Molte persone credono
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di riflettere mentre stanno solo riordinando i loro pregiudizi William James
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 1 SETTEMBRE 2009
A proposito dell’attacco all’“Avvenire”
La libertà della Chiesa è la libertà di tutti di Savino Pezzotta attacco a freddo nei confronti del direttore di Avvenire, colpevole solo di aver espresso l’orientamento della Chiesa e il disagio di tanti cattolici, colpisce profondamente e genera inquietudine. Quando la lotta e la polemica politica scendono a tali livelli, c’è da impensierirsi e iniziare ad essere guardinghi, consapevoli che a questo punto la questione non riguarda più solo i cattolici ma tutti i democratici. È la qualità della nostra democrazia che è incrinata. Sull’onda di questi sentimenti vorrei proporre alcune mie riflessioni.
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Lo scontro tra Feltri e Dino Boffo
Il lato oscuro di quella vecchia «informativa» di Luigi Accattoli i tutto il bailamme del caso Feltri-Boffo a me – antico amico di ambedue – interessa un solo punto, quello dell’antefatto: in che cosa sia consistita la “molestia”per cui Dino Boffo patteggiò pressò il tribunale di Terni e pagò un’ammenda di 516 euro nel settembre del 2004.
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UNA DOMANDA SPINOSA È ormai quasi certo: vincerà Karzai. Ma nel mondo crescono i dubbi sulla sua affidabilità politica. E il comandante Usa in Afghanistan dice: «Stiamo davvero sbagliando tutto»
Ci si può ancora fidare di quest’uomo?
di Francesco D’Onofrio el corso delle ultime settimane si è venuta definendo con qualche maggior precisione la distinzione tra popolarismo e populismo. Chi abbia la pretesa di richiamarsi alle intuizioni culturali e politiche di Luigi Sturzo ha in particolare oggi il dovere di rendere sempre più chiaro anche oggi il significato culturale e politico del popolarismo, perché soltanto dalla definizione di questo si può cogliere la distinzione e per qualche verso l’alternativa al populismo soprattutto se quest’ultimo è declinato insieme alla democrazia.
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segue a pagina 11 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
alle pagine 2 e 3
«Loro dietro tutti i guai dell’Africa». La risposta: «È solo un bulletto»
Gheddafi minaccia Israele L’Udc contro Berlusconi: «Basta inchini al dittatore di Tripoli»
La lezione di Sturzo e l’Italia di oggi
Guai a confondere il popolarismo con il populismo
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
di Francesco Lo Dico
ROMA. Il dittatore di Tripoli è sem-
l’Unione africana - ha invitato tutti i Paesi africani a chiudere le ambasciate israeliane. Il governo israeliano, per parte sua, ha reagito con parole sprezzanti: «Quel circo equestre itinerante che è Gheddafi è divenuto da tempo uno show tragicomico che imbarazza chi lo ospita e la nazione libica che ne paga il conto»: così ha detto il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Yigal Palmor. Al contrario, non prova imbarazzo evidentemente il governo italiano, come ha sottolieato sempre ieri l’Udc nel corso di una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata libica a Roma: «Basta con i continui inchini del nostro Paese al dittatore libico» è stato lo slogan lanciato dai centristi. Una protesta di incredibile, drammatico tempismo.
pre più sulla cresta dell’onda. Dopo l’ennesimo abbraccio, il terzo in tre mesi, che stavolta ha condotto a casa Gheddafi il premier Silvio Berlusconi in occasione dell’anniversario del protocollo di Bengasi siglato da Italia e Libia lo scorso fine agosto, e in attesa delle celebrazioni “made in Italy” (oggi con le Frecce Tricolori) per il quarantennale della sua conquista del potere, il Colonnello ieri ha minacciato Israele approfittando dell’apertura di un vertice panarabo a Tripoli: «Gli israeliani formano una banda criminale e sono dietro tutti i problemi dell’Africa» sono state le sue parole, prontamente applaudite dal presidente sudanese Omar al Bashir, contro il quale è stato spiccato un mandato di arresto internazionale. Non pago di ciò, Gheddafi - in questo periodo presiede di turno delI QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
172 •
WWW.LIBERAL.IT
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 1 settembre 2009
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Afghanistan. Una news analysis dell’ambasciatore Usa, che ha seguito sul campo le elezioni del 20 agosto
Il presidente dei clan
A metà delle schede scrutinate Karzai è al 45,9%. Ma siamo sicuri che sia ancora lui l’uomo giusto per far vincere la democrazia? di Richard S. Williamson li agenti dell’anarchia che operano nel territorio dell’Afghanistan non sono riusciti ad arrestare la scorsa settimana l’afflusso di milioni di afgani ai seggi elettorali. In qualità di capo dell’osservatorio sulle elezioni dell’International Republican Institute (Iri), ho avuto l’onore e il privilegio di assistere al coraggio di uomini e donne afgani che hanno sfidato la violenza, le minacce e altre intimidazioni per rivendicare il loro diritto al voto per un futuro migliore.
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L’Afghanistan è in guerra da trent’anni. Otto anni dopo la caduta del regime talebano, la situazione in Afghanistan rimane atroce. Gli attacchi dei ribelli aumentano. Le forze di coalizione subiscono perdite sempre maggiori. Il mercato dell’oppio e i signori della guerra si fanno sempre più solidi. Il regime talebano è in espansione. Alcune zone del paese sono ingovernabili. Il governo è permeato da una cultura di corruzione. Comprensibilmente, molti afgani sono disillusi e cinici. L’ottimismo sfrenato provocato dalla caduta dei tale-
bani ha caratterizzato le elezioni presidenziali del 2004 dell’Afghanistan, le prime nella storia. Anche allora ero in Afghanistan e ho assistito alle lunghe code e allo spirito gioioso, soprattutto delle donne che sembravano aver rotto le catene dell’estrema e rigida regola dei talebani. Otto milioni di afgani si recarono al voto nelle città, nelle campagne e nelle remote e deserte zone di montagna. Festeggiarono la loro nuova libertà e sembrava che percepissero che stavano facendo il mondo di nuovo. Ma la democrazia è difficile nella migliore delle circostanze e quasi impossibile in un ambiente di grande insicurezza.Per la prima volta i candidati hanno svolto la loro campagna elettorale al di là della loro base etnica. Alcuni comizi elettorali radunavano fino a centomila persone. L’Afghanistan e il suo indotto economico hanno registrato una crescita economica annuale che riesce a superare il 5 per cento.
c’è un dubbio che è necessario porsi rispetto al prossimo esecutivo. Il presidente Karzai non ha infatti, nel suo lungo mandato appena scaduto, introdotto riforme di governo: ha preferito introdurre una cultura fondata sul patronato dell’etnia pashtun, sul privilegio personale, su accordi segreti e sulla corruzione diffusa in tutti i livelli.
L’Afghanistan rimane inchiodato a profonde divisioni etniche e ad una cultura definita dall’influenza di potenti membri anziani di tribù tradizionali. Questi fattori hanno attenuato le speranze e rubato la sfrenata promessa che era esplosa con le elezioni del 2004. Di fronte a questi enormi ostacoli, cautela
tutti i maggiori gruppi etnici. Per la prima volta i candidati hanno svolto la loro campagna al di là della loro base etnica. Alcuni comizi elettorali, come abbiamo già detto, hanno radunato fino a centomila persone. Le campagne non avevano limiti di personalità o etnicità, ma per la prima volta ci sono state dibattiti su queste materie. Tra i più degni di nota, sono stati due dibattiti presidenziali. Il secondo dibattito, il 16 agosto, ha visto la presenza del capo di stato. Karzai vi si è presentato con due dei suoi maggiori competitori, hanno ascoltato le critiche e hanno risposto alle domande. Un afgano su tre ha seguito il dibattito per radio o in televisione. Niente lontanamente simile a questo tipo di responsabilità si era mai verificata prima. Questa attività ha trasmesso impegno ed energia all’Afghanistan. Sondaggi affidabili hanno riportato un forte aumento di interesse negli elettori. Ho seguito le elezioni di passaggio in Russia, in Cambogia, in Nigeria, in Liberia, e nelle elezioni del 2004 in Afghanistan. Le modalità delle elezioni della scorsa settimana in Afghanistan sono alla pari con le migliori pratiche di ognuno degli altri Paesi.
Il leader uscente ha governato il Paese con una cultura fondata sul patronato dei pashtun, sul privilegio e sulla corruzione diffusa a tutti i livelli
Si tratta però di una crescita che deriva principalmente dalla massiccia presenza internazionale e in questo Paese impoverito i tassi di disoccupazione e sottoccupazione sono alti in maniera preoccupante. Sono state costruite scuole, comprese le scuole per ragazze, ma molte di queste sono ancora in cattivo stato o chiuse a causa della violenza. Solo il 32 per cento della popolazione afgana è alfabetizzata (dato che scende al 15 per cento fra le donne). Ma
La denuncia del generale
McChrystal: «È inutile continuare a caricare come tori» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
e timore hanno caratterizzato le prime fasi della campagna elettorale di quest’anno. Per preparazione inadeguata si è dovuto posticipare la data iniziale delle elezioni. L’ansia cresceva. Le elezioni presidenziali del 2004 e il voto del 2005 per l’Assemblea Nazionale furono organizzati e gestiti dalla comunità internazionale. Quest’anno si sarebbe trattato di un’elezione gestita dall’Afghanistan, mettendo a dura prova le capacità di questa combattiva società di passaggio. Ciononostante, la campagna si è dimostrata straordinaria. Si sono presentati i quarantuno candidati provenienti da
n uno scenario post-elettorale che sembra essere in attesa di una mossa risolutiva, due sono le notizie che scuotono il panorama interno all’Afghanistan. Da una parte i nuovi dati (parziali) delle presidenziali, che vedono ancora in testa il presidente uscente Karzai; dall’altra, l’ammissione del generale statunitense McChrystal secondo cui «la strategia americana nel Paese sta fallendo». Secondo i dati pubblicati ieri dalla Commissione elettorale indipendente, il presidente afgano Karzai mantiene il vantaggio sul suo sfidante Abdullah Abdullah, dopo lo spoglio di quasi la metà dei seggi per le presidenziali del 20 agosto. Ma si mantiene sotto la maggioranza assoluta necessaria per evitare il secondo turno e il potenzialmente disastroso ritorno alle urne dell’elettoale. In seguito allo scrutinio del 47,2 per cento dei seggi, Karzai totalizza il 45,9 per cento dei voti, mentre Abdullah ottiene il 33,3 per cento. Eppure, nel Paese si moltiplicano le denunce di brogli: secondo quanto reso noto da un portavoce della
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Ma alla fine, la partecipazione elettorale è stata sostanzialmente scoraggiata. Indiscutibilmente il terreno politico del giorno delle elezioni è stato definito dalla violenza, dalle minacce e dalle intimidazioni dei ribelli. I talebani avevano una notevole misura di successo. La
Commissione, Ahmad Muslim Khuram, il numero totale ammonta ormai a ben 2.564 ricorsi, di cui 2.097 presentati dopo la giornata del voto e il resto ancora prima; a 691 tra essi, ha precisato Khuram, è stata assegnata la «massima priorità».
Del problema si stanno sempre più preoccupando anche le potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti, che vedono diminuire di giorno in giorno la credibilità di elezioni ritenute comunque determinanti per la normalizzazione del Paese centro-asiatico. Tuttavia, è ancora la situazione militare e l’aumento dell’offensiva talebana a turbare i sogni di Washinton. La guerra in Afghanistan, infatti, «può ancora essere vinta, ma è necessaria una nuova strategia». Lo ha dichiarato ieri il generale americano Stanley McChrystal in un comunicato con cui ha annunciato ufficialmente la conclusione del nuovo rapporto sull’Afghanistan, inviato poi in giornata ai vertici militari di Washington e al quartier generale Nato di Bruxelles. «La situazione in Afghani-
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Il presidente uscente dell’Afghanistan Hamid Karzai che, con ogni probabilità, sarà riconfermato dopo il conteggio dei voti delle presidenziali del 20 agosto. In basso, il suo sfidante, Abdullah Abdullah, e il generale americano McChrystal, capo delle truppe americane nell’area
legittimità e l’accettazione di questo voto saranno conseguentemente ridotte.
Nelle giornate precedenti alle elezioni, gli attacchi violenti sono stati spietati, tra questi anche l’esplosione di un’autobomba nei pressi della sede delle Forze Armate della Sicurezza Internazionale. La mia prima notte a Kabul, due missili hanno sfrecciato sul mio hotel e sono esplosi poco distante. Il giorno delle elezioni, secondo i primi rapporti delle Nazioni Unite, si sono verificati 268 atti di violenza in tutto l’Afghanistan. Ventisette sono state le vittime. Sono stati riportati numerosi casi di dita tagliate. Ciononostante, milioni di afgani sono andati a votare.
La squadra dell’osservatorio sulle elezioni dell’Iri equipaggiata di giubbotti antiproiettile, a bordo di SUV blindati, ha visitato oltre 250 seggi elettorali nel paese. Tutti hanno riportato in maniera uniforme la situazione come da me testimoniata: ufficiali delle elezioni ben addestrati sulle regole e sulle modalità delle procedure di voto, sedi ordinate, procedure trasparenti e, in quasi tutti i siti, osservatori della parte politica afgana, la migliore guardia contro la disonestà.
Come detto, il presidente Karzai non ha introdotto riforme di governo ma una cultura fondata sul patronato dell’etnia pashtun, sul privilegio personale, su accordi segreti e su corruzione diffusa. È del tutto prevedibile che, se riconfermato, si ostinerà a mantenere questo tipo di governo basato sui clan e sulle
stan è seria, ma il successo è ancora possibile. Stiamo continuando a caricare a testa bassa come tori nell’arena, ma questo non porta a molti risultati». McChrystal ha spiegato però che saranno necessari «una nuova strategia, impegno, determinazione e una maggiore coordinazione degli sforzi». Questo non prevede però, almeno nella visione del generale, l’invio di nuove truppe nell’area. McChrystal ha lavorato all’elaborazione della nuova strategia sin dallo scorso giugno, da quando cioè il presidente americano Barack Obama lo ha posto a capo della missione Nato che vede impegnati circa 100mila soldati di oltre 40 Paesi. Le autorità militari hanno dichiarato che il documento non parla esplicitamente di ulteriori truppe da inviare nel Paese, anche se una decisione in questo senso potrebbe essere presa nelle prossime settimane dal governo degli Stati Uniti. ’annuncio della nuova strategia per l’Afghanistan avviene in un periodo cruciale per la vita politica del
caste, senza impegnarsi in una vera unificazione del suo Paese su basi solide per il futuro. Si verificherebbe, invece, un’ulteriore arretramento della situazione dell’istruzione e della sanità, un nuovo passo indietro per l’intera popolazione afgana.
In un seggio elettorale ho conosciuto Shafee, un ragazzo di 21 anni. Aveva vissuto per un breve periodo in Germania e aveva studiato due anni a Mosca. Aveva diverse opzioni, ma ha deciso di tornare nel suo paese. Mi ha detto: «Amo il mio Paese. In queste elezioni, ognuno ha il diritto di votare come una persona indipendente. Ognuno accetterà chiunque verrà eletto perché lo hanno scelto. Credo che questo possa aiutare a portare la pace. Questa è la cosa migliore per i giovani». In queste elezioni, i mercanti di omicidi, di miseria,
paese, il cui futuro appare ancora incerto a 11 giorni dalle elezioni politiche dello scorso 20 agosto. Quale che sia l’esito finale della consultazione elettorale, è chiaro che non ci sono ancora visioni chiare per l’Afghanistan.
Quanto meno, non nelle menti dei leader occidentali presenti nell’area. Che chiedono una sorta di “mutazione genetica”degli abitanti afgani e sembrano sperare in un intervento soprannaturale, in grado di limare via i troppi problemi del Paese. Certo, una nuova strategia come quella tratteggiata dal generale McChrystal, che ha già dimostrato di sapere il fatto suo, potrà dare esiti positivi. Ma senza la cooperazione interna sarà molto difficile vederli durare nel tempo. Mentre su Kabul si staglia l’ombra di un ballottaggio che, politicamente e socialmente, potrebbe avere effetti deleteri sul brevissimo e sul lungo periodo. Con buona pace degli Stati Uniti e del loro nuovo leader militare, votato a una realpolitik sempre più difficile da interpretare.
di lesioni permanenti hanno screditato il voto afgano, ma non hanno arrestato la promessa e la possibilità di raggiungere la pace. Tuttavia ancora non si sa quanto è lungo il cammino dell’Afghanistan verso la democrazia. Ma le fondamenta per un’autodeterminazione e un governo responsabile, affidabile, rappresentativo sono più forti oggi rispetto al passato.
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politica
Lo scontro. Sempre più spesso, e in modo sempre più contraddittorio, il dibattito politico tende a strumentalizzare le posizioni del Vaticano
L’Italia avvelenata Dietro l’attacco all’Avvenire c’è la voglia di fare della fede un’arma di partito invece che una fonte di dialogo di Savino Pezzotta segue dalla prima Siamo di fronte ad una politica che non disdegna l’uso del “manganello” mediatico e che ricorda al sottoscritto uno slogan che diceva «colpiscine uno per educarne cento». Logiche e strumenti che pensavamo consegnati al passato. Non mi sono mai permesso, nella mia lunga vita d’impegno, di commentare e utilizzare questioni private dei personaggi politici, ho sempre cercato di giudicare il loro agire, il loro fare e il loro dire. Nell’agire politico c’è anche una questione di stile e di rispetto che dovrebbe sempre prevalere sulla polemica di parte, poiché anche per tale via la politica declina. In questo caso si è andati oltre. È chiaro che si vuole intimidire la Chiesa e la sua libertà di dire. La colpa di Dino Boffo, cui ho espresso la mia solidarietà, è stata quella di dire, con tanta prudenza, quello che molti cattolici pensavano. Il Presidente del Consiglio si è dissociato dal “suo” Giornale, ma mi domando: questo basta?
La Chiesa e i suoi organismi agiscono secondo logiche che s’incontrano con la politica ma che a lei non possono essere sottomesse, operano su un versante diverso e di questa diversità occorre sempre tenerne conto e quando s’interpretano con categorie prettamente politiche e di schieramento si cade in una visione clericale che contrasta con la dimensione vera della laicità. Queste vicende, seppur dolorose, hanno il merito di mettere in luce il permanere in Italia di una visione strumentale del rapporto con la Chiesa e con il cattolicesimo. I cattolici e la Chiesa sono blanditi, corteggiati a destra e a sinistra a secondo le convenienze della propria parte, basta che si dicano cose diverse da quelle che ci si aspetta, che parte l’attacco. Lo vediamo ogni giorno sulle questioni della vita, del testamento biologico, del respingimento degli immigrati, del reato di clandestinità. Si minaccia di denunciare il Concordato, si moltiplicano le accuse d’ingerenza e poi si annuncia che si «andrà in Vaticano» per spiegare al Santo Padre il percorso compiuto per diventare «il solo partito con radici cristiane». Non mi pare che le “radici cristiane” siano compatibili con i riti al dio Po e i richiami celtici. A fronte di tutte queste manipolazioni, resto convinto che il nostro sia il tempo, più che delle invettive, di testimoniare un cri-
«Potrebbe farlo per il bene del quotidiano e della Chiesa», dice monsignor Mogavero
Ipotesi dimissioni per Boffo, ma resta il mistero sulla lettera che lo diffama di Errico Novi
ROMA. «È molto provato e umanamente a pezzi». Dino Boffo viene descritto così dalle persone a lui vicine. Non è difficile crederlo: così la previsione fatta dal responsabile Affari giuridici della Cei, monsignor Domenico Mogavero, non sembra particolarmente azzardata: se ritiene che l’attacco rivoltogli dal Giornale di Vittorio Feltri «pur essendo privo di fondamento», possa «nuocere alla causa di Avvenire o agli uomini di chiesa, potrebbe anche decidere di dimettersi», dice il monsignore. La lettera anonima che lo accusa sembra provenire da ambienti dell’università Cattolica del Sacro cuore di Milano, e in ogni caso allo stesso monsignor Mogavero (che l’ha ricevuta poco prima di Pasqua come la maggior parte dei vescovi italiani) è apparsa come «un avvertimento mafioso».
