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Se la Stampa non esistesse,

di e h c a n cro

bisognerebbe non inventarla; ma ormai c’è, e noi ne viviamo Honoré De Balzac

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 2 SETTEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dopo il caso Feltri-Boffo un giro di opinioni sul degrado dei media 1. Piero Ostellino

Giornalismo, non comincia a fare un po’ schifo? L’editorialista del “Corriere”: «È un mestiere ormai degenerato. Le grandi famiglie giornalistiche obbediscono a logiche mafiose. Stimo Feltri ma stavolta ha sbagliato. Tutto nasce dal tradimento della cultura liberale»

«Se i portavoce non smettono di parlare, bloccherò i lavori di Bruxelles»

E Berlusconi minaccia la Ue

Braccio di ferro Gheddafi-Frecce Tricolori: vincono i nostri

di Francesco Lo Dico

di Errico Novi

ROMA. «Gli ultimi velenosi refoli che la stampa

ROMA. Una giornata vissuta pe-

italiana ha sversato nell’aria putrida di questo Paese, testimoniano di una professione giornalistica ormai degenere, ridotta a rango caricaturale e deforme. Assistiamo a un ininterrotto fiorire di mestieranti sempre più foggiati alla stregua di furbastri robivecchi, di impudichi mestatori che si acquattano nelle privatezza altrui per sferrare vili agguati nell’intimità del tinello domestico. La ricerca dei fatti ha ceduto il passo a strategie di intelligence promanate ai piani alti da colonnelli rotti a ogni vizio di forma e di prassi. E i giornalisti si sono adunati in battaglioni di lanzichenecchi pronti a raccogliere spiccioli onori laddove seminano infamie, delazioni e calunnie». È l’analisi di Piero Ostellino, editorialista del Corriere della sera.

ricolosamente. Dall’Italia e dal suo premier. Anche se i rischi più seri si scaricano sulle spalle, per quanto forti, dei piloti mandati in Libia con le Frecce tricolori. È grazie a loro, al loro orgoglio patriottico e alla loro lucidità che l’Italia scampa un paradosso diplomatico sconcertante. «Tripoli vuole il verde», annuncia infatti tra il grave e il rassegnato l’ambasciatore italiano il Libia Paolo Trupiano. «Non ci alzeremo in volo se le Frecce tricolori non potranno stendere il fumo bianco rosso e verde», è la tenace risposta del tenente colonnello Massimo Tammaro, comandante della nostra pattuglia acrobatica. Solo a quel punto il nostro ministro degli Esteri Ignazio La Russa si degna di al-

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Il 70° anniversario della Seconda guerra mondiale

zare la voce e di sottrarre i nostri piloti a un vergognoso tiro alla fune in terra d’Africa. Uno scempio diplomatico che grida vendetta nonostante si concluda con l’esibizione dei nostri aerei secondo il protocollo tradizionale. Sarà a causa di quello che il deputato dell’Udc Roberto Rao definisce «vergognoso suk arabo», ma di certo il presidente del Consiglio si presenta a Danzica, alla celebrazione dei settant’anni della Seconda guerra mondiale, scosso da un’aria rabbiosa. E inscena così il secondo azzardo internazionale nel giro di poche ore. Stavolta finiscono nel mirino i portavoce e addirittura tutti i commissari dell’Unione europea.

oveva essere la festa della ritrovata armonia europea nel 70° anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Con una ventina di leader riuniti a Danzica dove la corazzata tedesca SchleswigHolstein sparò i primi colpi di cannone contro i polacchi. È finita, se non proprio in rissa, in un confronto spigoloso. Con Berlusconi che si è scagliato contro lo staff della Ue e, soprattutto, con Putin e il presidente polacco Kaczynski che hanno litigato sulle colpe di Hitler e di Stalin. Ma, dietro le quinte, si è disegnato anche l’assetto dell’Europa che verrà con una girandola di nomi per le nuove poltrone.

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Il nuovo potere europeo dietro le quinte di Danzica di Enrico Singer

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NUOVI CRIMINI Agenzie di viaggi, banche, gioiellerie. Si moltiplicano, in Occidente, le rapine compiute utilizzando (come travestimento) l’abito simbolo dell’oppressione femminile nell’Islam. Lancia l’allarme uno dei più grandi esperti mondiali di Medioriente alle pagine 8 e 9

I Dillinger in burqa di Daniel

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

173 •

WWW.LIBERAL.IT

Pipes

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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politica

L’inchiesta. Dopo il caso Giornale-Avvenire, cominciamo un giro di opinioni sul degrado dei nostri mass media

«I giornali? Cosa Nostra» Piero Ostellino: «Questo mestiere ormai obbedisce a logiche mafiose. Feltri ha sbagliato; come i tre giuristi reclutati da “Repubblica”» di Francesco Lo Dico segue dalla prima Il decano della carta stampata italiana si è fatto un’idea impietosa della professione. Il giornalismo di questo Paese è marcio. Quali sono le ragioni che hanno trasformato questa professione in un ricettacolo di brutture? Il nostro giornalismo soffre di mali difficilmente curabili, contratti nel corso degli anni direttamente a contatto con una realtà insana. Alla radice di queste affezioni covano virus ormai onnipresenti in tutte le testate giornalistiche, che pure dovrebbero essere in un Paese civile il vaccino contro la faciloneria più sciatta, il pensiero volgare e accattone e i riduzionismi da bar. Mi riferisco a un approccio verso la realtà infarcito di falso moralismo, di una precettistica improntata all’opportunismo, di un imbarazzante doppiopesismo. Quello del giornalista odierno è uno

L’uso della parola scritta è ormai sganciato dai cardini deontologici: la verifica della fonte e la competenza

sguardo intorbidato di volta in volta da velami ideologici e smanie predatorie, da ansie giacobine o pilatesche semplificazioni. Si banalizza ciò che oltraggia la propria fazione e si ingigantisce ciò che umilia quella avversa. C’è una totale perdita di misura e una sempre più cafonesca ingerenza in ogni branca e disciplina che interroga la vita pubblica. Ci si erge di volta in volta a censori, a proclamatori di stati d’assedio, a magistrati ed episcopi. Ci si assiepa sui banchi della attualità credendo di sedere dalla parte della ragione. E accade così che da quella del torto i posti siano sempre liberi. Perché neppure di fronte a sviste sesquipedali, il giornalista di oggi arretra o si cosparge il capo di cenere. Come si è arrivati a un simile panorama? Nel corso di questi ultimi quindici anni, contrassegnati da un feroce bipolarismo, la percezione della professione giornalistica è diventata una questione di gusto. Una scelta estetica, se non edonistica, che ha sganciato l’uso della parola scritta da criteri deontologici essenziali come la verifica della fon-

Intanto il gip di Terni risponde no alla richiesta di pubblicare il fascicolo del caso Boffo

Il Papa chiama la Cei «Avete la mia stima, andate avanti così» di Francesco Capozza

ROMA. Il «caso Boffo-Feltri» ieri ha prodotto un gesto ufficiale di unità tra il Papa e la Conferenza episcopale italiana. Nel pomeriggio, infattui, c’è stata una telefonata tra Benedetto XVI e il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. Lo ha reso noto la stessa Cei spiegando in una note che «il Santo Padre ha chiesto notizie e valutazioni sulla situazione attuale ed ha espresso stima, gratitudine ed apprezzamento per l’impegno della Conferenza Episcopale Italiana e del Suo Presidente». Nel linguaggio freddo e formale del Vaticano, comunque, si tratta di un gesto di forte valore simbolico a sostegno della Cei, del suo giornale (l’Avvenire) e del suo direttore (Dino Boffo).

nale di condanna. Il decreto penale che condanna al pagamento di 516 euro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, per molestie personali sarà messo a disposizione dei giornalisti con la cancellazione del nome della persona offesa. «Ritengo che il diritto di cronaca possa essere soddisfatto anche solo attraverso la divulgazione di come si è concluso il procedimento», ha spiegato il gip di Terni, Pier Luigi Panariello, secondo il quale la visione di tutto il fascicolo processuale va riservata soltanto alle parti coinvolte nel procedimento che «se lo vorranno potranno poi metterlo a disposizione». Il gip ha spiegato che i difensori del direttore di Avvenire hanno già chiesto una copia degli atti.

A Terni, intanto, il gip Luigi Panariello, ha detto no alla visione da parte dei giornalisti di tutto il fascicolo relativo alla vicenda processuale del direttore di Avvenire, Dino Boffo come richiesto ieri da alcuni cronisti. Il giudice ha autorizzato la visione e la riproduzione in copia soltanto del decreto penale con il quale Boffo è stato condannato al pagamento di 516 euro per molestie personali. Il gip lo ha reso noto ai giornalisti che da ieri mattina stavano attendendo la decisione. Il fascicolo relativo alla vicenda processuale del direttore di Avvenire è attualmente conservato negli archivi del tribunale di Terni. Non sono più in servizio a Terni, invece, il pubblico ministero che all’epoca della vicenda coordinò le indagini e il gip che firmò il decreto pe-

Ieri, tuttavia, è stato anche il giorno delle precisazioni e delle smentite più o meno ufficiali. «Non vi è nessun contrasto fra la conferenza episcopale italiana e la segreteria di Stato vaticana». È quanto ha detto in mattinata il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, in merito alle notizie apparse in questi giorni secondo le quali esisterebbe una più o meno velata polemica tra la“cancelleria del papa”e la Cei. «È chiaro che vi è accordo tra la Santa Sede e la Chiesa in Italia - ha detto padre Lombardi - nel rispetto delle rispettive competenze, in più c’è un frequente contatto e profonda conoscenza e stima fra il cardinale Segretario di Stato e il Presidente della conferenza episcopale». «Pertanto - ha aggiunto Lombardi - i tentativi di contrapporre la Segreteria di Stato e la Conferenza episcopale non hanno consistenza». La polemica ha avuto, come prevedibile, anche i suoi strascichi internazionali. «Tra Italia e Santa Sede non c’è nessuna distanza e i rapporti continuano come sempre». Lo ha detto ieri il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, rispondendo alle domande dei giornalisti a Danzica, dove ha partecipato alla cerimonia per il settantesimo anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale, circa quanto affermano numerosi quotidiani di un raffreddamento dei rapporti tra Italia e Vaticano.

te e la competenza. Oggi domina su tutto l’ “illetteratezza”, la bulimia acritica che premia l’assaltatore più rude, l’implacabile fame di pettegolezzi e vendette private. Si elargiscono ormai format di scrittura precofezionati, tagliati su misura per un pubblico vorace che trova nella carta stampata l’ideale prosecuzione del serial televisivo ad hoc per il suo palato. Tutto questo a discapito dell’onestà intellettuale, sempre più difficile da chiamare in causa vista la madornale incultura che governa le menti della maggior parte dei giornalisti italiani. Possibile che il peggio dell’incultura italica sia approdata in luoghi come le redazioni, deputate in teoria a diffondere cultura? Non mancano intelligenze vive o riconosciute competenze nei giornali. Il problema è però che vengono sovrastate da oberanti ragioni corporative. Si rinuncia spesso al vaglio critico a favore di un familismo amorale. La grandi famiglie giornalistiche, che fungono da dogana per chi vuole intraprendere la professione, obbediscono a logiche di stampo mafioso incentrate su lealtà o tradimento, scambio di favori o logoranti guerre di quartiere. Coordinate comportamentali che, specie dopo la caduta delle impalcature ideologiche di vecchio conio, hanno definitivamente sottratto la deontologia della professione a ogni rigore. Persino a quello ideologico, che pure assicurava coerenza e in qualche caso persi-

È vizio comune la pretesa di fare processi, emettere sentenze e lanciarsi in filippiche prima che i tribunali si pronuncino

no varietà di posizioni all’interno di uno stesso blocco. La rete ha avuto parte in causa nel degrado del mestiere? Sicuramente internet ha esteso e illuminato a festa la fiera del dilettantismo, ma blog e pagine web rappresentano un grande fenomeno di libertà, anche nei casi in cui la castroneria di chi scrive è evidente. Non bisogna sottovalutare che parte della forza della democrazia risiede indiscutibilmente nell’errore. Ciò che conta è che la libertà sia vissuta da chi scrive e da chi legge con senso di responsabilità, sia che si tratti di un professionista seguito da migliaia di


politica

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Un attacco a scoppio ritardato sa troppo di intimidazione

Chi sta con Boffo... ma dà ragione a Feltri Nella posizione del premier e di molti leader del Pdl la contraddizione di chi non sceglie di Giancristiano Desiderio Feltri o Boffo. O si condividono gli argomenti di Feltri o si offre solidarietà a Boffo. Ciò che non si può fare è stare nel mezzo e dire al direttore dell’Avvenire «ti dò la mia solidarietà» per poi aggiungere che sostanzialmente Feltri ha ragione perché è meglio «non sbirciare nella vita privata di nessuno». A sostenere questa posizione acrobatica sono soprattutto esponenti del Pdl che dopo aver messo insieme ciò che insieme non sta e non può stare - le classiche pere con le mele - concludono: «La vita privata è sacra e non bisogna mischiare pubblico e privato, dunque facciamo tutti un passo indietro». E chi è visto si è visto, si potrebbe napoletanamente aggiungere. Un ragionamento che non sta in piedi neanche mezzo secondo perché come capiscono tutti una cosa è la vita privata di un capo di governo e altra cosa è la vita privata di un giornalista, il quale potrà essere più o meno moralista, potrà vedere quanto volete la pagliuzza nell’occhio altrui e ignorare la trave nel proprio occhio, ma ad ogni buon conto risponderà ai suoi lettori e al suo editore, mentre dal capo di governo dipende nientemeno che dalla “ragion di Stato” che, se non è credibile, diventa un pericoloso segreto di Pulcinella.

O

Accanto, Piero Ostellino. A destra, Vittorio Feltri e, nella pagina, a fianco Dino Boffo: per la stampa non è un buon momento

lettori, sia che si tratti di un oscuro giovanotto con quattro lettori. Cretineria o autorevolezza non risiedono nei numeri. Poco fa parlava di ingerenze e sconfinamenti. Si riferiva al Diritto, per caso? Mi sembra evidente che la militarizzazione della professione abbia prodotto un inaccettabile assalto alle leggi che presiedono alla vita di questo Paese. Chiunque si arroga ormai la pretesa di fare processi, emettere sentenze e lanciarsi in filippiche a priori, prima che i tribunali si pronuncino, oppure a posteriori, nell’idea di riaffermare la verità nonostante chi è chiamato a stabilirla si sia pronunciato. E c’è poi il caso di giuristi contaminati dalle logiche giornalistiche. Non ultimi i tre di Repubblica, che hanno sottoscritto un appello contro la querela sporta del premier. Sono i giudici a stabilire la fondatezza di una querela, e fino alla sentenza non esiste nient’altro che il diritto a sporgerla

nei confronti di chicchessia. A proposito di vicende scottanti, che cosa ne pensa del trattamento riservato a Dino Boffo? Penso che ormai si scrive sui giornali quello che si vocifera nei bar, che si scagliano pietre su ordinazione e senza le necessarie cautele che regolano la professione. E che si fa strame della vita privata a colpi di dossier e informative, tramite strani giri e traffici di notizie. Nel caso specifico, anche se riconosco a Feltri una certa statura giornalistica e una certa professionalità, devo dire che il direttore del Giornale ha sbagliato. Colleghi che sbagliano, è questo il senso? No. C’è una verità più profonda che induce in errore anche chi è cresciuto secondo i valori più nobili di questa professione. C’è un terribile deficit di cultura liberale in questo Paese. Una matrice di pensiero che il centrodestra sorto intorno a Silvio Berlusconi ha sempre propugnato a parole, e mai compiuto nei fatti. È per questa ragione che, lungi dall’essere distanti, vita pubblica e privata non hanno alcuna regolamentare separatezza, ma tarlano l’opinione pubblica e vellicano nell’intimo l’italiano tenacemente appassionato alla sprezzatura da bar e alla sapida maldicenza. E così, alla faccia della sbandierata rivoluzione liberale, gli uomini si dividono in Italia in due alte categorie concettuali: gli amici e i nemici. Quelli di cui parlava Carl Schmitt alcuni anni orsono.

mento che il Cavaliere non è stato in grado di gestirla al meglio - indebolisce o rafforza lo Stato italiano? Il moralismo non c’entra nulla e poi nulla. È una questione di forza o potenza perché - lo si voglia o no - lo Stato è forza o potenza e se lo stile di vita del capo di governo contribuisce non a rafforzare ma a indebolire lo Stato esponendolo a questo o quel rischio, interno o addirittura esterno, beh, allora, con buona pace di Feltri e di ogni altro giornalista con il pelo sullo stomaco, la vita privata del premier Berlusconi è affare di Stato, mentre la vita privata di Dino Boffo e affar suo e dei suoi lettori.

Secondo punto: i fatti (non molto chiari) raccontati dal Giornale risalgono al 2001 e al 2004. Non sono proprio di strettissima attualità. Diciamo pure che non sono cronaca, al più saranno storia biografica e potranno appassionare i curiosi del genere. Ma l’interesse del Giornale per la vita privata del direttore dell’Avvenire risiede nel principio “rendere pan per focaccia”. Lo stesso Feltri ha esposto il principio più o meno in questo modo: fino a quando loro ficcheranno il naso nelle lenzuola altrui, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro lenzuola. Insomma, è la classica legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Un argomento che potrebbe anche essere condiviso perché il rischio del moralismo è proprio questo: può arrivare qualcuno che è più moralista di te o che, prendendo sul serio l’arte (un po’stupidotta) di moraleggiare, comincia a farti le pulci e ben di sta. Tuttavia, la critica alla critica - «da che pulpito viene la predica» - in questo caso regge fino a un certo punto per poi crollare. Il passo che separa la campagna stampa del Giornale dalla intimidazione politica è fin troppo breve. Non sarà questa l’intenzione di Feltri, ma è questo ciò che appare: il giornale di famiglia del presidente del Consiglio mette il naso (turandoselo, dice Feltri) sotto le lenzuola del direttore di un giornale critico con il capo del governo. Feltri fa passare tutto ciò come “smascheramento dei moralisti”, ma è anche, evidentemente, la reazione arbitraria di un potere politico colpito e indebolito principalmente da se stesso. Conclusione: la solidarietà a Boffo e la regione a Feltri, come dicevamo, non possono andare di pari passo.

La vita privata di un uomo di Stato diventa “pubblica” nel momento in cui modifica gli equilibri interni dello Stato medesimo

Primo punto: è verissimo che la vita privata è sacra e che il potere - quello politico come quello religioso e quello dell’informazione si deve fermare fuori dalla porta di casa. Anche se sono un politico e anche se sono presidente del Consiglio. È perfino buffa e maldestra quella critica agli uomini pubblici che dice: «La vita di un uomo pubblico deve essere trasparente e dobbiamo sapere tutto». È una critica buffa - cioè moralistica - perché la distinzione che vale nella conoscenza della vita di un uomo di Stato non è se è un santo o un diavolo, un erotomane o un casto, ma se rafforza o indebolisce il governo ossia lo Stato. L’onestà politica non è il candore, ma il buongoverno e la difesa statale. La vita di un uomo di potere è più opaca che trasparente e non perché il potere abbia qualcosa da nascondere, ma perché il primo scopo del potere è la difesa e da che mondo e mondo ci si difende meglio, e dunque si è più forti, se ci si espone meno. Ora, la domanda è: la vita privata di Silvio Berlusconi - dal mo-


politica

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Dall’accordo con Roma alle minacce “petrolifere” a Svizzera e Regno Unito

E adesso, un’Europa unita contro il dittatore

Occorre battere la strategia del Colonnello che punta a dividere l’Occidente trattando con i singoli Paesi di Michael Sfaradi da un po’ di tempo che Hassan Nasrallah, il capo di Hetzbollah o Mahmud Ahmedinejad, il presidente dell’Iran, non lanciano il loro anatemi contro Israele. Questo - forse - perché il primo è molto impegnato a riempire i suoi arsenali di missili iraniani, e il secondo è molto occupato a far arrestare e torturare coloro che hanno avuto il coraggio di contestare i risultati delle elezioni farsa che lo hanno riconfermato alla guida del paese.

