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L’assurdo nasce sempre
di e h c a n cro
dal confronto fra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo
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Albert Camus di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 3 SETTEMBRE 2009
Dopo il caso Feltri: il giornalismo non comincia a fare un po’ schifo? 2. Carlo Rognoni
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Lasciamo stare la guerra dei veleni e discutiamo il governo dell’Italia
Ok. Basta con le escort
Un mestiere ormai sporco, colpito a morte da Tangentopoli
Prendiamo in parola il premier. E vediamo se adesso risponderà a queste 10 domande sulla sua vita pubblica
L’ex consigliere della Rai: «Tutto cominciò quando i media si consegnarono ai magistrati. Oggi ognuno gioca a dimostrare che nessuno in Italia è pulito» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Sebbene sia sempre stato caratterizzato da una certa piaggeria, il giornalismo italiano ha imboccato la sua china discendente con il deflagrare di Tangentopoli. Uno scandalo che avrebbe potuto segnare l’avvento di un nuovo corso per tutti i quotidiani nazionali, e che invece restò solo un polverone». Carlo Rognoni, giornalista di lungo corso già direttore di Panorama ed Epoca, data l’origine dell’odierna barbarie della stampa al 1992. segue a pagina 4
Contro la retorica contro il rifiuto Celebrazioni (e polemiche) per i 150 anni dell’Unità.
1. Quindici anni fa Lei scese in campo, come ama dire, sventolando una bandiera che ha finito per diventare il suo biglietto da visita. Lo stesso che era stato di Reagan: la riduzione delle tasse. Solo che Lei agli italiani in tutti questi anni le tasse non le ha mai ridotte. La ritiene una sua personale sconfitta? E da semplice elettore come giudicherebbe il politico responsabile di una così grande promessa mai mantenuta?
e perciò «bisogna cacciare via le ambasciate israeliane dal continente»? E come giudica il fatto che, sotto il regime del suo amico Putin, siano morti assassinati 109 giornalisti? 7. Più in generale: perché, finita l’era Bush, a parte i rapporti formali dei vertici e le belle frasi di circostanza, la sua personale politica estera si è ridotta sostanzialmente alla coltivazione del triangolo Putin-Gheddafi-Erdogan?
2. Nella campagna elettorale del 2008 lei propose nel suo programma agli elettori il “quoziente familiare”: cioè la modulazione dell’imposizione fiscale in relazione alla composizione dei nuclei familiari: chi ha più figli, paga meno tasse. Perché non ne parla più? E non crede che oggi questa misura sarebbe la più idonea a difendere le famiglie dall’impatto della crisi? 3. Più in generale: Lei è stato il protagonista del “sogno”di una rivoluzione liberale. Ma, dopo 15 anni non ve n’è traccia. Cos’è, sta ancora dormendo? O, come sostiene Antonio Martino, il sogno è stato semplicemente tradito? 4. La cosidetta Seconda Repubblica è nata con l’urgenza di una grande modernizzazione del Paese. Le cosidette “riforme di sistema”: pensioni, liberalizzazioni e, appunto, tasse. Lei si è sempre definito un uomo del fare: ebbene perché non ha fatto niente? 5. Prima Montezemolo, poi Marcegaglia, infine Draghi. E anche Bonanni e Angeletti.Tutti gli esponenti più significativi del mondo economico e sociale Le chiedono di procedere con le riforme. Altrimenti l’Italia accumulerà nuovi ritardi. Il super Tremonti continua a rispondere, con infastidito tono professorale, «vedremo più avanti». Condivide? Non le sembra una risposta “rinviista”tipica dell’esecranda politicante Prima Repubblica?
8. È stata l’aggressiva campagna anti-immigrati della Lega, ai confini del razzismo e della xenofobia come ha detto il presidente Fini, a crearLe le più fastidiose incomprensioni con la Chiesa. Pensa davvero che Lei possa continuare a lungo a tenere i piedi in due scarpe, quelle di Bossi e quelle del Vaticano? E come giudica le prese di posizione di Fini? Infine, si è reso conto che, chiusa An e perduta l’Udc, non essendo il Pdl un vero partito, la golden share del governo è nelle mani del Carroccio, cioè di una forza anti-meridionale e dunque anti-nazionale? 9. Lei, come ha detto, non è un santo e nessuno lo pretende. Ma pensa che lo stile di un presidente del Consiglio abbia il potere di influenzare i modelli di vita dei suoi concittadini in modo tale da pretendere sobrietà, come le chiedeva l’“Avvenire”, o ritiene che la questione sia del tutto irrilevante? 10. Lei ha dichiarato guerra a tutta l’informazione. In particolare ha ingaggiato con “Repubblica”una vera e propria confrontation politica. Un presidente contro un giornale: un inedito bipolarismo. Ebbene, avendo alzato così fortemente lo scontro, in modo insolito per qualsiasi uomo di governo, se i tribunali le daranno torto non pensa che la sua immagine di premier (e quindi quella dell’Italia) ne uscirà ancor più visibilmente azzoppata? E se le daranno ragione non pensa che il nostro Paese scriverà una pagina assai buia del rapporto tra potere e libertà di stampa? Insomma, Lei calcola le conseguenze delle sue azioni?
6. Che cosa ne pensa delle dichiarazioni del suo amico Gheddafi secondo il quale è Israele «ad alimentare le guerre in Africa»
di Giuseppe Baiocchi a pagina 18
servizi alle pagine 2 e 3
Due casi gravi a Napoli e a Monza
L’influenza fa paura: «Il picco a Natale, forse scuole chiuse» di Francesco Capozza
ROMA. Anche in Italia si diffonde la paura per la nuova influenza di tipo A. Due casi gravi registrati nelle ultime 26 ore nel nostro Paese: un ragazzo di 24 anni di Monza, ricoverato in gravi condizioni e la cui prognosi resta riservata e un uomo di 51 anni ricoverato in fin di vita all’ospedale Cotugno di Napoli. Nel pomeriggio, vertice tra governo e Regioni al ministero della Salute: Ferruccio Fazio ha assicurato la massima allerta e ha aviato un piano di vaccinazioni dei giovani fino a 26 anni, ma il picco della pandemia sarà già a Natale. Ancora nulla di deciso sull’apertura delle scuole: «Decideremo la prossima settimana», ha detto il viceministro Fazio. segue a pagina 6 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
PRIMA INTERVISTA IN ITALIA DI ANDERS FOGH RASMUSSEN NUOVO SEGRETARIO DELLA NATO
«L’Afghanistan non sarà il nostro Vietnam» Vinceremo questa guerra, decisiva per impedire che il terrorismo dilaghi nel pianeta. Ma ci vuole un nuovo rapporto con la Russia
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
174 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
alle pagine 14 e 15 19.30
politica
pagina 2 • 3 settembre 2009
Rimozioni. Anche il quoziente familiare sembra scomparso dall’agenda di un governo che non sente più il bisogno di rispondere
I detassatori immaginari
Cresce la pressione intorno al premier sulle prime domande di “liberal” Che fine ha fatto la riduzione delle imposte, bandiera del centrodestra? di Errico Novi
ROMA. L’imperativo, il vero slogan, è questo: non rispondere. L’equivoco è sotto gli occhi di tutti. Perché le domande che il presidente del Consiglio dovrebbe evadere non sono quelle di Repubblica. O meglio, si può chiedere tra l’altro a un capo di governo se non ritenga che la sua funzione imponga anche il vincolo della sobrietà. Ma si rischia di perdere in modo definitivo e irreparabile il filo del dibattito pubblico e il senso ultimo della democrazia stessa, se davvero il governo e il suo vertice non si sentissero più chiamati a risolvere altri interrogativi. È invece questo l’incredibile processo di involuzione che è in corso tra classe dirigente e opinione pubblica in Italia. Un’involuzione preoccupante, che traccia la sconfitta del bipolarismo ma anche il rischio che, da questa, discenda una nuova forma di democrazia bloccata, dal carattere che i fiduciosi possono definire indecifrabile, ma che con un pò di ottimismo in meno si può qualificare come inquietante. È per questo che liberal sceglie di infrangere la barriera dell’equivoco e rivolgere al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi le proprie dieci domande. Interrogativi che riguardano la vita del Paese, le soluzioni che il governo intende proporre. Ma anche, se non soprattutto, le ragioni per cui il premier non avverte alcun disagio nell’aver disatteso la principale delle sue promesse: la riduzione delle tasse. Proposito con il quale Berlusconi si è presentato davanti al disorientato elettorato italiano nel 1994, e che gli è valso l’accostamento con Ronald Reagan, il presidente degli Stati Uniti che nel decennio precedente aveva costruito il proprio consenso con l’alleggerimento della pressione fiscale. A ricordare al premier, e al suo partito, di aver rinnegato se stesso è Francesco Giavazzi, con l’editoriale firmato mercoledì scorso sul Corriere della Sera. Basta una semplice enunciazione di numeri: non
Abbassare le aliquote ormai è indispensabile. Soprattutto per salvare il Sud
Ecco lo slogan giusto: pagare meno, lavorare di più di Carlo Lottieri davvero necessario, come molti suggeriscono, abbassare drasticamente le tasse? E quali effetti avrebbe tutto ciò sull’economia? Insomma: è proprio vero che una riduzione del carico fiscale potrebbe aiutare il Paese a rimettersi in moto, specie in questa fase segnata da una terribile crisi globale?
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Per rispondere a tali interrogativi bisogna partire da alcune considerazioni elementari. Rilevando innanzi tutto che gli esseri umani agiscono seguendo le loro preferenze (e quindi con un certo grado insopprimibile di imprevedibilità), ma sono comunque largamente condizionati dal sistema di inventivi in cui si trovano. Se in una scuola ogni studente sa che riceverà la medesima votazione quale che siano il profitto, è irragionevole attendersi allievi attenti e impegnati. Lo stesso vale per l’economia. Quando si osserva una società, bisogna quindi prestare attenzione a quali sono le regole vigenti, perché se la proprietà privata non è rispettata e chi produce profitti non può godere dei frutti del proprio impegno, è fatale che la produttività sia modesta. Uno dei libri che più ha fatto discutere quanti si occupano di economia dello sviluppo, Il mistero del capitale del peruviano Hernando de Soto, sottolinea proprio come il successo dell’America del Nord e, al contrario, il fallimento dell’America Latina siano strettamente connessi ai differenti sistemi di premi e punizioni. Nel mondo di colonizzazione inglese, contratti e diritti di proprietà sono stati sempre tutelati con cura, grazie a un ordine giuridico che ha saputo minimizzare il ruolo del settore pubblico. Nell’emisfero di colonizzazione spagnola e portoghese ha pesato invece una tradizione interventista, che ha sottoposto l’intera economia al controllo di un piccolo gruppo di signorotti. Oggi come ieri, abbassare il livello dell’imposizione fiscale signifi-
ca offrire allora un potente incentivo a fare, intraprendere, produrre. La decisione di ridurre le aliquote non deve essere vista innanzi tutto come una scelta orientata ad incrementare i consumi (secondo logiche latamente keynesiane), ma come una spinta a lavorare meglio e di più. Per giunta, nonostante la retorica tremontiana e l’impegno di tanti governi contro i paradisi fiscali, è del tutto evidente che la concorrenza istituzionale esiste ed esisterà pure in futuro. I capitali e le imprese sono mobili e si dirigono dove trovano maggiori opportunità. Qualora l’Italia decidesse di tagliare le imposte, taluni gruppi industriali o fondi di investimento troverebbe opportuno indirizzare qui da noi una quota maggiore delle loro risorse. Concentrarsi sulla riduzione di spesa pubblica e tasse, nella prospettiva di far crescere il settore privato, significa individuare un diverso modello di sviluppo. E se questo è vero in generale, ciò è ancor più cruciale per il Mezzogiorno, che non da ieri si trova in una situazione difficile. Caratterizzato da un fragile tessuto produttivo, da una vasta disoccupazione, da aree di illegalità e da un numero esorbitante di dipendenti pubblici, il Sud non ha tratto beneficio da decenni di spesa statale e interventi straordinari, ma potrebbe invece avvantaggiarsi da una coraggiosa politica antifiscale.
Se chi produce profitti non può godere dei frutti del proprio impegno, è fatale che poi la produttività risulti modesta
Su iniziativa di vari soggetti (tra cui l’Istituto Bruno Leoni) in queste settimane sta prendendo corpo un orientamento trasversale che punta proprio a eliminare ogni imposta sulle imprese, italiane e no, che realizzino profitti nel Sud. Si tratta del progetto di una “no tax region” che in cambio dell’abolizione di ogni finanziamento discrezionale alle aziende, oggi fonte di molta corruzione, cancelli ogni imposta sul redditi d’impresa ottenuti nelle regioni meridionali. Per lo Stato l’intera operazione sarebbe quasi a costo zero, ma per la prima volta potrebbe offrire un’autentica occasione di sviluppo al Mezzogiorno. Perché la strada della crescita passa dall’adozione di un progressivo ridimensionamento del potere dui chi ci governa.
solo dal 1994 a oggi il peso del fisco sugli italiani è cresciuto di tre punti, mentre in altri Paesi europei o è salito di molto meno (un punto in Francia) o è addirittura calato (di tre punti in Germania); ma se commisurato su un prodotto interno lordo integrato da un’economia sommersa (che evade le tasse) forte come in nessun altro Paese del continente, la pressione delle imposte in Italia è ancora superiore a quel 43 per cento ufficiale. Chi non si sottrae ai propri doveri di contribuente, dunque, subisce un’imposizione fortissima, per alcune fasce di reddito più alta rispetto a quella di quindici anni fa, addirittura superiore al dato ufficiale del più esoso Stato europeo, la Svezia. Che però può vantare un sistema di welfare – soprattutto sul versante degli ammortizzatori sociali – decisamente più efficace del nostro.
A Giavazzi fa eco Angelo Panebianco, che nell’editoriale pubblicato dal Corriere della Sera tre giorni fa osserva come la battaglia per la riduzione delle tasse sia stata dimenticata anche perché la maggioranza fa i conti la Lega, interessata a enfatizzare il conflitto tra il Nord e Roma più che ad alleviare l’aggravio di imposte sui cittadini. Un pro-memoria arriva anche dalle colonne del Sole-24 Ore con Giacomo Vaciago e da un liberale tra gli ultimi, nel Pdl, a poter davvero vantare questo titolo, Antonio Martino, che ha espresso la sua delusione al Riformista dell’altro ieri. Di fronte al pressing Giulio Tremonti conserva quella che l’ex ministro della Difesa definisce «flemma», ma che a liberal sembra piuttosto un infastidito tono professorale, come leggete nelle dieci domande in prima pagina. Ieri il super responsabile dell’Economia ha sfoggiato ancora una volta questa imperturbabilità, ma ha anche rivolto un pensiero all’opportunità dello scudo fiscale: «È più grave far uscire o far rientrare i capitali?», si è chiesto con retorico sussiego. Certo è che Tremonti annuncia di volersi misurare più sul terreno di una feroce lotta all’evasione (con tanto di direttore dell’Agenzia dell’entrate mandato in tv a dire che l’esecutivo ha aperto la caccia al tesoro degli Agnelli) che su quello della riduzione delle tasse.
politica
3 settembre 2009 • pagina 3
Domani comincia la classica kermesse sul lago di Como
La lista nera di Tremonti Cernobbio senza maghi Il Forum Ambrosetti cede ai veti del ministro: esclusi Draghi, Spaventa, Savona e Boeri di Vincenzo Faccioli Pintozzi l parterre, va detto, è quello delle grandi occasioni. Per l’annuale Workshop Ambrosetti, il Forum di economia che si svolge a Cernobbio, sono attesi i rappresentanti del gotha politico ed economico del mondo intero. Fra premi Nobel e ministri dell’Economia spuntano capi di Stato, industriali e religiosi del calibro del cardinale Ruini. Grande attesa per l’intervento del ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, che non si farà sfuggire l’occasione per ripresentare le sue proposte per la ripresa economica del Belpaese. D’altra parte, il tema del trentanovesimo incontro di Villa d’Este è proprio “Lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive”. Ad ascoltarlo e pronti a intervenire, fra gli altri, ci saranno Shimon Peres e Abu Mazen, Aznar, il primo ministro francese Fillon, alcuni premi Nobel, Massimo D’Alema, Emma Marcegaglia, e un nutrito gruppo di giornalisti tra cui Maria Bartiromo, De Bortoli e Riotta. L’elenco dei relatori, fa notare un sostanzioso articolo di Dagospia, non comprende però il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e una nutrita schiera di economisti. Che, guarda caso, appartengono a una frangia contraria alle politiche fiscali del titolare del Tesoro. Il primo round del difficile incontro fra il ministro e gli economisti è avvenuto nel settembre scorso, quando parlando da un seminario degli induTremonti striali chiese agli economisti di «tacere». Il
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Al ministro Giulio Tremonti (sopra) sono arrivate sollecitazioni perché realizzi le riforme anche dal Governatore Mario Draghi (nella pagina a fianco). A destra, Paolo Savona, Tito Boeri e Luigi Spaventa
Un rovesciamento imprevedibile. Eppure tutte le parti sociali chiedono le riforme, come ancora liberal tiene a ricordare a Berlusconi, dalla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia al segretario della Cisl Raffaele Bonanni: la previdenza, le liberalizzazioni e il fisco sono i campi d’intervento comunemente indicati, ma l’Esecutivo è convinto di potersi sottrarre alle sollecitazioni. E a impressionare ancora di più, per la scomparsa di una qualche visione ispiratrice dall’orizzonte delle politiche di governo, è un ulteriore tradimento sul quale questo giornale reclama spiegazioni: l’assenza completa di proposte sul quoziente familiare, sull’attenuazione progressiva del fisco per le famiglie con più figli. Eppure si tratta di una promessa ribadita nel programma del 2008. Ed è un provvedimento invocato non solo dall’Udc, ma ancora dalla Cisl, dalle Acli, da tutte quelle espressioni dell’associazionismo cattolico che hanno a cuore la condizione delle famiglie. Un governo che si mostra così sensibile al “pericolo” dell’invasione dei clandestini dovrebbe piuttosto interrogarsi sulla ragione che costrin-
ge gli italiani a fare sempre meno figli, al punto da rendere indispensabile il contributo di cittadini stranieri.
Evidentemente il partito che, grazie alla dissoluzione di An e alla rottura con l’Udc, detiene oggi la golden share nella maggioranza, la Lega appunto, è già riuscito a imporre l’oblio delle ragioni dei cattolici, al di là delle volgarità propagandistiche. Il presidente del Consiglio è immerso nella convinzione di non dover tenere conto delle richieste che arrivano da larghi settori dell’opinione pubblica e della società, e questo probabilmente grazie all’assoluta scomparsa di un dibattito politico degno di questo nome all’interno del suo partito. L’assoluta certezza di essere soli nell’esercizio del potere, Lega a parte, spiega probabilmente anche l’invio delle Frecce tricolori da un dittatore come Gheddafi che vorrebbe chiudere le ambasciate d’Israele in tutta l’Africa. Ma spiegazioni del genere vorremmo ascoltarle dal premier. Con la speranza che in questo Paese il potere non sia ormai convinto, come in Cina, di non dover rispondere più ad alcun interrogativo.
secondo assalto si è consumato nel corso del Meeting internazionale per l’amicizia fra i popoli di Comunione e Liberazione. La carica, frontale, era del tipo: «Le riunioni di questi economisti ricordano quelle dei maghi, e la nostra letteratura è piena di maghi, da Merlino a quello di Oz fino al mago Otelma. Maghi di ogni genere ma di poca capacità. Quel che colpisce è che nessuno di questi ha mai chiesto scusa o ammesso di aver sbagliato. Se ci fosse buonsenso da parte loro di star zitti per un anno o due ci guadagneremmo tutti!».
Difficile, se non impossibile, ignorare l’affronto subito. Una delle repliche più autorevoli è apparsa a firma del presidente di Unicredit-Banco di Roma, Paolo Savona, che dalle colonne del Messaggero ha scritto: « Questo giornale non dispone di maghi tra i suoi collaboratori, ma le previsioni dei suoi economisti, taluni molto autorevoli, sono risultate esatte». Per poi attaccare con dovizia di particolari il debito pubblico, che «può essere risolto soltanto cedendo il patrimonio dello Stato». Meno anglosassone Tito Boeri, che su Repubblica scrive lo scorso lunedì: «Il nostro Paese non ha fatto nulla per combattere la recessione.Tremonti chiede insistentemente agli economisti di tacere per coprire il fatto che non ha una politica economica. Siamo ormai a settembre e nulla è dato sapere sulla legge di Bilancio. Sembrerebbe che la Finanziaria sia un optional, pure in tempo di crisi, con un deficit destinato a superare il 5 per cento». Da parte sua, Spaventa ricorda a Tremonti su LaVoce che «in generale non ci si è accorti della crisi in arrivo, ma nessuno ha ascoltato gli economisti e i loro segnali». Difficile non mettere in relazione il durissimo scontro e la lista degli invitati di Cernobbio. Alcuni rumors provenienti dall’organizzazione del Forum parlano addirittura di un veto imposto dal ministro alla presenza dei suoi oppositori. Nel delicato e vanitoso mondo dell’economia, d’altra parte, è sempre più difficile assistere a un botta e risposta dalla viva voce dei protagonisti. Ora è necessario attendere l’intervento e gustarsi la risposta dei “maghi” dell’economia.
