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Peste della patria è il giornalismo che accetta le notizie senza vagliarle, quando pur non le inventa
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Cesare Cantù di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 15 SETTEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Alto Commissario contro la legge Maroni
L’Onu denuncia i respingimenti: «Sono migranti, non rifiuti tossici» E il presidente della Camera, in visita all’Aquila con “l’emigrata” Nancy Pelosi, insiste: «Non bisogna avere paura, il futuro è nell’integrazione»
COME SIAMO CADUTI IN BASSO
Feltri minaccia ancora Fini: «O rientri davvero nei ranghi o tiro fuori un fascicolo a “luci rosse” del 2000». Così la guerra interna al partito di maggioranza trasforma l’Italia in un teatro di ricatti politici degno dei vecchi Paesi dell’Est
di Franco Insardà er l’Onu, l’Italia è come la Libia e Malta. I tre paesi mediterranei «respingono i migranti senza verificare se stanno fuggendo da persecuzioni; li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi». Sono le parole che l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay dirà oggi a Ginevra. E Gianfranco Fini, in visita all’Aquila con l’«emigrante» Nancy Pelosi, insiste: «Non bisogna aver paura degli immigrati, il futuro è nell’integrazione». alle pagine 6 e 7
P
La Stasi del Pdl
alle pagine 2, 3, 4 e 5
A un anno dal crack, l’amministrazione Usa cambia strategia per la ripresa: «Basta soldi pubblici»
Obama lancia il «capitalismo sicuro» La ricetta del presidente: «Subito una riforma della finanza mondiale» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Sono tornati i bonus folli e gli stipendi a sette zeri
Le stime Eurostat penalizzano il nostro Paese
Ma la triste verità è che a Wall Street non è cambiato niente
In Italia il Pil va a picco. Solo il debito pubblico è da record: 1753 miliardi
NEW YORK. La ricetta di Barack Obama, a un anno dall’inizio della peggiore crisi finanziaria dai tempi della Depressione, è semplice: in pratica, si tratta di un ritorno al capitalismo responsabile condito dalla fine degli eccessi dell’ultimo decennio. Il presidente ha presentato la sua strada ieri, parlando proprio da Wall Street: «La riforma del sistema finanziario deve essere approvata quest’anno. Una nuova agenzia a protezione dei consumatori, delle nuove regole per il mercato sono fattori improrogabili. Ma non per questo dobbiamo ignorare quello che è stato già fatto: il bisogno di aiuto statale sta iniziando a diminuire». Il presidente Usa ha poi avvertito i mercati: «Non permetteremo gli eccessi del passato, e voi non dovete contare su un nuovo salvataggio pubblico. Un anno fa la situazione era gravissima: abbiamo cercato di fare il possibile per andare avanti. Abbiamo dovuto compiere dei passi aggressivi nell’ambito del credito, per aiutare le banche e tutti coloro che sono stati colpiti dalla crisi».
di Eamon Javers
di Francesco Pacifico
l collasso di Lehman Brothers, avvenuto giusto un anno fa, ha scatenato un panico finanziario globale che ha massacrato migliaia di punti del Dow Jones, fatto sparire trilioni di dollari dal benessere comune del mondo americano e provocato il più massiccio intervento governativo nel campo economico sin dai tempi del New Deal. Uno potrebbe pensare che una cosa del genere sia interessante anche per Wall Street. Ma, mentre il 2009 scorre via, è come se nulla fosse avvenuto. E tornano i bonus miliardari e gli stipendi a troppi zeri.
opo tanto ottismo, due docce fredde per l’economia italiana. La prima viene da Eurostat che ha rivisto al ribasso le sue previsioni: nel quarto trimestre la crescita del Pil italiano scenderà da +0,2 a +0,1%. Questo vuol dire, su base annua, che il nostro pil segnerà un negativo del 5% a fine anno. Da Bankitalia invece arrivano due dati molto negativi: il debito pubblico continua a salire (a luglio era a 1753,5 miliardi di euro) mentre è sceso sensibilmente il gettito fiscale (sempre a luglio, le entrate tributarie sono scese di 7 miliardi di euro).
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s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
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I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
182 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Minacce. Il “Giornale” prosegue la sua campagna denigratoria nei confronti del presidente della Camera
Il servizio (segreto) di Feltri «Fini si adegui, oppure contro di lui è pronto un dossier del 2000» Ma tra gli ex-An cresce l’insofferenza: «Siamo pronti ad azioni legali» di Riccardo Paradisi cco, mettiamola così, per Gianfranco Fini quell’invito di Vittorio Feltri a ”non svegliare il can che dorme” potrebbe essere l’ultimo avvertimento. Il terzo e l’ultimo dopo una serie che il direttore del Giornale ha rivolto al presidente della Camera. Il primo è stato all’indomani dell’affaire Boffo, il secondo dopo il discorso di Fini a Gubbio di cui ha particolarmente urtato il riferimento alle stragi di mafia degli anni Novanta e alla necessità della riapertura delle indagini. Il terzo e ultimo quello appunto di ieri, dove Feltri, finalmente, estrae la pistola: ricordando al presidente della Camera che «delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toc-
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L’avvocato Giulia Bongiorno attacca: «L’allusione del Giornale è una minaccia, adesso valuteremo se querelare il direttore» care al presidente della Camera. È sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza Nazionale per montare uno scandalo». A che si riferisce Feltri?
La vicenda, si dice, potrebbe essere la stessa di cui Il Giornale ha già scritto a giugno e riguarderebbe un giro di escort che, secondo l’inchiesta, avrebbero avuto accesso a Montecitorio per “soddisfare” alcuni parlamentari e i loro amici. Ma non è questo evidentemente il punto. Il punto è che ormai all’interno del centrodestra vige un clima da guerra sottile, da servizi segreti. La minaccia dell’apertura di un faldone imbarazzante per Fini arriva infatti, si diceva, dopo che Fini aveva parlato della necessità di riaprire le indagini sui delitti di mafia degli anni Novanta. Una sortita a sua volta intepretata come un assist a quelle procure che secondo ambienti ultra berlusconiani vorrebbero portare l’attacco al premier atra-
verso l’uso dei pentiti tirandolo dentro le indagini. Insomma una guerra di stiletti e veleni, di faldoni e informazioni riservate che sta avvelenando i pozzi del centrodestra e della politica. L’analisi di Benedetto della Vedova, deputato Pdl ex radicale e oggi molto vicino al presidente della Camera è che si sta compiendo un salto di livello qualitativo nello scontro interno al partito di maggioranza: «Si passa dal giornalismo ad altro: se si ha una notizia la si scrive, altrimenti no, ma ammonire qualcuno perché stia zitto non è giornalismo. Feltri è un grande giornalista e il finale del suo pezzo di oggi non l’ho capito perché non è da grande giornalista ammonire, non è né una notizia né un’opinione». E infatti è un avvertimento. Che i finiani naturalmente ritengono irricevibile tanto che l’avvocato Giulia Bongiorno, presidente della commissione giustizia della Camera e legale di Fini ha annunciato azioni legali. Italo Bocchino, vice capogruppo del Pdl alla Camera e uno dei finiani più attivi negli ultimi mesi, chiedeva invece l’altro ieri di «ricucire uno strappo più profondo di quanto sia mai stato in passato» e affermava che l’idea di «Fini isolato e imbalsamato nel suo ruolo istituzione è pericolosa», per questo aggiunge Bocchino: una cinquantina di deputati del Pdl di provenienza An, cui sarebbero pronti ad aggiungersi una decina di forzisti, sarebbe pronta a scrivere una lettera a Silvio Berlusconi per chiedere più democrazia interna e nello specifico un patto di consultazione permanente tra i due co-fondandori. Una petizione a cui segue una minaccia: «Se tali richieste non venissero accolte le cose cambieranno. Non sarà più scontato il nostro voto favorevole su tutti i provvedimenti.Tanto più che Fini ha un patrimonio di voti e una struttura da cui non si prescinde». È lo stesso spartito, senza minacce allegate però, che recitano oggi anche Gianni Alemanno e Adolfo Urso. «Il presidente Fini, dice il sindaco di Roma, ha tutto il diritto
La crisi parallela del Pdl e del Pd ha bloccato l’Italia
O con Bossi o con Di Pietro È questo il bipolarismo? di Giancristiano Desiderio e, perplessi, vi state chiedendo cosa significhi Pdl sappiate che l’ultima e giusta interpretazione è «partito della liquefazione». Le incomprensioni, diventate poi scontro, tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini hanno già avuto un approdo parlamentare, tanto che si parla apertamente di: a) fine del Pdl; b) nascita di un nuovo gruppo parlamentare; c) ritorno di An.Va da sé che con questo scenario - ipotizzato a mo’ di ricatto interno dal vicecapogruppo del partito del presidente del Consiglio alla Camera - il governo Berlusconi IV apparterrebbe al passato. Siamo già a questo punto a meno di un anno dalla nascita del Pdl che - fu detto sarebbe dovuto durare per almeno cinquant’anni? C’è anche qualcosa di peggio.