È

riunione serale a cui partecipano sia Berlusconi che Barroso: «È l’occasione per riproporre il tema dei portavoce, sollevato dal nostro presidente del Consiglio solo per fare chiarezza e dare più forza alla Ue». E il divieto di “intervento”preteso per i commissari? Fino alla prima serata non si levano altre voci dall’esecutivo di Bruxelles. È invece ancora una volta il Consiglio d’Europa (organismo distinto dalla Ue) a farsi sentire, con il commissario per i Diritti umani Thomas Hammarberg: «Credo che in Europa nessuno possa azzittire

però dovrebbe rassegnarsi al fatto che «le regole di Bruxelles non le stabilisce lui». Ma se un motivo di nervosismo c’è dev’essere per forza nell’assurda trattativa sull’esibizione delle Frecce, nella quale Berlusconi interviene solo dopo che i piloti si sono mostrati irremovibili nell’intenzione di stendere solo «fumo tricolore».

A quel punto anche Berlusconi dice infatti che i nostri aerei non voleranno su Tripoli se non potranno stendere i colori della bandiera italiana. A dare per primo la notizia che i capricci d’Oltremare si sono esauriti è l’ambasciatore libico a Roma Abdulhafed Gaddur, che smentisce tutto: «Abbiamo autorizzato come Stato libico l’esibizione delle Frecce e la fumata tricolore. Questo non è mai stato in dubbio», sostiene. Lo fa dopo la telefonata probabilmente decisiva con Ignazio La Russa, e se la prende al limite non con le fantasie del suo leader Gheddafi ma con non meglio precisate «persone non responsabili», le quali avrebbero messo sotto pressione i nostri piloti con iniziativa arbitraria e non su ordine del Colonnello. Versione poco credibile, la cui fragilità viene comunque spazzata via poco prima delle 19, quando dopo dodici minuti di evoluzioni nel cielo della capitale africana, la pattuglia acrobatica libera il fumo tricolore.

Da Bruxelles replicano proprio due di quei portavoce che il premier vorrebbe tacitare: «L’esecutivo dell’Unione è un organo collegiale» nessuno o chiedergli di tacere. Davanti a un problema come quello dell’immigrazione abbiamo bisogno di parlare, di trovare soluzioni costruttive». Anche in Italia si avvertono riflessi delle parole echeggiate a Danzica, da Fassino che si chiede se «secondo Berlusconi i commissari Ue devono essere muti, in quanto pericolosi sovversivi» all’immancabile Di Pietro, puntuale nel dare del «paranoico» al premier e nel chiedere che «sia sostituito». Emma Bonino coglie probabilmente il senso dell’imprevedibile giornata e parla di un «Berlusconi nervoso» che

A riempire questo vuoto di propaganda demonizzatrice nei confronti di Israele ci ha pensato il colonnello Gheddafi durante il suo discorso all’apertura del summit dell’Unione africana. Il leader libico ha dichiarato che è proprio Israele che si cela dietro i conflitti africani, accusando il governo di Gerusalemme di essere il burattinaio delle crisi in Darfur, Sud Sudan e Ciad. Tutto questo per poter meglio sfruttare le ricchezze di quelle aree. La risposta dal ministero degli esteri israeliano non si è fatta attendere eYigal Palmor, il suo portavoce, ha rilasciato alla stampa una dichiarazione al vetriolo: «Quel circo equestre itinerante che è Gheddafi è divenuto da tempo uno show tragicomico che imbarazza chi lo ospita e la nazione libica che ne paga il conto. Mi chiedo se vi sia ancora qualcuno al mondo che prende seriamente ciò che dice quest’uomo. Noi comunque siamo certi che nessuno stato darà peso alle azioni teppistiche di questo bulletto». Ad ascoltare le parole del leader libico c’erano diversi tiranni e dittatori, fra gli altri Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe (nazione cacciata dal Commonwealth, mentre il suo dittatore è anche persona non gradita negli Stati Uniti e nell’Unione Europea) e il presidente del Sudan Omar al Bakiri, sul quale pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra in Darfur.

forniture di petrolio, ha anche subìto la fuga di diversi miliardi di petrodollari libici dalle casse delle sue banche verso altre mete. La situazione era così grave che il presidente della confederazione elvetica Hans-Rudolf Merz si è dovuto scusare. Ma non finisce qui, perché il successo più importante Gheddafi lo ha ottenuto dal governo scozzese che ha liberato, per motivi ”umanitari”Al Megrahi, il terrorista responsabile dell’attentato di Lockerbie, che stava scontando l’ergastolo per l’uccisione di 270 persone. Solo all’indomani del suo arrivo in Libia, accolto come un eroe, si sono sbloccati alcuni contratti con il Regno Unito che erano ”congelati” da tempo. Ora la British Petroleum può sondare vaste zone di deserto libico alla ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare, qualche milione di barili di oro nero in cambio della giustizia e del rispetto verso coloro che sono rimaste vittime del terrorismo.

Ma il culmine del successo si è avuto con le celebrazioni della rivoluzione, quando alla presenza di molti capi di Stato, in maggioranza africani ed asiatici venuti ad onorare il leader libico, si sono svolti i festeggiamenti per i 40 anni di un regime che ha imprigionato, torturato, esiliato e fatto sparire centinaia di oppositori. I leader europei, nonostante i loro bravi scheletri negli armadi, hanno avuto il buon senso di tenersi lontano, soprattutto dopo l’accoglienza da eroe ad Al Megrahi al rientro in patria, accoglienza che ha scatenato cori di disapprovazione nella comunità internazionale. Gordon Brown, cercando di salvare la sua faccia di bronzo, aveva addirittura avvertito Tripoli che l’eventuale presenza di Al Megrahi alle celebrazioni avrebbe provocato un incidente diplomatico. Davanti a situazioni di questo tipo che somigliano molto ad uno dei gironi danteschi dove anziché remare tutti insieme si affonda ognuno per conto suo, viene spontaneo chiedersi quando l’Europa con i suoi governi di destra e di sinistra, gli Stati Uniti di Obama che cercano un dialogo e non trovano interlocutori e il mondo occidentale più in generale, capiranno che continuare ad umiliarsi davanti alla Libia e al suo petrolio o all’Iran e al suo nucleare, o a chi ci tiene sotto scacco con minacce di tutti i tipi, da quella terroristica a quella energetica, non è certo la soluzione ideale per progredire e mantenere la pace.Viene spontaneo chiedersi quando le nazioni occidentali capiranno che solo un atteggiamento unitario potrà restituire dignità alle nostre deboli democrazie.

Liberato in Scozia l’attentatore di Lockerbie, la British Petroleum ha avuto il permesso di sondare il deserto libico in vista di nuovi pozzi

Dopo anni di isolamento Gheddafi sta riuscendo, forzando la mano a tutti, a sdoganare la Libia e a farla ridiventare una nazione partner dell’Occidente. Per prima cosa ha siglato con l’Italia l’accordo per il pagamento dei danni relativi al periodo della colonizzazione, Roma ha così staccato un assegno di oltre 5 miliardi di dollari per pagare questo debito storico. Dopo un contenzioso dovuto all’arresto di uno dei suoi figli, arrestato in territorio elvetico per maltrattamenti a due suoi domestici, Gheddafi è riuscito a mettere in ginocchio la Svizzera che, oltre ad essersi vista tagliare le


diario

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J’Accuse. Vito Riggio (Enac) presenta una dura relazione a Matteoli sul caos dello scalo. Domani vertice dal ministro

Troppi ritardi, Fiumicino precipita L’Autorità è pronta ad annunciare una procedura di infrazione di Francesco Pacifico

ROMA. Il gestore (Adr) deve coordinare meglio le attività aeroportuali. Le società di handling (Az Servizi e Eas) non assumono personale sufficiente. E la compagnia (Alitalia) investe troppo poco sui servizi di terra. È soprattutto in questi tre problemi che vanno ricercate le cause del caos estivo registrato a Fiumicino nella consegna dei bagagli. Problemi che sono riportati nella severa relazione che il presidente dell’Enac, Vito Riggio, ha consegnato ieri al titolare delle Infrastrutture, Altero Matteoli. Di fronte a queste accuse, il ministro attende risposte sia dall’Ad di Alitalia, Rocco Sabelli, sia dal presidente di Aeroporti di Roma, Fabrizio Palenzona. Li ha convocati per domani alle 15, ma è facile ipotizzare che al netto di dichiarazione di circostanza, i vertici del vettore e quelli del gestore dello scalo romano ne approfittino per difendere la loro posizione. In questa chiave, tra 24 ore entrano nel vivo le trattative che, sotto la regia di Riggio, dovrebbero portare le parti a stipulare una sorta di road map per migliorare i servizi a Fiumicino. Al riguardo Matteoli chiarirà che attende misure concrete entro il vertice convocato proprio dall’Enac il prossimo 16 settembre. Inutile dire da dove si deve iniziare a lavorare. Anche perché nella ricostruzione delle responsabilità l’Enac – a detta di chi ha letto la relazione inviata al ministro – è stata minuziosa. Se nei giorni scorsi Riggio aveva addossato ad Adr soltanto «il 5-10 delle responsabilità», attribuendo il resto ai «servizi di terra di Alitalia», i suoi funzionari hanno offerto al ministro un quadro dove accanto alle mancanze della compagnie di bandiera sono comunque grandi i ri-

tardi del gestore e della società di handling di Fiumicino. Due delle quali, Az Servizi e Eas, controllate dall’aviolinea guidata da Sabelli e Colaninno. A quanto pare, a peggiorare la posizione di Adr, anche le ultime dichiarazioni dei vertici, che avrebbero fatto strigmatizzato il comportamento di Alitalia. Secondo l’Autorità, in questi anni il gestore avrebbe delegato troppi compiti alle compagnie, mostrando forti deficit nell’azione di coordinamento delle attività di handling, preferendo dare più spazio alla gestione delle infrastrutture. Che pure

a Fiumicino registrano grandi ritardi rispetto a quanto previsto nei vari piani d’investimento della società che controlla lo scalo. Emblematico, quindi l’atteggiamento, verso le realtà del handling. Per l’Enac l’Adr sarebbe dovuta intervenire con più forza sulle compagnie ve-

L’Alitalia è accusata di investire poco nei servizi di terra, l’Adr di delegare troppo alle compagnie

Fallisce SkyEurope, in migliaia a terra La compagnia slovacca SkyEurope ha annunciato il fallimento e sospeso tutti i suoi voli. La notizia era attesa, anche perché dopo aver annunciato a giugno perdite superiori ai 59 milioni di euro, il vettore low cost non era stato in grado di trovare nuovi finanziatori. Moltissimi i passeggeri, compresi un centinaio di italiani, bloccati allo scalo di Bratislava, che hanno dovuto ricorrere a collegamenti messi a disposizione da altre low cost. Intanto la Commissione europea sta studiando la creazione di un fondo di garanzia per poter aiutare i passeggeri in caso di fallimento di compagnie aeree. Lo ha annunciato il vicepresidente dell’esecutivo Ue, e titolare per i Trasporti, Antonio Tajani. «Purtroppo», ha ammesso, «come già accaduto per la compagnia MyAir, Bruxelles non può intervenire».

dendo il poco personale incaricato delle attività di scarico e consegna bagagli.

L’Alitalia, stando a quanto denunciano i funzionari di Riggio, devono curare meglio i servizi di terra, visto che gli investimenti sembrano essere squilibrati verso le attività di volo. Di conseguenze ci sono pochi uomini e poche risorse per applicare al meglio le procedure standard. Serve quindi più personale, più tecnologia (come gli scanner introdotti in questi giorni dall’Alitalia per lo smistamento bagagli), maggiore formazione e migliori

retribuzioni per gli addetti oggi in organico. Le stesse società di handling ne escono con le ossa rotta dalla relazione presentata al ministro. Squadre con la metà del personale necessario, assenza di figure qualificate, eccessivo ricorso all’outsourcing fanno di questo l’anello forse più debole della catena. Se queste sono le accuse dell’Enac, la compagnia di bandiera dovrebbe replicare che molte difficoltà sono dovute ai gap infrastrutturali di Fiumicino – emblematico che un nastro trasportatore che doveva essere pronto nel 2005 sarà pronto soltanto nel 2012 – e che per quest’estate sono stati assunte 200 persone in più ch si occupano di bagagli. Senza contare che, stando ai numeri della Magliana, nel 2009 i ritardi e i disagi sarebbero inferiori a quelli registrati un anno fa. Il che sarebbe anche se si confrontassero i voli presenti con quelli della vecchia Alitalia e di Air One messi assieme. Dal canto suo Fabrizio Palenzona ricorderà il boom di traffico seguito al trasferimento dei voli da Malpensa a Fiumicino. O i ritardi nell’adeguamento delle tariffe aeroportuali, che hanno indebolito la politica degli investimenti. Eppure nessuno – Matteoli per primo – vuole uno scontro all’insegna dello scaricabarile. Per questo Vito Riggio ha deciso di mostrare la faccia cattiva, di minacciare il ritiro della concessione per le società di handling di Fiumicino. Chi lo conosce bene dice che, dopo aver avallato l’operazione Cai, userà tutti i suoi i mezzi per ottenere migliorie da parte di Alitalia e Adr. Dice il suo predecessore, Pierluigi Di Palma: «Oltre alle multe, l’autorità può intervenire sulla capacità di traffico o controllando i requisiti sulla concessione delle licenze». Le armi quindi non mancano.


diario

2 settembre 2009 • pagina 7

Il viceministro Fazio: vaccino per 8 milioni di italiani

Mentre in Italia cresce ancora la cassa integrazione

Nuova influenza: arriva un kit per i medici

Disoccupati record in Europa: sono il 9,5%

ROMA. Cambia ancora la strate-

BRUXELLES. La crisi piomba

gia del governo per fronteggiare la nuova influenza: «Nessuna modifica al calendario scolastico», ha ribadito il viceministro alla Salute Ferruccio Fazio, ma ha pure annunciato che entro fine anno verranno vaccinati 8 milioni e mezzo di italiani. Misure di isolamento delle categorie ”a rischio”, sostiene il ministro, sarebbero inutili: «I giovani starebbero comunque con i giovani e il virus si diffonderebbe in ogni caso. Entro fine anno verranno vaccinati 8 milioni e mezzo di italiani».

sull’occupazione: l’Eurozona registra il record da 10 anni con un tasso del 9,5% in luglio mentre in Italia esplode il ricorso alla cassa integrazione, quintuplicato in giugno. Ma sull’occupazione italiana pesa il dato sui lavoratori interinali che sono stati falcidiati dalla crisi: in un anno sono 100.000 i posti a tempo pieno persi, con un calo degli occupati di oltre il 30%. Secondo i dati dell’Osservatorio dell’Ebitemb (Ente bilaterale per il lavoro temporaneo), a giugno si è verificato un calo annuale del 31,9% pari a circa 100.000 unità (-21,1% rispetto rispetto al primo semestre 2008 e -2,4% su maggio 2009). l tasso di disoccupazione dell’area euro sale in

Dal canto loro, i medici di famiglia esortano a non affrontare la nuova influenza con manovre isolate, ma coordinando le azioni su tutti i livelli. «Tutti gli strumenti e gli operatori di sanità pubblica devono essere coordinati. Quando arriverà anche in Italia il picco pandemico, non sarà sufficiente chiudere o sospendere attività o esercizi: né come prevenzione né come soluzione dei problemi», ha spiegato Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina generale, in vista del tavolo tecnico sulla nuova influenza che si svolgerà oggi a Roma. Massima fiducia nell’opera di coordinamento del ministero della Salute, perché, ha continuato Cricelli «il

Le banche vogliono licenziare Zunino La Consob boccia il piano per salvare Risanamento di Alessandro D’Amato

ROMA. Una guerra di nervi. Anche se ufficialmente il rinvio è arrivato a causa della richiesta da parte di Consob di maggiori informazioni in merito al piano di Risanamento, in realtà la partita di Luigi Zunino non si gioca solo a Palazzo Mezzanotte. Per questo è slittato di una settimana il termine per il deposito del piano di salvataggio. La scadenza iniziale era infatti prevista per ieri, ma il tribunale fallimentare di Milano ha concesso una proroga al prossimo 9 settembre. A chiedere di posticipare la consegna di una settimana,Vincenzo Mariconda, presidente di Risanamento, insieme ai legali Marco de Luca e Giuseppe Lombardi, che hanno inoltre inviato un’informativa alla Consob, come richiesto dalla stessa Commissione, al fine di ottenere – probabilmente domani - per le banche l’esonero a lanciare un’Opa obbligatoria sulla società. Ma a causare il crollo il Borsa del titolo è un’indiscrezione che riguarda la proprietà. Le banche creditrici puntano a convincere l’ex patron del gruppo immobiliare, a farsi da parte anche dalle holding di famiglia cui fa capo la società. L’intenzione di tre dei quattro istituti di credito impegnati nel salvataggio (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Popolare) è di chiedere le dimissioni dell’immobiliarista e al suo posto inserire tre rappresentanti, che si occuperanno della vendita del patrimonio delle società. Risanamento è controllata da Zunino al 73,4% attraverso le spa Nuova Parva, Tradim e Zunino Investimenti Italia. Società queste che, per effetto del prossimo aumento di capitale, si diluiranno. Il controllo passerà alle quattro banche creditrici, fra le quali c’è anche Bpm. Zunino aveva lasciato le cariche di presidente e amministratore delegato di Risanamento subito dopo la richiesta di fallimento da parte della Procura di Milano lo scorso luglio. E il salvataggio di Risanamento è diventato prioritario per gli istituti di credito perché Zunino è una creatura soprattutto delle banche. In quindici anni il viticoltore piemontese è diventato immobi-

liarista d’assalto, collezionando immobili da Napoli a New York, passando per Milano e Parigi. Alcune malelingue notano l’abilità che ha dimostrato nel procacciarsi il favore di banchieri molto legati alla classe politica, come ad esempio Fabrizio Palenzona, Gianpiero Fiorani e Cesare Geronzi. Due caratteristiche lo legano ad altri finanzieri italiani: la scarsità di capitali propri e l’appoggio incrollabile delle banche, che lo hanno finanziato per miliardi di euro e lo hanno difeso strenuamente, mostrando una pazienza ed una flessibilità che farebbero saltare di gioia più di un imprenditore in condizioni molto più floride. È vero che Zunino ha dovuto abbandonare le cariche operative, ma per molto tempo ha potuto contare su dilazioni, linee di credito aggiuntive e moratorie degne di miglior causa; anche il piano di riassetto attuale è un metodo costoso per le banche, che in caso di amministrazione controllata o concordato preventivo otterrebbero comunque il controllo del gruppo a prezzi sicuramente inferiori.

Ancora una settimana per aggiustare i conti della società dell’immobiliarista. Ma la Borsa non scommete più su di lui

piano pandemico funziona solo se viene attuato in tutte le sue parti e per far questo serve una gestione integrata delle attività di tutti gli attori coinvolti». La Simg ha annunciato anche che al tavolo tecnico di oggi presenterà un prontuario con istruzioni tecniche dettagliate indirizzate ai medici di famiglia, agli operatori sanitari e ai pazienti. «Si tratta di un cofanetto da rompere in caso di necessità ha concluso Crivelli - dove si troveranno istruzioni per parenti e familiari su come affrontare la pandemia, risposte alle domande più frequenti, un decalogo operativo per la medicina generale e l’indicazione di misure di protezione per gli operatori sanitari».