Savona: «Non esistono maghi, il ministro pensi al debito pubblico». Boeri: «Tremonti non ha una politica economica»
politica
pagina 4 • 3 settembre 2009
Il giornalismo fa schifo? Continua il giro d’opinioni sui vizi della stampa italiana, sempre più sospesa tra veleni e sfide politiche dopo il caso Feltri-Boffo
La fabbrica dei servi Carlo Rognoni: «Con Tangentopoli i media si consegnarono ai magistrati. Adesso il gioco è dimostrare che nessuno è pulito» di Francesco Lo Dico
Nuovo affondo legale di Berlusconi contro la stampa: nel mirino il quotidiano del Pd segue dalla prima Il caso Feltri-Boffo sembra ribadire che il giornalismo è sempre più malato. Conferma? Niente affatto. Il giornalismo non è malato per niente. È moribondo, a essere ottimisti. O meglio, morto. Ci descrive allora le cause del decesso? Diciamo che la professione ha sempre sofferto qui da noi di una patologia congenita che risponde al nome scientifico di “servilismo”. E che poi, a contatto con un ambiente colmo di bacilli ed eventi traumatici come quello che si è delineato nella lunga marcia dello Stivale verso il terzo millennio, la malattia ha prodotto effetti collaterali assortiti. Intendo dire che qui da noi i grandi giornali sono storicamente legati a doppio filo con gli interessi di influenti industriali. E che gli industriali hanno sempre avuto grande sollecitudine nei confronti della politica. Un gioco di specchi e di obiettivi comuni, che ha fatto della stampa nazionale un’ancella premurosa e servizievole, instancabile nel fare la spola tra i palazzi del potere e i consigli d’amministrazione. Finché l’«ancella» inciampò nel 1992. Inciampò senz’altro, ma si trattò di un
“
Il più delle volte gli stessi soggetti politici legano interessi pubblici a beghe personali: senza cultura morale, la cultura liberale nasce morta
”
lieve infortunio. Tangentopoli fu il più importante bivio del giornalismo italiano. Molti si illusero di avere imboccato la strada giusta, ma poi anche i più coraggiosi si riscoprirono timorosi di vagare nel buio. Solo in pochi casi l’azione della magistratura fu fiancheggiata dalla stampa italiana per amore di verità e sete di giustizia. Più spesso si trattò di semplice opportunismo, e così accadde che chiusi i lavori di ristrutturazione, i Palazzi del potere si ricompattarono e molti giornalisti si consegnarono mani e piedi al laccio della magistratura. Accade insomma che dopo aver inciampato, l’ancella sognò di alzarsi in piedi, ma si ritrovò in ginocchio. Uno snodo che ci porta dritti al 1994, giusto? Esattamente. La discesa in campo di Berlusconi e la successiva chiamata alla
«Il premier non ha problemi di erezione. Vogliamo due milioni dall’Unità» ROMA.
Prosegue la campagna (legale) d’autunno del capo del governo. Dopo la causa intentata contro le domande del quotidiano la Repubblica, adesso tocca a l’Unità. La direzione del quotidiano del Pd ha annunciato di aver ricevuto due citazioni per danni per un totale di due milioni di euro dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per il tramite del suo legale roFabio mano Lepri. Il capo del governo chiede inoltre la condanna a una pena pecuniaria di 200.000 euro ciascuna per il direttore responsabile Concita De Gregorio, per le giornaliste Natalia Lombardo e Federica Fantozzi, per l’opinionista Maria Novella Oppo e per la scrittrice Silvia Ballestra. La richiesta si riferisce a tutti i servizi dedicati allo scandalo sessuale che ha coinvolto il premier pubblicati sui numeri del 13 luglio e del 6 agosto del quotidiano: gli editoriali del direttore (intitolati «L’etica elastica» e «Iniezioni di fiducia»), i servizi di cronaca e i commenti. I due atti di citazione, lunghi complessivamente 32 pagine, contestano le critiche rivolte al premier a proposito della sua mancata partecipazione a impegni internazionali per la contemporanea partecipazione a incontri con la pros-
leva che i editori e quotidiani recapitarono a casa dei giornalisti, polarizzò uno scontro tra schieramenti già ampiamente innescato da quanti avevano subito l’onda giustizialista e quanti l’avevano cavalcata. La successiva ascesa del bipolarismo non fece altro che rivestire di colori politici livori e smacchi, ansie di vendetta e frustrazioni. E segnò gli anni a venire con quella guerra fratricida ingaggiata tra politica e magistratura, che ha trasformato il giornalismo in attività tribunizia. In luogo di processi e condanne che fanno giustizia sommaria di questo o quel nemico.
tituta Patrizia D’Addario. Viene anche giudicata diffamatoria la ricostruzione dei rapporti tra gli ambienti vicini al premier e le gerarchie vaticane affinché queste ultime assumessero un atteggiamento indulgente nei confronti del premier. «Diffamatoria», inoltre, è ritenuta dal premier la ricostruzione dei rapporti tra Rai e Mediaset in funzione anti-Murdoch. Poi viene indicata come «lesiva dell’onorabilità del premier» l’attribuzione del controllo dell’informazione in Italia e il suo abuso. Contestata pure la citazione di battute di Luciana Littizzetto a proposito dell’utilizzo, parte del premier, di speciali accorgimenti contro l’impotenza sessuale. La spiegazione dei legali, evidentemente, sembra fare un po’ di confusione tra cronaca, critica e satira; ma al tempo stesso si offre come forse involontario esempio di autocomicità. Dice il testo presentato dal legale di Berlusconi a proposito delle battute di Luciana Littizzetto che sono «affermazioni false e lesive dell’onore» del premier del quale, prosegue il legale, «hanno leso anche l’identità personale presentando l’on. Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione».
E da qui si arriva al caso Boffo. Una logica conseguenza? Una conseguenza della logica del Gattopardo. Ai tempi di Mani Pulite cambiò tutto perché niente, e soprattutto nessuno, cambiasse. Michele Serra, nella sua Amaca di oggi (ieri per chi legge, ndr) ha detto sulla vicenda la cosa più intelligente che ho sentito in proposito. «Esiste una sostanza politica, sotto il fango del caso Feltri-Bosso?», si chiede l’editorialista di Repubblica. Risposta: «Sì, esiste. È dimostrare che ognuno, in questo Paese, ha qualcosa da nascondere. E che questa specie di tara collettiva im-
La facciata del Palazzo di Giustizia di Milano, luogo simbolo dello scontro fra politica e magistratura ai tempi di Tangentopoli. Nelle foto piccole, altre due classiche immagini di quegli anni: il cappio agitato in Parlamento e Berlusconi al processo Sme. Qui a sinistra, il premier e la direttrice de ”l’Unità” Concita De Gregorio. Nella pagina a fianco, Carlo Rognoni e Benedetto XVI
pedisce a chiunque di giudicare chiunque». Una visione della realtà disperata e opinabile, che però esprime una tara sostanziale di questo Paese: l’inattendibilità etica. Ladri tutti, ladro nessuno? È la tesi del direttore de Il Giornale. Ma la cupezza di una simile visione non deve essere accettata supinamente perché, come già accaduto in altri frangenti, trasforma il giornalismo e l’opinione pubblica in una professione di fede verso la laidezza. Ho provato qualcosa di simile sulla mia pelle, quando ero nel consiglio di amministrazione della Rai. Allora scoppiò il caso Vallettopoli, ma la cosa che più mi soprese non fu il fenomeno in sé. Furono quelli che mi dissero: «Ma lo fanno tutti, che c’è di strano?». In Italia assolutamente niente. Sarà proprio questo che ci rende un Paese particolare? L’inattendibilità etica diffusa è in effetti uno dei principali ostacoli a che una stampa possa dirsi davvero libera. La presenza di avventurieri e loschi figuri nelle redazioni come in politica, produce il risultato di rendere in ogni momento ricattabile la ricerca dei fatti e l’inseguimento della verità. Perché la stampa possa assolvere al meglio le sue funzioni democratiche, deve essere priva di condizionamenti e scevra da contaminazioni. È questo che traccia un solco abissale tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove la scoperta della menzogna porta immancabilmente alle dimissioni di chi infrange il patto di lealtà contratto con i cittadini. Da noi la bugia è
politica
3 settembre 2009 • pagina 5
Benedetto XVI si sofferma sull’attualità dell’abate di Cluny
«Umiltà contro i vizi» La Santa sede attacca: «Feltri fomenta il caos» di Andrea Ottieri
CITTÀ
DEL VATICANO. «Smentisco nel modo più categorico questa infondata affermazione: viene il sospetto che vi sia una intenzione di fomentare confusione diffondendo false accuse». È durissima la replica del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, «in risposta a quanto riportato da agenzie di stampa, secondo le quali il dottor Feltri avrebbe dichiarato, nel corso di una trasmissione radiofonica, che la velina diffusa sul caso Boffo proverrebbe dalla Gendarmeria Vaticana». Le parole di padre Lombardi arrivano poche ore dopo che papa Benedetto XVI - con evidenti riferimenti alla cronaca politica italiana di questi giorni - che ieri mattina era tornato a presiedere l’udienza generale nell’aula Paolo VI in Vaticano.
deli del suo tempo», precisando che «nonostante il realismo della sua diagnosi, Oddone non indulge al pessimismo». «La misericordia divina è sempre disponibile», ha detto il Papa, perché «Dio persegue le colpe e tuttavia protegge i peccatori. In questo modo, il vigoroso ed insieme amabile abate medioevale, appassionato di riforma, con azione incisiva alimentava nei monaci, come anche nei fedeli laici del suo tempo, il proposito di progredire con passo solerte sulla via della perfezione cristiana. La concordia tra i re e i principi, l’osservanza dei comandamenti, l’attenzione ai poveri, l’emendamento dei giovani, il rispetto per i vecchi»: queste, ha detto il Papa, oltre alla «virtù della pazienza», le «grandi aspirazioni» di Oddone, che nel 927 divenne il secondo abate di Cluny, il centro di vita spirituale dal quale «poté esercitare un vasto influsso sui monasteri del Continente», in particolare tramite «il sorprendente diffondersi in Europa della vita e della spiritualità ispirate alla Regola di San Benedetto».
Il Pontefice ha anche ricordato i 70 anni dalla guerra: «Ora più comunione in Europa e nel mondo intero»
solo una simpatica canaglieria da minimizzare con il sorriso alla bocca. Tutta colpa di una generale assuefazione alla menzogna? Non solo. Il degrado della carta stampata risponde anche a logiche di mercato che l’avvento della rete ha esasperato. Tony Blair scrisse qualche tempo fa che la notizia è diventata da qualche tempo una commodity, ossia un bene assolutamente standardizzato e alla portata di chiunque in ogni luogo del mondo. E il fatto che la notizia sia diventata attingibile in mille maniere diverse, ha sottratto alla stessa tutto il suo valore differenziale su cui i quotidiani costruivano le loro fortune. Ciò che ormai caratterizza l’informazione è il valore aggiunto al fatto arcinoto. Il modo di presentarlo e accompagnarlo. Una strategia comunicativa che in molti casi premia la scelta dell’aggressività e della polemica incendiaria, della dichiarazione choc e del commento esacerbato. E d’altra parte, sia al Giornale, che a Repubblica, nessuno fa mistero che le ultime piccanti vicende abbiano regalato ai due quotidiani quanto mai graditi record di vendite. E di certo, in questo flusso di notizie che dicono tutto e il contrario
di tutto, c’è pure la “commodity”di poter raccontare nei propri articoli la storia che più si preferisce. Senz’altro. La ricostruzione dei fatti è oggi sempre più slegata dalla verifica della fonte, e assai renitente all’incrocio delle fonti stesse. Si fa più in fretta, e con risultati molto più soddisfacenti, nel sostenere le proprie tesi tramite una selezione parziale di elementi utili a portare avanti il proprio discorso. Effetti del pluralismo all’italiana, o solo la lezione di una «cattiva maestra» chiamata televisione? Bisogna ammettere che certi modi di fare informazione, farciti di velleità giornalistiche ma votati all’intrattenimento, hanno cambiato il modo di fare comunicazione in maniera professionale, ma soprattutto la maniera di percepire il reale. Con il risultato che anche i telegiornali abbondano di coriandoli e orpelli, ma soprattutto di silenzi. Ostellino spiega che la crisi della stampa italiana, è legata tra l’altro al deficit di un’autentica cultura liberale. Condivide? È un altro ottimo spunto di riflessione. È chiaro che in un panorama come quello italiano, viziato da quella tara collettiva che è l’inattendibilità etica, sia difficile resistere alla tentazione di lasciare da parte la vita privata di ciascuno. E visto che il più delle volte sono gli stessi soggetti politici a legare inestricabilmente interessi pubblici a beghe personali, la faccenda si complica. Senza cultura morale, la cultura liberale nasce morta.
Di fronte alla «vastità dei vizi» diffusi nella società, secondo il Pontefice, il «rimedio» da proporre «con decisione» è quello di «un radicale cambiamento di vita, fondato sull’umiltà, l’austerità, il distacco dalle cose effimere e l’adesione a quelle eterne». Benedetto XVI ha preso spunto dalla figura di Sant’Oddone, abate di Cluny, nato verso l’880 e morto nel 942 e ha portato ad esempio le sue principali virtù: «Umiltà, austedistacco rità, dalle cose effimere e adesione a quelle eterne». Nella prima udienza di settembre, papa Ratzinger ha ripreso le sue catechesi dedicate ai grandi scrittori della Chiesa del Medioevo di oriente e di occidente, «dal cui esempio capiamo cosa vuol dire essere cristiano». Esempio che, colmata la distanza storica, propone ai fedeli laici di adottare ancor oggi i suoi insegnamenti e «progredire con passo solerte sulla via della perfezione cristiana». Ratzinger ha definito Sant’Oddone «una vera guida spirituale sia per i monaci che per i fe-
Poi, il Papa ha ricordato i 70 anni dall’inizio della seconda guerra mondiale, celebrati ieri l’altro da molti leader occidentali a Danzica. «Nella memoria dei popoli rimangono - ha detto Benedetto XVI - le umane tragedie e l’assurdità della guerra. Chiediamo a Dio che lo spirito del perdono, della pace e della riconciliazione pervada i cuori degli uomini. L’Europa e il mondo di oggi ha concluso il Papa nei saluti in lingua polacca - hanno bisogno di uno spirito di comunione. Costruiamola su Cristo e sul suo Vangelo, sul fondamento della carità e della verità».
diario
pagina 6 • 3 settembre 2009
Pandemia. Due casi gravi (uno a Napoli e uno a Monza): il 18 ottobre vertice europeo sulla nuova febbre
Virus, è scoppiata la paura Il governo: scuole aperte, ma bisogna vaccinare tutti i ragazzi di Francesco Capozza segue dalla prima Il prossimo 12 ottobre si terrà, probabilmente a Bruxelles, un incontro straordinario dei ministri della Sanità dei Ventisette per analizzare l’evoluzione della pandemia dell’influenza A, la cosiddette febbre suina. Ad annunciarlo, per la presidenza di turno Ue, è stato il ministro della sanità svedese Maria Larsson, nel corso di un incontro con il Parlamento Europeo a Bruxelles. A metà settembre il commissario europeo competente, Androulla Vassiliou, presenterà un documento su come combattere la pandemia. Al tavolo dei ministri 12 ottobre si parlerà di vari aspetti, come l’accesso ai vaccini, la vaccinazione per alcuni Paesi europei meno preparati e la solidarietà internazionale. «Nessuno stato membro - ha detto Vassiliou può evitare di essere colpito dalla nuova influenza, ma tutti i paesi sono ben preparati».
Nel nostro Paese, intanto, si accentuano i timori per il contagio dopo che ieri due casi gravi - uno a Napoli, l’altro a Monza - sono stati segnalati dalle autorità sanitarie. In un primo momento, poco prima dell’ora di pranzo, era stata addirittura diffusa la notizia che il paziente ricoverato all’ospedale Cotugno di Napoli fosse deceduto. Poco dopo è arrivata la secca smentita dei
situazione clinica, per il resto, è invariata. Le sue condizioni rimangono critiche e la prognosi rimane riservata».
Nel pomeriggio di ieri, poi, si è svolta una riunione straordinaria tra i vertici del ministero della Salute e numerosi rappresentanti delle regioni. All’ordine del giorno proprio la messa in opera delle opportune misure per contrastare il virus della cosiddetta “febbre suina”. «L’apertura delle scuole non sarà ritardata». Lo ha detto Giuseppe Cosentino, capo del Dipartimento istruzione, entrando nella sede del mi-
Gli specialisti continuano a ripetere che «solo i soggetti con problemi cardiaci e respiratori rischiano complicazioni derivanti dall’infezione». È il caso dei due contagiati in condizione critiche sanitari del nosocomio in cui l’uomo è ricoverato: D.G., 51 anni, napoletano, ha un quadro clinico molto critico, ulteriormente complicato dal sopraggiungere, nel primo pomeriggio di ieri, di una «broncopolmonite con sepsi da stafilococco aureo». A Monza, invece, restano critiche le condizioni di Fabio F., il 24 enne ricoverato all’ospedale San Gerardo di Monza per una polmonite in seguito dall’influenza A. «Il paziente, affetto da insufficienza respiratoria acuta - si legge nel bollettino della direzione sanitaria monzese - ha presentato nella giornata di ieri segni di possibile sovrainfezione polmonare. La
nistero della Salute, dove si è svolta la riunione dell’Unità di crisi tra il viceministro alla Salute Ferruccio Fazio, le Regioni, le associazioni dei pediatri, dei medici di base e dei pronto soccorso. «Allo stato attuale - ha aggiunto Cosentino non c’è nessuna emergenza e dunque per il momento non si parla di apertura ritardata delle scuole». Sul registro delle presenze dell’incontro figurano le firme dei rappresentanti della sanità di tutte le Regioni, tranne la Val D’Aosta. Tra le organizzazioni dei medici partecipano alla riunione Fimp, Fimmg, Snami, Smi, Simg, Assimefac, Sip, Sitip, Cipc e Intesa sindacale.
Parla il farmacologo Silvio Garattini: «Allarmismi inutili»
«Niente drammi, è solo influenza» di Gabriella Mecucci
ROMA. Ci sono due persone in fin di vita a causa dell’influenza H1N1, ne parliamo con il farmacologo Silvio Garattini. Professore, siamo tutti a rischio? Questa è una banale influenza. Certo, se ad ammalarsi sono soggetti affetti da altre malattie, può accadere che rischino la vita. Un cardiopatico grave è in pericolo sempre, qualsiasi virus influenzale contragga. Ma potrebbe essere utile chiudere le scuole? Non è una soluzione. E poi quando dovremmo chiuderle? Prima ancora di aprirle? Oppure quando si manifestano i primi casi, ma allora sarebbe tardi per evitare la diffusione del virus. Naturalmente possono esserci delle sitruazioni particolari che richiedono di chiudere singole scuole, ma non generalizziamo. Dobbiamo prendere farmaci anitivirali? No, l’effetto è modesto. Quanto al vaccino dobbiamo averlo perché potrebbe essere utile, ma sarebbe imprudente cominciare prima che siano finiti gli studi ormai avviati dal governo americano, studi utili a capirne l’efficacia, a
stabilire come somministralo e a valutare gli eventuali effetti negativi. Intanto cosa si può fare? Lavarsi spesso le mani, coprirsi naso e bocca in caso di tosse e starnuti. Se ci sono sintomi che ricordano l’influenza stare a casa. Insomma, tutte le tradizionali precauzioni. Nulla di più. Continua a sdrammatizzare, eppure c’è in giro una paura montante... I media ne parlano in contnuazione. Guardi che anche l’anno scorso ci sono state delle persone che hanno rischiato di morire dopo aver contratto l’influenza, ma non cìè stata alcuna campagna stampa. Non può essere sempre colpa dei giornali. Se circolano informazioni allarmanti qualcuno le mettte in giro. Non se le inventano i giornalisti.. Certo, ci sono anche parecchi interessi e non solo di chi produrrà l’eventuale vaccino, ma più in generale dell’industria farmaceutica. E persino di quelli che producono mascherine. Detto questo, è sempre giusto che ci sia un alto livello di attenzione e di vigilanza. Senza esagerare però.
Si moltiplicano, nel frattempo, gli inviti a mantenere la calma, come pure le raccomandazioni degli specialisti, che invitano comunque alla prevenzione e a sottoporsi agli opportuni vaccini. «I soggetti con problemi cardiaci e respiratori sono quelli che più rischiano complicazioni derivanti dall’infezione del virus dell’influenza A». Lo ha detto ieri Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università di Milano: «Anche i giovani, come si è visto, possono essere in qualche modo colpiti dalle forme più pesanti addirittura causa di una iperreattività quando il virus, nei casi più sfortunati, raggiunge la parte più profonda dell’organismo a livello polmonare». Complicanze che comunque, secondo Pragliasco, nella stragrande maggioranza dei casi possono essere risolte «se affrontate per tempo».