Certo l’esistenza di dossier anonimi come quello su Boffo determina un’atmosfera al limite dell’irrespirabile. Il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi, presieduto da Francesco Rutelli, non è in grado di attenuare la sgradevole sensazione: il vertice dell’organismo bicamerale ha ribadito la determinazione a «vigilare perché non si registrino deviazioni», in un momento che Rutelli definisce «molto delicato per la vita democratica». È un altro rappresentante del Pd nel Copasir, il deputato Emanuele Fiano, a interrogarsi sul fatto «assai curioso» che il Giornale «abbia pubblicato un documento non riconducibile a una sentenza giudiziaria, ma a qualcos’altro di cui non si capisce né l’origine né l’autore, né il motivo per cui sia stata compilata».
Nel vortice dei veleni affiora almeno una certezza: l’informativa citata dal Giornale nell’attacco di venerdì scorso non fa parte di alcun fascicolo giudiziario. Nonostante l’orientamento a mantenere il riserbo, il gip di Terni Pierluigi Panariello ammette almeno questo: «Non c’è alcuna nota che riguardi le sue inclinazioni sessuali», spiega ai cronisti il magistrato. Che entro oggi deciderà se concedere ai media l’accesso agli atti riguardanti il direttore di Avvenire. La richiesta è stata presentata da diversi giornalisti, innanzitutto dal blogger e vicedirettore di Red tv Mario Adinolfi. Panariello deciderà anche in base al parere del procuratore della Republica di Terni Fausto Cardella. In ogni caso non è dagli uffici giudiziari della città umbra che arriverà un chiarimento sull’origine dell’informativa utilizzata da Vittorio Feltri, evidentemente. Il direttore del quotidiano milanese so-
Il contegno controllato con cui Feltri difende la riservatezza delle sue fonti non rassicura l’opposizione. Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa definisce «vergognoso»» l’attacco all’Avvenire: «È un segno del degrado della politica dei nostri tempi». Il quotidiano diretto da Boffo, ricorda Cesa, «è un giornale libero ed è un punto di riferimento per tutti noi cattolici». Una difesa convinta arriva anche da Enrico Letta: «L’attacco è inaccettabile, ma Boffo può contare sulla stima unanime maturata in quindici anni di direzione del giornale». C’è una strategia chiara del berlusconismo «finalizzata a minare i ponti, far saltare le mediazioni, un gioco a fare sì che lo scontro aumenti», secondo il responsabile Welfare del Partito democratico. A toni anche più allarmati ricorre l’Italia dei valori: se Antonio Di Pietro presenta un esposto in Procura, il presidente dei suoi senatori, Felice Belisario, non esita a parlare di «democrazia in pericolo nel momento in cui cominciano a circolare informative».
stiene che non ha importanza svelare la provenienza del“documento”né sottolinearne le evidenti incongruità tecniche: «Conta solo che il fatto è quello e tocca a Boffo smentirlo con delle prove».
stianesimo fragile, ma di Chiesa. Certamente capace di ispirare i progetti e le presenze in politica senza affidarsi loro. Questo diventa un terreno sempre più impegnativo di ricerca e di riflessione, ma anche impegno a generare una libertà dalla politica per costruire la libertà della politica. Il tema delle radici è una questione importante da non sottovalutare ma che andrebbe sempre declinata tramite il concetto di “tradizione”. La tradizione, correttamente intesa, nulla ha a che fare con il tradizionalismo conservatore ma va colta come quel flusso di vita che nasce dalla Parola e che si sedimenta nel cammino che la Chiesa compie in mezzo agli uomini. Il richiamo alla tradizione e alla sua dimensione evolutiva, ci porta a scoprire quali sono i cambiamenti che ognuno di noi e la stessa Chiesa devono mettere in atto per attuare, in questa situazione sociale, economico e politico, la fedeltà ad una missione che guarda oltre il contingente, che sprona a generare nuovi inizi, che teme la staticità del sacro.
Non c’è bisogno di nuovi crociati, né di scudi, fortezze e corazze, ma di persone che vivono, le loro debolezze , paure e fragilità, nell’orizzonte di un mondo fatto d’accoglienze, di pace e di dialogo. Queste le piste che i cristiani dovrebbero cercare di percorrere nella loro vita e nell’impegno politico e sociale. Si deve assumere un pellegrinare che contrasta con certe posizioni molto in voga, ma che ci aiuta a capire come, le sortite di questi giorni e lo stesso attacco ad Avvenire, mostrino
politica
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Perché non sono chiari i contorni della contesa Feltri-Boffo
Il lato oscuro di un’“informativa” di Luigi Accattoli segue dalla prima cardinale Angelo Bagnasco, che oggi è al posto che fu di Ruini e che sabato ha quaSappiamo con certezza che egli “giusti- lificato come «disgustoso e molto grave» ficò” quell’evento prima con il cardinale l’attacco di Feltri a Boffo. I due cardinali Ruini e poi con il cardinale Bagnasco hanno ritenuto adeguate le spiegazioni che lo mantennero nell’incarico di diret- del direttore di Avvenire. Ma è giunto il tore di Avvenire. Perché non comunica momento – io credo – perché quelle spiequella giustificazione a tutti noi? Riten- gazioni siano date pubblicamente. Perché go questo l’unico aspetto davvero inte- è vero che Feltri non ha “scoperto” il fatto ressante del caso perché l’unico attinen- che era già noto, ma l’ha imposto – forse te ai fatti e perché tutto il resto mi pare si maggiorandolo – all’opinione pubblica. E spieghi da sé. Provo a riassumere quan- questa ha diritto di sapere. Il resto – diceto si sa e quello che si spiega da sé per vo – si spiega da sé. Non ci vuole grande formulare infine una sollecitazione a acume a intuire l’interesse giornalistico e chiarire ciò che solo Boffo può chiarire. politico con cui si muove Feltri e non è necessario ipotizzare una partecipazione atQuando venerdì lessi l’attacco del Gior- tiva del premier nella sua decisione di nale e il comunicato di Boffo mi fu subito muovere l’attacco. Si spiega da sé anche chiaro che il direttore la vasta solidarietà racdi Avvenire avrebbe colta da Boffo, stante la querelato, come poi ha fiducia che gli è stata annunciato domenica confermata dal vertice e come ieri dovrebbeepiscopale. Non c’è ro aver fatto i suoi avverso invece che da sé vocati. Era anche chiasi chiarisca l’antefatto. ro a chi conosceva il Potrebbe capitare addifatto della pattuizione rittura che Boffo finie dell’ammenda che la sca con l’avere la mequerela di Boffo glio in tribunale, semavrebbe avuto buon plicemente perché Felgioco contro quanto il tri non può provare la Giornale desumeva da fondatezza delle accuquella patetica “inforse mosse sulla base mativa”, ma sarebbe dell’informativa, senza restato da intendere il che nulla venga detto fatto della condanna e di ciò che avvenne tra il della “pena”. 2001 e il 2002, a seguito Di quel fatto si sapeva di telefonate di Boffo o da tempo e non solo di un collaboratore che per sussurri: ne avevausava un suo cellulare, no scritto Notizie radicoinvolgendo una sicali e Panorama, per gnora o una coppia di non dire di quanto si Terni. poteva trovare nella Perché almeno tre soRete. Dunque di nuovo il Giornale aveva prono ormai le ipotesi suldotto soltanto del “fula “molestie” di cui fu mo” più o meno perseincolpato. Ipotesi che cutorio su Boffo come circolano come da lui “noto omosessuale”: autorizzate, ma senza così si legge nell’inforche nessuno possa rifemativa, che ora appare rire una sua parola dia tutti – quale ne sia retta. È facile immagistata l’origine – come nare un qualche serio una lettera anonima più che un atto di po- impedimento alla chiarificazione ma forlizia. Come lettera anonima era infatti ar- se è anche bene tenere a bada la fantasia: rivata a dei vescovi (non a tutti, mi si assi- con l’età si impara come possa essere rocura) la primavera scorsa ma negli am- manzesca la realtà. Egli avrebbe pattegbienti ecclesiastici la ritengono redatta giato per chiudere riservatamente un conqualche anno addietro, quando al vertice tenzioso imbarazzante, a protezione della della Cei c’erano il cardinale Ruini e l’ar- propria o dell’altrui immagine e ora per la civescovo Betori che vengono indicati – stessa ragione manterrebbe il silenzio. Ma insieme al cardinale Tettamanzi – come la questione non è più privata e io sono aventi “indubbia conoscenza” del “reato” convinto che egli la possa chiarire. Dia la attribuito a Boffo. sua versione di quei fatti – che nel comunicato di venerdì aveva indicato come Sempre in quegli ambienti si dà per cer- «una vicenda di fastidi telefonici di cui ero to che a suo tempo il direttore di Avvenire stato io la prima vittima» – e saremo tutti abbia spiegato il fatto al cardinale Camil- con lui. Intanto gli esprimo la mia persolo Ruini – che è stato presidente della Cei nale solidarietà. www.luigiaccattoli.it fino al marzo del 2007 – e ultimamente al
I fatti sbandierati dal “Giornale” si sapevano da tempo e non solo per sussurri: ora il direttore di “Avvenire” dovrebbe dire quale giustificazione usò nel 2004 con la Cei
Queste vicende, seppur dolorose, hanno il merito di mettere in luce il permanere nel nostro Paese di una visione del tutto strumentale del possibile rapporto della politica con la Chiesa e con il cattolicesimo l’affiorare di un neo-clericalismo e di un laicismo che preoccupa. In pratica si vorrebbe la Chiesa a sostegno della propria politica, della propria parte. Quando questo non avviene parte l’attacco. Bisognerebbe far capire a tutti che quando non si rispetta la libertà della Chiesa, anche se scomoda, si produce una profonda divisione nel Paese e si indebolisce la libertà di tutti.
Vorrei chiudere questa mia breve riflessione con una frase di Beppe Donati, uno dei grandi del popolarismo, direttore de Il Popolo, uno tra i più fieri oppositori al fascismo e a Mussolini, morto in esilio. Un personaggio esemplare anche se un poco, purtroppo, dimenticato. Scriveva il 1 gennaio del 1929, in un articolo dal titolo «La democrazia italiana e avventura Fascista», che: «La Chiesa è fatta per gli uomini e non gli uomini per la Chiesa. Se coloro che dovevano hanno obliato la divina prudenza dell’Evangelo, io “cattolico penitente e liberale impenitente”, secondo la celebre formula di un monaco illustre e santo, non ho che da restare fedele a me stesso, pur nel turbinare della divina fatalità che fa uscir di mente, secondo la parola del vecchio Euripide, coloro che vuol perdere».
Qui sopra, Palazzo Chigi e San Pietro: due luoghi che simboleggiano lo scontro in corso, in questi giorni, tra Berlusconi e il Vaticano. A destra, il direttore di ”Avvenire” Dino Boffo. Nella pagina a fianco, dall’alto, gli altri protagonisti di questa vicenda: Silvio Berlusconi, Tarcisio Bertone, Vittorio Feltri e Angelo Bagnasco
diario
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Polemiche. La Libia: «Loro dietro tutti i guai dell’Africa». La risposta di Gerusalemme: «È solo un bulletto»
Gheddafi minaccia Israele
Manifestazione dell’Udc: «Adesso basta inchini al dittatore» di Francesco Lo Dico segue dalla prima
stria. Senza contare che solo all’ultimo momento saltò la sua prevista orazione in Parlamento, in seguito al dissenso di molti. «La sola forza politica che si è opposta sin dall’inizio alla firma del trattato con la Libia – spiega il segretario dei centristi Lorenzo Cesa – è stata l’Unione di Centro. Noi siamo stati coerenti fin dall’inizio, gli altri no. In Libia – aggiunge – vige un regime dittatoriale senza controlli internazionali, dove i diritti umani e la libertà delle persone vengono ripetutamente violati. In più il regime non rispetta il dolore delle vittime, accogliendo come un eroe l’attentatore di Lockerbie».
Tema assai ingombrante, sui cui ieri si è espresso peraltro, nel corso di un sit-in di protesta da lui organizzato davanti alla sede dell’ambasciata libica insieme a Ferdinando Adornato e Francesco D’Onofrio, anche il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa. «La politica del governo in fatto di immigrazione è totalmente sbagliata – ha spiegato Cesa nel corso della manifestazione che ha raccolto ieri mattina un centinaio di persone dinanzi all’ambasciata di via Nomentana – I respingimenti sono legittimi ma nel rispetto del diritto d’asilo e delle convenzioni internazionali. Senza dimenticare che di fronte a problemi così complessi non si possa e non si debba dimenticare in nessun caso lo spirito di accoglienza e la pietas cristiana che sono sempre appartenuti al dna di questo Paese».
E che di certo devono appartenere all’attuale presidente del Consiglio, che mai schifiltoso quando si tratta di allestire momenti festevoli, ha voluto rendere cristiano omaggio al fratello libico che nel 1970 espulse 20mila coloni italiani dopo averne sequestrato beni
L’Unione Europea chiede chiarimenti all’Italia sulla questione dei respingimenti degli immigrati clandestini. Nessun problema, risponde Maroni: «L’accordo con Tripoli funziona» e pensioni. «È scandaloso che lo Stato italiano si sia occupato prima dei libici e poi degli italiani – ha aggiunto il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, mentre i manifestanti invitano compostamente lo Stato a smettere di genuflettersi di fronte al colonnello libico – Questi 5 miliardi di dollari potevano essere investiti oggi a sostegno delle nostre imprese, delle nostre infrastrutture e delle nostre famiglie – aggiunge Cesa – e poi non possiamo dimenticare i nostri connazionali esuli, privati di tutto e cacciati dalla Libia, gli incarcerati da Gheddafi e gli atti di terrorismo».
Rilievi che non sembrano turbare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, come sempre sorridente di fronte a
flash e taccuini, e apparso a suo agio di fronte al faraonico programma di festeggiamenti voluto dal leader libico per celebrare degnamente la deposizione del re Idris. Concerti, esibizioni con decine di cammelli, una chilometrica parata militare, ghirlande di fiori, erbe e luminarie in ogni angolo di Tripoli. Una due giorni per la quale Gheddafi non ha badato a spese. Una festa allietata tra l’altro dall’esibizione della pattuglia delle Frecce, non tricolori in questo caso, ma deputate a lasciare nell’alto dei cieli solo il verde che celebra la rivoluzione libica. A impreziosire il pacchetto di proteste, ci ha pensato poi la stessa Libia, che pochi giorni fa ha riaccolto nelle sue patrie sponde Abdelbaset al Megrahi, attentatore di Lockerbie rilasciato per mo-
tivi di salute dal governo scozzese. Evento che, insieme alle farneticazioni di ieri su Israele, mette l’Italia in serio imbarazzo di fronte alla comunità internazionale. «Denunciamo oggi – argomenta Cesa – un rischio concreto: che la politica estera del nostro Paese scivoli pericolosamente fuori dall’atlantismo e l’europeismo e si apra alle cattive amicizie, come quella con Gheddafi». Fatti
e misfatti, che in Italia hanno prodotto un’assai tenue opposizione. Forse ingolosito dall’università di Sassari, che ha annuciato il proposito di coronarne la carriera con una laurea horroris causa in giurisprudenza, nel corso dell’ultima trionfale visita italiana il colonnello ha fatto tappa anche all’università La Sapienza, e non si è neppure fatto mancare Campidoglio e Confindu-
Ma ieri è stata anche la giornata di un nuovo scontro tra Italia e Unione Europa sulla questione dei respingimenti degli immigrati presunti clandestini. La Commissione europea sembra intenzionata a rovinare il sempre più appassionato flirt della strana coppia. All’indomani dell’ultimo respingimento verso le coste libiche di un gommone che ospitava a bordo più di settanta persone, probabilmente provenienti da Somalia ed Eritrea, Bruxelles vuole vederci chiaro e annuncia provvedimenti. «La Commissione europea è al corrente delle ultime notizie riguardanti il respingimento dell’imbarcazione e invierà una richiesta di informazioni ai due Paesi interessati, Italia e Malta, per poter valutare la situazione», ha fatto sapere Dennis Abbott, portavoce dell’esecutivo comunitario. «La Commissione sottolinea che qualunque essere umano ha diritto di sottoporre una domanda che gli riconosca lo statuto di rifugiato o la protezione internazionale», ha aggiunto Abbott. Parole di fuoco, evidentemente alle quali ha risposto il ministro Maroni dicendo che «non ci sono problemi: l’accordo con la Libia sta dano i suoi frutti». Presto sapremo quali.
diario
1 settembre 2009 • pagina 7
Il ministro leghista contro la “tolleranza zero” del governo
Pediatri e ministero d’accordo sul monitoraggio continuo
Zaia: «Basta criminalizzare l’alcol sulle strade»
Influenza: solo chiusure «eccezionali» per le scuole
ROMA. Continua la campagna d’estate del ministro leghista Luca Zaia: «Bisogna finirla di considerare ubriaco chi beve due bicchieri: è in atto una criminalizzazione del vino». Paladino dei produttori, il ministro dell’Agricoltura attacca i sostenitori della tolleranza zero al volante. E non gli importa di sconfessare il collega di governo, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, che paragona l’alcol a una piaga sociale come la droga. In un’intervista al mensile Quattroruote il ministro leghista entra di petto nel dibattito sui limiti di tasso alcolemico per chi guida: «Criminalizzare il vino non ha senso alcuno e che sta uccidendo uno dei comparti più pregiati del made in Italy». Accetta il limite zero solo per i neopatentati, introdotto di recente da una norma approvata alla Camera. Per il resto, afferma di non credere nella cultura del proibizionismo. «Il limite attuale, 0,5 grammi di alcol per litro di sangue, è ragionevole. Entro quei livelli si è sobri e perfettamente in grado di guidare. Corrisponde a due bic-
ROMA. Ancora polemiche sul-
chieri di un vino che abbia non più di 11 gradi, diciamo uno spumante o un rosso non strutturato».
Una voce fuori dal coro della maggioranza che vorrebbe estendere a tutti il divieto assoluto di bere prima di mettersi al volante. Zaia invita a guardare con attenzione le statistiche sugli incidenti: solo il 2,09 per cento è causato da guidatori in stato d’ebbrezza, gente ben al di sopra dello 0,5. «Non vedo perché - sottolinea - dovrei rinunciare a bere con intelligenza e moderazione solo perché ci sono irresponsabili che si ubriacano. Come mai non si guarda con altrettanta severità alle altre cause degli incidenti? Vogliamo parlare del fumo o dei farmaci che danno sonnolenza? Degli antistaminici che migliaia di italiani prendono in primavera per combattere le allergie? O dei tranquillanti?».