S
Il bipolarismo all’italiana ha mostrato ormai tutti i suoi limiti. Così com’è - lo vedete - la macchina bipolare con motore falsamente bipartitico non funziona. Non è un mistero per nessuno: la trazione politica del Pdl è la Lega. Al Viminale c’è Maroni. La riforma federalista è leghista. I conti - cioè i soldi - si fanno ascoltando prima di tutto il Nord. Ma la Lega non è un partito nazionale, mentre il Pdl vorrebbe esprimere proprio una cultura nazionale. Il problema politico del Pdl - diciamo pure del centrodestra di ieri e di oggi - è questo: una partito che vuole rappresentare la nazione nella sua interezza ha come sua guida politica un partito regionale. I rapporti di forza vanno invertiti e la sfida che abbiamo davanti è capire se è possibile un centrodestra in cui la Lega non guidi ma si accomodi dietro. E a sinistra? Ci sono i moralisti, i giacobini, ancora gli anticapitalisti, ma l’unica cosa che non si vede è la sinistra riformista. Il Pd fu fatto per unire cattolici e progressisti, ma il primo ex magistrato che da quelle parti alza la voce si porta dietro elettori e dirigenti. Il Pd sembra il Pdl senza la “elle”: non c’è la Lega e il suo “indipendentismo”, ma è inesistente - per dirla con Angelo Panebianco. Sulla scena politica italiana c’è questo bipolarismo squilibrato: le alleanze di governo e di opposizione sono guidate da minoranze territoriali (la Lega) o culturali (Di Pietro) che rendono inutile il governo e conducono il bipolarismo alla sua implosione. Ma la implosione può portare al bipolarismo equilibrato o temperato in cui le forze minori non sono decisive o alla fine del bipolarismo in cui con l’acqua sporca - il localismo leghista, il giacobinismo, gli avanzi comunisti - si butta via anche il bambino: l’alternanza. Prima che si giunga a teorizzare e ci si prepari alla fine per esaurimento storico del bipolarismo è bene che lo si riformi dall’interno - come, del resto, sarebbe già dovuto avvenire qualche anno fa - aprendo alle forze nazionali moderate e cattolico-liberali. Se questo significa archiviare il governo, pazienza, si archivi pure.
di porre problemi e temi di dibattito all’interno del Pdl e non può essere criminalizzato e messo in difficoltà per queste sue iniziative. Nei prossimi giorni chiederò un colloquio a Fini e a Berlusconi per parlare del candidato del centrodestra alle elezioni regionali nel Lazio. Come sindaco di Roma voglio dire la mia anche se ritengo che la decisione finale debba essere presa all’interno degli organi del partito dopo un dibattito all’interno al Pdl». Che è un altro modo per ribadire la richiesta di democrazia interna nel Pdl. Adolfo Urso segretario regionale della fondazione finiana Fare futuro insiste sul fatto che Fini non sarebbe isolato come dimostra il consenso che ha nel Paese. «Noi aspiriamo ad andare oltre, ad allargare i nostri consensi. Su provvedimenti come il testamento biologico, la Camera ha tutto il diritto costituzionale di intervenire a modificare e migliorare quanto approvato in Senato».
Ma se ci sono esponenti di An che escono allo scoperto e difendono pubblicamente Fini l’idea di Bocchino di annunciare il documento dei cinquanta non è stata giudicata geniale dentro An. Sabato scorso molti ex An si sono ritrovati un una riunione informale e si è registrata tra loro la più ampia solidarietà a Fini, scattata dopo l’intervista di Maurizio Gasparri al Giornale che definiva ingeneroso verso il Pdl l’intervento di Fini alla convention di Gubbio. Un’intervista in realtà moderata ma giudicata disfunzionale da molti esponenti ex An. Dalla solidarietà alla formalizzazione di un documento però ce ne passa. E annunciare 50 firme di resistenza parlamentare, dicono fonti interne all’ambiente di Fini, significa fargli un dispetto, non un favore. Perché 50 adesioni tra camera e Senato, esposte, non sono poi molte e si finirebbe per dar ragione a Feltri che parlava di una trentina appena di supporters alla Camera e al Senato per Fini. Una pattuglia. Meglio insomma continuare a fare pressione per condizionare piuttosto che andare a una guerra impari. Anche perché – continua la fonte finiana di liberal – la prima sensazione è che quando Fini pone la questione della necessità di un dibattito in seno al partito i
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Adornato: bisogna impedire che il tramonto del berlusconismo diventi un trauma istituzionale
«Davvero una povera Italia, divisa tra Beirut e Beverly Hills» Quello del grande Centro è l’unico progetto capace di restituire dignità alla politica, oggi prigioniera di gangsterismi e lussi di cartapesta di Errico Novi
Nuovo, durissimo attacco del «Giornale» per la penna di Vittorio Feltri, contro Gianfranco Fini: se non si adeguerà alla politica del premier - ha scritto ieri il quotidiano di casa Berlusconi - c’è pronto un piccante dossier del 2000 contro di lui. A destra, Ferdinando Adornato agli Stati generali dei centristi a Chianciano
suoi consensi interni salgono. Però questo consenso diventa più discreto quando ci si deve contare. Forse è lo stesso ragionamento che fa il politilogo finiano Alessandro Campi, direttore scientifico della fondazione Fare futuro quando assicura che «Fini non abbandonerà mai Silvio Berlusconi: non gli farà lo sgambetto fondando un suo nuovo partito e non darà una mano ai suoi nemici. Il presidente della Camera seguirà questa linea, spiega Campi, per tante ragioni. La prima, sentimentale è fondata sull’amicizia tra i due leader», ma pare francamente la più debole. La seconda è che Fini non ha alcuna convenienza ad apparire come colui che colpisce alle spalle il suo antico alleato, per di più in un momento di sua oggettiva difficoltà e in una fase politicamente così turbolenta. L’elettorato non apprezzerebbe quello che a tutti gli effetti sarebbe un tradimento».
