cedute grandi fette di mercato, è difficile riportarle all’ovile». Ma questi problemi si potrebbero risolvere? «Oggi come oggi il sistema non è strutturato per funzionare anche con il massimo picco di passeggeri: per questo le inefficienze dell’azienda si vedono così chiaramente. Ma il problema è a monte: se continuiamo a pensare che il trasporto aereo possa essere privo di regolamentazione a livello di competitor, le sofferenze saranno sempre maggiori. E mi faccia dire una cosa». Prego. «Gli 850 piloti messi in cassa integrazione sarebbero potuti servire in questo agosto. Noi come Anpac avevamo proposto la rotazione dei lavoratori anche per dare all’azienda l’opportunità di sfruttare la flessibilità. Ci è stato risposto di no, e questi sono i risultati».
Intanto, i bilanci soffrono: nei primi sei mesi di vita Alitalia ha bruciato 273 milioni, oltre un quarto del capitale; vale a dire quel miliardo, che gli azionisti si sono impegnati a garantire. Una situazione sempre più difficile, che fa ben comprendere le continue voci che si susseguono su soci pronti ad abbandonare la barca prima che affondi oppure che stanno lì a contare i giorni che li separano dalla vendita del pacchetto azionario ad Air France. Peccato che nessuno ne parli più, a Palazzo.
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Processo alle opposizioni: ora che cosa farete per riportare all’attenzione un fallimento previsto? ROMA. In questi giorni non conviene fare il nome di Alitalia all’onorevole Gianluca Galletti (Udc): «Non me ne parli», sbotta, «Ci sono miei amici che sono venuti per due volte qui da me in Sardegna con Alitalia, e per due volte hanno perso i bagagli». Allora perché l’Udc si è unito a questo silenzio assordante su Alitalia? Veramente anche in occasione dell’approvazione del decreto anticrisi abbiamo sottolineato le inefficienze di Alitalia. Soprattutto si sta realizzando quanto avevamo pronosticato: un’operazione finanziariamente sbagliata dai costi più alti del previsto, mentre la qualità del servizio è notevolmente peggiorata. Per la gioia degli utenti.
ROMA. L’Alitalia di oggi? Per Andrea Martella, deputato e responsabile infrastrutture del Pd, non «è altro che una compagnia più piccola di quella che c’era in precedenza: con meno voli, meno servizi e più disagi e tariffe più alte per cittadini». Se la pensate così, perché avete abbassato i toni su Cai? È un tema sul quale riaccendere i riflettori per una verifica di quanto sta accadendo. Ma non è vero che non ne abbiamo più parlato: semplicemente, abbiamo atteso il tempo necessario per vedere l’evoluzione di Cai. Bilancio? I dati sui ritardi dimostrano la sconfitta del governo: non c’è stato un risanamento e un rilancio né della compagnia né del trasporto aereo. Il tutto in un quadro infrastrutturale più
ROMA. Tra quelli che non hanno mai cambiato idea su Alitalia c’è sicuramente Roberto Pinza. Assieme con Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa l’ex viceministro all’Economia fu tra i pochi che nell’Unione non si fece distrarre dalle sirene di Toto e Intesa. Che si batte per la vendita in blocco ad Air France. «E alla fine si andrà verso questa direzione». Rimpiange i francesi? La vendita diretta avrebbe risolto tutti i problemi, visto che i francesi accettavano la situazione senza pretendere grandi processi di ristrutturazioni a carico dello Stato e mistificazioni legislative. Come poi è avvenuto. Invece Pantalone pagherà oltre 2 miliardi. Siamo sicuri che non sarà più alto il conto? Augusto Fantozzi sarà anche un commissario
Gianluca Galletti (Udc): «Le nostre denunce non sono bastate»
«Chiederemo un nuovo piano per tutto il trasporto aereo» di Francesco Pacifico Il costo è stato scaricato soltanto sui cittadini, visto che per qualcuno, non per il Paese, è stato un grande affare. Dice? I soci non sembrano dello stesso avviso. Gli azionisti l’hanno avuta regalata. Ma che dal punto di vista industriale la scommessa sarebbe stata dura, si sapeva. Ai vertici non ci sono manager del settore. E manca un vero piano industriale. Da qui i disservizi. Serviva, e servirebbe, un part-
ner con il quale individuare e stringere sinergie. L’ex governo Prodi l’aveva fatto scegliendo Air France, ma con una gara europea, una gara vera. Air France è tra gli azionisti della nuova Alitalia. Ma una cosa è essere un socio forte un’altra quello di maggioranza. Incide sulla prospettiva di creare sinergie, perché non basta fare un alleanza basata sui ricchi passaggi per il codesharing su Parigi. Spera in un take over di
Andrea Martella (Pd): «Tremonti e Matteoli vengano in Aula a spiegarci perché non funziona nulla»
«È vero, è arrivato il momento di una verifica generale» arretrato rispetto alla media. Rimpiange la vendita ad Air France? Non ho dubbi. In questo scenario l’operazione di risanamento sarebbe andata diversamente. Eppure Prodi un accordo l’aveva trovato? Eravamo a fine legislatura e il governo di centrosinistra, forte la pressione del sindacato e del centrodestra, non ebbe la forza di chiudere la vendita. Dimentica i tanti fan di Toto nell’Unione. Non lo dimentico affatto, ma parliamo di posizioni personali.
Il progetto del governo era quello di integrare la compagnia in un’alleanza internazionale dopo una gara trasparente. E ci saremmo riusciti se Berlusconi non avesse trasformato la cosa in un cavallo di battaglia della campagna elettorale. Dietro ai disagi c’è un progetto industriale debole? Non mi sembra che i conti vadano bene. E non a caso sento voci di malumori tra i soci. Soluzioni? L’avevamo detto che accanto alla privatizzazione si doveva liberalizzare la rotta Milano-Roma.
L’ex viceministro Roberto Pinza: «Non capisco perché il sindacato non alza più la voce»
«Questa è la prova: c’è stato un errore di valutazione» liquidatore molto bravo, ma in una fase come questa, di crisi e con pochi compratori, è difficile pensare di fare grandi realizzi con gli asset della vecchia Alitalia. Air France-Klm prendeva tutto in blocco. Ma c’erano altre prospettive. Quali? Si poteva trattare una presenza italiana in un colosso del trasporto aereo mondiale con tre teste: Parigi, Roma e Amsterdam. Avrebbero avuto una centralità diversa anche i nostri scali. Gli azionisti di Cai, bravi imprenditori, dovranno stringere
accordi più robusti degli attuali se vogliono entrare nei grandi giri internazionali. Perché il sindacato è così morbido con Cai? Credo che ci sia stato un errore di valutazione, e sottolineo errore, da parte loro come del centrodestra: Air France non dava certezze sul futuro. Ma più in generale non si capì che l’operazione andava valutata sotto un solo aspetto: l’utenza ci avrebbe guadagnato o no? Anche il Pd sta zitto. Credo che taccia per una ragione molto pratica ci sono ban-
Spinetta? Questo lo deciderà il tempo. Ma sarebbe una soluzione valida dal punto di vista industriale. Onorevole, dopo quest’estate di bagagli persi e voli cancellati non era il caso che l’opposizione alzasse la voce? Abbiamo denunciato più volte il caso. Di più, a ogni provvedimento del governo ricordiamo il caso Alitalia come emblema del fallimento economico del governo. Forse negli ultimi giorni l’abbiamo fatto più flebilmente. Cosa farete? Chiederemo un piano per il trasporto aereo italiano ormai al lumicino. Gli italiani stanno pagando la cosa sulla loro pelle. E sul loro portafogli.
Invece il governo non stringe neppure gli accordi bilaterali per aumentare i voli a Malpensa. Che è ormai un aeroporto fantasma. Fiumicino esplode. La società di gestione Adr se la prende con Alitalia. Ma alcuni dei soci sono in entrambe le società... In quest’operazione il tema del conflitto d’interessi è su più livelli. Ma non poteva essere diversamente, visto che è nata sotto il segno di Berlusconi, con imprenditori che sono stati chiamati dall’alto. Adesso che si fa? Bisogna convocare il governo in Parlamento e aprire una riflessione su quest’operazione. C’è il rischio, che se continua così, Air France acquisterà il tutto a un prezzo ancora più favorevole di quello con il quale è entrato nella cordata tricolore.
che e imprenditori che hanno investito. Non mancano banche e imprese amiche del Pd. Non so se ci furono accordi, ma so che gli imprenditori intervenuti l’hanno fatto perché hanno fiutato un grande affare. Ripeto, il limite della politica fu non guardare in termini di prospettiva. Dimentica l’italianità. Ma quando Marchionne va a Detroit a comprare Chrysler, Obama gli pone il problema dell’americanicità? Per concludere, perché saltò l’accordo chiuso tra Prodi e Spinetta? Non dimentico le divisioni del governo, ma ricordo che a poche settimane dal voto Berlusconi, la stampa, gli industriali – poi ho capito perché – e i sindacati spararono contro l’operazione. Eppure noi avevamo seguito la procedura.
politica
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Mediterraneo. Dall’assassino trattato da eroe alla tragedia nel mare di Lampedusa, è sempre più polemica a proposito dei rapporti tra l’Italia e la Libia
Un amico terrorista La Cei denuncia la «Shoa dei clandestini» in mare Gb e Usa attaccano le feste all’omicida di Lockerbie di Franco Insardà segue dalla prima Le dichiarazioni ferragostane, tra il compiaciuto e l’ottimista, di Silvio Berlusconi e Roberto Maroni sui risultati ottenuti nella lotta all’immigrazione clandestina, grazie proprio agli ottimi rapporti con Libia, in questi giorni sono miseramente e tragicamente naufragate. «L’accordo con La Libia è fallito. Tripoli – osserva Buttiglione – ha dato qualche settimana di compiacenza e poi è tornata alla carica, da un lato reclamando l’esclusiva su un tratto di mare che la legge internazionale non le assegna, dall’altro dando di nuovo il via libera alle barche dei disperati. Si tratta di un accordo fatto male e che non serve, come denunciai a suo tempo».
La stessa accoglienza che i libici hanno tributato ad Abdel Baset Ali-al Megrahi non ha lasciato insensibile la comunità internazionale. Su tutti le proteste statunitensi, mentre il premier britannico Gordon Brown avrebbe inviato un messaggio al leader libico Muammar Gheddafi, visto l’insuccesso della lettera personale nella quale la Gran Bretagna chiedeva al governo di Tripoli di mostrare “sensibilità” nella gestione del ritorno in patria dell’attentatore di Lockerbie. E il Foreign Office starebbe pensando a un annullamento della missione di inizio settembre del principe Andrea in Libia , che doveva promuovere il commercio tra i due Paesi. Anche in Italia si registrano voci di protesta contro la Libia. «Parliamo di un Paese non democratico - ri-
Il 30 agosto il premier dovrebbe celebrare l’amicizia col Colonnello
E ora nessuna festa a Tripoli Berlusconi non vada da Gheddafi (con le Frecce Tricolori) di Giuseppe Baiocchi iavolo di un Gheddafi. A pochi giorni della festa del 30 agosto, data che celebra l’improvvisa e ritrovata amicizia italo-libica, il colonnello che si avvia al quinto decennio di potere assoluto non si lascia scappare nessuna occasione per dimostrare al mondo la sua tracotante “autonomia”. Mentre uno dei suoi figli accompagna il rientro a casa da trionfatore di uno degli attentatori di Lockerbie (il primo attentato aereo che nel 1988 provocò 270 morti), rilasciato dalle carceri scozzesi perché malato terminale, si riaprono le partenze dei clandestini dalle sue coste, con le tragiche conseguenze di vite umane inutilmente perdute nelle acque del Mediterraneo. «Si prepara ad alzare il prezzo della collaborazione con l’Occidente» è l’immediata analisi degli osservatori e dei diplomatici. Come se non bastasse mai il molto che ha già ottenuto e che si prepara a riottenere. In particolare con l’Italia: il riconoscimento delle malefatte coloniali, un ricchissimo risarcimento in denaro, compresa la costruenda autostrada di oltre 1600 chilometri sul litorale, un accoglienza da amico e benefattore prima in una enfatica visita di Stato in quel di Roma e poi in una omaggiata incursione al G8 de L’Aquila (sempre con al seguito la tenda del deserto).
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tempi più recenti, le sorti della Juventus, squadra decaduta della real casa nostrana. E tuttavia resta la sensazione di una inedita volonterosa accondiscendenza“senza dignità”a un imprevedibile sultano, che non fa nulla per allontanare il sospetto di prendersi gioco dell’intero Occidente e in particolare della sponda a lui vicina dell’Europa. D’altronde, la natura del potere del Colonnello è sempre stata all’insegna di una levantina doppiezza. Tra l’esigenza di porsi a capo comunque dell’agglomerato islamico prima e africano poi, tra sussulti di laicità modernizzante e ricadute di fedeltà maomettana non scevre da venature estremistiche e apertamente filo-terroristiche, tra le asprezze interne tipiche di una dittatura militare e grandi proclami a nome degli oppressi del mondo, Gheddafi ha navigato con indubbia abilità nel quadro internazionale, senza nulla perdere delle mitologie insieme arabe e laiche che ne hanno fatto un “unicum”(ma anche un pericoloso modello) resistente da oltre quarant’anni alla guida della “Jamarijya”.
La Realpolitik va bene, gli affari sono importanti, ma a volte bisogna difendere anche i diritti
Certo, ci sono gli affari e un ricco mercato per l’estrazione di gas e di petrolio, oltre che incoraggianti commesse per le tante aziende dell’indotto energetico. Come pure i “soldi libici”non puzzavano mai in passato se c’era da rinsanguare in anni di difficoltà l’azionariato della Fiat e nemmeno, in
Seduto su un mare di petrolio, ha, con le sue svolte improvvise e i suoi sorridenti ricatti, segnalato, se non messo a nudo, le debolezze dell’Europa e in particolare del suo“ventre molle”. E tuttavia si è sempre intelligentemente fermato sulla soglia dell’irreparabile, quando ha capito che dall’altra parte (fosse al tempo della Guerra fredda o nella prima stagione del terrorismo mediorientale) non gli si consentiva, con la necessaria durezza, di spingersi oltre. È per questo che oggi suscita una viva preoccupazione assistere all’eccesso di amicizia e di benevolenza che l’Italia governativa sembra aver messo in campo. La “Realpolitk”, compresi i corposi interessi economici ed energetici, impone spesso di saper sopportare le esigenze di visibilità e di immagine dei leader di altri paesi e di altre culture. Ma, soprattutto se riprende la teoria dolorosa dei barconi e dei viaggi della morte dei clandestini (che la Libia ha sempre favorito e tollerato senza un briciolo di umanità) è lecito aspettarsi che un governo degno di questo nome sappia farsi rispettare e chiedere conto con energia degli accordi violati, per quanto ambigui essi potessero essere. E forse, proprio per la festa del 30 agosto, tenere a casa dal cielo di Tripoli anche le previste e bravissime Frecce Tricolori. Almeno questo, Gheddafi deve guadagnarselo…
corda Buttiglione – guidato da una dittatura assoluta, che non rispetta i diritti umani e rimane un Paese dove i rifugiati politici vengono trattati come le bestie». Il deputato radicale Matteo Mecacci chiede che il governo italiano non partecipi, il prossimo 30 agosto, alle celebrazioni per la firma del trattato di amicizia: «Gheddafi, come ha sempre fatto nei 40 anni della sua dittatura, – ricorda Mecacci – non si fa sfuggire nessuna occasione per denigrare e umiliare i paesi occidentali».
Sulla tragedia degli eritrei è intervenuto anche Pier Ferdinando Casini che ha chiesto al governo di riferire in Parlamento: «Nessuna legge può chiuderci gli occhi davanti alla miseria e alla disperazione di chi sfida la morte per sfuggire agli orrori della guerra. In questo nostro Paese, eccitati dalla demagogia, stiamo perdendo il senso di umanità che ha sempre contraddistinto gli italiani. Si impone un esame di coscienza ed anche, se possibile, meno propaganda: basti pensare alle promesse libiche che sembrano svanite in poche settimane». Il racconto dei superstiti viene ritenuto attendibile dalle organizzazioni umanitarie, mentre il Viminale esprime dubbi e perplessità, anche se le autorità maltesi hanno comunicato di avere recuperato nella serata di giovedì quattro cadaveri. Molto dura la reazione delle organizzazioni umanitarie e Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Unhcr, ha denunciato: «È allarmante che queste persone abbiamo vagato nel Mediterraneo per oltre 20 giorni senza
politica
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La difesa di Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri
«Ma Europa e Onu ci hanno lasciato soli» di Riccardo Paradisi a tragedia dei profughi eritrei avviene alla vigilia della festa dell’amicizia fra Italia e Libia, che verrà celebrata a Tripoli il prossimo 30 agosto Un’occasione per i due Paesi per fare il punto sullo stato dell’accordo firmato un anno fa. In particolare su quegli aspetti che devono essere ancora tradotti in atti concreti: dalla costruzione dell’autostrada di 1.600 chilometri che dovrebbe interessare l’intera Libia – e che il colonnello Gheddafi chiede da anni – alla messa a punto del negoziato su petrolio e gas che riguarda anche l’italiana Eni. C’è chi ipotizza che i barconi della disperazione che affondano al largo delle nostre coste e che sfuggono al controllo libico siano messaggi nemmeno troppo taciti per mettere sotto pressione il governo italiano e alzare la posta degli accordi. Sottosegretario Mantica lei crede che la tragedia dei migranti eritrei sia in qualche modo ricollegabile a un’interessata apertura di maglie del controllo libico sui flussi migratori? Guardi a me sembra che su questa tremenda tragedia sia puntualmente partita la macchina della strumentalizzazione. In Libia esiste una situazione assolutamente drammatica per quanto riguarda i flussi migratori. Stiamo parlando di un Paese che non ha l’anagrafe e dove vivono tradizionalmente da un milione e mezzo a due mililoni di irregolari neri. Molti di loro sono eritrei che vivono e lavorano in Libia come bassa manovalanza impiegata nei mestieri più umili. La Libia è un bacino da dove entrano e escono una quantità enorme di uomini e donne in fuga. Un Paese da cui qualcuno riesce anche a salpare o a passare senza essere intercettato. Non si dovrebbe scartare del tutto questa ipotesi credo. E bisognerebbe anche tenere conto che non tutte le polizia africane sono così affidabili. Ma noi abbiamo firmato una accordo con la Libia che prevede il controllo sulle coste. Ed è stato un accordo che dei frutti li sta dando mi sembra se è vero che le stime fatte e riportate registrano un calo di afflusso di sbarchi molto significativo. Dal primo maggio di quest’anno, quando il trattato è entrato in vigore, i clandestini sbarcati sulle nostre coste sono stati 1.116. Quasi un decimo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando erano stati circa diecimila. Un calo possibile solo perché la Libia ha stretto i controlli sulle partenze dalle proprie coste.
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che nessuna imbarcazione le abbia soccorse». La Boldrini ha ricordato che gli eritrei che arrivano in Italia via mare «sono richiedenti asilo, persone in pericolo che cercano protezione a e a cui l’Italia riconosce questo bisogno e questo diritto».