Ma i pericoli di un fallimento non pilotato sono maggiori. In parte, conta la tradizionale riluttanza bancaria ad ammettere l’errore. I prestiti non vengono valutati al loro valore di realizzo, ma al loro pieno valore sino al default del debitore; meglio, dal punto di vista del management, continuare a nascondere i problemi sotto al tappeto, anche se questo implica maggiori costi per gli azionisti. Soprattutto, la Risanamento SpA è quotata in Borsa e quindi ad alto rischio mediatico, in caso di bailout. La società nasce dalla fusione di due antiche e blasonate immobiliari italiane, che Zunino ha acquisito alcuni anni fa; è a suo modo una figura “storica” di grande livello, il cui crollo non solo non passerebbe inosservato, ma potrebbe pure creare un effetto-domino che investirebbe l’intero mercato immobiliare italiano, dove la “bolla”deve ancora scoppiare. Salvare Zunino è molto più importante, soprattutto ora che la tempesta della crisi sembra stare per passare.

luglio al 9,5%, dal 9,4% di giugno e il 7,5% dello stesso mese dell’anno precedente. Nell’insieme dell’Unione Europea, la disoccupazione è salita dall’8,9% della popolazione attiva in giugno al 9% in luglio, mentre un anno fa era ancora al 7%.

Rispetto a giugno, il numero dei nuovi disoccupati è aumentato di 167 mila unità nell’area euro e di 225 mila nell’Ue. In un anno, da luglio 2008 a luglio 2009, l’incremento è stato di 3,264 milioni dell’area euro e di 5,111 nell’Ue. Negli ultimi 12 mesi tutti i Paesi Ue hanno registrato un aumento del tasso di disoccupazione. Ancora una volta sono i giovani a pagare il prezzo maggiore con un tasso di disoccupazione del 19,7% nell’area euro e il 19,8% nell’Ue. I dati italiani più recenti sono del mese di marzo, con un tasso al 7,4%. Per i giovani, a maggio, la disoccupazione arrivava al 24,9%. In Italia, a giugno il ricorso alla cassa integrazione in giugno è aumentato di cinque volte rispetto al giugno 2008. L’Istat annuncia che «l’utilizzo della cassa integrazione guadagni nelle grandi imprese è stato pari a 40,8 ore per mille ore lavorate. Il ricorso alla cig è aumentato di 32,4 ore per ogni mille ore lavorate in termini tendenziali».


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pagina 8 • 2 settembre 2009

L’appello. Aumentano in Gran Bretagna e Usa i delitti e le rapine commessi da uomini coperti di nero. E l’islamica Giordania inizia a pensare a un divieto

Il burqa del crimine «Troppi reati “mascherati” in Occidente. Che altro serve per bandire questo indumento osceno?» di Daniel Pipes he c’è di nuovo sul fronte del niqab e del burqa? Tanto per rinfrescare le idee, entrambi questi indumenti sono concepiti per la modestia delle donne musulmane; il niqab copre tutto il corpo, eccetto gli occhi,e il burqa copre l’intera faccia. In un mio articolo di due anni fa dal titolo Vietare il burqa. E anche il niqab, ho documentato come questi due capi d’abbigliamento costituiscono dei pericoli legati alla criminalità e al terrorismo. È ancora così?

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La Giordania dà una vaga idea del potenziale che potrebbero avere niqab e burqa come accessori illegali: la cronaca mostra che negli ultimi due anni 50 persone hanno commesso 170 crimini indossando indumenti islamici, al-

l’incirca un episodio ogni quattro giorni, un’ondata di crimini che ha indotto qualche giordano a chiedere delle limitazioni all’uso o perfino il divieto di far indossare questi copricapo islamici. Nessun altro Paese denuncia così innumerevoli crimini legati alla pratica di indossare questi indumenti, ma Philadelphia, in Pennsylvania, vanta molteplici rapine (in 3 banche e in un’agenzia di leasing immobiliare) in sedici mesi, in un arco di tempo che va dal 2007 al 2008, incluso l’omicidio di un agente di polizia. Il Regno Unito ricopre il secondo posto nel peggior record dei Paesi occidentali.

Diverse gioiellerie - alcune delle quali di proprietà di musulmani - sono state prese di mira dal crimine nelle Mid-

Philadelphia, la “capitale occidentale” degli attacchi el maggio del 2008, una serie di crimini efferati hanno sconvolto Philadelphia. La capitale della Pennsylvania è stato teatro di rapine, intimidazioni e persino l’omicidio di un sergente di polizia ad opera di uomini vestiti di burqa e niqab, il velo islamico. Il caso più eclatante è quello della rapina alla filiale locale della Bank of America all’interno dello ShopRite di Port Richmond, uno dei tanti sobborghi residenziali che costeggia la città portuale. Due uomini, interamente ricoperti dalla veste nera, entrano armati e svuotano le casse della banca. Il sergente Steven Liczbinski, 40 anni, cerca di fermarli: viene ucciso da tre colpi di AK-47. I colleghi riescono a sparare a un rapinatore, Howard Cain, che muore sul colpo. Curiosamente, nonostante alcune testimonianze oculari parlino di «due uomini, riconoscibili dal tono di voce», i media lo-

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cali credono che il sopravvissuto sia donna. Il 3 maggio, invece, si scopre la verità: a uccidere il poliziotto è stato Eric DeShawn Floyd, musulmano estremista, conosciuto per le sue affiliazioni a gruppi dell’islam fondamentalista. I rapinatori, una volta fermati, ammetteranno di aver scelto questo vestiario «perché rende praticamente impossibile il riconoscimento, e può nascondere comodamente armi e refurtiva». Sempre a Philadelphia, un anno fa, due uomini vestiti da donne islamiche hanno rapinato un ufficio immobiliare nella parte sud-occidentale della città. Protetti dal burqa, arrivano davanti all’ufficio in un furgone: vengono individuate da alcuni agenti di polizia ma non fermati per rispetto al loro abbigliamento. Dopo la rapina, avvenuta anche questa in pieno giorno, riescono a fuggire indisturbati. Un impiegato li segue e riesce a segnalarli agli agenti.

lands occidentali, a Glasgow e nell’Oxfordshire. Due agenzie di viaggi sono state oggetto di assalti nelle adiacenti città di Dunstable e Luton, mentre un autotrasportatore di un mezzo blindato ha subito un assalto a Birmingham. Ma la rapina non è l’unico motivo; i teenager londinesi sono soliti coprirsi il volto a mo’ di indossare il niqab, quando accoltellano un ragazzo più giovane. Altri episodi criminosi verificatisi nei Paesi occidentali annoverano i borseggiatori dell’Europa Orientale che indossano dei copricapo islamici a Rotterdam e una rapina arma-

In Pennsylvania sono state svaligiate tre banche e un’agenzia di leasing immobiliare in sedici mesi, in un arco di tempo che va dal 2007 al 2008. Senza contare l’omicidio di un agente di polizia ta in burqa bordeaux alla People’s Bank di Hiddenite, in North Carolina (con una popolazione di 6.000 abitanti). L’uomo che ha rapito la quattordicenne Elizabeth Smart l’ha costretta ad indossare un indumento simile al niqab che l’ha celata alla vista altrui per nove mesi. Come reazione, le banche, le cooperative di credito, le gioiellerie e le scuole stanno limitando l’accesso alle persone con il capo coperto. Per esempio, la Carolina Federal Credit Union di Cherryville, in North Carolina, non lontano da Hiddenite, ha stabilito che chiunque indossi cappelli, occhiali da sole o cappucci deve recarsi da un apposito impiegato di sportello dove si applicano speciali misure di sicurezza.

La fiducia riposta dai talebani nel terrorismo in burqa, spesso di tipo suicida, fa dell’Afghanistan l’attuale epicentro mondiale di questa tattica. In due occasioni, le autorità hanno sventato presunti attentatori suicidi prima che essi potessero entrare in azione: uno è il caso di un russo convertito all’Islam con un’automobile imbottita di 500 kg di esplosivo, nella provincia di Paktia, l’altro è quello di una donna afgana che ha nascosto

Nel mirino dei banditi anche i gioielli di Londra a Gran Bretagna ha una lunga tradizione di accoglienza e tolleranza nei confronti del mondo islamico. Nel Paese sono in vigore - con alcuni limiti - alcune Corti musulmane che legiferano secondo i dettami del Corano. Inoltre, Londra vanta un buon numero di banche gestite da islamici, tanto da essere stata invitata come ospite d’onore all’incontro mondiale della finanza musulmana che si è tenuto in Pakistan lo scorso anno. Numerosissima la comunità pakistana, soprattutto nel nord, e in aumento quella bengalese. Tradizionalmente, il Paese ha accolto questa nuova realtà con una serie di concessioni che hanno fatto storcere il naso ai conservatori. Nell’ultimo periodo, una serie di rapine ha incrinato la visione tollerante degli inglesi nei confronti dei loro ospiti. Il 7 luglio scorso, un uomo vestito con un burqa nero è entrato in un’agenzia

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di viaggi di Dunstable e, armato di un coltello, ha rapinato le commesse. Il 16 agosto, con le stesse modalità, è stata rapinata l’agenzia Thomson di Luton: terrorizzate le operatrici, che non sono ovviamente riuscite a fornire alcun identikit dell’aggressore. Il 25 agosto, a Banbury nell’Oxfordshire, è entrata in azione una vera e propria “banda del burqa”. Quattro uomini, due con il passamontagna e due con la veste islamica, hanno rapinato la gioielleria Michael Jones in pieno giorno. Dopo aver trattenuto quattro uomini del personale interno, sono scappati con circa 150mila sterline. Del tutto inutili le registrazioni della telecamera di sicurezza interna, trasmesse sulla televisione nazionale, che mostrano soltanto i due lunghi abiti neri mentre terrorizzano clienti e proprietari del negozio. Oggi, la polizia invita alla prudenza nei confronti di chi indossa il burqa.


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Nel regno di Giordania, un crimine “velato” al giorno a situazione della Giordania sembra essere la peggiore, in senso assoluto, per quanto riguarda questo tipo di crimini. Negli ultimi due anni, la polizia ha dovuto fronteggiare 170 crimini gravi commessi da persone vestite con il burqa e altri 400 minori. La pubblica sicurezza è ancora sulle tracce di due uomini mascherati che, lo scorso luglio ad Amman, hanno aperto il fuoco contro la folla e sono fuggiti. Non è ancora neanche chiaro se fossero rapinatori scoperti o terroristi. Inoltre, con le stesse modalità è stata rapinata la Banca centrale di Giordania: il bottino ammonta a centinaia di migliaia di euro. Jamal Bdour, direttore del Dipartimento criminale della capitale, ha dichiarato nei giorni scorsi: «È davanti agli occhi di tutti l’aumento di crimini commes-

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sotto le vesti una bomba a Jalalabad. In genere, tuttavia, le violente intenzioni sono nascoste dal burqa ed iniziano a palesarsi solamente dopo che viene sferrato un attacco: 1) Haji Yakub, un comandante talebano, è rimasto ucciso con addosso il burqa nel tentativo di scappare da un’abitazione nella provincia di Ghazni durante un attacco delle forze americane. 2) Un operativo talebano, Mullah Khalid, ha lanciato un attacco contro una pattuglia di polizia in un affollato mercato nella provincia di Farah, uccidendo almeno una dozzina di persone (7 poliziotti e 5 civili). 3) Un attentatore suicida nella provincia di Helmand ha ucciso un soldato britannico che parlava pashto prima di essere sparato in fronte. 4) Una quindicina di attentatori suicidi con tanto di burqa, armati di giubbotti pieni di esplosivo, di kalashnikov e

C’è anche un lato positivo della faccenda: un francese ingiustamente accusato di essersi indebitamente appropriato di 3,8 milioni di dollari, è riuscito a scappare da Dubai indossando un niqab lanciagranate hanno attaccato degli edifici governativi nella provincia di Paktia e ucciso 12 persone.

L’Iraq ha subito tre episodi della fattispecie (un ribelle travestito da donna incinta, un tentato omicidio di un governatore e due attentatori suicidi che hanno ucciso 22 pellegrini sciiti) mentre il Pakistan ne ha subiti due (in uno il kamikaze era a bordo di un risciò e ha fatto 15 vittime). Tra i perpetratori dell’attacco di Mumbai con circa 200 morti c’era una misteriosa donna in burqa. Altrove, altri episodi riguardano un attacco sferrato contro turisti francesi in Mauritania ed uno con

In India la veste serve a kamikaze e rapitori di bambini ambini che spariscono sotto il lungo velo nero di donne del Kashmir, cinture di tritolo nascoste dalle vesti sacre dell’islam, bandi nazionali contro la tradizione. Sono le leggende che circolano in India sin dal 2006, quando una banda di delinquenti usano per primi lo stratagemma del burqa per ogni sorta di azioni criminali. La prima in assoluto è la rapina a una gioielleria di Pune, che vale circa 8.500 dollari. Da allora, aumentano le denunce di presunte donne che stordiscono i bambini e li trascinano via protette dalla veste e di terroristi che oltrepassano i cordoni di sicurezza messi in atto dalla polizia in occasioni sensibili. Il presidente dell’Associazione commercianti del Maharashtra si spinge fino a chiedere il bando delle vesti islamiche dai luoghi pubblici, ma la pubblica sicurezza si oppone: è troppo alto il rischio di nuovi scontri fra musulmani e

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indù. Naseem Siddiqui, presidente della Commissione per le minoranze religiose dello Stato, accoglie con fervore la decisione: «Il burqa è parte integrante della religione islamica: chiedere alle donne di non indossarlo equivale a privarle dei loro diritti». Ma Javed Anand, presidente di una Lega islamica, si discosta: «È evidente che esiste un problema. Sta a noi risolverlo». Una parziale ammissione di colpa che procura una sorta di scomunica ad Anand, pronunciata da un imam locale: «Chi non capisce le nostre tradizioni, non fa parte della nostra comunità». Nel frattempo, la decisione si paga con la vita: Manzoor Ahmed, capo della polizia del Kashmir, viene ucciso da una persona in burqa. E uno degli attentatori di Mumbai, dicono le testimonianze dei sopravvissuti, riesce a introdurre del plastico nell’hotel Oberoi proprio grazie al suo abbigliamento.

si con le vesti islamiche. Non abbiamo strumenti per fermarli». Mohannad Mubydeen, celebre editorialista del Regno, ha fatto scalpore scrivendo: «La questione non riguarda temi filosofici o religiosi: si tratta di lassismo che provoca risultati disastrosi. Possiamo barattare la moralità pubblica con il rispetto della legge?». Ancora più provocatorio Imad Hajjaj, il vignettista più celebre di Giordania, che ha approfittato della situazione per pubblicare sul quotidiano Al-Ghad una vignetta che dipinge il suo avversario Abu Mahjoob e il collega Abu Mohammed mentre, vestiti entrambi con il velo islamico, compilano una lista di cose che il fervore religioso serve ad evitare: l’influenza suina, i baci degli uomini e la polizia. I religiosi hanno reagito con forza a queste provocazioni, chiedendo a gran voce (ma invano) il licenziamento dei due critici per «oltraggio all’islam».

cocktail Molotov in Bahrein. Come problema secondario, recenti studi condotti in Gran Bretagna e in Irlanda hanno scoperto che le donne che indossano il velo (e i loro bambini allattati al seno) sono a rischio di rachitismo perché soffrono di carenza di vitamina D, che la pelle assorbe dalla luce solare. Ma c’è anche un lato positivo della faccenda: Herve Jaubert, un francese ingiustamente accusato di essersi indebitamente appropriato di 3,8 milioni di dollari, è riuscito a scappare da Dubai, indossando un niqab. (Per maggiori dettagli su tutti questi episodi si veda la pagina del mio blog: The Niqab and Burqa as Security Threats)

Ho già chiesto di vietare nei luoghi pubblici «questi indumenti orribili, insalubri, che creano divisioni sociali, che agevolano i terroristi e a misura di criminali». Ora mi unisco alle proteste giordane e riformulo la richiesta. L’Islam non vuole che le donne indossino il niqab e il burqa, mentre il bene comune esige categoricamente il divieto di indossare tali indumenti in luogo pubblico. Quanti altri casi di rapine e atti terroristici devono verificarsi perché questa restrizione piena di buonsenso venga applicata dall’Afghanistan, alla Giordania fino al Regno Unito e a Philadelphia?


panorama

pagina 10 • 2 settembre 2009

Primarie. In vista del duello di ottobre, lo sfidante incassa l’adesione di “Unità” e “Riformista”

Bersani va alla guerra dei giornali di Antonio Funiciello on l’introduzione delle primarie, la capacità d’influenza dei media nella vita dei partiti è molto aumentata. Quando la sinistra sceglieva i suoi segretari coi comitati centrali, poi variamente rinominati comitati o direzioni nazionali, la pressione degli organi di stampa era tutta esercitata all’esterno del corpo vivo del partito. Con le primarie, i giornali diventano attori protagonisti capaci di risultare determinanti sugli esiti finali. Quando nel ’94 Repubblica esercitò una pressione esterna sul Pds impegnato a scegliere il successore del suo fondatore, Achille Occhetto, non ebbe fortuna. La scelta del popolo dei fax pro Veltroni fu sconfessata dall’organo di partito che alla fine disse D’Alema. Oggi, in una contesa tra Franceschini e Bersani che sembra essere abbastanza incerta, il quotidiano di Largo Fochetti

C

che sponsorizza il primo potrebbe rivelarsi determinante. Eppure Repubblica e il gruppo Espresso non sono i soli a voler esercitare una qualche influenza su chi andrà a scegliere il segretario del Pd alle primarie del 25 ottobre.

Al netto della preferenza diffusa dei giornali di destra nei confronti di Bersani, che però

gittimo risentimento. Il Riformista, da par suo, ruppe molto presto con Veltroni, all’indomani della sconfitta alle politiche dello scorso anno. Il riconoscimento della continuità col vecchio segretario deplorata nella linea politica scelta da Franceschini, ha condotto il quotidiano di Antonio Polito naturalmente a sostenere Bersani. Non senza punte di feroce e talora acida polemica verso i supporter dell’attuale segretario come la roman-friulana Serracchiani. Anche L’Altro di Piero Sansonetti, per dare sostanza ai propri sogni di unità della sinistra, tiene per Bersani, per quanto la sua capacità di influenza pare essere minima.

Se l’affluenza alla consultazione popolare sarà massiccia, però, l’appoggio di “Repubblica” a Franceschini rischia di diventare determinante

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per l’ex ministro, Unità, Riformista e L’Altro di Sansonetti stanno cercando coi loro editorialisti di giocare la partita del congresso democratico, sostenendo il candidato Bersani. È una scelta obbligata dal punto di vista editoriale, visto il posizionamento del giornalone della sinistra italiana, ma che pure presenta caratteri peculiari. l’Unità di Concita De Gregorio cerca con prudenza di rappresentare tutte le anime in campo, comprese sparse simpatie nei confronti di Marino. Ma la nerbatura di sinistra del giornale che fu di Colombo e Padellaro è rimasta e l’orientamento favorevole verso Bersani è evidente. Rinforzato per altro anche dalle sintonie espresse dall’altro quotidiano di partito, Europa, nei riguardi di Franceschini. Il suo editore, Renato Soru, deve la caduta della sua giunta regionale alle operazioni di logoramento dei dalemiani sardi, ma la sua liberalità fagocita evidentemente il le-

Poca cosa, si dirà, la militanza bersaniana dei tre piccoli giornali se paragonata all’Invencibile armada di Repubblica. Eppure c’è una circostanza che potrebbe favorire la capacità d’influenza di giornali come Unità e Riformista. Se difatti il 25 ottobre il numero dei partecipanti alle primarie dovesse essere molto inferiore a quei tre milioni e mezzo che Veltroni riuscì a portare alle urne due anni fa, il ruolo di Repubblica in questa partita (diciamo nel complesso la partita della sinistra) potrebbe venire fortemente ridimensionato. Una partecipazione che si assestasse intorno al milione, milione e mezzo, vedrebbe protagonisti i quadri di partito, quelli cioè che comprano e leggono Unità e Riformista. Un’altra storia da raccontare, insomma, coi due piccoli Davide che potrebbero finire per stendere il gigante Golia.