Nel frattempo l’allarme si moltiplica anche a livello internazionale. La morte di 14 persone in una settimana porta a 193 il numero complessivo di decessi provocati dall’influenza A in Messico. Lo ha reso noto ieri il ministero della Salute messicano, informando che il numero dei contagiati dal virus A/H1N1 è di 21.857. Lo Stato meridionale del Chiapas, tra i più poveri del paese, registra il numero più alto di casi. Recentemente, il ministro della Salute Jose Angel Cordova, ha previsto per il prossimo inverno un milione di nuovi casi di influenza A.
diario
3 settembre 2009 • pagina 7
Di questi 6 donne, quattro delle quali incinte, e due bambini
Aumento di capitale da 150 milioni e prestito da 350
Malta soccorre un gommone con a bordo cento somali
Risanamento: le banche firmano il piano di salvataggio
ROMA. Nuova operazione di recupero di un’imbarcazione di immigrati clandestini. Questa volta a soccorrere un gommone con a bordo 96 somali - di cui 26 donne, quattro delle quali incinte, e due bambini - sono state le forze armate maltesi. Secondo quanto riferito da fonti de la Valletta, a raccogliere l’sos lanciato due giorni fa dagli immigrati, tutti privi di giubbotti di salvataggio, era stato l’Alto commissariato per i rifugiati Onu di Malta, a sua volta allertato dall’organizzazione non governativa Jesuit Refugee Service. Le autorità maltesi sono quindi riuscite a contattare il natante, localizzato due sere fa a circa 75 miglia nautiche da Lampedusa, e a intervenire, nonostante una prima ricognizione non avesse prodotto risultati. Un portavoce della Marina militare maltese ha precisato che con le condizioni meteo in rapido peggioramento, in particolare con il mare forza cinque e donne incinte a bordo, il natante stava imbarcando acqua. Gli immigrati, le cui condizioni di salute sono generalmente positive, sono stati trasferiti sull’isola per l’identificazione.
MILANO. Le banche creditrici
L’episodio è tutt’altro che isolato, come dimostrano i più recenti fatti di cronaca e la questione del controllo delle
La strategia delle Acli dal lavoro alla famiglia Seminario a Perugia per parlare di «nuovi cittadini» di Marco Palombi
ROMA. «Cittadini in-compiuti». È questo il titolo del 42esimo incontro di studio delle Acli che si terrà da oggi venerdì a Perugia. Tre giorni per declinare il tema caldo della cittadinanza «nella sua interezza», dice a liberal il presidente Andrea Olivero. Motivo? «Pensiamo semplicemente che sia decisivo per il nostro stare insieme e non solo per gli stranieri, ma anche per quelle categorie - giovani, donne, famiglie – che incontrano non poche difficoltà sulla strada del pieno riconoscimento dei loro diritti». Le proposte che le Acli sottoporranno al Paese sono diverse: una nuova legge sulla cittadinanza, il quoziente familiare, il completamento della legge Biagi. A segnare una «particolare sintonia» sul primo tema, oggi al convegno ci sarà anche Gianfranco Fini: «Noi chiediamo che la legge contemperi l’attuale ius sanguinis – sono italiani i figli di cittadini italiani – con lo ius soli (è cittadino italiano chi è nato in Italia) e il dimezzamento, a cinque anni, dei tempi per poter avviare la pratica». Questo però «non per svilire la cittadinanza, ma per rafforzarla: secondo noi tra i requisiti per l’ottenimento deve esserci la conoscenza della lingua italiana e quella dei principi fondamentali della nostra convivenza inseriti nella Costituzione».
mento biologico, le posizioni sono distanti e lo resteranno, ma in prospettiva dobbiamo superare pregiudizi e steccati. Non mi pare che il laicismo di questi ultimi anni abbia fatto un buon servizio al Paese».
I diritti di cittadinanza, però, non sono solo un passaporto. «Va completata la Biagi – spiega Olivero - In questi anni, a fronte di una grande avanzata del lavoro atipico - con un danno rilevante per le giovani generazioni - i diritti sono rimasti incollati al vecchio posto di lavoro a tempo indeterminato. Noi chiediamo allora che la titolarità dei diritti passi dal posto alla persona attraverso un sistema di tutele che garantisca continuità ai contributi previdenziali, alla progressione di carriera, alla formazione e preveda agevolazioni per le assunzioni stabili». Altra priorità è il quoziente familiare, che «era pure nel programma del Pdl prima che lo sbianchettassero»: d’altronde agire a livello fiscale «è l’unico modo in cui lo Stato può riuscire a“vedere”le famiglie». Si dice che farlo costerebbe troppo, ma è anche vero che «siamo gli ultimi in Europa per i sostegni alla famiglia: si può procedere gradualmente, ma serve coraggio». Gli sgravi fiscali per i figli, peraltro, sanano una vera ingiustizia: «Ora si tassa un reddito che per le famiglie è indisponibile: chi ha un figlio infatti non può che spendere quei soldi nella crescita e nell’educazione del bambino». Infine, quanto alle guerre mediatiche di questi giorni, Olivero parla senza mezzi termini di «campagna intimidatoria»: «Non mi appassiona sapere se Berlusconi abbia o no parlato con Feltri prima, il fatto è che Feltri era appena tornato al Giornale godendo della fiducia del premier. Non dimentichiamo poi che l’articolo iniziava dicendo “partiamo da Boffo”. Non è una cosa da poco: lasciando stare i troppi slogan anti-berlusconiani di questi anni, così si mette davvero a rischio la libertà». Quest’estate, tra gli attacchi leghisti e le tensioni di questi giorni, «sono venuti al pettine le difficoltà di rapporto tra Pdl e Chiesa: questo è un vulnus, una mancanza di rispetto che non può essere dimenticata».
Il presidente Andrea Olivero: «Legge Biagi e nuove regole di cittadinanza. Su questi temi si misura il nostro futuro»
frontiere sud è sempre più al centro del dibattito in seno all’Unione europea, cui si chiede - soprattutto da parte italiana, ma non solo - maggiore condivisione delle responsabilità nel far fronte al fenomeno immigratorio. L’ultimo caso di salvataggio di un barcone risale a meno di una settimana fa, quando un pattugliatore della guardia di finanza ha soccorso un barcone con a bordo 57 immigrati, al largo di Lampedusa. A bordo sono stati trovati giubbini di salvataggio in uso alla Marina militare di Malta. L’operazione è stata filmata da una motovedetta maltese che aveva “scortato” il battello fino al limite delle acque territoriali.
di Risanamento hanno firmato il piano di salvataggio del gruppo immobiliare gravato da circa 3 miliardi di euro di debito. Lo hanno riferito ieri alle agenzie di stampa fonti vicine all’operazione. Intesa, Unicredit, Banco Popolare, Bpm e Mps hanno infatti sottoscritto il piano che prevede un aumento di capitale da 150 milioni e un prestito da 350 milioni dopo una riunione che si è tenuta nello studio legale Lombardi-Molinari di Milano. Alla riunione hanno partecipato anche il presidente di Risanamento,Vincenzo Mariconda, il suo vice Umberto Tracanella e il fondatore della società Luigi Zunino. Con la firma del
Insomma, insiste Olivero, servono «pur non volendo concedere la cittadinanza a chiunque, servono regole chiare e trasparenti». D’altronde «aprirsi all’esterno è il modo stesso in cui l’italianità si è manifestata nella storia. L’apertura è un valore fondante della nostra civiltà, ed è curioso che oggi, a ergersi a difensori dell’italianità, ci siano i leghisti che ritengono che l’Italia tutto sommato non abbia ragion d’essere». Parole di miele per Fini, a cui però le Acli sottoporranno pure «qualche spunto di riflessione». In particolare riguardo alla laicità «il nostro invito al presidente della Camera è: “non avere paura”. Fini, come tutti i laici, deve avere fiducia nei cattolici impegnati in politica: non sono una lobby, hanno al contrario dimostrato nei decenni di lavorare avendo come fine il bene comune». È evidente che «nel breve periodo, ad esempio sul testa-
piano si supera l’ultimo passaggio formale sulla strada per il via libera della Consob all’esonero dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto il cui rilascio sarebbe previsto, a questo punto, per oggi.
Martedì il tribunale di Milano aveva spostato il termine per il deposito del piano di salvataggio dal primo al 9 settembre proprio per permettere al pool di banche di avere la certezza di non dover lasciare l’opa. Le banche, infatti, dopo l’aumento di capitale salirebbero a oltre il 50 per cento del capitale di Risanamento: la legge prevede invece l’obbligo di opa già al superamento della soglia di possesso del 30 per cento del capitale di una società. L’ottimismo sulla delibera della Consob è confermata anche da indiscrezioni che arrivano da fonti presenti al tavolo dell’accordo. Il piano da circa 760 milioni di euro (ai 150 di aumento di capitale e 350 milioni per il prestito, bisogna aggiungere altri 260 milioni per la garanzia del bond in scadenza al 2014) passa attraverso le dismissioni dell’ex Area Falck e del portafoglio trading, oltre che nella ricerca di un partner di minoranza per il complesso immobiliare in costruzione nell’area di Santa Giulia.
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il caso Rivalità. Il capo del governo e l’industriale sono in rotta di collisione da decenni: e la loro guerra ha finito per ingessare la vita dell’intero Paese
Silvio e Carlo
Storia ultradecennale di un conflitto tutto italiano fatto di affari, giornali, processi e armistizi mancati di Maurizio Stefanini rande antagonista sia del ricco per eredità Gianni Agnelli che del tycoon fai-da-te Silvio Berlusconi, Carlo De Benedetti appartiene a una terza categoria in qualche modo intermedia: figlio di un piccolo industriale, poi però cresciuto ulteriormente. In più, col tratto cosmopolita dell’origine ebraica, che provocò alla famiglia durante il fascismo una serie di peripezie su cui sua nuora ha pure scritto un romanzo. E le stesse peripezie sono state ora tirate in ballo dal direttore di Repubblica Ezio Mauro, a proposito dell’ultimo affondo di Berlusconi: «De Benedetti ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse».
G
Carlo, classe 1934, è abbastanza dentro alla buona società da essere compagno di studi di Umberto Agnelli. Ma il padre non è mai andato oltre i tubi: la Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili, fondata da Rodolfo De Benedetti nel novembre 1921 con capitali in parte tedeschi. Laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1958 al Politecnico di Torino, comincia a lavorare nell’impresa di famiglia. E non è che nel 1972 che assieme al fratello Franco, futuro senatore, acquisisce la Gilardini: una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli trasformeranno in una holding di successo, impiegata soprattutto nell’industria metalmeccanica. Presidente e amministratore delegato della Gilardini, nel 1974 Carlo è nominato presidente dell’Unione Industriali di Torino. E nel 1976, grazie all’appoggio del vecchio compagno di scuola Umberto Agnelli, ottiene la carica di amministratore delegato della Fiat. Come ”dote” porta con sé il 60% del capitale della Gilardini, che cede alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5%). De Bene-
detti cerca di svecchiare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli, a cominciare dal fratello Franco, alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo appena quattro mesi deve abbandonare la carica. Motivazione ufficiale: “divergenze strategiche”. Ma quel che c’è sotto davvero non si sa. Alcuni parlano di una semplice incompatibilità con Romiti. Altri che la parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli avrebbe scoperto un tentativo dei De Benedetti di scalare la società, appoggiati da gruppi finanziari elvetici (ancora la Svizzera…). Forse non è vero. Ma corrisponde comunque alla leggenda nera su De Benedetti, inquieto protagonista
Tutto cominciò con la sfida per la conquista della Sme, colosso pubblico dell’alimentazione, ma è per il controllo di Mondadori che i due finirono in tribunale di arrischiate scalate che vanno sempre a finire male. Anche se lui ha l’abilità di uscirne fuori sempre con le tasche piene.
D’altra parte, è proprio con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat De Benedetti può rilevare le Compagnie industriali riunite (Cir), garantendo loro il controllo azionario del quotidiano la Repubblica e del settimanale L’Espresso. E qui inizia invece la leggenda opposta: quella “bianca” del De Benedetti miliardario illuminato e generoso finanziatore della stampa progressista. Successivamente vede la luce anche Sogefi: operante sulla scena mondiale nei componenti per autoveicoli, ne sarà presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. E nel 1978 entra in Olivetti: altra impresa dalla fama di progressismo, anche per la fede socialista del fondatore Camillo Olivetti e per gli arditi espe-
rimenti di ingegneria sociale che il figlio Adriano fece a favore dei suoi operai. Ma Davide Cadeddu, nella sua biografia di Adriano Olivetti, ha sparato a zero su quanto «successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunse Carlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto di essi disseminò fuori di sé».
Ed ecco qui altri due risvolti della leggenda nera di De Benedetti. Primo: il padrone delle ferriere nel senso più deteriore del termine che si dipinge come progressista e finanzia la sinistra per ripulirsi l’immagine. Secondo: il comodo bersaglio polemico che chi non è a sinistra può ritorcere contro i partiti dei moralizzatori, della serie: «ma perché non guardate alle travi negli occhi vostri?». È però pure vero che quando nel 1978 ne diventa presidente, la Olivetti è un’azienda dal nome sì glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. De Benedetti pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Nel 1984 la Olivetti ingloba l’inglese Acorn Computers. Finché nell’aprile del 1985 Romano Prodi non presenta a sorpresa De Benedetti come azionista di maggioranza della Sme: il fiore all’occhiello dell’industria agro alimentare italiana, definita dallo stesso Prodi «Perla del gruppo Iri», e che spazia da Motta e Alemagna a Bertolli, supermercati Gs e Autogrill. La bontà dell’operazione è stata curiosamente difesa dai giustizialisti Gomez e Travaglio: «Berlusconi s’interessò della Sme nel 1985 su richiesta di Craxi che voleva ostacolare l’acquisto dell’azienda da parte della Buitoni del suo nemico Carlo De Benedetti. L’azienda pubblica fu valutata dagli alleati del Cavaliere, Barilla e Ferrero, rispettivamente 10 e 30 miliardi di meno della cifra pattuita da Iri e Buitoni sulla base di due perizie indipendenti commissionate a due esperti della Bocconi. E Berlusconi, quando rilanciò, offrì prima 550 miliardi (appena il 10% in più di De Benedetti, il minimo rilancio possibile) e poi 600. Se davvero, già all’epoca, valutava la Sme 2500 miliardi, non resta che concludere che anche lui voleva
il caso rale. In sordina era stato venduto il 64% della Sme per 497 miliardi (pagabili a rate). La società aveva una cassa attiva per 80 miliardi di lire (40 milioni di Euro) e utili (nel 1985) per 60. Inoltre al pacchetto di maggioranza della società non veniva applicato il premio di maggioranza per il controllo della stessa. Se consideriamo che la Sme aveva una capitalizzazione di 1.300 miliardi è facilmente comprensibile come il controllo azionario della società passava di mano per una cifra notevolmente inferiore a quanto fissato dal valore di mercato».
Dall’alto, Marcello Dell’Utri, Eugenio Scalfari, Fedele Confalonieri e Ezio Mauro: scudieri dei duellanti Berlusconi e De Benedetti
È a quest’epoca che alla rivalità con Agnelli si aggiunge quella con Berlusconi, trascinato da Craxi in reazione alla linea anti-Psi dei giornali editi da De Benedetti. E che poi non deriva in realtà probabilmente da interessi particolari dello stesso De Benedetti, ma all’ideologia di quel partito dei moralizzatori di cui Scalfari è un leader. Intanto, le toccate e fughe continuano. All’inizio degli anni Ottanta De Benedetti è già entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, guidato allora dall’enigmatico presidente Roberto Calvi. Con l’acquisto del 2% del capitale, De Benedetti ha ricevuto la carica di vicepresidente del Banco: funzione puramente onoraria e a cui non era collegata alcuna attività
Nel 2005, un improvviso tentativo di accordo fra i due fu tempestato di critiche da ogni parte politica, al punto che la società congiunta morì ancora prima di nascere di gestione effettiva. Dopo appena due mesi, cede la sua quota azionaria. Ma comunque è riuscito a incrociare anche la torbida vicenda del banchiere poi trovato impiccato al Ponte dei Frati Neri di Londra.
rapinare lo Stato. Altro che medaglia d’oro. Il fatto poi che 10 anni dopo la Sme sia stata venduta per 2000 miliardi dipende da altri fattori: l’inflazione; il boom del settore alimentare; il fatto che la società fu ceduta a pezzi e nel frattempo era stata risanata dall’Iri (mentre nel 1985 era un carrozzone fortemente indebitato); e soprattutto il fatto che ne fu ceduto il 100%, mentre nell’85 la Buitoni offrì 500 miliardi per rilevarne soltanto il 64,3%. Prodi non svendette nulla, e infatti fu prosciolto all’epoca dal Tribunale di Roma che indagava sull’affare». Un altro, più corrente punto di vista è invece quello espresso dalla Wikipedia in italiano: «La vendita è incomprensibile sia da un punto di vista economico che da un punto di vista procedu-
Sempre a metà degli anni Ottanta De Benedetti tenta l’opa sulla Société Générale du Belgique dei Lippens, mossa che lo proietta definitivamente all’attenzione dei mass-media, tra i figli degli emigranti italiani già ultima ruota del carro in Belgio che dicono di voler fare collette per aiutare la rivincita di quel loro connazionale, e le battute di un Beppe Grillo ancora non trasfigurato in profeta dell’antipolitica: «Ma guarda un po’, quello esce di casa e si compra il Belgio. Ve l’immaginate? Ciao cara, esco un attimo di casa che vado a comprare il Belgio. Bravo. Già che ci sei, mi passi anche dal fornaio e mi prendi un chilo di sfilatini?». Ma Gianni Agnelli gli si mette invece di traverso, così come ha fatto Berlusconi con Sme. Lo aiutano Banque Lazard e Etienne D’Avignon, che poi diven-
terà consigliere d’amministrazione della Fiat. Segue l’altro grande scontro tra Berlusconi e De Benedetti del 1988-90, quando i due si danno battaglia per la Mondadori. Il Pci e il partito dei moralizzatori di Scalfari tifano per De Benedetti, nel timore che la vittoria di Berlusconi porti sotto il controllo di Craxi le tre testate che sono la loro tradizionale artiglieria: il quotidiano Repubblica e i settimanali L’Espresso e Panorama. I moderati della Dc e Craxi cercano invece di sostenere Berlusconi. Alla fine, la soluzione salomonica la trova Giuseppe Ciarrapico: re delle acque minerali, e mediatore con un curioso pedigree addirittura di destra. De Benedetti dunque conserva il gruppo Repubblica-Espresso; Berlusconi resta con la Mondadori, Panorama e Epoca (che ben presto peraltro dovrà chiudere). Un pari e patta che però fa cambiare di campo una testata stoica del partito moralista come Panorama, e lancia definitivamente a sinistra l’allarme sul Cavaliere. Infatti, a Tangentopoli iniziata, De Benedetti cerca di accreditarsi come l’imprenditore “pulito” e “favorevole al nuovo”, tant’è che quando nel 1993 Berlusconi annuncia clamorosamente che al ballottaggio per il sindaco di Roma voterebbe Gianfranco Fini lui subito fa sapere che invece sceglierebbe Francesco Rutelli.
A questo punto comincia però ad andare male anche Olivetti. E De Benedetti la lascia infatti nel 1996, pur rimanendone presidente onorario fino al 1999, poco dopo aver fondato la Omnitel in seguito alla concessione di telefonia cellulare alternativa a Tim ottenuta dal governo Ciampi, battendo la concorrenza di un consorzio con Fiat e Fininvest e dell’americana Pactel. Al vertice Olivetti verrà proiettato il ragioniere Colaninno, che poi darà la scalata al “nocciolino” Agnelli della Telecom, ribadendo ancora una volta il principio della rotta di collisione tendenziale tra ciò che è targato De Benedetti e ciò che è targato Agnelli o Berlusconi. È tanto più sorprendente, dunque, quando nel 2005 riceve da Silvio Berlusconi un consistente contributo per un fondo finanziario comune destinato al recupero delle imprese in difficoltà. Ne segue una tempesta di reazioni e insinuazioni tali, che è costretto a declinare l’offerta. Ma comunque si è stabilito con Berlusconi un nuovo clima di possibile intesa che si ripercuote probabilmente da un lato nella nuova linea possibilista del Partito Democratico. Dall’altro, nella comparsa dello stesso De Benedetti in quella specie di lista nera pubblicata da Barbacetto, Gomez e Travaglio in appendice al loro Mani Sporche. A quest’epoca risale anche una specie di campagna di Vittorio Feltri su Libero, per
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lanciare De Benedetti come leader del Partito Democratico. Infine, lo scorso gennaio De Benedetti annuncia il prossimo ritiro dalla guida del suo impero industriale. «Una carriera di alto profilo e talora controversa» scrive il Financial Times. «Raro contrappeso alla crescente influenza di Berlusconi sui media e sulla politica italiani», è l’opinione del Wall Street Journal. Entrambi i giornali però avvertono: anche in pensione De Benedetti si riserva il potere di nominare i direttori di Repubblica e Espresso, dunque «continuerà a influenzare la vita pubblica italiana da una posizione privilegiata». E infatti, dalla vicenda Papi in poi lo scontro tra i due eterni duellanti è tornato al calor bianco.