Il presidente dell’Udc Buttiglione a questo proposito ha ricordato: «I morti non sono immigrati clandestini, sono rifugiati politici, gente che tentava di sfuggire a una dittatura feroce che ha ridotto in schiavitù un popolo ed è uno dei punti di so-
ro hanno espresso la posizione del Partito democratico chiamando in causa il governo e ponendosi una serie di interrogativi sia sull’accordo con la Libia, sia sullo status di rifugiati dei naufraghi. «Ma oltre a questo – aggiungono i tre esponenti del Pd – ci chiediamo come sia possibile che in un tratto di mare che, anche sulla base degli accordi sottoscritti, dovrebbe essere costantemente monitorato, una imbarcazione possa andare alla deriva per tanti giorni senza essere avvistata e individuata.
Buttiglione: «L’accordo con La Libia è fallito. Tripoli è tornata alla carica, da un lato reclamando l’esclusiva su un tratto di mare, dall’altro dando di nuovo il via libera ai barconi dei disperati» stegno internazionale dell’integralismo islamico. Avevano diritto alla protezione umanitaria. La Libia deve aderire alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati politici, e l’Unione Europea deve mobilitarsi per dare ai rifugiati in Libia il soccorso umanitario e la protezione giuridica internazionale. Il governo italiano deve prendere subito una posizione dura richiamando la Libia al rispetto degli accordi sottoscritti, alla sottoscrizione degli altri, e al rispetto dei principi elementari di umanità». L’Osservatore Romano con in un articolo in prima pagina dal titolo molto chiaro «Immigrati: il dovere del soccorso» ribadisce che «se verrà confermato il racconto dei cinque eritrei vuol dire che sono stati lesi i diritti umani». Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Pietro Marcena-
Siamo forse all’ennesima puntata del conflitto che sulla pelle dei poveracci oppone da tempo l’Italia a Malta?».
E mentre alcuni esponenti leghisti della maggioranza ribadiscono la linea dura e qualche ministro tenta una difesa d’ufficio il capogruppo dell’Udc al Senato, Giampiero D’Alia, condanna il gioco anti-immigrati e chiede l’intervento dell’autorità giudiziaria: «È semplicemente vergognoso che si consenta alla Lega di pubblicare sul suo sito ufficiale su Facebook un videogioco che si chiama “Rimbalza il clandestino”». A Lampedusa, intanto, dopo i cinque eritrei, ieri sono approdati altri due barconi. Altre “carrette” che hanno prese il largo dalle coste dalla Libia dell’amico Gheddafi.
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Eppure c’è chi accusa il governo italiano sostenendo che il naufragio degli eritrei mostra di non risolvere alcun problema. Rocco Bottiglione dell’Udc dice per esempio che la Libia deve aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati politici e l’Ue deve mobilitarsi per dare ai rifugiati in Libia il soccorso umanitario e la protezione giuridica internazionale. Premesso che nella tragedia eritrea c’è un carico di disperazione senza pari, perché questa gente fugge da una delle più orrende dittature dell’Africa, io credo che si dovrebbe essere meno inclini alla retorica. La Libia peraltro ha già sottoscritto un patto sui diritti umani e i suoi rappresentanti hanno seduto alla presidenza della commissione diritti umani dell’Onu ma non credo che i problemi si possano risolvere con questi formalismi o con le nobili petizioni di principio. Con la Libia gli organismi internazionali devono affrontare il problema di questa massa enorme di persone che converge su questo Paese, soprattutto dal deserto, dove di migranti ne muoiono a migliaia anche se di loro si parla poco. Anche l’Unione europea dovrebbe assumersi i suoi impegni e investire sulle politiche per il Mediterraneo, area verso la quale è un po’distratta quando non si tratta di fare solo retorica umanitaria. E anche l’Onu perché non apre un ufficio d’osservazione su quanto accade in Libia e nel sud del Mediterraneo? Perché vede è facile esercitarsi dai pulpiti dei diritti universali dell’uomo, è più difficile dover agire, da soli, per tenere in equilibrio realismo e rispetto dei diritti umani. Dopo l’accoglienza da eroe che l’attentatore di Lockerbie Abdelbaset al-Megrahi ha ricevuto al suo ritorno a Tripoli la Gran Bretagna sta riconsiderando la prevista visita del principe Andrea in Libia. Noi italiani abbiamo tradizionalmente mantenuto un ruolo di mediazione negli affari che riguardavano la Libia, gli Stati Uniti e la stessa Gran Bretagna. È una politica quella della mediazione che non si è inventata questo governo, ma che ha dovuto intraprendere chiunque abbia governato l’Italia negli ultimi decenni. Gli inglesi la partita su Lockerbie l’hanno chiusa con le sterline però. in qualche modo hanno trattato anche loro. Anche io sono rimasto offeso da come è arrivato Gheddafi qui da noi, ma la politica internazionale non si fa né coi sentimenti né coi risentimenti.
È facile esercitarsi dai pulpiti dei diritti universali dell’uomo, è più difficile dover agire, senza aiuto, per tenere in equilibrio realismo e rispetto delle convenzioni internazionali
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mondo
pagina 6 • 22 agosto 2009
La svolta a Oriente. Gli osservatori internazionali invitano alla calma: «Bisogna avere pazienza, per ora sono tutte supposizioni»
L’incubo dell’instabilità
Karzai e Abdullah si attaccano e si proclamano vincitori della sfida Ma la Commissione indipendente annuncia: primi risultati solo martedì di Luisa Arezzo
KABUL. Kabul. Tutto come da copione. I due rivali di questa battaglia presidenziale, Hamid Karzai e Abdullah Abdullah si proclamano entrambi vincitori, al netto del fatto che lo spoglio è appena cominciato (e in alcune sezioni non lo è affatto) e che la stessa commissione elettorale internazionale fatica a diramare un dato certo sulla reale affluenza alle urne. La soglia, in ogni caso, fatica a superare il 50 per cento e con molta probabilità, complice il fatto che in alcune aree del paese i seggi sono rimasti chiusi, oscillerà dal 40 per cento in su. Molto di meno, dunque, rispetto al 70 per cento di elettori che avevano eletto Karzai alle elezioni del 2004. Deen Mohammad, il portavoce del comitato elettorale del presidente, ha detto che dei 29mila seggi campione da lui monitorati, la percentuale di riconferma di Karzai uscente è certa. «I primi risultati ci mostrano che non si andrà al ballottaggio. Il nostro presidente ha raggiunto il quorum». Altro capo staff, altra versione: è quella di Fazl Sangcharaki, portavoce di Abdullah Abdullah, che citando le sue fonti attribuisce il 63 per cento dei voti al suo candidato, e restituisce a Karzai un misero 31 per cento. Domani, dicono, sarà il giorno della verità, ma dalla Commissione elettorale fanno sapere che ci vorrà ancora tempo e che è assolutamente impossibile stabilire adesso chi sarà il nuovo presidente afghano. I 62mila seggi devono comunicare i risultati dello spoglio appena questo è terminato, ma gli osservatori Iec, fintanto che non avranno ricontrollato il tutto, non daranno il loro beneplacito. Zekria Barakzai, osservatore Iec chiuso al quinto piano dell’hotel intercontinental di Kabul, ci conferma che «è esclusivo compito della commissione proclamare l’avvenuta elezione o l’eventuale balottaggio». Per usare le sue parole: «Bisogna avere pazienza». Esorta alla calma anche Adrian Edwards, portavoce della missione Onu, coinvolta da vicino nell’organizzazione del voto: «Non ci sono risultati fin quando la Commissione elettorale non li annuncia. Il resto sono solo supposizioni». Confermato, invece, il divario partecipati-
Perché i Talebani non sono riusciti a impedire il processo elettorale
Pacificazione, ecco il futuro di Mario Arpino segue dalla prima Né sapremo che cosa sia stato promesso ai mullah in cambio di un parere favorevole al voto espresso durante la preghiera. È noto che in Afghanistan tutto ha un prezzo e che nessuno fa niente per niente. Questo prezzo non lo vogliamo sapere, non ci interessa. L’importante è che elezioni ci siano state e siano ritenute valide. Certo, tutto questo non ha niente a che fare con la democrazia, ma, ridotto il livello di ambizione, forse nell’immediato questa non è più una priorità. Nemmeno gli americani insistono più su questo puntiglio, che lasciano volentieri alla anime candide europee.
A prescindere da chi sarà il vincitore – se, come probabile, sarà Karzai, non darei per scontato che i perdenti siano i talebani – più che la democrazia hanno ora la priorità un minimo di stabilizzazione del Paese e una certa misura di controllo del territorio da parte dell’Autorità centrale, latente sin dai tempi dell’ “emiro di ferro” Abdul Rehman. Eravamo all’inizio del secolo scorso, quando gli inglesi, dopo tante batoste, riuscirono a comperarsi l’acquiescenza delle tribù pashtun, che imposero la loro legge rigorosa su tutte le altre tribù. Il blocco della modernizzazione e l’enfasi sulla religione non turbavano certo i sonni dell’emiro, né, tanto meno, quelli degli inglesi. La priorità era la stabilizzazione? Ora c’era, e bisognava accontentarsi. Ma, guardando avanti, è ardito pensare che Hamid Karzai, anch’egli pashtun - che già prima delle elezioni si era accordato con talebani “buoni”, signori della guerra e, il sospetto non è dimostrato, con elementi vicino al narcotraffico - voglia ricorrere ai metodi del-
l’emiro. I tempi sono cambiati, e le condizioni consentono di ottenere lo stesso risultato con metodi meno brutali, e senz’altro più sofisticati. Ora, al posto dei pragmatici inglesi ci sono i pragmatici americani di Barack Obama, che vedono anch’essi la “riconciliazione”– leggi pacificazione – come esigenza prioritaria persino rispetto al concetto di democrazia. Al quale non rinunciano, ma verrà dopo, assieme al rispetto dei diritti umani, all’istruzione, alla ricostruzione, a un più equo ordinamento giuridico. La riconciliazione – di questo sono convinti – è un processo incrementale, che deve iniziare subito, attraverso ogni via idonea allo scopo assai prima di perseguire ogni altro obiettivo. E Karzai, un tempo guardato con sospetto, in quanto a pragmatismo ha dimostrato di essere un allievo modello del pragmaticissimo Obama. Ora intende proseguire così, con Petraeus e McChristall come angeli custodi. La Nato, come da prassi, si limiterà a seguire l’alleato maggiore.
Se quest’analisi è sostenibile, nell’immediato cambierà assai poco, ma, progressivamente, il contrasto dei talebani dovrebbe affievolirsi, lasciando semmai spazio ad altre realtà armate, ma non ideologizzate e più facili, quindi, da combattere. O da comperare. La strategia comune per la riconciliazione – Nato e afgana assieme - richiederà un approccio simultaneo al maggior numero possibile di capi tribù e comandanti talebani, coinvolgendoli in un processo che tenda ad escludere gli estremisti filo alQaeda ed i delinquenti comuni. Ciò fatto, l’Occidente, formalmente vincitore, ma nella realtà sconfitto in ciascuno dei suoi encomiabili principi, potrà ritirarsi “onorevolmente”.
vo fra il nord e il sud del paese, dove la minacce dei talebani hanno avuto la meglio.
Molti i seggi chiusi anche nell’area a controllo italiano di Bala Mourghab, la più sensibile e instabile della provincia di Bagdhis: su 33 seggi, alla fine ne hanno aperti soltanto 8. E in questo tiro incrociato, prendono corpo, anche qui secondo copione, le accuse di brogli. A lanciare il sospetto, i risultati che cominciano a trapelare da alcuni seggi: a Lashkar Gar, ad esempio, capitale della provincia di Helmand, su 2.418 schede, 2.400 sono state per Karzai e 18 per Abdullah. Un risultato «impossibile» secondo Sangcharaki, che contesta anche i primi dati ufficiosi resi noti dall’agenzia afgana Pajhwok, secondo la quale Hamid Karzai avrebbe ottenuto la maggioranza dei voti in alcuni seggi campione diffusi su tutto il territorio, tanto da avere “fatto il pieno” nelle aree meridionali e orientali del paese, a maggioranza pashtun. Maggiore il distacco per gli altri candidati per i quali, alla vigilia del voto, si prevedeva un buon risultato, ovvero Ramzan Bashardost, ex ministro della pianificazione, e Ashraf Ghani, ex ministro delle Finanze. Il loro appoggio sarà comunque determinante in caso di ballottaggio. Così come decisivo sarà, in caso di secondo turno, il voto dell’ovest del Paese, dove l’affluenza è stata più elevata. Alla conta dei voti, si affianca purtroppo anche quella dei morti. Sempre secondo l’Iec, undici organizzatori avrebbero perso la vita durante
Shamusussafa Aminzai spiega perché il voto locale non avrà effetti sugli equilibri del Paese: «Il sistema democratico resta monco»
«Le elezioni provinciali, grandi assenti» KABUL. Shamusussafa Aminzai era un professore di Storia moderna e storia della diplomazia all’università di kabul, accolto in italia come lettore alla Cà Foscari di Venezia e alla Sapienza di Roma durante l’occupazione talebana. Conosce la storia e le dinamiche di questo paese come pochi altri, e dal 2002 è consulente e interprete di Isaf. Gli domandiamo di spiegarci le elezioni,
che quasi tutti sembrano aver ignorato. Professore, alle urne si è votato anche per l’elezione dei consigli provinciali. Ma non se ne parla in Afghanistan, perché? Perché non hanno alcun potere. È una devianza del nostro sistema, ancora immaturo per poter accogliere questa shura in seno al suo sistema. Intanto diciamo che la gente è stata chiamata ad eleggere un diverso numero di
consiglieri a seconda delle grandezza della provincia (34 in tutto, ndr). Di questi, un quarto devono essere donne. A Kabul, per esempio, gli eletti saranno 29. 20 uomini e 9 donne. Che in linea di massima nessuno conosce perché non hanno visibilità pubblica alcuna. Ma a che cosa serve il consiglio provinciale? In linea di principio dovrebbe esercitare una funzione di controllo sull’operato del governa-
tore (di nomina presidenziale, ndr), ma di fatto non influenza minimamente il suo lavoro. Perché? Perché le persone veramente influenti sono altre, gli elders – ovvero gli anziani dei villaggi - i mullah o i mujaheddin. Il governatore è con loro che dialoga, non con i consigli. Possiamo dire che il sistema ha qualche anello mancante? Esatto. La catena elettiva dovreb-
mondo
22 agosto 2009 • pagina 7
Missili, razzi, mine: la capitale è un immenso arsenale a cielo aperto
Le farfalle (assassine) che volano a Kabul KABUL. Non solo oppio. L’Afghanistan è anche un immenso arsenale a cielo aperto, dove missili, razzi, mine e proiettili si trovano senza nemmeno troppo faticare. E dove non arriva l’eredità sovietica subentrano i mercati di armi paralleli e gli aiuti dei narcotrafficanti. Una foto ci mostra un intero piazzale sommerso da centinaia di colpi da mortaio, razzi cinesi da 107 mm, mine anticarro della ex jugoslavia, mine antiuomo, spolette, scatole di proiettili e molto altro. Un cache impressionante. Praticamente una goccia in mezzo all’oceano – ci dice con una certa amarezza Saverio Cucinotta, capitano e press office di Camp Invicta. Il dato parla chiaro: il 96% delle perdite Isaf e l’assoluta maggioranza delle vittime civili, sono colpa dei cossidetti Ied (Improvised explosive device), spesso ricavati dagli Uxo (unexplosed ordnance). Si possono trovare ovunque e sono il “nemico numero uno”di ogni pattuglia o lince che esce.
Secondo il suo staff, l’ex presidente avrebbe vinto già al primo turno. Ma lo sfidante rilancia: «Abbiamo sfondato al nord, siamo al 63 per cento». Affluenza definitiva intorno al 40 per cento gli attacchi degli insurgents fra ieri e i giorni immediatamente precedenti le elezioni. E sempre ieri è stata anche stata la giornata in cui si contano gli incidenti e i lutti di giovedì: nelle ultime 24 ore, nel distretto meridionale di Helmand, la polizia avrebbe ucciso almeno 40 insorti. C’è poi il civile morto in seguito a un attacco dei talebani e i due soldati britannici che
be avere 3 livelli: la presidenza, i rappresentanti distrettuali e la shura provinciale. La nostra legge, infatti, prevede che vengano istituiti – tramite elezione - i rappresentanti dei vari distretti in cui è suddivisa una provincia. Questi sarebbero i veri interlocutori dei governatori, non i consiglieri provinciali che dovrebbero limitarsi a un controllo di massima. Ma la nomina dei rappresentanti è stata rinviata, perché ad oggi è prevedibile che ad essere votati sarebbero gli elders stessi o personalità discutibili e di difficile controllo. E il sistema democra(l.a.) tico resta monco.
hanno perso la vita nel sud, proprio mentre in tutto il Paese erano in corso le operazioni di voto. I militari stavano effettuando un pattugliamento nella roccaforte dei miliziani islamici, quando sono stati investiti dall’esplosione di un ordigno.
Del ruolo rivestito dagli uomini delle nostre forze armate, ha parlato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con una missiva diretta al capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Vincenzo Camporini. «Le operazioni di voto appena concluse in Afghanistan costituiscono un importante traguardo verso la stabilizzazione del Paese - si legge nella lettera - e il contingente italiano ha offerto un contributo determinante a questo risultato. Ad essi esprimo il mio plauso e quello di tutti gli italiani ricordando, con profonda commozione, coloro che sono caduti nell’adempimento del dovere». Oggi intanto a Kabul la gente è ritornata per le strade. Aperti mercati e molti negozi, in giro donne e bambini. Domani sarà tutto deserto, ma non per la paura. È appena cominciato il Ramadan.
Mimetizzati a terra, nascosti sotto l’asfalto (che qui ha lo spessore di 1 centimetro), usati da un kamikaze ma anche lanciati a mano o da una moto in corsa («vedere una moto per noi è come vedere un carro armato», mi ha detto nei giorni scorsi il generale Rosario Castellano): la loro efficacia è pari al loro tasso di imprevedibilità. E chi li usa non è uno sprovveduto o un contadino passato alla guerriglia fai da te, è un insurgent con un’abitudine alla battaglia irregolare consolidata da decenni di guerra, allenato all’osservazione silenziosa del nemico, addestrato ai tentativi: se un sistema non raggiunge l’obiettivo – in pratica niente vittime – meglio cambiare strategia. Impossibile, in questo modo, preparare una controffensiva certa: l’invisibile mano talebana è mutevole e pericolosa. Dall’arsenale a cielo aperto recupera i suoi esplosivi e poi gli fa il lifting che crede: se vuole dargli maggiore potenza ci attacca sopra altro esplosivo con del nastro adesivo, se vuole concentrare il suo raggio d’azione, chiude le bocche d’aria ai lati dell’ordigno, in maniera che il suo sfogo di fuoco si irradi verso l’alto (è quello che hanno fatto con il Lince di Alessandro Di Lisio, praticamente “sparato” verso il cielo), se in-
vece l’intenzione è creare caos e vittime, meglio imbottire il tutto con biglie e chiodi.