La benzina infiamma l’inflazione di agosto Dopo quattro mesi il caro vita torna a crescere: +0,4%
l’ipotesi di rinviare l’apertura delle scuole per evitare il contagio dell’influenza ”A”. Dopo lo ”stop” del ministro Gelmini, la stessa federazione dei pediatri (Fimp) fa marcia indietro: «Non abbiamo mai chiesto né formalmente, né informalmente, in alcuna sede, di posticipare l’apertura dell’anno scolastico per contrastare la diffusione del virus della nuova influenza A H1N1», scandisce il presidente Giuseppe Mele. Una misura che «peraltro, al momento non avrebbe alcun effetto a meno di non considerare l’apertura delle scuole una variabile a data da destinarsi». I pediatri considerano semmai opportuna, in osservanza delle misure
di Francesco Pacifico
ROMA. Le aspettative dei consumatori di un autunno a inflazione negativa rischiano di andare deluse. Ad agosto il petrolio che per tutto il mese ha rincorso la soglia psicologica degli 80 dollari, da un lato, gli aumenti tariffari di stagione, dall’altro, hanno riportato il caro vita sotto il segno positivo: +0,4 per cento, per la precisione, rispetto a luglio (e +0,2 rispetto ai 12 mesi precedenti). E tanto basta all’Italia per andare in controtendenza con quando accede in Europa, dove l’indice dei prezzi segna un 0,2 per cento nello stesso mese.
Se una rondine non fa primavera, non sarà certamente questa fiammata dell’inflazione quel segnale in grado di dare il là a un ciclo positivo. E che sembra ancora lontano. Gli analisti, infatti, si mostrano meno ottimisti del ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola. Il quale ieri ha dichiarato a caldo: «La lieve ripresa dei prezzi in agosto conferma i sintomi di ripresa dell’economia e allontana i rischi di deflazione». Nota l’economista Mariano Bella, direttore del Centro studi di Confcommercio: «In questi numeri si sente il peso del petrolio, il ritocco alle tariffe dell’energia e un po’di stagionalità per i servizi di trasporto. Che nonostante le smentite delle compagnie, hanno visto rincari per i viaggi in aereo». Se c’è un’inversione del trend, questa al momento ha una valenza più sulla statistica (dopo quattro mesi si smuove l’indice dei prezzi) che sull’economia reale. E sono soprattutto due dati che spingono in questa direzione. I numeri dell’inflazione su alimentari e quelli su bevande alcooliche e tabacchi, infatti, sono stabili, con rispettivamente un -0,1 e un +0,1 per cento. Invece, sempre a livello congiunturale, i prezzi dei trasporti crescono ad agosto dell’1,8 per cento, quelli della benzina verde dell’1,8, quelli del gasolio del 3. E in salita va anche una voce molto ciclica in questi periodi:“ricreazione spettacoli e cultura” (+0,6). «Il comparto trasporti», aggiunge Bella, «pesa da solo per il 14 per cento del paniere Istat, ha
causato almeno 3 dei 4 decimi di aumento nel dato di agosto. E non a caso le vendite che passano per negozi e supermercati segnano grandezze deflazionistiche». Ma gli esperti consigliano anche di prepararsi all’idea che il caro prezzi è dietro l’angolo. Perché ben presto i Paesi più sviluppati potrebbero tornare a fronteggiare il caro vita. Al riguardo Fabio Pammolli, il direttore del centro studi Cerm, nota che «la ripresa della crescita dei prezzi ad agosto si manifesta troppo presto per i tempi della ripresa». Sono in molti a guardare alla seconda metà del 2010, quando la Bce invertirà la sua politica sui tassi per fronteggiare il caro vita. «Questo dato», aggiunge il direttore del Cerm, Pammolli, «arriva troppo presto per due ragioni: perché si mantiene basso il potere di acquisto delle famiglie che si allontanano dai consumi, indebolendo i tentativi di ripresa dell’attività economica; e perché creano presupposti difficili per la seconda metà del 2009 e il 2010, in cui le politiche monetarie espansive adottate in tutto il mondo e l’atteso nuovo ciclo internazionale si tradurranno sicuramente in pressioni inflative che andranno gestite e controbilanciate».
La “verde” sale dell’1,8 per cento, il gasolio del 3, ma sono stabili i prezzi degli alimentari. Ancora lontana la ripresa
Come spiega Marino Bella, è ancora presto per capire se «l’eventuale ripresa internazionale avrà riflessi sulla domanda facendo sì che la liquidità oggi in circolazione, e al momento ben chiusa nei forzieri delle banche, inneschi tensioni inflazionistiche». Perché nulla impedisce uno scenario opposto: «La produzione dei Paesi più industrializzati ripartirà comunque con una riduzione del 20 per cento. E la cosa potrebbe frenare il gap di domanda e neutralizzare il ritorno dell’inflazione». Sempre ieri l’Istat ha diffuso i dati sulle vendite al dettaglio nel mese di giugno, che rispetto all’anno precedente sono calate dello 0,8 per cento. A soffrire di più i negozi di dimensioni medio-piccole (-1,5), mentre la grande distribuzione intravede un barlume di ripresa con +0,3 per cento annuo.
previste dall’Oms, «l’eventuale chiusura di uno o più istituti scolastici nel momento in cui si debba intervenire in comunità di tipo ”chiuso” (come appunto una scuola) per circoscrivere un eventuale diffusione infettiva». Proprio come ribadito ieri dal sottosegretario Roccella: l’influenza ”A” potrebbe portare alla chiusura delle scuole «solo in presenza di elementi immediati di preoccupazione», ma al momento «questa urgenza non sussiste».
D’altra parte, fa notare il farmacologo Silvio Garattini, chiudere ”sine die” le scuole è una proposta senza senso: «Considerando che il picco dell’epidemia sarà a novembre, bisognerebbe tenerle chiuse almeno fino al nuovo anno, se non a primavera. Una cosa insensata. Semmai si può pensare, come peraltro già si è fatto in qualche caso, a una chiusura mirata di qualche giorno nelle scuole con diversi casi di contagio, ma sono situazioni che vanno valutate caso per caso». Intanto, rimane alta la preoccupazione per il giovane parmense ricoverato a Monza: le sue condizioni sono stazionarie, non si registrano miglioramenti e il ragazzo rimane in coma farmacologico e in prognosi riservata.
politica
pagina 8 • 1 settembre 2009
Primarie. La partita a tre produrrà nuove spaccature. E Franceschini propone: nessun apparentamento dopo il voto
Il Lodo Marino Inizia la rincorsa ai delegati del chirurgo, indispensabili per diventare segretario Pd di Marco Palombi
ROMA. Film: Straziami ma di baci saziami. Pamela Tiffin, seduta al tavolo di un ristorante, invoca il suo innamorato (Nino Manfredi): «Marino… Marino… Voglio solo Marino». Un cameriere, passandole accanto: «Signorì er Marino è finito, se vole c’avemo un Frascati». Le primarie del Partito democratico, in cui pure il Marino ancora c’è, potrebbero avere un decorso diverso: grazie al meccanismo messo in piedi dai costituenti democratici, infatti, le truppe del professore siculo-genovese-americano (cioè il Marino che avanza) rischiano di essere determinanti per i due candidati “veri”, Dario Franceschini e Pierluigi Bersani, che
infatti si stanno già muovendo per accaparrarseli o, almeno, per neutralizzarli.
Spiegazione: come succede in America (ma solo per la candidatura presidenziale, non certo per scegliere i capi dei partiti), i partecipanti alle primarie non votano direttamente il futuro segretario, ma eleggono delegati che appoggiano l’uno o l’altro in una successiva “Assemblea nazionale”. E qui sta l’inghippo. Recita lo Statuto del Pd: «Qualora nessun candidato abbia riportato la maggioranza assoluta, il presidente dell’Assemblea nazionale indice il ballottaggio a scrutinio segreto tra i due candidati collegati al maggior nu-
Io lo dico da mesi. Ma le regole sono queste e ce le teniamo: per cambiarle, bisognerebbe modificare lo Statuto e per farlo andrebbe convocata l’Assemblea nazionale. Non si può fare». E visto che le regole sono queste, gli staff dell’attuale segretario e dell’ex ministro si stanno già preparando alla tempesta perfetta: se il distacco alle primarie non sarà marcato a favore dell’uno o dell’altro – diciamo intorno ai cinque punti – l’Assemblea nazionale dovrà scegliere davvero. Per questo la corte a quel che resterà di Marino è serrata. Gli uomini dell’attuale segretario, e non solo loro peraltro, sono convinti che la candidatura del medico-senatore sia
Le regole interne al partito prevedono che venga eletto chi, alle primarie, ottiene maggioranza del 50% +1 dei voti; in caso contrario, a eleggere il “capo” sarà l’Assemblea nazionale mero di componenti l’Assemblea e proclama eletto segretario il candidato che ha ricevuto il maggior numero di voti validamente espressi». Tradotto in italiano: se nessuno ottiene il 51% dei voti, scelgono i delegati e, nel caso specifico, l’ago della bilancia saranno quelli di chi arriverà terzo. Cioè Ignazio Marino. Insomma, l’auto-trappolone regolamentare del Pd non solo mette in competizione il Congresso (ribattezzato Convenzione) con le Primarie, e cioè gli iscritti con gli elettori, ma successivamente pure le Primarie con l’Assemblea nazionale, ovvero gli elettori con gli eletti.
Non è uno scenario impossibile, tutt’altro. Pierluigi Bersani, che tra i candidati è sempre stato il più critico sulle regole del suo partito, già a fine giugno sbottò coi giornalisti che gliene chiedevano conto: «Lo scoprite adesso che è così?
in realtà una manovra di Massimo D’Alema per blindare l’Assemblea nazionale – vale a dire che Marino, al momento giusto, appoggerà Bersani - e quindi hanno segretamente avanzato agli avversari una proposta: firmiamo sin da ora un accordo per cui chi vince le primarie viene eletto segretario, anche se non raggiunge il 51%. Franceschini infatti, per via dei sondaggi e dell’appoggio di Repub-
blica che vi abbiamo descritto la scorsa settimana, è convinto che, grazie al voto popolare, sovvertirà l’esito del Congresso (con ogni probabilità favorevole a Bersani).
C’è il problema che anche l’ex ministro di Prodi è convinto di vincere: pure lui ha i suoi bei sondaggi che lo danno in netto vantaggio e fa affidamento sull’appoggio di una buona fetta dei militanti del partito, gente che quando conta sa portare la gente ai gazebo con qualche efficacia in più rispetto agli appelli sui social network. L’ex ministro e Ignazio Marino, in ogni caso, non hanno ancora rispo-
Debora Serracchiani sulla bioetica «Il futuro del partito è nel dialogo» ROMA. «Il Partito democratico ha la missione politica di fare sintesi tra le idee, anche tra quelle di Paola Binetti e le mie». È il commento dell’astro nascente del Pd, Debora Serracchiani, all’intervento di Ignazio Marino alla festa del Pd di Genova. In quel contesto ufficiale Marino aveva polemicamente chiesto a Dario Franceschini come avrebbe fatto sul biotestamento a «conciliare le posizioni di Debora Serracchiani e Paola Binetti». L’europarlamentare ha sottoli-
neato che «fallire la missione di far sintesi, o peggio scartarla a priori, significa che il Pd rinuncia alla sua vocazione di partito riformista plurale e di massa».
sto alla proposta di Franceschini di “sterilizzare” l’Assemblea nazionale. Meglio fare i conti dopo, sostengono alcuni bersaniani, a risultati acquisiti: «Come si fa a impiccarsi a un accordo del genere? E se uno vince di un solo punto? E se il primo arriva, poniamo, solo al 38% dei voti con gli altri a cinque o sei punti? Come si fa in un caso del genere a dire che il vincitore rappresenta la “volontà popolare”?». Anche Ignazio Marino, peraltro, non pare disposto a sbilanciarsi subito: arrivare all’Assemblea nazionale da ago della bilancia potendo“contaminare” programmi e squadra degli altri, per lui e i suoi, sarebbe veramente un risultato straordinario. Il retropensiero di molti – fra cui l’attuale segretario - è che tra Bersani e Marino l’accordo ci sia già e quindi non se ne farà niente. Lo schieramento che sostiene il senatore, però, non è meno eterogeneo di quelli che sostengono gli altri due candidati: ci sono, ad esempio, molti dei “quarantenni” che hanno animato il dibattito democratico finché non è iniziata la partita vera, ci sono i “girotondini”e Micromega, ma c’è pure quel Goffredo Bettini che fu a lungo il Mazzarino del centrosinistra romano. Neanche lo stesso Marino, insomma, può garantire cosa faranno i suoi delegati se all’Assemblea si scatenerà una “corsa all’acquisto”.
politica
1 settembre 2009 • pagina 9
I leader della Lega e del Pdl si sono espressi per l’ex-ministro
Perché il centrodestra «vota» per Bersani? di Antonio Funiciello e il prossimo segretario del Pd dovessero sceglierlo quelli del Pdl, Bersani vincerebbe su Franceschini per cappotto. In verità anche dalle parti dell’Udc, il gradimento nella contesa democratica è per l’ex ministro. E però le preferenze del partito di Casini si spiegano con argomenti politici più pragmatici, a partire dalla comune preferenza per il sistema elettorale tedesco. Meno chiaro, almeno apparentemente, sembrerebbe invece il favore estivo accordato da destra a Bersani. Da Tremonti a Comunione e Liberazione, passando per Bossi, nessun leader importante dell’asse Pdl-Lega ha mostrato di avere simpatie per Franceschini. Bersani non ama il federalismo, eppure il governo iper-federalista Pdl-Lega tifa per lui. Bersani è un convinto parlamentarista, al netto di qualche piccolo rinforzo ai poteri di premier e governo, eppure la maggioranza presidenzialista di centrodestra lo vorrebbe comunque capo dell’opposizione. Potrebbero apparire le simpatie di leghisti e berlusconiani ipocrite e tendenziose, mirate cioè a indebolire il candidato piacentino, non fossero espresse con commenti così prudenti e argomentati. Quasi timorose di ledere la corsa del candidato democratico preferito per la guida del maggiore partito avverso.
S
sto sono stati alla base delle cadute e dei crolli anzitempo degli esecutivi guidati da Prodi o D’Alema. L’egemonia culturale e il primato politico di Berlusconi, se ha solide fondamente endogene, ha anche un presupposto esogeno irrinunciabile nel profilo politico e negli attributi mediatici del centrosinistra italiano. Nell’immaginario berlusconiano, esso per definizione rappresenta la vecchia nomeclatura romana e rivendica fiere ispirazione e continuità con l’esperienza della sinistra comunista. Ancor meglio poi, se a capo del centrosinistra non ci sono leader come Prodi o Rutelli, ma dirigenti politici con manifeste e rivendicate frequentazioni con il Pci.
Berlusconi è da sempre convinto che alle politiche gli italiani non voteranno mai un candidato premier o un partito guidato da un leader che abbia militato e avuto ruoli di dirigenza nel Pci. Sulla con-
Berlusconi preferirebbe sicuramente confrontarsi con un “concorrente” proveniente dal vecchio Pci, piuttosto che con un “candidato premier” con un passato fra i cattolici o i moderati
Romano Prodi fa il padre nobile e lancia la campagna di pacificazione: «Dopo le primarie, tutti dovranno stringersi intorno a chi avrà ottenuto più voti» In questo scenario aperto si inserisce la dichiarazione “giapponese” di Romano Prodi. Domenica, commentando ai microfoni di Sky la vittoria del centrosinistra nipponico, l’ex premier ha infatti trovato modo di parlare anche della competizione nel Pd: «Le primarie sono un grande momento di democrazia – ha sostenuto - quello che voglio sono primarie aperte e forti, non importa se ci saranno tensioni, la democrazia è lotta vera». Dopo la lotta, però, si deve cambiare registro: «Quello che chiedo è che il vincitore delle primarie abbia dietro tutti per dare agli italiani il messaggio che avrà la forza di governare, che potrà vincere le elezioni». Una formulazione che, non a caso, richiama la proposta di appeasement avanzata Franceschini, ma abbastanza generica da non imporre nulla a Bersani (ufficiosamente appoggiato dal Professore): Prodi si presenta cioè nel ruolo di mediatore tra le opposte fazioni democratiche e padre nobile del partito. Fatto questo, gli resterà solo un piccolo gradino per assurgere al seggio di “riserva della Repubblica”, qualifica che immette idealmente se non di fatto – tra i “quirinabili”. Sognare, d’altronde, non costa niente.
Si fa sempre più stringente la lotta a tre per la segreteria del Partito democratico. A contendersi i voti dei delegati al congresso e poi degli elettori che parteciperanno alle primare, sono Franceschini, Bersani e Marino. Ma in realtà il futuro del Pd dipenderà dagli accordi incrociati che i tre candidati faranno tra di loro dopo il congresso, nel caso in cui nessuno dei tre dovesse ottenere più della metà dei voti alle primarie. A sinistra, Debora Serracchiani
Bersani piace al centrodestra e se una parte di elettori di Pdl e Lega volessero manifestare il loro favore alle primarie di fine ottobre, davvero non ci sarebbe partita. Non che l’ex ministro non abbia punti in comune con l’attuale maggioranza di governo. Bersani è da sempre l’uomo di sinistra con i milgiori rapporti con l’establishment economco finanziario, quel famigerato salotto buono che in passato non ha lesinato apprezzamenti al duo BersaniD’Alema e oggi sostiene con forza il governo in carica. Sulle vicende libiche, ad esempio, che vedono per l’Italia un forte coinvolgimento di Eni, consigliato da D’Alema, Bersani non ha espresso alcun dissenso nei confronti della ridicola parata montata intorno al primo anniversario del querelante accordo tra Italia e Libia. Scaroni può contare su un’antichissima amicizia con l’ex ministro dello Sviluppo economico, che insieme a Prodi ha tra l’altro permesso ad Eni di mantenere fino ad ora la proprietà di Snam Rete Gas, sostenendo un monopolio energetico che non è secondo a quello mediatico di Berlusconi. L’amicizia coi poteri forti sembra insomma essere un tratto distintivo in comune tra Bersani e il centrodestra italiano. Eppure questo, e gli altri punti di raccordo, non bastano a spiegare una preferenza tanto ragionata. Ben oltre le convergenze tattiche che portano i berlusconiani e i leghisti ad esprimere il loro consenso per Bersani, è una visione complessiva e più profonda della dialettica democratica nostrana, che suggerisce al centrodestra un simile orientamento. Da quindici anni il fronte conservatore esercita in Italia un’egemonia culturale e un primato politico incontestati. Neppure tra il ’96 e il 2001 o tra il 2006 e il 2008, anni di governo di centrosinistra, quell’egemonia e quel primato sono venuti meno, piutto-
traddizione in termini che prende corpo in un partito (il Pds e i Ds prima, il Pd oggi, ancor più se affidato a Bersani) che non può esprimere il candidato premier della coalizione di cui è egemone, si sostanzia tutta la polemica anticomunista berlusconiana. Che se è snobbata da un ceto intellettuale in distonia da una vita col paese, è radicata visceralmente nell’organismo della comunità nazionale. Il centrodestra ha bisogno di avere gli ex-comunisti in prima linea sul fronte avverso, perché in questo modo il suo messaggio entra più facilmente in sintonia con un’Italia da sempre risolutamente anti-comunista. Accentuare, come fa tutti i giorni Bersani, la polemica interna su vicende simboliche come l’utilizzo della parola “sinistra”, va esattamente nella direzione auspicata da Berlusconi. Perché la sinistra in Italia, a partire dalla stagione craxiana degli anni Ottanta, è indiscutibilemente quella comunista. Per quanti sforzi faccia Bersani a richiamarsi al socialismo (da lui tanto contrastato quando i socialisti italiani erano al governo) e al cattolicesimo democratico, col suo richiamo identitario non fa che iscriversi nei vincenti schemi berlusconiani.
panorama
pagina 10 • 1 settembre 2009
Aeroporti. Da anni, ormai, lo scalo romano non riesce ad assorbire al meglio il traffico estivo
Fiumicino, cronaca di un disastro di Andrea Giuricin estate è stata caratterizzata tanto dai ritardi nella riconsegna bagagli all’aeroporto di Roma Fiumicino, quanto dalle dichiarazioni di minaccia di ritiro della licenza agli handler da parte di Vito Riggio, presidente dell’Ente Nazionale dell’aviazione Civile. Il problema di Aeroporti di Roma non è nuovo; infatti nel luglio di due anni fa, vi era stata una riunione tra Adr e lo stesso Riggio per cercare di limitare i problemi che si sarebbero comunque presentati nel periodo estivo di massimo utilizzo dello scalo.