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Il caso. Azione giovani non invita l’ex capo alla festa di “Atreju”. Che apre i battenti con Silvio Berlusconi
Gli ex rampolli di An scaricano Fini di Antonella Giuli giovani di Alleanza nazionale, o quel che ne rimane dopo la liquefazione nella più variopinta famiglia del Popolo della libertà e della Giovane Italia, prendono una decisione che stupisce e che ricorda (ma solo timidamente) i tempi belli degli anni passati, quando le organizzazioni dei“pulcini” battevano più di un colpo in termini di attivismo autonomo e libero dalle logiche e dai diktat dei propri vertici di partito. Per la prima volta infatti, l’ex leader di An e attuale presidente della Camera Gianfranco Fini non parteciperà neanche di striscio alla nuova edizione di “Atreju”, la consueta festa nazionale dei suoi rampolli di Azione giovani, che ogni anno in settembre accoglie i massimi esponenti del mondo della politica. Ma la notizia più interessante è che Fini
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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
non andrà perché a puntare i piedi sono stati proprio i suoi ragazzi di quella che fu Ag: ordine di scuderia, pare, non fargli neanche pervenire l’invito.
A farsi un giro d’opinioni tra quadri e dirigenti del movimento, i commenti sono perlopiù identici sull’assenza dell’ex ca-
da tutti. O meglio, non tutti credono che la scelta di fare fuori il presidente della Camera sia stata dettata «da una pura, manifesta e genuina distanza che si è voluta prendere soprattutto dalle ultime dichiarazioni di Fini» (alla festa del Partito democratico a Genova, ndr). C’è infatti dentro la nuova organizzazione
Tutti contenti i dirigenti del movimento che oggi si chiama Giovane Italia: «Quello là non lo vogliamo. La decisione è unanime e condivisa» po (tutti contenti e soddisfatti), ma quasi sempre contrastanti sulle motivazioni del mancato invito: «Quello lì non c’è e la cosa è piuttosto eloquente», ci viene detto nel pomeriggio da un dirigente di Ag-Giovane Italia. «Non lo vorremmo per niente al mondo e la scelta è stata fatta da tutti i dirigenti nazionali di Azione giovani». Scelta quindi appoggiata e di fatto presa “ufficialmente” dal ministro della Gioventù Giorgia Meloni... «Sì, non in qualità di ministro della Repubblica ovviamente, ma in quanto presidente di Ag. Una decisione buona e condivisa da tutti». Per la verità non proprio
giovanile anche chi la faccenda la legge così: «Non aver invitato Gianfranco Fini è finalmente il segnale che aspettavamo: dentro Azione giovani ci sono ancora diversi neofascisti che a lui preferiscono decisamente Silvio Berlusconi. Vedono nel premier ormai l’unico punto di riferimento per non aver mai preso posizioni su “questioni ancora calde” interne al mondo della destra, come ad esempio il 25 aprile. Berlusconi è sicuramente il leader anche dei rimasugli della destra radicale. Non certo Fini, oramai». È francamente difficile però immaginarsi il ministro Meloni lanciarsi in una
ferma difesa dei nostalgici, per giunta chiudendo in faccia le porte di“Atreju”a Gianfranco Fini. «Ma infatti il presidente di Ag Giorgia Meloni avrà deciso direttamente nell’ufficio della presidenza della Camera il non invito al presidente della Camera» è l’ironica lettura di un ex dirigente nazionale di Azione giovani, che chiude: «Niente di nuovo quindi sotto al Sole, in scena poi continua ad andare il solito teatrino del colpo al cerchio e uno alla botte: Fini va alla festa del Partito democratico e viene applaudito dalla sinistra; Berlusconi andrà a quella della Giovane Italia e verrà applaudito ancora di più dalla destra, anche quella cosiddetta dura e pura».
Intanto, dagli ambienti vicini al ministro Meloni non trapela nulla, se non un bisbigliato: «La decisione è il frutto di un gioco di incastri...». Silurato Fini, insomma, i giovani del Pdl di provenienza finiana sembrano dunque aver già individuato il successore: il programma di “Atreju” è all’indirizzo web http://www.atreju. tv/programma.php. Vedere alla voce “Berlusconi”.
Né a sinistra né a destra ci sono alternative all’uomo-simbolo della Campania
Se Napoli resta prigioniera di Bassolino rovo a riassumere. Si discute di un ritorno di Antonio Bassolino a Palazzo San Giacomo: lui, l’interessato, ha smentito, ma a fatica, e comunque le smentite e le promesse di Bassolino non valgono molto. Fu lui a dire: «Tra un anno mi dimetto» e invece non molla ancora l’osso. La sua nuova candidatura sarebbe la terza candidatura a sindaco di Napoli e, dunque, sommando Comune e Regione, la quinta candidatura, come se in Campania e a sinistra non ci fosse nessun altro capace di ricoprire quella carica. Ora, mettendo da parte la “capacità” - perché, come è chiaro a tutti, la storia bassoliniana è la storia di un grande fallimento -, sembra che il problema sia questo: se non Bassolino, chi?
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Sembra che le cose a sinistra stiano così: nessuno è in grado elettoralmente di fare meglio di Bassolino e anche se la stessa candidatura del governatore è l’evidente segno della sconfitta di un leader che non ha saputo (né voluto) costruire intorno a sé una classe dirigente perché ha realizzato il più compiuto sistema di potere della Seconda Repubblica, solo e soltanto Bassolino può impedire che la destra vinca e che il futuro
sindaco di Napoli sia l’industriale Lettieri o un esponente del Pdl. Insomma, nonostante il suggestivo slogan di qualche debole oppositore locale di Bassolino - «liberiamo il futuro» - e nonostante la contrarietà di Dario Franceschini che non impensierisce nessuno sotto il Vesuvio, Bassolino è decisamente ingombrante per la sinistra, tanto che se si guarda il passato si vede Bassolino, se ci si sofferma sul presente si vede Bassolino e se si prova a dare uno sguardo al futuro si scorge ancora il volto affilato di Bassolino. Nonostante lo slogan, la sinistra non riesce a liberarsi dell’uomo che un tempo la fece sognare - «la favola bella che ieri ti illuse» - e che oggi, forse per i troppi ingiustificati sogni ad occhi aperti, le impedisce di ragionare. La sinistra è in pratica prigioniera di Bassolino.
La destra potrebbe dare una mano alla sinistra se in Campania ci fosse una funzionante politica dell’alternanza. Ma mentre a sinistra si discute della quinta candidatura di Bassolino, a destra non si discute della candidatura di nessuno. Lo stesso nome di Gianni Lettieri non è il frutto di un confronto e di una scelta condivisa, bensì la “trovata” di Silvio Berlusconi che, in definitiva, regge lui da solo Berlusconi - il destino politico di un centrodestra campano che non è mai riuscito neanche a rappresentare il fantasma di una inesistente alternanza. Come se Bassolino fosse una presenza ingombrante non solo per la sinistra, ma anche per la destra che persino dopo il diluvio universale del spazzatura e l’intervento efficace del governo Berlusconi per liberare le stra-
de dallo “scuorno”: la vergogna - non è riuscita a rappresentare se stessa, con uomini e idee, sul piano concreto di un progetto politico e amministrativo pronto a lavorare in Regione e in Comune (la Provincia, dopo la vittoria, è già entrata in un cono d’ombra dove sembra destinata a restare). Anche la destra, in pratica, sembra essere prigioniera di Bassolino.
Dal 1993 a oggi sono passati sedici lunghissimi anni. Tante cose sono cambiate in Italia, in Europa, nel mondo. In America si sono succeduti tre diversi presidenti, mentre sono cambiati gli uomini di governo in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra. In Italia si è affermata una democrazia dell’altalena più che dell’alternanza e il presidente del Consiglio si è candidato anche lui per ben cinque volte a guidare il governo del Peaese. Nonostante ciò qualcosa si è mosso, appunto, con l’altalena. Solo a Napoli il tempo si è fermato. A Napoli nel 1993 c’era la prima candidatura di Bassolino e oggi 2009 si discute della futura sua quinta candidatura come se il passato e il presente non parlassero la lingua del fallimento ma della crescita civile di Napoli e della Campania.
panorama
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Primarie. Che cosa c’è dietro l’accordo tra Franceschini e Bersani per evitare scontri troppo duri il 25 ottobre
Il Pd scopre la «vocazione alla coalizione» di Antonio Funiciello
ROMA. «Il Pd deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria»: il virgolettato è d’obbligo, trattandosi di una citazione. Ma per quanto possa sorprendere, non è una citazione dall’accordo siglato tra Franceschini e Bersani in vista del rush finale della democratic national convention di ottobre. È una frase tratta, invece, dal discorso che due anni fa (altri tempi) Veltroni tenne al Lingotto candidandosi alle primarie del 2007. Il fatto che oggi Franceschini e Bersani, per ridare spolvero a una competizione fino a oggi un po’opaca, citino alla lettera Veltroni contro Veltroni, a favore di una comune discontinuità con la stagione fondativa del Pd, dice tutto quello che c’è da dire sulla generale confusione che circola intorno al congresso democratico. Anche le primarie di coalizione, scelte insieme da Franceschini e Bersani per selezionare i candidati alle presidenze delle Regioni al voto la prossima primavera, non sono proprio una novità. In verità rappresentano una precisa indicazione statutaria (art. 20) voluta sempre da Veltroni e dal presidente della
Il segretario e il suo sfidante restano appesi al risultato di Marino: e in ogni caso saranno costretti a trovare un accordo con gli ex-popolari commissione che stilò un anno e mezzo fa lo statuto democratico, il veltroniano professore bolognese Salvatore Vassallo.
Un accordo tanto fumoso tra i principali contendenti alla guida del Pd non può, dunque, che dare adito ad interpretazioni più complesse. Cosa c’è
dietro? Da un lato senz’altro il riconoscimento di una certa fatica da parte dell’intero gruppo dirigente del Nazareno a far interessare (e magari a far appassionare) gli italiani al congresso democratico. Dall’altro la comune preoccupazione per scenari di futura instabilità interna, che potrebbero prelude-
re a segreterie unitarie né carne né pesce. C’è la possibilità che, con una buona affermazione alle primarie di Ignazio Marino che si attesti intorno al 10/15%, chi dovesse risultare vincente tra Franceschini e Bersani non riesca a superare il 50% più uno dei voti richiesti per essere eletto segretario. Nel qual caso, sarebbe la neoeletta Assemblea nazionale del partito ad eleggersi il capo del Pd, con l’obbligo di intese trasversali. Sia l’area Franceschini che quella Bersani potrebbero allora provare a corteggiare l’area Marino. Anche se lo scenario più plausibile nel caso di stallo per “insufficienza primarista” sarebbe il sicuro riemergere della saggezza del duo D’Alema-Marini verso una soluzione unitaria.
Tuttavia l’accordo tra Franceschini e Bersani contempla anche il caso di un flop della mozione Marino, sia nella circostanza che non superi il richiesto 5% nel preliminare voto degli iscritti (che non permetterebbe al candidato medico di presentarsi alle primarie), sia in quella che Marino non riesca a fare un buon risultato
il 25 ottobre. La variabile Marino fa i conti anche con l’equilibrio al momento registrato da Franceschini e Bersani nel gradimento generale, che rende piuttosto incerto l’esito della conta. Insomma, se uno dei due dovesse vincere con poco più del 50% dei consensi, nelle condizioni di chiara difficoltà politica in cui versa il Pd, pare evidente che suderebbe molto più di sette camice per tirare il carretto. Ancor più se il Pd, com’è molto probabile, dovesse uscire sconfitto dalle elezioni regionali del prossimo anno. Che vinca Bersani o Franceschini con un risultato considerato troppo gramo, la tentazione di ricreare un accordo sullo schema D’Alema-Marini sarebbe troppo forte. Dietro il gentlemen agreement tra i due contendenti, non sarebbe così fuorviante vedere il tentativo di stendere una rete di protezione sotto l’intero gruppo dirigente democratico. Dopo tutto, nelle competizioni per le segreterie regionali questa rete di protezione è già stesa, se in regioni determinati come Campania e Piemonte i popolari voteranno pressoché compatti candidati bersaniani.
Distanze. I nuovi obblighi fiscali e produttivi vedono contrapposte grandi e piccole imprese
Guerra delle etichette per il made in Italy di Francesco Pacifico
ROMA. La battaglia comune contro il credit crunch è un ricordo. Perché da quando il governo ha deciso che può forgiarsi del marchio “made in Italy”soltanto chi realizza sul suolo patrio ogni centimetro di un bene, grandi imprese e artigiani sono tornati darsi botte da orbi. Come, del resto, è sempre avvenuto. Oggi il governo, nel decreto antinfrazioni, dovrebbe modificare quest’obbligo. Ma a fronte di un netto stravolgimento il mezzo milione di artigiani – come annunciano le loro associazioni – sono pronte a girare le spalle a un governo che hanno sempre considerato amico. E votato. Alla base del contendere un articolo del recente pacchetto per lo sviluppo, quello che tra l’altro disciplina lo scudo fiscale o il ritorno del nucleare. Dal 15 agosto, infatti, si vieta «l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia». Da quella data è obbligatoria «un’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente a
evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera».
Apriti cielo. Perché i nostri marchi d’eccellenza fanno spesso un uso spregiudicato di contoterzisti e di materiali di oltre confine. E infatti associazioni di Confindustria come Sistema Moda Italia o l’Anfao (l’ottica) sono partiti all’attacco. «La legge», ha spiegato il presidente di Smi, Michele Tronconi, «sta ponendo non pochi problemi». E a dare manforte alla grande imprese
Il governo deciderà oggi se rimodulare la norma che non piace neppure all’Europa. Ma la rivolta delle partite Iva consiglia prudenza è arrivata anche l’Unione europea. Attraverso la direzione Antitrust della Kroes avrebbe già intimato a Roma di intervenire perché la norma, così com’è, è lesiva della concorrenza. «Lesiva della concorrenza? Ma se lesivo delle concorrenza è produrre all’estero e poi etichettare in Italia senza dover sottostare a tutti gli obblighi di qualità e la fiscalità italiana», replica a dir poco seccato,
Giorgio Guerrini, il leader di Confartigiani, «La verità è che questa battaglia è decisiva per capire davvero chi difende il made in Italy e chi no». Guerrini, assieme ai colleghi Ivan Mala-
vasi (Cna) e Giacomo Basso (Casartigiani), ha scritto una dura lettera pubblica al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e al ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, per esprimere la loro «preoccupazione per l’ipotesi di congelamento della legge a tutela del made in Italy». Aggiungendo che in questo modo si mette a rischio «un valore aggiunto di 58 miliardi di euro, il più alto d’Europa». Così si aspetta di capire cosa deciderà questa mattina il governo. Il viceministro Adolfo Urso, lo stesso che si è dichiarato vicino a posizioni più mercatiste, vorrebbe prendere tempo. Tanto da aver convocato gli artigiani ieri sera per riprendere il dialogo. E pensare che questa crisi tra grandi e piccoli arriva mentre Emma Marcegaglia mostra ormai un’ossessione per le Pmi.Tanto che lei – mentre Unicredit firmava con artigiani e commercianti un accordo per traghettare 10mila microaziende fuori dalla crisi – ha richiamato tutti affinché la moratoria dei debiti delle imprese non si riveli «una presa in giro».
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el secolo scorso, atroci immagini dei campi di concentramento nazisti, della Cambogia, del Rwanda, del Darfur, dell’Iraq e di molti altri luoghi ed epoche si sono inscritte nella nostra coscienza collettiva. Tali immagini hanno indotto tutti noi a credere che la tecnologia, gli stati-nazione centralizzati ed i valori della modernità abbiano costituito un’ideale brodo di coltura per una violenza senza precedenti. La nostra epoca apparentemente brutale viene quotidianamente posta a confronto con le idilliache esistenze delle società di cacciatori-raccoglitori che, in base a quanto ci è stato tramandato, vivevano in totale armonia reciproca e con la natura che li cirondava. La dottrina del buon selvaggio - l’idea che l’uomo sia pacifico di natura e sia stato in seguito corrotto dalle istituzioni moderne - ricompare frequentemente negli scritti di intellettuali quali ad esempio il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, il quale sosteneva che «la guerra non è un istinto, bensì un’invenzione». Ma ora che gli studiosi delle scienze sociali hanno iniziato a redarre una stima delle vittime nelle diverse epoche storiche, si è giunti alla conclusione che tale teoria a tinte romantiche non poggiava su alcun fondamento concreto: ben lungi dallo spingerci a diventare più violenti, qualcosa nella modernità e nelle sue istituzioni culturali ci ha reso più nobili. I nostri antenati erano infatti di gran lunga più violenti di quanto siamo noi oggi. In realtà, per lunghi tratti della storia dell’uomo la spirale di violenza è risultata in declino, ed oggi noi viviamo probabilmente nell’epoca più pacifica da quando la nostra specie ha messo piede in Terra.
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Nel decennio del Darfur e dell’Iraq, una dichiarazione di tale tenore potrebbe apparire allucinante o addirittura oscena. Ma se prendiamo in considerazione i dati effettivi, vedremo come la diminuzione della violenza costituisca un fenomeno frattale: possiamo riscontrarlo attraverso i millenni, i secoli, i decenni, gli anni. Quando l’archeologo Lawrence Keeley ha analizzato i tassi di decesso tra i cacciatoriracoglitori contemporanei - il miglior parametro a nostra disposizione per capire come gli uomini vivessero 10.000 anni orsono - ha scoperto che la probabilità che un essere umano perisca per mano di un altro essere umano va dal 60% di una tribù al 15% dei gruppi più pacifici. Al contrario, la possibilità che un uomo europeo o americano venga ucciso da un altro uomo risultava pari all’1% per quanto riguarda il XX secolo, un arco temporale che comprende entrambi i conflitti mondiali. Se nel XX secolo fosse invece prevalso il tasso di mortalità degli scontri tribali, vi sarebbero stati
Siamo abituati a ritenere l’età contemporanea come una delle più cruente della storia dell’umanità. Invece l’antichità era molto più violenta. Certo, non c’erano il cinema, i videogiochi e internet... due miliardi di vittime invece dei 100 milioni stimati, cifra di per sé già orribile.
I testi degli antichi rivelano una sconcertante mancanza di considerazione per la vita umana. Nella Bibbia, Dio ordina al popolo ebraico di sterminare fino all’ultimo abitante di ogni città conquistata, ma si possono rinvenire elogi della tortura e del genocidio anche nelle antiche cronache degli Hindu, dei Musulmani e dei cinesi. Ma dal Medio Evo all’epoca moderna possiamo riscontrare una costante diminuzione delle forme di violenza sanzionate a livello sociale. Molti racconti tradizionali rivelano che la mutilazione e la tortura costituivano pratiche punitive di infrazioni per le quali oggi verrebbe comminata al massimo una sanzione pecuniaria. In Europa, prima dell’avvento dell’Illuminismo, crimini quali il taccheggio o l’interruzione del corteo reale con un carro di buoi avrebbe potuto costare al malcapitato il taglio della lingua, l’amputazione delle mani, e via discorrendo. Molti di questi castighi avevano luogo sulla pubblica piazza, e la crudeltà rappresentava una forma di intrattenimento popolare. Disponiamo inoltre di ottime statistiche per tracciare la storia di ogni singolo omicidio, dato che per secoli i comuni europei hanno registrato le cause dei vari decessi. Quando il criminologo Manuel Eisner ha esaminato attentamente i dati di ogni villaggio, città, contea e nazione a sua disposizione, ha scoperto che le percentuali di omicidio erano scese dai 100 annuali su 100.000 persone del Medio Evo a meno di 1 ogni 100.000 persone nell’Europa moderna. A partire dal 1945, tanto in Europa quanto in America abbiamo assistito a bruschi cali nei decessi causati da conflitti interstatuali, tumulti etnici e ro-
Ma io dico: nel vesciamenti militari, anche in America Latina. In tutto il mondo, il numero dei caduti in battaglia è sceso dai 65.000 l’anno per conflitto ai 2.000 dell’attuale decennio. Sin dalla fine della Guerra Fredda nei primi anni ’90 siamo stati testimoni di un numero inferiore di guerre civili, con una diminuzione del 90% dei decessi per genocidio, e persino un’inversione di tendenza per ciò che riguarda i crimini violenti rispetto all’aumento re-
rispetto a quello dei monaci del XVI° secolo. In tal caso scatta però anche un’illusione cognitiva. Gli psicologi cognitivi sanno che quanto più facile risulta ricordare un avvenimento, tanto più saremo portati a credere che questo possa ripetersi. Le cruente immagini televisive provenienti dai teatri di guerra si fissano nella nostra mente; ma mai ci viene data notizia dei tantissimi anziani che spirano nel sonno. E nel regno dell’opinione e dell’ac-
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La dottrina del «buon selvaggio», ossia l’idea che l’uomo sia pacifico di natura e che sia stato corrotto dalle istituzioni moderne, è molto diffusa, ma in realtà i dati storici ci dicono il contrario
gistrato negli anni ’60. Considerate queste percentuali, perché allora in così tanti si spingono ad etichettare l’età contemporanea come un’epoca di violenza e morte? Credo che la principale ragione di tale atteggiamento sia data dal più ampio accesso all’informazione. Come ha argutamente affermato il politologo James Payne, l’Associated Press è in grado di fornire un resoconto dei conflitti che infuriano per tutto il pianeta migliore
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cusa, nessuno si è mai guadagnato consensi e donazioni sostenendo che le cose stessero migliorando sempre più. Considerati unitariamente, tutti questi fattori contribuiscono a generare un’atmosfera di paura nelle menti dei contemporanei, un’atmosfera che non trova riscontro nella realtà dei fatti.