ROMA. I diversi focolai del conflitto possono generare distrazione, allontanare lo sguardo dalla vera fonte di pericolo, spiega Ferdinando Adornato: ossia la combinazione tra una leadership come quella di Silvio Berlusconi che esiste ancora dal punto di vista elettorale ma non c’è più sul piano politico, consegnata com’è alla Lega, e la guerra che il premier ha dichiarato a tutto e tutti. Possono venirne davvero rischi per la democrazia. Ed è per questo che si fa decisivo il ruolo del Centro nella ricostruzione di un sistema politico oggi ridotto in macerie. A Chianciano si è parlato un linguaggio, quello della politica nel senso pieno del termine, che altrove sembra rimosso. Chi ha seguito gli Stati generali del Centro ha potuto constatare una cosa: e cioè che gli ospiti intervenuti, quelli della società civile come la Cisl, la Uil, le Acli da una parte e i rappresentanti della politica dall’altra, hanno avuto modo di dire quello che altrove non dicono e, nel caso dei secondi, hanno trovato quell’ascolto e anche quel consenso che a Gubbio o nel Pd non hanno. E questo conferma in me la sensazione che l’Unione di centro sia oggi l’unico libero luogo della politica italiana. Da noi si può venire, si può discutere, ci si può anche trovare in dissenso, ma di certo ci si imbatte nella civiltà del confronto. Questo offre anche a noi, lo dico anche per me personalmente, un’isola di conforto. È una percezione che sembra cominciare a diffondersi. Di sicuro tutto quello che c’è intorno ci parla invece di un otto settembre della politica, di una morte della politica. L’Italia di oggi è un incrocio tra Beirut e Beverly Hills: da una parte gangsterismi politico-mediatici, con la Chicago in cui Feltri vuol trasformare il Pdl, piena di odi e veleni, dall’altra lussi di cartapesta, frivolezze, gossip da star system. Ed è la morte della politica, appunto, perché non vedo più progetti. Il Pdl non esiste e si vede ogni giorno di più. E anche dall’altra parte, il progetto qual è? Il Pd si trova davanti al fallimento, o almeno all’evidente incompiutezza del percorso socialdemocratico. E la stessa ipotesi del partito democratico all’americana, che poteva essere una buona suggestione, è scaduta in quella di un mini-compromesso storico tra postdemocristiani e post-comunisti, in cui la sintesi non si è mai trovata. Colpisce forse anche di più la crisi di un partito, il Pdl, che ha dalla sua la forza dei numeri per governare. Nel Pdl c’è un elemento aggravante: non solo non ha progetto, ma non è un partito. È un one man party, il cui leader ha avuto con la Casa delle libertà una grande intuizione storica e politica, che però avrebbe avuto bisogno di evolversi, ricostruendo politica e progetto in un partito nuovo. Invece il giorno del predellino è stato buttato tutto a mare. Siamo di fronte al tramonto
della leadership politica di Berlusconi, tramonto che inizia proprio quella sera. Perché, come noi abbiamo detto fin dall’inizio, lui che era il federatore della Casa delle libertà, ha ucciso An, ha perduto l’Udc e quindi si è consegnato nelle mani della Lega. Che oggi ha la golden share della coalizione e rappresenta la forza di gran lunga egemone nel governo, come Bossi ha ripetuto anche domenica.
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A Berlusconi resta soltanto una leadership elettorale, quella politica è stata consegnata alla Lega. E la combinazione di questo con la guerra contro tutti crea rischi per la democrazia
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È solo un problema di qualità del governo? Attenzione, c’è un problema grosso che l’Italia ha davanti: come impedire che il tramonto di Berlusconi – un tramonto che, come ammetterà anche chi non condivide la nostra analisi, ci sarà – diventi un trauma istituzionale per il Paese. Perché se chi governa è in guerra contro tutti, come ha detto Cesa a Chianciano, contro le banche, contro i giornali, contro Fini, e questo si combina con il proprio tramonto politico, c’è la possibilità di un trauma istituzionale. Noi dobbiamo evitare che questo avvenga. Nel giro un anno l’apparente graniticità del quadro politico si è sgretolata. In questa fase si consuma anche un altro elemento: che il bipartitismo sia fallito non lo diciamo solo noi, ma anche il bipolarismo non funziona. Il mio amico Panebianco si ostina a rivendicare questo principio, questo traguardo, che peraltro convincerebbe anche me. Ma non posso chiudere gli occhi di fronte al fatto che il bipolarismo che abbiamo costruito è cattivo, assai catti-
vo. Un bipolarismo normale, lo ha ricordato Casini domenica, è quello che vede competere un centro o un centrodestra cristiano-liberale e una sinistra socialdemocratica. Ma qui non abbiamo nulla di tutto questo: abbiamo un partito personale più un partito territoriale scissionista, da una parte; e uno che non è ancora né carne né pesce dall’altra. Bisogna anche capire se le visioni che abbiamo in testa corrispondono alla realtà. E non mi sembra questo il caso. Più tardi l’opinione pubblica italiana si accorgerà del fallimento della cosiddetta Seconda Repubblica e più danni riusciremo a evitare. Anche questo è per molti uno sviluppo imprevedibile. Se vogliamo stare alla realtà politica e culturale del Paese, qui il vero bipolarismo è un altro, come ho detto intervenendo a Chianciano e come ha scritto Ilvo Diamanti su Repubblica: il bipolarismo che esce fuori è tra la Lega da una parte e il Centro dall’altra. Intendendo per Centro un luogo che può corrispondere, oltre che all’Udc, anche a settori del Pdl e del Pd, di difesa dell’unità nazionale e dell’identità di questa Nazione. E Berlusconi? Il problema è che la leadership politica di Berlusconi non esiste più, e invece la sua leadership elettorale è ancora molto forte. Il problema vero nasce da qui. È bene per ogni partito avere una guida forte, ma se si tratta solo della leadership di una persona che salta le mediazioni della politica, questo può creare rischi per la democrazia. Questo è uno dei fatti che fa parlare di morte della politica, oggi. A noi tocca ricostruirla. L’emergenza dunque nasce dal fatto che l’unico vero partito di maggioranza, la Lega, ha in realtà già esautorato Berlusconi. Ce l’ha nelle mani: perché nel momento in cui la Lega s’impunta Berlusconi non ha più la maggioranza. Come ha detto Casini, è ora di cominciare a dire alla Lega, e se lo facesse Berlusconi non sarebbe mica male, che non può dettare legge con il 10 per cento dei voti. E visto che è il partito di Bossi ad aver minacciato elezioni anticipate, è bene fare presente che in Parlamento c’è già una maggioranza alternativa alla Lega. La grande forza della nostra proposta nasce qui, perché di progetti ce ne sono appunto solo due, quello della Lega e il nostro, radicalmente alternativi. Da una parte una proposta fatta di federalismo fiscale sgangherato, insufficiente anche per Bossi, di rinnovati aneliti di scissione, di medici spia e di una durezza che si può definire disumana contro gli immigrati; dall’altra c’è l’idea di un governo dell’equilibrio, dell’armonia, della moderazione, delle riforme che non sono state fatte. Questi sono i due progetti che si contrappongono. Il resto è delirio. È Beirut e Beverly Hills, appunto.
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Opportunità. Dalla crisi di Berlusconi e del suo partito e dal travaglio del Pd scaturisce un grande orizzonte futuro
Idee per la prossima Italia Quello presentato a Chianciano è un grande progetto di governo del Paese, non l’espediente politico per ricostruire un piccolo centro di Francesco D’Onofrio auspicabile che si comprenda a fondo il significato complessivo – culturale e politico – che hanno avuto gli Stati Generali dell’Unione di centro che si sono svolti a Chianciano in questi giorni.
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È dalle elezioni politiche dello scorso 2008 che è stata proposta la Costituente di centro quale progetto culturale e politico complessivo rispetto alle condizioni – che riteniamo complessivamente deteriori – alle quali è stata condotta l’Italia dal sedicente bipolarismo Pdl-Pd. L’analisi condotta a Chianciano – splendidamente contenuta nell’intervento conclusivo di Pier Ferdinando Casini – è infatti partita dall’analisi della situazione nella quale si trova l’Italia di oggi anche in virtù di questo sedicente bipolarismo: una sorta di guerra civile continua che danneggia l’Italia tutta sia da un punto di vista strettamente culturale (basti pensare al dibattito agostano sulla bandiera e sui dialetti); sia da un punto di vista economico-sociale (quale ruolo dell’Italia nell’attuale contesto mediterraneo, europeo, mondiale). Non si tratta dunque di proporre per l’ennesima volta – come purtroppo ha mostrato di ritenere Dario Franceschini – un terzo polo di centro,
destinato a rimanere comunque piccolo e marginale. Non si tratta di un ragionamento condotto in chiave di convenienza tattica del tipo dei “due forni”, come molti osservatori e operatori politici hanno affermato anche in questi giorni. Non si tratta della riproposizione di una “mitologica” attesa del “dopo Berlusconi”, intesa nel senso di un progetto che per nascere ha bisogno della morte – ovviamente politica – dello stesso presidente del Consiglio, come sembrano aver ritenuto gli esponenti del Pdl che hanno parlato di un
Due appaiono pertanto le considerazioni di fondo sulle quali soffermare l’attenzione: in primo luogo, la fuoriuscita dell’intellettualità cattolica da uno stato quasi di soggezione e di minorità, per iniziare con grande coraggio e generosità quella nuova stagione di cattolici impegnati in politica alla quale aveva fatto riferimento Benedetto XVI a Cagliari, un anno prima della sua straordinaria enciclica Caritas in Veritate; in secondo luogo, l’interesse dimostrato alla prospettiva del nuovo soggetto politico chiamato a governare l’Italia
da parte di esponenti significativi di grandi organizzazioni economiche e sociali e di autorevoli esponenti politici – cofondatori l’uno del Pd, l’altro del Pdl –. In entrambi i casi si è trattato non già della proposta o dell’adesione ad un ipotetico piccolo centro ma, al contrario, del contributo essenziale per la realizzazione di un nuovo e grande progetto culturale e politico, del quale si stanno man mano delineando le caratteristiche di fondo. Si tratta infatti della constatazione innanzitutto del degrado culturale e politico al quale l’Italia tutta è stata
Sono due i segnali più importanti venuti dall’iniziativa centrista: gli intellettuali cattolici sono usciti da uno stato di soggezione e molte forze sociali, economiche e politiche hanno mostrato interesse al nuovo soggetto tempo lungo per il governo in carica e di un tempo ovviamente imprevedibile della vita politica di Berlusconi. La straordinaria varietà degli interventi agli Stati Generali ha infatti dimostrato che siamo in presenza di qualcosa di radicalmente nuovo e non di una stanca riproposizione di nostalgici ritorni al passato, anche se di questo passato occorre che sia svolta una seria riflessione, a sua volta non “mitologica”.