Perché l’esplosione non solo li frantuma, ma li trasforma in proiettili affilati che viaggiano a 800 metri al secondo, più veloci di un colpo beretta. E per danneggiare Lince e blindati, si sono inventati l’Efp, explosively formed penetrator, una sorta di diaframma d’acciaio poggiato sul punto d’uscita dell’esplosivo in posizione concava, che al momento dello sparo si trasforma in una freccia appuntita e rovente capace di bucare la corazza. Per attivare la carica esplosiva, l’immaginazione ha galoppato veloce. L’ultima generazione li ha mimetizzati dentro dei piccoli innaffiatoi di uso comune, impossibile procedere alla verifica di ognuno di essi o chiamare una squadra del Genio appena se ne vede uno. Impossibile anche contrastare l’attivazione a distanza. Nei mesi scorsi, poiché i detonatori erano di solito piazzati vicino allo Ied, i blindati avevano messo a punto un sistema di schermatura elettromagnetica capace di neutralizzarli nell’arco di 4/5 metri. una volta capita l’antifona, gli insurgents non hanno fatto altro che allungare il cavo e portarlo al di fuori dell’area neutralizzata. Lotta al buio e senza quartiere, che non fa guidare tranquillo proprio nessuno. «Occhio a quella moto, attento, attento» grida l’autista del lince che ci porta in giro per la città. «Hai visto quella machina, allarga, allarga», aggiunge poco dopo, mentre il malcapitato guidatore afgano cerca di farsi piccolo piccolo e accende i lampeggianti per accostare sotto l’occhio vigile di una mitragliera. E se si nota qualcosa di sospetto, si chiama la squadra del Genio per la verifica e bonifica del luogo. Che arriva, silenziosa, mentre l’artificiere scandaglia metro per metro. Un lavoro certosino, che richiede un grado di autocontrollo fuori dal’ordinario. Nessuno sa, infatti, se l’oggetto rinvenuto sia inesploso per qualche motivo particolare o se ci sia qualcuno pronto a farlo saltare. Perché la vita, qui in Afghanistan, vale ancora troppo poco e i bambini continuano a saltare sulle migliaia di mine a farfalla colora(l.a.) te lasciate in regalo dai sovietici.
Secondo i militari italiani, il 96 per cento delle perdite Isaf e l’assoluta maggioranza delle vittime civili sono colpa degli “esplosivi improvvisati”
politica
pagina 8 • 22 agosto 2009
Polemiche. Si apre un inedito dibattito sulla campagna, che gli ecologisti vorrebbero destinare a eolico e fotovoltaico
La rivincita dell’agricoltura
Un mercato sempre più diviso tra coltivazioni e energie alternative di Carlo Lottieri n una lettera-aperta indirizzata al ministro Luca Zaia, Vittorio Sgarbi (rumoroso sindaco di Salemi, nel Trapanese) ha richiamato l’attenzione sui problemi dell’agricoltura siciliana, puntando l’indice contro quegli impianti eolici che stanno sempre più deturpando il paesaggio e togliendo anche spazio alle attività tradizionali. Secondo Sgarbi, mai nessuno «avrebbe investito in una attività più improduttiva di quella agricola (gran parte delle pale sono scandalosamente ferme, senza nessuna verifica o controllo) senza le sovrabbondanti risorse europee di gran lunga più cospicue dell’investimento privato».
I
Nella lettera viene pure rilevato come «dopo i parchi eolici si cominciano a vedere intorno a Ragusa altri orrori: impianti fotovoltaici con le strutture portanti come alberi in quantità straordinaria ravvicinati per sostenere, all’altezza di circa due metri e mezzo, pannelli neri». Per giunta, per realizzare tali impianti si sono abbattuti chilometri di muretti a secco, ad esempio a Mendolilli (vicino a Ragusa): «Questi impianti, in tutto simili a cimiteri, così come i parchi eolici stravolgono il volto di campi e colline, con l’abbandono delle coltivazioni tradizionali per queste installazioni su terreni
In una lettera aperta al ministro Zaia, Vittorio Sgarbi ha sollevato la questione dell’uso e della regolarizzazione delle coltivazioni in Sicilia Ma è un nodo centrale in tutto lo sviluppo italiano desertificati». Nelle tesi di Sgarbi c’è del vero: e non soltanto perché gli impianti promossi dal consenso ecologista sono, oltre che brutti, costosissimi per il contribuente. È soprattutto corretta l’esigenza di richiamare l’attenzione sulle difficoltà dell’agricoltura e sul fatto che l’intervento pubblico (tra Unione europea, Stato e Regione) ha distrutto l’intero comparto, sempre più sottratto a ogni logica imprenditoriale. Non a caso, è in quei settori
meno “aiutati” e “protetti” che – pur tra varie difficoltà – l’agricoltura ancora regge, conosce la migliore integrazione con l’industria agro-alimentare, sviluppa le più efficaci sinergie con il turismo e il commercio. In quasi ogni regione italiana la valorizzazione dei vini, ad esempio, si è sviluppata grazie a scommesse squisitamente imprenditoriali, oltre che in virtù di innovazioni produttive favorite da una generazione di enologi competenti.
Utilizzando le parole di Carlo Petrini, il sindaco di Salemi chiede una radicale riduzione delle procedure burocratiche che gravano sulle imprese del settore primario. Meno convincenti però appaiono taluni altri suggerimenti del guru di Slow Food, per il quale ci sarebbe bisogno di un’università collegata all’agricoltura di piccola scala (a scapito dell’agroindustriale), di un sistema bancario che sia costretto a finanziare i giovani interessati a lavorare nei campi, di più mercati cittadini riservati ai produttori. In realtà, per avere un’istruzione adeguata, un sistema bancario funzionante e un circuito distributivo efficiente c’è bisogno di una sola cosa: che si torni alle logiche di mercato. Quando Sgarbi rileva che l’intervento pubblico ha trasferito – contro ogni logica – molte risorse dall’agricoltura all’energia eolica, e quando Petrini sottolinea quanto sia oneroso il gravame degli oneri amministrativi, quella che viene messa sotto accusa è la pretesa dei politici di sapere cosa va fatto e come. In fondo, nelle logiche solo apparentemente nuove della retorica variamente ecologista e e salutista) quando oggi si discute di agricoltura si rischia di ripetere gli stessi errori che si commisero con la riforma agraria, sottraendo la terra ai proprie-
tari per creare micro-proprietà che si rivelarono economicamente insostenibili.
Per questo, come di recente ha spiegato Giorgio Fidenato (segretario di Futuragra), bisognerebbe adottare come modello la Nuova Zelanda: “un paese con un tenore di vita occidentale e che dal 1985 ha eliminato completamente i contributi pubblici non solo sulla produzione, ma anche sugli investimenti. Ed è anche il Paese che ha il costo di produzione del latte più basso del mondo occidentale perché si è aperto al mercato, ha reso più efficienti i sistemi produttivi, ha puntato molto sul marketing ottenendo ottimi risultati. In Nuova Zelanda c’è un’agricoltura molto sviluppata e totalmente proiettata all’esportazione”. In Europa, invece, l’agricoltura è diventata un settore parassitario e quasi sempre incapace di essere innovativo a causa delle perturbazioni causate dai sussidi e dalle protezioni. Si impedisce ai prodotti di africani di venire da noi (peggiorando condizioni già terribili in quelle aree), nella convinzione che questo “aiuto” favorisca i nostri agricoltori. E invece è vero l’opposto. La provocazione di Sgarbi va quindi colta al volo, se serve a ricreare i giusti incentivi in un ambito produttivo da troppo tempo “fuori mercato”.
Una direttiva del ministero degli Interni mette ordine nei sistemi di rilevamento degli eccessi di velocità
Maroni ha deciso: basta autovelox ai privati di Guglielmo Malagodi
ROMA. Stop alla gestione degli autovelox a società private; mai più pattuglie nascoste per la rilevazione della velocità. massima tutela della privacy: sono alcuni dei contenuti della direttiva del Ministro dell’Interno Roberto Maroni «volta a garantire - spiega una nota un’azione coordinata di prevenzione e contrasto dell’eccesso di velocità sulle strade». Questi, in sintesi, i contenuti principali della direttiva: 1) gestione delle apparecchiature solo dagli operatori di Polizia; 2) controllo periodico di funzionalità degli apparecchi; 3) modalità di segnalazione della presenza delle postazioni di controllo improntate alla massima trasparenza; 4) modalità di accertamento e contestazione delle violazioni in materia di velocità (non è sem-
pre richiesto il fermo del veicolo per contestare la violazione); 5) tutela della riservatezza (le foto o le riprese video devono essere trattate solo da personale degli organi di polizia incaricati al trattamento e alla gestione dei dati).
La direttiva, secondo il ministero «mira a disciplinare l’utilizzo degli strumenti di controllo della velocità ispirandosi a criteri di efficienza e trasparenza. L’obiettivo è la prevenzione sulle strade, in vista del traguardo fissato dalla Commissione Europea di dimezzare entro il 2010 il numero delle vittime per incidenti stradali». La direttiva affida ai Prefetti il compito di monitorare sul territorio il fenomeno della velocità e di pianificare le attività di controllo,
Solo la Polizia potrà gestire gli apparecchi. E le “foto” dovranno rispettare la privacy degli automobilisti
avvalendosi del contributo delle Conferenze Provinciali Permanenti, dove sono rappresentati tutti i soggetti pubblici interessati alla materia. In particolare, dovranno essere individuati i punti critici per la circolazione dove si registrano più incidenti (con riferimento al biennio precedente) e dovrà essere previsto il diffuso impiego della tecnologia di controllo remoto, che consente il controllo di tutti i conducenti che passano in un determinato tratto di strada con contestazione successiva della violazione. La Polizia Stradale, quale Specialità della Polizia di Stato, attuerà il coordinamento operativo dei servizi con il compito anche di monitorare i risultati dell’attività di controllo svolta da tutte le forze di polizia e dalle polizie locali.
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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22 agosto(1862)
Claude Debussy
A undici anni entra al Conservatorio di Parigi. Ed è già uno spirito irrequieto
E alla fine la tastiera parlò di Jacopo Pellegrini
ella vicenda umana di Manuel Debussy sta inscritto il destino di Achille-Claude; come a dire, il padre ‘figura’ del figlio, allo stesso modo del Battista (e poi, di innumerevoli santi) col Cristo. Le avvisaglie di ciò che sarà, i segni della predestinazione, si susseguono limpidi, espliciti. Anni dopo, il diretto interessato avrebbe scritto: «alle volte il caso è così spirituale...». Prima di tentare la fortuna come commerciante di maioliche e come impiegato, Manuel è stato in marina, e per il proprio rampollo sogna una carriera sulle onde; il disegno non va in porto, ma il legame con l’acqua, e, più in generale, colla natura rientrerà tra le esperienze fondamentali di colui che invita ad ascoltare «i consigli del vento che passa». Spirito irrequieto, il genitore s’impelaga nei moti della Comune e finisce nel carcere di Satory. Qui fa la conoscenza con Charles de Sivry, musicista di cabaret, la cui madre, Antoinette Mauté de Fleurville, impartisce lezioni di pianoforte. Che costei sia stata davvero allieva di Chopin, prove certe non ce ne sono; era però, pur sempre una gran cultrice del suo presunto maestro, e suocera per davvero di Verlaine: la devozione per l’artista polacco e le assonanze colla poetica simbolista esibite dall’adulto musicien français devono pur qualcosa alla sua prima insegnante di musica. Svincolatosi dalla famiglia, Claude scopre se stesso nei corridoi del conservatorio parigino (1873-83), dove entra undicenne. Il rifiuto delle idee ricevute e delle norme tradizionali si manifesta in lui fin dai primi anni, mentre frequenta le classi di Lavignac (solfeggio) e Marmontel (pianoforte). Quando poi, passa a studiare composizione con Ernest Guiraud, i dialoghi con il docente, riportati dal condiscepolo Maurice Emmanuel, mostrano nel discente una lucidità e una chiarezza profetiche riguardo alla forma e alle funzioni del teatro in musica: «Non sono tentato di imitare ciò che ammiro in Wagner. continua a pag. II
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SCRITTORI E CIBI
LE GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA
CAPOLAVORI DI PIETRA
I carciofi di Neruda
Palazzo Grimani
di Francesco Napoli
di Claudia Conforti
Calatafimi 1860 di Massimo Tosti
pagine 4 e 5
pagina 6
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pagina I - liberal estate - 22 agosto 2009
In alto, il musicista mentre si esibisce in famiglia, con la figlia durante un picnic, con Lilly Texier e Chopin. Sotto Ernest Guiraud
Ho in mente una forma drammatica diversa: la musica comincia là dove la parola è impotente a esprimere». Librettista ideale sarà «colui che dicendo le cose a metà mi permetterà di innestare il mio sogno sul suo. Nel teatro musicale si canta troppo. Bisogna invece cantare solo quando ne vale la pena. È necessario contentarsi di dipingere ogni tanto in chiaroscuro. Niente deve arrestare il cammino del dramma: ogni sviluppo musicale non richiesto dalle parole è un errore. Io sogno poemi in cui i personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte».
L’esito, di là da venire, del Pelléas et Mélisande (scritto tra il ’93 e il ’95 e revisionato fino alle soglie del debutto: Parigi, Opéra-Comique, 1902), s’incaricherà di confermarle: «una declamazione che si adatti non già a un andamento musicale, ma a una parola musicale. Ogni frase ha un ritmo; in musica ciò che importa è rispettare le parole senza sottolinearle oltre
misura. Quando un personaggio ha qualcosa di naturale da dire, la frase musicale è naturale; diviene lirica solo quando occorre che lo sia», si può leggere in un’intervista concessa a Louis Schneider alla vigilia di «Pelléas». Non riuscì un virtuo-
stra) Chopin: «Ho dei ricordi molto precisi – scriveva nel settembre 1915 all’editore Durand – su quel che mi ha raccontato la signora Mauté de Fleurville. Egli (Chopin, appunto) voleva che lo studio avvenisse senza pedale, e, che, salvo rare eccezioni, non lo si tenesse mai a lungo. È, in altre parole, quell’arte di fare del pedale una sorta di respirazione, arte che avevo notato in Liszt, quando ebbi l’occasione di ascoltarlo». Le poche registrazioni pervenuteci del Debussy pianista, in questo caso accompagnatore di Mary Garden (la creatrice di Mélisande), poco o nulla possono restituirci di quel decantato suono diafano: siamo nel 1904 e allo strumentista, a ogni strumentista, è richiesto un vigore inconsueto, affinché la traccia sonora resti incisa nel disco di
Nel descrivere una galassia sonora - quella di Debussy è mutevole, sfuggente, basata come nessun’altra su una catena di ‘attimi’ irrelati e in sé conclusi
so alla tastiera, Debussy, ma i contemporanei ne pregiarono assai più i doni di tocco e la sensibilità acuta applicata alla, diciamo così, spettrografia del suono: «le sue dita sembravano toccare direttamente le corde», notò più d’un ascoltatore. Omaggio indiretto all’adorato (da lui e dalla sullodata mae-
pagina II - liberal estate - 22 agosto 2009
cera. La Scena della torre dal Pelléas, quando Mélisande canta «alla finestra, mentre si pettina i capelli sciolti» (in apertura dell’Atto III: uno dei più sorprendenti passaggi modali di tutto Debussy, laddove arcaismo e folklore si annullano vicendevolmente dando luogo a una lega di nuovo conio, imbevuta di tenerezza e ansia), e tre delle Ariettes oubliées, versi di Verlaine, risalenti al 1885-87, costituiscono il minimo (e infedele) lascito audio del pianista. In «Il pleure dans mon coeur», secondo brano della raccolta, si nota la precisione nella resa della quartine e l’andamento libero, fluttuante; «L’ombre des arbres» (la n. 3) è un esercizio sulla ‘monotonia’, reiterazione incessante di due figurazioni musicali minime: Debussy non tradisce l’assunto, ne rimarca anzi, il carattere estatico, sospeso di là dal tempo, abbassando il pedale, dolcissimo barbaglio, sull’ultima nota, un mi diesis riverberato su tre ottave; «Green» (la n. 5) si segnala per la continuità di respiro assicurata dal sostegno strumentale,
che anche nel passaggio dall’iniziale Allegro moderato all’Andante, pur rispettando il rallentando segnato sullo spartito, non modifica in nulla la pulsazione interna della musica; mirabile infine, l’effetto ‘sonnolenza’ ottenuto sulle ultime parole («Laissez-la s’apaiser de la bonne tempête, | et que je dorme un peu puisque vous reposez») da voce e tastiera, concordi.
Nel tentare di descrivere una galassia sonora – quella di Debussy – mutevole, sfuggente, basata come nessun’altra su una catena di ‘attimi’irrelati e in sé conclusi (emblematici il Preludio al pomeriggio d’un fauno, ispirato al poema di Mallarmé, 1892-94, o alcuni dei Préludes per pianoforte, 1909-13), forte è la tentazione di affidarsi alle parole d’autore, critico musicale non prolifico ma brillantissimo e imaginifico, artista tutto sommato incline a teorizzare sul proprio linguaggio e sul proprio orizzonte estetico (anche se ad alta voce affermava il contrario), non diversamente da tanti ‘innovatori’ prima e, soprattutto, intorno e dopo di lui (quante Avanguardie cosiddette lungo il Novecento!). Certe immagini recano in loro il sigillo dell’assolutezza apodittica: «Occorre cercare la disciplina nella libertà» (1901); «il mio metodo consiste soprattutto nell’infischiarmene di tutti i metodi» (1902); «l’arte è la più bella delle menzogne, e bisogna sperare che resti tale, per evitare il rischio che diventi una cosa utilitaristica, triste come un’officina» (1902); «una diffusione troppo generalizzata dell’arte non conduce che a una più grande mediocrità» (1903). Accanto agli odi e alle antipatie (Gluck, Meyerbeer, Mendelssohn, Berlioz, Franck, Brahms, Wagner, la Giovane scuola italiana), volentieri mo-
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o stesso giorno... nacque
Eroe del Risorgimento, Pisacane fece più proseliti da morto che da vivo di Francesco Lo Dico ilitare per formazione, socialista per vocazione, Carlo Pisacane nasce a Napoli nel 1818. Nobile decaduto, cade patriota. Fa la scuola militare di San Giovanni a dodici anni, e poi la Nunziatella. Limpido idealista, fa studi confusi. Alfiere del quinto reggimento dei Borboni a vent’anni, e di una nuova umanità, fieramente antiborbonica a trenta. Anticonformista, l’aristocrazia lo prende in odio, da lui ricambiata. Abbandona le stellette, in cerca della sua buona stella. Fugge esule a Londra e Parigi. Enrichetta De Lorenzo, sua innamorata, lo segue. Conosce il generale Pepe, Dumas, Hugo, Lamartine e George Sand. Abbandona Enrichetta per la legione straniera. Sperimenta la guerriglia in Algeria e folgorato dal ’48 parigino, rientra in Italia con l’idea di farla. Combatte gli austriaci in Veneto e Lom-
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tivate da accese recriminazioni di stampo nazionalista (per nulla tardive come vorrebbe un esegeta e interprete illuminante del Nostro, Pierre Boulez), i rari intensissimi amori. Per lo più rivolti al passato, anche remoto: «nel grande Bach si ritrova pressoché intatto quell’“arabesco musicale” o piuttosto quel principio dell’“ornamento” che è alla base di tutti i modi dell’arte. I primitivi, Palestrina, Vittoria, Orlando di Lasso, ecc., si servirono di questo divino “arabesco”. Bach, riprendendolo, lo rese più flessibile, più fluido, e, a dispetto della severa disciplina che questo gran maestro imponeva alla Bellezza, esso poteva muoversi con quella libera fantasia sempre rinnovata che provoca stupore ancora ai nostri tempi» (1901); all’«epoca in cui fioriva “l’adorabile arabesco” la musica seguiva delle regole di bellezza inscritte nel movimento totale della natura» (1902). Nessuno di costoro è francese; in che consisterebbe dunque, il tanto deprecato nazionalismo? Prima di tutto, in una «posizione di principio», osserva François Lesure, studioso insigne e curatore degli scritti di Debussy. La lista dei modelli autoctoni da seguire si riduce a ben poco: Couperin, Rameau, Chabrier (unico precursore riconosciuto, se prestiamo fede ai ricordi di Vittorio Gui, direttore d’orchestra e compositore), il balletto Namouna di Lalo, oltre a parziali riconoscimenti per Offenbach, Bizet, Massenet, Fauré. Fuor di patria, oltre che per Chopin, il cuore batte per Mozart, Beethoven (anch’egli mosso da «un desiderio magnifico d’ingrandire, di liberare le forme abituali»), Schumann e Musorgskij («è unico e tale resterà per la sua arte senza procedimenti o formule disseccanti; assomiglia all’arte di un selvag-
gio curioso che scoprisse la musica a ogni passo tracciato dalla sua emozione»). Un inno replicato alla libertà (dalla scuola, dalle norme compositive, dalle linee maestre e riconosciute), all’ingenuità fanciullesca, alla natura, alla verità: «la mia prima ambizione, in musica, è di condurla a rappresentare il più dappresso possibile la vita stessa» (1909). Si comprende agevolmente il fascino esercitato su Debussy dalla poesia e dalla pittura a lui coeve, dal simbolismo e dall’impressionismo, movimenti ai quali è stato, di volta in volta, associato o addirittura, ridotto. Non meno interessante del conoscere le idee espresse da un eventuale oggetto di studio, l’indagare le reazioni dei contemporanei, specie se addetti ai lavori.