Bisogna infine considerare che il nostro comportamento non è spesso sufficiente a soddisfare le
nostre sempre maggiori aspettative. La violenza è diminuita in parte perché la gente si è stufata di carneficine ed altri atti di crudeltà. È questo un processo psicologico che sembra continuare, ma che sopravanza i cambiamenti comportamentali. Così oggigiorno alcuni di noi danno sfogo – e giustamente - a tutta la propria rabbia se un omicida viene giustiziato in Texas con un’iniezione letale in seguito ad un processo d’appello durato 15 anni. Non prendiamo in considerazione il fatto che due secoli or sono una persona poteva essere mandata al rogo per aver mosso delle critiche nei confronti del sovrano dopo un processo della durata di 10 minuti. Allo stato attuale, dovremmo intendere la pena capitale come una prova di quanto i nostri standard si siano innalzati, piuttosto che una dimostrazione di come la nostra umanità sia sprofondata nel baratro.
Perché la violenza è diminuita? Gli psicologi sociali hanno riscontrato che almeno l’80% delle persone ha fantasticato di uccidere qualcuno non di proprio gradimento. E, se guardiamo alla popolarità degli omicidi irrisolti, delle tragedie shakespea-
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Una celebre inquadratura del film “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick
relazioni. Nel corso dei millenni, i gruppi morali degli individui si sono allargati al punto da abbracciare forme di governo sempre più ampie: il clan, la tribù, la nazione, entrambi i sessi, altre razze e persino gli animali. Il cerchio si è allargato in virtù delle più ampie reti di reciprocità, à la Wright, ma potrebbe altresì rimpicciolirsi in virtù dell’inesorabile logica della Regola d’Oro: più si sa e si riflette sugli esseri viventi, più difficile diventa privilegiare i propri interessi rispetto a quelli degli altri. La scala mobile dell’empatia può altresì essere alimentata dal cosmopolitismo, per cui il giornalismo, le memorie e la narrativa realista rendono più palpabili le vite interiori di altre persone e la precarietà della vita di ognuno – una sensazione del tipo “speriamo non capiti a me”.
’900 scoppiò la pace di Steven Pinker * riane o al successo di film quali Saw, di videogiochi come Grand Theft Auto e di sport come l’hockey, possiamo giungere alla conclusione che gli esseri umani moderni provino ancora un certo piacere nell’assistere a scene di violenza. Ciò che è cambiato è invece la volontà degli individui di mettere in pratica tali fantasie. Il sociologo Norbert Elias ha suggerito che le modernità europea abbia accelerato un “processo civilizzatore” caratterizzato da un maggiore autocontrollo personale, da una pianificazione di lungo periodo e da una maggiore sensibilità nei riguardi delle opinioni e della sensibilità dei nostri simili.
Queste sono proprio le funzioni che gli odierni neuroscienziati cognitivi attribuiscono alla corteccia prefrontale. Ma ciò solleva semplicemente l’interrogativo sulle ragioni per cui gli esseri umani utilizzino in misura sempre maggiore quella parte del cervello. Nessuno sa perché il nostro comportamento sia finito sotto il controllo degli angeli più buoni della nostra natura; ma anche in questo caso è possibile ipotizzare quattro pertinenti spiegazioni. La prima è che il filosofo del XVII° secolo Thomas
Hobbes avesse ragione. La vita allo stato di natura è difficile, brutale e breve – non per via di una primigenia sete di sangue ma a causa dell’ineluttabile logica dell’anarchia. Ogni individuo con un briciolo di interesse personale può essere tentato di sopraffare i propri vicini e depredarne le risorse. La conseguente
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infliggere pene disinteressate che elimino gli incentivi all’aggressione, stemperando così l’ansia di un’aggressione preventiva ed ovviando alla necessità di mantenere una propensione immediata alla ritorsione. In effetti, Manuel Eisner attribuisce la diminuzione delle percentuali di omicidi in Europa al pas-
Già nel Seicento Thomas Hobbes diceva che la vita allo stato di natura è difficile, brutale e breve, non per via di una primigenia sete di sangue ma a causa dell’ineluttabile logica dell’anarchia
paura di essere aggrediti istillerà nel vicino la tentazione di attaccare preventivamente per autodifesa, e così via. Tale pericolo può essere scongiurato da un’opportuna politica di deterrenza – non colpire per primo, reagisci se colpito. Ma al fine di salvaguardare la propria credibilità, le parti devono vendicare gli affronti e pervenire ad un regolamento di conti, la qual cosa determina un circolo vizioso di truculente vendette. Tragedie di questo tipo possono essere evitate mediante la presenza di uno stato che detenga il monopolio della violenza. Gli stati possono
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saggio da una società cavalleresca e guerriera ai governi centralizzati della prima modernità. Oggigiorno la violenza continua per l’appunto ad infestare quelle zone dominate dall’anarchia, come ad esempio le regioni di frontiera, gli stati falliti, gli imperi collassati ed i territori contesi dalle mafie, dalle gang e dagli esponenti del contrabbando. James Payne suggerisce un’altra possibilità: che la variabile critica nel ricorso alla violenza sia una generale considerazione sul valore esiguo dell’esistenza umana. Quando il dolore e la morte prematura diventano ele-
menti quotidiani della nostre vite, si può provare meno rimorso nell’infliggerli ad altri. Se però le tecnologie e lo sviluppo dei sistemi economici allungano e migliorano la qualità della vita, tendiamo ad attribuire ad essa un valore maggiore.
Una terza teoria, sostenuta dal giornalista Robert Wright, evoca la logica dei giochi a somma zero: scenari in cui due agenti possono entrambi sopravvivere se collaborano, ad esempio attraverso lo scambio di beni, la divisione del lavoro, o condividendo il vantaggio in termini di pace derivante dalla cessazione dell’uso delle armi. Se gli individui acquisiscono un know-how che possono condividere a basso prezzo con altri e sviluppano tecnologie che gli consentano di diffondere i propri beni e le proprie idee su territori vasti ed a costi contenuti, l’incentivo alla cooperazione aumenta, poiché altri individui valgono più da vivi che da morti.Vi è quindi lo scenario dipinto dal filosofo Peter Singer. Egli suggerisce che l’evoluzione abbia trasmesso agli individui un piccolo nucleo di empatia, che essi applicano automaticamente solo all’interno di una ristretta cerchia di amici e
Qualsiasi siano le cause di tutto ciò, la diminuzione della violenza racchiude in sé profonde implicazioni. Non vi è ragione di compiacersi: noi godiamo oggi di una condizione di pace poiché nelle precedenti generazioni altri gruppi umani vennero sconvolti dalla violenza del proprio tempo e si impegnarono per porre ad essa fine; allo stesso modo, dovremmo darci da fare per porre fine alle spaventose violenze della nostra epoca. Né sussistono presupposti per essere ottimisti circa l’immediato futuro, in quanto mai come prima il mondo vede oggi affacciarsi sulla scena mondiale leader nazionali che uniscono una sensibilità premoderna con armamenti fin troppo moderni. Ma tale fenomeno ci impone di ripensare la nostra nozione di violenza. La crudeltà dell’uomo nei confronti dei suoi simili è a lungo stata oggetto di un tentativo di moralizzazione. Nella consapevolezza che qualcosa l’ha spinto drammaticamente in basso, possiamo anche abbordare la questione in quanto un prodotto di causa ed effetto. Invece di chiedersi, «perché vi sono tutti questi conflitti?», dovremmo chiederci «perché vi è pace?». Se il nostro comportamento ha registrato così grandi miglioramenti dai giorni della Bibbia, si vede che qualcosa di buono l’avremo pur fatto. E sarebbe positivo sapere di preciso cosa. * L’autore è Harvard College Professor e Johnstone Family Professor presso il dipartimento di psicologia della Harvard University. È autore di sette opere, due delle quali sono state in lizza per il Premio Pulitzer. Il suo libro più recente si intitola The Stuff of Thought: Language as a Window into Human Nature.
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Interviste. Il nuovo Segretario generale del Patto atlantico: ognuno scelga le proprie alleanze. E rispetti i vincoli internazionali
«A Kabul vinceremo» Cooperare con i russi e aprire a nuovi amici Ecco la ricetta della Nato per il futuro di Sergio Cantone
BRUXELLES. Da buon conoscitore dei minuetti delle Cancellerie europee e dei broccati dei rapporti transatlantici, Anders Fogh Rasmussen è da poco divenuto a pieno titolo Segretario generale dell’Alleanza atlantica. Per accetare questa nomina ha lasciato il posto di primo ministro danese. Rasmussen è un liberal-conservatore che ha inviato le truppe del
suo Paese nelle sabbie irachene e tra le pietre afgane. Questo gli ha dato un alto tasso di credibilità a Washington. In qualità di premier era invece piuttosto proeuropeo, senza grandi slanci, ma con un certo interesse. Per lui la guerra contro il terrorismo deve essere presa alla lettera. Fino al punto di essere preso per un adepto dello “scontro delle civiltà”. Per questo motivo i turchi hanno cercato di bloccare fino all’ultimo la sua nomina a segretario generale della Nato. Il suo essere danese lo porta ad avere un certa idea della Russia, che non necessariamente corrisponde a quello di membri più recenti di Nato e Unione europea come Polonia e Paesi baltici. Il suo realismo lo porta a pensare che Mosca sia una dirimpettaia con cui parlare dei problemi del condominio piuttosto che un’avversaria. E se poi c’è di mezzo l’Afganistan… Signor Segretario, la situazione in Afghanistan sembra peggiorare di giorno in gior-
no. La capacità offensiva dei talebani è cresciuta. Mentre il processo elettorale sembra del tutto staccato dalla realtà del Paese. Come uscirne? La situazione legata alla sicurezza in Afghanistan non è soddisfacente e noi, per fare di più, dobbiamo agire con più decisione sia nell’ambito strettamente militare che in quello della ricostruzione civile del Paese. E, in particolare, dobbiamo sviluppare ulteriormente la capacità di combattimento e il numero delle forze di sicurezza afgane. Non pensa che tutto questo suoni come una “afganizzazione” del conflitto? E così come avvenne con la “vietnamizzazione”, si traduca alla fine in un terribile fallimento militare? No, non si possono fare dei paragoni del genere. Noi in Afghanistan vinceremo. Faremo il possibile affinché la missione si concluda con un successo. Resteremo il tutto tempo necessario per rendere il Paese sicuro. Non possiamo permetterci che l’Afghanistan torni a essere un riparo per i terroristi. Ma c’è un gran numero di rapporti, provenienti dal Pentagono, che sottolinea-
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Quella afgana è una guerra che non possiamo perdere. Se lasciamo il Paese in mano ai talebani, il terrorismo si espanderà in Asia e non riusciremo più a fermarlo. Non sarà come in Vietnam no quanto la situazione si stia deteriorando. Avete una soluzione strettamente militare? Da un punto di vista esclusiva-
Pronta a settembre la nuova dottrina dell’Armata Rossa. Proprio mentre l’Occidente ripensa la propria
La risposta (militare) di Mosca all’Alleanza di Mario Arpino opo il vertice di Strasburgo, la Nato si è impegnata per l’elaborazione del «nuovo concetto strategico», e il processo, con la farraginosità propria delle organizzazioni in cui vige la prassi consenso, è finalmente partito. Ma Mosca - dove anche quando c’erano numerosi satelliti l’esigenza del consenso era meno sentita - per bocca del segretario del capo di stato maggiore generale della Difesa (in una intervista di qualche giorno or sono all’Izvestia) ha già confermato che la nuova dottrina dell’Armata Rossa sarà pronta entro settembre. Botta e risposta. Il documento, che, a detta del generale, sarà articolato in una sezione pubblica, che tratterebbe gli aspetti generali di politica militare, ed una classificata, contenente gli aspetti“legali”re-
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lative all’impiego delle forze armate e dell’armamento nucleare. Ciò fa capire che, pur essendo azzardato ritenere che il documento della Nato e quello russo siano reciprocamente consequenziali, certamente la loro rielaborazione è dettata da esigenze assai simili. Il concetto strategico Nato in vigore ha oggi una decina d’anni di maturità, essendo stato adottato nell’aprile del 1999. In piena guerra del Kosovo, e quindi prima del fatidico undici settembre e della missione in Afghanistan, che si svolge al di fuori dell’area euro-atlantica. Ma dall’11 settembre la Storia scorre più veloce, e insegna molto sulla sicurezza del XXI secolo.
Per l’Alleanza atlantica ci sono almeno quattro ottime ragioni per cui è necessario
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mente militare dovremmo ampliare le forze di sicurezza afgane, dovremmo addestrare e formare più soldati afgani. Questo è esattamente la sostan-
rinnovare. La prima è che i Paesi membri, che sono notevolmente cresciuti di numero dal 1991 - 28 contro 16 - vogliono ormai veder legittimato, prima di autorizzarlo, l’uso della forza militare in operazioni che superino il concetto di autodifesa.
La seconda ragione sta nell’interpretazione da dare all’articolo 5 che, votato all’unanimità subito dopo l’11 settembre, ha posto di fatto la Nato in stato di guerra. Per cui, in un mondo globalizzato, i confini che si era imposta nel 1999 - impiego in Europa e dintorni (in and around Europe) - oggi, oltre che essere superati dai fatti, sono anche d’impaccio, indebolendo il fattore “legittimità”. La terza ragione è che la Nato deve cambiare la sue relazioni con la
prima pagina Un soldato Nato in Afghanistan. In basso, Dimitri Medvedev. Nella pagina a fianco: in alto il Segretario generale Nato Rasmussen. In basso, il suo predecessore Jaap de Hoop Scheffer
za di quello che faremo nei prossimi mesi: creare una missione di addestramento. E abbiamo appena avviato il processo di creazione delle forze. Invito quindi tutti gli alleati a fornire personale militare in grado di formare soldati locali e le risorse a eseguire questo programma. Non pensa che in realtà il problema sia più che altro legato all’attuale governo afgano, che non lavora co-
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La lotta al terrorismo, la non proliferazione delle armi nucleari e la pirateria: ecco i terreni comuni in cui possiamo cooperare con i “vecchi nemici”. Ma tutti hanno dei vincoli da rispettare me dovrebbe? Karzai, ad esempio, ha comunque bisogno dell’appoggio dei Signori della guerra. E non sono certamente degli
Ue e con l’Onu - in Afghanistan, per esempio, nell’Isaf ci sono truppe australiane e di altre nazioni non Nato - altrimenti rischia di trasformarsi da Alleanza in “coalizione di volonterosi”, snaturando così la sua identità. Il quarto motivo è che alcuni Stati membri della “vecchia Europa” sono riluttanti a confrontarsi su questo tema, vedendo in pericolo la costruzione della casa europea, e non desidererebbero quin-
E dalla sindrome russa dell’accerchiamento, retaggio delle vecchie teorie geopolitiche. Ma l’alta dirigenza russa, nonostante le ripetute prese di posizione, è toppo pragmatica e disincantata per ritenere davvero la presenza della Nato e l’evenienza dello schieramento degli anti-missili un reale pericolo per il territorio.
suoi obblighi internazionali, compresi i diritti umani. Ma, prima di tutto, siamo in Afganistan per aumentare la sicurezza, compresa la nostra. Perché se i talebani riuscissero a radicarsi di nuovo in Afganistan allora il terrorismo si espanderà in tutta l’Asia Centrale e oltre. Pensa che la Russia possa essere coinvolta nella soluzione del problema afgano? Sì, ma stiamo già cooperando con la Russia e apprezziamo che il Cremlino abbia accettato di concederci il transito per facilitare i bisogni della missione Isaf . E non escludo nemmeno che la Russia possa contribuire ancor di più in futuro. E che tipo di contributo vi aspettereste dalla Russia? Molto dipende dallo stesso governo russo e dalla parte afgana. Come ho sottolineato in precedenza, abbiamo bisogno di più istruttori militari per ampliare la capacità delle forze di sicurezza afgane. L’idea di bloccare lo sviluppo dello scudo antimissile in Polonia e in Repubblica Ceca pensa che sia il frutto di una strategia Usa per coinvolgere la Russia in altre aree come l’Afganistan? Non conosco nei dettagli i propositi americani. Mi aspetterei da parte loro un’analisi ampia e approfondita di quello che è necessario per proteggere gli Stati Uniti e l’Europa come si deve contro gli attacchi missilistici. Per quanto riguarda la Russia son decisamente a favore di una sua grande trasparenza come di un suo impegno nella difesa missilistica, perchè alla fine condividiamo con i russi le stesse minacce alla sicurezza, gli stessi interessi e le medesime preoccupazioni. Questo è un nuovo atteggiamento verso la Russia. Cosa è cambiato?
Le vere ragioni potrebbero invece risiede-
gittimità nella lotta al terrorismo e nella protezione delle linee di rifornimento energetico, che si estendono con lunghi percorsi sui territori degli Stati Indipendenti che fanno capo alla Comunità. Esigenza di politica interna è anche quella di controllare, e tenere sedata con qualche contropartita, la mal digerita separazione dell’Ucraina e delle repubbliche baltiche, fiero colpo per un orgoglio nazionale mai affievolito.
re in una serie di esigenze, questa volta reali, di politica interna. L’accenno al carattere “giuridico” della sezione classificata potrebbe far pensare alla necessità di coprire con un manto di legittimità l’uso della forza nell’evenienza di nuovi conflitti ai propri confini, vedasi Cecenia e Georgia. In altre parole, si potrebbe trattare di una novella dottrina Breznev, a suo tempo utilizzata in più occasioni nei confronti dei paesi dell’ex Patto diVarsavia. Anche per i russi, al pari che per la Nato, vi sono poi esigenze di le-
Non va infatti dimenticato che ci sono ampie fasce di cittadini russi che non tollerano che la Grande Madre non sia più una Grande Potenza, da rispettare e da temere. Considerando invece gli aspetti operativi, non vi è dubbio che l’elaborazione della nuova dottrina potrebbe essere resa realmente necessaria dalle forti riduzioni degli organici dell’Armata imposte dal livello politico, ma osteggiate dall’establishment dei militari. In ciascuno di questi casi, come si intuisce, la necessità di riscrivere le regole sembrerebbe essere primariamente dettata da esigenze interne, piuttosto che da intendimenti ostili verso la Nato.
Non bisogna dimenticare che ci sono ampie fasce di cittadini russi che non possono tollerare che la “Grande Madre” non sia più una Grande Potenza, da rispettare e da temere anche sul campo di vedere alterato lo status quo. Volendo comparare ora le esigenze di cambiamento da parte russa, l’accelerazione sulla nuova dottrina strategico-militare in prima ipotesi potrebbe sembrare dettata dallo stallo della questione dello scudo antimissile Usa da schierarsi in Polonia e nella Repubblica ceca.
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esempi di integerrimi Grand commis di Stato... L’Afganistan deve certamente rispettare le convenzioni internazionali e adempiere ai
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Sì, è vero. Penso che dovremmo concentrarci di più sulla cooperazione pratica in aree dove condividiamo le stesse preoccupazioni con i russi. Prendete ad esempio il terrorismo: la Russia ha recentemente provato sulla propria pelle un attacco terroristico. Sa cos’è il terrorismo. Penso che l’anti-terrorismo sia certamente un’area nella quale potremmo cooperare con la Russia. Prendiamo l’Afghanistan come esempio ulteriore. E nello stesso contesto, la non-proliferazione delle armi di distruzione di massa è un’altra area di comune interesse e infine dobbiamo citare l’attività contro i pirati. Penso che dovremmo concentrarci sulla collaborazione pratica in queste aree, e allo stesso tempo responsabilizzare la Russia di fronte ai propri vincoli internazionali, come il rispetto della libertà e dell’integrità territoriale dei suoi vicini. Si riferisce a Georgia e Ucraina? Sì. Penso che il diritto di scegliere le proprie alleanze sia un principio fondamentale e penso che dovremmo attenerci a questo principio. Ma fissando questo principio lei praticamente dice che sia l’Ucraina che la Georgia forse un giorno, se lo vorranno, potranno diventare membri della Nato… È una discussione prematura, ed è anche un po’ ipotetica al momento. Ma non è una sorpresa che la Nato a Bucarest nel 2008 abbia deciso, sempre che soddisfino le richieste, che la Georgia e l’Ucraina potessero aspirare a diventare membri. Al momento non soddisfano questi criteri, ed è per questo motivo che la Nato ha deciso di avviare una cooperazione pratica con questi Paesi. Vediamo cosa accadrà in futuro.