L’anno scolastico è ricominciato, ma non tutti i docenti hanno ritrovato il posto

Povera scuola, tra impiegati e precari! l nuovo anno scolastico è iniziato da un giorno. Il primo settembre professori e professoresse firmano il registro per la cosiddetta “presa di servizio”. Un rito che quest’anno, tra tagli e razionalizzazioni, è costato il posto di lavoro a non pochi docenti (ma anche al personale Ata: i bidelli e gli impiegati della segreteria). Perciò, mai come per questo nuovo anno, la “presa di servizio” non è un rito stanco ma una vera conquista della cattedra e quindi dell’occupazione. Fino all’altro giorno, gli uffici provinciali della scuola sono stati presi d’assalto dai precari alla disperata ricerca di una cattedra non più certa come un tempo. A lasciarci le penne sono stati non pochi precari, ma a testimoniare che l’ora presente è difficile per tutti c’è il caso degli stessi docenti di ruolo - coloro che hanno raggiunto il sospirato “posto sicuro” - che dichiarati in sovrannumero sono spostati da una scuola a l’altra per trovare una collocazione che non è più sicura come un tempo. La corsa alla cattedra, peraltro, non finisce qui: gli uffici provinciali scolastici (gli ex provveditorati agli studi) hanno ultimato il loro lavoro per riempire le caselle vuote con le assegnazioni definitive e provvisorie e ora la palla passa ai

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dirigenti scolastici (gli ex presidi) che dovranno per chiamata diretta assegnare quelle cattedre e quelle ore di insegnamento che ancora risultano scoperte. La disperata corsa alla cattedra, dunque, ancora non è finita. E quando sarà finita, ne inizierà un’altra: la carica dell’esercito dei supplenti. La scuola italiana è precaria per definizione.

Il caso dei precari senza lavoro dovrebbe incoraggiare a ripensare la figura del professore. I docenti sono eccessivamente sindacalizzati, non solo nell’inquadramento del lavoro - è praticamente impossibile licenziare un docente, anche quando è provato che sia un pessimo docente, anche quando si sa che non insegna, anche quando è stato beccato in comportamenti molto poco educativi - ma addi-

rittura nella loro stessa forma mentis. I professori, in altre parole, pensano se stessi non come professionisti della lezione e dell’insegnamento, bensì come impiegati. Il professore sa di essere e vuole essere con tutto se stesso un impiegato statale per avere garantito vita natural durante il posto sicuro. Il caso dei precari è, da questo punto di vista, quanto mai significativo: la perdita del posto di lavoro è letta addirittura come un attacco alla scuola pubblica (in realtà scuola di Stato). Come se il fine della scuola fosse l’occupazione dei docenti e non, invece, l’istruzione e l’educazione degli allievi. Il sindacalismo scolastico ha perso da tanti anni, ormai, la sua funzione di tutela dell’insegnamento per diventare solo un corporativismo in cui l’insegnamen-

to è una variabile dipendente dall’occupazione e dai privilegi della corporazione. Con la sindacalizzazione della scuola, fatta nei decenni dai sindacati e dai partiti, si realizza così non solo la scuola più statizzata ed elefantiaca d’Europa, ma per paradosso anche la più triste mortificazione della nobile figura del docente che ha barattato la sua indipendenza per essere dipendente dello e dallo Stato.

La scuola precaria è la scuola in cui la libertà d’insegnamento è stata sostituita dal “posto fisso”. Oggi il ruolo di un vero sindacalismo scolastico non è nella rivendicazione dei posti (inesistenti), bensì nella riscoperta della figura del professore come “libero docente”. I precari rivendicano unicamente il posto - lo stipendio - e mai la libertà d’insegnamento. La libertà d’insegnamento è un concetto astratto che i docenti, precari e no, identificano arbitrariamente con la scuola dello Stato. La scuola italiana è precaria nell’anima e fino a quando i professori non dedicheranno un po’ dei loro preziosi studi alla domanda “che cos’è la scuola e qual è il suo rapporto con lo Stato?” la scuola italiana sarà messa male.


panorama

2 settembre 2009 • pagina 11

Contratti. La Cgil, corteggiata da Confindustria, si dice pronta a discutere di contrattazione separata. Solo strategia

Ma Epifani si accorderebbe con il governo? di Giuliano Cazzola è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico… Anche nel campo delle relazioni industriali ci sono novità che hanno un sapore vecchio. Nel palazzo di vetro di viale dell’Astronomia è tornata una «voglia matta» di Cgil. A ritessere le file del dialogo è stato il quotidiano La Stampa, con due interviste: la prima ad Emma Marcegaglia, la seconda, dopo qualche giorno, a Guglielmo Epifani. Bastava leggere le dichiarazioni della presidente della Confindustria per capire che qualche cosa covava sotto la cenere della rottura del 22 gennaio scorso, quando tutte le parti sociali sottoscrissero l’accordo quadro sulla riforma della contrattazione collettiva, lasciando la Cgil a scottarsi le dita con il cerino acceso dell’autoesclusione. Emma Marcegaglia, nell’intervista, lisciava la Confederazione rossa per il verso del pelo: la politica.

C’

Durante tutta l’estate, poi, la Confindustria non aveva esitato un solo istante a prendere le distanze dalle proposte di differenziazione salariale, in nome di un «benaltrismo» che non

era certo dispiaciuto alla Cgil. Al di là delle dichiarazioni e delle interviste, è poi in atto, nella definizione delle piattaforme rivendicative per i rinnovi dei contratti nazionali, una certa attenzione verso le posizioni della Cgil, nonostante la sua rimanga (si veda il caso degli alimentaristi) una linea di condotta intransigente. È in tale contesto che Epifani ha compiuto una mossa abile, lascian-

zioni retributive, che è stato al centro – spesso in termini mal posti – del dibattito estivo. I miglioramenti retributivi devono favorire l’incremento della produttività (che resta una delle più gravi criticità del sistema delle imprese). Per questi motivi occorrerà dare priorità alla contrattazione decentrata, avvalendosi dei bonus fiscali attribuiti dal Governo alle voci retributive che, nel posto di la-

Non ci sono margini per finanziare detassazioni generalizzate: i miglioramenti retributivi devono favorire l’incremento della produttività do intendere, nella sua intervista al quotidiano torinese, una certa disponibilità al negoziato e al confronto, sia pure più con la moderazione dei toni che con la sostanza dei contenuti.

È alla luce di questi processi che vanno lette le dichiarazioni, a più riprese, del ministro Maurizio Sacconi, il quale, negli ultimi giorni e in diverse sedi, ha voluto esprimere - almeno per quanto riguarda il Governo - una valutazione conclusiva sul tema delle differenzia-

voro, realizzano uno scambio virtuoso tra maggiore salario e migliore prestazione. Si tratta di una linea precisa che esclude altre ipotesi, come quelle preconizzate dal Pd e dalla Cgil. In sostanza, non ci sono margini per finanziare – nell’attuale situazione dei conti pubblici – una detassazione generalizzata delle retribuzioni e delle pensioni, sia pure in funzione anticiclica, tanto più perché l’azzeramento dell’inflazione ha finito per consentire, nei fatti, un’impensabile difesa

del potere d’acquisto, con particolare riferimento ai percettori di redditi stabili e garantiti. Qualora ci fossero delle disponibilità più ampie di finanza pubblica è opinione di chi scrive che andrebbe data priorità ad un’altra misura.

Oggi la detassazione delle erogazioni a livello aziendale sono condizionate a due tetti: il primo – pari a 35mila euro l’anno – individua i limiti di reddito annuo dei soggetti che possono avvalersi del beneficio; il se-

condo, di 3.500 euro l’anno, corrisponde all’entità del beneficio. Il primo limite dovrebbe essere trasformato in una fascia, allo scopo di consentire a tutti i lavoratori, anche a quelli che percepiscono salari medi e alti, di godere del beneficio della detassazione per la parte di stipendio fino al livello di 35mila euro. Il ministro ha poi lasciato intendere che potrebbe essere rivista la normativa della detassazione. Se, infatti, le parti, nella loro autonomia negoziale, dovessero promuovere differenti strategie, prigioniere di un egualitarismo insensato ed iniquo, il Governo è pronto a rivedere, in senso restrittivo, le norme fiscali disposte a beneficio delle erogazioni legate alla produttività e alla qualificazione del lavoro. Insomma, se la posizione della Cgil è il frutto di un ripensamento sostanziale e si tradurrà in un comportamento serio e responsabile, nessuno le chiederà delle abiure formali. Se – come è più probabile – la Confederazione di Corso d’Italia sta adottando delle tattiche dilatorie, mentre la politica vera continuerà a farla la Fiom, sarà bene non perdere altro tempo.

Antitrust. L’idea di un ”risarcimento” dietro l’attacco degli editori italiani al motore di ricerca?

La sfida (soltanto economica) a Google di Alessandro D’Amato istruttoria dell’Antitrust è appena aperta, e quindi è difficile valutare ora cosa succederà. Ma di certo lo scontro in atto tra Google e la Federazione Italiana degli Editori (Fieg) sembra davvero difficile che approdi a qualcosa. Non tanto per l’assurdo logico secondo il quale il monopolista nel mercato pubblicitario sarebbe Google e non Publitalia e la Sipra, quanto per le motivazioni stesse sollevate dalla Fieg. Che si lamenta in sostanza di due cose: il bundling del servizio di search con quello delle news, e la (presunta) poca trasparenza nelle modalità di ricerca e selezione delle pagine che finiscono sulla pagina del motore di ricerca.

L’

dall’analoga vicenda avvenuta in Belgio tre anni fa: una sentenza obbligava Google a rimuovere i contenuti degli editori belgi «da tutti i suoi siti», e perciò, nell’interpretazione dell’azienda di Mountain View, anche dal motore di ricerca. Come riportato qualche settimana fa sul Google Public Policy Blog, «La verità è che gli editori, come tutti gli altri proprietari di contenuti, hanno il completo controllo non solo su quali contenuti met-

Selezione delle notizie e raccolta pubblicitaria: gli editori italiani imitano la battaglia di quelli americani, britannici e tedeschi. Che hanno perso

Sulla prima, è bene ricordare che Google News non costringe nessuno ad essere indicizzato contro la propria volontà. A parte il fatto che in molti casi è invece necessario segnalare esplicitamente il proprio sito per essere inclusi, è sempre disponibile l’opt out, che non prevede affatto la rimozione dal normale motore di ricerca. Quest’ultima idea è stata forse suggerita erroneamente

tere a disposizione sul web, ma anche su chi può accedervi e a quale prezzo». Non solo: volendo, ci si può anche far escludere dall’indicizzazione del motore di ricerca, utilizzando il robot.txt. Anche se non si capisce per quale strano motivo essere indicizzati su Google News (che comunque riporta soltanto titolo e link) avrebbe un impatto negativo sulle visite al proprio sito, mentre essere indicizzati su Google (che ugualmente riporta titolo e link) è una specie di diritto irrinunciabile e preziosissimo. Non c’è una contraddizione? E come può essere dannoso un

link su un aggregatore, soprattutto su uno così rilevante?

Anche il secondo argomento, a prima vista, appare piuttosto debole: la selezione e la posizione per rilevanza delle notizie su Google News, così come sul motore di ricerca, è effettuata a partire da un parametro che si chiama Pagerank, calcolato in una scala da 1 a 10. In base al punteggio ottenuto, il sito viene piazzato in una posizione invece che in un’altra nei risultati restituiti dalla query. A meno che non si tratti di collegamenti sponsorizzati (ovvero, di aziende che acquistano il diritto a “sorpassare” gli altri nei risultati), che di solito però vengono indicati da una scritta nella pagina web. Insomma, a prima vista l’istruttoria non sembra avere molti buoni argomenti di partenza. A meno che non sia stata promossa con l’intenzione di addivenire a un accordo sottobanco con Mountain View; ma anche qui, ci sono poche speranze: tattiche del genere sono state utilizzate dagli editori anche in Usa, Regno Unito, Germania, e Google ha sempre risposto picche. Ed è estremamente improbabile che stavolta cambi idea.


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Tutto quello che c’è da sapere su Lady Margherita. Dal rapporto difficile (ma simbiotic

La donna che suss

di Gabriella o, il vero tormentone dell’estate non sono state né le piccanti rivelazioni della D’Addario né le bravate più recenti di Feltri. Sotto la calura agostana è spuntato un nuovo personaggio. Non che sino ad oggi fosse sconosciuto, ma adesso la sua popolarità è esplosa per via di un autogol clamoroso. Si tratta di Margherita Agnelli che nel disperato tentativo di contestare l’eredità di papa Gianni, ha messo i segugi del fisco sulla pista di un “tesoretto” di un milardo e mezzo di euro che il patriarca avrebbe occultato all’estero. Un vero capolavoro quello di madame De Palhen (questo il cognome del suo nuovo marito): gettare l’ombra dell’evasore su quello che per anni è stato considerato una sorta di Re d’Italia, senza ricavarne per di più alcun vantaggio. Quei soldi, infatti, se verranno scoperti, finiranno nelle casse dello Stato sotto forma di imposte. Chi è questa signora che ha provocato un terremoto peggio di quello dell’Aquila nella “famiglia regnante”nostrana?

N

Margherita è nata dopo la morte del padre. Nessuno aveva sino ad allora parlato di un personaggio considerato minore, nella gran saga degli Agnelli. Appariva nelle foto di famiglia accanto a quel fratello dal volto pensoso e triste. Lei invece aveva un’espressione più sbarazzina: graziosa senza raggiungere mai però le vette di bellezza e di eleganza di sua madre da Truman Capote a Gore Vidal. Rapporto difficile quello dei figli con cotanto padre. E anche con la madre non è mai stato rose

propri ragazzi quella vicinanza affettuosa e solare di cui da piccoli o da adolscenti si ha bisogno. Margherita, e ancor più il fratello Edoardo, devono aver sofferto di tutto ciò.

Quanto all’avvocato era un padre vecchia maniera: i figli si amano, ma se ne occupa la moglie. Qualche volta ci provava a stargli vicino, ma alla fine prevalevano gli altri impegni. Come quella volta che disse ad Edoardo di prepararsi che l’avrebbe portato

Insieme a suo fratello Edoardo ha sofferto per le mancanze di una madre quasi mai serena, spesso incapace di regalare ai propri ragazzi quella vicinanza affettuosa di cui da piccoli si ha bisogno e fiori. L’avvocato - si sa - era un vero e proprio tombeur de femme. E donna Marella, principesca e bellissima, non riusciva a conservare fredezza e distacco davanti alle avventure del marito. Ne soffriva, lo inseguiva, lo cercava. E questo qualche volta andava a detrimento dell’attenzione verso i figli. Niente di strano, sia chiaro. Succede in tutte le migliori famiglie che una donna tradita possa essere “dominata” almeno per qualche periodo dall’infelicità e dall’umiliazione e questo non l’aiuti ad essere una madre distesa, serena, capace di regalare ai

alla partita, ma poi si dimenticò di andare a prenderlo. E anche Margherita ha subito le sue frequenti disattenzioni. Anche se, come lei stessa ha dichiarato: «Fra me e mio padre c’era una maggiore complicità, come sempre capita fra padre e figlia. Lui era ovviamente orgoglioso dei suoi nipoti, e negli anni non ha mai smesso di interessarsi ai loro studi, ai loro successi e problemi. Ma anche fra noi due c’è stato un dialogo fitto, continuo, un rapporto fatto di reciproca sollecitudine e del piacere di fare le cose insieme». Margherita amava e ammirava

Il giovane Elkann, nipote dell’Avvocato, rompe il silenzio sulla vicenda ereditaria sca

Il figlio John: «Basta, sono ind di Francesco Capozza

TORINO. John Elkann, vicepresidente di Fiat e presidente di Exor, interviene con indignazione sulla vicenda innescata dalla causa intentata dalla madre Margherita per verificare la reale entità dell’eredità lasciata dall’Avvocato Gianni Agnelli, che ha comportato l’apertura di un’indagine da parte della Agenzia delle entrate e una forte campagna mediatica sugli affari della famiglia. «Sono indignato, e mi rendo conto di non essere l’unico, per come sono state strumentalizzate e manipolate le cose», ha dichiarato ieri Elkann alla stampa a margine dell’inaugurazione a Torino della Scuola di Alta Formazione al Management. Il giovane Elkann si è detto indignato anche «dalla violenza delle parole e dalle falsità

dette su mio nonno, Giovanni Agnelli». A chi gli chiedeva un commento sull’iniziativa avviata dalla Agenzia delle entrate, che intorno a metà agosto ha aperto un’indagine sull’eredità dell’Avvocato, Elkann ha risposto: «Tutte queste vicende vanno affrontate nelle sedi adeguate e sicuramente non sui media».

All’inaugurazione della Scuola di Alta Formazione al Management erano presenti anche i legali Gianluigi Gabetti (presidente d’onore di Exor), e Franzo Grande Stevens, che insieme a Sigfried Maron e a Marella Caracciolo sono i soggetti a cui è stata indirizzata l’azione legale avviata nel 2007 da Margherita De Phalen. Proprio l’avvo-

cato Gabetti, su insistente richiesta della stampa ha precisato che «John non ha bisogno dei miei consigli, la sua posizione non è in discussione. È il leader del gruppo e lo resterà». Gabetti ha anche escluso ricadute della vicenda relativa all’eredità Agnelli, sulle società del gruppo. A proposito delle polemiche sul patrimonio dell’Avvocato, per la quale è in corso una causa di fronte al tribunale di Torino tra la figlia Margherita Agnelli, la madre Marella Caracciolo, lo stesso Gabetti, Franzo Grande Stevens e il finanziere Siegfried Maron, ha aggiunto: «Hanno scelto di portarci in tribunale e qui ci difenderemo. Continuano a ripetere tante cose, già smentite e precisate, come un disco rotto».


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co) col padre all’ultimo tormentone che la vede ruggire per la sua eredità “perduta”

surra agli Agnelli

a Mecucci

moltissimo il padre e Gianni controcambiava accompagnandola ogni tanto a Parigi in giro per mostre o per ristoranti a mangiar ostriche. Andava anche a visitare il suo atelier dove dipingeva, e qualche volta si prendeva anche uno o due quadri: quelli che gli piacevano di più. Ma non era sempre così. C’erano anche lunghi periodi assenza, di pensieri rivolti altrove. Tantoché la figlia, pur di farsi notare da lui, si rapò a zero. Gianni gelido, dopo averla vista, disse: se pensi di colpirmi con questi gesti, sbagli. C’è poco da fare, Margherita in realtà era letteralmente dominata dalla personalità paterna. Ne era dipendente quasi totalmente. Sin da piccola la sua cifra comportamentale era stata una via di mez-

atenata da sua madre

dignato»

Era totalmente dipendente dal padre, che ricambiava con amore, ma anche con lunghi periodi di assenza. Una volta, per attirare la sua attenzione, arrivò addirittura a «raparsi a zero» zo fra l’obbedienza e la ribellione quando lo sentiva allontanarsi. Lei stessa ha raccontato: «Spesso vengono a parlarmi di mio padre. In realtà per anni agli occhi della gente io sono stata la figlia di..., prima di essere la moglie di… C’è voluto del tempo perché mi prendessi per mano e riuscissi ad affermare la mia personalità».