L’
Le vicende della privatizzazione del vettore nazionale sono note e si sono concluse con il posizionamento
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
dell’hub a Fiumicino e il relativo ritiro da Milano Malpensa. Questa decisione ha provocato i disguidi più grandi ai passeggeri del primo scalo italiano. L’aeroporto romano, infatti, ha dimostrato di non essere in grado di gestire i picchi di traffico estivo a causa di un sistema di smistamento bagagli non effi-
te e il controllore di tutto questo è lo stesso Enac che attualmente minaccia il ritiro delle licenze. Certo sono state comminate delle sanzioni, pur per degli importi non elevati (questo è un problema relativo ai limitati poteri dell’Ente stesso), ma queste non hanno sortito alcun effetto. I ritardi nella riconse-
Il presidente dell’Enac Vito Riggio minaccia sanzioni ad Alitalia per ritardi e disservizi. Eppure è stato uno degli sponsor di Colaninno ciente. Il sistema bagagli dello scalo è sempre stato uno dei più carenti nel panorama internazionale e questo fatto non è per nulla casuale; infatti per troppi anni, a causa dei litigi interni tra gli azionisti di Aeroporti di Roma, la società concessionaria è stata quella che meno ha investito per migliorare e risolvere i problemi esistenti. Tutti i maggiori scali europei, compreso quello di Milano Malpensa, nel 2006 indicavano un tasso d’investimento compreso tra il 25 e il 30 per cento sui ricavi, mentre Adr si fermava a circa il 12 per cento. La carenza dunque era eviden-
gna dei bagagli hanno raggiunto quasi il 50 per cento e in pratica la totalità delle compagnie non ha rispettato i limiti di qualità imposti dall’Enac.
Si possono trarre due conclusioni. In primo luogo, il ruolo dell’Enac è stato alquanto discutibile; infatti proprio il presidente dell’Ente è stato uno degli attori che più ha spinto per la vendita di Alitalia alla cordata italiana e per la fusione con Airone. Questa scelta con il conseguente posizionamento dell’hub della compagnia sullo scalo romano aveva sollevato dei dubbi, che si sono
rivelati fondati, sulla capacità di reggere i picchi di traffico estivo dell’aeroporto gestito da Aeroporti di Roma. Il presidente Vito Riggio minaccia ora sanzioni più pesanti delle multe inflitte, mentre anche il Ministro Altero Matteoli chiede un’indagine conoscitiva sulle problematiche. Tuttavia l’Enac ha avuto un ruolo essenziale per le criticità che si sono avute nello scalo romano: non solo non è riuscito a prevenire il problema, ma con l’appoggio incondizionato ad Alitalia, di fatto ha sovraccaricato maggiormente un aeroporto non in grado di reggere i picchi di traffico. La seconda conclusione riguarda il sistema delle concessioni. È possibile che una società concessionaria, anche dopo tutte le problematiche avute in questi anni e non ancora risolte, continui a poter operare indisturbata? Si ricorda inoltre che è stata concessa la possibilità di incrementare le tariffe aeroportuali negli scorsi mesi sia alla Sea che ad Adr. In definitiva chi sbaglia certamente non paga, mentre i viaggiatori saranno costretti a pagare di più per un servizio non certo il migliore d’Europa.
Depressione e disoccupazione dietro all’efferato delitto di Reggio Emilia
La strage di Sabbione e il “male oscuro” a notizia la conoscete e non è bella: un padre ha sterminato la sua famiglia e lui, dopo essersi lanciato dal terzo piano, è in coma, ma non è grave e ce la farà. Ma per fare cosa? Ecco, la notizia che vorrei dare è questa: morto anche Davide Duò, l’ex operaio disoccupato che l’altra notte ha ucciso a coltellate nel sonno la moglie Sandra, il figlio Thomas e ha ridotto in fin di vita l’altro figlio Marco di 4 anni e la signora Elisabetta, padrona di casa che ospitava la famiglia. Perché dovrebbe sopravvivere Davide Duò? Lui in vita e i suoi cari sterminati dalla sua follia di un momento. La sua vita non c’è più, meglio che muoia anche il suo corpo.
L
È accaduto a Sabbione, un piccolo gruppo di case nel territorio di Reggio Emilia. Lui era un “tipo ombroso”: così si sono espressi i vicini di casa. Era depresso, aveva perso il lavoro, viveva in una casa che non era sua, ospite della signora Elisabetta, amica della madre di sua moglie Sandra. Chissà cosa gli è passato nella testa. Chi ha visto la scena del crimine ha parlato di “mattanza”. Dopo essersi immerso nella carne e nel sangue della moglie e dei figli, il povero
Davide ha ingurgitato farmaci e buttato giù alcol, poi si è lasciato cadere dalla finestra del terzo piano. Voleva morire, ma non è riuscito a uccidersi. La pena maggiore è ora per lui sopravvivere. Le fiamme dell’inferno sono meno dolorose. Il destino tragico della famiglia Duò ricade tutto sulle spalle del padresterminatore. Meglio morire, meglio non salvare il corpo di un’anima senza più pace e speranza. Troppo crudo? Perché, voi avete un pensiero diverso? Credete che sia “giusto” che il povero padre che ha sterminato la sua famiglia rimanga in vita? Non avvertite, invece, che il senso del giusto in questo caso si è capovolto e che è “giusto” che il finisca una volta e per sempre con la sua famiglia che ha ucciso nel sonno? Meglio il nulla o la condanna di fissare l’orrore? Il det-
to popolare è verissimo: non è vero che sia la morte il peggior di tutti i mali. Anche la morte viene a “liberarci dal male” e quando l’altra notte Davide Duò, disperato, ha cercato di morire altro non voleva che liberarsi dal male che aveva divorato la sua esistenza. Davanti alle stragi familiari - e sempre più spesso se ne verificano o, forse, ci sono sempre state, ma oggi se ne hanno notizie e in passato no - si rimane attoniti, non si sa cosa pensare e si è come investiti totalmente dalla tragicità dell’evento. Si vuole capire cosa ha scatenato la follia. Spesso la follia rimane inspiegata. Forse, lo sarà anche in questo caso. Anche se qualcosa di più di un indizio c’è: la disoccupazione, le ristrettezze, la depressione. L’ex operaio senza lavoro e senza casa ma con una famiglia da mantenere era
diventato preda del “male oscuro”. È stata la depressione a spingerlo alla follia della strage? Se vivrà, potrà rispondere. Potrà dire se la sua depressione dipendeva dalla disoccupazione, se il disagio psicologico lo ha sfiancato fino al delitto familiare. Potrà rispondere, se ne avrà la forza, alle domande della sua coscienza e del suo destino, prima che alle domande di chi è chiamato a interrogarlo per dovere professionale.
Fin da ora, però, possiamo dire che troppo spesso i problemi del lavoro si trasformano in disagi psicologici che, a volte, sfociano nella violenza in famiglia. Chi è ossessionato dall’idea oppressiva del fallimento personale, chi non vede alcuna speranza perché non sa cosa fare, chi è di-sperato e non accetta se stesso, matura l’idea di farla finita e cede le armi della difesa di sé e dei suoi cari al genio maligno della follia. Abbiamo fatto del Lavoro un’ossessione, sia che ci sia, sia che non ci sia. Senza lavoro - senza essere occupati, cioè riempiti da qualcosa - non sappiamo alla lettera cosa fare e cadiamo, chi più chi meno, in depressione. E lì ognuno risponde singolarmente, con i casi della fortuna e della virtù (se c’è).
panorama
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Polemiche. Nel dibattito politico europeo trova sempre più spazio un equivoco: la questione è quella della “persona umana”
Ma popolare non vuol dire populista di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Non spetta infatti ai sostenitori dell’attualità anche politica del popolarismo sturziano la delimitazione del campo dell’iniziativa culturale e politica popolare rispetto al campo nel quale si analizzano le diverse esperienze di populismo. Quel che i sostenitori del popolarismo sturziano devono infatti elaborare è proprio quel che ritengono specifico del popolarismo medesimo sia perché questo è stato alla base della costruzione culturale prima ancora che politica del Partito popolare europeo, sia perché questo risulta particolarmente significativo proprio nel contesto della consistente crisi economicofinanziaria che il mondo sta vivendo. Una risulta essere comunque l’idea di fondo del popolarismo: la persona umana.
Si sente oggi un gran parlare di centralità della persona umana sia da chi aveva a lungo sostenuto l’esistenza e la centralità della classe operaia sia da chi aveva anche di recente sostenuto la centralità dell’individuo in quanto tale. Si deve certamente essere lieti di que-
l’Ottocento – della classe operaia da un lato e dell’individualismo imprenditoriale dall’altro con una sostanziale scomparsa della persona umana pur essendo questa ad un tempo naturalmente portata ai rapporti sociali da un lato e alla rigorosa definizione dell’interesse personale dall’altro. Nel passaggio più recente dal modello industriale al primato della finanza in quanto tale, si è venuto via via perdendo sempre più il senso dell’appartenenza collettiva alla classe operaia sia la distinzione tra interesse indi-
Anche nell’epoca della globalizzazione, il nodo resta quello della mediazione tra individualismo e socialità, proprio come aveva intuito Sturzo sta in qualche modo tardiva scoperta dell’idea stessa di persona umana ma non si può ignorare che ritratta di un concetto originariamente alternativo sia a quello della classe operaia sia a quello dell’individualismo tendenzialmente egoistico. Il passaggio dalla società agricola alla società industriale aveva infatti visto l’emergere progressivo – soprattutto nel-
viduale e giustizia sociale. Mai come in questo ultimo passaggio dalla civiltà industriale a quella finanziaria emerge con assoluta nettezza il significato profondo sociale e individuale ad un tempo dell’idea stessa di persona umana. Il popolarismo pertanto, a lungo considerato una sorta di punto di approdo del passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale, con-
serva ancora oggi – e forse persino ancor più proprio oggi – la capacità di indicare una complessiva strategia di equilibrio dei diversi modi di produzione: agricolo prima, industriale in seguito e finanziario oggi.
Se infatti si ragiona in termini di collettivismo, personalismo e individualismo ci si rende conto che è proprio il nuovo contesto della globalizzazione a costringere alla ricerca di un punto di equilibrio fra i tre grandi modelli di produzione perché non si tratta più di un rapporto tra l’uno, l’altro e l’altro ancora, limitato ad un solo Stato ma di un rapporto che ormai coinvolge i Continenti tra di loro, i modelli produttivi in ciascuno di essi prevalenti, il rapporto infine tra politica economica mondiale e politica territoriale anch’essa globale. L’attualità del personalismo sturziano risulta pertanto significativa oggi non meno di ieri proprio perché la centralità della persona umana costituisce un fattore di equilibrio costante anche se instabile tra individualismo e socialità. Queste considerazioni appaiono particolarmente signifi-
Privatizzazioni. Grandi Navi Veloci, partecipata dal presidente della Fiat, in corsa per la compagnia
E Montezemolo salvò Tirrenia di Alessandro D’Amato orse è presto per definirlo un “capitano coraggioso” come Colaninno è Passera. Ma se la similitudine Alitalia-Tirrenia comprende molti elementi di verità, allora la notizia che Grandi Navi Veloci, controllata dall’armatore Aldo Grimaldi ma compartecipata al 9% dal fondo Charme di Luca Cordero di Montezemolo parteciparà all’asta indetta da Fintecna per la privatizzazione dell’azienda guidata da Franco Pecorini – il più longevo boiardo di Stato: 25 anni al timone – può solleticare per adesso le fantasie di giornalisti e addetti ai lavori.
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tico caso Alitalia, dove, per competere sul mercato, sono stati sacrificati 8 mila dipendenti (su 24 mila). E sulla strada del risanamento ci sono però ostacoli che sembrano macigni, che la Corte dei Conti ha impietosamente messo in rilievo nella relazione sulla gestione finanziaria della società nell’ultimo quinquennio. «L’enorme esposizione debitoria, prevalentemente verso gli
La società di navigazione accumula debiti da anni. La sua vendita risponde anche a una sentenza della Ue: l’asta partirà nelle prossime settimane
La compagnia, controllata al 100% da Fintecna (ex Iri), è uno dei carrozzoni pubblici più rovinati d”Italia, e arriva a perdere quasi 200 milioni di euro l’anno, generosamente ripianati dallo Stato a ogni chiusura di bilancio: solo nel periodo 2000-2007 i trasferimenti sono arrivati a un miliardo e mezzo di euro. La Tirrenia ha 2.836 dipendenti, per ognuno di loro la compagnia accumula 73 mila euro di debito. Un rapporto tre volte maggiore rispetto all’emblema-
istituti di credito, oltre a generare notevoli interessi passivi, dimostra scarsa potenzialità dell’impresa a creare risorse finanziarie per garantire nel tempo l’equilibrio di bilancio». Personale in calo, flotta ridotta di 16 unità nel periodo, «con undici navi che hanno un’età che va dai 13 ai 32 anni» e «buona parte della flotta gravata da ipoteca a favore di banche». Passeggeri disamorati (-5% ogni anno), collegamenti abbandonati. Ma allora perché si privatizza? In primo luogo perché ce lo chiede l’Unione Europea. Il bando di gara - in via di elaborazione da parte di Fintecna - per la ces-
sione della società madre ai privati, è atteso per metà settembre: 60 o 90 giorni i tempi per le procedure che dovrebbero concludersi per fine anno. E alla gara vuole partecipare anche Grandi Navi Veloci. il gruppo, che nel 2008 ha portato a casa ricavi per 290 milioni (+8% rispetto all’anno precedente), è pronto a rilevare Tirrenia. E, stando a quanto dichiarato da Silvano Cassano, ad dell’azienda, senza chiedere alcun aiuto statale. L’operazione dovrebbe avvenire con un contratto di noleggio per cinque anni e un’opzione d’acquisto «che potrà scattare già dopo il terzo anno». Nel frattempo la tecnica del leasing darebbe fiato e introiti alla Fintecna, che così potrebbe procedere con calma alla necessaria ristrutturazione dell’azienda prima della vendita definitiva. Un piano ardito, che per funzionare ha bisogno comunque della necessaria liquidità. E che “sfora” di due anni rispetto al capolinea previsto dalla Ue: 2012. Forse qualche aiutino dal governo dovrà comunque arrivare. Sempre che, è proprio il caso di dirlo, l’affare vada in porto.
cative in Italia perché esse portano a ripensare strategicamente quell’idea stessa di modernizzazione che ha visto l’Italia in qualche modo a rimorchio di questo o quel Paese europeo prima e degli Stati Uniti d’America in seguito, proprio in termini di arretratezza italiana rispetto alla asserita modernità altrui. Di questo ritengo che debbano trattare i sostenitori del cosiddetto populismo democratico se questo – come sembra di capire – si fonda sostanzialmente non tanto sulla persona umana quanto sul cittadino elettore. La persona umana infatti è per sua natura un costante intreccio tra passato, presente e futuro della singola persona, di una famiglia, di un territorio, laddove il populismo anche se democratico sembra tener conto in misura tendenzialmente esclusiva solo del contesto elettorale, e quindi solo del presente. Senza alcuna pretesa di definire il populismo in questo o quel modo, è dunque necessario confrontarlo con il popolarismo d’ispirazione sturziana sapendo che questo ha la persona umana al centro della sua riflessione sia in Italia sia in Europa.
il paginone
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Osservata da Mosca, la recessione non è tanto diversa da quella di tutte le altri capitali mondiali: ottimismo obbligatorio ma tanti dubbi per il futuro MOSCA. Se ogni mondo è paese, la crisi vista dal Cremlino, non è poi diversa dai paradigmi italiani. Come a Roma, ma la stessa cosa capita in tutte le principali capitali coinvolte nel processo di globalizzazione, l’ottimismo è d’obbligo. Almeno quello alimentato dai santuari del potere e del governo dell’economia. Basta un singolo dato congiunturale leggermente migliore del previsto per far stappare bottiglie di champagne, nell’illusione che tutto sia finito e si possa, finalmente, ricominciare. In una città martoriata dall’ostentazione del possesso dell’automobile, esibita in strade gigantesche eppure assediate da un traffico infernale, nonostante l’efficienza di quella metropolitana, che resta l’unico rimpianto del vecchio regime comunista, a parlare è Andrei Klepach, Ministro per lo sviluppo economico. In luglio il Pil era cresciuto dello 0,5 per cento, dopo la rovinosa caduta dei mesi precedenti. Ed ecco la risposta immediata: «la recessione è terminata». Ottimismo ed esagerazione, mentre un gruppo di manifestanti occupava la stazione della metropolitana Kurskaja per protestare contro il revival di un restauro di impronta staliniana. Nella grande hall era stata riportata una lunga massima del vecchio dittatore georgiano - «Stalin ci ha spronato ad essere leali con la Nazione. Egli ci ispirò nel lavoro e nell’eroismo» - fatta cancellare, a suo tempo, su ordine di Nikita Khrushchev. Segno inquietante in tempi di crisi del mercato e di insorgente statalismo.Tanto più che per alcuni, questa è solo l’ultima goccia di un processo di riabilitazione sotterranea, che lo stesso Putin, come sostiene Alexander Cherkasov - uno dei dirigenti dell’associazione in difesa dei diritti umani Memorial - sta incoraggiando. Ed ecco, allora, che ottimismo di maniera e calcolo politico diventano gli ingredienti di una minestra che il popolo russo, da sempre fatalista rispetto alle prepotenze del potere centrale, è costretto ad ingurgitare. Ma nemmeno in Russia tutto è come prima. Non tutta la stampa è controllata dal potere centrale. E quindi le reazioni alle tranquillizzanti affermazioni non si sono fatte attendere. In un lungo articolo su The Moscow Times - il giornale in lingua inglese della Capitale - Chris Weafer, capo delle strategie della UralSib Capital, smonta
Cremlino con vista (sulla crisi)
In Russia consumi e salari reali calano ancora Ma i risparmi nel 2009 aumentano del 17% di Gianfranco Polillo ad una ad una le argomentazioni adottate dal potere centrale, nel tentativo di cloroformizzare la pubblica opinione. Un’azione di controinformazione dagli effetti, se si vuole limitati, visto che il giornale è in lingua inglese, ma non meno importante se si considera ch’esso si rivolge al jet set internazionale. A coloro, cioè, che dovrebbero credere alle parole del Governo ed aiutare l’economia russa ad uscire dal pantano
della crisi. Cosa difficile da ottenere, vista la nettezza delle posizioni declinate. «In termini assoluti - scrive l’editorialista - la caduta del Pil del 9,3 per cento su base annua e quella della produzione industriale del 10,8 per cento piazza decisamente la Russia all’ultimo posto della classifica relativa alle maggiori economie».