Di recente, De Sono-Edt ha dato alle stampe un volume di Andrea Malvano, L’ascolto di Debussy (pp. 298, euro 22), dove, pur framezzo a qualche raffronto teorico tra l’ingenuo e lo scontato e a inappropriati autoproclami di primogenitura metodologica, si pratica un approccio di questo tipo, relativo ad alcuni lavori sinfonici, i Nocturnes (1897-99), La mer (190305) e Ibéria, la seconda delle tre Images (Terza serie, 1909-13). Dal canto nostro, ci limiteremo a interrogare un testimone d’eccezione, Giacomo Puccini, che così scrisse in memoria del collega scomparso (1918): «Debussy ebbe anima d’artista capace delle più rare e sottili percezioni, e per esprimerle usava uno schema armonico che in
Meridionalista ante-litteram questo nobile decaduto sogna la riforma agraria come base per la rivoluzione e studia la liberazione a partire dal Sud Italia. Nel 1857 sbarca a Ponza e libera 323 detenuti. A Sapri il popolo lo lascia solo
bardia. Perde la prima guerra d’indipendenza nelle file dell’esercito piemontese. Perde la Repubblica Romana fondata insieme a Mameli, Garibaldi, Saffi e Mazzini contro i francesi. Perde anche la libertà il 3 luglio del 1848. Lasciata la prigionia, ritrova gli antichi vincoli. Si riavvicina a Enrichetta ma sposa il socialismo. Gli fanno da padrini Ferrari e Cattaneo. Sogna la riforma agraria come base per la rivoluzione. Tuffatosi nelle letture mazziniane, sbarca a Genova. Prende contatti con vecchi sodali patrioti, studia la liberazione a partire dal Sud Italia. Fa un primo tentativo il 6 giugno del 1857. Fallito. Il 26 giugno sbarca a Ponza, sventola il tricolore, e libera 323 detenuti. Sbarcano a Sapri per riunire il popolo rivoltoso, ma il popolo preferisce rivoltarsi i pollici. O in alternativa,
un primo tempo sembrava rivelare nuove, prescienti idee per l’arte musicale. Questi processi armonici, così folgoranti al momento della loro rivelazione, dopo la prima ammaliante sorpresa, hanno sempre meno sorpreso, finché alla fine non hanno più sorpreso per niente; e non solo questo, anche al loro creatore il processo apparve concluso: so quanto egli abbia cercato e desiderato una via d’uscita. Come fervido ammiratore di Debussy aspettavo con
pida assuefazione dell’orecchio e del gusto alle novità armoniche debussyane, l’Italiano coglie assai bene quel senso di disagio etico ed artistico che attanagliò il Francese nell’ultimo decennio di sua vita, quando sempre più da vicino lo assediavano pelléastres (tale il titolo d’un pamphlet scritto nel 1903 da Jean Lorrain) e debussystes in 32simo (la Boulanger, Bloch, Malipiero, per limitarci ai non indegni): «Credo che il principale difetto della maggior parte degli scrittori e degli artisti sia di non avere abbastanza coraggio e volontà per rompere coi loro successi, di non cercare vie e idee nuove. Tuttavia non esiste piacere più grande che discendere in sé, mettere in movimento tutto il proprio essere, cercare dei tesori nuovi e nascosti» (1910).Puccini, quando espresse il suo rammarico per quel che avrebbe potuto essere e che pensava non fosse stato, forse si riferiva a ciò che gl’interessava in modo speciale, al teatro in musica: i progetti incompiuti noti con i titoli La caduta di casa Usher (da Poe) e Il diavolo nel campanile. Certo, non doveva conoscere le estre-
«L’arte è la più bella delle menzogne, e bisogna sperare che resti tale, per evitare il rischio che diventi una cosa utilitaristica, triste come un’officina» (1902); «una diffusione troppo generalizzata dell’arte non conduce che a una più grande mediocrità» (1903) ansia di vedere come egli stesso avrebbe affrontato il debussysmo; ed ora la sua morte ci ha reso impossibile sapere quale sarebbe stato il risultato che certo avrebbe potuto essere cosa preziosa». Al di là d’un tono non privo di succhi ironici, ravvisabili nel riferimento alla ra-
ammazzarli. Pisacane e compagni fanno fagotto, i contadini ne fanno fuori 25 di loro a Padula. E ne consegnano altri 150 ai gendarmi. Di fronte a ciò, Pisacane preferisce chiudere gli occhi per sempre. Si suicida il 2 luglio del 1857. «Il mio sacrificio è senza speranza di premio», scriveva. Eroe del Risorgimento, meridionalista ante-litteram. Fece più proseliti da morto che da vivo.
me creazioni di Debussy, le Études per pianoforte, En blanc et noir per due pianoforti, le tre Sonate per organici diversi, tutte comprese tra il 1915 e il ’17. In effetti, già il balletto Jeux (’13), che è molto probabile abbia ascoltato o almeno letto, avrebbe dovuto metterlo sull’avviso. L’ultima fase creativa non implica rovesciamenti di prospettiva, piuttosto una radicalizzazione di procedimenti noti, in cui il passato, il proprio passato, s’insinua quale aureo termine di confronto ed eco di nostalgie filtratissime, estranee a qualsivoglia (auto)compiacimento.
Impallidiscono flou ed eleganza, «che di Debussy parvero l’essenziale e non ne sono che la crosta» (Mario Bortolotto); il timbro – assurto a vette inattingibili nelle musiche per il Martyre di d’Annunzio e nel citato, enigmaticissimo, Jeux – si fa segno grafico secco e puntuto; viene spinta alle estreme conseguenze quell’immobilizzazione del tempo, anima fonda della ‘rivoluzione’ scatenata dal musicien français: il suo «universo è, nell’istante, sospeso all’eterno» (Id.). Altresì detto, la geometria dell’oscuro (impossibile interpretare secondo le categorie date il decorso di questa produzione tarda, che pare fatta di cellule autonome e non collegate tra loro), l’irriducibile ambiguità (=molteplicità) di senso connaturata al simbolo, il mistero – da intendersi nell’accezione antica di pratica cultuale – della Natura.
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SCRITTORI E CIBI
Vegetaliarmati: la politica del carciofo
DI NERUDA
Il poeta cileno predilige l’ortaggio che descrive come un guerriero pronto alla vita militare di Francesco Napoli
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a dieta mediterranea non è un mito, lo si sa, e ha radici lontane risalenti ai precetti della nobile Scuola Medica Salernitana che, a usa volta, attingeva alle fonti mediche arabe e greche. Tra i tanti alimenti sani contemplati dalle regole del Regimen salernitano, il carciofo è presente. Originario del Medioriente, il carciofo selvatico ha costituito fin dall’antichità un prodotto importante per i fitoterapisti egizi e greci, ma pare che altrettanto antico sia il suo impiego nella cucina. Il nome? Con buona pace di tutti è di provenienza araba, «karshuf» (o «kharshaf»), da cui l’attuale termine. Grosso modo nel IV secolo a.C. un allievo molto bravo di Aristotele, Teofrasto, quello dei Caratteri, che aveva deciso di fare il botanico nella sua Storia delle piante descrive un cardui pineae che proprio proprio pare il nostro carciofo, almeno stando alla sua esposizione e alla declinazione delle proprietà e delle virtù di questa pianta. L’uso di una qualche varietà di carciofo selvatico nella cucina romana è ricordata da Columella (Decio Bruno), che chiamandolo
col nome latino di cynara, conferma come a quel tempo si usasse consumare quella pianta sia a scopo medicinale che alimentare. Ora è a tutti più chiaro il nome di un famoso liquore reclamizzato da Ernesto Calindri seduto in mezzo al traffico, tranquillo a leggere il giornale e a tener alto lo slogan «contro il logorìo della vita moderna».
Apicio, e ce ne furono tre stando ai cronisti romani, una sorta di Vissani dei tempi, nel suo De re coquinaria, una sorta di Cucchiaio d’argento, parla anche di cuori di cynara che, a quanto pare, i Romani apprezzavano lessati in acqua o vino. Non molto lontana dalla «ricetta della suocera», o di donna Lina, che prevede un pretrattamento degli stessi cuori in acqua e aceto, o limone, per togliere ogni residuo amarognolo, prima di metterli a cuocere in padella con olio, aglio, prezzemolo, olive nere snocciolate e capperi e un filo d’acqua per non far friggere il tutto.Tornando al nostro Apicio, poi, e al suo De re coquinaria, cioè l’arcinoto trattato considerato il codice alimentare dell’an-
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Nato a Parral in Cile, cominciò a scrivere le prime poesie da giovanissimo per poi diventare insegnante. Il padre avversava questa sua inclinazione letteraria, ma fu incoraggiato dalla futura premio Nobel Gabriela Mistral che gli fece da maestra tica Roma, si può apprendere che i carciofi si preparavano anche «togliendo le fibre, cocendoli in acqua e poi pestandoli con farro, insaporendoli con pepe, legandoli con uova». Tuttavia i Romani forse non li consideravano ancora abbastanza saporiti, se è vero che il tutto serviva unicamente «per poi farne dei salsicciotti guarniti con pinoli da grigliare avvolti nell’omento, bagnandoli con vino». Una ricetta davvero semplice, insomma: l’ideale per una cenetta leggera. La coltivazione del carciofo da noi conosciuto venne introdotta in Europa dagli Arabi, ma notizie molto dettagliate sul suo sfruttamento risalgono al secolo XV secolo, quando dopo vari innesti, dalle zone di Napoli si dif-
fuse prima in Toscana, e successivamente in molte altre regioni. Non subito prese per la gola i palati italiani questo alimento: quello Ariosto, Ludovico dell’Orlando furioso, non lo aveva in gran simpatia, «durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade». Ma proprio a partire da quegli stessi anni in cui il nostro grande poeta epico disprezzava il prodotto, l’ortaggio iniziò a comparire sempre più spesso nei trattati di cucina, dove si spiegava anche come trattarlo e tagliarlo. Discorso a parte merita, a riguardo dei carciofi, la ghiotta e superstiziosa Caterina de’ Medici. Pronipote di Lorenzo il Magnifico, madre premurosa che ben sistemò tre figli facendoli incoronare (Francesco II, Enrico III e Carlo IX),
riuscì a resistere molto bene ai veleni della corte di Francia. Non era bella, tutt’altro, tracagnotta e pallidina, definita con molto affetto «grassa bottegaia fiorentina», giunse a Marsiglia e andò in sposa al bellissimo Enrico II d’Orleans.
Nella rozza corte francese impose, nel cerimoniale, l’uso della forchetta e portò con se cuochi italiani e tante ricette proprio sui carciofi che lei, sterile a lungo, pensava potessero dargli molto giovamento. Parigi, in suo onore, nel 1549 diede un pranzo di gala che, stando alle cronache del tempo, prevedeva: 33 arrosti di capriolo, 33 lepri, 6 maiali, 66 galline da brodo, 66 fagiani, 3 staia di fagioli, 3 staia di piselli e 12 dozzine di carciofi. Roba da Pantagruele e con una numerologia da superstizione: tutte le portate erano divisibili per tre. La fama afrodisiaca del carciofo, derivante con molta probabilità dall’aspetto, andò di pari passo con la sua diffusione, ed era già ben radicata nel 1557, se tal medico Pietro Andrea Mattioli nei suoi Discorsi scrive: «la polpa dei carciofi cotti nel brodo
La sua influenza sulla poesia in lingua spagnola è stata considerevole e la sua reputazione è andata oltre i confini della sua opera, anche per il suo impegno politico antifascista e per una carriera diplomatica che lo condusse in molti paesi d’Europa
LA RICETTA = PASTA AI CARCIOFI
(PER 2 PERSONE) 4 carciofi mezzo limone prezzemolo 250 ml circa di brodo vegetale 2 spicchi d’aglio 2 cucchiai d’olio extravergine di oliva pepe sale 160 g di pasta
di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti». Un anno dopo un suo collega, tal Felici, gli da man forte attestando che «servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere». Riguardo alla preferenze dal modo di consumare i carciofi nel 1581 Montaigne, quello che una volta affermò che «il mangiare è uno dei quattro scopi della vita: non ho mai saputo gli altri tre», durante il suo grand tour annota che «in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi». Sembra affermarlo con sorpresa e con un certo senso di ribrezzo verso questo modo di preparare i carciofi, evidentemente non amava il pinzimonio mi vien da dire. Il gradimento di questo cibo non venne mai meno tanto che ai primi dell’Ottocento il grand gourmet francese Grimod de La Reyniere così lo decanta: «il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo ag-
Lavare i carciofi, togliere le foglie dure più esterne fino ad ottenere i cuori formati solo da foglie chiare e tenere, tagliare le punte. Tagliarli a metà, eliminare il fieno, ridurli a spicchietti e metterli in acqua acidulata con mezzo limone. E’ possibile utilizzare anche i primi 8-10 centimetri del gambo. Togliere la parte esterna più coriacea con un pelapatate e tagliarli ad anelli. Mettere anch’essi nell’acqua acidulata. Lavare un mazzetto di prezzemolo, selezionarne le foglie e tritarle con la mezzaluna su un tagliere. Scaldare il brodo. In una padella far imbiondire l'aglio nell'olio, quindi toglierlo. Lasciar raffreddare per qualche istante l’olio fuori dal fuoco, unire i carciofi ben scolati e farli saltare a fuoco vivo per un paio di minuti. Abbassare il fuoco, aggiungere un mestolo di brodo, un cucchiaino di prezzemolo tritato e lasciar proseguire la cottura per 10 minuti circa. Se il fondo di cottura dovesse asciugarsi troppo aggiungere altro brodo vegetale. A fine cottura unire una manciata di pepe e regolare di sale. Lessare la pasta in abbondante acqua salata e, poco prima di scolarla, aggiungere mezzo mestolo di acqua di cottura nella padella del condimento, quindi accendere il fuoco. Saltare la pasta scolata a fiamma vivace nella padella del condimento per qualche minuto, girando di frequente. Servire immediatamente decorando con prezzemolo tritato, pepe grattugiato e un filo d'olio a crudo.
giungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco». Oggi ci sono molte varietà di carciofo, ma i migliori, senza offesa per nessuno, sono la mammola (o carciofo romanesco) e il carciofo di Paestum, così buono perché sorge nella pianura del Sele, accanto ai resti della grande cittadina magnogreca. Gli abitanti del luogo affermano che sono così buoni soprattutto perché crescono in prossimità delle necropoli antiche, quasi fiori sulle tombe.
Ma è proprio il momento di sedersi a tavola, allora, a gustare questo prezioso alimento e lo facciamo in buona compagnia, con Pablo Neruda (1904-1973), pseudonimo di Neftali Ricardo Reyes y Basoalto, poeta cileno considerato uno dei maggiori del XX secolo. Nacque a Parral in Cile e cominciò a scrivere le prime poesie da giovanissimo per poi diventare insegnante. Il padre avversava questa sua inclinazione letteraria, ma fu incoraggiato dalla futura premio No-
bel Gabriela Mistral che le fece da maestra. Nel 1924 le Venti poesie d’Amore e una canzone disperata divennero un bestseller facendolo diventare uno dei più noti e giovani poeti latinoamericani. Neruda, grande genio immaginativo, ebbe una parabola poetica piuttosto complessa, sintetizzabile in passaggi repentini dal simbolismo al surrealismo fino a un realismo piuttosto concreto per un’espressività più semplice e immediata. La sua influenza sulla poesia in lingua spagnola è stata considerevole e tuttavia la sua reputazione internazionale è andata molto oltre i confini della sua opera, probabilmente anche per il suo impegno politico antifascista e per una carriera diplomatica che lo condusse in molti paesi d’Europa. Neruda è morto di leucemia a Santiago il 23 settembre 1973. Il poeta cileno in Italia è forse noto ai più nel volto di Philippe Noiret che lo inter-
preta nel famoso film del 1994 Il postino, tratto dal libro di Antonio Skarmeta Il postino di Neruda, accanto a uno straordinario Massimo Troisi e con una delle prime apparizioni di Maria Grazia Cucinotta.
L’invito che viene fatto dal poeta, Nobel per la letteratura nel 1971, è di quelli a cui non si può dire certo di no. Nelle sue Rime stravaganti, nella poesia La gran tovaglia, così richiama al desco «nell’ora azzurra del pranzo»: «Sediamoci presto a mangiare/ con tutti quelli che non han mangiato,/ disponiamo le lunghe tovaglie,/ il sale nei laghi del mondo,/ panetterie planetarie,/ tavole con fragole nella neve,/ e un piatto come la luna,/ dove tutti si pranzi./ Per ora non chiedo altro/ che la giustizia del pranzo». E una volta seduti cosa mettiamo a tavola? Semplice: «Nell’ora azzurra del pranzo,/ l’ora infinita dell’arrosto,/ il poe-
ta lascia la sua lira/ prende il coltello, la forchetta,/ mette il bicchiere sul tavolo,/ e i pescatori accorrono/ al breve mare della zuppiera./ Le patate ardendo protestano/ entro le lingue dell’olio./ D’oro è l’agnello sulla brace/ e la cipolla si sveste». Per Pablo Neruda in ogni carciofo c’è un tenero cuore in un’armatura da guerriero o, almeno, così lo canta nella sua «Ode al carciofo» dove immagina che la «pacifica polpa» dell’ortaggio si armi di spine per un improbabile sogno di vita militare, felicemente frustrato dalle mani di una donna.