condotta sino ad ora proprio in nome di questo bipolarismo, perché l’alternanza non è stata per niente respinta in via di principio, come ha affermato Lorenzo Cesa nella sua relazione introduttiva, non sufficientemente capita da chi parla di bipolarismo e intende bipartitismo. La questione di fondo sulla quale infatti anche gli Stati Generali hanno dimostrato una straordinaria e concreta attualità è proprio quella dell’idea di Italia che si ha in mente.
Nel corso dei 150 anni vissuti all’insegna dell’unità nazionale, molte infatti sono state le idee di unità nazionale di volta in volta considerate vincenti. Oggi sembra posta in dubbio proprio la compatibilità tra unità nazionale e struttura federale dello Stato. È di tutta evidenza che tutte le questioni che hanno posto in risalto dubbi e incertezze per quel che concerne la politica economica, la politica sociale, la politica culturale, la politica istituzionale hanno ad origine proprio lo scontro sull’identità nazionale: quale rapporto tra agricoltura, industria e finanza? Quale rapporto tra lavoro e previdenza? Quale rapporto tra istruzione e territorio? Non sorprende pertanto che è proprio sull’immigrazione che si registrano gli scontri più virulenti tra Pdl e Lega Nord, perché l’im-
prima pagina ell’ultimo periodo, nelle ultime settimane, come non mai ho vissuto un grande disagio per la scena politico-mediatica che è stata occupata dal dibattito su scandali reali o presunti. Ero a Cracovia per un grande pellegrinaggio ad Auschwitz là dove è morta l’Europa e dove è nata l’Europa e mi sono tornate alla mente le parole di una poesia di Karol Wojtyla: «...soffra soprattutto per mancanza di visione». Sì, noi oggi soffriamo per mancanza di visione. Noi crediamo oggi di vedere tutto, fasci di luce illuminano sino ai siti più reconditi le oscurità della nostra vita ma noi non vediamo, noi non abbiamo una visione. La logica della televisione, la logica del Grande Fratello ha introdotto un linguaggio volgare e la televisione è stata la vera levatrice delle generazioni della cosiddetta seconda repubblica. E oggi siamo condizionati da una logica che tutto rimpiccolisce e tutto involgarisce fino allo sconforto e allo spaesamento della gente. Mi diceva l’altro ieri un ragazzo: «Tutto è sporco, nessuno vale niente in questo Paese, per che cosa credere, lottare e anche i discorsi sui valori se i valori non divengono ideali, vivibili, visioni del presente, che cosa resta?».
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Oggi siamo in una fase di ripiegamento su di sé, di spaesamento, frutto della paura del futuro, un futuro che viene affrontato senza alcuna visione. Ma non nascondiamocelo: questa volgarità mediatica è anche storicamente figlia della crisi dei soggetti politici e figlia della stagione inquisitoriale degli anni Novanta in cui si credeva di fare politica, pulizia, riforme con i processi, ma non avevano letto la Bibbia dove sta scritto «chi semina vento raccoglie tempesta». Il disegno giacobino negli anni Novanta è diventato oggi un clima tropicale, non dico latino americano per rispetto di quei paesi, questo clima come il sistema elettorale ha favorito la personalizzazione totalizzante della politica. Si rideva dei grigi democristiani che non sapevano comunicare, che agivano in gruppo in modo scambievole, ma quella con tutti i suoi limiti e li abbiamo molte volte negli ultimi decenni sottolineati, era una classe dirigente. Io non sono mai stato democristiano perché dal ’68 faccio un’altra strada rispetto alla politica, ma andrà detto e lo stiamo dicendo in sede storica che cosa ha significato costruire una classe dirigente, cosa diversa dalla personalizzazione del principe o dal partito principe. In realtà il problema della personalizzazione ha distrutto la classe dirigente, non solo, il valore del dibattito, la cultura politica. Non c’è bisogno di dirlo a voi, lo vediamo nel centro destra, lo vediamo nelle divisioni del partito democratico, lo vediamo nelle personalizzazioni della politica. Quest’estate bene o male abbiamo passato tutta l’estate a discutere di Berlusconi, tantissimo, e anche il parlar male alla fine diventa una forma di fissazione. E la scena è stata occupata sempre, o almeno tantissimo, da lui. La gente è spaesata, allora si rifugia in un leader, si rifugia in un territorio, oppure si additano alla gente nemici da combattere o sono gli stranieri che invadono il nostro paese o sono i padroni plutocrati delle banche, l’uno o l’altro. Passioni, spettacolo, esecrazione, rabbia, scandali ma non è un modo di fare politica. Tutto finisce e si spegne come fuochi d’artificio. Io sono qui per chiedermi come sfuggire a questo effetto luce-volgarità. È una domanda che pongo a me stesso: come sfuggire a questo quadro involgarito senza speranza e senza visione della politica? Bisogna ricostruire attraverso i segni del nostro tempo. Bisogna ricostruire un soggetto politico, bisogna allargare un soggetto politico.
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L’intervento di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio
Riannodiamo insieme i fili di una grande storia Serve una “visione” di ampio respiro, come quella che può rappresentare un soggetto politico nuovo, largo e aperto di Andrea Riccardi pauriti o che si sono incattiviti in una condizione difficile, di grande spaesamento. Vanno riscaldati i cuori degli uomini e delle donne del nostro paese che poco provano passione per qualche grande impresa. Conosco un poco la fatica della storia recente dell’Udc, per l’amicizia con Casini, con Buttiglione, con Pezzotta, con Cesa e con tanti altri. E credo che sia sempre più necessaria una grande audacia politica. L’idea della contaminazione o del meticciato – quella che piace a Savino – di culture politiche, cattolica, comunista, laica operata dal Pd per creare un nuovo partito riformista, un meticciato il laboratorio non crea niente di nuovo: è il ’68, il nuovo al potere e non bastano le parole fortunate anche se dette da tanti cari amici. La fusione a freddo del Pdl risponde in modo diversissimo ma ha lo stesso nuovismo sessantottesco e ha il punto di forza in un leader e nella potente macchina a sua disposizione ma è un meticcio di forza inconsistente. Quale visione e quale futuro? Gli italiani stanno perdendo il gusto delle idee, sta crescendo la diffidenza verso la politica. C’è un effetto disagio che spinge a ritirarsi, c’è un crollo delle aspirazioni a intervenire causato dal blocco politico esistenziale umano la gente dice «tanto cosa si può cambiare» e in fondo davanti alla politica ride e piange come davanti a un teatro lontano.
Questo è pericoloso, questo è drammatico e allo-
Sono tempi in cui il discorso europeista viene irriso. Ma come andremo al grande confronto che ci aspetta nel futuro con i giganti asiatici, come la Cina e l’India, se non in un quadro unitario europeo? Con i mini-stati?
migrazione è contemporaneamente una questione economica, una questione sociale e una questione culturale.