Di fronte a questo dato di fondo, il breve miglioramento
Basta un singolo dato congiunturale leggermente migliore del previsto per far stappare bottiglie di champagne, nell’illusione che tutto sia finito e si possa, finalmente, ricominciare
congiunturale è meno di una rondine che non fa primavera. Esso è dovuto soltanto ad una ripresa dell’economia cinese, che ha aumentato i consumi di materie prime - quelle energetiche innanzitutto - di cui la Russia, com’è noto, è grande fornitrice. Ma quanto durerà questa breve tregua? La stessa Cina è consapevole del fatto di non potersi spingere troppo in avanti e già sta tagliando gli eccessi di produzione. Quando queste decisioni diverranno operative, le conseguenze sull’economia russa saranno immediate. È il tema della seconda ondata. Vale a dire il pericolo che l’anno in corso, dopo l’attenuarsi della patologia, possa mostrare, invece, una recrudescenza della malattia. Preoccupazione non solo russa, ma condivisa da molti economisti, sparsi in ogni parte del mondo. Forse - il condizionale è d’obbligo - la crisi si è arrestata, ma come e quando avverrà la ripresa? I due argomenti sono strettamente correlati. L’esperienza storica dimostra che sono possibili
tre distinte ipotesi. La prima prevede un andamento a V. È la speranza di tutti i Governi ripetere l’esperienza del 1982 e del 1983. Nei due anni successivi la crescita dell’economia mondiale raggiunge rapidamente un apice del 6 per cento. Ipotesi improbabile: annota l’Economist.
Allora la crisi fu meno profonda e pronunciata di quella attuale. A differenza di allora - dicono i pessimisti quella attuale cumula una serie di fattori senza precedenti: l’esaurirsi della possibilità di vivere grazie al debito, il collasso del sistema finanziario, il contagio che si è diffuso dal tempio del credito all’economia reale, in special modo agli investimenti, che sono condizionati dal ristagno dei consumi. Per contro - fanno osservare gli ottimisti - a memoria d’uomo non si ricorda un intervento così massiccio e generalizzato da parte dei governi di tutto il mondo. Vincerà la fiducia o il pessimismo? Questo è il grande interrogativo, almeno per il momento, non risolto. La seconda ipotesi è quella di una lunga stagnazione: una U, nella simbologia degli analisti. Sarà più o meno larga a seconda del tempo in cui l’economia striscerà nel fondo del baratro. Chi teme questa prospettiva pensa al Giappone degli anni ’90 ed alla conseguente crisi durata, praticamente, fino ai nostri giorni. E resa più persistente da una serie di errori - l’aumen-
il paginone
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«La caduta del Pil del 9,3% ha scritto Chris Weafer sul Moscow Times e quella della produzione industriale del 10,8% piazza la Russia all’ultimo posto della classifica relativa alle maggiori economie»
te. Questo processo, tuttavia, non fu istantaneo. Richiese tre o quattro anni di duro lavoro, prima di raggiungere i risultati sperati. E si trattava solo di pochi istituti di credito, collocati in una posizione eccentrica rispetto ai grandi equilibri mondiali. Oggi il numero dei soggetti coinvolti è decisamente superiore. Rappresentano inoltre i pilastri essenziali dell’intero sistema, almeno occidentale. Quanto sarà lunga, quindi, la permanenza in questo Purgatorio? Queste contraddizioni spiegano il fascino della terza ipotesi: l’andamento a W.
Fiducia di maniera e calcolo politico diventano gli ingredienti di una minestra che il popolo, da sempre fatalista rispetto alle prepotenze del potere, è costretto ad ingurgitare to della pressione fiscale decisa nel 1997 - compiuti dal governo giapponese. Tesi solo in parte convincente. Quegli anni consentirono, comunque, al Giappone di accrescere il suo peso nell’economia mondiale: sia come grande esportatore che come protagonista nel grande gioco finanziario.
Non si dimentichi che gran parte del finanziamento a favore degli UsaA deriva anche dagli attivi valutari di quel Paese. Come spesso capita, la crisi di quel Paese colpì soprattutto la povera gente, mentre consentì ai poteri forti di consolidare e rafforzare la propria posizione sui mercati internazionali. Alla luce di
queste considerazioni è per lo meno difficile parlare di errori nella conduzione della politica economica. Come se questa fosse neutrale nei confronti dei grandi interessi in gioco. Nell’immaginario collettivo, comunque, l’immagine della impotenza è rimasto a connotare una fase e disegnare la figura di un fantasma che ancora si aggira tra le grandi capitali internazionali. Essa è resa ancora più lugubre da quanto avvenne in Svezia, durante la crisi del 1992. Le banche com’è noto - furono dapprima nazionalizzate e risanate, per poi essere di nuovo privatizza-
La crisi che si è già materializzata, la breve ripresa che ne ha interrotto la caduta, quindi il successivo ed ulteriore decalage. In questo caso, l’equazione ha più incognite. Quanto sarà forte ed intensa la breve ripresa? Si è già esaurita nei dati del secondo trimestre, che hanno visto crescere il Pil di alcuni paesi, come Francia, Germania; ma soprattutto Cina? O diverrà più robusta nei prossimi mesi? Interrogativo non facile da sciogliere. E quanto sarà profonda la successiva ipotetica caduta? Molto dipenderà dalle scelte degli imprenditori. Questi ultimi possono, semplicemente, decidere di rinnovare le scorte - come in parte hanno già fatto - o investire per ottenere, almeno in prospettiva, guadagni di produttività, grazie ai quali fronteggiare una concorrenza internazionale sempre più ag-
guerrita. E le banche? Favoriranno questi tentativi oppure, come hanno fatto finora, stringeranno i cordoni del credito, rendendo più difficile ogni tentativo di riconversione produttiva? Sono domande, almeno per il momento, senza risposte, anche se indicano una prospettiva che smentisce, tuttavia, l’esperienza storica del passato. Negli anni alle nostre spalle lo sviluppo fu essenzialmente creato dalla crescita dei consumi.
Oggi, che si possa replicare quel modello, appare, per lo meno incerto. Lo si potrebbe fare grazie ad un grande intervento dello Stato ed una politica di deficit spending. Ma le casse delle principali nazioni non solo sono vuote, ma oberate dai debiti. Secondo le più recenti valutazioni del Fmi il debito pubblico delle Nazioni più ricche del G20 sarà pari, nel 2014, al 100 per cento del Pil. Era del 70 per cento nel 2000 e del 40 per cento nel 1980. Lo Stato, quindi, non può spendere ulteriormente. Né lo fanno i privati. In Russia, per tornare al punto da cui siamo partiti, i consumi sono diminuiti nel 2009, dell’8,2 per cento, a fronte di una contrazione dei salari reali del 5,8 per cento su base annua. Nonostante ciò, nel secondo trimestre del 2009, i risparmi sono aumentati del 17 per cento: una percentuale pari al doppio del trimestre precedente. Non c’è nulla da fare. In Russia, ma non solo qui, la crisi fa paura, nonostante l’invito ad un maggiore ottimismo. E la risposta, come abbiamo visto, non si è fatta attendere. Malgrado la voglia di recuperare rispetto a quasi un secolo di inutili privazioni, come quelle imposte da un sistema dispotico ed illiberale, qual’era il regime comunista.
mondo
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Gemelli diversi. Il Giappone guidato da un democratico, come gli Usa. Ma su crisi economica, Afghanistan, Cina e Okinawa non c’è intesa
Lo strappo di Tokyo Più che con 54 anni di governo conservatore Hatoyama rischia di rompere con Obama di Enrico Singer arack Obama è stato il primo a congratularsi per la «vittoria storica» del democratico Yukio Hatoyama che, dopo 54 anni di potere conservatore, ha conquistato la maggioranza assoluta in Giappone. Dall’Italia gli ha telefonato per felicitarsi anche Romano Prodi perché il nuovo uomo forte del Sol Levante, quando dodici anni fa fondò il suo partito, il Minshuto, s’ispirò proprio al modello dell’Ulivo nostrano e
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ma zeppo di rivendicazioni bilaterali e di progetti internazionali divergenti. Secondo Sheila Smith, che si occupa di Giappone al Council on Foreign Relations di Washington, «Yukio Hatoyama può ora mettersi alla guida di un governo che, godendo anche del sostegno di socialdemocratici e comunisti, potrebbe portare a bruschi cambiamenti nei rapporti con gli Stati Uniti». Come dire che potrebbe chiudersi un’era: quella che per
In un articolo pubblicato sul New York Times, il nuovo uomo forte giapponese ha proposto una Comunità dell’Estremo Oriente sul modello dell’Unione europea con tanto di moneta comune del Professore divenne buon amico. E molti osservatori già si esercitano a ipotizzare una nuova luna di miele tra Washington e Tokyo governate da due leader che per tanti versi si assomigliano - non a caso Hatoyama è soprannominato il Kennedy giapponese - e qualcuno sostiene che la svolta politica di domenica è - anche - il contraccolpo di quella che c’è stata negli Usa quando i repubblicani hanno perso la corsa alla Casa Bianca dieci mesi fa. Come se il Giappone, che dalla fine della seconda guerra mondiale, da nemico, è diventato il migliore alleato degli Stati Uniti, debba comunque seguire il destino del suo grande fratello. Tutto vero. Ma fino a un certo punto. Perché Washington e Tokyo a guida democratica rischiano di trovarsi su posizioni contrapposte su alcuni dei dossier più delicati: dalla presenza dei soldati americani nell’isola di Okinawa, all’Afghanistan; dai rapporti con la Cina, alla gestione della crisi economica mondiale.
Potrebbe verificarsi, all’inverso, quello che è successo quando gli alleati più recalcitranti degli Usa - soprattutto in Europa - hanno perso l’alibi di Bush per opporsi alle scelte dell’Amministrazione americana. Adesso Obama si ritrova sull’altra sponda del Pacifico un leader della sua stessa parte politca, ma con un program-
più di mezzo secolo ha visto il Giappone non sfidare mai gli Stati Uniti. Soltanto pochi giorni fa Yukio Hatoyama ha firmato sul New York Times un commento nel quale ha accusato il «globalismo basato sul modello americano di capitali-
smo» di essere stato all’origine del cataclisma finanziario moldiale e ha proposto un riposizionamento di Tokyo «fra Usa e Cina» definendo un «interesse nazionale» la possibile «nascita di una Comunità dell’Estremo Oriente» sul model-
lo dell’Unione Europea, con tanto di moneta comune. «Anche se dovessero essere necessari dieci anni per crearla, è una prospettiva da coltivare», ha scritto Hatoyama sul New York Times. Propositi che nessun governante giappone-
se aveva mai osato di lanciare prima d’ora.
È l’annuncio di un vero e proprio strappo. Anche se c’è da scommettere che la svolta di Hatoyama seguirà tutte le regole della tradizionale cau-
Storia dello Jiyuto-Minshuto, il partito Liberale-Democratico che ha governato il Paese per mezzo secolo
La Balena Bianca che clonò se stessa di Maurizio Stefanini u nel 1955 che il Jiyuto, “Partito Liberale”, di Shigeru Yoshida, di fuse col Nihon Minshuto,“Partito Democratico Giapponese”, di Ichiro Hatoyama. Partito Democratico e Hatoyama: cercate di ricordare un attimo questi nomi… Hatoyama, dignitario massone e protestante battista, figlio di un laureato a Yale e di una nota educatrice, dopo essere stato un membro del Parlamento di Tokyo prima della svolta autoritaria di fine anni ’30, era stato lui in realtà a fondare nel 1945 il Partito Liberale. E in quello stesso partito era entrato Yoshida: ex-diplomatico in Italia e Stati Uniti, che avrebbe tenuta nascosta la sua conversione al cattolicesimo fino alla morte, nel 1967. In capo a sei mesi Yoshida si sarebbe impadronito del partito, che avrebbe ottenuto la maggioranza relativa alle elezioni del 1946, proiettandolo alla carica di primo ministro. Ci deve rinunciare nel 1947, dopo che alle nuove elezioni i liberali sono sorpassati dal Partito Socialista. Ma ci torna nel
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1948, dopo che la ribellione della sinistra socialista ha costretto alle dimissioni il riformista Testu Katayama. E vince due maggioranze assolute di fila, nel 1949 e 1952: anno, quest’ultimo, in cui il Giappone recupera la piena sovranità, anche se l’occupazione continua fino al 1954, e le basi Usa ci sono tutt’ora.
La contemporaneità e la somiglianza degli eventi, perfino la frattura socialista avviene nell’anno della scissione saragattiana di Palazzo Barberini, ha fatto definire a qualcuno Yoshida il “De Gasperi giapponese”. C’è in realtà qualche differenza: a differenza del leader trentino Yoshida non è stato protagonista in prima persona di Costituzione e riforma agraria, ma se le è viste confezionare da MacArthur. In compenso, è farina del suo sacco la “Dottrina Yoshida”: quella secondo la quale il Giappone deve mantenere un profilo bassissimo in campo politico e diplomatico, per concentrarsi solo sul successo econo-
mico. Ed è questa un’altra differenza con l’“atlantico” De Gasperi, al punto che decenni dopo si scoprirà addirittura un piano della Cia poi mai realizzato per toglierlo fisicamente di mezzo.
Al suo posto doveva andare Hatoyama: che dal 1950 è passato al rivale Partito Democratico, e che ha un’immagine di maggior protagonismo internazionale. Anche se il complotto Cia non va avanti, effettivamente però attorno a Hatoyama si aggregano altri partiti e scissionisti liberali. Nel 1953 Yoshida perde la maggioranza assoluta, nel 1954 Hatoyama diventa primo ministro al suo posto, e nel 1955 i democratici vincono le elezioni, con 185 seggi contro 112 liberali, 89 socialisti di sinistra, 67 socialisti di destra, e comunisti e 12 altri. Ma liberali e democratici sarebbero stati comunque destinati a intendersi per governare, e si venne infine alla costituzione del Partito Liberale Democratico: Jiyuto-Minshuto, i nomi dei due partiti as-
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Un manifesto con i candidati democratici eletti. Sopra, l’ingresso di una base Usa a Okinawa. E da sinistra a destra, Barack Obama, Hu Jintao e Yukio Hatoyama
tela giapponese. Del resto, nel programma elettorale del partito democratico è anche riaffermata solennemente l’amicizia nippo-americana che Yukio Hatoyama si guadra bene dallo sconfessare. Ma, sul piano pratico, i punti di frizio-
sieme. Le rivalità personali erano ormai finite: uscito di scena nel 1954 Yoshida, si sarebbe ritirato a vita privata nel 1956 anche Hatoyama. Ma era finito anche l’ombrello diretto del protettorato Usa, e l’unione di tutti i moderati era necessaria per dare stabilità al nuovo Giappone destinato a costruire il suo spettacolare miracolo economico. Di nuovo, come c’è chi ha paragonato Yoshida a De Gasperi, così non è mancato chi ha parlato dello Jiyuto-Minshuto come della “Dc giapponese”: specie ora che ha perso. In Giappone, però, l’imposizione di MacArthur di abolire lo shintoismo di stato e di lasciare invece la dinastia imperiale aveva tolto di mezzo tutte le occasioni di divisione che in Italia articolarono il campo politico moderato nelle contrapposizione cattolici-laici e monarchici-repubblicani. E il fatto che la pace con gli americani fosse stata da ultimo ordinata dallo stesso Hirohito aveva anche impedito la nascita di un’estrema destra autonoma.
Insomma, dopo la riappacificazione tra Yoshida e Hatoyama lo Jiyuto-Minshuto è stata una Dc giapponese con in sé integrati anche Pli, Pri, Msi e monarchici: mentre all’opposizione, spettacolare parallelismo con le terminologie politiche italiane, restavano invece divisi socialisti, socialde-
ne non mancano. A partire dall’Afghanistan. Il Giappone attualmente paga tutti gli stipendi dei dipendenti dell’amministrazione pubblica afghana: un sostegno economico rilevante che era stato assunto appena pochi mesi fa proprio
mocratici, comunisti e un “Partito della Politica Pulita” (Komeito) espressione della setta buddhista Soka Gakkai, e vagamente comparabile a un dossettismo autonomamente organizzato.
Contemporanee e incredibilmente parallele a quelle della Dc sono state in compenso le due grandi crisi dei liberal-democratici giapponesi. La prima, del 1976, in seguito allo scandalo Lockheed, che provocò una scissione e la perdita della maggioranza assoluta. Ma, appunto come la Dc dei tempi della non sfiducia, riuscì a trovare gli appoggi esterni per mantenersi al potere. La seconda, nel 1993, vide invece un cambiamento del sistema elettorale che li aveva sempre favoriti, nel momento in cui si consumano le scissioni di quei Morihiro Hosokawa,Tsutomu Hata e Ichiro Ozawa ampiamente affiancabili a quei Cossiga, Segni e Leoluca Orlando che suicidarono la Dc italiana. E per la prima volta lo Jiyuto-Minshuto andò all’opposizione, ma solo pochi mesi. Presto le risse nell’eterogenea coalizione che lo aveva sostituito portarono a una empia alleanza tra liberal-democratici e socialisti: col socialista Tomiichi Murayama come primo ministro; ma da cui i socialisti nipponici ne uscirono altrettanto disastrati che il Psi dopo Tangentopoli, sparendo in
dal governo del liberaldemocratico Taro Aso, battuto da Hatoyama. Questo intervento finanziario è ora in discussione e se dovesse essere tagliato per Obama si aprirebbe un problema non indifferente. Ma il capitolo più delicato è, di si-
pratica dal gioco politico. E così dal 1996 la “Dc giapponese” aveva ripreso i pieni poteri, fino all’ultima storica disfatta. Ma non solo il Partito Democratico che ora ha stravinto è formato in gran parte da exliberaldemocratici ed ha preso lo stesso nome del partito fuso coi liberali nel 1955. Yukio Hatoyama, il leader democratico che ora diventerà primo ministro, ha lo stesso cognome di Ichiro Hatoyama, semplicemente perché Ichiro Hatoyama era suo nonno. E sapete invece chi era il nonno materno del Taro Aso primo ministro liberal-democratico sconfitto? Shigeru Yoshida! Insomma, lo Jiyuto-Minshuto ha avuto un successo tale che solo quando è riuscito a clonare sé stesso è andato all’opposizione. E tutto ora ricomincia dal 1955.
curo, quello della presenza militare americana a Okinawa. Tutta l’isola è, praticamente, una base miliatre. O meglio, ci sone decine di installazioni militari di ogni tipo, dagli aeroporti ai porti, ai centri radar a quelli missilistici. Hatoyama non vuole, certo, eliminare la presenza americana in Giappone. Vuole, però, «ridefinirla»: questo è il termine usato nel programma politico del partito democratico che, nel caso di Okinawa, significa un ridimensionamento. Da tempo lo chiedono anche gli abitanti dell’isola - che fu la prima conquistata dagli americani nella guerra con il Giappone - ed è molto probabile che su questo punto Obama sarà costretto a cedere. In realtà, lo stato maggiore americano ha già un piano nel cassetto per la riduzione degli effettivi - oggi a Okinawa ci sono 25mila soldati Usa - che prevede un taglio del dieci per cento e non soddisfa le richieste giapponesi, ma sarà una buona base di partenza per la trattativa.
Il primo incontro tra Yukio Hatoyama e Barack Obama potrebbe avvenire in occasione del summit del G20 a Pittsburgh a fine settembre - se il nuovo governo giapponese sarà già in carica - e comunque la tappa a Tokyo del viaggio che Obama farà in Asia in novembre si annuncia come la più interessante per capire il nuovo clima delle relazioni nippo-americane. A Washington, naturalmente, il nuovo uomo forte giapponese è molto ben conosciuto. Anche perchè, pur se è il protagonista della «svolta storica» celebrata da Obama, non si può davvero definire un uomo nuovo. Anzi, è il classico esponente delle dinastie politiche giapponesi: nipote di un ex primo ministro (Ichiro Hatoyama, 1954-56), figlio di un ex ministro degli Esteri (anche lui si chiamava Iichiro) e fratello dell’ex ministro della Giustizia (Kunio), esponente del Partito conservatore (il Jiminto) che ha battuto alle urne dopo averlo lasciato nel 1993 per rifondare il partito democratico tre anni più tardi. Un lungo itinerario politico, insomma. Con saldi rapporti con il potere economico: Hatoyama, che è ingnegnere e ha studiato anche nell’università americana di Stanford, è nipote da parte di madre del fondatore della multinazionale degli pneumatici Bridgestone.