Il poeta rappresenta questo ortaggio in compagnia di altri prodotti dell’orto,«la carota dai baffi rossi», la verza che «s’accanì a provarsi gonne», «l’origano a profumare il mondo» e, infine, «il dolce carciofo» al quale fa indossare un «vestito da guerriero/ brunito/ come una granata». Bene, tutti questi bei prodotti finirono poi un giorno «uno accanto all’altro/ in grosse ceste/ di vimini» al passo del contadino che li porta al mercato. Ma il carciofo tra tutti questi appare il più felice perché sta per «realizzare il suo sogno:/ la vita militare». I rumori del mercato appaiono al nostro amico ortaggio quelli della battaglia; gli indaffarati commercianti e la gente che saltella di banco in banco nient’altro che marescialli e generali fino «alla detonazione/ d’una cassa che cade» che null’altro sarebbe, per il nostro verde e spinoso eroe, la deflagrazione di un mortaio o di una bomba. Insomma, la battaglia incombe e si fa cruenta, almeno nella mente di questo vegetale così come lo ritrae con ironia allegorica Pablo Neruda. Poi d’improvviso sarà Maria a spezzare il sogno di gloria. La donna, infatti, «con la sua sporta,/ sceglie/ un carciofo,/ non lo teme,/ l’esamina,/ l’osserva controluce come un uovo,/ lo compra,/ lo confonde/ nella sua borsa/ con un paio di scarpe,/ un cavolo cappuccio/ e una bottiglia/ d’aceto/ finché/ entrando in cucina/ non lo immerge nella pentola». Ma cosa apprezza Neruda di questo tenero carciofo, quello che chiama «il vegetale armato»? Il centellinare squama dopo squama dei suoi sapori gustosi e ormai bonari che «spogliamo/ e mangiamo/ la pacifica polpa/ del suo cuore verde».
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LE GRANDI BATTAGLIE La spedizione fu l’apoteosi. Quando le camicie rosse sbarcarono a Marsala, neppure Garibaldi aveva chiaro dove intendesse arrivare. Fu lo scontro del 15 maggio a rivelare che si poteva arrivare molto lontano. Fino a Napoli uattro anni dopo la spedizione dei Mille, nel 1864, durante un viaggio trionfale in InGaribaldi ghilterra, andò a trovare, nell’isola di Wight, il poeta Alfred Tennyson. Prima del congedo, Tennyson lo pregò di piantargli un albero nel giardino della sua casa. Alcuni giorni dopo l’albero era completamente spoglio. Gli abitanti dell’isola avevano fatto a gara per impadronirsi ciascuno di una foglia, in ricordo dell’eroe. Oggi una cosa del genere potrebbe accadere a Tom Cruise, o a George Clooney. Non a un generale. Non a un politico. Non a un eroe. Di battaglie Garibaldi ne vinse moltissime, di qua e di là dell’Atlantico (e questo gli valse il titolo di «Eroe dei due mondi»).
DELLA
CALATAFIMI 1860
I Mille e i Borboni
Q
Ma la sua immensa popolarità, più che dalle vittorie in campo aperto, dipendeva dalla capacità di ideare e realizzare missioni impossibili, come quelle (virtuali) compiute da Tom Cruise sullo schermo. La spedizione dei Mille fu l’apoteosi. Mille volontari contro l’esercito del Regno delle Due Sicilie, per riunire l’Italia. Quando le camicie rosse sbarcarono a Marsala, neppure Garibaldi aveva ben chiaro in testa dove intendesse arrivare. E fu la prima battaglia – combattuta a Calatafimi il 15 maggio 1860 – a rivelare che si poteva arrivare molto lontano. Fino a Napoli. Il giorno prima dello scontro, a Salemi, Garibaldi aveva lanciato alcuni proclami nei quali si definiva «comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia» e «Dittatore nel nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia». Poi
Come un pugno di uomini fecero l’Italia unita di Massimo Tosti
proseguì la marcia verso Calatafimi, dove era segnalata la presenza di ingenti truppe bor-
Il combattimento avvenne in una zona collinosa in piena campagna, nei pressi dell’abitato, a mezza strada fra Salemi e Alcamo boniche (circa 25mila uomini), al comando del generale Francesco Landi. I rapporti di forza erano tali da non legittimare alcun dubbio sull’esito dello scontro. Nino Bixio – che non era certo un codardo – suggerì
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al suo comandante di ritirarsi. Sembra che la risposta fu: «Dove?». Non si poteva tornare indietro, non c’erano vie di fuga. Fu a questo punto che Garibaldi pronunciò una delle sue frasi che hanno fatto la storia: «Qui si fa l’Italia, o si muore», disse. Probabilmente, riteneva che la seconda ipotesi fosse la più concreta. E, invece, ogni previsione fu ribaltata.
Lo scontro avvenne in una zona collinosa in piena campagna, nei pressi dell’abitato di Calatafimi, a mezza strada fra Salemi e Alcamo. Garibaldi e Bixio avevano occupato la collina di Pietralunga con i loro circa mille fanti, 82 cavalieri, 4 cannoni e 200 “picciotti” forniti dal barone di Sant’Anna. I Napoletani, raccolti sul colle Chiantu de Romano («Villa del Romano») avevano 3.100 soldati regolari, 16 pezzi d’artiglieria e 196 cavalieri. Il coman-
do spettava al colonnello Sforza, ma al seguito della colonna viaggiava in carrozza anche il generale Landi, che di fatto assunse la responsabilità dello scontro. Occorreva una vittoria e subito, se si voleva superare la freddezza e la diffidenza dei Siciliani, innestando una vera rivoluzione nell’isola. Il generale Landi, accorso sul Chiantu de Romano, diede ordine immediato di prendere d’assalto le posizioni garibaldine, ritenendo che quell’ accozzaglia variopinta di volontari non fosse più pericolosa di una masnada di briganti. I Napoletani, convinti dai loro ufficiali di avere di fronte normali banditi, discesero animosamente dal Chiantu gridando: «Mo’ venimme, mo’ venimme, straccioni mariuoli», ma furono ricacciati da Pietralunga e dovettero ritirarsi sull’altura da dove erano partiti. La mossa successiva spettava ai Mille. L’unica tatti-
STORIA
ca su cui poteva contare Garibaldi, esperto di guerriglia sudamericana, era la carica alla baionetta. Sapeva infatti che i suoi, dotati di poche vecchie armi e di scarsissime munizioni, non potevano certo sviluppare un intenso volume di fuoco, che comunque sarebbe stato inefficace dovendo risalire un’erta collina.
Il disprezzo della morte e l’entusiasmo potevano invece aver ragione della superiore disciplina, del numero e del migliore equipaggiamento dei Borbonici. Calatafimi si risolse dunque in un assalto quasi suicida, in salita e sotto il fuoco dell’artiglieria e della fucileria nemiche. Garibaldi e Bixio divisero i loro uomini in due colonne e attaccarono lungo le terrazze e i vigneti del Chiantu. Quando giunsero all’ultima terrazza della collina i garibaldini si riposarono per un quarto d’ora al riparo dalle pallottole, ma furono bersagliati dalle pietre che i Napoletani facevano rotolare dalla sommità. Garibaldi stesso ne ricevette una sulla schiena che quasi lo tramortì, e quando si riprese ordinò la carica finale alla baionetta, che cacciò in disordine i Borbonici dalle loro posizioni. Alle sei di sera i Napoletani avevano lasciato sul campo 34 morti e un centinaio di feriti; quasi pari furono le perdite garibaldine. Sulla strada verso Palermo i disordinati reparti borbonici furono aggrediti da bande di insorti entusiasti per la vittoria di Calatafimi.Nel rientrare a Palermo, Landi fu costretto ad aprirsi la strada a cannonate, per difendersi dalle bande di ribelli che gli calavano addosso da tutte le parti e che andavano poi ad ingrossare le file dei garibaldini. La pazzia si stava trasformando in rivoluzione. Informata dell’esito della battaglia, la corte – a Napoli – perse la testa. Fu deciso di togliere il comando a Landi e affidarlo al generale Ferdinando Lanza, siciliano, ultrasettantenne, che impiegò alcuni giorni per arrivare a Palermo e organizzarne la difesa. I garibaldini erano sfiniti dalle marce forzate e dal caldo. Le munizioni scarseggiavano. Ma il generale fece un’altra mossa geniale, distaccando una colonna su Corleone, per costringere il migliore degli ufficiali borbonici, il colonnello Luka von Mechel, a inseguirla, nella convinzione che quello fosse il grosso dell’esercito garibaldino. All’alba del 27 maggio, le camicie rosse entrarono a Palermo, accolte dalle campane a martello e dalle ovazioni del popolo. Garibaldi sapeva che – per cacciarlo di lì – Lanza avrebbe potuto soltanto bombardare la città. E fu quello che Lanza ordinò, dai forti di Castellammare, provocando la morte di 600 civili, e la furia della popolazione.
CAPOLAVORI DI PIETRA l 20 dicembre 2008, dopo un lungo restauro che ha coinvolto le più sofisticate competenze della locale soprintendenza, Renata Codello, soprintendente ai monumenti di Venezia, ha potuto aprire al pubblico palazzo Grimani a Santa Maria Formosa, diventato museo. Si tratta di uno dei palazzi più singolari e fastosi del cinquecento veneziano, votato fin dalla sua rifigurazione cinquecentesca all’esposizione di una magnifica collezione di statue antiche che, raccolte da diversi cardinali della famiglia, sono infine confluite nelle mani del cardinale Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, umanista appassionato e ambizioso conoscitore di antichità classiche. Al gusto ‘romano’, cioè rivolto al mondo antico, il dovizioso prelato impronta la sua dimora veneziana, trasformando in una sontuosa residenza all’antica il palazzo medievale di famiglia che, privo di cortile interno, gode del doppio affaccio sul canale San Severo e sul rio Santa Maria. L’ingresso al nuovo palazzo, a pochi passi dal campo di Santa Maria Formosa, avviene da una piccola calle, sul fondo della quale si disegna uno sorta di arco trionfale in pietra d’Istria. Un grande portale ad arco, incorniciato da bugne rustiche alternate a bugne lisce, con una protome leonina in chiave, sostiene, tramite due mensole scanalate, una finestra ad arco a tutta altezza, affiancata da slanciate colonne corinzie e conclusa da un timpano curvo spezzato, nel quale è inserito un busto antico. Al centro del davanzale campeggia lo stemma araldico dei Grimani, sovrastato dal cappello cardinalizio; ai lati due piedistalli di marmo rosa sostengono teste di marmo antiche ed esibiscono un’epigrafe latina: Genio Urbis Augusti Usuique Amicorum.
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L’omaggio al genio di Roma imperiale si coniuga, nella frase di benvenuto del cardinale, con il piacere di offrire agli amici ospiti il godimento di un’eccezionale collezione archeologica, della quale l’ingresso fornisce un’efficace anticipazione. La trasformazione della residenza medievale dei Grimani in una moderna domus all’antica non è frutto di rapido momento, ma ha richiesto tempi lunghi, passaggi di proprietà, assestamenti dinastici e un cantiere che, sincopato in varie fasi, si dispiega dal 1532 al 1568, allorché il cardinale Giovanni rimane proprietario unico e incontrastato del palazzo. Al termine di tali vicende la residenza signorile ha raddoppiato la sua consistenza: le due ali originarie sono state raddoppiate, chiudendo una pianta quadrangolare, ritagliata al centro da una grande corte pressoché quadrata. Se si riflette al valore che ha a Vene-
CASA GRIMANI Il patriarca di Aquileia impronta la sua dimora veneziana come un museo
Il gusto dell’antico del prelato umanista di Claudia Conforti
za di un terremoto o di un cedimento delle fondazioni. Al contrario: è un sofisticato dispositivo strutturale, detto architrave tripartito, già in uso nell’architettura romana antica, ma sconosciuto a Venezia. Esso ha lo scopo di assorbire i cedimenti della struttura, dovuti a un terreno instabile come è quello veneziano, pertanto avrà un immediato e vasto seguito presso i costruttori lagunari.
Alla novità tipologica il palazzo associa dunque anche quella costruttiva, ugualmente debitrice all’antico, come le sculture, le epigrafi, le gemme, i rilievi e le monete, profusi nel piano nobile, a cui si accede tramite uno scalone cerimoniale, paragonabile a quello di palazzo Ducale. Esso è coperto da una sontuosa volta, scompartita da finissimi stucchi che replicano antichi cammei della collezione Grimani e incorniciano dipinti di Federico Zuccari di ambientazione romana, celebranti le virtù e le arti. Esiste una seconda scala ovale, ad uso privato: essa è assegnata a Pal-
È una delle costruzioni più singolari del ’500 veneziano, votata fin dall’inizio ad esporre una magnifica collezione di statue antiche
Il palazzo del Cardinale Giovanni Grimani a Venezia zia il suolo, strappato a fatica alla laguna, si coglie l’effetto che doveva suscitare l’ampio cortile, un lusso fino ad allora inusuale nella città di San Marco. La sua ampiezza è ulteriormente accresciuta da quattro profondi portici non comunicanti che scavano le facciate in maniera diseguale, sotto i quali troneggiavano, fino all’Ottocento, le grandiose statue di Augusto e Agrippa. La prodigalità dello spazio è impreziosita dalla sontuosità dei materiali: marmo rosa di Verona per gli slanciati fusti delle colonne, che accendono
Dopo un lungo restauro è di nuovo aperto al pubblico il palazzo di Santa Maria Formosa, diventato sede espositiva un contrasto cromatico con il candore marmoreo delle basi, dei capitelli dorici e dell’architrave. Spicca la loggia corrispondente all’ingresso sia per estensione che per il sontuoso intaglio che modella i capitelli marmorei, i soli di ordine ioni-
co, di provenienza archeologica. I portici sono architravati, cioè non reggono archi, ma un semplice architrave, che qui appare fratturato. Netti tagli obliqui separano il blocco soprastante i capitelli dalle due sezioni laterali: non sono conseguen-
ladio per le stringenti analogie con quella da lui costruita, sempre a Venezia, nel convento della Carità. Gli ambienti del piano nobile dispiegano una sequenza di soffitti variamente affrescati e stuccati da artisti come Giovanni da Udine, Camillo Mantovano, Francesco Salviati, Lambert Sustris e Francesco Menzocchi, che configurano una stupefacente galleria d’arte, impreziosita da pareti dipinte, pavimenti policromi, camini e mostre di porte, da lasciare veramente attoniti. L’ammirazione si traduce in assoluta meraviglia quando si raggiunge la Tribuna di Ganimede: una sala angolare a doppia altezza, coperta da una vertiginosa volta cassetto nata a quattro vele, conclusa da una monumentale lanterna, da cui piove la luce che bagna la statua di Ganimede rapito da Giove in sembiante di aquila, volteggiante nell’aria. Lo strepitoso gruppo statuario, copia romana da originale greco, fu importato da Costantinopoli. La fantasmagorica collezione alla morte del cardinale confluì nello Statuario della Serenissima, nucleo originario dell’attuale Museo Archeologico veneziano.
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ORIZZONTALI 1 Nel 1921 fu spartita fra Polonia, Germania e Cecoslovacchia n 7 Julio, cantante di musica leggiera n 15 Jacques Xxxxxx, più volte premier francese n 21 Romanzo di Orwell n 24 Terreno di contesa n 25 Becchino n 26 Massiccio dell’Asia Centrale n 27 Claude Autant-Xxxx, regista francese n 28 Nota n 29 Salve! Pronto! (var.) n 30 Adesso n 32 Canta nella Bohème n 33 Xxx di Capua, fatali ad Annibale n 34 Musicò Wozzek n 36 Grazie, xxx! film di S. Samperi n 37 Iniz di Petrolini n 38 Napoli n 40 Imperfezione o vezzo n 41 Iniz. dell’architetto Zanuso n 42 Bagna la Basilicata n 44 Località della Dordogna dove furono trovati resti di ominidi n 47 Elemento chimico usato come emetico n 49 I Xxxxxxxx di Platone n 50 Scrisse l’Aminta (iniz.) n 52 Fiume dell’Asia Centrale n 53 Iniz. del poeta Aleardi n 54 Zinco n 55 Xxx bel Danubio blu n 56 “Al sole” e “Alla gioia” n 57 Xxx condicio n 58 Convalidato legalmente n 60 Xxx vestiti che ballano di Rosso di San Secondo n 62 Xxxxx mediocritas n 64 Rieti n 65 La xxxx humaine di Zola n 66 Xxxxx Curule, magistrato dell’antica Roma n 68 Sbaragliò Dario a Isso n 71 Satelliti meteorologici USA (196065) n 72 Fu fondato da Goffredo di Buglione n 75 Lago della Finlandia n 76 Errori n 77 Il regista di Ordet
CRUCIVERBA
di P. F. Paolini
QUIZ LETTERARIO
Il massiccio dell’Asia centrale
CHI È L’AUTORE DI QUESTO QUADRO? .................................. (1528-1588)
DI QUALE ROMANZO DEL 1860-61 È QUESTO INCIPIT?
VERTICALI 1 Gara di sci n 2 Opera di Rossini n 3 Magistrati di Sparta n 4 Intera n 5 ...come son xxx e come se ne vanno... (Parad. XVI) n 6 La “chiocciola” n 7 Impeti violenti n 8 Lillian Xxxx, interprete di Intolerance (1916) n 9 Romice n 10 Il nome dell’editore Rusconi n 11 Quintino Xxxxx, ministro delle Finanze (1862 e 1864-5) n 12 Abitazione eschimese n 13 Sale nei prefissi n 14 Compose l’opera lirica n Lou Saomè (1981) n 15 Cuneo n 16 Un triplice xxx precede l’urrà 17 Autorità religiosa islamica n 18 Gioco di carte n 19 Apparecchio che fornisce corrente n 20 Soc. Alimentare finita in tribunale n 22 Parte del pistillo n 23 Dal volto rimovea quell’xxx grasso... (Inf. IX) n 28 Il suo famoso “ultimo teorema” non è stato ancora dimostrato n 31 Lo schiaffo di Xxxxxx n 34 Golfo n 35 Valentin Xxxxxxxx, detto El Campesino, guerrigliero durante la Guerra Civile spagnola n 37 Epoca n 39 Per cucire n 42 Iniz. di Tobino n 43 Anaïs Xxx, scrittroce: Il delta di Venere n 44 Tra le foci di Sele e Busento n 45 Marilyn Xxxxxx n 46 Nichelio n 48 Precisi n 49 Architetto francese (17601834) n 51 Mon Xxxxxx, cane di Turgenev in Memorie d’un cacciatore n 52 Giaggiolo n 55 n Xxxxx Hayward, attrice n 57 Xxxxx B. Shelley, poeta n 59 Xxxx abbas, semper abbas n 61 Unità di misura degli angoli piani n 62 Campione n 63 ...o caro Xxxx, tu taci / né rispondi a colei ch’amasti tanto (Lamento di Venere per la morte dell’amato, nel poema di G. Marino) n 65 Livore n 67 Moglie di Alfonso XIII do Spagna n 69 Folletto nella mitologia anglosassone n 70 Aveva la capitale a Salò n 71 Xxx di Nona, antico teatro romano n 73 Is, xx, id n 74 Padova
l cognome di mio padre essendo Pirrip e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a cavare da entrambi nulla di più lungo o di più esplicito che Pip. Così mi chiamai Pip, e Pip finii per essere chiamato. Che il cognome di mio padre fosse Pirrip, lo dico sulla fede della sua lapide e di mia sorella – la signora Gargery – che sposò il fabbro. Poiché non ho mai visto né mio padre né mia madre, e non ho mai visto ritratti di nessuno dei due (i loro giorni avendo preceduto di gran lunga l’èra dei fotografi), le mie prime fantasticherie sul loro aspetto fisico furono irragionevolmente dedotte dalle loro pietre sepolcrali. La forma delle lettere su quella di mio padre mi suggerì la strana idea che fosse un uomo tozzo, quadrato, scuro, dai capelli neri e ricci. Dai caratteri e dalla forma dell’iscrizione «E Georgiana, Moglie del Sullodato», trassi la fanciullesca conclusione che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra, lunghe quarantacinque centimetri l’una, disposte in bell’ordine lungo la tomba e consacrate alla memoria di cinque miei fratellini – che rinunciarono eccessivamente presto a tentar di guadagnarsi il pane in questa lotta di tutti contro tutti – sono debitore della credenza, religiosamente intrattenuta, che fossero nati tutti quanti sulla schiena e con le mani in tasca, e che, in questo stato di esistenza, non le avessero mai tirate fuori. Abitavamo nella zona paludosa giù dal fiume, a venti miglia – dati i serpeggiamenti del fiume – dal mare. Sembra che la prima, più viva e vasta impressione dell’identità delle cose, l’abbia ricevuta in un memorabile scontro, un pomeriggio verso sera. Seppi allora per certo che il terreno biancheggiante folto di ortiche era il cimitero; e che Philip Pirrip...