Sin qui il rapporto col padre, fatto di amore e di conflitti. Quanto alla madre, ha scritto per lei un libro di poesie, ma la giudica «una donna di altri tempi, che non si è mai occupata di affari». Una donna - ha sintetizzato «molto diversa da me». Insomma fra i due, la rampolla Agnelli sceglieva il padre e per questo sino a quando ha vissuto è rimasta la sua ombra. Margherita quando fece la ragazzata di raparsi a zero era già grandina, sui 18 anni circa. Poco dopo sposò Alain Elkann. Da lui ebbe tre figli: John, Lapo e Ginevra e visse il dramma del rapimento della madre del marito, Carla Ovazza. Sposa e madre poco più che adolescente: forse per prendere le distanze da una famiglia tanto amata e tanto difficile scelse di vivere in modo profondamente diverso da loro. In un’intervista lei stessa racconta quando con Edoardo (infelice e colto) e Giovannino discutevano del senso della vita. E certamente sia lei che il fra-

tello - quest’ultimo ancora di più si occuparono d’altro e lasciarono correre gli affari di famiglia. Margherita aveva un rapporto molto affettuoso con Eddy e il suo suicidio la sconvolse. Di lui diceva: «Credo che non si sia mai parlato abbastanza della sua profonda intelligenza né della capacità di intuire i retroscena delle situazioni. Nel suo apparente distacco, mio fratello ha sempre capito le cose prima degli altri. Le sue analisi erano lucide, spesso sbalorditive. E noi tutti lo sapevamo bene».

Lasciata giovanissima la famiglia di origine, la ragazza-signora dopo i tre figli con Elkann si separò e incontrò quasi subito il vero uomo della sua vita. Ed è stato il matrimonio con lui a cambiarla profondamente. Con il nobile russo Sergio De Palhen, che lavorava ai “piani alti”della Fiat, fu amore a prima vista. Con lui visse per molti anni in Brasile, a Parigi e in in Russia. Qui gli occorse un incidente terribile: andò a fuoco la casa dove stava con altri amici e nell’incendio morirono due bambini. Poi la vita fra Parigi e Ginevra: nella città Svizzera possiede una bellissima villa: arredamento di gusto ma con un pizzico di fantasia, ambienti spaziosi e di sobria ricchezza, alle pareti quadri dipinti da lei. E poi c’è il parco con piante secolari, splendidi fiori, i cavalli (un altro grande amore insieme alla pittura) e i cani. Con lei e De Palhen convivono tre dei cinque figli avuti dal secondo matrimonio.

Margherita si è “russizzata”: ha scelto la fede ortodossa ed è religiosissima.Veste in un modo bizzarro che risente della cultura orientale e non fa mistero di amare la patria di De Palhen tantoché a un certo punto qualcuno ha pensato che suo marito avrebbe potuto occuparsi di un nuovo massiccio intervento industriale della Fiat in Russia. Ma di questo non c’è alcuna conferma. Si tratta semplicemernte di gossip d’affari. Intanto, sommati tutti i figli, fanno otto. I primi tre hanno con lei un rapporto molto difficile. Lapo, protagonista di storie di sesso omosessual-mercenarie e di coca, è stato il più duro: «Nella mia vita non c’è posto per lei». Jaki, l’erede prescelto come guida della Fiat, non la saluta. Con Ginevra va un po’meglio: l’ha invitata al suo recente matrimonio e le ha dato a Ferragosto la gioia di diventare ancora nonna di un maschietto, il piccolo Giacomo. Di tutti loro ha detto: «Mi hanno rubato i figli, scelti dalla famiglia per prendere le redini del comando». Dei cinque De Palhen invece si sa poco e niente se non che la mamma ha scatenato la rissa agostana di famiglia soprattutto per difendere le loro proprietà. Pensa infatti che siano stati penalizzati nell’eredità rispetto ai rampolli Elkann. La storia recente di Margherita, oltreché di pennelli, cavalli e maternità, parla anche di un impegno forte nella finanza sociale: il famoso microcredito. Da circa sette anni opera nel settore con la Blue Ochard (fondi d’investimento, di cui è socio fondatore). Margherita ne va fiera: «Ho discusso e discuto molto con gli amici e i parenti sui bisogni sociali e sulle realtà sociali, i problemi dei rapporti Est-Ovest, il capitalismo contro il comunismo, la dialettica

Nord-Sud e, improvvisamente, il lavoro con i microimprenditori mi ha indicato un nuovo modo per uscire da tutte le ideologie in conflitto. Nel 2001, quando mi sono trsaferita a Ginevra, ho conosciuto Jean Philippe de Schevrel e Melchior de Muralt e sono stata subito entusiasta di Blue Orchard. Adesso Blue Orchard è una realtà: siamo cresciuti e contiamo su 20 collaboratori rispetto ai due iniziali. Possediamo un ufficio a Ginevra, uno a NewYork e uno a Lima. Abbiamo un capitale di 700 milioni di dollari in gestione e con questo finanziamo circa 100 microbanche in 33 mercati emergenti. Blue Orchard ha indirettamente aiutato il finanziamento di diversi milioni di microimprenditori».

Proprio mentre Margherita, carica di figli e ormai anche di nipoti, sembrava aver trovato una buona strada lavorativa, è esploso “l’affaire”eredità. Tutto inizia con la morte di Gianni Agnelli. In assenza di testamento infatti le eredi universali del suo patrimonio sono la moglie Marella e la figlia. Nel 2004 c’è il primo accordo. Margherita non crede nel futuro della Fiat («Sarà una nuova Parmalat», avrebbe affermato) e vende la sua quota dell’accomandita. In questo modo i figli Elkann raggiungono il 30 per cento della “Dicembre” che controlla l’Ifi. Una quota che li mette in una posizione di maggioranza. La madre ha ricevuto naturalmente molto danaro e una parte ingente del patrimonio immobiliare di famiglia per la vendita del suo pezzo di accomandita: complessivamente un patrimonio di un valore superiore a un miliardo di euro. Margherita però si convince che sono sfuggiti ai calcoli delle divisioni famigliari beni per il valore di due miliardi di euro. Indirizza una ventina di lettere a Grande Stevens e a Gabetti, che hanno mediato la successione, per avere chiarimenti. Inizia così il tormentone del grande scontro all’interno della ormai ex “famiglia regnante”. Secondo la figlia di Agnelli, assistita ora dall’avvocato Giraudo, un tempo presidente della Juve, questa montagna di danaro e di patrimoni finanziari o immobiliari sarebbero all’estero. Esportati illegalmente? Oppure è tutto a posto, tutto regolare? E le case di Marella in Svizzera e a Marrakesch sono davvero sue? Un ginepraio inestricabile in presenza del quale il fisco italiano ha aperto un’indagine. Eppure Margherita aveva dichiarato a Panorama: «Le sembra possibile una donna che si mette contro la sua stessa madre e il suo figlio primogenito? Ma nemmeno nelle tragedie greche si è arrivati ad immaginare tanta follia». Eppure è andata così: la ragazza graziosa e insicura è diventata una donna aggressiva che ha messo sotto accusa un pezzo di famiglia, compreso l’amato padre, Sua Maestà Gianni Agnelli.


mondo

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Risiko. In margine alle celebrazioni del 70° dell’inizio della seconda guerra mondiale, parte il grande valzer delle poltrone di Bruxelles

Ecco il nuovo vertice Ue Felipe Gonzáles scalza Blair dalla presidenza Il conservatore Patten verso il posto di Solana di Enrico Singer segue dalla prima Il giro di contatti è stato, naturalmente, informale. Ma è proprio da questo tipo di colloqui che escono gli accordi più robusti. Soprattutto quando si tratta di scegliere dei nomi. E questa volta la posta in gioco è grossa perché si tratta di individuare chi, dal primo gennaio del prossimo anno, occuperà la poltronissima di presidente stabile del Consiglio della Ue - carica nuova di zecca - e chi sostituirà lo spagnolo Javier Solana alla guida della politica estera dell’Unione. Tutto è ancora sotto la spada di Damocle del referendum del 2 ottobre in Irlanda che dovrebbe finalmente sbloccare l’entrata in vigore del nuovo Trattato di Lisbona che modifica, appunto, le regole e i vertici del patto tra i Ventisette. Tra l’altro, anche Polonia e Repubblica ceca stanno aspettando l’esito della consultazione irlandese per dire l’ultima parola sulla ratifica del Trattato. Ma se, come tutti si attendono, saranno i sì a prevalere, la presidenza di turno svedese della Ue è già pronta a convocare un vertice a fine ottobre per varare ufficialmente il nuovo organigramma europeo. E la scelta della rosa dei nomi è già cominciata. Con una serie di novità, anche clamorose, rispetto alle indiscrezioni filtrare finora.

Il colpo a sorpresa è il ritorno in pista di un personaggio che molti avevano già archiviato nell’elenco dei leader europei ormai tramontati: Felipe González. L’ex premier socialista spagnolo (ha governato dal 1982 al 1996) è da anni fuori dalla politica attiva e non è considerato nemmeno particolarmente vicino all’attuale premier Luis Zapatero. Ma proprio queste sue caratteristiche lo favoriscono ora come candidato all’incarico di primo presidente stabile della Ue (il mandato è di due anni e mezzo rinnovabile fino a cinque). Secondo le ferree - quanto riservate - leggi del manuale Cencelli europeo, che divide tra nazionalità e famiglie politiche le principali cariche istituzionali

della Ue, la poltronissima di presidente del Consiglio spetta a un socialista dal momento che la presidenza della Commissione rimarrà, per un secondo mandato, al popolare portoghese Manuel Barroso. Fino a ieri il candiato più forte era Tony Blair. Ma la stella dell’ex premier britannico si è spenta sotto il fuoco incrociato della coppia Sarkozy-Merkel alla quale si è unito anche Sil-

do la tradizione della Ue, quando una carica spetta a una famiglia politica è, alla fine, l’altra a scegliere il candidato più accettabile. Per questo i veri king makers del futuro presidente della Ue saranno i leader popolari che, per parte loro, propongono un candidato di facciata: l’ex premier austriaco Wolfgang Schussel. Ma nel risiko delle poltrone europee, a un presidente socialista deve

I leader europei preparano l’organigramma del potere che dovrebbe scattare dal primo gennaio prossimo. Se il referendum in Irlanda del 2 ottobre darà finalmente il via libera alla riforma del Trattato affiancarsi un ministro degli Esteri (in realtà la carica è di Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza) popolare.

vio Berlusconi. Per la verità, era stato proprio Nicolas Sarkozy a lanciare, lo scorso anno, la candidatura Blair, ma adesso il presidente francese ha cambiato cavallo e punta proprio su Felipe González prefrendolo all’altro possibile candidato espressione del pse, l’ex premier finlandese Paavo Lipponen che ha guidato il suo Paese dal 1995 al 2003. Secon-

Anche in questo caso il nome è una sorpresa. Salgono vertiginosamente le azioni di Chris Patten, conservatore britannico, ultimo governatore di Hong Kong (dal ’92 al ’97) pri-

La diplomazia europea riunita per le celebrazioni cerca (senza successo) una strada comune per Teheran

Ahmadinejad andrà all’Onu. Con tutti gli onori di Massimo Ciullo l presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad intende intervenire con un discorso all’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo 23 settembre. Lo ha reso noto un suo portavoce a Teheran e lo hanno confermato funzionari dell’Onu. Al leader della Repubblica islamica, riferiscono le fonti del Palazzo di Vetro di New York, verranno concessi gli onori destinati a tutti i capi di Stato. L’apparizione di Ahmadinejad all’Assemblea Generale punta probabilmente a rafforzare la legittimazione internazionale del rieletto presidente iraniano, al centro di pesanti contestazioni dopo le accuse di brogli alle ultime elezioni del 12 giugno. La comunità internazionale sembra quindi dimenticare che nelle carceri di Teheran si trovano ancora oggi centinaia di cittadini, colpevoli di aver chiesto solo il rispetto delle regole democratiche. Le rassicurazioni del regime sulla scarcerazione imminente delle persone estranee alle contestazioni fa il paio con le dichiarazioni sulle pene severissime a cui andranno incontro i responsabili delle proteste nei giudizi sommari ancora in corso nelle aule dei tribunali iraniani. Come se non bastasse, in nessun conto è tenuta l’ennesima sfida lanciata proprio da Ahmandinejad che nel suo nuovo gabinetto intende nominare a ministro della Difesa il gen. Ahmad Vahidi, sul quale pende un

I

mandato di arresto internazionale per l’attentato al centro di cultura ebraica di Buenos Aires che provocò 85 vittime nel 1994. La notizia della partecipazione del contestato leader conservatore al plenum delle Nazioni Unite giunge all’indomani delle dichiarazioni dei negoziatori iraniani sul dossier nucleare di Teheran, che si sono detti disposti a riavviare le trattative con la comunità internazionale. La televisione di Stato iraniana ha annunciato infatti che sarebbe pronto un nuovo pacchetto di proposte da sottoporre all’attenzione dei leader occidentali sul programma nucleare per scopi civili iraniano. Il capo della troika iraniana, Saed Jalili ha convocato una conferenza stampa per illustrare le nuove proposte, giusto un giorno prima della riunione del Sestetto di negoziatori. Oggi infatti, in Germania, si sono incontrati i delegati di Russia, Usa, Francia, Regno Unito, Germania e Cina per cercare di raggiungere un accordo per una strategia comune sul dossier nucleare iraniano. «L’Iran è pronta per presentare il suo pacchetto di proposte rivedute ed è pronta a riprendere i colloqui con le potenze mondiali al fine di tranquillizzare la comunità internazionale sulla questione», ha detto Jalili ai giornalisti. Teheran sa che non può continuare a tirare la corda e la nuova politica della “mano tesa” messa in atto dall’amministra-

La comunità internazionale dimentica che nelle prigioni del regime si trovano ancora oggi centinaia di cittadini innocenti


mondo

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Vladimir Putin e il presidente Lech Kaczynski si scontrano sulle responsabilità del conflitto

Nell’anniversario di Danzica nuova guerra russo-polacca ngela Merkel è l’unica che fa il mea culpa. L’invasione tedesca della Polonia ha aperto «la pagina più tragica della storia europea» perché il conflitto che scatenò «ha portato una incommensurabile sofferenza per molte persone con anni di umiliazioni e di distruzioni». Ma ieri a Danzica la celebrazione del 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale è stata anche l’occasione per rinnovare antiche tensioni e per riproporre lo scontro - soltanto verbale, per fortuna - tra la Polonia ex“satellite”dell’impero sovietico e la Russia di Putin che non rinnega, comunque, una parte della sua storia che considera anche oggi gloriosa. Ad aprire la polemica è stato il presidente polacco Lech Kaczynski che ha accusato Mosca di «voler riscrivere la storia», di voler mettere in discussione «le verità della seconda guerra mondiale e il numero dei morti vittime del nazismo e del comunismo». Kaczynski ha ricordato anche il massacro compiuto dalle truppe sovietiche nella foresta di Katyn dove furono uccisi 20mila ufficiali polacchi. «Che cosa hanno in comune l’Olocausto e la strage di Katin? C’è una cosa che li accomuna, anche se il nume-

A

ro dei morti è diverso: gli ebrei sono stati uccisi perché ebrei, gli ufficiali polacchi perché ufficiali polacchi», ha detto il presidente. Putin gli ha risposto invitandolo a mettere da parte le rivendicazioni storiche per sviluppare buoni rapporti con la Russia di oggi. Ma non ha mancato di ribattere - anche con un articolo firmato sul giornale Gazeta Wyborcza - che «un anno prima del patto Moltov Ribbentrop, ls Francia e la Gran Bretagna avevano firmato il Trattato di Monaco con Hitler rovinando tutte le speranze di formare un fronte comnune nella lotta al nazifascismo». Come dire che le responsabilità della guerra non si possono rovesciare soltanto su Hitler e su Stalin. Le polemiche, comunque, non hanno rovinato il cerimoniale dell’ammiversario cominciato alle 4,45 del mattino, quando partirono i primi colpi della corazzata tedesca contro una base polacca a Westerplatte, vicino Danzica, e si sono concluse nella Basilica della città dove è stato eseguito il Requiem della guerra di Benjamin Britten alla presenza di tutti i leader: da Putin a Berlusconi, dalla Merkel al premier francese, Fillon, e al presidente di turno della Ue, il primo ministro svedese, Frederik Reinfeldt.

Soltanto Angela Merkel fa mea culpa: l’invasione tedesca aprì la pagina più tragica della storia europea

ma del ritorno alla Cina dell’ex colonia ed ex commissario europeo per gli Affari internazionali ai tempi della Commissione Prodi. Chris Patten, che è lord in quanto barone di Barnes ed è anche Chancellor dell’Università di Oxford, deve questo suo improvviso e inatteso rilancio a una doppia coincidenza. La disgrazia di Blair deve in qualche modo deve esse-

re compensata perché la Gran Bretagna non può rimanere fuori dal grande valzer delle nomine. E un favore al partito conservatore potrebbe essere anche molto utile per facilitare la rielezione di Manuel Barroso alla presidenza della Commissione. Il Parlamento europeo dovrebbe votare già questo mese, o al massimo in ottobre, il gradimento alla conferma

Il ritorno in scena dell’ex premier socialista spagnolo è favorito da Sarkozy (che ha cambiato cavallo), dal cancelleriere tedesco (che attende però il verdetto delle elezioni) e anche da Berlusconi

zione Obama ha una scadenza prestabilita. La Casa Bianca si è detta disposta ad aspettare fino alla fine di settembre per la ripresa dei negoziati sul nucleare insieme agli altri membri del sestetto. Inoltre, Washington ha ampliato la sua offerta dichiarandosi disponibile a sottoscrivere anche accordi commerciali con Teheran, se le autorità iraniane decideranno di interrompere le operazioni di arricchimento dell’uranio.

Se le proposte provenienti da oltreoceano dovessero essere respinte, gli Stati Uniti sono pronti a chiedere un ulteriore inasprimento delle sanzioni contro l’Iran. Il regime degli Ajatollah finora ha tergiversato, proponendo di discutere delle questioni politiche ed economiche e del problema della sicurezza internazionale, in un quadro sganciato dagli aspetti specifici che riguardano il suo programma nucleare per scopi civili, sul quale pesa però il sospetto di una copertura per la costruzione di armamenti atomici. Statunitensi ed europei insistono invece per un immediato ritorno al tavolo delle trattative per discutere unicamente della questione nucleare. Il presidente Barack Obama, allo scorso G8 dell’Aquila, disse a chiare lettere che settembre sarebbe stato il “tempo-limite” per una risposta di Teheran alle offerte di ridiscutere il suo programma atomico. A giugno dello scorso anno, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania, hanno proposto all’Iran un nuovo pacchetto di incentivi economici in cambio di una sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio, per evitare in alternativa un inasprimento delle sanzioni. Ma da Teheran, finora la risposta è sempre stata negativa. Il regime di Ahmadinejad ha più volte ripetuto che non sospenderà le operazioni di arricchimento dell’uranio, anche se il pacchetto di incentivi potrebbe costituire una “base comune”per far ripartire le trattative.

del portoghese alla testa dell’esecutivo europeo, ma per avere una maggioranza sicura che superi i mal di pancia di molti socialisti e l’opposizione dichiarata di Verdi e sinistra, i voti del nuovo gruppo euroscettico fondato dai conservatori britannici sono preziosi. Per questo, ieri, le azioni di Patten sono andate alle stelle riducendo le possibilità degli altri

due candidati che sono il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt, e il commissario europeo per l’allargamento, il finlandese Olli Rehn.