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pagina 16 • 1 settembre 2009
Turchia. Autonomia curda: annunciato il piano di Ankara, bomba del Pkk ltre un milione di persone dovrebbero scendere oggi in piazza, nella città di Diyarbakir, nell’Anatolia orientale a maggioranza curda. Una dimostrazione a favore delle recenti iniziative avviate dal governo di Ankara per la soluzione della questione curda. Oppure contro l’annunciato piano di Ankara – che si dovrebbe ufficializzare a ottobre – per una maggiore autonomia della minoranza curda. Una popolazione che vive a cavallo di Turchia, Iran e Iraq e che storicamente ha avuto problemi con tutti e tre gli Stati entro i cui confini vive. Ricordiamo come Saddam Hussein usò i gas nervini per colpirli e come Turchia e Iran varassero alleanze improbabili, solo per sconfiggere il separtismo curdo. Oggi, la costiuzione federale in Iraq e la decisione di Ankara di avviare il problema verso una soluzione stabile, sembrano voler cambiare il tracciato della storia per il martoriato popolo curdo.
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La grande manifestazione, come anticipato nei giorni scorsi da responsabili del Partito filo-curdo per una società Democratica (Dtp), potrebbe coincidere con l’annuncio dell’attesa road map sullo stesso problema da parte del leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk, separatista e fuorilegge), Abdullah Ocalan. «Scenderemo nelle strade e daremo voce alle nostre richieste in occasione della giornata mondiale della pace. La manifestazione di Diyarbakir rappresenterà la voce della pace da parte del nostro popolo», ha affermato il leader del Dtp, Ahmet Turk che ha organizzato la manifestazione. «Ho fiducia che il nostro popolo sosterrà «gli sforzi per la pacificazione», ha aggiunto Turk. Sulla amnifestazione il quotidiano Hurriyet, ha aggiunto che, se il piano del governo per risolvere la questione curda verrà giudicato sufficiente dalla popolazione, il corteo di oggi potrebbe anche trasformarsi in una consacrazione per il governo islamico-moderato di Recep Tayyip Erdogan. Alla manifestazione sono stati invitati molti nomi noti della cultura turca, fra cui il premio Nobel Orhan Pamuk e la cantante Sezen Aksu. Nelle scorse settimane, il governo del premier Tayyp Erdogan ha lanciato un’iniziativa tesa a trovare una soluzione alla questione curda, la lotta separatista dei curdi che ha provocato la morte di circa 40 mila persone negli ultimi 25 anni. Nel piano di pacificazione del governo sarebbero comprese misure a fa-
Un milione in piazza per il Kurdistan di Pierre Chiartano
vore dell’uso pubblico della lingua curda e piani di investimento per la creazione di posti di lavoro nelle più povere regioni della Turchia a maggioranza curda.
Il ministro dell’Interno turco, Besir Atalay, è ottimista: il governo procede a ritmo spedito con i colloqui fra le varie parti e, anche se non c’è ancora un piano concreto, i lavori per la costituzione della road map per la soluzione del problema curdo continuano. Atalay ha affermato che il governo sta considerando di proporre anche un’alternativa ai ribelli del Pkk per fare deporre loro le armi, pur non avendo parlato direttamente di amnistia. Atalay ha aggiunto che il piano verrà presentato
a ottobre, alla riapertura del Parlamento. Il titolare degli interni ha anche respinto i dubbi dei nazionalisti, secondo cui permettere l’utilizzo del curdo indebolirebbe l’unità nazionale. Intanto arriva un monito dal Dtp: «se volete risolvere la questione curda, cambiate la Costituzione». Ancora mistero, invece, sul contenuto della road map
vuto incontrare i suoi legali per consegnare loro il documento di persona. Ma per uno strano caso della sorte, che alcuni vorrebbero leggere come sabotaggio, i legali non hanno potuto raggiungerlo sull’isola di Imrali, dov’è recluso, perché la barca che doveva trasportarli ha avuto un guasto. Stando al suo avvocato, Omer Gunes, Ocalan avrebbe la consegnato road map al responsabile del penitenziario. Ma è assolutamente incerto quando verrà resa nota. Nel frattempo il governo a guida Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo, ha fatto filtrare sulla stampa, nella fattispecie al quotidiano Zaman – che è l’organo più vicino alla formazione – alcune rivela-
La decisione di Erdogan per una soluzione stabile e la costiuzione federale in Iraq, sembrano cambiare la storia per quel popolo martoriato e disconosciuto preparata da Abdullah Ocalan, fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan, annunciata nel luglio scorso, e che dovrebbe essere già nelle mani del governo. Il condizionale è d’obbligo. Ocalan il 19 agosto scorso avrebbe do-
zioni sul suo piano. Sarebbero 10 punti che prevedono, tra l’altro, il diritto di fare la campagna elettorale in curdo, il diritto di avere università con facoltà di lingua curda e anche l’applicazione dell’articolo 220 del codice di procedura penale, che prevede la non punibilità per chi non si sia macchiato di azioni armate contro lo Stato. Rimane comunque il fermo no dell’opposizione turca. Tanto il Partito repubblicano del Popolo (Chp) che il Partito nazionalista (Mhp), hanno ribadito la loro contrarietà al piano. Intanto continua la visita del ministro degli Esteri turco, Davutoglu in Medioriente, per fare da mediatore tra Damasco e Baghdad, dopo le accuse di quest’ultimo verso i siriani, rei di aver fomentato l’ultima ondata di attentati in Iraq.
Dopo anni di tensione, lo scorso anno la Turchia aveva siglato con l’Iraq un accordo strategico per la collaborazione in diversi campi, tra cui la lotta al terrorismo di matrice curda. All’inizio del mese Davutoglu aveva annunciato che il suo governo stava lavorando a un accordo analogo con la Siria. Anche il terrorismo curdo e la lotta al Pkk saranno, secondo il quotidiano Taraf, tra i temi che il ministro degli Esteri discuterà con Assad. E proprio sul fronte del terrorsimo curdo, ieri, sono arrivate anche le cattive notizie. Quattro militari turchi sono morti ed un loro commilitone è rimasto ferito in un attentato, avvenuto nei pressi di Semdinli, nella provincia orientale di Hakkari. Lo hanno riferito con evidenza, ieri, i media turchi citando dichiarazioni del governatore di Hakkari, Muammer Turker, secondo cui i responsabili dell’attentato sarebbero membri del Pkk. I terroristi avrebbero lanciato una granata al passaggio dei soldati in servizio di pattuglia nella zona. Il premier turco Tayyip Erdogan, commentando l’attacco avvenuto a poche settimane dal lancio di un’iniziativa del governo di pacificazione con il Pkk, ha affermato di considerare questo attentato «un tentativo di ostacolare le recenti iniziative per l’avvio di un processo democratico. Ma questo progetto proseguirà nell’ambito del programma di unità nazionale. Noi proseguiremo la nostra lotta contro il terrorismo con la stessa determinazione. L’iniziativa democratica è un progetto di fratellanza. Tentativi come questo - ha concluso Erdogan - non possono fermarci».
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1 settembre 2009 • pagina 17
Il governo israeliano reagirebbe a una mossa unilaterale
Lo hanno annunciato le “teste di cuoio” fedeli a Mosca
Lieberman: «No allo Stato palestinese in due anni»
Daghestan, ucciso il coordinatore di al Qaeda
GERUSALEMME. Israele non
MOSCA. Nel corso di uno scontro a fuoco in Daghestan, le “teste di cuoio”del ministero dell’Interno russo hanno eliminato due guerriglieri ultraislamici, uno dei quali risultato poi essere il presunto coordinatore delle operazioni di al Qaeda nella piccola Repubblica caucasica: lo ha dichiarato all’emittente televisiva Vesti24 l’ufficiale che ha guidato l’assalto, peraltro non identificato. «Durante il combattimento è stato neutralizzato un rappresentante di un’organizzazione terroristica internazionale nel Caucaso settentrionale, incaricato di sovrintendere alle azioni di terrorismo in Daghestan», ha spiegato l’ufficiale, ancora in tuta
permetterà la nascita di uno Stato palestinese de facto entro i prossimi due anni, come è intenzione dal premier dell’Anp Salam Fayyad: lo ha detto il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Come riporta il quotidiano Haaretz, Lieberman che ha incontrato a Gerusalemme l’inviato speciale delle Nazioni Unite Tony Blair e il responsabile della politica Estera e di Difesa dell’Unione europea Javier Solana - ha anche diffidato l’Anp dal prendere decisioni unilaterali e ha sottolineato come non sia possibile porre una data limite per un accordo finale con i palestinesi. Un’iniziativa unilaterale palestinese in questo senso, ha detto Lieberman, «non contribuirebbe alla creazione di un clima positivo di dialogo e Israele reagirebbe». Fayyad, intervistato giorni fa dal quotidiano inglese Times, aveva dichiarato che se i colloqui di pace con Israele dovessero comunque arenarsi l’Anp ha intenzione di creare un suo Stato de facto sui Territori entro i prossimi due anni: «Abbiamo deciso di avere un atteggiamento più attivo, di affrettare la fine dell’occupazione cercando di creare una nuova realtà sul terreno, facendo emergere il nostro Stato come un fatto che non è possibile
Hamas rispolvera il negazionismo Meshaal denuncia “l’indottrinamento” nella Striscia di Antonio Picasso isale solo a domenica l’ultima provocazione di Hamas. Facendo riferimento al programma didattico portato avanti dall’Agenzia Onu per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa), il Segretario generale del movimento islamico Khaled Meshaal ha criticato il modo in cui i bambini della Striscia di Gaza verrebbero indottrinati da nozioni falsate sull’Olocausto. Lo sterminio del popolo ebraico da parte del nazismo sarebbe, come si legge in una lettera aperta che Hamas ha inviato alle Nazioni Unite, «un’invenzione sionista». Per questa ragione dovrebbe essere cancellata dai libri di storia. Una dichiarazione negazionista, questa, che stride con i gesti di apertura compiuti in prima persona da Meshal nell’ambito del dialogo per la pace. Durante il mese di agosto, non erano mancate le reazioni positive, da parte di Hamas, agli inviti per un dialogo globale espressi dal Presidente Usa Obama. Il segretario del movimento in prima persona aveva manifestato il suo personale apprezzamento per la nuova politica di confronto promossa dalla Casa Bianca. Su questa scia, gli osservatori avevano sottolineato il loro ottimismo in merito ai negoziati tra Hamas e l’Egitto per la liberazione del soldato israeliano, Gilad Shalit, rapito tre anni fa. Perché allora questa inversione di tendenza improvvisa e proiettata verso il più acceso radicalismo antisemita? I commenti che giungono da Israele sono sostanzialmente unanimi nell’affermare che si tratta della vera faccia di Hamas, un gruppo terroristico che non ha mai smesso di perseguire la propria linea di violenza. Quest’ultima sarebbe stata addirittura incentivata dalla mano tesa di Obama. Al di là di queste interpretazioni, evidentemente influenzate dal coinvolgimento emotivo che la negazione storica della Shoah può suscitare, le cause di questa provocazione da parte di Meshal vanno ricercate nella situazione interna ad Hamas. Con la guerra di Gaza dell’inizio di quest’anno, il movimento islamico ha subito una pesante battuta di arresto nell’am-
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bito della sua attività politica. Superando i bilanci immediatamente successivi al conflitto, che avevano fatto pensare a una vittoria di Pirro da parte di Israele e una speculare capacità di resistenza dimostrata da Hamas, quest’ultima pare che stia pagando ancora i colpi ricevuti durante quel mese di scontri.
La sola e unica rivalsa, in sede operativa, si è avuta due settimane fa, quando un gruppo salafita e filo-qaedista, infiltrato a Gaza, è stato annientato dai miliziani fedeli a Meshaal e ad Haniyeh. Per il resto, si può parlare di un sostanziale silenzio. È come se Hamas avesse perso il suo smalto. Manca di risorse, appeal sulla popolazione e iniziativa. Ma soprattutto si è arrestato il suo cammino evolutivo, da soggetto votato unicamente alla resistenza armata a partito politico a tutti gli effetti. Può essere che il progressivo allontanamento del suo maggiore alleato abbia inciso sull’evoluzione politica del movimento. Teheran, in parte insoddisfatta dalla conduzione della guerra nella Striscia ma soprattutto oggi distratta dalle sue tensioni interne, ha preso le distanze dal movimento islamico. Questo, di conseguenza, si è sentito mancare dell’alleato più forte mai avuto. Oggi, con l’approssimarsi delle elezioni palestinesi - fissate per gennaio 2010 - Hamas sente la necessità di recuperare l’immagine perduta.Vuole tornare a fare notizia. Pretende di rispolverare il ruolo da antagonista, ma comunque da primadonna, che ha sempre avuto nell’ambito del processo di pace israelo-palestinese. La scelta di lanciare una provocazione, vero e proprio fulmine a ciel sereno, costituisce la via più semplice. D’altro canto non è detto che sia quella più rimunerativa. Nel contesto generale i negoziati sembrano procedere. L’apertura della Siria e la stabilizzazione del Libano, come pure le dichiarazioni positive da parte israeliana sugli insediamenti, nonché la stessa evoluzione dell’affaire Shalit sono orientati in senso positivo. Andare contro corrente rischia di lasciare Hamas ancora più isolata di quanto già sia.
In una lettera all’Onu, il movimento islamico definisce lo sterminio del popolo ebraico «un’invenzione dei sionisti»
ignorare. Se esistesse uno Stato con forze di sicurezza efficaci, servizi pubblici funzionanti e un’economia in crescita, Israele sarebbe costretto a mettere le carte in tavola sulla sua effettiva volontà di porre fine all’occupazione»: un obiettivo che l’Anp spera di poter raggiungere entro il 2011. Quanto al processo di pace, il tempo a disposizione si sta esaurendo, ha avvertito Fayyad: «Non è che siamo a un punto morto, che le attività edilizie nelle colonie siano sospese in attesa di un accordo: le colonie continuano a espandersi, la costruzione del muro prosegue, così come la confisca di terre palestinesi o la demolizione di case a Gerusalemme».
mimetica, voltando le spalle alla telecamera per non essere riconosciuto. «Si tratta di un cittadino algerino - ha proseguito -ampiamente noto negli ambienti delle bande fuorilegge come “Dottor Muhammad”. Era il coordinatore locale di al Qaeda. L’identità del secondo miliziano è in corso di accertamento. I due erano asserragliati in un’abitazione di Mutsalaul, un villaggio del distretto daghestano di Khasavyurt, al confine con la Cecenia, dalla quale sono sempre state frequenti le infiltrazioni di ribelli separatisti. Agenti delle unità scelte federali hanno circondato il covo, poi hanno fatto irruzione all’interno e ingaggiato una furibonda sparatoria con gli estremisti, che hanno avuto la peggio. Confiscate armi, munizioni e attrezzature per le telecomunicazioni. Non si esclude che la casa fosse stata minata, per cui è stato anche richiesto l’intervento di artificieri. Mosca afferma che la rete dei gruppi radicali islamici all’estero sta finanziando le formazioni paramilitari attive nelle stesse Repubbliche autonome del Daghestan e della Cecenia nonché nella vicina Inguscezia, dove di recente la violenza integralistica ha registrato un ulteriore inasprimento.
cultura
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Letture shakespeariane. La vecchia politica cede spazio alle nuove ambizioni: la chiave di un grande trapasso in uno dei meno frequentati drammi storici
Modernità è potere? Nel «Riccardo II» di Shakespeare, la deposizione del re simboleggia anche la fine di un ciclo storico: il Medioevo di Franco Ricordi er procedere nell’indagine storico-politica Shakespeare fa come dice il suo Amleto al vecchio Polonio, assume il passo del gambero: torna indietro nella storia, e dopo aver descritto la conquista del Potere con Riccardo III, si sofferma sull’antico predecessore per decantarne la perdita. Il Potere logora, si dice spesso…e Riccardo II è la vera personificazione di tale realtà. Ma c’è di più: nel giovane Riccardo di Bordeaux, che divenne Re all’età di 10 anni, si concentra il crollo dell’intero sistema feudale e medioevale, con tanto di annessa investitura cristiana che, da quel momento in poi, viene degradata verso una politica sempre più “laica”, vale a dire violenta e senza scrupoli. E così si comporta fin dall’inizio il rivale, Enrico Bolingbroke, suo cugino, figlio di John di Gaunt, che diverrà Re Enrico IV. Tuttavia la giovinezza di Riccardo, che viene deposto più o meno nell’età di Gesù Cristo, non deve trarre in inganno verso la sua capacità ed esperienza di monarca.
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Alcune interpretazioni degli ultimi decenni hanno voluto sottolineare anche troppo la peculiare debolezza di Riccardo II: disegnandolo quasi sempre come omosessuale (e qui certa scuola italiana ci ha sguazzato davvero troppo…in realtà Riccardo II è sposato, e condivide con la moglie la propria tragedia nella terribile scena dell’ultimo atto), come “diverso”, ovvero come ragazzino viziato. Ma tali impostazioni rischiano di sminuire la quintessenza del personaggio, che ha una sua forza e nobiltà e che sa bene cosa possa essere la politica, non essendo privo di colpe lui stesso: nella prima scena, quando in due rivali Bolingbroke e Norfolk si scontrano, viene fuori chiaramente come l’ordine di uccidere Woodstock – altro parente della famiglia regale – è partito proprio da lui. Così nell’impossibilità di conciliare i due litiganti, si procede ad uno scontro cavalleresco che viene celebrato con una dovizia degna dei più grandi protocolli: tanto che la celebre regista
francese Ariane Mnouskine mise in scena il testo attraverso una ritualità di stampo giapponese, vicina al No e al Kabuki, sottolineando la lentezza e la sacralità di ogni minimo gesto e atteggiamento. Ricordiamo inoltre come, dei testi shakespeariani, Riccardo II sia il solo scritto interamente in versi. Nel momento in cui i contendenti stanno per scontrarsi, Re Riccardo blocca tutto: condanna all’esilio il cugino Bolingbroke per 8 anni e, non senza ritrosia, al bando l’altro rivale perpetuo Norfolk. Tuttavia, vedendo lo
York. Poi, pur sapendo che Bolingbroke è andato in esilio “acclamato dalla folla”, si concede di lasciare l’Inghilterra per andare a combattere personalmente la guerra contro i rivoltosi irlandesi. Un errore fatale, di cui approfitterà con grande audacia e tempismo il cugino-rivale. Quando Riccardo torna, ecco che la situazione è notevolmente cambiata. Egli si accorge subito che qualcosa non va, ma apparentemente mantiene il riserbo delle proprie prerogative regali, inginocchiandosi verso la propria terra e baciandola. E
cralizzata, egli non è più l’Unto del Signore, e il Medioevo sta per entrare in una nuova epoca. La gerarchia medioevale per la quale ogni uomo è suddito di qualcun altro fino al Re, a sua volta suddito di Dio, sta per essere spezzata dall’intraprendente Bolingbroke: questi sta riportando la politica alla più ancestrale evidente detenzione del Potere che si ottiene «con il popolo e con il denaro», come già l’Edipo di Sofocle faceva notare. Il Medioevo che aveva in qualche maniera esteso un diritto divino su quello terreno, è stata brutalmente spezzato, ma Riccardo finge di non vedere: egli è il Re legittimo e «per ogni uomo che Bolingbroke ha assoldato contro la nostra Corona, Iddio per il suo Riccardo ha assoldato in Cielo un
È la storia di un sovrano debole, amante della poesia e propenso alla «comprensione umana» che cede il passo a una politica più aggressiva: quella di Bolingbroke, che diventerà Enrico IV, il paladino del futuro
Zio John di Gaunt che piange per l’esilio del figlio, commette il suo primo grave errore: dimezza la pena al cugino che, “in un sol fiato”, si vede scontare 4 lunghi inverni.