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L’AUTORE DEL QUADRO DI IERI È: Massimo Campigli, “Due ballerine”(1938)
Il cruciverba di ieri
LA SOLUZIONE DI IERI È: Elsa Morante, “La storia”(1974)
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inserto a cura di Rossella Fabiani
economia
22 agosto 2009 • pagina 17
Recessione. Annuncio a sorpresa negli Stati Uniti: «Il peggio è stato evitato, anche se restano ancora grosse sfide»
Anche Bernanke fa l’ottimista Il presidente della Fed: «La crisi sta finendo». Volano le Borse di Gaia Miani ono bastate poche frasi del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, per far volare le Borse in tutto il mondo. «Abbiamo di fronte ancora delle difficili sfide – ha detto il presidente della Fed, in un intervento (molto atteso) a un simposio che si è tenuto a Jackson Hole, in Wyoming – ma abbiamo evitato il peggio». Secondo Bernanke, dunque, l’economia americana inizia a emergere dalla recessione: «Dobbiamo lavorare insieme per assicurare una crescita sostenuta», ma ci troviamo su un «terreno più stabile», anche se «la ripresa non sarà rapida».
ni, grazie al calo dei prezzi e agli incentivi fiscali che continuano a incoraggiare gli acquirenti. L’indice delle vendite, stilato dall’associazione di settore National Association of Realtors, ha registrato un rialzo del 7,2 per cento: un aumento superiore alle previsioni degli analisti. Sulla scia di Wall Street, hanno allungato il passo anche le principali Borse europee: Londra guadagna l’1,91% e Parigi il 2,96%, sostenuta da Alstom (+6,31%), dopo il via libera del consiglio di stato cinese alla realizzazione di linee metropolitane in 22 città cinesi; Francoforte guadagna il 2,67%, con il balzo di Volkswagen (+6%), che ha annunciato il raddoppio degli investimenti in India per aumentare la propria capacità produttiva. Più caute Milano (+1,9%) e Zurigo (+1,78%), brillanti Stoccolma (+2,49%) e Madrid (+2,35%).
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L’attività economica, insomma, sembra stabilizzarsi «negli Stati Uniti e all’estero» e le prospettive per un «ritorno alla crescita nel breve termine appaiono buone». Ma la ripresa sarà comunque probabilmente «lenta all’inizio con la disoccupazione che scendera’ solo gradualmente dai picchi attuali». Dall’ultimo simposio di Jackson Hole un anno fa - ha constatato Bernanke - l’economia mondiale
La risposta positiva di Wall Street è legata anche a un dato positivo sulla vendita delle case negli Usa: in luglio sono cresciute al livello più alto degli ultimi due anni è migliorata: «Dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il mondo ha attraversato la più severa crisi finanziaria dalla Grande Depressione». Ma nonostante i miglioramenti, «sfide cruciali restano» e fra queste il persistere delle tensioni sui mercati finanziari e le difficoltà di imprese e famiglie nel cercare di ottenere credito. L’aggressiva risposta alla crisi decisa dalle autorità di tutto il mondo ha aiutato ad allentare la recessione e a stabilizzare i mercati finanziari: senza questi interventi - ha aggiunto il presidente della Fed - la crisi sarebbe stata anche peggiore. «Non possiamo sapere di sicuro quali sarebbero stati gli effetti, ma sappiamo che gli effetti visti ci suggeriscono che la recessione globale sarebbe stata straordinariamente più profonda e prolungata». «La storia - ha speigato Bernanke - è piena di esempi in
cui le risposte politiche alle crisi finanziarie sono state lente e inadeguate. In ultima analisi, risultano spesso più danni economici e l’aumento dei costi fiscali. In questa ultima crisi, al contrario, i responsabili politici negli Stati Uniti e in tutto il mondo hanno risposto con la velocità e la forza per arrestare un rapido e pericoloso deterioramento della situazione».
«Guardando al futuro continua il presidente della Federal Reserve - dobbiamo urgentemente affrontare le debolezze strutturali del sistema finanziario, in particolare nel quadro normativo, per garantire che l’enorme costo degli ultimi due anni non si verificherà di nuovo». Bernanke ha infine ribadito la necessità di una drastica riforma della regolamentazione dei mercati e ha chiesto ai banchieri centrali presenti a Jackson Hole
di continuare a lavorare per smorzare la crisi finanziaria così da favorire una crescita sostenuta: «Solo le banche centrali possono contrastare bruschi cali della liquidità o del credito. E devono essere sempre pronte a farlo». «Spero e mi auguro - ha concluso Bernanke - che quando ci incontreremo fra un anno qui saremo in grado di constatare i progressi nel raggiungimento di questi due obiettivi».
Le parole del presidente della Federal Reserve hanno immediatamente fatto da traino a Wall Street, dove fin dalle prime battute i listini hanno fatto registrare rialzi molto sensibili. Appena un’ora dopo l’inizio delle contrattazioni, il Dow Jones guadagnava 139,05 punti (+1,43%) a 9.489,10; il Nasdaq cresceva di 24,66 punti, (+1,22%) a 2.013,39 e lo S&P 500 avanzava di 15,30 punti (+1,52%) a 1.022,67. A diffondere ottimismo tra gli operatori anche i dati sulle vendite di case negli Stati Uniti. In luglio le vendite sono cresciute al livello più alto in quasi due anni e al passo più sostenuto in oltre dieci an-
Petrolio-record: 74 dollari al barile L’ottimismo sullo stato delle economie dell’area euro e la debolezza del dollaro spingono al rialzo il petrolio che negli scambi elettronici al Nymex di New York ieri ha toccato i 74,05 dollari al barile, il massimo da ottobre scorso, con le quotazioni in crescita del 2,1%. In assenza di novità sull’offerta e la domanda i corsi dell’oro nero seguono la scia delle borse mondiali, ieri positive dopo i dati sull’indice Pmi, che segnala una stabilizzazione nei servizi e nell’industria dell’eurozona, che potrebbe preludere a un’uscita dalla recessione. A Londra il Brent del mare del Nord sale a 74,30 dollari, sotto quota 76 toccata a inizio agosto. L’indice Pmi di agosto ha avuto l’effetto di far cadere il dollaro, a 1,4337 per euro, un altro fattore che invita gli investitori a comprare materie prime per coprirsi dall’inflazione. Intanto dagli ììUsa sono nuovamente giunti segnali contrastanti sull’andamento dell’economia. Da un lato sviluppi deludenti sul lavoro,dall’altro un balzo in avanti dell’attività nel manifatturiero.
Apparentemente più pessimista di Bernanke è Martin Feldstein, professore di economia all’università di Harvard che, intervistato da Bloomberg Tv ha affermanto che l’economia americana è a rischio di una nuova contrazione il prossimo anno dopo che gli effetti del piano di stimolo fiscale varato dall’amministrazione si esauriranno. Secondo Feldstein, «l’economia è ancora debole e non è ancora chiaro se il miglioramento a cui abbiamo assistito recentemente sia l’inizio di una sostanziale ripresa. C’è il serio rischio che fra le fine dell’anno e l’inizio del prossimo possiamo assistere a un nuovo calo». Sempre su Bloomberg Tv, l’economista Allen Sinai ha giudicato come «cautamente ottimista» l’intervento di Bernanke a Jackson Hole. Sinai ritiene che la Fed potrebbe iniziare ad alzare i tassi di interesse dalla metà del 2010 e che tecnicamente la recessione potrebbe finire fra settembre e novembre. Ieri, sui giornali italiani, il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, aveva definito il percorso di uscita dalla crisi ancora «lungo e difficile», invitando il governo Berlusconi a varare nuove misure già a settembre per evitare «un autunno davvero difficile».
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Caucaso. Terrorismo: kamikaze a Grozny. Rivendicato il disastro in Siberia l terrorismo ceceno sembra aver rialzato la testa. Un tesi emersa dopo che un gruppo islamista ha rivendicato la responsabilità del disastro che ha colpito la centrale idroelettrica in Siberia, con un bilancio di 76 vittime, tra morti e dispersi. E gli attacchi suicidi avvenuti, ieri nel primo pomeriggio, a Grozny che hanno causato vittime tra i poliziotti. La rivendicazione per il primo evento sarebbe stata pubblicata sul sito kavkazcenter.com, che viene considerato la voce dei gruppi fondemantalisti islamici. «Il 17 agosto è stato effettuato un sabotaggio in Khakassia, nella centrale di Sayano-Shushenskaya», recita la rivendicazione del gruppo che si autodefinisce «Riyadous Salikhiin».
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I separatisti ceceni minacciano Mosca di Pierre Chiartano
«Nella sala macchine siamo riusciti a mettere una granata anticarro, la cui esplosione ha prodotto enormi danni, ben superiori a quelli che potevamo sperare», recita il comunicato pubblicato dal sito ribelle. Nulla al momento può confermare l’autenticità della rivendicazione. Il gruppo, che sarebbe legato al leader ceceno latitante, Doku Umarov, sostiene di aver «preso la decisione d’iniziare la guerra economica contro la Russia sul suo territorio e che prenderà di mira oleodotti, centrali elettriche e linee dell’alta tensione». Sempre lo stesso sito web, legato ai gruppi indipendentisti ceceni, ha precisato di essersi limitato a mettere on line questo messaggio e anche quello della rivendicazione dell’attentato kamikaze contro la centrale di polizia di Nazran, in Inguscezia. La commissione investigativa russa che si occupa dell’incidente ha però sostenuto, ieri, di non avere prove che accreditino la pista terroristica, dopo la rivendicazione del gruppo fondamentalista ceceno. Lo scrive l’agenzia di stampa Interfax. Secondo gli inquirenti, nella sala macchine della centrale non sarebbero state trovate tracce d’esplosivo. «Nel quadro dell’inchiesta, le differenti versioni sull’origine dell’incidente sono oggetto di verifica», ha premesso il portavoce della commissione Vladimir Markin. «In ogni caso - ha continuato la versione dell’attentato non è stata confermata. Gli artificieri dell’Fsb non hanno scoperto tracce d’esplosivo sul luogo dell’incidente». Secondo gli inquirenti il numero di vittime è ormai salito a quota 30. Una vicenda
gratuite delle truppe russe e dei loro pretoriani locali a Grozny e in tutta la regione. In questo modo fu sottomessa la Cecenia come Inguscezia e il Daghestan. E proprio dalla Cececnia è arrivata, sempre ieri, la notizia di altri attacchi suicidi. Dei kamikaze in bicicletta avrebbero ucciso almeno quattro polizziotti in attacchi separati, ieri, nella capitale Grozny. Un episodio che conclude una settimana di sangue nella regione caucasica che ha avuto come obiettivi principali i rappresentanti delle forze di sicu-
rezza. Giovedì, in Inguscezia un camion bomba, contro una caserma della polizia, aveva provocato 25 morti e circa 280 feriti.
che fa il paio con la nuova recrudescenza di attentati in Cecenia, con le quattro bombe esplose ieri a Grozny.
Dopo aver cavalcato la campagna contro il terrorismo ceceno, che tanti dubbi aveva provocato in Anna Politoskaja e Alexander Litvinenko, come il cavallo di troia per la conquista definitiva del potere in Russia,Valdimir Putin sembra oggi esserne più vittima che regista. Ricordiamo che sono ormai numerose le testimonianze che raccontano come le bombe fatte saltare in alcuni caseggiati della capitale russa negli anni Novanta, siano stati opera di agenti dei servizi, per giustificare l’intervento in Cecenia. Il pri-
mo ministro russo si è recato, ieri, in visita alla centrale idroelettrica siberiana, dove lunedì scorso si è verificato il grave incidente costato la vita a decine di dipendenti. Lo riferisce l’agenzia Interfax, precisando che Putin «si è mostrato scosso durante la visita all’impianto SayanoShushenskaya», il più grande
nell’impianto e promesso alle famiglie delle vittime l’assistenza del governo.
Secondo il ministero dell’Ambiente di Mosca, sono state rimosse oltre 30 tonnellate di carburante che si erano riversate nel fiume Yenisei, dopo l’incidente in cui è crollata la sala turbine inondata dall’acqua contenuta nel bacino idrico. Segnaliamo come il conto tra zar Putin e i ribelli ceceni sia ancora aperto, e che fino ad oggi ha provocato un confronto molto violento, combattuto senza esclusione di colpi. Dai bombardamenti indiscriminati, all’elimnazione di decine di giornalisti che volevano raccontare le violenze
I ribelli musulmani avrebbero deciso d’iniziare «una guerra economica contro la Russia, colpendo gli oleodotti, le centrali elettriche e le linee dell’alta tensione» della Russia, dove nella notte sono stati individuati i corpi di altre vittime, facendo salire ulteriormente l’elenco dei morti accertati, mentre altri 49 tecnici restano ancora dispersi. Putin ha ringraziato le squadre di soccorso all’opera
Un estate veramente gravida di sangue per le forze federali russe e i loro alleati, che hanno dovuto subire lo stillicidio di attacchi quotidiani. Una situazione che sta rendendo il clima politico della regione – dove è presente un forte movimento separatista a matrice musulmana – veramente pesante, anche per i più fedeli alleati di Mosca. «Recentemente avevamo avuto l’impressione che la stituazione nel Caucaso, riguardo il terrorismo, fosse migliorata» aveva affermato il presidente Dimitri Medvedev, in una riunione con i capi delle forze di sicurezza russe, mercoledì scorso. «Sfortunatamente gli eventi più recenti ci dimostrano che così non è. E se il nostro lavoro dovesse fermarsi, potremmo assistere a episodi ancora peggiori» aveva poi concluso. A fine luglio, sempre a Grozny, un kamikaze che stava tentando di entrare in un teatro, aveva ucciso sei persone, compresi quattro poliziotti che tentavano di fermarlo. Oggi, la rivendicazione di uno dei peggiori disastri a strutture strategiche, come una centrale elettrica importante come quella siberiana. Se dovesse rivelarsi attendibile, aprirebbe un capitolo imbarazzante per il Cremlino: il conto profitti e perdite della ”folle” campagna cecena.
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Offensiva per vendicare 21 militanti islamici uccisi
Nascondigli di armi ed esplosivi nella regione di Herault
Somalia, scontri tra esercito e Al Shabaab: oltre 20 morti
Francia, scoperti altri due covi dell’Eta
MOGADISCIO. Almeno 22 persone hanno perso la vita durante i combattimenti avvenuti a Mogadiscio tra le forze filogovernative e gli estremisti islamici di Al Shabaab. Gli scontri sono cominciati nelle prime ore del mattino di ieri, quando centinaia di ribelli armati hanno sparato contro le truppe fedeli all’esecutivo. Numerose persone sono state colpite mentre si recavano al lavoro al mercato di Bakara, dove lo scoppio di una bomba ha dilaniato i corpi di cinque commercianti. Altri quattro civili sono stati uccisi in altre zone della capitale da colpi di mortaio. Dal maggio scorso, i ribelli hanno lanciato una dura offensiva a Mogadiscio contro il governo del presidente Sharif Ahmed. Ma in questo caso specifico, l’offensiva dei militanti di Al Shabaab sembra essere legata all’uccisione di 21 terroristi da parte dell’esercito negli scontri di giovedì a Bulobarde, una città a 220 chilometri a nord di Mogadiscio. Dall’inizio del 2007, nelle violenze sono morti oltre 18.000 civili e un milione ha abbandonato le proprie case.
PARIGI. Le autorità francesi hanno individuato due nuovi nascondigli di armi ed esplosivi dell’Eta nella regione di Herault, a poche ore di auto dalla frontiera con la Spagna, nelle città di Ferrals-les-Montagnes e Vieussan. Con questo ritrovamento, sale a cinque il numero dei covi scoperti in Francia questa settimana. Il ritrovamento è avvenuto solo 48 ore dopo l’arresto di tre membri dell’organizzazione terroristica spagnola avvenuto mercoledì in una località alpina della Francia, Les Corbier. I tre sono sospettati per gli attentati di Maiorca in cui hanno perso la vita due agenti della Guardia Civil, e saranno trasferiti a Parigi per essere interrogati dagli
Secondo le agenzie di sicurezza occidentali, la Somalia, dilaniata da 18 anni di guerra civile, è diventata il rifugio degli estremisti islamici. Per gli
Adesso Ahmadinejad corteggia i riformisti Il governo iraniano cerca la fiducia in Parlamento di Antonio Picasso lla fine di questo mese il nuovo governo iraniano presieduto da Mahmoud Ahmadinejad dovrà ricevere la fiducia da parte del Parlamento nazionale. Il voto dei 290 membri della Majles è tutt’altro che scontato. I riformisti, forti delle manifestazioni di questi due mesi, sono sul sentiero di guerra. Ma quel che sorprende sono le perplessità espresse in merito all’esecutivo entrante da parte del fronte conservatore. Stiamo parlando di una rappresentanza parlamentare di ben 156 membri, molti dei quali hanno dichiarato la loro contrarietà riguardo le innovazioni introdotte dal Presidente iraniano in questo governo. Dei 21 ministri totali, due terzi sono nuovi. Ahmadinejad ha voluto effettuare un ricambio significativo che ha portato all’allontanamento di titolari dei dicasteri più importanti nell’ambito delle politiche sociali nazionali. Il Ministro della Salute, Kamran Baqeri, quello dell’Energia, Parviz Fattah, e quello del Lavoro, Mohammad Jahromi, sono stati inaspettatamente sostituiti. Nuovi nomi anche per quanto riguarda il dicastero del petrolio, con Massud MirKazemi, e dell’Intelligence, il cui controllo è stato affidato al fedelissimo del Presidente, Heydar Moslehi. Contrariamente ai pronostici di qualche settimana fa, Manoucher Mottaki è stato confermato quale capo della diplomazia iraniana.
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a loro volta, sono stati messi all’indice perché ritenuti non all’altezza dell’incarico e soprattutto perché non sono mujtahed, vale a dire appartenenti alla casta religiosa in grado di interpretare la sharia, requisito che i titolari del dicastero devono rispettare per legge.