Un grande progetto dunque che abbia l’ambizione di partire
Abbiamo assistito nelle ultime settimane al vortice mediatico e volgare che si è riversato anche sul mondo della chiesa con la vicenda di Boffo. È avvenuto qualcosa di nuovo nella storia del cattolicesimo italiano: che la Chiesa fosse tirata in mezzo in questo modo e oggi sento ed esprimo la confusione, il trauma, le difficoltà di tanti cattolici di fronte all’abbrutimento della situazione politica-mediatica. Non è un problema dei rapporti tra il governo italiano e la Santa Sede. Il problema è quello che noi cattolici italiani vogliamo essere in questo Paese. Se vogliamo contare, se vogliamo esprimere qualcosa, se non vogliamo far logorare giorno dopo giorno la nostra visione, ma se vogliamo giocarla in modo autorevole, aperto, costruttivo nel dibattito politico sul futuro del Paese. Insomma, non si esce da questa situazione lasciandoci imprigionare da questo clima, magari credendosi i più furbi, ma va rilanciata con decisione una visione che scaldi i cuori degli uomini e delle donne, che si sono im-
dalla definizione dell’identità nazionale degli italiani per costruire su di essa l’insieme delle scelte politiche che il populismo del Pdl non è riuscito a realizzare e che le drammatiche incertezze del Pd non hanno ancora
consentito di dare una risposta idonea per governare l’Italia. Identità italiana e cultura di governo sono pertanto le due coordinate di fondo del grande progetto che ha registrato a Chianciano un punto di svolta di gran-
ra cari amici, c’è bisogno di una visione, ma una visione non si fa nei laboratori, una visione non è scritta solo nei libri, la visione è quella di un soggetto politico, nuovo, largo, aperto, e io credo che l’Udc abbia grandi risorse, come la tradizione che ho sentito richiamare a Chianciano, nei documenti, negli interventi, nelle assemblee: la grande tradizione di cui essere orgogliosi. Penso a De Gasperi e all’Europa.Vedete, sono tempi in cui il discorso europeista viene irriso e beffato e l’Europa è presentata come una vecchia zia svizzera che vuole solo rivedere i nostri conti e ci fa appunti sulla correttezza. Ma come andremo al grande confronto con il futuro con i grandi giganti asiatici con la Cina, con l’India se non in un quadro unitario quadro europeo? Andremo come regioni? Andremo come ministati? Questo potrà pagare in cinque anni ma nella lunghezza di uno, due, tre decenni saremo battuti, questa è la vera sfida di civiltà: l’Europa nel resto del mondo e noi europei nella varietà del nostro mondo, noi europei siamo una civiltà. Questo Paese ha bisogno di una forza, di un soggetto saggio, dal respiro profondo, aperto alla realtà, aperto ai giovani come ho sentito a Chianciano, moderno, capace di creare il volto di un’Italia che si inserisce nella globalizzazione in Europa, nel Mediterraneo. È per questo che l’Udc ha la mia personale, fraterna simpatia. Perché viene da da lontano e credo che andrà lontano, segnando sempre più una frattura di quella crosta opaca che blocca involgarisce intristisce la vita politica e il dibattito del Paese.
de significato: altro che piccolo centro! Altro che tattica dei “due forni”! Altro che velleitaria illusione di successi personali! Il grande progetto parte dalla constatazione del drammatico fallimento di questo bipolarismo
che appare esclusivamente mediatico, mentre l’Italia ha bisogno di essere governata. La proposta che Chianciano ha formulato è dunque un grande progetto di governo dell’Italia nel tempo storico presente.
politica
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Frontiere. Navi Pillay se la prende con i respingimenti fatti «senza verificare se gli immigrati sono dei perseguitati»
«L’Italia viola i diritti» L’Alto Commissario Onu attacca Maroni: «I migranti non sono rifiuti pericolosi» di Franco Insardà
ROMA. Le giustificazioni del governo italiano stanno a zero. L’Onu ha chiarito che i respingimenti «violano i più basilari diritti umani». L’accusa viene dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, la sudafricana Navi Pillay. La quale nell’intervento inaugurale della 12esima sessione del Consiglio dei diritti umani che terrà questa mattina, anticipato ieri, denuncerà le nostre politiche nei confronti degli immigrati. Che sono «abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale». La Pillay si riferisce, in particolare, al caso del barcone di eritrei che ad agosto è rimasto senza soccorsi tra Libia, Malta e Italia. E ha spiegato che «in molti casi le autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi». L’Alto commissario Onu ha poi mosso una seconda critica all’Italia, comune ad altri altri 16 Paesi europei: quella di discriminare i rom «nonostante gli sforzi intrapresi dagli Stati membri, e dalle organizzazioni internazionali e regionali. Il sentimento anti-rom in Europa resta forte». Secondo il magistrato sudafricano, «in Italia c’è
stata un’abbondante documentazione sulla discriminazione e sui trattamenti degradanti verso la popolazione Rom».
Le reazioni del governo italiano non si sono fatte attendere. Il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, ha precisato che «sull’immigrazione l’esecutivo ha una politica in linea con quella dell’Europa. Il governo ha af-
sono nascondere o manipolare con la propaganda. O qualcuno pensa di tappare la bocca anche all’Onu con ricatti morali, come si è fatto con la Chiesa e si vorrebbe fare con il presidente della Camera?».
Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, non si dice meravigliato perché i rilievi che giungono dalle Nazioni unite «sono gli stessi che ho fatto in Aula,
Buttiglione: «Queste stesse osservazioni le ho fatte in Aula, quando si discuteva del provvedimento. I clandestini sono diversi dai richiedenti asilo, tutelati dalla Convenzione di Ginevra del 1951» frontato in maniera decisa e responsabile la delicata materia dell’immigrazione, essendo anche l’Italia il Paese che fa da collegamento tra il Medioriente e l’Occidente. L’Onu, dunque, tenga in considerazione gli sforzi finora fatti dal governo Berlusconi e i brillanti risultati ottenuti». Rosy Bindi, invece, ha sottolineato che «la destra sta collezionando pessimi primati sui diritti umani, la libertà di stampa, la moralità della politica. L’immagine e il prestigio dell’Italia sono irrimediabilmente sfigurati. Contro il governo parlano i fatti che non si pos-
quando si discuteva dei respingimenti. I clandestini sono diversi dai richiedenti asilo, tutelati dalla Convenzione di Ginevra del 1951». La posizione dell’Udc da sempre si è caratterizzata per posizioni propositive, responsabili e non ideologiche, rispetto a quelle populiste e esagerate dei dipietristi e di qual-
che esponente della sinistra. «Non mi è ben chiaro - dice a liberal Buttiglione - se ci troviamo di fronte a incompetenza, tracotanza o sfida alle norme basilari del diritto internazionale. Purtroppo devo registrare che il ministro degli Esteri, persona competente, in questo governo conta poco e non è ascoltato, altrimenti certi errori così grossolani si sarebbero evitati. La maggioranza dei clandestini arriva via terra con permessi di soggiorno turistico e poi rimane qui. I disperati che fuggono dai loro Paesi, senza documenti, affrontano il mare e la metà di loro, statisticamente, ha il diritto di richiedere asilo. Non possono essere respinti, altrimenti si rischierebbe di non rispettare le leggi internazionali».
E Savino Pezzotta aggiunge: «Grazie alla Lega l’Italia è diventata sinonimo di “pizza, mandolino e manganello”. Mi auguro che ora il governo rifletta su quanto denunciato dall’Onu evitando tuttavia di gettare benzina sul fuoco con le solite improbabili smentite. In questo momento di così grave difficoltà per l’immagine del nostro Paese all’estero, dovuta a una politica sull’immigrazione del tutto condizionata dai ricatti del Carroccio, non abbiamo bisogno di un incidente diplomatico con le Nazioni Unite».