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Informazione. Gli ottanta giornalisti che lavorano per la Commissione europea: il nostro modello è quello americano
La rivolta della colonna infame L’esercito dei portavoce di Bruxelles respinge l’attacco di Berlusconi
Joaquìn Almunia polemico
di Enrico Singer ono 80. Di tutte le 27 nazionalità dell’Unione europea. Cinque sono italiani, anzi sette se si considerano anche i due che lavorano nel centro di documentazione che è un braccio operativo del Servizio dei portavoce. E sono il nucleo duro di una delle più potenti DG (Direzioni Generali) della Commissione europea: la DG Comunicazione. Che ha il compito-chiave di tenere a bada i quasi 1500 giornalisti accreditati alla sala stampa di Bruxelles che supera, almeno nei numeri, anche quella della Casa Bianca. Alla testa di questo esercito di comunicatori, dal 21 novembre del 2005, c’è Johannes Laitenberger, 45 anni, tedesco di Amburgo, che il presidente Manuel Barroso ha scelto per sostituire l’ultimo dei portavoce di Romano Prodi, il finlandese Rejo Kemppinen, un omone di quasi due metri per oltre cento chili di peso che, a sua volta, aveva preso il posto del britannico Johnathan Faull e, ancora prima, di Ricky Levi. Ed è toccato proprio a Johannes Laitenberger, ieri, chiudere con un secco «noi siamo soltanto il microfono che diffonde la voce del livello politico» la polemica scatenata da Silvio Berlusconi sulle “dichiarazioni in libertà” dei portavoce europei. Che non ci stanno a finire su una specie di moderna colonna infame, presunti untori che spargono - se non la peste - notizie false o per lo meno approssimative che finiscono per innescare vere e proprie crisi diplomatiche.
«A chi devo chiedere permesso?»
S
Mestiere difficile quello dei comunicatori ufficiali di Bruxelles.Anche stressante, per la verità. Si comincia la mattina presto per prepare il quotidiano briefing di mezzogiorno che è uno dei grandi riti dell’informazione bruxellese con tutto l’esercito dei portavoce schierato nella sala delle conferenze-stampa di Palais Berlaymont (il quartier generale della Commissione) che sembra una grande platea cinematografica con le poltone azzurre e il palco di legno chiaro. È qui che vengono annunciate le iniziative dei commissari uno per Paese e ognuno con almeno due o tre portavoce - che, in alcune occasioni, scendono di persona a incontrare i giornalisti. Ed è sempre qui che è possibile fare domande anche su temi che non sono all’ordine del giorno. Scatta, così, una specie di staffetta sul palco dove si alternano i portavoce dei commissari competenti della materia in questione. Che si tratti di giustizia, commercio, trasporti o politica estera. Finito il briefing co-
JOHANNES LAITENBERGER
Almunia oaquìn sceglie l’ironia. Velenosa. «A quale presidente dovrei chiedere il permesso di parlare?», dice a chi gli ricorda che Silvio Berlusconi ha chiesto che sia soltanto Manuel Barroso a prendere posizione a nome della Commissione europea dopo la polemica sulla politica d’informazione della Ue esplosa sulla questione dei respingimenti in mare. A togliere dall’imbarazzo il commisario spagnolo agli Affari economici è il ministro delle Finanze svedese, presidente di turno dell’Ecofin, che precisa: «Spero che la Commissione continui a rispondere in modo trasparente». E Almunia chiosa: «Persino in italiano». Battute a parte, da Bruxelles, l’incidente è stato considerato chiuso: «Non vedo la necessità di portare avanti le polemiche. Non siamo intimiditi», ha detto il portavoce di Manuel Barroso che ha parlato di «un malinteso nato che è stato chiarito». Anche perché il presidente della Commissione - che sta per essere confermato per un secondo mandato non ha alcuna intenzione di mettersi di traverso con l’Italia. E lo stesso commissario alla Giustizia, il francese Jacques Barrot, ha spiegato che «nulla si oppone ai respingimenti se ci sono accordi con i Paesi d’origine». Ma la tensione con Roma« rimane.
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mincia l’assedio ai portavoce subito fuori dalla sala da parte di quei giornalisti che sperano di strappare qualche risposta più o meno in esclusiva. Poi la caccia al portavoce continua per telefono, fino a sera. E il giorno dopo si riparte. È in questa no-stop dell’informazione che Dennis Abbott, l’uomo che ha suscitato l’ira di Berlusconi - ha avuto l’ardi-
di un commissario che non si occupa della materia. «Ma il nostro è un lavoro collegiale», è stata la risposta di Johannes Laitenberger che a differenza della maggior parte dei portavoce, non è un giornalista ma un giurista che è entrato nei palazzi della Ue come consulente legale della Direzione Generale dell’Amministrazione e che ha fatto poi carriera nel gabineto dell’allora commissario alla Cultura,Viviane Reding. Perché tra matricole, come Abbott, e veterani come la portoghese Amalia Torres (Affari economici e monetari), l’italiano Michele Cercone (Giustizia), l’inglese Jonathan Todd (competizione) o la danese Pia Ahrenkilde Hansen (capo unità) il servizio dei portavoce è copiato dal modello americano ed è organizzato in modo piramidale e molto ferreo. Anche con quote nazionali, come sanno bene gli italiani che, dopo le vacche grasse della Commissione Prodi, si ritrovarono tutti fuori dal primo livello della struttura al punto che proprio Franco Frattini, allora commissario, si adoperò per rimettere la situazione in equilibrio. Il fatto, poi, che parlino più loro dei commissari ha una spiegazione molto semplice: in media i commissari a Bruxelles non passano più di due giorni a settimana.
Dennis Abbott, l’inglese che ha scatenato il caso, è stato anche addetto stampa della brigata dei “Desert Rats” in Iraq re di annunciare che una lettera con richiesta di chiarimenti sarebbe staa inviata dalla Commissione all’Italia e a Malta per gli ultimi respingimenti in mare.
È soltanto un anno che Dennis Abbott è entrato nel Servizio dei portavoce. Ma questo giornalista inglese, che ha lavorato al Daily Mirror e al Sun, ha anche nel suo curriculum un’esperienza da portavoce, nel 2003, della brigata corazzata dei Desert Rats impegnata a Bassora, in Iraq. Adesso è lìuomo-stampa del commissario alle Politiche regionali, la polacca Danuta Hubner. E uno dei motivi che ha mandato su tutte le furie Berlusconi è proprio che sul tema dell’immigrazione si sia espresso il portavoce
DENNIS ABBOTT
AMALIA TORRES
PIA AHRENKILDE
MICHELE CERCONE
JONATHAN TODD
quadrante
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Intanto Londra nega le accuse di contropartite economiche
Voleva convocare un’assemblea del Partito democratico cinese
«Molto grave» il terrorista libico appena scarcerato
Cina, 13 anni di carcere per il dissidente Xie Changfa
TRIPOLI. Abdel Basset al Me-
PECHINO. Xie Changfa, dissidente cinese che ha cercato di organizzare un congresso del Partito democratico di Cina (Pd), è stato condannato ieri a 13 anni di carcere per “sovversione”dal tribunale di Chansha (Hunan). Il fratello Xie Changzhen, presente al processo, denuncia che il dissidente è stato ammanettato durante l’attesa del verdetto e non gli è stato consentito di parlare. Il suo avvocato Ma Gangquan, che preannuncia l’appello, ha sostenuto che organizzare un partito politico in Cina è un diritto riconosciuto dalla Costituzione. Infatti Pechino consente l’esistenza di alcuni pochi partiti diversi dal Partito comunista, sebbene abbiano un ruolo
grahi, l’attentatore di Lockerbie che nei giorni scorsi è stato scarcerato dalla Scozia ed è tornato in Libia, è stato ricoverato in rianimazione in un ospedale di Tripoli. Lo ha comunicato una fonte governativa libica. Il caso ha sollevato numerose polemica in Europa e negli Sati Uniti circa l’opportunità di questa liberazione, pur giustificat da fini umanitari. Si è vociferato che la liberazione di uno dei responsabili della strage di Lokerbie, fosse uno dei punti di una trattativa di carattere economico tra Londra e Tripoli. Ipotesi respinta dal governo britannico. Ricordiamo che il volo Pan Am 103, da Heathrow a New York, con 259 persone a bordo, esplose sui cieli della Scozia, a causa di un potente ordigno al plastico. Nell’indidente morirono anche 11 persone a terra, colpite dai rottami. Al Megrahi è stato liberato proprio perché considerato un malato terminale per un cancro alla prostata. «È stato ricoverato in rianimazione ed è in cattive condizioni. Non è in grado di palare con nessuno», ha detto il funzionario governativo, chiedendo l’anonimato. Anche una fonte del centro medico di Tripoli, l’ospedale dove al Megrahi sta sottoponendosi da alcuni giorni a cura per frenare l’avan-
Indonesia, trema la terra Decine di morti Paura a Jakarta, ma rientra l’allarme tsunami di Pierre Chiartano n potente terremoto, di magnitudo 7,4 sulla scala Richter, ha scosso, ieri per più di un minuto, la principale isola indonesiana, Giava, costringendo migliaia di persone a lasciare le proprie case. La scossa è stata registrata alle 14.55 locali, le 09.55 italiane, ad almeno 200 chilometri a sud della capitale Giacarta, a una profondità di 63 chilometri. Sarebbe intanto aumentato a 32 il numero dei morti accertati finora, per la maggior parte rimaste intrappolate sotto le macerie, mentre gli sfollati sarebbero almeno 5mila. Lo hanno annunciato fonti governative di Giacarta.Paura nella capitale dove decine di edifici sono crollati seminando il panico nella popolazione. Molti uffici governativi sono stati sfollati. L’Agenzia indonesiana di meteorologia e geofisica ha prima lanciato – sulla base delle valutazioni del Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) l’istituto geofisico americano – e poi revocato un allarme tsunami. Le autorità comunque stanno monitorando la situazione sulle coste per l’eventuale formazione di un maremoto. «C’è stata un’onda anomala al largo di Tasikmalaya, ma era di un’altezza di 20 centimetri, dunque insignificante», ha spiegato Suharjono, responsabile tecnico dell’Agenzia. Proprio il villaggio di Tasikmalaya sembra essere quello maggiormente colpito dal sisma: «decine di edifici sono crollati», secondo il responsabile dell’Unità di crisi del ministero della Sanità, Rustam Pakaya. A Batu Karas, un’altra città costiera dell’ovest, «la gente ha abbandonato precipitosamente le abitazioni» e «alcune case e la moschea hanno subito danni», ha testimoniato Dorus Susanto, che lavora alla reception di un hotel. «La terra ha tremato per oltre un minuto. Da sette anni lavoro qui e non ho mai avvertito una scossa così forte», ha commentato Dhani Yahya, dipendente della Mercedes a Giacarta. Uffici e centri commerciali sono stati evacuati nei quindici minuti successivi al sisma. «È stato impressionante. La terra tremava, la gente urlava. Mi sono tolto le scarpe e sono corso via
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per uscire all’aperto», ha detto Rini, uno studente di 18 anni che faceva acquisti in un grande centro commerciale della capitale. L’Indonesia è situata sull’anello di fuoco del Pacifico, dove si trovano le principali placche continentali responsabili delle attività vulcaniche e sismiche. Nel 2006 una scossa di terremoto di magnitudo 7,7 sulla scala Richter in Indonesia provocò uno tsunami sulle coste meridionali dell’isola di Giava facendo 596 vittime. I dati sismografici sono stati confermati dallo Us Geological Survey. Il ministero della Salute ha affermato che sta inviando delle squadre di medici a Tasikmalaya, nei pressi dell’epicentro del sisma, e nella vicina Bandung, città che ospita anche numerose università. «Molte case sono crollate», ha affermato Edi Sapian nel villaggio di Margamukti, a circa due ore d’auto da Bandung.
«Solo le case in legno sono rimaste in piedi. Molti abitanti sono feriti». «Siamo fuggiti appena il terremoto ha colpito. Cinque minuti dopo la mia casa è crollata», la testimonianza di un altro indonesiano. Il terremoto è stato avvertito fino a Surabaya, la seconda città del Paese, circa 500 chilometri a nordest di Tasikmalaya, e nell’isola turistica di Bali, circa 700 chilometri verso est. Almeno 27 persone sarebbero rimaste ferite a Giacarta, secondo le prime e framentarie informazioni rilasciate dal ministero della Salute. Evacuati anche tutti gli uffici della capitale. «Il palazzo ha inizialmente tremato per circa 10 secondi, poi si è fermato, ma un attimo dopo ha ricominciato», racconta un’altra testimonianza. La società elettrica Pln ha fatto sapere che non ci sono stati disagi per gli impianti e sulla rete, mentre la Pertamina, società petrolifera statale, ha reso noto che le sue raffinerie, la Balongan a Giava ovest e la Cilacap nel centro di Java, non hanno subito danni. Anche la Grecia ha tremato. Una scossa di intensità pari a 4,4 gradi sulla scala Richter, è stata segnalata, ieri, nella regione dell’Attica. Per ora non si segnalano danni o vittime.
«Centinaia di edifici crollati», secondo il ministero della Sanità. Evacuati gli uffici governativi della capitale
zata della sua malattia, ha detto che l’uomo accusato della strage di Lockerbie è troppo debole per potere parlare ai giornalisti. «A causa delle cure che sta ricevendo il suo sistema immunitario è molto debole e oggi non puà parlare con nessuno», ha affermato Omar Senoussi, portavoce dell’ospedale. l primo ministro britannico, Gordon Brown ha respinto oggi ancora una volta l’accusa che la liberazione di al Megrahi era connessa a lucrosi contratti nel settore del petrolio e del gas naturale. Il ministro degli esteri David Miliband ha dichiarato stamani alla Bbc: «Non volevamo che morisse in prigione. No, non cercavamo la sua morte in carcere».
di consiglieri del Pcc, piuttosto che di competitori. Peraltro il Pd è stato proibito sin dal 1998 e decine di suoi fondatori sono stati arrestati e condannati a pene anche superiori a 13 anni, soprattutto con l’accusa di sovversione. Xie è stato arrestato nel giugno 2008, subito prima delle Olimpiadi. In quel periodo le autorità arrestarono o mandarono via dalle città olimpiche i principali dissidenti, per evitare proteste pubbliche. Egli ha già scontato 3 anni di rieducazione-tramite-lavoro, veri campi di concentramento, per avere tenuto una serie di discorsi in cui ha denunciato la repressione militare del 4 giugno 1989 contro i dimostranti pro-democrazia in piazza Tiananamen a Pechino. Il gruppo Human Rights in China dice che è una delle condanne più severe degli ultimi anni. A conferma che Pechino sta operando una sistematica e dura repressione contro attivisti pro-diritti e dissidenti in vista delle grandi celebrazioni programmate per il 60° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese, il 1° ottobre. Il gruppo Chinese Human Rights Defenders denuncia che rimane pure in carcere Liu Xiaobo, firmatario di Carta 08, documento che chiede più rispetto dei diritti e più democrazia in Cina.
speciale / unità d’italia
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Oggi le decisioni del Consiglio dei ministri
Il mistero del dossier Bondi di Guglielmo Malagodi utto nasce (con estremo ritardo) lo scorso 20 luglio, quando Ernesto Galli della Loggia - sulle colonne del Corriere della Sera - denuncia la totale mancanza di iniziative per l’ormai prossima celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, frutto a suo avvisto si una immagine «a brandelli e di fatto inesistente» che la classe politica nostrana avrebbe «dell’Italia in quanto stato nazionale e della sua storia». Galli della Loggia parte dalla decisione del governo Prodi, nel 2007, di non «allestire una mostra memorabile», «mettere in piedi un grande museo della storia nazionale» o «costruire una grande biblioteca», ma invece di finanziare «undici opere pubbliche in altrettante città della Penisola; opere pubbliche di ogni tipo, così come viene, senza alcun nesso con il tema dell’unità». L’editorialista del Corsera non se la prende solo con la maggioranza di centrosinistra, ma anche con l’altro «grande elemosiniere» (il governo Berlusconi) che governa il Paese dal 2008, anch’esso invischiato in «ulteriori proposte di interventi infrastrutturali», ognuno con il suo «bravo cofinanziamento statale». Galli della Loggia parla anche dell’inutilità del Comitato dei Garanti, scelti per vigilare sui progetti. E nei giorni successivi alla pubblicazione del suo articolo, improvvisamente si moltiplicano gli interventi di prestigio su una vicenda fino a quel momento “rimossa” dalla coscienza collettiva del Paese. Sullo stesso Corriere della Sera (il primo a rispondere è il ministro della Cultura, Sandro Bondi), ma anche su altre testate (come Mario Pirani su Repubblica).
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Fino all’intervento dello stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che prima riceve il Comitato dei Garanti e poi sollecita al governo la «definizione in tempi brevi di un programma, anche in considerazione dell’avvicinarsi della scadenza». Gli fa eco il suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi (che del comitato per l’anniversario del 2011 è il presidente), che si dice addirittura pronto a lasciare il suo posto: «Non faccio da alibi. Dicono che non ci sono soldi, ma in realtà mancano i progetti». A dimettersi, davvero, è MarcelloVeneziani, che su Libero spiega le sue ragioni: «Le celebrazioni sono una farsa. Avrei voluto più radicalmente dimettermi da italiano perché in questo Paese non conta la verità, il merito, la giustizia e nemmeno l’Italia». Parole alla quali fa eco Alessandro Campi, direttore scientifico della Fondazione FareFuturo, (il think-tank di Gianfranco Fini): «La verità è che la Lega e il leghismo ormai hanno quasi vinto la loro scommessa disgregante. Non tanto sul piano politico, quanto su quello emotivo, mentale e della sensibilità collettiva». Oggi, finalmente, il Consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa di concreto sulle celebrazioni. Vedremo se il governo avrà saputo fare tesoro di tutte le critiche (e i suggerimenti) che gli sono piovuti addosso nelle ultime settimane.
Identità. “Right or wrong, it’s my country” dovrebbe diventare lo slogan del nostro destino comune
Contro la retorica contro il rifiuto
Ecco i due sentimenti dai quali bisogna guardarsi nel celebrare i primi 150 anni dell’Unità d’Italia di Giuseppe Baiocchi è un adagio anglosassone (right or wrong, it’s my country) al quale solo il nostro Paese è rimasto sempre immune, se non testardamente refrattario. E forse quel “giusto o sbagliato, è comunque il mio Paese”potrebbe finalmente diventare un leit-motiv definitivo a fondamento di un ineludibile destino comune. E contribuirebbe a dare un significato non militarmente conflittuale alle necessarie celebrazione dei primi 150 anni dell’Unità dell’Italia, che ormai sempre più spesso entrano nella polemica politica quotidiana. Anche perché sul tema incombono due macigni di uguale pericolosità: ovvero la retorica risorgimentale carica di oleografia e di sterile propaganda e, dall’altra parte, il rifiuto pregiudiziale e irridente, entrambi anticamera di un disincanto e di un disinteresse di una opinione pubblica che ha smarrito il senso produttivo della memoria.
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Invece l’occasione è preziosa ed irripetibile, soprattutto verso le giovani generazioni, da troppo tempo orfane di una logica credibile di riconoscimento simbolico, che non sia soltanto la maglietta sportiva della Nazionale. Perché
il senso di una serena appartenenza e di una comunità di intenti e di destino, pur nella ricchezza delle diversità di territorio, passa, per sua imprescindibile natura, dalla conoscenza completa e critica, senza censure interessate né edulcorazioni convenienti, delle origini della nazione. Ecco che allora l’impegno per la ricorrenza trova il suo significato nell’esplorare meriti e limiti del processo unitario, carico di sacrifici e di sangue, di debolezze e di nobiltà, di progresso e di contraddizioni che ancora riverberano sul presente e sul futuro e che chiedono di essere affrontate con spirito aperto e realistica consapevolezza.
sibili che, tutte, fanno parte del patrimonio storico e politico comune. È del tutto assente, ad esempio, sia nei manuali di storia che nella cultura comune la pressante offensiva diplomatica con cui Cavour scongiurò Franceschiello, re dei Borboni di Napoli, perché partecipasse in alleanza con il Piemonte alle guerre d’indipendenza contro l’Austria (e forse la questione meridionale e i separatismi alla siciliana avrebbero anche oggi connotati differenti); oppure è caduta nel dimenticatoio la missione di Rosmini a Roma, con la quale si fu a un passo dall’accordo territoriale e confederale, fatte salve le garanzie internazionali del Vaticano (e la questione romana e il conflitto con la Chiesa potevano trovare un altro sbocco). O il rifiuto sdegnoso del patriota Carlo Cattaneo a entrare, da democratico e riformista, nello Stato unitario dove poteva temperare fin dall’inizio il miope centralismo sabaudo. È il grande e irrisolto “paradosso del Nord”.