Riccardo non è abbastanza cattivo, ovvero non è abbastanza “politico”, come vedremo saranno i suoi rivali con lui. Poco tempo dopo commette altri due imperdonabili errori: alla morte dello Zio Gaunt gli requisisce tutti i beni, con lo scorno dell’altro Zio
forse proprio la “terra”, intesa come madre del grande feudo inglese, è il sottotesto più evidente del dramma. E la splendida apologia del morente Gaunt sull’Inghilterra come isola scettrata, Semi-Paradiso, delimita naturalmente quel grande Giardino Edenico che viene a rappresentare il regno d’oltremanica. Riccardo gioca con la sua terra, la assapora, quasi che fosse la sua stessa dimora. Ma nel contempo avverte che qualcosa è stato distrutto: la terra è stata desa-
angelo di splendore: e quando gli angeli impugnano le spade, i deboli mortali non possono che soccombere, perché il Cielo è sempre dalla parte del buon diritto». È il culmine della sua illusione: poco dopo i suoi gli rivelano che la maggior parte dei nobili sta passando sotto l’ala di Bolingbroke.
La reazione di Riccardo è debole, impulsiva, disperata. Ma certo non è ingiustificata, e ha il diritto alla sua personale ancorché lenta decadenza: «Or ora il sangue di ventimila uomini mi trionfava in volto, e sono fuggiti. E finché tanto sangue non torni, non ho ragione ad essere pallido come un morto?» Da qui in avanti si
compie, inesorabilmente, la detronizzazione di Riccardo. E certo il protagonista la vive nel modo peggiore: quando il fido cugino Aumerle cerca di incoraggiarlo, egli risponde con una frase memorabile, che non a caso è stata ripresa da Kierkegaard: «Sii maledetto cugino, che mi hai deviato dal dolce sentiero della disperazione». E il grande filosofo danese non può fare a meno di citare il «poeta dei poeti che si esprime in maniera egregia e incomparabile». Nel mirabile trattato La malattia mortale Kierkegaard si sofferma anche sulla peculiare dolcezza della disperazione, che conduce poi al senso del peccato come «scandalo del proprio
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tazione filosofica e poetica di quella disperata vitalità che deriva dalla consapevolezza del peccato teologico cristiano, e che per Riccardo diviene sempre più motivo di autocommiserazione: nell’ultimo grande monologo del V atto, quando è rinchiuso in prigione, egli paragona il mondo intero a un carcere, dove i pensieri sono come gli uomini, e nessuno contento di sé fino a quando non trovi «la sua pace nel non essere più». È questo l’essere o non essere di Riccardo, in tal senso fratello minore
Nell’ultimo grande monologo del V atto, quando è rinchiuso in prigione, il protagonista paragona il mondo intero a un carcere, dove i pensieri sono come gli uomini, e nessuno è contento di sé
corpo». Ed è quello che avviene a Riccardo II, quando non si sente più Re legittimato: «Io vivo di pane come voi, ho come voi necessità, dolori, e bisogno di amici. Così definito come potete venirmi a raccontare che io sono un Re?» E sarà lo stesso «scandalo del proprio corpo» che diverrà la tragedia diversa e religiosa di quello che è forse il nostro più grande poeta del dopoguerra, Pier Paolo Pasolini: anche lui, come Riccardo II, ha sofferto dello «scandalo della contraddizione», di ritrovarsi in un corpo diverso dalla propria anima e dalla propria quintessenza sociale. Ma si tratta in entrambi i casi di una diversità diversa, non certo omologabile nei superficiali schemi di certe rivendicazioni di oggi, e sia detto senza offese in tutti i casi di indubbia aristocrazia. Kierkegaard e Pasolini sono i due grandi epigoni di Riccardo II, nella decan-
di Amleto, già consapevole di quel gran mondo-teatro che è pure una “grande e bella prigione”. A questa lo hanno condotto lentamente gli eventi politici: il suo incontro con Bolingbroke è stato patetico, laddove viene costretto ad abdicare ufficialmente. Chiederà di potersi guardare allo specchio e, non vedendosi abbastanza invecchiato, frantumerà a pezzi lo “specchio adulatore”.
E qui subentra il personaggio forse più significativo in questo rovesciamento di poteri, il Conte di Northumberland, che proprio Riccardo definisce «la scala sul cui rampante Bolingbroke ascende al mio trono». Sarà proprio lui a impedire che il Re e la Regina siano designati ad un esilio comune: «Sarebbe umanità - dice Northumberland - ma cattiva politica». Ha ragione, è necessario essere spietati, lo impone la disumanità della politica,
come lo è stato il nuovo Re con quei pochi nobili rimasti fedeli a Riccardo II: subito condannati a morte. Una sorta di spoil system ante-litteram, certo più crudele e radicale, ma il cui meccanismo risulta assolutamente il medesimo dei nostri giorni. È una morte “civile”, in tal caso, ma dettata dai medesimi accordi politici. A questa inevitabile scansione non si sottrae nessuno, a cominciare dal Re, nonostante le perorazioni e le proteste dell’Arcivescovo di Carlisle. E lo Zio di Riccardo York, padre del giovane Aumerle fedele a Riccardo, arriva quasi a far condannare a morte il figlio pur di essere ligio al nuovo assetto politico: in lui Shakespeare ha creato il primo “funzionario” della letteratura moderna. E pur riconoscendo che ormai tutto è un ginepraio, in quel grande e corrotto giardino che è la famiglia regale, York non si astiene dal tradimento più ufficiale.
Così la scena dei due giardinieri e la Regina alla fine del terzo atto assurge ad una sorta di rimpianto adamitico per
il Giardino del Paradiso, dove si consumò il peccato originale. Ma ormai non c’è più nulla da fare, e nonostante la possibilità dell’esilio, l’accelerazione politica è tanta e tale che Riccardo viene “naturalmente” condannato a morte. Il nuovo Re sicuramente sobilla l’assassinio, ma al suo esecutore Exton non sarà riservato un premio: «Non amano il veleno quelli che si servono del veleno», «Va’ con Caino ramingo per le ombre della notte», dice il nuovo Re a colui che ha ucciso Riccardo, trincerandosi anch’egli in ciò che rimane del rapporto fra Potere terreno e Potere divino. Egli prometterà un viaggio in Terrasanta, per lavare le sue mani colpevoli, ma poi non lo realizzerà: ultimo perduto tentativo di non sgretolare l’Ordine medioevale, attraverso il suo stampo religioso cristiano, ormai perduto per sempre.
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cultura
Tra gli scaffali. Luoghi e momenti per riscoprire le radici storiche della nostra cultura, nel nuovo libro di Fabrizio Falconi
Dieci sentieri per incontrare Cristo di Giampiero Ricci a storia delle cristianità non è fatta solo di grandi templi, magnificenza, ori e porpora, ma anche - e soprattutto? - di luoghi umili, fuori dalle rotte, di pietre dimenticate, o mute, di storie minute sussurrate dal vento». Fabrizio Falconi, vaticanista del Tg4, già autore di raccolte di poesie, saggi e romanzi (Il giorno più bello per incontrarti e Cieli come questo - entrambi editi da Fazi), arriva nelle librerie con il proposito di lasciare al lettore istantanee, momenti, utili per riscoprire radici storiche ma anche spirituali nascoste dentro Dieci luoghi dell’anima (Cantagalli, 2009, pagg. 119) che puntellano il senso della nostra identità Angoli cristiana. della nostra cultura, quelli raccontati da Falconi, che operano in sordina, che assolvono in silenzio alla loro funzione di catalizzare emozioni e mistero, diffondendo il significato di una trascendenza legata a doppio filo ad un’esperienza fortemente “fisica”: che sia il pellegrinaggio per il passo di Roncisvalle dove rivivono le
«L
no oltre che per contenere i cuori di dieci reggenti bavaresi e dei personaggi illustri di questo angolo di Germania eppure anche nella regalità il senso della sua magnificenza è rappresentato dal raccoglimento collettivo di cui negli anni è divenuta simbolo.
San Konrad, che da quella soglia mai più si allontanò divenendo punto di riferimento di pellegrini, indigenti e
Dal passo di Roncisvalle al Monte della tentazione, dalla Baviera profonda a Labaro: perché la storia della religione cristiana non è fatta solo di grandi cattedrali e magnificenza suggestioni dello sfortunato Orlando o la visita in Terra Santa, alla roccia de il Monte della Tentazione da cui il demonio tentò Gesù Cristo; che sia la ricerca del luogo dell’illuminazione del primo Imperatore cristiano di Roma, Costantino; o il racconto della Baviera profonda, della terra d’origine di Benedetto XVI, la scoperta è sempre legata ad un incontro “personale” con un’anima dei luoghi che tocca.
In Baviera, la visita di Benedetto XVI alla Grandkapell di Altotting – il quinto santuario più visitato d’Europa - è l’occasione per introdurre il lettore nella vicenda umana di San Konrad da Parzham, il frate cappuccino figlio di contadini che raggiunta Altotting non vi si allontanò più per il resto della vita, diventando prima umile aiutante del portinaio della cappella e poi ne ricoprì egli stesso la funzione per oltre quaranta anni. La Grandkapell è caratteristica per le pitture degli ex-voto che la decorano all’interno e all’ester-
bisognosi, insegnando, con l’esempio della sua vita, il valore dell’umiltà, una lezione che è data incontrare anche nelle vette raggiunte dalle parole di Papa Ratzinger nell’espressione del suo magistero. Gustosa la ricerca del luogo in cui apparve in cielo al giovane Costantino la croce e quel In Hoc Signo Vinces che ispirarono la svolta cristiana che di lì a poco imboccarono le istituzioni dell’Impero all’alba della
insperata vittoriosa battaglia contro Massenzio. In effetti una credenza popolare non scritta vuole i luoghi dei fatti siano identificabili nell’odierno Ponte Milvio in Roma, ad oggi tutt’al più noto per i lucchetti di mocciana memoria e per la movida notturna, l’autore risale invece indietro la strada degli eserciti, svelando il significato dietro i nomi con cui sono stati contraddistinti i quartieri che furono sce-
La Grandkapell di Altotting - il quinto santuario più visitato d’Europa è l’occasione, per Fabrizio Falconi (nella foto in basso), per raccontare la storia di San Konrad da Parzham, il frate cappuccino figlio di contadini che raggiunta Altotting non vi si allontanò più per il resto della vita
nario della battaglia. Saxa Rubra e Labaro, ovvero il Casale di Malborghetto. Questi i luoghi dove il sangue dovette colorare macabramente la terra e dove il “Labarum”, il monogramma, il “signo” Chi e Ro, le prime due lettere greche del nome Christos, dovette apparire. E proprio risalendo l’odierno quartiere di Labaro si giunge al Casale di Malborghetto dove presumibilmente doveva essere accampata la tenda di Costantino e dove giunse quindi l’angelo con il messaggio; ancora oggi, in loco, è possibile rinvenire il segno di un arco di trionfo nel corpo del casale e la retorica domanda sul perché poi in aperta campagna gli antichi avessero deciso di erigere, proprio lì, un arco in omaggio al proprio Imperatore, si presta ad una risposta di buon senso che rende credibile una interpretazione archeologica plausibile.
Ma il libro è tutto un insieme di letture godibili che si consigliano al lettore interessato a riscoprire quel lato di umile devozione e dignitoso individualismo emotivo di cui tanta parte della cultura cristiana è capace, pur all’ombra della grandezza delle cattedrali o della solennità di consolidate tradizioni rituali.
sport l dopolavoro postale di Cusano Milanino proprio non potevano aspettarsi una situazione del genere. Sul loro campetto in terra battuta ci sono stati diversi scontri che le cronache locali hanno definito epici. Casomai un po’sovrappeso le ali e in difficoltà i trequartisti nel controllo del pallone perché le zolle non sempre sono a posto possono consolarsi vedendo in tele alcuni campi di serie A così malridotti che sembrano appena stati presi di mira da una mandria di bovini al pascolo eppure a nessuno dei protagonisti di quegli incontri di periferia era mai capitato un qualcosa del genere. Mai visto lì, nell’entroterra più profondo della cintura milanese, che il Piero Brambilla o il Tiziano Rossi dell’occasione si presentasse in campo sprovvisto degli scarpini per calcare il terreno di gioco. È capitato certo nella storia del glorioso dopolavoro che qualcuno dei protagonisti si sia presentato in canottiera, dando così spunto a qualche noto personaggio della politica italiana, o che l’elastico del pantaloncino non tenesse proprio al meglio, così come era già occorso a Pepin Meazza, ma ai piedi saldamente allacciati c’erano sempre due solidi scarpini chiodati per esser pronti a gettarsi nella mischia, randellare qualche colpo a destra e a manca e finire felicemente il tutto al bar Sport.
1 settembre 2009 • pagina 21
A
A Cusano Milanino, di marcata fede milanista per l’illustre concittadino Trapattoni, tutti hanno stropicciato gli occhi increduli davanti alla tv quando hanno assistito alla curiosa pantomima nell’occasione più importante dell’anno, quando si incrociano in campionato le due squadre
milanesi per il derby della Madonnina. Clarence Seedorf, stimatissimo professionista del Milan non proprio di primo pelo, pluridecorato, capace di vin-
Gli antieroi della domenica. Il derby con l’Inter? In panchina, ma senza scarpini
Seedorf, una scarpa e una «ciavatta» di Francesco Napoli cere Champions e scudetti ovunque vada, si siede in panchina né più né meno di come si sarebbe potuto presentare in qualche resort di lusso delle Antille Olandesi. Sarà stato il caldo o forse la strana collocazione nel calendario di una partita solitamente disputata in altri periodi e che il sorteggio un po’ matto ha posto invece al 29 agosto, fatto sta che Clarence si è comodamente messo in panchina accanto ai suoi compagni come al bar del resuccitato
sort: ciabattine da spiaggia e canottierina, nel caso rigorosamente firmati. Il suo presidente l’avrebbe voluto sin dall’inizio in campo ma l’allenatore è Leonardo, si sa, che ha preferito destinarlo tra le riserve. A Clarence però nessuno deve avergli detto che si trovava a San Siro e che si stava disputando il derby valido per la massima divisione del campionato italiano di calcio. Così quando si è trattato di entrare in campo a sostituire un Gattuso dolorante alla caviglia (ma l’allenator giovane del Milan non avrebbe fatto meglio a mettere in campo, che so, un giocatore come Ambrosini, se non proprio Seedorf, piuttosto che uno già acciaccatello come Gattuso che nep-
pure nella sua splendida Calabria riuscirebbero a curare? Non vale più la regola meglio un giocatore sano che uno mezzo storpio? Evidentemente no) dicevo, quando si è trattato di entrare in campo a sostituire un Gattuso dolorante alla caviglia Clarence ci ha impiegato più tempo del dovuto a rinvenire dal sogno
Al momento di sostituire Gattuso, qualche attimo prima dell’espulsione, ha perso quasi venti minuti cercando di rimediarne un paio. Proprio in quel lasso di tempo i neroazzurri hanno segnato un gol su rigore
caraibico nel quale si era immerso, ad accorgersi che gli toccava entrare in campo e che quindi doveva non solo mettersi la maglietta regolamentare ma anche calzare gli scarpini. Apriti cielo! Mentre indossava la tenuta e si alzava per poter sistemare i lacci come si conviene a un giocatore professionista, è passato il tempo sufficiente all’Inter per raddoppiare con un rigore, provocato dallo stesso Gattuso sempre più ringhioso e in affannoso recupero su un Eto’o che in fatto di corsa si mette nel sacco quasi tutti i difensori in forma figurarsi i centrocampisti a mezzo servizio come il povero Gennaro di Calabria, e, frittata finale, mentre Clarence cercava di ricordarsi come si annoda un laccio ecco che Gattuso, visto che non lo sostituivano ed erano già passati quasi venti minuti dalla sua richiesta, ha fatto da sé.
Ora ci penso io, avrà detto: ammonito poco prima in occasione del rigore, ecco la vendetta trasversale sull’olandese presente ma dell’Inter: una bella mazzata sulle gambe del brillante Sneijder e via. Espulso. Clarence che fa a bordo campo con Leonardo? Finalmente da un paio di minuti ha finito di sistemarsi e sta ancora in conciliabolo con l’allenatore. I due non si sono forse neppure accorti di quanto è accaduto e di come sta montando la furia del capitano rossonero Gattuso che uscendo dal campo invita i due ad andare dove tutti sanno. Ma Clarence resta impassibile: torna alla sua destinazione preferita della serata. Si riaccomoda con ciabatte e canottierina in panca, un po’ stordito dalle luci di San Siro, non conosce Roberto Vecchioni evidentemente, scambia quei bagliori per il sole dei Caraibi sognando un drink e al diavolo, giochetto di parole che lui forse non può intendere in pieno, tutto il resto.
A fianco e in alto, due immagini del giocatore milanista Seedorf. Sopra, il rossonero Gattuso. A sinistra, l’allenatore della squadra Leonardo
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Haaretz” del 31/08/2009
I nemici dentro di Anshel Pfeffer n arabo israeliano è stato accusato per aver complottato a favore di Hezbollah, per assassinare il capo di stato maggiore dell’esercito d’Israele, generale Gabi Ashkenazi. Sarebbe un cittadino residente a Tira. Rawl Fuad Sultani, 23 anni, è stato arrestato dallo Shin Bet, il servizio segreto interno, il collaborazione con le forze di polizia. L‘operazione è stata effettuata all’inizio di agosto e il procedimento penale avviato presso la corte distrettuale di Haifa.
U
Secondo l’atto d’accusa, Sultani avrebbe preso i primi contatti con Hezbollah durante un campo estivo multinazionale per arabi, in Marocco, gestito da un’organizzazione legata al movimento Balad (acronimo di Brit Le’umit Demokratit, il partito che rappresenta gli arabi israeliani, ndr). L’agente di Hezbollah, il libanese Salman Harev, che aveva partecipato anche lui al campo estivo, ha speso gran parte dell’estate tenendo conferenze ai partecipanti arabi dell’iniziativa sulla lotta condotta dal suo gruppo. Si sospetta che Harev abbia reclutato Sultani, che è il figlio di un noto avvocato di Tira, una volta saputo che il ragazzo frequentava la stessa palestra a Kfar Sava, col generale Ashkenazi. I due sarebbero poi rimasti in contatto per telefono e tramite Facebook, dopo il ritorno di Sultani in Israele. Nel dicembre 2008, sempre secondo i capi d’imputazione, Sultani sarebbe volato in Polonia per incontrare un altro agente di Hezbollah, a cui avrebbe fornito tutte le informazioni sul capo di stato maggiore dell’Israel defence force (Idf). Il presunto agente del partito di Dio, «Sami» avrebbe chiesto a Sultani di prendere notizie utili anche su al-
tri alti ufficiali dell’Idf. Le fonti dell’intelligence israeliana valutano che Ashkenazi sia stato scelto come obiettivo, per attuare una ritorsione a causa dell’uccisione del leader militante, Imad Mugghinyeh, che si crede sia stato assassinato dagli israeliani. Il padre di Sultani difende l’innocenza del figlio e denuncia come l’atto d’accusa sia stato «gonfiato per fini politici». «In apparenza le accuse sembrano gravi. Ma posso dichiarare, oggi, che siano state gonfiate per fini politici» ha affermato il padre a Radio Israele. «Posso dimostrare l’innocenza di mio figlio e lo farò anche in tribunale». Nello scorso marzo, un altro cittadino araboisraeliano era stato accusato. Si sospettava fosse stato arruolato da agenti stranieri. Ismail Saleiman, 27 anni, originario della città di Hajajara nella valle di Jezreel, è accusato di essere entrato in contatto con un agente operativo di Hezbollah. Lo scopo del rapporto sarebbe quello di pianificare azioni di spionaggio contro Israele a favore del gruppo terroristico sciita.
con carta d’identità isrealiana a Gerusalemme est sono rimasti sempre più spesso coinvolti in azioni terroristiche in varie parti del Paese. Nel corso degli ultimi cinque anni, ci sono stati almeno sei esempi documentati di attacchi commessi da arabi israeliani e da residenti di Gerusalemme est. Alcuni di queste azioni violente sono state rivendicate dal Galilee freedom fighters, anche se molti dei personaggi coinvolti sembra abbiano agito da soli, senza godere dell’assistenza di alcuna struttura terroristica.