Di parere opposto Margherita Boniver, deputata del Pdl e presidente del Comitato Schengen, secondo la quale «è inaudito che simili e infamanti ac-
L’Onu ha attaccato l’Italia per la politica dei respingimenti dei migranti
politica
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Chi vuole contrastare la Lega deve stare attento agli “opposti populismi”
Pombeni:«Per battere Bossi non date retta all’Onu» di Francesco Capozza
ROMA. L’Alto Commissario Onu per i dirit-
cuse siano mirate contro il nostro Paese, che ha sempre rispettato il diritto internazionale e che rispetto ad altre nazioni europee ha accolto un numero proporzionalmente significativo di rifugiati politici. Il metodo delle accuse generiche non supportate dai fatti colpisce, addolora e indebolisce l’immagine dell’Onu».
Ma l’immigrazione è una vera e propria spina nel fianco della maggioranza che ha dovuto incassare nei mesi precedenti le critiche della Chiesa, dell’Unione europea, della portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati presso la sede italiana, Laura Boldrini, e degli esponenti dell’opposizione, Udc in testa. Già in primavera il
violenza verso migranti, Rom o Sinti e verso cittadini italiani di origine straniera.
L ’ a r g o m e n t o è d iv e n t a t o uno dei terreni di polemica tra il presidente della Camera, Gianfranco Fini e i suoi alleati. Sabato, dal palco degli Stati generali dell’Udc di Chianciano, Fini aveva polemizzato con la Lega dopo che Bossi sul tema del voto agli immigrati alle amministrative aveva detto che «ognuno può suicidarsi come vuole». Parole alle quali l’ex leader di An aveva replicato: «Negare che accanto alla politica dei doveri verso gli immigrati ci sia la politica dei diritti non credo sia un suicidio politico, ma è il suicidio della ragione, non solo della pietà cristia-
Gianfranco Fini: «Pensare alla storia di Nancy Pelosi dimostra che non solo si può essere orgogliosi delle radici italiane, ma anche che non occorre avere paura dell’immigrazione» Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, dopo la sua visita di metà gennaio per verificare il rispetto dei diritti umani dei migranti e delle minoranze, nel presentare il rapporto aveva parlato di «profonda preoccupazione». E le preoccupazioni di Hammarberg si riferivano ai provvedimenti in materia di immigrazione e asilo. Il Commissario europeo nel rapporto aveva espresso la sua decisa contrarietà «ai rimpatri forzati verso Paesi con precedenti di tortura provati e di lunga durata». Oltre a evidenziare una crescente tendenza al razzismo e alla xenofobia, a volte alimentata dalle stesse autorità locali, che ha provocato atti di
na». E ieri, visitando i luoghi del terremoto in Abruzzo insieme con la portavoce del Congresso Usa, ha detto: «Pensare alla storia di Nancy Pelosi dimostra che non solo si può essere orgogliosi delle radici italiane, ma anche che non occorre avere paura dell’immigrazione né dubitare sulla possibilità di una vera integrazione degli immigrati. La presidente Pelosi, italo-americana d’Abruzzo, dimostra il legame profondo tra i nostri popoli che si è confermato nei momenti tragici. La nostra comunità oltreoceano è importante. Chi è partito diversi anni fa da queste montagne oggi è inserito a livelli altissimi nella politica e nell’economia di quel Paese».
ti umani, Navi Pillay, denuncia le politiche nei confronti degli immigrati, «abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale». In un discorso previsto per oggi, la Pillay cita il caso del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra la Libia, Malta e Italia, ad agosto. E spiega che «la pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere deve cessare»: la politica del governo a trazione leghista continua a raccogliere critiche. Ne parliamo con il politologo Paolo Pombeni. Professore, il j’accuse dell’Onu tocca direttamente l’Italia, stavolta come dovrebbe reagire la politica, governo in primis, considerando anche le prese di posizioni recenti della Lega Nord da un lato, dell’Udc e del presidente della Camera Fini dall’altra? Guardi, a rischio di sembrare impopolare le dico che francamente il sottoscritto ritiene che certe prese di posizione da parte dell’Onu sono assai fuori luogo, oserei dire irresponsabili. Sul tema dell’immigrazione bisognerebbe fare una riflessione politica ben più accurata. Partendo da quali presupposti, secondo lei? Bisognerebbe fermarsi a riflettere su due aspetti: il primo è la difesa del diritto d’asilo, peraltro condivisibile politicamente e umanamente, secondariamente, però, non credo sia plausibile la “fuga legalizzata” verso il nostro Paese solo per aggirare certe situazioni di pericolo o di povertà. Quindi la Lega ha ragione e Fini, l’Onu, la Chiesa e l’Udc torto? Sto dicendo l’esatto contrario, con qualche precisazione però. È sotto gli occhi di tutti che l’immigrazione è per molti aspetti molto utile agli italiani. Daltronde non ci sarebbe così grande desiderio di approdo sulle nostre coste se le fabbriche, le aziende e le famiglie italiane non avessero necessità di forza lavoro. La Lega sull’immigrazione fa un discorso estremista e populista, che però non va controbattuto con altrettanto populismo. Come giudica le uscite di Fini su questo tema? Proprio ieri il presidente della Camera, in visita in Abruzzo ha detto «pensate alla storia di Nancy Pelosi - citando il caso della portavoce del Congresso Usa - dimostra che non solo si può essere orgogliosi delle ra-
“
dici italiane, ma anche che non occorre avere paura dell’immigrazione né dubitare sulla possibilità di una vera integrazione degli immigrati». Mi è molto piaciuto l’esempio di Nancy Pelosi fatto dal presidente della Camera. Citando la speaker del Congresso americano Fini ha evidenziato il lato positivo dell’integrazione di cittadini stranieri in altri paesi. Tuttavia ritornerei su quanto già ho detto poco fa: non facciamo di ogni erba un fascio, altrimenti non si fa né più né meno che lo stesso discorso della Lega e difficilmente si potrà sconfiggere la sua stupidaggine populistica. Cosa dovrebbe fare il governo, su questo tema in evidente conflitto d’interessi con la Lega? La politica tutta e i governi in particolare hanno il compito di analizzare i problemi per poi prendere delle decisioni, spesso gravi. Ma va fatto. E sull’immigrazione i cittadini sono molto sensibili, lo sappiamo tutti.
Gli immigrati sono «necessari»: non ci sarebbe così grande desiderio di approdo sulle nostre coste se le fabbriche, le aziende e le famiglie italiane non avessero necessità di forza lavoro
”
Secondo lei l’oggettivo schieramento parlamentare anti-Lega potrebbe muovere le prime mosse proprio per contrastare le posizioni così dure del Carroccio sull’immigrazione? C’è chi dice che ci sarebbe una maggioranza trasversale pronta a mettere in minoranza Bossi e i suoi. Francamente ritengo un’ipotesi del genere abbastanza peregrina. Dubito che esista una maggiornaza parlamentare in grado di sostenere le tesi opposte a quelle della Lega, di accogliere tutti indistintamente, intendo dire. Ricordiamoci che i cittadini votano la Lega proprio perchè spinge sui temi della sicurezza e dell’immigrazione. Solo chi saprà contrapporre delle soluzioni vere e garantire comunque la sicurezza dei cittadini potrà sperare di togliere consensi al Carroccio.
diario
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Finanze. Da inizio anno il gettito fiscale vede minori incassi per 7 miliardi. Nuovo record per il buco del bilancio pubblico
Calano le entrate, esplode il debito Almunia: «L’Italia ha subìto una recessione peggiore degli altri Paesi» di Francesco Pacifico
ROMA. L’ottimismo del Fondo monetario e di Moody’s non fa capolino a Bruxelles. L’Unione europea rivede al ribasso le stime sul Pil del 2009: se in primavera si prevedeva un calo del 4,4 per cento, la congiuntura fa pendere la bilancia verso un -5 tondo. Comunque “migliore” – se si può definire così un arretramento da 90 miliardi di euro – rispetto alle ipotesi di governo e Bankitalia, concordi su un -5,2 per cento a fine anno. Decisivi per capire come si chiuderà il 2009 saranno gli ordinativi all’industria dai Paesi già ripartiti (il Far east) o da quelli che ripartiranno a breve (l’area del dollaro). Ma per comprendere perché il consuntivo sarà peggiore nonostante l’ottimismo registrato in queste ultime settimane, basta seguire il ragionamento del commissario Ue all’Economia, Joaquin Almunia: «L’Italia avrà un miglioramento progressivo nella seconda metà dell’anno, dopo aver patito una recessione peggiore rispetto agli altri Paesi». La ripresa quindi farà capolino nel Belpaese non prima del secondo trimestre 2010. E arriverà in un Paese con un’inflazione doppia rispetto alla media Ue (+0,9 per cento a fine anno) e un debito pubblico che viaggia verso il 115 per cento. E che ogni mese batte nuovi record. Ieri Bankitalia ha annunciato che – complice il gettito fiscale in calo, la spesa e gli aiuti pubblici in crescita – a luglio il passivo ha raggiunto quota 1.753,52 miliardi di euro contro i 1.751,6 miliardi di giugno. Con un aumento che in un anno è stato pari a 100 miliardi.