La scelta del presidente iraniano nasce evidentemente da un calcolo politico sì spregiudicato ma altrettanto puntiglioso. Ahmadinejad sa che la sua sopravvivenza alla guida del Paese dipende dal Consiglio dei Guardiani, quindi dall’organo istituzionale più conservatore del clero sciita. Ma è anche consapevole che questi ultimi, nel caso in cui il regime rischiasse di crollare sotto il peso dell’opposizione, non si porrebbero alcuna remora a farne il capro espiatorio. Il Presidente iraniano è inoltre conscio delle criticità strutturali attraversate dal Paese. L’isolamento internazionale, ma soprattutto il crollo dei prezzi del petrolio – connesso a una politica di welfare scialacquatrice – hanno portato l’Iran quasi alla bancarotta. Da tutto questo, è emersa la necessità di circondarsi di volti nuovi, non troppo vicini agli Ayatollah e da mettere alla prova per la definizione di una politica economica di ripresa. L’ultra-conservatore Ahmadinejad sta cercando di allontanarsi dai suoi protettori. Sta cercando di mettere in luce la sua estrazione laica e di appartenenza a una generazione successiva rispetto a quella del clero. La media di età dei Guardiani è infatti oltre i 70 anni. Il Presidente è nato nel 1956 e fa parte della seconda ondata della classe dirigente post-rivoluzionaria. L’obiettivo sarebbe ingraziarsi i bazari, la potente lobby commerciale che manovra le leve degli affari a Teheran. Forse spera anche di allontanare gli attacchi dell’opposizione riformista dalla sua persona e far in modo che si concentrino solo sulla Guida Suprema, Ali Khamenei. Ciò che manca a questa impresa temeraria è però il tempo. La Majles è convocata il 30 agosto. Sette giorni non bastano per far cambiare idea ai riformisti, ottenere la loro fiducia e limitare così lo strapotere degli Ayatollah.
La decisione della Majles è tutt’altro che scontata. Anche perché il nuovo governo non piace al fronte conservatore
Stati uniti, i militanti di Al Shabaab rappresentano il braccio di al Qaeda in Somalia. La comunità internazionale si è impegnata per rafforzare il governo del presidente Sharif Ahmed contro la lotta al terrorismo. Ed è sempre di ieri la notizia che il governo australiano ha inserito il gruppo estremista islamico somalo Shebab sulla lista delle organizzazioni terroristiche dopo l’arresti di cinque uomini legati al gruppo sospettati di aver preparato un attacco suicida contro una base militare nei pressi di Sydney. Dalla Somalia un portavoce di Shebab, Sheikh Ali Mohamoud Rageha, ha negato ogni legame con le persone arrestate in Australia.
Le critiche che il movimento conservatore Principlist ha rivolto al Presidente riguardano sia le modalità di scelta sia le singole persone chiamate in causa. In primis la “quota rosa”, introdotta per la prima volta in un governo iraniano e composta da tre donne: Marzieh Vahid-Dastjerdi al Ministero della Sanità, Fatemeh Ajorlou agli Affari Sociali e Susan Keshavarz promossa da vice a ministro dell’Istruzione. Con una dichiarazione di progressismo che nessuno si sarebbe aspettato da lui, Ahmadinejad ha motivato la scelta sostenendo che le «donne possono essere ministri persino migliori degli uomini». Parole di emancipazione sociale inaccettabili per l’austera classe clericale – tutta maschile – alla guida del Paese. Mir-Kazeimim e Moslehi,
agenti dell’anti-terrorismo. In seguito ad un altro raid nella città di Ferries, a 40 chilometri dal confine con la Spagna, la polizia francese ha trovato 112 chilogrammi i nitrato di ammonio e 12 litri di nitrometano, utilizzati per creare ordigni esplosivi. Ieri ne sono stati scovati altri due «molto importanti», a detta degli investigatori, uno a Camplong ed uno ad Helette. Il primo di questi, era fornito di «una grande quantità di apparecchiature elettroniche per la fabbricazione di bombe, due revolver con 2.600 cartucce, un silenziatore, 450 metri di miccia detonante, 83 caps esplosivi, altre sostanze esplosive, radio portatili, travestimenti da poliziotti e vari documenti», ha dichiarato il ministero degli Interni spagnolo.
Il ritrovamento dei nascondigli è avvenuto in seguito alle intercettazioni fatte dalla polizia spagnola. Tre sospetti sono stati trasferiti nei locali della direzione antiterrorismo Sdat di Parigi. Durante la sua campagna di lotta indipendentista, l’Eta ha causato la morte di 828 persone. Tradizionalmente ha diretto i suoi attacchi contro obiettivi spagnoli ed ha utilizzato alcuni covi nel sud della Francia per nascondere armi e terroristi.
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Scommesse. Inizia oggi il campionato di calcio e Pierpaolo Marino per lo scudetto vede una corsa a due tra i bianconeri e l’Inter
«La rivincita della Juve» Per il direttore del Napoli, Diego è il miglior acquisto e Ferrara «potrebbe emulare Guardiola» di Franco Insardà
ROMA. «Il miglior colpo del mercato l’ha fatto la Juventus con Diego». Parola di Pierpaolo Marino. Il direttore generale del Napoli non ha dubbi sulle qualità del centrocampista brasiliano che ha già fatto vedere ottime cose nel precampionato: «È il miglior calciatore di fantasia, un misto tra Maradona e Platini, con lui la Juve farà il salto di qualità che le serviva. Credo che abbia colmato il gap con l’Inter e le contenderà il primato». Marino è un personaggio schivo, non fa pesare la sua competenza che gli deriva da trentadue anni di calcio professionistico, una vita considerando che ha 55 anni e in gioventù ha fatto anche l’arbitro e il giornalista sportivo. Chiacchierarando con lui si ha l’impressione di sfogliare l’album Panini o l’almanacco di ieri e di oggi: Stefano Tacconi, Andrea Carnevale, Luciano Favero, Beniamino Vignola, Adriano Lombardi, Ciccio Romano, Oliver Bierhoff, Antonio Di Natale, David Pizarro, Vincenzo Iaquinta, Ezequiel Lavezzi, Walter Gargano e Marek Hamsik sono soltanto alcune delle sue scoperte, protagonisti del nostro campionato. Dal “suo”Avellino al Napoli dello scudetto con Maradona, alla Roma, passando per Pescara e Udinese fino all’incontro con Aurelio De Laurentiis e il ritorno all’ombra del Vesuvio. Oggi si alza il sipario sul campionato che parte già con le polemiche tra Mourinho e Lippi e l’idea di Berlusconi di mettere un tetto agli stipendi dei calciatori. Per il calcio questo non è un momento eccezionale, tranne qualche eccezione, soprattutto spagnola. La crisi economica mondiale ha fatto ridimensionare i piani di molti club, altri hanno puntato a recuperare liquidità. Secondo Pierpaolo Marino ad accusare il colpo sono soprattutto i club medio-piccoli. «Le grandi società – dice – hanno fatto la loro campagna acquisti senza grossi problemi. Tranne il Milan e la Roma che stanno vivendo una crisi strutturale dovuta ai agli investimenti fatti negli anni scorsi. Il mercato è abbastanza bloccato, molti giovani sono già nei grandi club, in serie B c’è poco, così in questo momento vanno tenuti sotto controllo i campionati
esteri. Infatti seguo molto attentamente le squadre argentine e uruguayane».
Le cessioni di Kakà e Ibrahimovic fanno pensare a un ridimensionamento delle ambizioni europee con un calcio continentale che continuerà a parlare inglese e spagnolo. Marino, però, la pensa diversamente: «È la prima impressione che si ha, ma in Spagna e in Inghilterra non c’è l’equilibrio tra tutte le squadre come da noi. Se si sapranno fare le scelte giuste i futuri campioni potrebbero essere proprio quelli che adesso giocano in Italia». E spiega: «Le campagne acquisti fatte dai principali club spagnoli hanno una spiegazione semplice: c’è il vantaggio di una fiscalità favorevole, mentre la pressione tributaria è molto alta da noi ed è aumentata anche in Inghilterra. I bilanci calcistici si fanno a fine stagione e potrebbe succedere che Eto‘o abbia fatto meglio di Ibraimovic e che la coppia formata dal camerunese e da Milito diventi la migliore sul mercato. Eppoi sulle competizioni europee influisce mol-
tissimo la pressione che è diversa tra i vari campionati: i club italiani pensano alle coppe, ma non possono permettersi di snobbare il campionato. Immaginiamo per un attimo che cosa potrebbe succedere a Milano se l’Inter perdesse il derby e la testa della classifica». La strada calcistica di Pierpaolo Marino non si è mai incrociata con quella di Inter, Milan e Juve anche se si è parlato ultimamente di un interessamento dei bianconeri, ma a lui basta «il Napoli. È un grande club dove ho avuto grandi soddisfazioni, con un pubblico ec-
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In Spagna c’è una fiscalità più vantaggiosa, rispetto a Italia e Inghilterra, che ha favorito gli acquisti di Kakà e Ibrahimovic. Credo che le nostre squadre non si siano indebolite
cezionale che trasmette entusiasmo e passione. La Juventus è una squadra prestigiosa e piacerebbe a tutti poterci lavorare, ma, dopo tanti anni di calcio, sono abituato a prefissarmi obiettivi da realizzare subito. Sono convinto che il tempo è galantuomo e vedremo cosa mi riserverà in futuro». Quest’anno a Torino Marino avrebbe incontrato due vecchie conoscenze: Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro. «Si tratta di due ragazzi eccezionali – dice -, uomini di fede e di passione, ma anche di cervello. Fabio Cannavaro è un grande professio-
In questa pagina, Ciro Ferrara (foto grande), Pierpaolo Marino (in alto), Diego (a sinistra). Nella pagina a fianco, dall’alto in basso, i presidenti De Laurentiis (Napoli) e Berlusconi (Milan), gli allenatori Donadoni e Spalletti, i giocatori Eto’o, Quagliarella e Francesco Totti
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nista, sarà un modello per la squadra, è il classico uomo-spogliatoio: anche se non avrà la fascia lui è un vero capitano». Forse, ancora più forte il rapporto con l’allenatore della Juve: «Mi ricordo il debutto di Ciro Ferrara nell’anno del primo scudetto del Napoli, quando sostituì un monumento dei tifosi azzurri come Bruscolotti, dimostrando una grande maturità. Penso che quest’anno potrebbe emulare quello che ha fatto Pep Guardiola con il Barcellona. Forse non gli riuscirà l’accoppiata campionato e Champions, ma farà sicuramente bene e glielo auguro di vero cuore».
Quando l’Inter ha perso la Supercoppa con la Lazio qualcuno ha parlato di “modello Lotito”per il calcio della crisi. Ma l’ipotesi non appassiona Marino: «Non si può parlare di modelli perché nel calcio non sempre tutto quello che viene è programmato. Co-
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rapporto che non era soltanto professionale». Sul suo rapporto con Luciano Moggi Marino approfitta dell’occasione per smentire le voci di divergenze che da sempre accompagnano i due: «Moggi mi è simpatico, ma abbiamo filosofie diverse di lavoro». Da Big Luciano a calciopoli il passo è breve, ma anche su quest’argomento la risposta è molto secca: «Calciopoli nell’immediato ha prodotto un clima di maggiore rigore e di attenzione, che oggi si sta perdendo». Le norme per la sicurezza negli stadi e i diritti televisivi hanno contribuito a modificare il calcio. «Negli ultimi venti anni – ammette con un pizzico di nostalgia Marino – abbiamo assistito alla trasformazione del pubblico: dallo stadio alla poltrona. Il risultato è stato che si sono svuotati gli stadi, sicuramente un male per chi crede nello sport come uno spettacolo gladiatorio. Oggi, tra quelli che vanno alle partite e quelli che la vedono in diretta certi programmi come“Novantesimo minuto” non hanno più ragion d’essere. È impossibile pensare che l’evoluzione della società non porti anche dei cambiamenti nelle abitudini televisive e nei palinsesti. È la logica conseguenza del mercato televisivo. Come dice il mio presidente De Laurentiis, si va verso lo stadio virtuale».
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munque le competizioni con una sola partita vanno considerate a sé: non per sminuire il successo della Lazio, ma la causalità ha giocato un ruolo importante in quel risultato». Tradotto: sarà difficile in campionato ripetere simili exploit perché i valori delle squadre sono definiti. Ci sarà una lotta tra pochi per la testa della classifica nella quale secondo Marino il Milan avrà «qualche difficoltà perché non penso che i rossoneri si siano rinforzati come la Juve. Stimo Leonardo, l’ho conosciuto da giocatore e l’ho incontrato quando era responsabile dello scouting estero del Milan, ma penso che quest’anno sarà molto dura per loro. La Roma di Spalletti sia per il collettivo sia soprattutto per l’allenatore che ha, potrà rappresentare un’incognita. Quest’anno il campionato si vincerà con meno punti in classifica, perché c’è un maggiore equilibrio e la stessa Inter non può reggere ai ritmi degli ultimi anni».
e i sogni di gloria di De Laurentiis, vista anche la presentazione “spettacolare” della squadra? «Il presidente vede le cose in grande e fa bene perché la città e i tifosi lo vogliono anche se sarà sempre più duro rispondere alle aspettative della piazza. Da grande imprenditore e comunicatore sa bene come muoversi, nulla è lasciato al caso».
Si è passati dallo stadio alla poltrona. È la logica conseguenza del mercato televisivo e, come dice il mio presidente De Laurentiis, si va verso lo stadio virtuale
Con Marino è inevitabile parlare anche della sua squadra, ma lui non si sbilancia più di tanto: «Siamo tra le prime sette, otto squadre del campionato. Mi auguro di poter guadagnare un posto in Uefa». E i progetti
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Anche l’arrivo del napoletano Fabio Quagliarella va in questa direzione e Marino ne è stato il regista: «Questo acquisto ha galvanizzato l’ambiente e il suo trasferimento si è realizzato anche per la volontà del calciatore, che ha voluto a tutti i costi venire a Napoli. La sua convocazione in nazionale è giusta, è nel giro azzurro da un po’, mi sarei meravigliato del contrario: Fabio è tra i migliori attaccanti italiani e merita la nazionale». Restando in casa azzurri anche sull’esclusione di Francesco Totti Marino si trova d’accordo con la decisione di Marcello Lippi: «Se il calciatore ha scelto di non giocare in Nazionale va assecondato. Ma se avesse avuto un ripensamento, sono d’accordo con il ct a non voler ritornare indietro».
Sulla panchina del Napoli siede l’ex ct Roberto Donadoni, che ha sostituito Eddy Reja e Marino che di allenatori ne ha conosciuti tanti, da Vinicio a Rino Marchesi, da Ottavio Bianchi a Luciano Spalletti dell’era dello Special one Mourinho ha una sua idea molto chiara: «Senza voler offendere nessuno, penso che Spalletti sia il miglior allenatore italiano con un sistema molto personale di fare il suo lavoro. Reja e Donadoni hanno dei punti di contatto. Tra l’altro l’attuale allenatore del Napoli in Nazionale ha fatto benissimo: ha perso ai rigori con la Spagna che poi ha vinto l’Europeo. Purtroppo la fortuna non è stata dalla sua parte». In 32 anni di calcio Pierpaolo Marino ha avuto la fortuna di incontrare oltre a tanti campioni anche grandi presidenti come Viola, Pozzo, Sibilia, Ferlaino, De Laurentiis e uomini di calcio come Italo Allodi e Luciano Moggi. Tutti personaggi dai quali ha acquisito esperienza e informazioni: «Per la mia crescita professionale ho sempre cercato di prendere il meglio dai tanti personaggi con i quali ho lavorato, a cominciare dai presidenti e da Allodi che aveva tanto da insegnare. Anche se quando Ferlaino mi chiamò avevo già l’esperienza di sette campionati di serie A. Mi ritengo fortunato perché sono stato sempre con grandi personaggi con i quali ho instaurato un
Quando si parla di tv il pensiero corre veloce a Silvio Berlusconi, che incarna la figura del presidente del Milan, quella del premier e quella tycoon, Marino però ci tiene a distinguere: «Non ho mai accomunato Berlusconi, presidente del Milan al presidente del Consiglio. Oltre a considerarlo un leader politico, l’ho sempre ritenuto un grande tifoso di calcio. Gli debbo dare atto di non essersi mai avvantaggiato della sua posizione politica per favorire il calcio e la sua squadra». Dicono che i figli abbiano chiesto al premier di fare un passo indietro. «Spero che rimanga al Milan, e ne sono convinto, perché per il nostro mondo è importante il suo apporto come uomo di calcio, non come politico». Il binomio calcio e politica non piace a Pierpaolo Marino: «Mi auguro che viaggino molto ben distanti, quando c’è stata commistione tra la politica e il calcio i risultati sono stati pessimi. Basta ricordare alcuni salvataggi di squadre retrocesse, allargamenti dei campionati, la serie B a 22 e a 24 squadre, le vicende legate ai diritti televisivi. Non mi preoccupa un calcio orfano della politica, ma il contrario». Quasi inevitabile una considerazione finale che riguarda più gli affetti che la professione di Marino: l’Avellino calcio. « È la squadra dove ho speso 11 anni della mia carriera professionale. Ho fatto anche il presidente per tre anni. La scomparsa dell’Avellino dal calcio professionistico – confessa - è un dolore enorme, paragonabile alla perdita di una persona molto cara».
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dal ”New York Times” del 21/08/2009
L’acqua sporca della Cia di James Risen e Mark Mazzetti
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uella che un tempo si chiamava Blackwater è entrata nel programma Cia per la caccia a bin Laden. Dal suo quartier generale in Nord Carolina, una divisione segreta della compagnia privata che oggi si chiama Xe Services, aveva assunto un ruolo importante nel principale programma antiterrorismo di Washington. Quello legato all’utilizzo dei droni – aerei senza pilota – armati, per dare la caccia ed eliminare i leader di al Qaeda. In alcune basi in Pakistan e Afghanistan, il personale della Blackwater assemblerebbe i missili aria-terra, hellfire e le bombe da 190 chilogrammi a guida laser, per poi montarle sui mezzi aerei teleguidati tipo Predator. Un lavoro fatto in precedenza dagli uomini della Cia. La compagnia privata assicurerebbe anche il servizio di sicurezza e le basi segrete, secondo le fonti ufficiali. Il ruolo di questa società da la misura di quanto oggi Langley dipenda da contractor esterni per svolgere alcuni fra i compiti più delicati. Anche se la società privata che è cresciuta grazie ai contratti pubblici, si era fatta una pessima fama per i presunti metodi brutali usati in Iraq. Il New York Times aveva già pubblicato la notizia che riportava che il rapporto tra Blackwater e Cia fosse iniziato nel 2004, come parte di un programma segreto per assassinare i capi di al Qaeda. In alcune interviste, funzionari del governo americano avevano fornito nuovi dettagli della collaborazione sul programma di eliminazione dei leader estremisti. Sempre le fonti ufficiali hanno assicurato che gli uomini di Blackwater non fossero forniti di «licenza d’uccidere». Gli ordini per gli “esterni” dell’Agenzia, invece, erano quelli di raccogliere tutte informazioni possibili sui membri dello stato maggiore dei terroristi, occuparsi del servizio di sorveglianza e dell’addestramento per possibili missioni. «Premere il gril-
letto è in qualche modo la parte più semplice del lavoro, quella che forse richiede meno esperienza» ha affermato un funzionario governativo, pratico con l’ormai cancellato programma Cia. «È tutto il lavoro che porterà a quel punto che conta veramente». Qualsiasi operazione di cattura o eliminazione di miltanti terroristi ha sempre avuto bisogno dell’approvazione del direttore Cia e di essere resa nota alla Casa Bianca, prima di essere portata a termine. Il nuovo direttore, Leon E. Panetta aveva cancellato il programma e avvertito il Congresso della sua esistenza, durante una seduta straordinaria in giugno.