I leader europei riuniti a Danzica nel 70° anniversario dell’inzio della seconda guerra mondiale. Nelle foto piccole, da sinistra, Felipe Gonzales, Chris Patten, Manuel Barroso e Jerzy Buzek. Qui sopra, Ahmadinejad

Nella partita è entrato anche il nuovo presidente del Parlamento europeo, il popolare polacco Jerzy Buzek, che il primo dei personaggi della nuova nomenklatura europea già entrato in carica, che era presente alle celebrazioni di Danzica e che si è speso per una soluzione rapida di tutta l’operazione-rinnovamento. Considerando che un’altra delle caselle importanti, sia pure non organica alla Ue - quella di segretario generale della Nato - è appena andata all’ex premier danese, Anders Fogh Rasmussen, anche lui popolare, a questo punto la mappa del potere nella nuova Europa comprenderebbe il socialista González al vertice della pira-

mide con ben tre popolari negli altri posti-chiave: Patten, Barroso e Buzek (ma la carica di presidente dell’Europarlamento passerà a metà mandato a un socialista). È un organigramma che, per il momento, raccoglie una solida maggioranza tra i Paesi più importanti della Ue e, in particolare, tra quelli che si sono incontrati in margine agli appuntamenti ufficiali per il 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. Nel giorno che ricorda la pagina più nera della storia europea, potrebbe avere fatto un passo avanti quella nuova Europa che arranca dopo i «no» ai referendum in Francia e in Olanda. Potrebbe. Perché ci sono ancora due ostacoli da superare: le elezioni politiche in Germania a fine mese, banco di prova per Angela Merkel, e soprattutto il referendum-bis in Irlanda il 2 ottobre.


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Caucaso. A ottobre ripartono le relazioni diplomatiche tra Ankara e Jerevan l disgelo fra Armenia e Turchia nasce da un’anomala sintesi di “diplomazia dello sport” e interessi strategici comuni. All’inizio di questa settimana, il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha annunciato che il 12 o il 14 ottobre, in occasione della partita Turchia-Armenia - valida per i Mondiali 2010 - il presidente armeno, Serzh Sargsyan, firmerà ad Ankara un accordo per il riavvio delle relazioni diplomatiche bilaterali. Il protocollo di intesa prevedrebbe lo scambio dei rispettivi ambasciatori e la creazione di una commissione congiunta per l’instaurazione di un dialogo tra le due nazioni. Il risultato, raggiunto grazie alla mediazione della Svizzera, è ancora parziale, in quanto un eventuale trattato di pace non è ancora stato definito e comunque richiederà la ratifica dei rispettivi parlamenti. Gli attriti fra Ankara e Jerevan sono un capitolo aperto sui tavoli della diplomazia internazionale ormai da decenni. Sto-

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ricamente risalgono alla fine della Prima guerra mondiale. Da allora, la Turchia ha rigettato sempre la responsabilità del massacro del popolo armeno nel 1915. Un genocidio non riconosciuto come tale nemmeno dalla comunità internazionale e sul cui bilancio la disputa è tuttora in corso. Le fonti armene parlano di un milione di morti, sterminati in modo predeterminato.

Il governo turco, al contrario, si limita a 300mila caduti e respinge l’accusa di premeditazione. Negli anni Novanta, inoltre, le tensioni furono appesantite dal conflitto del Na-

Bruxelles infatti, spinta soprattutto dalla Francia, ha sempre ricordato che l’integrazione per la Turchia sarà possibile solo se quest’ultima avrà chiuso i capitoli relativi all’Armenia, Cipro e al pieno sviluppo democratico interno. A ottobre saranno quattro anni esatti dall’avvio dei negoziati Turchia-Ue. È giunto il momento che Ankara, se vuole entrare nell’Unione, dimostri i passi compiuti. Analizzando poi gli aspetti economici, va ricordato

Da parte di Jerevan, le entrature che sorgerebbero dall’accordo forse appaiono meno delineate. L’Armenia infatti è esclusa dal percorso di qualsiasi conduttura energetica della regione. Ma proprio la sua condizione di isolamento - dettata anche da un mancato sbocco sul mare e da un’economia priva di risorse naturali - deve essere in qualche modo ridotta. Non basta infatti la solida alleanza con la Russia e con alcuni governi europei - amici geograficamente lontani - per intraprendere una politica economica virtuosa. Aprire il dialogo con il suo nemico storico è diventato una questione di sopravvivenza. Veniamo infine a un terzo soggetto ben lieto di assistere alla futura stretta di mano fra i due Paesi: gli Stati Uniti. Washington è alleata e partner commerciale di entrambi. La Turchia è un membro essenziale della Nato, sia per il suo contributo di uomini in uniforme sia perché occupa una posizione geografica fondamentale per gli interessi della Casa Bianca in Medio

che il Caucaso è un’area strategica per gli interessi energetici turchi. Da queste montagne dovrebbero partire sia il Southstream sia il Nabucco, i due gasdotti in via di costruzione per rifornire l’Europa di idrocarburi. Sebbene si tratti di due progetti in reciproca concorrenza, la realizzazione di ciascuno risulterebbe una fonte di guadagno per Ankara. D’altra parte, è necessaria una concreta stabilizzazione dell’area. La pace con l’Armenia, in questo senso, costituirebbe la prima mossa politica per il raggiungimento di un obiettivo economico.

Oriente. Per quanto riguarda l’Armenia gli interessi sono più di natura interna. Quel milione e mezzo di cittadini statunitensi con origini caucasiche costituisce una ricca e influente lobby, capace di orientare i voti. Assecondarla vorrebbe dire conquistarla. Per Obama, veder chiuso il contenzioso nel Caucaso significherebbe aver eliminato un problema diplomatico senza aver impegnato il Dipartimento di Stato ed essersi garantito il sostegno di una grossa fetta di elettori. Ultimo dettaglio: un Caucaso stabile sarebbe per gli Usa una nuova frontiera dove investire e confrontarsi direttamente con la Russia.

Turchia-Armenia: scoppia la pace di Antonio Picasso gorno-Karabakh. Nel 1993, la richiesta di emancipazione da parte di questa enclave cristiana sotto giurisdizione del musulmano Azerbaijan, provocò una violenta guerra che coinvolse direttamente le truppe armene in appoggio ai combattenti indipendentisti. La Turchia, alleata del governo di Baku, scelse di chiudere totalmente i rapporti con Jerevan e di bloccare le frontiere comuni. Da allora, i tentativi di ripresa del dialogo sono sempre falliti. Lo stesso si pen-

no cambio di prospettiva reso noto dal governo turco – e soprattutto non smentito dalla controparte armena – nasce dalla necessità condivisa di concludere un contenzioso che politicamente non è più interessante lasciare in sospeso.

sava per quest’ultimo caso. Nel settembre 2008, il Presidente turco, Abdullah Gul, aveva assistito all’incontro di calcio Armenia-Turchia - turno di andata della partita del prossimo ottobre - proprio dalla tribuna d’onore dello stadio di Jerevan. Ma il gesto aveva innescato le proteste delle frange più estremiste di entrambi i Paesi. I due governi quindi giunsero alla conclusione che le rispettive popolazioni non fossero pronte a un passo storico come la riappacificazione. Lo scorso aprile, infine, la road map firmata per intercessione di Berna sembrava essere nata come una carta già morta. Il repenti-

del massacro armeno e per la guerra del Nagorno-Karabakh risulta essere uno spreco di risorse, in termini di propaganda, che non può portare a risultati concreti né per l’Armenia né per la Turchia. Evidenti e sotto gli occhi di tutti sono al contrario i vantaggi della normalizzazione dei rapporti. Per Ankara, indiscutibilmente il soggetto forte fra i due e il primo a guadagnarci da questo nuovo corso diplomatico, significa impegnarsi in senso concreto nello scioglimento di uno dei nodi che rallentano il suo ingresso nell’Unione europea.

Mantenere alto il livello di odio etnico per la questione

Il nuovo corso diplomatico potrebbe significare lo scioglimento di uno dei nodi principali che rallentano l’ingresso turco nell’Unione europea


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2 settembre 2009 • pagina 17

I ribelli del nord-ovest puntano il dito anche contro Riyadh

Migliaia riuniti a Diyarbakir chiedono la fine della guerra

Yemen, crisi umanitaria. Accuse a Teheran

I curdi: una «tregua onorevole» per Ocalan

SANAA. Il governo yemenita ha ieri respinto un’offerta di tregua avanzata dai ribelli zaidisti sciiti del Nord del Paese. Intanto, l’esercito ha intensificato l’offensiva denominata «Terra Bruciata» lanciata contro di loro il mese scorso. Da Ginevra l’Onu ha ammonito che la situazione dei civili intrappolati dagli scontri tra ribelli e forze governative «è assolutamente drammatica». In particolare nella regione di Saada, a circa 200 chilometri a nord-ovest della capitale Sanaa, sul confine con l’Arabia Saudita, dove sta emergendo una vera e propria crisi umanitaria. I combattimenti ostacolano la distribuzione degli aiuti e l’apertura di corridoi affinché i civili lascino la zona. «L’accesso è la priorità numero uno», hanno affermato l’Onu, il Programma alimentare mondiale e l’Unhcr. sarebbero in corso raid aerei e combattimenti nell’area di Saada. Un portavoce del governo yemenita ha affermato che «la pretesa iniziativa di un cessate il fuoco annunciata recentemente dai ribelli, non prevede nulla di nuovo», e ha ribadito le condizioni poste dal governo. Cioé che i ribelli si ritirino dai palazzi governativi che hanno occupato, che consentano la riapertura delle strade e consegnino le armi. I ribelli zaiditi, per il governo finanziati

ANKARA. Migliaia di curdi si sono radunati ieri in una delle principali piazze di Diyarbakir, la maggiore città curda della Turchia nel sud-est del Paese, per chiedere «una pace onorevole» in attesa delle riforme sociali ed economiche promesse dal governo del premier Tayyip Erdogan per porre fine al conflitto curdo. Alla manifestazione, organizzata dal filo-curdo Partito per una Società Democratica, hanno partecipato circa 20mila persone da tutta la regione. La gente ha ballato e intonato canti tradizionali mentre tanti manifestanti innalzavano striscioni e manifesti con su scritto “Sì ad una pace onorevole” e “La soluzione della questione curda non può essere rinviata”. Ma si sono viste anche tante gigantografie

Pechino, tutti i nodi vengono al pettine Il Dalai Lama, gli uighuri e le proteste nel Fujian di Pierre Chiartano a dissidente uigura, Rebiya Kadeer, accusata da Pechino di aver fomentato le violenze di luglio nello Xinjiang, si è detta pronta a discutere direttamente con le autorità cinesi sulla sorte della sua comunità. Così Pechino si trova a dover affrontare una doppia sfida. Dalla regione interna dello Xinjinag, con i separatisti uiguri e dall’isola di Taiwan, sorella separata del regime comunista, che ha accolto in questi giorni il Dalai Lama, scatenando le ire della Cina continentale. «Sono pronta a discutere con le autorità cinesi sui mezzi per superare gli errori politici degli ultimi sessanta anni e lavorare su delle riforme politiche», ha dichiarato davanti alla commissione dei diritti umani del Parlamento europeo a Bruxelles, dove è stata invitata per la prima volta ufficialmente. «È ora che il governo cinese si sieda per discutere con me, con sua santità il Dalai Lama e tutti i dirigenti delle comunità cinesi non Han – l’etnia maggioritaria in Cina – che sono stati calunniati, incarcerati e diffamati semplicemente perchè sono in disaccordo con la politica ufficiale», ha affermato la leader della minoranza uigura. Rebiya Kadeer ha chiesto all’Unione europea «di fare pressione sulle autorità cinesi perché rispettino le leggi di autonomia che figurano nella loro costituzione» nei confronti dello Xinjiang, che gli uiguri chiamano Turkestan orientale. «Mi auguro che le autorità cinesi riducano la tensione nel Turkestan orientale» avviando «un vero dialogo con i rappresentanti del popolo uiguro all’estero». La dissidente ha anche esortato l’Ue a chiedere a Pechino «una vera inchiesta indipendente» sulle violenze del 5 luglio nello Xinjiang, costate almeno 197 morti secondo le autorità, ma «molti di più» secondo Rebiya Kadeer. Per Pechino l’uigura sarebbe colpevole di aver provocato le violenze di luglio. Intanto dall’altra sponda dello stretto di Formosa più di di 10mila hanno assistito, ieri, nel sud di Taiwan alla cerimonia per le vittime del ciclone Morakot officiata dal Dalai Lama. La celebrazione nello

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stadio di Kaohsiung è il più importante evento pubblico della visita del leader spirituale tibetano, criticata da Pechino. E dalla Cina sono arrivate le prime rappresaglie per l’accoglienza al leader religioso: un alto funzionario del Partito comunista di Shanghai e una delegazione del Partito di Nanchino hanno annullato i previsti viaggi a Taipei. Salta anche il viaggio del numero due della Banca di Cina, Su Ning, atteso per un seminario, e la partecipazione cinese alle Olimpiadi dei disabili che si apriranno sabato sull’isola. L’impressione, però, è che Pechino focalizzi la protesta sull’opposizione taiwanese e non intenda pregiudicare il disgelo avviato con il presidente MaYing-jeou, il cui governo ha evitato contatti con il Dalai Lama.

«Il mio obiettivo», ha affermato il leader tibetano nelcorso della cerimonia religiosa allo stadio, «è di ottenere la benedizione per le vittime del tifone ed evitare che (le loro anime) abbiano una cattiva sorte». Il Dalai Lama, che Pechino considera un pericoloso leader secessionista, ha precisato che la visita di cinque giorni sull’ isola ha un carattere spirituale, senza finalità politiche. Taiwan è di fatto indipendente dal 1949, ma la Cina la considera parte integrante del suo territorio. Negli ultimi mesi Pechino ha avviato un dialogo con Taipei che ha già portato al ripristino dei voli diretti tra i due Paesi. Anche sul fronte interno non c’è pace per per il governo cinese. Almeno dieci persone sono rimaste ferite negli scontri tra manifestanti e agenti di polizia al termine di un corteo di protesta, organizzato nella provincia cinese di Fujian, contro l’inquinamento dei terreni e dell’aria. Lo ha riferito, ieri, il Centro informazione per i diritti umani e la democrazia, con sede a Hong Kong. Gli abitanti di Quanzhou sono scesi in strada per protestare contro un impianto per il trattamento dei liquami che ha inquinato l’aria e le fonti d’acqua nella zona. Due auto della polizia sono state state distrutte dai manifestanti che hanno preso anche diversi ostaggi tra le forze dell’ordine.

La Kadeer a Bruxelles: «I cinesi rispettino le leggi di autonomia che figurano nella loro Costituzione»

dall’Iran, denunciano di aver subito bombardamenti aerei anche dall’Arabia Saudita. Appena due giorni fa, al Qaida ha fatto sapere che l’autore del fallito attentato suicida del 27 agosto contro il capo della sicurezza saudita, principe Mohammed bin Nayef, è un suo «martire ed eroe». Lo stesso giorno, Sanaa avrebbe ucciso un capo dei ribelli ziaditi, Ahmed Jaran. Con una sanguinosa ribellione in corso dal 2004, i seguaci di Jaran sperano di ottenere il ripristino del potere temporale dell’imam zaidita sul loro territorio, dove gli sciiti sono in maggioranza, mentre nello Yemen la popolazione è sunnita.

con il volto del leader curdo imprigionato Abdullah Ocalan. La manifestazione, organizzata nel giorno in cui i curdi festeggiano la loro Giornata della Pace, viene a poche settimane dall’avvio, da parte del governo, di un’iniziativa tesa a trovare una soluzione alla questione curda, ovvero la lotta separatista dei curdi che ha provocato la morte di circa 40 mila persone negli ultimi 25 anni. Nel piano di pacificazione del governo sarebbero comprese misure a favore dell’uso pubblico della lingua curda e piani di investimento per la creazione di posti di lavoro nelle più povere regioni della Turchia a maggioranza curda. Il ministro degli Interni Besir Atalay ha annunciato che il governo presenterà al Parlamento un piano d’azione in proposito ai primi di ottobre ma ha escluso che verrà concessa un’amnistia per i ribelli del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) considerati a tutti gli effetti terroristi non solo da Ankara ma anche dagli Usa e dall’Ue. I vertici del Pkk, da parte loro, hanno reso noto di aver esteso la tregua unilaterale decretata mesi fa (ma non riconosciuta dalle autorità turche) che adesso scadrà alla fine del Ramadan, il 22 settembre.


cultura

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Post-futurismo. Un “work in progress” decennale, che ha sempre utilizzato un linguaggio visivo leggero e aperto, libero da ogni retorica

Carla e i suoi colori L’arte della Accardi, un cosmo in continua ebollizione dagli anni Cinquanta a oggi di Angelo Capasso la logica della sensazione a prevalere quando non esiste una possibilità di razionalizzare l’opera d’arte in una forma definita. La sensazione intesa come percezione sensoriale che appartiene ad un sentire superiore, preesistente nel fiuto e affinato dal suo esercizio continuo. È quanto ci insegnano le centinaia di opere di Carla Accardi, che hanno scritto la storia della percezione visiva dai primi anni Cinquanta fino ad oggi. Carla Accardi è oggi la protagonista assoluta di un pensiero visivo che incide tracce. È l’inventrice di un linguaggio leggero, sempre fresco e nuovo, libero dalla retorica della forma e aperto anche davanti alle più estreme ricerche tecnologiche. Sfida anche il digitale. Carla Accardi lo ha intuito da subito. Nata a Siracusa, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Palermo, nel 1947, si trasferisce a Roma, grazie al suo incontro con Sanfilippo (che sposò nel 1949), col quale fondo il Gruppo Forma 1, assieme ad Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli e Turcato.

È

L’arte in Italia era prerogativa degli uomini, eppure tra quella cerchia lei rimane oggi l’artista più raffinata, più misteriosa. Forma 1 è stata la prima avanguardia italiana del dopoguerra: un gruppo di artisti deciso a scendere in polemica diretta con l’arte di partito sponsorizzata dal Pci che allora s’identificava nel neorealismo di Guttuso. Forma 1 era per un’arte libera, interessata alle questioni specifiche dell’arte, non a quelle di partito, e quindi consapevole della necessità del superamento della retorica figurativa, divenuta ormai la strategia teatrale atta a sostenere l’ideologia che aveva ricondotto l’arte in un ambito da cui le avanguardie l’avevano sottratta: la narratività letteraria. Su questa onda astratta nel 1954, Carla Accardi dà vita al suo ciclo di opere più germinative e fertili: i lavori «autorigenerativi», in cui dei segni bianchi si collocano su fondi neri, al fine di creare «un’antinomia spaziale». Si sposta quindi da una versione più scontata del

reale, verso una realtà più concreta, specifica, antica e sostanziale per l’arte: il segno. Il “segno”è una traccia di colore ed è il viatico per un’astrazione totale dalla forma. Carla Accardi opera nell’astrazione muovendosi all’interno di una tradizione che ha avuto precedenti noti, di cui forse i confini più

un insieme vivace con un evidente gusto per la decorazione. Il riferimento a Balla è invece soprattutto per l’ingegneria meccanica con cui il futurista scompone la figura e giunge all’astrazione. Soprattutto nel periodo pre-futurista, il suo interesse per la fotografia, associato alla conoscenza del colore

Un esperimento eccezionale per l’Italia è stato quello che ha visto, lo scorso gennaio a Roma, l’accostamento (del tutto naturale) tra il suo lavoro e la musica di Gianna Nannini estremi sono tra le ricerche delle Compenetrazioni iridescenti (1912) del Balla futurista, da un lato, e nella gioia del colore di Matisse, dall’altro. Soprattutto in quel principio di Matisse secondo cui è il colore a creare l’immagine, quindi ogni quadro si costruisce secondo l’unica legge del colore-luce (rifiutando il colore mimetico degli impressionisti). Lo stile di Matisse fa scuola perché accarezza lo sguardo con una pittura bidimensionale, sacrificando al colore sia la tridimensionalità, sia la definizione dei dettagli.