Manca il sincero tentativo di ritrovare criticamente un terreno comune. Eppure c’è già: il patrimonio cristiano e liberale di Manzoni
E forse un Paese che non ha paura di sé, che è cosciente della sua forza e del suo ruolo nella comunità internazionale, può dedicarsi alla “questione delle origini”, aprendo alla pubblica opinione e alla scuola la discussione sul senso di quegli avvenimenti, sul cammino allora intrapreso e, soprattutto, sui percorsi alternativi, sulle altre strade pos-
speciale / unità d’italia
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Come proteggere la Nazione da ridicole e pericolose tentazioni secessioniste
Alle provocazioni leghiste risponda la (vera) politica Inseriamo nella Costituzione la tutela della lingua italiana e facciamo leggere ai giovani “Gli ideali del Risorgimento” di Riccardo Paradisi a Lega dunque rilancia e chiede che nella Costituzione venga inserita la tutela dei dialetti oltre a quella della lingua italiana. Una proposta non nuova quella del Carroccio, su cui mesi fa convergevano addirittura alcuni esponenti dell’attuale opposizione. Ma la Lega con il suo ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli insiste in un momento in cui dopo l’offensiva antinazionale che ha arroventato l’ormai declinante agosto, sarebbe opportuno fare economia di polemiche e provocazioni. Il problema è che forse non si tratta solo di provocazioni: al malcontento del Nord, alla tendenza disgregante in atto nel Paese, alla lontananza e alla diffidenza verso lo Stato e le istituzioni (sentimenti molto spesso comprensibili e legittimi) la Lega sembra proprio intenzionata a fornire un’ideologia di supporto. Non solo inventando patrie padane e alimentando sentimenti secessionisti, ma dando vita a una campagna di delegittimazione dei simboli dell’Unità nazionale e degli ideali del Risorgimento che non arretra nemmeno di fronte all’insulto. Una campagna che, a parte le prese di posizione del presidente Napolitano, non trova un deciso contrasto in una classe politica, di destra e di sinistra, che come ha giustamente notato Ernesto Galli della Loggia sembra indifferente a sentire l’Italia come idea di una sorte comune dotata di qualche senso. La patria entra ormai nel discorso pubblico come flatus vocis, retorica comoda e vuota, mai come dato politico «produttore di emozioni, di analisi, di programmi».
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Quello cioè di essere stato il motore originario di tutti i grandi cambiamenti (il Risorgimento, il fascismo, la Resistenza) e di ritrovarsi dopo regolarmente “contro”: contro cioè gli esiti finali dei processi di trasformazione che aveva contribuito ad innescare... È facile prevedere che, negli interessi contingenti e ideologici delle lobbies culturali e politiche, che ormai strattonano da ogni parte i programmi delle celebrazioni, non brillino sensibilità e lungimiranza.
Ovvero, concluse da tempo le battaglie ideologiche e interpretative per l’“appropriazione” del Risorgimento, manchi il sincero tentativo di ritrovare criticamente il terreno comune. Eppure c’è già e basta riscoprirlo, anche se, di questi tempi, difficilmente piacerà: il patrimonio unitario, liberale e cristiano, che ci ha affidato Alessandro Manzoni e che ha comunque segnato tutte le generazioni che ci separano dalle vicende di un secolo e mezzo fa. Con il pensiero politico: quando raccoglie e sublima le scintille di diritto e democrazia che provengono addirittura dalla storia longobarda o quando mette in guardia dagli errori e dagli orrori della rivoluzione giacobina. E pure con l’umile e lunghissimo lavoro sulla lingua, scelta come vestito comunicativo da donare alla promessa di unificazione, e indispensabile strumento per trasmettere nel romanzo la sofferta pazienza dei popoli e il riscatto degli oppressi. Nella lezione di lingua italiana, che Nell’immagine grande: Manzoni ha lasciato, non si può preGiuseppe scindere, come elemento costitutivo, Garibaldi dall’ironia: l’ironia verso gli intellete Vittorio tuali alla Don Ferrante, l’ironia verso i Emanuele II potenti alla Ferrer, l’ironia fra la gente Qui sopra, del popolo. E forse anche sull’Unità dall’alto: d’Italia un filo di ironia, come per i caAlessandro si qui intorno riportati, può aiutare a Manzoni; ritrovare quel carattere peculiare e Antonio tutto italiano di non prendersi troppo Rosmini; sul serio. Perché è forte e coeso quel Cavour; Carlo Cattaneo popolo che sa anche sorridere di sé.
zione parlava l’italiano: hanno incluso d’ufficio gli abitanti del Lazio e della Toscana. Soltanto nel ’63 si è superato il 50 per cento di coloro che capivano l’italiano. E oggi l’uso del dialetto supera il 40 per cento. Se vogliamo veramente festeggiare la nascita della Nazione non si può chiudere gli occhi davanti alla realtà». Infatti non si possono chiudere gli occhi: è decisamente superiore al consentito il fatto che solo il 60 per cento degli italiani parli correntemente l’italiano e che il 40 per cento di loro si esprima più agevolmente nel dialetto. Che sono cose preziose, ma che non sono la lingua di questo Paese. Più che eversivo poi, ciò che dice Calderoli è ridicolo, visto che di una koinè italiana si parla sin dal Medioevo.
Ma non basta la replica culturale, alla Lega sarebbe ormai il caso di rispondere con atti politici. Magari inserendo nella Costituzione la tutela della lingua italiana come lingua nazionale e il riconoscimento dell’inno di Mameli come inno ufficiale della nazione. Il Popolo della libertà avrebbe molto probabilmente anche l’appoggio dell’opposizione in un’iniziativa del genere e sicuramente la maggioranza per imporla. E non si dovrebbe fare nemmeno molta fatica per immaginare la forma di un disegno di legge che era già stato presentato all’inizio degli anni Duemila. Una proposta dove si chiedeva di ufficializzare la lingua italiana con una modifica dell’articolo 18 della Costituzione precisando, come fanno molte altre costituzioni nazionali, qual è la lingua nazionale italiana. Nella stessa proposta si prevedeva la costituzione di un Consiglio superiore della lingua italiana considerata «un bene culturale e sociale che va difesa dall’infiltrazione di tutte quelle espressioni incongrue e disorientanti per i cittadini che provengono non solo dall’adozione indiscriminata di parole straniere ma anche da neologismi incomprensibili e da accentuazioni vernacolari». Insomma lo spirito della proposta era quello di favorire «l’uso della buona lingua nelle scuole, nei media e nella pubblicità» che non esclude la valorizzazione dei dialetti e non implica la esterofobia. Al recupero di quella proposta di legge si potrebbe aggiungere la ristampa e la diffusione nelle scuole della Repubblica di un prezioso libretto che in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia, nel 1961, fu distribuito ad ogni studente italiano per incarico del ministero della pubblica Istruzione. Un libretto prezioso, ben fatto, sereno, intitolato Gli ideali del Risorgimento e dell’Unità che comprendeva un’antologia dei discorsi delle imprese e delle correnti ideali del nostro Risorgimento. Alle nuove generazioni servirebbe per conoscere come è nata la nazione di cui sono cittadini. Per cosa hanno vissuto, hanno lottato e spesso sono morti gli uomini grazie ai quali essi oggi sono appunto dei cittadini italiani e non dei sudditi di qualche regno straniero o di qualche stato confessionale.
La Patria ormai è entrata nel discorso pubblico come un “flatus vocis”, cioè come una retorica comoda e vuota. Un terreno fertile per le intemerate del Carroccio
La dimostrazione di questa implosione di senso dell’idea di nazione è il fatto che di fronte alle intemerate leghiste c’è chi, come il presidente della Camera Gianfranco Fini, invoca al massimo il pensiero debole del patriottismo costituzionale, come se la nazione fosse solo una specie di bene giuridicamente protetto, un freddo contratto da sottoscrivere. Non stupisce quindi che di fronte a queste astrazioni la Lega possa davvero credere che l’Italia sia finita e immagini di archiviare anche la sua lingua, l’elemento cioè che ha unito gli italiani prima della loro unità politica. «Non ci vedo nulla di eversivo – ha detto Roberto Calderoli – nel ricordare che la lingua italiana è stata creata artificialmente. È stata fatta una piccola truffa nel 1861 per dire che in Italia solo l’1,7% della popola-
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speciale / unità d’italia
Mentre si attendono le decisioni del governo, qualche spunto per festeggiare il 150° anniversario della nascita del Paese
Tre idee per il 2011
Un filosofo, uno storico e un architetto: ecco come celebrare l’unità nazionale
ROMA. Senza un passo oltre il divisionismo – la patologia tutta Italiana secondo cui Nord e Sud, maggioranza e opposizione, destra e sinistra, diventano aporìe irriducibili – senza uno sforzo in questa direzione «qualsiasi tentativo di celebrare l’unità del Paese si riduce a semplice esercizio di retorica politica». Un esercizio vuoto, dice il filosofo Biagio De Giovanni, che con questo pregiudizio spiega anche il suo disincanto rispetto al dibattito sulle celebrazioni del 2011. D’altronde lo studioso napoletano, oltre ad essere stato rettore dell’università Orientale, vanta anche un passato da europarlamentare del Pci, che lo aiuta nel decifrare il“complesso antiunitario”del nostro Paese. Ma cos’è allora l’identità nazionale italiana? Dovrebbe consistere almeno in quello che è stato perfettamente definito il “plebiscito quotidiano’, ossia l’esistenza di un destino, di memorie e di un futuro comune. Questo è lo sfondo, nel quale si dovrebbe precisare un’identità italiana come unità del Nord e del Sud del Paese. E qui già ci imabattiamo in un problema oggi evidente. È un discorso compromesso in partenza, dunque? Aspetti, c’è un ulteriore elemento, anche più importante: non ci può essere unità della Nazione se non c’è un riconoscimento politico e culturale tra le forze che si contendono il governo del Paese. È una questione che attraversa tutta la storia della Repubblica. E finché non la si risolve, appunto, ogni celebrazio-
ne rischia di ridursi sempre a un esercizio di retorica politica. In fondo il presidente Napolitano, il presidente Ciampi o il professor Galli Della Loggia paventano un rischio simile, considerano proprio per questo insufficiente il programma previsto finora, ricco di opere da inaugurare e privo di approfondimento culturale. Intediamoci, io non considero cosa da poco che si sollevi anche il problema delle risorse da spendere, ma è un aspetto insufficiente se poi sotto il velo la realtà italiana fibrilla in tutt’altra direzione. E allora lei cosa proporrebbe per il 2011? Per me la cosa più bella che si possa fare è la stesura di una specie di documento comune, da parte di tutte forze politiche, contro il divisionismo. Cioè per sostenere l’idea che la scissione italiana, tra Nord e Sud, tra maggioranza e minoranza, tra governo e opposizione, appartenga al passato, o che almeno ci si impegni a farla appartenere al passato. Credo che un documento del genere, costruito in modo non retorico ma pensato e argomentato, sarebbe assai
Parla Biagio De Giovanni
mento decisivo nella cultura e nell’identità del Paese. Non c’è dubbio. Scontiamo due fatti, il ritardo con cui l’unità è stata conseguita e l’ostlità della Chiesa al processo di unificazione. Il non expedit, la non partecipazione dei cattolici alla vita politica fino ai primi del 900 ha pesato. Dopodiché a parte la parentresi fascista che merita un discorso separato, e nonostante io non sia tra i detrattori della Prima Repubblica, viene forse sottovalutata l’impossibilità del reciproco riconoscimento che si è radicata nei decenni della contesa Dc-Pci. Il Partito comunista non poteva andare al potere per ragioni internazionali, e anche se c’è stato a un certo punto un rapporto consociativo si trattava di due forze che interpretavano due forme diverse di civiltà politica. Anche questo pesa nel senso comune degli italiani. E oggi forse c’è un’inavvertita sottovalutazione di questo fardello. Io ho militato nel Pci negli anni 60 e 70, non dimentico il ruolo positivo assunto nella lotta al terrorismo, ma dico che nelle sezioni del Partito comunista la Democrazia cristiana era il nemico, e basta. Il problema dell’Italia, dell’unità del Paese, si poneva fino a un certo punto. davanti non c’era un avversario politico, ma un nemico da distruggere.
«Intanto scrivete un documento contro ogni tentazione secessionista» di Errico Novi più importante di dieci manifestazioni. Più che di celebrare qui si tratta di rifondare, insomma. Il problema italiano è aperto e riguarda tutti, destra e sinistra, nessuno può dirsene affrancato, al centro forse le responsabilità sono un po’ minori ma in generale siamo ancora al punto che se viene fatta una cosa da una parte, l’altra la liquida come razzismo, e viceversa si parla ancora di comunismo… È un modo per dissolvere il senso comune degli italiani. Parte della nostra storiografia fa discendere questa congenita conflittualità dal fatto che l’Italia si sia unificata in un contrasto tra Stato e Chiesa, la quale pure rappresenta un ele-
Eppure una volta acquisito che anche la sinistra potesse governare, l’impossibilità del riconoscimento si è addirittura accentuata. Perché il conflitto ha perso di nobiltà: prima almeno si combatteva sui destini dell’umanità, con l’arrivo di Berlusconi il disconoscimento è diventato antropologico. È scaduta la qualità del conflitto politico, senza dubbio. Siamo imprigionati dal non aver fatto fino in fondo i conti con la nostra storia: con il fascismo, ma ancora di più con il comunismo, forse perché gli eredi del Pci sono usciti assolti dalla tempesta degli anni Novanta e hanno pensato che non ci fosse bisogno di guardarsi indietro. La storia invece si vendica. Oggi non le sembra che una parte della maggioranza, la Lega innanzitutto, punti a disgregare il Paese anche attraverso la della delegittimazione Chiesa, che ne costituisce appunto uno dei pochi riferimenti identitari? La Lega però intercetta anche un’insofferenza trasversale per una Chiesa che dà l’impressione di voler intervenire nelle decisioni. È un’ulteriore processo espansivo, questo sul versante della laicità, preoccupante senza dubbio, visti i tratti prevalenti di quel partito. Magari le celebrazioni dei 150 anni dall’unità avranno un incisività mediatica utile a compensare la spinta disgregatrice della Lega. Ma non basta, se le classi dirigenti restano preda di quel divisionismo da cui non riescono a distaccarsi.
speciale / unità d’italia
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Per lo storico Piero Melograni, «l’identità dell’Italia è debole perché spogliata della memoria del suo passato»
Un museo nazionale contro la rimozione di Piero Melograni l di là delle modalità celebrative prescelte, i centocinquant’anni di Unità nazionale ripropongono ancora una volta la drammatica attualità di un Paese sempre più insufflato dalla virtualità di un eterno presente, e sgomberato da tutte le pietre angolari che ne hanno descritto il percorso e segnato nei secoli il suo ricco substrato di storie e popoli.
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lavano di padre in figlio nozioni e percezioni condivise. Specie attorno alle giovani generazioni si è prodotta una cesura con il passato, una faglia che le ha separate da tutto ciò che le ha precedute e le ha condotte in una sorta di confino in cui il tempo ha smesso i suoi rintocchi e ha creato uno spazio senza coordinate. La memoria storica è per una società l’equivalente di un ricordo per l’individuo. E così non può esistere vera identità senza il riconoscimento di sé a se stessi, dei fatti che ci identificano e contraddistinguono il nostro agire e il nostro sentire. Avrebbe ragion d’essere perciò la creazione di un museo nazionale, atto a restituire ai ragazzi frammenti e volti perduti, geografie sommerse, storie
Bisogna restituire ai giovani frammenti e volti perduti, geografie sommerse, storie segrete, echi e richiami
una nazione afflitta da un pervasivo meccanismo di rimozione, un Paese che sembra continuare a vivere una sindrome da stress post che traumatico non accenna mai a guarire. La nostra è un’identità debole perché spogliata della sua memoria storica e privata dei suoi gangli di trasmissione che un tempo veico-
segrete, echi e richiami. Piccoli sprazzi di mondi sepolti o insabbiati dalla modernità che tritura cose e persone alla velocità della luce, da recuperare alla causa della memoria e del senso più autentico dell’essere italiani. Ma dovrebbe trattarsi di un museo multimediale, vivo e al passo con i tempi, pieno di attrazioni nel senso più alto del termine. Storie e racconti in grado di calamitare di nuovo i ragazzi verso le loro storie e i loro avi.
Ci sono centinaia di scolaresche che visitano ogni giorno palazzi storici e luoghi di qualche rilievo storico, ma occorre che questi contatti sprigionino scintille e calore nei loro animi attraverso un rapporto vivo con la storia e la cultura, spesso ridotto a fugace mordi e fuggi di scolaretti implumi vittime di un’amnesia che li rende inquieti. La festa della nostra Unità non può che assumere senso nel cercare di ricomporla. E perciò il massimo degli sforzi va indirizzato verso i più giovani. Gli italiani di domani.
Per l’architetto Mario Occhiuto, «occorre puntare sul mosaico culturale d’Italia, che ha un’identità multipla ma riconoscibile»
Via le polemiche, promuoviamo eventi di Mario Occhiuto inutile lambiccarsi il cervello alla ricerca di un improbabile amalgama italiano che non sia infarcito di stilemi estetizzanti. Per i centocinquant’anni di Unità nazionale non c’è nulla di meglio che restituire ai cittadini l’immagine di un Paese che ha fatto tesoro della diversità e del confronto, e che nel corso dei secoli ha raggiunto tuttavia una riconoscibilità ammirata e apprezzata in tutto il mondo. Nonostante il puntuale dibattito che infiamma le estati italiane e dà fuoco alle polveri secessioniste, l’italianità è ben salda e radicata in tutto il territorio nazionale, perché vicissitudini storiche del tutto particolari hanno irrorato il Belpaese di molteplici impulsi e risorse e ne hanno tratteggiato un’identità multipla ma riconoscibile.
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Sarebbe quindi opportuno non andare a caccia di semplificazioni o polemichette da quattro soldi, ma far sì che il quadro celebrativo dell’evento facesse orgogliosamente emergere la ricchezza ineguagliabile del mosaico culturale italiano. In campo artistico, ad esempio, raffinatezza, cura del dettaglio, ele-
ganza e sapienza compositiva, appartengono al popolo italiano in maniera pressoché omogenea da Quarto a Marsala. E sebbene molti italiani lamentino o rivendichino come proprie prerogative litigate da questa o quella comunità, la percezione della nostra identità è all’estero altamente definita e simbolicamente individuata. Basti pensare alla varietà della nostra tradizione gastronomica, che scorre in mille rivoli da Nord a Sud. Per noi italiani è quasi del tutto irreconciliabile, ma nel resto del mondo è un modello, un canone che ancora oggi fa scuola. Andrebbe quindi realizzato senza remore un programma di eventi, mostre e fiere capaci di raccontare la nostra storia, la nostra tipica e originaria multiculturalità e l’abilità inventiva e adattativa che l’hanno caratterizzata. Una cosa che accadde sin dall’inizio, quando la civiltà romana
esemplò il proprio sviluppo sul modello greco, per poi saperne elaborare in autonomia riferimenti e tradizioni. In particolare, il compleanno d’Italia potrebbe avere degna celebrazione grazie alla costruzione di edifici simbolo e di mostre permanenti, in grado di prolungare e diffondere un messaggio sostanziale: non esiste un’italianità pura, ma solo un’identità italiana spuria, che assurge ad autenticità solo se non viene artificialmente mutilata della sua ricchezza e della sua felice complicatezza.