Lo scorso maggio, un non meglio identificato gruppo che si è autodefinito Galilee freedom fighters, ha affermato che sette arabi-israeliani arrestati per terrorismo fossero membri della propria organizzazione. I progionieri, di cui due sono minorenni, sono sospettati di aver pianificato degli attacchi terroristici e dei rapimenti di soldati di Tsahal, l’esercito con la stella di David. In anni recenti, sia arabi israeliani che palestinesi
Rappresentanti ufficiali della forze di sicurezza israeliane sono convinti che queste persone abbiano agito in maniera spontanea e sulla base di motivazioni personali. Un fatto che rende ancora più difficile il lavoro della forze di polizia e dell’esercito, nel riuscire a reperire quel genere d’informazioni che sono necessarie per combattere la guerra contro il terrore. E prevenire degli attacchi, altrimenti imprevedibili.
Il cruciverba di sabato
Concorsi pubblici: scandalosa correzione ictu oculi degli elaborati dei candidati Il Consiglio di giustizia amministrativa (Cga) per la Regione Sicilia, con le sentenze n. 477 e n. 478 depositate in data 25 maggio 2009, ha annullato l’intera procedura concorsuale, rilevando l’illegittima composizione delle due commissioni che avevano proceduto alla correzione degli elaborati del concorso per dirigenti scolastici in Sicilia. Tale annullamento opera non solo nei confronti delle parti che sono state in giudizio, ma anche di coloro che, sebbene rimasti estranei al processo, si trovano nelle medesime condizioni dei ricorrenti. La commissione nominata per correggere gli elaborati dei candidati, non solo non ha operato nella sua composizione legittima, ma ha proceduto ad una correzione lampo degli elaborati, una correzione ictu oculi (ad occhio). Di conseguenza, dinanzi alle aspettative di legalità da parte dei candidati esclusi e di quanti hanno ricorsi pendenti, bisogna intervenire in maniera incisiva, perché le sentenze vengano immediatamente eseguite e venga annullata la procedura concorsuale.
D.S.
SCIOPERO DEGLI SMS Siamo stati tentati di proclamare lo sciopero degli sms, visto che da noi costano di più ma ci basta per ora minacciarlo per il prossimo futuro. Anche perché dice l’associazione dei consumatori che a ferragosto ne sono stati inviati nei tre giorni dal 14 al 16 almeno 500 milioni, di cui un 10% rivolto verso l’estero (costa meno che telefonare). È vero che le promozioni estive ne abbasseranno notevolmente i costi ma sull’onda lunga di questo risparmio in realtà si punta a farli usare di più anche dopo le promozioni. Il che costituisce un importante lucro per le compagnie telefoniche. Gli sms sono assolutamente utili, ma occorre
avvicinarsi al costo unico europeo di 10-11 cents e niente più.
Ornella Arrighi
VOGLIAMO LE “ZONE FRANCHE” Preoccupa la concorrenza slovena che sta mettendo in ginocchio molte aziende del Friuli Venezia Giulia e altrettante categorie commerciali, fra cui benzinai e tabaccai. Per arginare questa concorrenza di mercato del tutto svantaggiosa per le nostre aziende il governo ripristinare una zona franca a Trieste, Gorizia,Tarvisio e Cividale e in vista dell’inserimento di queste città fra le cosiddette Zfu (Zone franche urbane) per ottenere benefici fiscali e recuperare il gap. Soprattutto nelle zone di confine, da quando
L’AUTORE DEL QUADRO DI SABATO È:
LA SOLUZIONE DEL QUIZ LETTERARIO DI SABATO È:
Ardengo Soffici - “Natura morta”(1940)
Italo Svevo - “La coscienza di Zeno” (1923)
la Slovenia è entrata il 1 maggio del 2004 nell’Ue si registra una grave difficoltà della nostra economia: sempre più spesso i cittadini del Friuli Venezia Giulia vanno in Slovenia per comprare tabacchi, carburante, generi di prima necessità. Nonostante la previsione di agevolazioni per l’acquisto di carburanti, i residenti delle aree di confine riscontrano più convenienza, comunque, nel fare rifornimenti nella vicina Slo-
venia, inoltre ad un minor costo dei tabacchi in Slovenia, pari a circa il 40%, in Italia l’accisa e l’imposta sul valore aggiunto equivalgono a circa il 70% del costo di un pacchetto di sigarette.
Ferruccio S.
GLI SFORZI DI OBAMA Obama fa degli sforzi eccessivi per dare importanza a una nuova intesa tra Usa e Cina, per poter rinnovare il panorama interna-
zionale del nuovo secolo. Egli richiama anche il rispetto della dignità umana che non può essere trascurato in qualsiasi tipo di rapporto. Ma la Cina sembra non ascoltare, anche perché il suo primato di terza potenza economica mondiale è stato costruito sulle spalle di tantissimi cinesi il cui concetto di libertà ed espressione è come un lanternino nel buio di una caverna.
BR
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Lo sai tu com’è nato questo amore? Lo sai tu com’è nato questo amore? Te n’accorgesti? Non ci leggevi nulla nelle mie pupille, nulla? Ti rammenti quando ti lessi il mio povero Toto e ti s’inumidirono le ciglia? Che dolcezza provai qui dentro all’anima in quel momento! Come benedii l’Arte, la santa Arte, e le mie veglie, e i miei furori e le penne spezzate e le febbri sovrumane, e il sangue del mio cuore! Io voglio farti venire le lacrime un’altra volta: eri tanto bella così, e io ti voglio tanto bene! Non sei mica gelosa tu dell’Arte, non è vero? Non sei mica gelosa delle figurine di donna che ridono ne’ miei versi. Son tutte fantasticherie; ma tu sei viva, sei vera, sei giovane, sei bella. Vuoi ch’io ti scolpisca in una strofa? Tu ti chiami Giselda: io voglio levare Gis, voglio chiamarti Elda: è un nome più piccino, più carezzevole… Non ti credere una donnona, sai? Tu, tu sei una bimba, e una bimba cattiva, sì crudele. Ho saputo certe cose! Vedi, se ora fossimo insieme in una bella cameretta, come quella dove tu hai il pianoforte, e tu fossi seduta nella poltrona ed io ai tuoi piedi. Tu mi accarezzeresti i capelli e io ti direi tante belle cose, ti parlerei delle fate e delle regine che stanno lontano lontano, e non seguiterei la bela novella se tu non ti lasciassi baciare la manina bianca ogni tanto. Gabriele D’Annunzio a Lalla (Giselda Zucconi)
ACCADDE OGGI
CARCERE DI VOLTERRA Nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”organizzata dai Radicali italiani, ho visitato la Casa di Reclusione di Volterra (Psa) accompagnati dal comandante degli agenti e dalla direttrice Maria Grazia Giampiccolo. Crediamo di poter dire che si tratti di una delle poche realtà che, nonostante la carenza di organico e la mancanza di fondi, riesca a dare esecuzione al mandato costituzionale della pena che deve tendere alla rieducazione dei detenuti. Un carcere che ha in piedi moltissime iniziative da far dire ai detenuti che spesso manca loro del tempo per realizzarle! La compagnia teatrale della Fortezza che, sotto la direzione di un regista, organizza teatri e spettacoli che vanno in tournée come lavoro per i detenuti e non come permesso premio; la scuola esterna distaccata in carcere con sezioni di elementari, medie e geometri; le “Cene Galeotte”che con chef e sommelier professionali e un centinaio di ospiti dentro il cortile del Mastio mediceo ricavano denaro per le adozioni a distanza; la sartoria che realizza manufatti per l’amministrazione penitenziaria e prodotti d’eccellenza. Celle singole per tutti, personalizzate e con la possibilità di tenere animali, pappagalli e pesci, 10 cani e in moltissimi casi computer portatili sia per i detenuti comuni che per quelli in alta sicurezza. Tutto questo per 147 detenuti a fronte di una capienza di 175 (122 comuni, 25 alta sicurezza), di cui 33 stranieri, solo 2 in attesa di giudizio, 6 tossicodipendenti e 2 sieropositivi. Il lavoro e’ garantito per
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
1 settembre 1968 Vittorio Adorni vince ad Imola il titolo di campione del mondo di ciclismo su strada 1969 Una rivoluzione in Libia porta il colonnello Muammar Gheddafi al potere 1970 Tentato assassinio del re Husayn di Giordania da parte di guerriglieri palestinesi 1972 A Reykjavík, Islanda, l’americano Bobby Fischer batte il russo Boris Spassky e diventa il campione mondiale di scacchi 1979 La sonda spaziale statunitense Pioneer 11 diventa la prima a visitare Saturno passando sul pianeta ad una distanza di 21.000 km 1980 Chun Doo-hwan diventa presidente della Corea del Sud dopo le dimissioni di Choi Kyu-ha 1981 L’Ibm lancia sul mercato il primo personal computer: il 5150, basato su processore Intel 8088 1983 Guerra fredda: un jet della Korean Air viene abbattuto da un caccia sovietico quando l’aereo coreano entra nello spazio aereo dell’Unione Sovietica
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
una ventina all’esterno e per 97 all’interno. Tutte queste iniziative vengono realizzate dalla direzione nonostante la carenza del personale, dei 111 agenti penitenziari in organico quelli effettivamente in servizio sono solo 66.
D.P.
IL PERDONISMO MORTIFICA L’ONESTÀ E INCENTIVA NUOVE ILLEGALITÀ Nell’agosto 2009, sui muri di Reggio Emilia è stato affisso un manifesto, per ricordare un brigatista rosso, che assassinò due militanti del Msi a Padova, il 17 giugno1974. Tale manifesto, titolato “In morte di un combattente per la pace”, rischia di richiamare l’idea dell’omicidio come strumento di lotta politica. Nessun“nobile ideale”giustifica il reato, tanto meno l’assassinio. Non si può accomunare la vittima (Abele) e il carnefice (Caino). Atti di pietà e ricordo di tali uccisori dovrebbero restare riservati e privati. Su una diversa linea di responsabilità si pongono coloro che, per imprudenza e violazione del codice stradale, causano la morte di una o più persone. L’ennesima sentenza shock è stata emessa nell’agosto 2009 dal tribunale di Dolo (Ve), che non ha inflitto neppure un giorno di carcere a un automobilista, responsabile (per omessa precedenza) della morte di quattro ragazzi dai 15 ai 27 anni. L’effettiva pena inflitta di 3 anni è stata interamente condonata per indulto e la patente sospesa per soli 10 mesi. Il perdonismo è ingiusto: rischia di tradursi in un subdolo e implicito incentivo all’illegalità e al delitto.
TURISMO IN BASILICATA Riteniamo che il turismo, fino a qualche tempo fa, considerato un settore non primario dell’economia locale, stia velocemente recuperando terreno e, oggi, rappresenti il valore aggiunto del nostro sviluppo regionale. In materia di turismo circolano più tesi sulle politiche da attuare in Basilicata. Quella dell’Assessorato regionale delle politiche del Turismo che, dopo mesi di annunci, convegni e seminari, organizzati con la partecipazione di esperti nazionali ed internazionali, ha licenziato la propria proposta politica sotto lo slogan “La Basilicata delle quattro M: Matera, Melfi, Maratea, Metapontino”. Una lettura del territorio politicamente debole e male interpretata in quanto decontestualizza dai propri comprensori quattro siti, turisticamente consolidati, che, invece, dovrebbero rappresentare il volano di sviluppo non solo delle loro aree di appartenenza bensì dell’intera regione lucana. Ci aspettavamo molto di più. Si attendeva un impegno culturale diverso e più creativo, non solo per i mezzi economici impiegati ma anche per l’accresciuto personale, messo a disposizione dell’agenzia di promozione turistica regionale attraverso criteri selettivi che, a detta dei suoi responsabili, hanno puntato “sulla qualità professionale” del personale coinvolto. L’altra proposta, la nostra, altrettanto politica, spiega le ragioni, con le premesse richiamate nella introduzione, per le quali i turisti debbano preferire e venire in Basilicata. Il nostro ragionamento ci porta a configurare la proposta dell’assessorato regionale al turismo delle quattro “M” come un immaginario cerchio che circoscrive la Basilicata con quattro punti strategici: Melfi, Matera, Metapontino, Maratea, tutti allocati ai bordi della macro-area interna della regione. Ai bordi di questo simbolico cerchio si sviluppano, a senso unico, le relazioni culturali, economiche e sociali della Basilicata con il resto del Paese. Ne consegue che i turisti che arrivano da fuori regione, principalmente dai territori di prossimità, attratti da questi quattro luoghi di eccellenza e, dopo una breve sosta, secondo le statistiche, non sono portati o guidati a scoprire, salvo eccezioni, il vero cuore della Basilicata, quello delle aree interne, per intenderci della montagna che, geograficamente, rappresenta l’80% dell’intero territorio lucano, anch’esso ricco di attrazioni ma sconosciuto e primitivo: comunque patrimonio unico da offrire al mondo esterno. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Gianfranco Nìbale
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Fumetti. Dopo l’annuncio del remake di “Yellow submarine”, la Disney compra la Marvel
Topolino ha ucciso (anche) di Alessandro Boschi roprio l’ultimo giorno del calciomercato fa da sfondo ad un acquisto che potrebbe fare da pendant con quello di Kakà da parte del Real Madrid. Lì il più grande calciatore vivente (svenduto da quella che è una squadra ormai morente), qui la più grande casa di fumetti mai esistita. La Marvel diventa di proprietà della Disney. È un po’ come se Cristiano Ronaldo andasse a giocare con Kakà, cosa che in effetti è avvenuta. Da oggi Spider Man, Hulk e i Fantastici quattro saranno nella foto ufficiale insieme a Topolino, Paperino e Pippo. È tempo di dream team, ed evidentemente il mondo dello spettacolo nella sue espressione più grandiosa non ha voluto lasciare il passo al mondo del calcio. Mettere insieme dei campioni non significa creare una squadra invincibile, ma certo aiuta. Se poi non si tratta di calciatori ma di eroi di cartone dal fatturato siderale, la cosa diventa più interessante.
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Solo pochi giorni fa parlavamo della Disney, sempre lei, che acquisiva i diritti del film a cartoni animati Yellow Submarine per affidarne il remake a quel geniaccio di Robert Zemeckis, che oggi assistiamo ad una nuova clamorosa acquisizione. Il potente amministratore delegato Bob Iger ha affermato: «Aggiungere la Marvel al portafoglio di marchi già unico della Disney garantisce significative opportunità di crescita nel lungo termine oltre che la generazione di valore». E già sembra di vedere quelli della Disney leccarsi i baffi. Non possiamo certo parlare di monopolio della fantasia, perché per definizione è impossibile parlarne, ma non c’è dubbio che un organico del genere è tale da far tremare i polsi a qualsiasi concorrente. Ma a nostro modo di vedere al questione è anche un’altra, e sta proprio in questo presupposto di creatività che sta sempre alla base di fumetti e cartoni animati. Se nel corso di tanti anni sono passati davanti ai nostri occhi personaggi di cartone (poi sovente trasposti sul grande schermo) con una storia e un dna molto differente a testimonianza di una creatività vitale e programmaticamente disorganica, significa che la fantasia ha in questo campo la più piena libertà. Il fatto che poi le varie tecniche di realizzazione (non ci riferiamo solo al 3D) abbiano declinato questi eroi in maniera diversa non è certo la dimostrazione di un estro insopprimibile bensì di un adeguamento storico. Un breve esempio, e scusateci se prendiamo di un fumetto italiano che più italiano non si può, Tex Willer. I
L’UOMO RAGNO primi fumetti disegnati da Aurelio Galleppini, che usava se stesso come modello con l’ausilio di uno specchio, erano molto differenti da quelli attuali. I vari Civitelli e Villa, solo per citarne un paio, hanno contribuito alla realizzazione di un eroe molto diverso. Questo, però, è solo un cambiamento esteriore, che non ha mai influito troppo sulla struttura del personaggio, rimasto molto semplice, lineare, quasi manicheo nelle sue energiche risoluzioni. Durante lo stesso periodo in cui Tex appariva nel-
caso abbiamo assistito ad una “selezione naturale”logica e persino prevedibile (Tex in effetti è il fumetto migliore), chi ci dice che nel caso della Marvel acquistata dalla Disney non si possa invece prefigurare un futuro appiattimento e una uniformità che di certo non gioverebbero alla vitalità del prodotto? Forse è fantascienza (in effetti…), ma tutte queste acquisizioni, il pesce grande che mangia…no, che ingloba, il pesce piccolo, hanno in sé qualcosa che disturba e fa pensare. Non sappiamo se la Marvel avesse in effetti bisogno di questa operazione ma, al di là di considerazioni divertenti ma superficiali (Spider Man insieme a Topolino è obiettivamente un pensiero insano…) occorrerà vedere se l’autonomia ideativa di disegnatori e sceneggiatori rimarrà tale, o se invece, magari in una sorta di inconsapevole adeguamento, non ci si stia avviando verso una poco augurabile fase di uniformità.
Il gigante dei cartoon chiude un affare da 4 miliardi di dollari: ora avrà alle sue dipendenze tutti i maggiori “supereroi” del mercato statunitense: da Hulk a Iron Man, dagli X-Men a Capitan America fino ai Fantastici Quattro le edicole, oddio, in realtà qualche anno dopo, erano molti i personaggi western che tentavano di affacciarsi alla ribalta. C’era ad esempio Il piccolo ranger, o ancora prima Capitan Miki (nel 1951, pochi anni dopo il personaggio di Gian Luigi Bonelli). Oggi questi fumetti non ci sono più. Ora, a parte la nostalgia per personaggi come Annie Quattropistole, Frankie Ellevan e i suoi cracchignoli (sì, cracchignoli), è impossibile non notare come una casa editrice robusta come la Bonelli abbia favorito lo sviluppo e il mantenimento fino ai giorni nostri di un fumetto come quello di Tex (al di là dell’innegabile superiorità del prodotto) molto meglio di quanto non abbiano saputo fare case editrici meno ricche e dalle spalle meno larghe. Ma se in questo
Lo ripetiamo, i personaggi sono tra loro talmente diversi da escludere ogni contatto o induzione. Resta però il fatto che, quasi come fossero i sette nani che la mattina, pala e piccozza, escono cantando dalla stessa casa per andare in miniera, i vari Magnifici quattro, Hulk, Wolverine, l’Uomo torcia e compagnia bella, si ritrovassero sotto lo stesso tetto con Paperino Topolino, Rockerduck e la Banda Bassotti.Tutti fratelli anche se “da un altro pianeta”. Non so a voi, ma questa prospettiva un po’ ci inquieta.