L’uso del colore in Matisse è quanto di più intenso è vivace si sia mai visto in pittura. Ha usato i colori primari stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale accostando ad essi i colori complementari con l’evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico: ne risulta

propria di impressionisti e divisionisti, lo porta ad analizzare la realtà attraverso tagli particolari, puntando su una irradiazione cromatica intensa e realistica, in grado di creare un’interazione emotiva forte fra opera e spettatore, tratto che contraddistingue sia le produzioni figurative che le opere successive dell’artista. Con l’adesione al Futurismo, Balla potenzia tra i suoi dettami gli assunti dinamici, muovendosi in maniera e indipendente (tanto da porsi su

alcune tematiche anche in contrasto con gli altri futuristi). È possibile leggere nelle opere di Balla un percorso che parte da un approccio positivista (senza mai scimmiottare la scienza),

che si evolve progressivamente (sensazioni plastiche della realtà), approdando verso un pensiero magico-ermetico-teosofico, di matrice antroposofica e steineriana. L’idea portante della poetica di Balla è quella di totalità, di inscindibile identità fra arte e vita, da intendersi come legge d’amore, di attrazione e di corrispondenze. L’opera non rappresenta quindi l’oggetto, ma la sua essenza (opera d’arte come “Presenza”, “Oggetto”e “Azione”).

Carla Accardi ha raggiunto il centro di questo viatico tra Balla e Matisse sintetizzando il colore come forma unica: un fluido attraverso il quale l’immagine si scompone e si ricompone in una metamorfosi infinita. Dopo gli esordi giocati sul confronto tra il bianco e il nero, l’universo di Carla Accardi si lancia in un cosmo multicromatico ed in una proliferazione segnica che incredibilmente assume toni letterari: la Accardi scrive in un suo linguaggio cifrato, fa poesia, incide versi sempre e solamente col colore. Gli anni Sessanta, segnati anche dalla militanza femminista e dal sodalizio con la giovane studiosa critica d’arte Carla Lonzi, segnano l’apoteosi della conquista del colore luminescente: nel 1964, una sua personale alla Biennale di Venezia la impone all’attenzione internazionale e da lì il suo nome gioca d’anticipo su tutte gli astrattismi a venire.

Ancor oggi, il suo lavoro è un work in progress che distende un pensiero agile e delicato sulla superficie piana della pittura, una superficie polimaterica:


cultura

a lei si devono le migliori interpretazioni di un materiale povero, industriale, il sicofoil, che per anni (finché in produzione) è stato la tela preferita di Carla Accardi. Con il sicofoil ha realizzato opere che si sono approssimate molto all’oggetto industriale e di design: è il caso ad esempio delle ormai stranote “Tende” realizzate negli anni Settanta, delle vere e proprie strutture abitabili e percorribili. Quel piano bidimensionale ha conosciuto supporti diversi: negli anni Ottanta si è trasfor-

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nuamente che la pittura è un valore aperto e libero, senza alcun limite se non quello stesso dell’artista. In questi lavori su carta i segni sono distesi sulla superficie, a volte letteralmente tagliati dai bordi del foglio, come se si fosse prelevato un particolare, un dettaglio fotografico, un ingrandimento, una piccola porzione di un’opera di ben più grande formato. È un cosmo, come dicevo, in continua ebollizione: cosmo femminile inteso come sintesi dell’armonia, della vita, della natura e della creazione

“Forma 1” è stata la prima avanguardia italiana del dopoguerra: un gruppo che polemizzava con l’arte di partito sponsorizzata dal Pci che allora s’identificava nel neorealismo di Guttuso mato in tele grezze (non preparate da un fondo) su cui il colore si distende, contrastando tra la ruvidezza del cotone e la luminosità compatta dell’acrilico. E poi la tempera: la tradizione più antica per la pittura.

La scelta di operare con tecniche che scivolano tra la tradizione e il presente dimostra la vitalità di un pensiero che non è mai seduto su se stesso. Con la carta e la tempera, l’Universo di Carla Accardi assume un carattere giocoso, ironico, divertente; sono spesso opere di formato diverso, tante schegge di colore che ci ricordano conti-

che segue un flusso di energia vitale a temperatura variabile, reso dagli aranci, dai verdi, dai rossi e dai viola che, combinandosi in segni grafici, creano strutture sempre più complesse. Un esperimento eccezionale, per la storia dell’arte italiana, è stato quello che ha visto l’accostamento del tutto naturale del lavoro di Carla Accardi con la musica di Gianna Nannini. Le due donne si sono incontrate per un’unica installazione che ha avuto già tappe diverse. Lo scorso gennaio nello spazio AuditoriumArte presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma si è tenuta la mostra “Su-

perficie in ceramica”, di Carla Accardi, un’installazione curata e promossa da Ram (radioartemobile) in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma, che è seguita alla mostra già tenutasi al Museo d’arte Contemporanea di Mosca l’anno precedente. L’installazione ha combinato sapientemente il colore e il suono. Da un lato, il pavimento di Carla Accardi: un pavimento di piastrelle in gres dipinto, superficie in ceramica, che ha coperto interamente la prima sala dello spazio AuditoriumArte, con segni alternati di colore verde e cobalto su sfondo bianco. Dall’altro, l’elaborazione sonora di Gianna Nannini, concepita per accompagnare i passi del pubblico sul pavimento dell’Accardi.

La composizione dal titolo Passi di passaggio è stata registrata dall’artista sulla Piazza Rossa di Mosca ed è stata rielaborata dalla musicista in occasione della mostra romana. La tappa successiva della mostra è stata a Lima, in Perù. Gianna Nannini in questa occasione fa uso limitato della voce, non opera nell’improvvisazione, non usa la distorsione, coglie la delicatezza del passaggio del fluido combinato dei segni di Carla, cui lei fornisce una struttura ritmica, sapientemente articolata al femminile, in perfetta sintonia col quel cosmo colorato.


spettacoli

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Cinema. La versione restaurata del capolavoro di Monicelli apre un’edizione del Festival che punta molto sull’Italia

La Grande Guerra di Venezia di Andrea D’Addio

VENEZIA. «E allora senti un po’, da un qualche premio. Rumori di visto che parli così, Mi te disi propi un bel nient! Hai capito?” Così si rivolgeva, con un rigurgito d’orgoglio patriottico, il lombardo Giovanni Busacca (alias Vittorio Gassman) ad un ufficiale austriaco che ironizzare sulla mancanza di fegato degli italiani. Si tratta di una delle scene più belle e citate del cinema italiano, vera e propria pietra miliare della nostra cultura. Sono passati 50 anni da La grande guerra, Leone

corridoio lo vedono già come uno dei favoriti per la conquista del Leone d’oro.Vedremo.

Lo spazio bianco di Francesca Comencini con Magherita Buy, La doppia ora di Giuseppe Capotondi e l’autobiografico Il grande sogno di Michele Placido, sulle contestazioni studentesche del ’68 romano viste dagli occhi sia di un poliziotto (Riccardo Scamarcio) che di un operaio (Luca

talianità ha un suo peso, soprattutto a livello politico. Non è un caso che l’area dove verrà edificato il nuovo palazzo del cinema, costruzione essenziale per il futuro della Mostra, appare circondata da teloni che ricordano il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. La sopravvivenza del festival veneziano, sempre più penalizzato dalle care e scarse strutture ricettive del Lido e dalla scarsa capienza delle proprie sale,

già tanto discusso Cattivo tenente di Werner Herzog, remake della violentissima pellicola di Abel Ferrara, anche lui presente alla Mostra con il documentario Napoli, Napoli, Napoli (e niente affatto felice della rivisitazione che si è voluta fare del proprio film). E poi: il viaggio alla ricerca delle proprie origini siciliane (Prove per una tragedia siciliana) dell’americano John Turturro, attore feticcio di Scorsese, dei fratelli Coen e di Spike

Da sinistra, scene tratte dai film: “36 vues du Pic Saint Loup”; “Napoli Napoli Napoli”; “Lo spazio bianco”

d’oro a Venezia nel 1959 (ex-aequo con Il generale della rovere di Rossellini), un anniversario che la sessantaseiesima Mostra del cinema ha voluto celebrare ieri con una proiezione gratuita all’Arena di Campo San Polo della versione restaurata del capolavoro di Mario Monicelli.

La nuova edi-

Argentero), completano il quadro dei film italiani in concorso. Un insieme di titoli che lasciano sperare una migliore figura del cinema italiano rispetto alle due ultime, desolanti edizioni, salva-

nonché messo spesso in ombra dal più attraente glamour di Cannes e dall’efficiente mercato industry della Berlinale (ogni festival del cinema è anche, e soprattutto, un luogo di incontro

Lee, la commedia germano-turca Soul Kitchen di Fatih Akin, l’apocalittico La strada tratto dall’omonimo premio Pulitzer 2007 di Cormac McCarthy, gli horror di due padri del genere, George Romero con Survival of the dead e Joe Dante con The hole, il claustrofobico Rec 2, la grottesca satira sociale americana di Todd Solondz con Life during wartime, il documentario su Hugo Chavez di Oliver Stone (South of the border), i grandi cineasti francesi Patrice Chéreau (Persécution), Claire Denis (White Material) e Jacques Rivette (36 vues du Pic Saint Loup con Sergio Castellitto) senza dimenticare che sarà presente anche l’onnipresente, e sempre disponibilissimo con i fan, George Clooney con la commedia impegnata The men who stare at goats. Insomma, c’è di che ben sperare. Il Leone d’oro alla carriera verrà consegnato a John Lasseter, padre fondatore di quella Pixar che dal 1995, anno del primo Toy Story sforna capolavori su capolavori (Monsters and Co, Ratatouille, Wall-E). A Venezia, come ringraziamento, porterà le versioni 3D di alcuni suoi film (Toy Story 2, l’ancora inedito in Italia Up) e realizzerà una sorta di incontrolezione sulle tecniche di realizzazione operate dal proprio studio. Premiarlo è il giusto riconoscimento per uno dei pochi cineasti contemporanei ad avere realmente cambiato il cinema.

Tornatore, con il suo kolossal ambientato in Sicilia, sembra il favorito nella corsa al Leone d’Oro. Mentre quello alla carriera andrà a John Lasseter, fondatore della Pixar

zione del festival punta decisamente sull’Italia. Se la preapertura è stata affidata ai fieri volti di Sordi e Gassman, l’inizio ufficiale della manifestazione avverrà solo oggi con la presentazione di Baarìa di Giuseppe Tornatore. Più di un anno e mezzo di riprese tra la Tunisia e la Sicilia, duecento attori, ventimila comparse per un kolossal che tenterà di ricostruire cento anni di storia siciliana e italiana del novecento partendo da quella di tre generazione di una famiglia di Bagheria (città natale del regista, Baarìa ne è il nome fenicio). Per il regista di Nuovo cinema Paradiso l’intenzione è quella di evocare l’epica dei grandi racconti siciliani, da I Malavoglia a I Vicerè, ripescando nella memoria personale quei ricordi di infanzia che lo portarono già all’Oscar con Nuovo cinema Paradiso. Il film uscirà nelle sale solo il 25 Settembre, chissà che non sarà accompagnato

te solo da Pupi Avati e da film selezionati per le rassegne minori. Sarà l’influenza della nomina a direttore di Gianluigi Rondi al Festival di Roma, e la conseguente decisione di italianizzare il più possibile la manifestazione capitolina, ma la sesta Mostra del cinema di Marco Müller (mai un direttore era stato confermato per così tanto tempo a Venezia) sembra aver mitigato la grande attenzione degli ultimi anni per il cinema orientale (solo due film cinesi e uno giapponese in concorso), a favore di un più ampio spazio alle pellicole nostrane testimoniato anche dall’apertura della nuova sezione “Controcampo italiano”. Nella tacita competizione tra i due festival, in tempi di rivendicazioni identitarie, anche l’i-

perché i produttori possano vendere film a distributori di tutto il mondo), è a rischio. Se non nel breve periodo, sicuramente nel medio-lungo.

È questa la ragione per cui Müller e i suoi collaboratori si sono impegnati per portare il maggiore numero di star e film di prestigio tra i canali del capoluogo veneto. Serve visibilità. Mancano pellicole distribuite dalle grandi majors statunitensi (c’è solo la Warner Bros con The informant di Steven Soderbergh con Matt Damon), ma è indubbio che siano tanti i personaggi attesi. Da Michael Moore che, con Capitalism: A love story indaga sulle ragioni della crisi finanziaria causata dal fallimento dei mutui subprime, all’esordio alla regia dello stilista Tom Ford che firma A single man, storia del lutto di un gay per l’improvvisa morte del proprio compagno, passando per il


spettacoli Irlanda non sarà la patria del soul. Ma la giovanissima Laura Izibor ha intenzione di smentire questa convinzione, e lo fa incidendo un album favoloso, che fa rivivere il rythm and blues di una volta. Giovanissima come Katie Melua, Adele, Duffy, sue connazionali e ormai affermate dive della musica pop di questi ultimi anni. Col suo primo disco che racchiude tutti i singoli che l’hanno resa famosa, dimostra di avere una classe fuori dal comune. Alcuni suoi successi hanno costituito la colonna sonora di importanti serie tv americane come Grey’s Anatomy, The Hills, e The Nanny Diaries, ancor prima di essere raggruppati in un album ufficiale. Oggi Laura percorre l’Europa e gli Stati Uniti in lungo e in largo col suo R&B vecchio stile per far conoscere i suoi 11 singoli raggruppati dal in Let The Truth Be Told, brani interamente scritti e prodotti da lei in collaborazione con la Atlantic Records e registrato in varie città. Da Dublino a Philadelphia e New York, dove la Izibor vive. Sarebbe un peccato cercare di far rientrare la sua musica in un unico genere. Ogni suo brano è impregnato di varie influenze e stili, una miscela di colori e suoni proprio come ci si aspetterebbe da una ragazza che ha costruito se stessa sulle differenze culturali ed etniche. Adulto soul e ritmato R&B con tracce di jazz, funky e blues. Manifesto del buon gusto, l’album stupisce un po’ tutti. Soprattutto i fan della musica soul che scettici di fronte all’esordio di una appena ventenne sognatrice e nostalgica della musica vintage, si ritrovano davanti a una raccolta degna dei grandi miti della storia musicale. Ma moderna allo stesso tempo. Stevie Wonder, Candi Stanton, Roberta Flack, e Marvin Gaye. E non ultima Aretha Franklin.

2 settembre 2009 • pagina 21

Charles. E come non potevano essere l’amore, i sentimenti e le relazioni di coppia i temi che il soul della Izibor porta con sé. Un ultimatum al suo amante caratterizza Don’t stay in cui Laura manifesta il suo desiderio di ricevere l’amore di cui ha bisogno e di preferire la sua assenza nel caso in cui lui no nfosse capace di amarla. From My Heart To Yours, un brano quasi hip-pop, interamente impregnato di pianoforte, e riff di chitarra è una palese dichiarazione d’amore.

L’

Musica. In uscita il primo album di Laura Izibor “Let The Truth Be Told”

Viene dall’Irlanda la nuova Alicia Keys di Valentina Gerace

Come la sublime The Worst Is Over e l’ottimista Perfect World che è tra i momenti migliori del disco. Favolosi anche il giocoso funky di Yes (I’ll Be Your Baby), e la ballata soul Mmm impregnata di cori gospel. Lascia che la verità sia detta. Dice il titolo. Ed è proprio la sua verità che Laura svela con questo disco. Racconta la sua vita. Mette in note i momenti più importanti della sua giovinezza. Momenti felici, tristi. Comunque importanti. Voleva che il suo album raccontasse se stessa e la rispecchiasse al cento per cento. E il risultato è perfetto: un disco onesto, sincero. Vero in cui spera qualsiasi ascoltatore possa rivedersi. E immedesimarsi nelle storie che racconta. Proprio come accade a chi

Non è difficile sentire l’influenza di questi artisti nella musica di Laura Izibor. E dopo aver ascoltato già il primo singolo che apre il disco, Shine o lo splendido pop di If tonight is

Ogni brano è impregnato di vari stili, una miscela di colori e suoni proprio come ci si aspetterebbe da una ragazza svezzata dalle differenze culturali ed etniche my last, si capisce come mai il nome della appena 20enne irlandese sia già accanto a quello di Whitney Houston, Jill Scott o Alicia Keys. Brani energici e ritmati, groove intensi e sensuali si alternano a ballate languide e melodie contemplative. E ancora altri singoli dimostrano come oggi non esiste solo un pop “usa e getta”ma anche una musica degna di quei

miti che oggi non solo si ascoltano ancora forse più di prima, ma costituiscono fonte di ispirazione per qualsiasi artista emergente che voglia creare qualcosa di duraturo. La dolcissima What would you do, country alla Jennifer Hudson e i singoli Essense e Vibe che già si ascoltavano in radio mesi prima dell’uscita dell’album, stuzzicano la curiosità di giovani fan e amanti del vecchio soul, che la ascoltano con la stessa emozione di come si ascolta una Nina Simone o un Ray

legge un libro. Laura Izibor ha realizzato il suo sogno. Ha creato una musica ispirata ai suoi idoli, al soul anni ’50, alla sua Aretha Franklin. E oggi nonostante il suo nome venga accostato a quello di Dido, Raya Yarbrough e molte altre compositrici attuali, lei non può temere il paragone. Non può e non deve. Perché la sua musica è unica e benché ispirata ai vecchi standard della musica soul classica, è originale e caratterizzata da uno stampo senz’altro inimitabile.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”New York Times” dell’01/09/2009

Dio è donna. Parola di rabbino di Ralph Blumenthal io è donna» e se ad affermarlo è una donna rabbino, possiamo crederle. Rabbi Margaret Moers Wenig ha rotto con tradizioni e preconcetti. Perché mai un rabbino dovrebbe essere un «lui» e per giunta eterosessuale? Rabbi Wenig, 52 anni, è stata testimone e, in parte, protagonista della trasformazione dell’ebraismo, da quando è stata ordinata nel 1984.

«D

Oggi insegna a classi che sono formate principalmente da donne, alla Hebrew union college-jewish institute of religion al Greenwich village di New York. Stiamo parlando del movimento riformista, interno all’ebraismo liberale. Margaret è una donna lesbica, con due figlie avute da un precedente matrimonio, che lei ha cresciuto a Brookling, assieme alla sua partner storica, il rabbino Sharon Kleinbaum. Margaret divenne famosa per un suo sermone nel 1990 e poi pubblicato e ripreso più volte all’epoca: «Dio è una donna e sta diventando vecchio». Un ritratto dell’Altissimo visto come un’amorevole e a lungo sofferente madre che si domanda perché tu non l’abbia ancora chiamata. Come si diventa rabbini. «I genitori di mio padre lo volevano medico, così lui diventò avvocato. Lui voleva facessi legge, così sono diventata rabbino». Dove è arrivata. A Beth Am, nel People’s Temple di Inwood. Non avevano più un posto per il culto e si avvicinarono a un paio di sinagoghe che però non vollero affittargli uno spazio. Il figlio di uno dei membri della congregazione che aveva frequentato un campo scout luterano creò il contatto. La Atonement Lutheran Church invitò Bhet Am da loro. Anche gli Avventisti del Settimo giorno fecero lo stesso. Nel 2002, scalavano la collina fino al

Fort Tryon Jewish center. E Margaret divenne rabbino emerito nel Duemila. La parte più interessante dell’essere rabbino è, naturalmente, quella di preparare un buon sermone. «Sono una drogata da sermone. Il rabbino ha il diritto di scegliere gli argomenti per l’agenda della congregazione. Ma guadagna questo diritto accettando anche i temi proposti dai fedeli». Un sermone da dimenticare. «Dopo Bitburg, quando il presidente Ronald Reagan visitò il cimitero tedesco, i membri della mia congregazione si aspettavano che io ne parlassi. Invece non pensavo fosse necessario un commento. Siamo andati avanti tutta la notte. È stata la volta che mi hanno ridotto a brandelli. Sono le migliori lezioni che un predicatore può ricevere». Si può essere fieri di alcune cose. «Ho giocato un ruolo chiave nel cambiamento a favore dei voti per i rabbini gay. Ho visto quanto tempo ci è voluto per raggiungere un risultato. Nel 1985 presentai un’istanza alla Central conferente of Americano rabbis perché venissero aperte le porte ai gay, uomini e lesbiche. Fino al 1990 non successe nulla». Un rabbino al debutto come rapper. «Essendo un membro del Literacy partner (un’associazione benefica che aiuta nella lotta all’analfabetismo, ndr) avevo portato un testo di una canzone rap di un artista sudafricano che era stato appena ammazzato durante un carjacking (è un furto di motori d’auto che prevede anche un assalto armato degli occupanti, ndr). Tre studenti si erano alternati per recitare, ad alta voce, ogni riga della canzone. Quando finirono, uno mi

disse se avevo intenzione di cantarla per loro.“Non se ne parla” risposi. “Ho una voce terribile” continuai.“Sicuro che puoi farcela”replicò lo studente. E cominciò a ritmare il pezzo con le mani sul tavolo. In maniera veramente vergognosa comincia a rappare alla mia maniera la canzone. Mi sentii una pazza. Alla fine della performance, mi applaudirono rumorosamente».