Vicissitudini storiche del tutto particolari hanno irrorato il Belpaese di molteplici impulsi e incredibili risorse
In questo senso
andrebbe riservato spazio a nuovi Paesi come l’Albania, che in questi ultimi anni hanno alimentato la nostra cultura e ne hanno tratto al contempo nutrimento, in omaggio a quel processo di continua contaminazione e cangiante ricchezza che hanno fatto grande l’anima di questo Paese.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Le Figaro” del 02/09/2009
Sarkò il poliziotto di Jean-Marc Leclerc l presidente della Repubblica ha sbattuto i pugni sul tavolo, martedì scorso, alzando i toni dell’esecutivo: pretende risultati sul fronte della sicurezza interna. Il richiamo all’ordine, per la lotta alla criminalità, è stato di quelli muscolari. È un presidente polizzioto che vuol evocare la sua esperienza come ministro degli interni (dove risolse il non facile problema del dialogo con le comunità islamiche, ndr)
I
Nicolas Sarkozy, l’altro giorno, ha convocato all’Eliseo, attorno al suo ministro degli Interni, Brice Hortefeux, il direttore generale della Polizia, Federico Péchenard, il direttore generale della Gendarmeria, Roland Gilles e il prefetto di Polizia di Parigi, Michel Gaudin. Claude Guéant, il segretario generale dell’Eliseo era in piedi al suo fianco, mentre il primo Ministro era rappresentato dal suo capo del personale. Questa riunione dai toni da consiglio di guerra, verteva sui risultati sin qui ottenuti nella guerra alla criminalità. Evidentemnete una nota dolente per il governo e il presidente. E i toni non erano poi così ”amichevoli”, come molti hanno confessato, con un certo imbarazzo, all’uscita dall’Eliseo. Secondo alcune indiscrezioni, il presidente avrebbe pronunciato un discorso piuttosto forte, cosciente che il ritorno alla sicurezza «soprattutto e per tutti» è una parte essenziale del suo programma politico, votato dai cittadini. Naturalmente, il risultato è stato complessivamente positivo, con un calo generale dei fenomeni criminali del 15 per cento dal 2002. Centinaia di migliaia di vite sono state salvate. Ma la violenza è in aumento a un passo del 5 per cento all’anno, anche se sono lontani i tempi di Jospen,
dove questo dato correva come l’inflazione a due cifre. Brice Hortefeux non è certo responsabile di questa situazione che ha trovato quando a preso servizio con l’incarico politico al ministero. Un posto, ricordiamo, ricoperto in passato dallo stesso Sarkozy. Negli ambienti dell’Eliseo si è sentito spesso criticare aspramente il lavoro condotto nell’ultimo biennio dagli Interni. Si dice che Michéle Allyit-Marie, chiamato per risolvere il problema del coordinamento fra polizia e gendarmeria, non sia riuscito a imprimere la necessaria velocità alla grande riforma delle forze di sicurezza che doveva portare a termine. Nell’agenda del presidente c’è scritto in rosso che occorre migliorare i risultati. Ecco un altro spinoso argomento della contesa: ci sono tensioni tra il Pj (polizia giudiziaria, ndr) e il Dcri (Direction centrale du renseignement intérieur) il nuovo servizio d’intelligence interna e di controspionaggio francese, sul dossier terrorismo, specialmente sull’argomento Eta, la formazione terropristica basca (alcuni mezzi usati negli ultimi attentati in Spagna, venivano dalla Francia, ndr)
Anche in questo caso è necessaria una messa a punto. E poi ci sono le cifre. «Il capo dello Stato ha sollecitato le forze di sicurezza per migliorare i risultati» la sintesi di Hortefeux. Il minsitro ha
sottolineato anche alcuni punti fonte di soddisfazione. «Ci sono dati positivi come l’alto numerio d’arresti e di fermi di polizia che secondo le statisctiche sono aumentati del 50 per cento negli ultimi dieci anni». Il ministro ha anche ammesso che i dati sui furti e sulle violenze contro individui «non sono affatto soddisfacenti».Le effrazioni in abitazioni sono schizzate alle stelle lo scorso anno, aumentando del 12 per cento.
La svolta al ministero degli Interni ci sarà domani (oggi per chi legge, ndr) quando Hortefeux riunirà tutti i cappi della polizia e quelli dei dipartimenti delle gendarmerie per stabilire una nuova rotta e degli obiettivi precisi. Da parte sua l’Eliseo non ha ncora finito la sua campagna sulla sicurezza. Alle 17.00 (di ieri, ndr) Sarkozy affrtonterà ancora una volta il dossier terrorismo con i responsabili del Dcri e soprattutto con gli uomini della Police judiciare.
L’IMMAGINE
L’unità nazionale si vede anche nella difesa del ruolo e del valore delle nostre missioni di pace Anche ai tempi del governo Prodi si diceva che l’Unità Nazionale si riscontra anche nella compattezza con la quale si difende la permanenza, il ruolo ed il valore delle nostre missioni di pace all’estero. Da tale punto di vista le parole di Frattini non entrano in polemica con chicchessia, ma tendono a ricordare che prima di ogni riflessione, occorre anteporre delle necessità di beneficio che sono insite alla sicurezza di tutti. Credo che nulla possa dividere la compattezza di una maggioranza, che su tali questioni riceve la comprensione anche di alcuni leader dell’opposizione. Semmai è doveroso dotare i nostri soldati di mezzi e regole volti ad una maggiore salvaguardia dell’incolumità personale, fermo restando che le premesse del lavoro dei nostri militari sono e restano pacifiche.Tali iniziative sono state prese anche dagli uomini del contingente tedesco, che tanti anni fa erano bloccati da regole internazionali che si rifacevano ancora alla sconfitta ed alle responsabilità seguite al secondo conflitto mondiale.
Bruno Russo
UN UOMO DI NOME PANFILO Il vero nome di Panfilo è Juan Carlos Gonzalez Marcos, quarantotto anni portati maluccio, ora come ora disoccupato, ex macchinista nella flotta navale di pescatori cubani e subito dopo nelle Truppe speciali del ministero degli Interni. Per bere beve, c’è poco da fare, ma mica fa discorsi da ubriaco, per quelli bastano Speedy Gonzales e il compare Meo Porcello. Panfilo dice quello che pensiamo tutti, ma diventa famoso per come lo dice. Interrompe il reportage sul reggaeton di America TeVe canale 41, che trasmette da Miami, non dovrebbe arrivare a Cuba, ma un sacco di gente la vede. Misteri di un’isola dove tutto è vietato ma si trova sempre il modo di fare. Panfilo
grida: «Quello che manca è la roba da mangiare!». No, non sono parole da ubriaco, pure se barcolla dalla quantità di rum che s’è bevuto, magari fatto in casa, cispes de trén, spaccabudella infame. Panfilo diventa una star. Mi dicono gli amici che in qualche modo frequentano la rete, che il suo numero da ballerino ubriaco si trova su tutti i siti che parlano di Cuba. C’è chi ha fatto un montaggio con Raúl mentre afferma: «Quello che manca è la roba da mangiare!», solo che dal microfono esce la voce di Panfilo. Panfilo è una star del reggaeton, balla con stile da ubriaco, ma sono le parole che contano, mica la musica e i movimenti osceni… La televisione di Miami lo trasforma in un personaggio e questo mica lo
Via libera Tutto tranquillo, possiamo uscire!” questi attentissimi suricati (Suricata suricatta) ospiti del Taronga Zoo di Dubbo, in Australia, non riescono proprio a rilassarsi e si guardano sempre le spalle. Nelle savane e nelle pianure africane, infatti, il pericolo di finire tra le grinfie di un’aquila è all’ordine del giorno e per salvare la pelle organizzano turni di veglia serrati
voleva, povero Panfilo, ché subito l’accusano d’essere stato pagato e magari fosse vero, così saprebbe cosa mangiare, invece ha avuto il coraggio di dire ciò che sussurriamo tutti, il famoso coraggio da pinta di rum. Panfilo è stato arrestato dopo l’intervista, proprio dopo un balletto a base di reggaeton eseguito sul Malecón, ubriaco perso, mentre gridava
che era in pericolo, che aveva fame, che a Cuba non c’è niente da mangiare e lui temeva l’arrivo della polizia. E la polizia è arrivata il 4 agosto, puntuale come una cambiale in scadenza, se lo sono portato in galera e l’hanno processato a porte chiuse. Due anni di prigione, s’è beccato il povero Panfilo, per pericolosità sociale preventiva, lui è meno famoso di
Gorky, non se l’è cavata a buon mercato. E io sono qui che ascolto mia madre, leggo Yoani Sánchez di nascosto, ripeto a mente frasi di Martí. Essere ubriachi per essere liberi, suonerebbe proprio bene, quasi meglio dell’originale, ma adesso forse non è così vero. Neppure la follia ti salva dalla galera.
Gordiano Lupi
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
L’eternità poetica e profonda degli ebrei... Una persona su due, per le strade di New York, è ebrea; a mezzogiorno poi, quando la gente va a pranzo, non ci sono che ebrei. Oggi ne ho contati duemila su e giù per Fifth Avenue. Una vista simile risveglia la fantasia e ispira pensieri profondi. Allo storico ricorda la schiavitù degli ebrei asserviti ai babilonesi, e gli sventurati giorni di Spagna. Il poeta, dal canto suo, è indotto a meditare sul loro passato in Egitto e il loro futuro in questa terra. Forse verrà un giorno in cui gli abitanti dell’East Side marceranno a Fifth Avenue esattamente come gli abitanti di Parigi marciarono suVersailles! L’ebreo è re a New York, la Fifth Avenue è il suo palazzo... e troppo spesso la storia è solita ripetersi. Ma nell’ebreo c’è qualcosa di eterno: il mondo ha avuto inizio quando lui è nato, ed è suo perché lui possa conquistarlo e perderlo e riconquistarlo. Sì, Mary, c’è qualcosa di sempiterno in quella strana razza, che a volte ammiriamo ma che non siamo mai riusciti ad apprezzare. Oh, queste tue lettere, queste ricche lettere. Ognuna è una festa per questa mia anima affamata! Voglio portarti qualcosa di bello.Voglio che posi lo sguardo su un nuovo quadro come hai già fatto due volte. Ricordi? Kahlil Gibran a Mary Haskell
ACCADDE OGGI
CLASS ACTION L’azione giudiziaria collettiva dovrebbe entrare in vigore il prossimo 1 gennaio e ancora non si sa come sarà articolata. E sarà possibile per illeciti commessi a partire dal 15 agosto, data posticipata rispetto al 1 luglio per evitare azioni contro Alitalia e i suoi disastri a fine luglio. Siamo sicuri che non ci sarà una nuova posticipazione visto che Alitalia è sempre lì come prima e le tante Alitalia popolano il nostro assetto economico disastrato?
Gennaro Napoli
RETTE UNIVERSITARIE: ALTE O BASSE? Il professore Francesco Giavazzi in un editoriale apparso sul Corriere della Sera (“L’Università delle ipocrisie”) ha proposto di eliminare il tetto alla contribuzione degli studenti agli atenei, imposto per legge, pari al 20% del finanziamento ordinario annuale dello Stato, con l’obiettivo di permettere così alle università di incrementare a loro piacimento le rette universitarie. Queste «oggi - sostiene l’economista sono (in media) inferiori ai mille euro l’anno». L’economista della Bocconi ricava questa cifra, evidentemente, dalla tabella B5.1a (che si riferisce all’anno accademico 2004-5) del rapporto Education at a Glance 2008 che calcola a 1017 dollari l’ammontare delle tasse universitarie che, in media, uno studente universitario italiano paga ogni anno. Eppure se si scorre quella tabella ci si accorge che, tra i Paesi dell’Ocse, rette più alte di quelle italiane si praticano in Australia, Canada,
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
3 settembre 1935 Sir Malcolm Campbell raggiunge 304,331 miglia orarie sul Bonneville Speedway nello Utah, diventando la prima persona a guidare un’automobile sopra le 300 miglia orarie 1939 Seconda guerra mondiale: Francia, Australia e Regno Unito dichiarano guerra alla Germania 1941 Seconda guerra mondiale: ad Auschwitz i nazisti usano per la prima volta il gas tossico Zyklon B 1954 L’Esercito di liberazione popolare inizia il bombardamento dell’isola di Quemoy e delle Isole Matsu, controllate dalla Repubblica cinese 1965 Vaticano: papa Paolo VI pubblica l’enciclica Mysterium Fidei, sulla dottrina e il culto dell’eucarestia 1967 Dagen H (Giorno H) in Svezia: il traffico passa dalla guida a sinistra a quella a destra 1971 Il Qatar riottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1972 Antonella Ragno-Lonzi vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel fioretto
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Giappone, Corea, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti e Cile, mentre sono più basse in Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Turchia, Austria, Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Islanda e Irlanda. Anzi, nella Repubblica ceca, in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Polonia, Svezia non sono proprio previste tasse d’iscrizione. Anche se non sono disponibili i dati per molti Stati dell’Ocse e difficile è il raffronto con un Paese importante come la Germania, dove le tasse variano da Land a Land, è opportuno ricordare che tra i 19 Paesi dell’Ocse che sono anche membri dell’Unione europea per i quali sono disponibili i dati solo nel Regno Unito e in Olanda le rette superano i 1100 dollari (il dato si riferisce, in assenza di quello relativo alle università pubbliche, alle “governmentdependent private institutions”, vale a dire quelle che ricevono più della metà dei loro finanziamenti dallo Stato)! È del tutto legittimo proporre, come fa Giavazzi, di incrementare le rette studentesche per i più agiati per finanziare borse di studio per i meno abbienti più meritevoli. L’Università italiana a confronto con l’Europa è agli ultimi posti in Europa per residenze universitarie, borse di studio, prestiti agevolati, servizi vari agli studenti come trasporti, pasti e housing. Non bisogna quindi presentare l’università in Italia come “gratuita” lasciando intendere che all’estero essa sia generalmente più costosa che da noi.
IL TURISMO RECUPERA E VALORIZZA I POSTI E I TERRITORI NUOVI DEL SUD Per la forte presenza che il bosco ha in questa area, è importante la funzione che questa risorsa (oggi ancora poco tutelata e scarsamente valorizzata) può assumere anche per la produzione di biomassa da destinare alla generazione di energia rinnovabile. La nostra tesi continua con considerazioni di fondo sempre diverse, ritenendo che l’opportunità che ci offre il turismo sia un’occasione culturale ed economica da cogliere in pieno, in quanto recupera e valorizza i posti e territori nuovi di un’area del sud, ritenuta impropriamente marginale. L’interrogativo che ci siamo posti è il seguente: perché il turista deve venire in Basilicata? Perché in essa ci sono il mare e la montagna ? Perché è una regione tranquilla? Nel paese Italia non ci sono altrettanti posti ameni dove si può godere lo stesso mare pulito e le stesse montagne ? Riteniamo, tuttavia, che queste peculiarità turistiche rappresentino solo il biglietto da visita di una scelta che, per essere tale, meriti, rispetto ad altri luoghi più attrezzati e più frequentati, qualche cosa di più nell’ambito dell’accoglienza fatta di più attenzioni e di alternative culturali. Siamo convinti che dietro ad un progetto, dietro ad un pacchetto turistico da vendere ci debba essere una strategia, in essa una tecnica che costruisca, nell’immaginario collettivo, l’idea di una terra ospitale, scomoda, arcaica e, per questo, attrattiva. Nei secoli scorsi il grand tour, grande o piccolo che sia stato, è stato in passato frutto di un disegno chiaro e lucido e , comunque, segno di una scelta elitaria, e tuttavia, di una élite culturale, interessata a scoprire la Magna Grecia. Il turismo odierno, invece, è diventato fenomeno di massa, da un lato soddisfa quasi sempre un bisogno diffuso di riposo, e dall’altra cerca il divertimento. In questo divergente stile di vita si deve inserire la Basilicata. Il viaggio in Basilicata presuppone, ancora oggi, quella stessa forte esigenza spirituale così convincente e imperiosa da far privilegiare una esperienza problematica, scomoda, inquietante ad una qualsiasi forma di turismo che distenda o diverta, che, anche quando trattasi di località note per amenità di clima, bellezza di paesaggio e interesse di arte o di storia, il godimento delle stesse resti, comunque, assicurato solo a quei pochi che sappiano leggere i segni antichi e gustarne le valenze profonde. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 LUNEDÌ 7, ROMA, ORE 11 HOTEL AMBASCIATORI - VIA VENETO Riunione straordinaria del Consiglio Nazionale dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca Tedesco
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Venezia. La Mostra si apre con «Baarìa», il film sponsorizzato dal premier-produttore
Il capolavoro (comunista) di di Alessandro Boschi al momento che sarà impossibile parlare di Baarìa, il film che ha ufficialmente aperto la 66^ edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica diVenezia senza parlare di Silvio Berlusconi, ci togliamo subito il pensiero: ma il nostro premier l’avrà visto davvero tutto il film di Giuseppe Tornatore? La domanda è legittima, per addirittura due motivi. La durata, tanto per cominciare, oltre due ore e mezza. Ce lo vedete Berlusconi fermo per così tanto tempo? Immobile, senza fare battute e senza essere lui il protagonista? E poi la storia del film. Berlusconi, se le agenzie non verranno smentite dallo stesso, ha affermato che Baarìa è un capolavoro. Ciò significherebbe che una storia dove i comunisti che diventano socialisti sono considerati traditori, e in cui i comunisti duri e puri, più puri che duri, sono l’unico baluardo contro la mafia, è di gradimento di un Presidente del consiglio a capo di un governo di centro destra. Davvero bizzarro.
D
Ma al momento le cose stanno così. Oddio, ad essere pignoli una piccola ulteriore osserva-
siciliano abbia talento da vendere. Il film, dopo una prima mezz’ora caotica in cui francamente si fatica a tenere dietro alla storia, si placa e ti tira dentro ad una vicenda forse nemmeno troppo originale, ma ricca di personaggi e di immagini bellissime. Ecco, se c’è una cosa in cui Peppuccio è davvero maestro è il gusto dell’inquadratura, sempre impeccabile. Addirittura troppo piena di particolari. Di certo il cinema di Tornatore non è un cinema“a togliere”, su questo non c’è dubbio. Crediamo anzi, conoscendo un po’il regista, che questo film sia costato davvero un occhio della testa (altro motivo per cui Berlusconi…). Però gli investimenti “si vedono”, e non c’è una sola inquadratura che non sia studiata fin nei minimi dettagli. Anzi, per dirla tutta, questa opulenza è forse un limite del film (insieme al finale). D’altra parte raccontare tre generazioni di una famiglia, e il coinvolgimento del protagonista nella politica nell’ar-
farci capire mai il confine tra la storia e la Storia di cui sopra. Ma forse, ripetiamo, l’intenzione di Tornatore era esattamente questa. Una lettura degli avvenimenti legati a
TORNATORE
È la storia di tre generazioni a confronto sullo sfondo di Bagheria: quasi un kolossal (due ore e mezzo in tutto) impreziosito da splendide inquadrature e da un cast stellare. Ma è costato molto: per questo, forse, Berlusconi lo ha reclamizzato pubblicamente... zioncina andrebbe fatta. E cioè che il film di Tornatore è prodotto da Medusa. Ossia da Berlusconi. Ma la conclusione di questa considerazione ci porterebbe davvero troppo oltre. Ci porterebbe a formulare la strampalata ipotesi che un personaggio politico di primissimo piano (anzi, diciamo che in politica, in quella italiana per lo meno, esiste un unico piano, il suo), che un politico di tale fatta rinuncerebbe ai suoi principi per promuovere in prima persona un film che potrebbe far guadagnare alla sua azienda un sacco di soldi. Tale ipotesi, concorderete, è destituita da qualsiasi fondamento. Ma sul fatto che il film potrebbe davvero incassare ci sentiremmo di scommetterci. Baarìa è un film che ha suscitato nei quotidianisti una tiepida accoglienza (qualche applauso ma niente fischi), ma che piacerà al pubblico. Perché è spettacolare e intenso quanto basta, con un cast da mille e una notte, dove anche attori come Michele Placido e Monica Bellucci (in una simpatica autocitazione di Malena) accettano di comparire solo per pochi secondi. Fatte le dovute proporzioni è quello che accade a Terence Mallick, il regista de La sottile linea rossa e de La rabbia giovane, per il quale anche star di grandezza assoluta accettano di lavorare per pochissime inquadrature, magari di spalle (come Gorge Clooney) e a paga sindacale.
Poi, dire che tra i due registi sia possibile un paragone sarebbe piuttosto azzardato. Ma non c’è dubbio che il regista
co di un secolo, il tutto ambientato nella città di Bagheria (di cui Baarìa è il nome fenicio) doveva in qualche modo essere un fuoco d’artificio. E in effetti sia il linguaggio che i personaggi, tantissimi e variegati, conferiscono alla pellicola il sapore di una realtà vitale e frenetica.
Non sempre la storia con la S maiuscola si affaccia con chiarezza nella storia del film. Ad esempio il massacro di Portella della Ginestra è appena accennato (anche se la scena che lo preannuncia è davvero notevole) ed è verosimile che venga vissuto dalla maggior parte del pubblico come un inciso narrativo di relativa importanza. Oppure gli espropri dei latifondi da parte dei contadini, sorretti dai comunisti e osteggiati dalla mafia. Insomma, a volte si ha come la sensazione che la trama sia un po’troppo narrata dal di dentro, come se molte cose fossero date per scontate, e non ad uso e consumo di chi guarda. Purtroppo, e ci dispiace dirlo, non sempre chi va al cinema conosce la storia non solo della Sicilia ma nemmeno del nostro paese. Forse, anche questo va detto, il film procede volutamente più per sensazioni che per episodi. La struttura è affidata alla microstoria della famiglia di Giuseppe, il quale ci racconta, vivendola, la storia di un militante comunista. Ma lo fa in maniera così ingenua da non
quegli intrecci che da sempre legano gli impegni politici più profondi alle vicende intime di ogni persona. Con in più una declinazione popolare, cavalleresca, suggerita dei romanzi popolari di cui si nutre il protagonista. Protagonista interpretato da Francesco Scianna, davvero bravo. Come pure brave sono state Margareth Madè,Angela Molina e Lina Sastri, l’asse portante femminile del film. Per non parlare di bambini, volti veri che non vedremo mai nelle pubblicità televisive. Coinvolgente la musica di Ennio Morricone, sempre molto presente. Un consiglio, non perdetevi i titoli di coda.