invece gli incassi dell’addizionale comunale Irpef: 1.515 milioni di euro di gettito, un solo milione in meno rispetto al gennaio-luglio 2008. Guardando invece alle imposte indirette, altra cartina di sole per comprendere lo stato della crisi, sono indicativi gli aumenti registrati sulle dogane e monopoli e sui giochi: incrementi dall’inizio dell’anno rispettivamente del 5,8 e del 2,6 per cento. Eppure il ministero dell’Economia tira un sospiro di sollievo, perché il calo del gettito complessivo del 2,9 per cento è comunque in linea con le previsioni. E, tutto sommato, risulta sostenibile rispetto al crollo del Pil, che nello stesso periodo è andato stabilmente sotto il 6 per cento. Ma il maggiore campanello d’allarme resta l’occupazione. Che da indicatore ritardato potrebbe presentare il conto nella sua interezza quando in autunno le aziende si ritroveranno con ordinativi inferiori rispetto alle loro speranze. Guarda caso proprio nel periodo in cui la Fiom – sarà il 9 ottobre – ha annunciato il suo primo sciopero generale per il mancato rinnovo del contratto metalmeccanico.
2,9 per cento e pari a 6,797 miliardi di euro. Crolla soprattutto il gettito dell’autotassazione a giugnoluglio: 21,8 per cento in meno rispetto all’anno precedente (che equivalgono a 7,2 miliardi di euro) nel mese deputato per i saldi Irap e Ires. Numeri che potrebbe cambiare – in positivo come in negativo – visto che mancano gli incassi
Bruxelles rivede al ribasso le stime del Pil di Roma: da -4,6 a -5 per cento. Per il Belpaese si prevede una ripresa sempre più timida e lenta Numeri che fanno temere – una volta registrate una crescita della produttività e una fiammata dell’inflazione– un’esplosione dei conti pubblici. Arginabile soltanto con un innalzamento delle tasse e draconiani tagli di spesa. Intanto, a fare la politica fiscale, è la crisi. Ieri il ministero dell’Economia ha annunciato nei primi sette mesi dell’anno una riduzione del gettito del
relativi agli studi di settore. Di questo trend sono vittime anche gli enti locali: dall’inizio dell’anno vedono crollare i tributi del 9,7 per cento, totalizzando minori entrate per 2,266 miliardi di euro. La disoccupazione i mancati ordinativi perdono rispettivamente per 328 milioni (-6,9 per cento) sull’addizionale regionale Irpef e per 1.937 milioni (-11,3) su quella Irap. Stabili
Il banchiere definisce un flop la moratoria sui debiti
Passera smentisce Tremonti ROMA. Nuova puntata nella guerra a distanza tra Giulio Tremonti e Corrado Passera. Al ministro che aveva accusato «di non fare gli interessi dell’Italia» l banche che non sottoscrivono i Tremonti bond, dalle colonne della Stampa il consigliere delegato di IntesaSanpaolo ha ribadito che «deciderà sulla richiesta a fine mese, tenendo conto della situazione di bilancio e della evoluzione della congiuntura economica». Ma non contento, ha persino messo in dubbio un altro dei fiori all’occhiello della politica anticrisi del ministro: la moratoria sui debiti alle piccole e medie imprese. Passera, riferendosi alla sua clientela, ha spiegato che «appena lo 0,1 per cento delle imprese ha chiesto finora l’accesso alla procedura. Per quanto l’accordo fosse necessario si tratta di
un fenomeno non molto diffuso, non sono percentuali importanti. Solo 1.100 imprese hanno chiesto e ottenuto la moratoria su 1,1 milioni di imprese». Quindi ha spiegato che Ca de’ Sass aveva intrapreso una strada simile prima delle pressioni del governo. Intanto la prima banca italiana ieri ha siglato con Confartigianato, Cna, Casartigiani un’intesa ad hoc per facilitare l’accesso al credito e la ristrutturazione dei mutui per la categoria. L’accordo prevede la destinazione da parte del gruppo bancario di un plafond di 3 miliardi di euro alle imprese italiane del settore. «Grazie a questo accordo», ha spiegato Passera, «contiamo di contribuire a salvaguardare il patrimonio di conoscenze e di produttività che il settore dell’artigianato rappresenta per il nostro Paese».
Eurostat ieri ha fatto sapere che tra il secondo trimestre 2009 (l’ultimo in piena recessione) e quello 2008 il tasso di occupazione è calato dello dello 0,9 per cento. Stabile il differenziale congiunturale, a riprova che le imprese hanno rallentato i licenziamenti e si sono affidati alla cassa integrazione, sperando in una pesante ripresa degli ordinativi che difficilmente arriverà. Più in generale la Commissione europea ha invece confermato la previsione di crescita di maggio per l’area euro nel 2009: -4 per cento. Anche se, si legge in una nota, «l’attività a fine 2008 e inizio 2009 è stata peggiore di quanto inizialmente stimato. E restano elevate incertezze». Davanti a tutti uno scenario che ben si sposa con le ultime dell’economista previsioni Nouriel Roubini, l’unico a capire davvero lo tsunami che ha colpito il mondo negli ultimi due anni. E che ora parla di «crescita anemica», che potrebbe facilitare una ripresa a forma “W”. Una ripresa intervallata da una nuova caduta.
diario
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L’annuncio sarà dato venerdì dal ministro Prestigiacomo
«In futuro un tetto del 30% per gli studenti immigrati»
Tornano gli incentivi per motorini e biciclette
Gelmini promette meno stranieri nelle classi
MILANO. Dopo il successo del-
NAPOLI. Apertura d’anno sco-
la prima campagna lanciata nella primavera scorsa, tornano gli incentivi per l’acquisto delle biciclette, che dovrebbero venir estesi anche ai motorini entro i 50 centimetri cubici. Il nuovo stanziamento è stato approvato dalla Corte dei Conti e sarà annunciato venerdì prossimo, probabilmente dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, all’apertura a Milano del 67esimo «Salone del ciclo e motociclo». La campagna dovrebbe iniziare entro i primi di ottobre e prevede lo stanziamento di 7,6 milioni per le biciclette e 5,1 milioni per i 50 centimetri cubici. È quanto emerso in margine alla presentazione alla stampa del Salone del ciclo: per le biciclette, come nella prima campagna, non sarà necessaria la consegna di un vecchio modello, mentre per i motorini quasi certamente sì. Il contributo statale per le biciclette nuove sarà del 30% del prezzo di acquisto fino a un massimo di 200, contro un massimo di 700 euro della campagna precedente, che ha finanziato l’acquisto di circa 50mila due ruote a pedali.
lastico polemico per la ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini che ha cominciato attaccando i professori troppo politicizzati: «Chi fa politica deve farlo fuori dagli edifici scolatici. Si tratta di una minoranza che piega la scuola ai suoi interessi di parte. Alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoranza, disattendono l’attuazione delle riforme – ha accusato Gelmini nel corso di una conferenza stampa nel carcere minorile di Nisida - tentando di mantenere il modulo anche se il modulo è stato abolito con il passaggio al maestro unico prevalente». Riportando i dati sul tempo pieno, poi, Gelmini non ha esitato ad attaccare la
L’anno scorso, gli 8,5 milioni di euro di incentivi sono andati esauriti in tre settimane, dal 22 aprile al 16 maggio, mandando
Non c’è Paragone con la tv di Vespa Salta l’ipotesi di «Malpensa, Italia» in seconda serata di Francesco Capozza
ROMA. Ci mancava solo il neo vicedirettore di Raiuno Gianluigi Paragone. Certo che vivere ai piani alti di viale Mazzini dev’essere davvero una bella noia in questi ultimi tempi. Viene da chiedersi come possa dormire sonni tranquilli Mauro Masi, il più odiato e criticato direttore generale dell’azienda televisiva pubblica della recente storia di “mamma” Rai. E dire che era stato nominato con un consenso bipartisan e la stima trasversale di Berlusconi, Casini e D’Alema. Adesso, dopo le vicende legate alle nomine dei direttori di rete e di testata, alla “grana Santoro” (peraltro non ancora risolta), alla battaglia personale per smilitarizzare Raitre e Tg3, alla gestione del duello Vespa-Floris, mancava solo il neo vice di Mauro Mazza a creare ulteriore tensione ai danni di Masi.