Ecco perché il suo sermone sul Dio donna non costituisce un sacrilegio. «Il testo ebraico è pieno di rappresentazioni antropomorfe di Dio. Non dico che Dio dovrà morire. Rifuggo da questa idea. In altre parole, vorrei dire che Dio è eterno». E alla fine Margaret racconta il momento più divertente della sua carriera. «Una volta Al Beth Am, c’era un membro della comunità religiosa che mi assomigliava. Scrisse una parodia dei miei sermoni copiando frasi e imitando il mio stile d’eloquio. Mi sono sentita male dalle risate. È stato veramente brillante».

L’IMMAGINE

Dove verranno ubicate le centrali nucleari sul nostro territorio?

La festa del sole

È partita quella che il ministro allo Sviluppo Economico, Claudio Scajola, ha definito una piccola «rivoluzione nella politica energetica, industriale e dei consumatori», la cosiddetta legge sviluppo.Vediamo due particolari su energia e class action. La nuova strategia energetica nazionale: un mix elettrico con il 50% di fonti fossili, il 25% di rinnovabili dall’attuale 18%, il 25% di nucleare. Le prime due percentuali le aspettiamo al varco tra qualche anno. Il nucleare sarebbe scelto anche per diminuire la nostra dipendenza energetica dall’estero, ma la tecnologia nucleare è di importazione, cioè estera (Francia), il combustibile (uranio) è estero (il 58% delle riserve sono in Canada, Australia e Kazakhstan), e la Francia con il suo 78% di produzione elettrica nucleare importa più petrolio dell’Italia. Inoltre:dove si metteranno queste centrali?

Quello che vedete non è un nuovo modo per prevenire eritemi e scottature estive. Questo ragazzo colombiano si è bardato così per partecipare alla rievocazione storica dell’Inti Raymi, antichissima festa andina in onore del Sole. Vestiti in abiti tradizionali si attende il sorgere del Sole, pregandolo di proteggere il raccolto e di non allontanarsi troppo, nel corso del suo moto apparente, dalla Terra

Tiziana Maiolini

TELEVISIONE DA RIFARE A mio pare la televisione è tutta da rifare. La sinistra l’ha rovinata ma non è stata l’unica matrice distruttiva del passato. Esiste infatti una certa tendenza a trasmettere programmi violenti e minacciosi come immagini, comprese le indagini sulla fine del mondo e sulle contaminazioni delle esplosioni nucleari future. Anche tali trasmissioni hanno un fondamento di interesse e di cultura, ma qui si esagera, perchè basta fare lo zapping per rendersi conto del limite raggiunto. Non è un discorso moralista, anzi, ma la constatazione che l’uomo ha bisogno di sorridere con arte e imparare con ottimismo, per mettere in moto tutte quelle valenze spirituali che ci permettono di amare la vita.

Bruno Russo - Napoli

IL CAOS DELLA SEGNALETICA STRADALE Vorrei segnalare una situazione d’incertezza relativa alla segnaletica stradale presente in città; si potrebbe dire un fatto ridicolo se non fosse che le conseguenze per i cittadini possono essere tutt’altro che divertenti. Non si capisce se la zona in cui si trovano i segnali, nei pressi di Corte dei Mesagnesi in pieno centro storico, sia un’area di sosta regolamentata o, invece, uno spazio con divieto di fermata. La differenza non è trascurabile. Pagare il parcheggio, infatti, non escluderebbe una multa per divieto di fermata con annessa rimozione del veicolo. Un danno, tra sanzione e spese di rimozione, non inferiore ai 100 euro! È evidente che tutte le persone che fossero state multate per

divieto di fermata nella zona di Corte dei Mesagnesi (o in altre zone con un simile problema) pur avendo esposto il consueto tagliando di sosta avrebbero giusti motivi per impugnare il verbale di contestazione. Questa non è l’unica zona della città in cui sono presenti queste problematiche. Spesso il cambio

della segnaletica verticale non e’ seguito da quella orizzontale o ancora alla fine di lavori di manutenzione delle strade pubbliche, si chiudono i cantieri ma restano i segnali provvisori. Il tutto con incertezze per la circolazione stradale e qualche volta, come in questo caso, con il rischio di subire ingiusta-

mente un danno economico. Chiediamo all’assessore al traffico del Comune di Lecce d’intervenire per fare chiarezza sull’accaduto e di predisporre un controllo su tutto il territorio cittadino per evitare che i cittadini si vedano, ingiustamente, sanzionati.

Osvaldo Bucci


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È tutta una menzogna, dal principio alla fine Mio Bebè piccolo,, non c’è praticamente nessuno che sappia con certezza che io sono innamorato di te, tanto meno c’è nessuno – beh, proprio nessuno – che possa dire che io sono innamorato di t con idee poco serie. Per dire questo sarebbe necessario essere dentro il mio cuore; e anche così, bisognerebbe essere miopi, perché si tratta di una grande sciocchezza. Quanto infine alla donna che io ho, se non te la sei inventata tu per allontanarti da me, dovresti porre le seguenti domande alla rispettabile persona (ammesso che esista) che ha informato tua sorella: 1. Che donna è? 2. Dove ho vissuto e dove vivo con lei, e dove la incontro (ammettendo che siamo due amanti che vivono separati), e da quanto tempo la conosco? 3. Qualsiasi altra informazione concernente questa donna. Se tutta quanta la storia non è una tua invenzione, ti garantisco che assisterai a una ritirata immediata della persona che ti ha dato queste informazioni; ritirata di tutti coloro colti in menzogna. E se la cosiddetta persona rispettabile avesse la sfacciataggine di fornire dei dettagli, basterà che tu li verifichi. Vedrai che è tutta una menzogna, dal principio alla fine. Ah, questa è certamente una trama per allontanarmi da te! Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

EGEMONIA CULTURALE CONTRO COSCIENZA POPOLARE E con questo siamo a tre. Dopo la vicenda Englaro, decisa da un giudice, quella della pillola Ru 486, decisa a maggioranza tra cinque scienziati, i giudici del Tar del Lazio entrano a piedi uniti su un altro tema di esplicita rilevanza sociale: il valore dell’insegnamento della religione nelle scuole italiane. La decisione è un’ulteriore e chiara manifestazione di una tendenza sempre più invadente e pervasiva della egemonia che alcune forze culturali detengono nel Paese in barba ad una diffusa coscienza popolare che va in bel altra direzione. La fragilità delle tesi prospettate sono state ampiamente contestate da affermati giuristi che ne hanno evidenziato il grossolano errore: considerare l’ora di religione come un’ora di catechismo, mentre è noto a tutti che essa ha una chiara connotazione storico-culturale. Forse questi giudici non sanno che ogni scuola deve prevedere valide alternative per gli studenti che non si avvalgono dell’ora di religione. Ove questo non accade, e purtroppo accade, occorre intervenire in questo nei confronti dei singoli istituti. L’occasione è comunque propizia per dire con chiarezza che il vero obiettivo della sentenza non è il cattolicesimo, ma l’educazione stessa dei nostri giovani. Essa è la drammatica conseguenza del decadimento culturale in atto nel nostro Paese. Un

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

2 settembre 1943 Salvatore Giuliano viene ufficialmente dichiarato bandito 1944 Anna Frank e la sua famiglia vengono caricati sul treno che li porterà da Westerbork ad Auschwitz 1945 Il Vietnam dichiara la sua indipendenza e forma la Repubblica Democratica del Vietnam (Vietnam del Nord) 1967 La micronazione del Principato di Sealand dichiara unilateralmente la sua indipendenza 1969 Il primo bancomat degli Stati Uniti viene installato a Rockville Centre (New York) 1980 Scompaiono a Beirut in Libano i due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo 1987 Inizia a Mosca, il processo del diciannovenne pilota tedesco Mathias Rust, che atterrò con il suo Cessna sulla Piazza Rossa nel maggio del 1987 1990 - Entra in vigore la Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

nuovo attacco alla libertà portato in nome di un malinteso principio di laicismo, che volendo riaffermare il valore dei principi democratici vorrebbe impedire che dentro la scuola si possa liberamente svolgere il rapporto tra fede e cultura. Ancora una volta ritorna la pretesa della scuola neutra, che sembrava essere stata superata, che vuole ridurre l’insegnamento ad una serie di nozioni e di tecniche così perfette e imparziali da non avere nessun nesso con la vita. Ma allora allo stesso modo in cui si mette in discussione l’insegnamento della religione, che è bene precisare non è catechismo, potrebbero per assurdo mettersi in discussione tutte le materie umanistiche, le materie artistiche e così via. Ancora una volta la Chiesa italiana è rimasta sola a difendere non posizioni di privilegio, ma interessi generali della cultura del nostro popolo, mentre le forze ,politiche di centro destra si guardavano bene dall’entrare nel merito della questione. E devo notare che ancora una volta il “laico” Cacciari ha saputo puntare il dito sulla questione di fondo «Quando i ragazzi vanno in giro a fare i turisti vedono delle chiese e dei quadri con immagini sacre. Ma cosa vedono, cosa capiscono? Spesso riconoscono a mala pena Gesù Bambino. Non sanno nulla delle nostre tradizioni. La religione è un linguaggio fondamentale».

METTIAMO AL CENTRO LA CONOSCENZA E LA VALORIZZAZIONE DELLE AREE INTERNE Si ripropone attraverso la proposta del governo regionale, una specie di riedizione del grand tour che, come accadde due secoli fa, orienta i forestieri a lambire la Basilicata senza che essi vengano sollecitati a penetrare nel suo cuore antico per scoprirla e apprezzarla. Noi, invece, emendiamo la proposta del governo regionale mettendo al centro la conoscenza e valorizzazione delle aree interne. Non a caso, nel piano di sviluppo rurale 2007-2013 la Basilicata è stata classificata territorio rurale, differenziando la montagna e la collina quale «Area rurale con problemi complessivi di sviluppo», mentre la pianura è identificata nelle «Aree rurali ad agricoltura intensiva specializzata». All’interno di questa macro-area rurale si concentra un vasto territorio costituito dai parchi naturali nazionali e regionali, dai siti che ricadono nella rete natura 2000 e dai territori classificati montani dall’Istat. Si tratta di un territorio strategico per l’intero ecosistema dell’Appennino meridionale, per l’alta concentrazione di patrimonio di biodiversità che vi ricade; ma è anche il territorio a maggior rischio di abbandono per le difficoltà strutturali in cui si realizza l’attività economica in generale, per i fenomeni di spopolamento che lo attraversano, per la senilizzazione che caratterizza il territorio agricolo, per la frammentazione delle aziende agricole. Ciononostante è un territorio vasto che presenta opportunità di sviluppo illimitate se legate ai forti caratteri di naturalità che lo caratterizzano, alla diffusa presenza di foreste, ambienti fluviali e lacustri, paesaggi mozzafiato, ad un’offerta enogastronomica ricchissima e di qualità, basata su produzioni di nicchia con molte specificità locali già orientate verso la denominazione comunitaria e la certificazione, tradizioni rurali ed emergenze storico- culturali diffuse e presenti anche nel più piccolo dei comuni. Tutte risorse, oggi, frammentate all’interno dei singoli comparti, con scarse iniziative di integrazione intersettoriale e che, ai fini delle esigenze di salvaguardia e di valorizzazione che richiede l’area, pretendono interventi finalizzati a promuovere un sistema produttivo integrato con un modello di turismo rurale e sostenibile che, nel tutelare il patrimonio di biodiversità, faccia delle produzioni di qualità, della storia e della cultura locale e della tradizionale ospitalità lucana i suoi principali punti di forza. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Ugo Scolaro

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Senegal. Il caso della città di Touba, fiorita grazie anche al duro lavoro dei migranti musulmani in giro per il mondo

Il “tesoro segreto” dei di Rossella Fabiani engono dal Senegal. E sono diventati nostri vicini di casa. A Roma li puoi trovare a via della Conciliazione, alla stazione Termini, a Porta Portese, a via Frattina o all’incrocio tra via del Corso con via del Babuino. Al Nord, li trovi soprattutto in Lombardia, ma anche a Vicenza, Treviso e Torino. Fanno i lavori sporchi e pesanti che pochi ormai sono disposti a fare. Qualcuno è diventato anche camionista. Ma per quasi tutti l’occupazione numero uno è quella del cosiddetto “vu cumprà”. Con una sacca pesante piena di borse firmate Prada, ma “made in Naples”, la paura di essere fermati e multati dai vigili urbani, i soldi da spedire a casa, indispensabili sia alla sopravvivenza della famiglia che alla comunità religiosa. Sono i musulmani senegalesi che appartengono alla comunità dei muridi: un islam pacifico, mistico, laborioso: probabilmente il meglio integrato nella società italiana. Il loro motto è molto vicino all’ora et labora di benedittina memoria perché il lavoro è al centro del credo della confraternita muride che è stata fondata nel 1887 a Touba, una cittadina a circa 200 chilometri da Dakar, da Ahmadou Bamba Mbacke, e che si caratterizza nel panorama sfaccettato dell’Islam contemporaneo come una corrente profondamente africanizzata.

V

Riconosciuto come padre spirituale indiscusso dei muridi, Ahmadou Bamba Mbacke ha incarnato la tradizione dei grandi mistici sufi, opponendosi fieramente al dominio coloniale senza ricorrere alla violenza, ma proponendo una forma di resistenza pacifica ispirata ai valori della tolleranza e del dialogo. Ma soprattutto, nonostante questo islam nero sia perfettamente allineato ai parametri culturali di quello più ortodosso nell’osservanza dei dogmi tradizionali, la confraternita muride si distingue per il suo profondo radicamento nella cultura senegalese che conserva anche nei Paesi di emigrazione. In particolare, è proprio all’interno del reticolo migratorio che la confraternita muride ha rinsaldato i suoi legami, rivelandosi ben più di una comunità religiosa: una vera e propria rete di solidarietà. Con una rigorosa struttura piramidale che tiene le fila della rete internazionale, la comunità è cementata da un senso di appartenenza ispirato ai principi del mutuo soccorso e della condivisione dei beni. Fondata sui capisaldi della preghiera, dell’obbedienza e del lavoro, la comunità si costruisce intorno alle scuole coraniche, dove il fulcro dell’insegnamento religioso è racchiuso nello stretto rapporto tra marabut (il leader religioso) e talibe (il discepolo). Ma la particolarità del sistema dottrinario dei muridi è il lavoro che, come nel precetto benedettino, assurge non solo a mezzo di elevazione spirituale, ma anche a strumento di solidarietà quotidiana e si traduce in aiuto concreto per i migranti appena approdati in terra straniera. Per questo le comunità senegalesi all’estero risultano spesso più integrate nella società d’accoglienza rispetto ad altre comunità, anche in virtù di una fede islamica non imbrigliata in lotte idelogico-politiche, né tanto meno in derive terroristiche. Da sempre i muridi hanno cercato di monopolizzare quegli spazi dove c’è grande passaggio di gente, come le stazioni dei treni, delle metropolitane, degli autobus, o gli stessi mercati rionali. E se l’ammi-

VU’ CUMPRÀ nistrazione locale non dice niente, nel tempo si crea una consuetudine, un appuntamento fisso in luoghi precisi con questi venditori. I muridi investono molto anche nella conoscenza della lingua, dei costumi e del sistema politico del Paese dove si trovano. E a Roma, come pure nel bresciano, regolarmente, arrivano da Touba i marabut, i capi della comunità muride per le visite pastorali, per le prediche, per gli incontri e per conoscere quali sono i problemi della comunità. Così come i muridi senegalesi che ormai vivono in Italia vanno, almeno una volta l’anno a Touba. «Il minareto di Touba era poco più che un puntino. Man mano che mio nonno e io ci avvicinavamo, appariva in tutto il suo splendore. E quando poi finalmente arrivava-

grande moschea dell’Africa subsahariana piena di marmi di Carrara, rossi graniti portoghesi e cupole verdi - il colore dell’islam - accostati a monumentali portali in tek. Non solo. La confraternita dei muridi controlla una radio privata, il 50 per cento della produzione delle arachidi e una compagnia telefonica.

Tutto è stato costruito grazie alle addiya, le offerte che giungono da ogni angolo del pianeta. E l’Italia è in prima linea: soltanto attraverso i canali ufficiali, arrivano ogni anno a Touba 5 milioni di euro. Una cifra non indifferente se si considerano i guadagni spesso modesti dei 50mila immigrati senegalesi (fra regolari e non) che sono presenti nel nostro Paese e che hanno anche una loro cittadella religiosa in terra italiana: il centro Cheikhoul Khadim di Pontevico. Qui vengono accolti i marabout ogni volta che fanno visita in Italia, qui si può acquistare materiale religioso d’ogni tipo: dai rosari musulmani - subha in arabo - che hanno 99 grani, tanti quanti sono i nomi di Allah, alle vecchie foto di Ahmadou Bamba. «La relazione fra il marabut (la guida,“colui che vuole”) e il talibe (il discepolo) è fortissima e costituisce il cuore stesso di questa confraternita», dice Bruno Riccio dell’Università di Bologna, autore di uno studio sul muridismo transnazionale. E questo è tanto più vero, oggi, per qualsiasi senegalese che decida di emigrare. Prima della partenza, l’ammonimento del marabut è: «Lavora sodo, sii gentile. E quando arriveranno altri a chiederti aiuto, dagli un letto e da mangiare». Così la confraternita dei muridi è riuscita a regolare i flussi migratori visto che da Touba nessuno parte senza la certezza di trovare di che vivere una volta all’estero.

Quello che era un anonimo villaggio a circa 200 chilometri da Dakar, dal 1886 (anno in cui fu scelto come luogo di preghiera e d’incontro) ha continuato a crescere. Oggi è la seconda città del Paese con un milione e mezzo di abitanti mo lì sotto, cominciammo a salire, gradino dopo gradino. Da lassù in alto, erano gli uomini che sembravano minuscole formiche». Gli occhi di Abdoullaye Sylla, uno dei portavoce dell’associazione Cheikh Ahmadou Bamba che ha sede a Pontevico, nella bassa bresciana, si illuminano. Quello che era un anonimo, polveroso villaggio a 196 chilometri dalla capitale del Senegal, dal 1886 - anno in cui fu scelto come luogo di preghiera e d’incontro da Bamba in persona - ha continuato a crescere. Adesso è la seconda città del Paese con un milione e mezzo di abitanti, uno sviluppo incessante e tutto il carisma per radunare ogni primavera milioni di fedeli per il Magal (il pellegrinaggio annuale) che si conclude sotto i cinque minareti della più


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