Le dimensioni del coinvolgimento di Blackwater con Langley è stato per lo più tenuto nascosto, invece quello con il dipartimento di Stato, per il servizio di protezione diplomatica, è stato al centro di numerose controversie e tenuto sotto costante osservazione. La società, quest’anno, ha perso il contratto in Iraq, a causa della sparatoria che, nel 2007, aveva coinvolto gli uomini Blackwater, provocando la morte di 17 civili iracheni. Per questo episodio 5 uomini della compagnia privata sono finiti alla sbarra di una corte federale. Per i compiti di intelligence, la società ha una divisione speciale nel suo quartier generale in Nord Carolina. È conosciuta come Blackwater Select. Il primo rapporto importante con la Cia risale al 2002, con un contratto per la protezione della stazione Cia di
Kabul. Mentre le spie private assegnate ai Predator venivano addestrate presso la base dell’Air Force di Nellis in Nevada. La Cia per anni ha utilizzato i droni armati usando una base poco lontana da Shamsi in Pakistan, ma aveva segretamente aperto una seconda base a Jalalabad, in Afghanistan. Secondo molte fonti interne all’agenzia quest’ultima base non era ufficialmente conosciuta. Gran parte delle missioni attraverso il confine afghano-pakistano sarebbero condotte da Jalalabad, con mezzi che decollano e atterrano ogni ora. La base in Pakistan è ancora attiva. La decisioni di operare dall’Afghanistan sarebbe legata alle difficoltà del governo di Islamabad. L’onda montate del sentimento antiamericano avrebbe potuto costringere quel governo a far chiudere la base pakistana. Comunque Blackwater non è coinvolta nel lavoro di selezione degli obiettivi o nelle missioni d’attacco vere e proprie. È la Cia a selezionare i «target» e i suoi uomini a premere il grilletto dei Predator da una centrale di guida remota in Virginia.
L’IMMAGINE
Niente crisi per politici e caste pubbliche. Sono invariati il numero dei vari consiglieri Nulla è cambiato per i privilegiati del settore pubblico allargato, nonostante la crisi e le denunce di valorosi giornalisti. L’Italia è la prima potenza mondiale per numero di parlamentari. Mezzo milione d’italiani continuano a vivere di politica, che costa 4 miliardi di euro l’anno. Sono rimasti invariati: il numero dei consiglieri comunali, provinciali e regionali; il numero dei consigli circoscrizionali; gli stipendi e vitalizi dei parlamentari, dirigenti e dipendenti delle amministrazioni centrali e locali. Nel 2006 l’Istat conteggia ben 15.580 istituzioni pubbliche italiane: sono troppe e con costi stratosferici. Alcune costituiscono enti inutili, che sopravvivono e resistono, nonostante risalga al 1956 la prima legge che ne stabiliva la liquidazione. I pubblici dipendenti sono esenti da gran parte dei rischi dei lavoratori privati: crisi di mercato, chiusura di stabilimenti, ristrutturazioni aziendali, licenziamenti, cassa integrazione e disoccupazione. Il Cnel risulta un inutile doppione corporativo. Una selva di comitati affolla il Belpaese.
Franco Padova
CONTRASTIAMO L’ONNIPOTENZA DELLE MULTINAZIONALI Le compagnie petrolifere hanno aspettato che milioni e milioni di gente si concedessero un pò di ferie, mentali e materiali, per aumentare il costo del petrolio. Saranno anche strategie dovute di mercato, come dicono alcuni, oppure la regola che l’aumento della domanda fa sempre aumentare il costo di un bene, ma per cambiare il volto delle cose occorre che almeno i consumatori non se la prendino con il governo, ma con l’onnipotenza delle multinazionali che sono ben lontane da abbracciare la filosofia reale del libero mercato.
C. P.
IL VALORE DELLA PATRIA Il sentimento nazionale che si è
cercato di imprimere anche a livello educativo, non è una forzatura che tenta a senso unico di far prevalere su tutto i valori della patria, identificati in un solo tricolore, ma è il rispetto verso tutto il sangue che è stato versato in più di duecento anni per raggiungere un simbolo di unità, che molto ma molto tempo fa era tabù come oggi lo può essere il Tibet libero. Cosa si puà immaginare allora di tutto ciò che è stato in passato? A questo punto entra in gioco la storia e le sue verità tramandate fino ad ora e che almeno i nonni, se non i nostri padri, hanno cercato di insegnarci, per aiutare a capire noi stessi, e gli altri. La bandiera italiana è nata per non oscurare nessun stendardo minore, ma per riunire milioni di sacrifici che anelavano al sen-
Piatto ricco, mi ci ficco Che tenero quadretto! E pensare che c’è chi in questo gruppetto familiare vede più che altro un goloso spuntino. Non stiamo parlando di un coccodrillo - uno dei principali predatori dei cuccioli di ippopotamo - ma di un piccolo invertebrato: la sanguisuga. L’animaletto si attacca alla pelle degli ippopotami quando si immergono in acqua e non è tanto facile liberarsene
timento di Patria unita nel vero senso della parola.
Barbara Colli
URLIAMO ANCHE DI GIOIA È la prima volta che ho visto iniziare a rifare il manto stradale, nei punti strategici più critici di Napoli. Ieri la spazzatura, oggi la sicurezza degli autoveicoli e delle stesse strade: basta ciò a farci capire
che qualcosa si sta muovendo e che non si può fare finta che il governo non c’entri. Dobbiamo educare noi stessi a gridare non solo il dissesto e le privazioni, ma anche le cose belle che si realizzano.
Bruna Rosso
LA REALTÀ DELLE COSE La situazione internazionale è ad una svolta: dagli sforzi di Obama
ai tentativi di ricomporre la pace con una nuova presa di coscienza del ruolo dei contingenti, si cerca di inalare il ruolo politico nelle prospettive future della globalizzazione. Ma esiste chi pensa che di fronte a una crisi senza precedenti che impoverisce ogni giorno di più, solo una guerra può ricomporre le discrepanze.
B.R.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Tutta una serie di pregiudizi… Da noi la piazza, con le sue grida, i suoi entusiasmi verbali, la sua boria, soverchia il chez soi molto più che altrove, relativamente. Così si sono formati tutta una serie di pregiudizi e di affermazioni gratuite, sulla saldezza della struttura familiare come sulla dose di genialità che la provvidenza si sarebbe degnata di dare al nostro popolo. Anche in un recentissimo libro del Michels è ripetuto che la media dei contadini calabresi, anche se analfabeti, è più intelligente della media dei professori tedeschi; così molta gente si crede esonerata dall’obbligo di far sparire l’analfabetismo in Calabria. Io credo che i costumi familiari delle città, data la recente formazione dei centri urbani in Italia, non possono essere giudicati astraendo dalla situazione media generale di tutto il paese, che è ancora molto bassa e che non può essere, da questo punto di vista, riassunta in questo tratto caratteristico: un estremo egoismo delle generazioni tra i 20 e i 50 anni, che si verifica ai danni dei bambini e dei vecchi. Non si tratta di una stigmata di inferiorità civile permanente: sarebbe assurdo e sciocco il pensarlo. Si tratta di un dato di fatto storicamente controllabile e che sarà indubbiamente superato con l’elevazione del livello di vita materiale. Antonio Gramsci a Tania
ACCADDE OGGI
È QUESTA LA DEMOCRAZIA CHE DOBBIAMO DIFENDERE? E no, mi dispiace, io sono uno di quegli italiani che preferisce Berlusconi agli altri, ma per la faccenda della difesa della privacy non ci siamo per niente. E l’autorità garante deve opporre tenace opposizione e resistenza. Le persone pubbliche che vengono pagate profumatamente devono essere trasparenti in audio e video, 24 ore su 24. Perché? Per il bene del Paese e perché non sono dei santi. Se tale autorità, non prenderà in considerazione la presente protesta, sarà sicuramente per motivi di autodifesa. Si apra un dibattito nel Paese e vedremo che succede. Solo i semplici cittadini e i volontari, hanno diritto alla privacy, non loro.
Michele Ricciardi
LA RACCOMANDAZIONE PUÒ FARE AGGIO SUL SAPERE Anche Indro Montanelli sosteneva che - per fare carriera – conviene essere figli di papà, onde beneficiare dell’influente appoggio familiare. Diversamente, i figli del popolo e i figli di nessuno soccombono, perché privi di protezioni e spinte. «Tengo famiglia», afferma chi vuole giustificare il proprio opportunismo e chiede vantaggi. Il familismo privilegia l’interesse particolare familiare, a danno della società. Nel nepotismo, il detentore di potere favorisce familiari, parenti e amici, nonché fa loro ottenere gli incarichi e uffici pubblici più ambìti e meglio retribuiti. Baroni, burocrati, boiardi e alti papaveri della nomenklatura tendono a pro-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
22 agosto 1950 Althea Gibson è la prima giocatrice di colore del tennis internazionale 1953 Viene chiusa la prigione di Devil’s Island 1962 Fallito tentativo di assassinio del presidente francese Charles de Gaulle 1968 Papa Paolo VI arriva a Bogotá, Colombia. È la prima visita di un Papa in America Latina 1972 La Rhodesia viene espulsa dal Comitato Olimpico Internazionale per le sue politiche razziste 1975 Fallito tentativo di assassinare il presidente statunitense Gerald Ford 1984 Il paleoantropologo Alan Walker trova i resti del Ragazzo del Turkana, un Homo erectus quasi perfettamente conservato 1988 Viene emesso il koala australiano, la prima moneta di platino del mondo 1989 Viene scoperto il primo anello di Nettuno 2005 Roma: alle 14.02 un terremoto di 4,5 gradi della scala Richter desta preoccupazione fra la popolazione. La scossa viene avvertita sia in città che in provincia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
teggere, segnalare e raccomandare figli, congiunti e conoscenti. Nella selezione, l’appartenenza al clan sconfigge l’individualità e il merito. Di per sé, poco conta la preparazione del candidato, il quale deve ammanigliarsi con persone potenti. Nelle caste di pezzi grossi, le vecchie generazioni trasmettono il testimone del comando ai discendenti, per cui una cerchia relativamente ristretta di cognomi permane e si ripete. La raccomandazione è fattore essenziale di successo, che fa aggio sulla sapienza (fattore accidentale). C’è doppiezza quando le scelte personalistiche di selezionatori e commissari concorsuali si uniscono alle consuete professioni di maniera sulla solidarietà e sull’etica operativa.
Gianfranco Nìbale
TESTE CALDE Si parla tanto di ronde e di processi all’immigrazione, ma poco del fatto che già affrontando il discorso e attuando il disegno di legge, molti avvenimenti non si sentono più con la stessa frequenza di prima. L’artefice di ogni cambiamento è sempre l’uomo, se egli capisce che le cose servono per far capire il limite del dolo, senza straripare nella propria responsabilità sociale, allora le cose andranno sempre bene. Lo dimostra il fatto stesso che una sorta di ronde era già in atto nel Paese e nessuno si è accorto di alcun aspetto antidemocratico corrispondente, e se accadrà in futuro sarà per colpa di quelle sempreverdi teste calde.
CHI AMA IL SUD, AIUTI LA SUA NUOVA CLASSE DIRIGENTE Fino a quando a dettare i temi dell’agenda del governo sarà la Lega Nord, non basterà né la “finta scenografica” di Miccichè e Lombardo né i soliti pompieri del Pdl a ridare ruolo e dignità al Mezzogiorno d’Italia. Casini dal Mattino, alcuni giorni fa, invitava ad essere seri. Io a questo aggiungerei la capacità a farsi da parte per consentire un vero cambio generazionale che rappresenti il Sud e i suoi legittimi interessi. Volendo procedere per ordine, stiamo assistendo da parte di Berlusconi, degli uomini del Governo e dal Parlamento nominati al sud, ad una rappresentazione sbagliata e demagogica di un problema vero, serio e reale. Problema tanto più reale in quanto oggi il Mezzogiorno non ha nessun riferimento concreto nel governo nazionale e in quello regionale per i clamorosi fallimenti cui assistiamo ancora oggi. In questo quadro per quanto Berlusconi si sforzi di rappresentare la questione meridionale, rimane poco credibile ed ancorato agli slogan dal momento che la Lega Nord detta le regole del gioco e non solo. Così si spiega il dirottamento dei fondi Fas, il federalismo, le ronde, le gabbie salariali e l’incapacità di incidere e di reagire degli uomini del sud al governo. Il Sud contiene in sé il male e i suoi anticorpi. Il male è la maggioranza e la sua “vecchia” classe dirigente cioè quella che ha fallito non per le competenze o le capacità bensì perché ha finito per cedere, lasciando per strada quell’entusiasmo e quella voglia di rinnovamento che oggi alimenta i suoi anticorpi e cioè la nuova classe dirigente. Il Sud non ha bisogno di un Partito del Sud. Il Mezzogiorno e la sua nuova classe dirigente vuole cercare di recuperare la propria dimensione e il proprio protagonismo politico, sociale, economico e culturale all’interno del perimetro nazionale. Ecco perché ci vuole, così come evocato da Pier Ferdinando Casini, un Partito della Nazione. Una cornice comune nella quale tanto la questione meridionale quanto quella settentrionale abbiano legittimati interlocutori e pari opportunità e dignità. Un Partito della Nazione in grado di correggere e sviluppare le grandi potenzialità del Paese, quelle già note a tutti e chiare agli uomini che oggi formano e fanno vivere la Costituente di centro. Uomini e donne del nord come del sud, con in testa la Nazione unica, sola e indivisibile a tutti i livelli di governo. In conclusione valga per tutti l’appello del cardinale Martino: «I politici meridionali si devono sveglire, devono essere presenti, fattivi ed efficaci. C’è troppa inerzia e non sanno farsi valere». Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O OR G A N I Z Z A T I V O CI R C O L I LI B E R A L
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Bruno Russo - Napoli
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. A Palazzo Reale fa clamore una mostra di Robert Wilson
Milano scopre le fotografie di Stefano Bianchi ossero semplici ritratti fotografici, sarebbero comunque capolavori. Ma in più respirano. Impercettibilmente. Battono le ciglia. Modificano d’un soffio la loro postura. Brad Pitt, ad esempio: immobile sotto la pioggia battente come in certe sequenze di Blade Runner. A torso nudo, con boxer e calzini inzuppati, impugna una pistola. Poi, lentamente, si muove. Tende il braccio, preme il grilletto, spara spruzzi d’acqua. È uno dei ventiquattro VOOM Portraits, i videoritratti ad alta definizione in mostra fino al 4 ottobre nelle diciotto sale restaurate di Palazzo Reale, a Milano. Ritratti singoli, nonché installazioni col medesimo soggetto inquadrato su più schermi, vedono protagonisti stelle di Hollywood, gente comune e animali straordinari come Boris il porcospino e Celine, cane pastore della Brie.
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Li ha elaborati Robert Wilson, definito dal New York Times “pietra miliare del teatro sperimentale”. È lui l’artista che intreccia movimento, danza, pittura, luce, design, musica, scultura e drammaturgia per dar vita a “performance” d’alto contenuto estetico ed emotivo. Americano, classe 1941, studi alla University of Texas e al Pratt Institute di Brooklyn, Wilson è artefice di un’avanguardia che ha puntualmente lasciato il segno, costellata da spettacoli come The King of Spain, The Life and Times of Sigmund Freud e Deafman Glance ; scandita dall’operakolossal Einstein on the Beach, in coabitazione col musicista Philip Glass; faccia a faccia coi suoni radicali di Tom Waits e David Byrne, nelle “pièce” The Black Rider, Alice e the CIVIL warS; sublimata orchestrando la regia del Parsifal di Wagner, della Madama Buttefly di Puccini e di Pelléas et Mélisande di Debussy. L’arte contemporanea, legata a una profonda sensibilità per tutto ciò che è luce, senso dello spazio e movimento, trova invece l’ideale approdo in questi meta-ritratti filmati in orizzontale per gli schermi televisivi e in verticale per i monitor piatti al plasma, con una proporzione di 1:1 fra spettatore e soggetto.
Ripetuti in “loop”, senza cioè inizio né fine, svelano opere d’arte in fotogrammi. «I VOOM Portraits – ha spiegato Robert Wilson – derivano da Video 50, la serie di ritratti che realizzai negli anni Settanta coinvolgendo lo scrittore surrealista Louis Aragon, la signora Helene Rochas, una papera, un prete incontrato al bar, il direttore del Moderna Museet di Stoccolma Pontus Hultén, il ministro della cultura francese Michel Guy... Erano concepiti per essere visti alla tv, nelle gallerie d’arte, nei musei, in metropolitana, nelle hall degli alberghi, negli aeroporti, o anche sul quadrante di un orologio da polso. I nuovi ritratti, invece, li immagino esposti negli spazi pubblici così come nelle abitazioni private. Su una parete di casa possono diventare finestre nella stanza, oppure il fuoco di un caminetto». Retrocedendo agli anni Sessanta, questi gioielli in “slow-motion” ricordano gli Screen Tests di Andy Warhol che riprendeva frontalmente, con una camera fis-
Sopra, Johnny Depp; sotto, Steve Buscemi e Isabella Rossellini in tre delle ”immagini semoventi” («VOOM Portraits») presentate da Robert Wilson al Palazzo Reale di Milano fino al prossimo 4 ottobre
VIVENTI sa, i minimi movimenti di Edie Sedgwick, Lou Reed, Nico, Dennis Hopper e di tutti quelli che bazzicavano la Factory newyorkese. Robert Wilson, in più, ha avuto dalla sua parte luci, telecamere, apparecchiature per il montaggio, sale di registrazione. Un corollario d’alta tecnologia che ha permesso al suo “still life”di tradursi in vita reale: «In un certo senso, se ci concentriamo e guardiamo i ritratti sufficientemente a lungo, gli spazi mentali diventano paesaggi mentali». Ma non sono “pirandellianamente”in cerca d’autore, i personaggi da lui scelti per questi teatrali “atti unici” che si snodano in penombra stimolando il contrasto fra i pannelli retroilluminati e gli stucchi neoclassici di Palazzo Reale.
Avvolta in una pelliccia “glamour”, ecco l’immortale (semi)immobilità di Johnny Depp che “reinterpreta” Rose Sélavy, la foto scattata nel 1921 da Man Ray a Marcel Duchamp. Carolina di Monaco, ritratta di spalle come la Madame X del pittore John Singer Sargent, incarna la madre Grace Kelly nel personaggio di Lisa Fremont, dal film La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Il folle macellaio Steve Buscemi, icona dei fratelli Cohen, masticando e tamburellando il piede ha dinnanzi a sé la natura morta d’un corpo che era vivo. E schizza nervosamente, come l’illustrazione di un manga giapponese, Isabella Rossellini nei panni di bambola-clown. Testa fra le mani, enigmatica, Isabelle Huppert è tale e quale a Greta Garbo mentre Winona Ryder, donna qualunque nei Giorni felici di Samuel Beckett, affonda in una montagna di oggetti che appaiono e scompaiono. Da uno schermo all’altro, Salma Hayek si atteggia a diva in bianco e nero degli anni Trenta: timida e poi sorniona, pensosa, erotizzante. E Robert Wilson arriva a superare se stesso, nella sbalorditiva “mise-en-scène”, quando coglie l’agonizzante respiro di Robert Downey Jr. nella Lezione di anatomia di Rembrandt e la mistica rassegnazione di San Sebastiano trafitto dalle frecce. È Mikhail Baryshnikov, per una volta immobile danzatore.
Il celebre regista americano occupa tutti gli spazi espositivi con sequenze di fotogrammi che respirano impercettibilmente, battono le ciglia e modificano d’un soffio la loro postura