Il motivo? Semplice: l’ex vicedirettore di Vittorio Feltri a Libero - che ha anche diretto per qualche giorno dopo l’uscita di scena dello stesso Feltri, approdato a Il Giornale - non avrebbe gradito il niet alla sua richiesta di riproporre, questa volta sulla rete di cui è vicedirettore responsabile, Malpensa, Italia, il programma da lui stesso condotto ed ideato. L’unica ipotesi plausibile per la messa in onda del programma era quella di “scippare” una delle quattro seconde serate a Bruno Vespa e al suo Porta a Porta. Apriti cielo! E chi lo sente Vespa? Deve aver pensato il direttore generale. D’altronde il pio Bruno devoto al Santo di Arcore ha appena battuto 1 a 0 nientemeno che Giovanni Floris, aggiudicandosi - a discapito di Ballarò - una prima serata per mandare in onda il Cavaliere dall’Aquila per la riconsegna delle prime case ai terremotati, figuriamoci se poteva accondiscendere a cedere una serata a Paragone, che tra l’altro è l’ultimo arrivato in Rai. Morale della favola? Paragone se l’è legata al dito e sarebbe andato su tutte le furie, telefonando prima a Mauro Mazza, passandogli la patata bollente, e poi al leader della Lega Umberto Bossi. Già, perché a insistere per l’approdo a viale
Mazzini di Paragone (che in passato ha diretto La Padania) è stato proprio il gran capo del Carroccio, convinto della fedeltà del giornalista. In effetti Paragone un pensierino ad approdare in Rai l’aveva pure fatto, ma gli accordi con Bossi erano diversi: «lascio Libero solo per una direzione, o di rete o di testata» aveva detto mesi fa nei primi colloqui in cui il Senatùr aveva sondato la disponibilità del giornalista. E la risposta era stata pure soddisfacente: «Sarai il prossimo direttore di Raidue» gli aveva assicurato il leader del Carroccio. Come sono poi andate le cose lo sappiamo tutti e a Paragone, ormai in gioco, non è rimasto che accettare la vicedirezione di Raiuno (tra l’atro, senza neppure qualche delega di peso).
A questo punto il paffuto Gianluigi si è sentito doppiamente beffato: «ma come? - avrebbe sbottatto al telefono con Mazza - sarei potuto rimanere a Libero come direttore succedendo a tutti gli effetti a Feltri e adesso dopo essere stato parcheggiato, senza poteri effettivi, alla vicedirezione della prima rete mi tocca anche rinunciare al programma che ho creato e che ha avuto peraltro un discreto successo?». Quasi un «non ci sto» dal vago sapore di prima Repubblica, insomma. Sicuramente, però, Paragone non ha in mente di abbaiare senza mordere. Anzi, avrebbe già in mente una exit strategy per salvare capra e cavoli. Quale? Semplice: dimettersi da Raiuno e farsi nominare vicedirettore di Massimo Liofredi a Raidue (le nomine dei vice di rete e testata per il secondo canale dovrebbero arrivare in questa settimana), riproponendo, tra l’altro, il suo Malpensa, Italia sulla stessa frequenza in cui è andato in onda la scorsa stagione (e fare diretta concorrenza sia a Santoro che a Floris). Un’operazione arguta quanto difficile a cui avrebbe dato la sua benedizione anche Umberto Bossi. Se si aggiunge che per Mazza non cambierebbe nulla, rimane solo da sottoporre la pratica al cda dell’azienda. E a chi spetterà l’onere di tale mossa? Semplice, al vituperatissimo Mauro Masi.
Il giornalista sponsorizzato da Bossi sta pensando di lasciare Raiuno per Raidue nella speranza di salvare la trasmissione
pure in tilt il sistema del Ministero per il grande carico di richieste. «Il settore della bicicletta nel 2009 è andato in controtendenza: le vendite annue dovrebbero confermare i due milioni di pezzi»: Ha spiegato Guidalberto Guidi, presidente dell’Esposizione internazionale del ciclo e motociclo. «Anche quest’anno le aziende delle due ruote non sono andate male – ha proseguito Guidi - e non mi risultano nemmeno particolari problemi nei rapporti con il mondo del credito: da una parte è stato grazie all’effetto incentivi, ma anche una maggiore sensibilità ambientalista e i costi della crisi hanno premiato il comparto, che comunque ha bisogno di più piste ciclabili».
sinistra che, a suo parere «ha terrorizzato le famiglie per mesi, ma ora la disponibilità del tempo pieno per 50mila studenti in più dimostra che il governo aveva ragione». La ministro è intervenuta anche sulla questione immigrati: «Dall’anno prossimo ci sarà un tetto del 30% di studenti stranieri per classe» ha promesso dai microfoni di Canale 5. «Stiamo studiando gli aspetti tecnici di un provvedimento per introdurre questo tetto, e ci sarà anche una nuova materia, l’educazione alla cittadinanza e alla Costituzione».
«Sugli insegnanti di religione sono assolutamente d’accordo con il Vaticano» ha poi aggiunto la ministro. «A loro vanno garantite le stesse condizioni degli altri insegnanti, e credo che l’ora di religione debba avere pari dignità rispetto alle altre materie. L’Italia non può non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione». Infine, tra gli obiettivi di Gelmini, anche una riduzione della mobilità degli insegnanti: «Va a danno degli studenti e della qualità della scuola. Per questo stiamo lavorando per fare bloccare per almeno un biennio la mobilità degli insegnanti».
panorama
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Cultura. Lo Stato ha il dovere di sostenere lo spettacolo: il problema è cambiare i criteri di finanziamento
Caro Bondi, non dia retta a Brunetta di Gabriella Mecucci ul rapporto fra politica e cultura, sull’egemonia, sul livello qualitativo del cinema, del teatro e delle orchestre italiane in questi giorni si è detto tutto e il contrario tutto. Opinioni legittime, alcune condivisibili, altre discutibili. In questo normale confronto s’è inserito però qualcosa di inaccettabile: le sparate del ministro Brunetta che ha chiesto al collega Bondi, titolare dei Beni Culturali, di «chiudere il rubinetto del Fus», il fondo unico per lo spettacolo. I cineasti italiani infatti così come i teatranti e i musicisti sono – a parere del ministro della Funzione Pubblica – tutti dei «parassiti».
S
Nel 2007 chi scrive, insieme a Luisa Arezzo, pubblicò un libro (Cinema, profondo rosso) per Libero e Free (una collana voluta da Brunetta) in cui si denunciavano alcuni pesanti sprechi del Fus e soprattutto le lobby e lobbine ´(politiche e non solo) che accedevano ai fondi. Soldi spesso distribuiti male o malissimo che finivano in gran parte nelle tasche di au-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
tori i cui prodotti non incassavano niente o quasi niente. Si raccontava – sempre in quel libretto – dati alla mano, come storicamente la sinistra, in particolare il Pci, avesse costruito un’egemonia in quei settori sino a strafare. Non si trascurava – sempre in quel saggetto – di denunciare anche alcune mal-
A questo proposito si elogiava la legge Andreotti del 1949 che aiutò non poco il cinema italiano a svilupparsi e si ricordava che anche il provvedimento Corona (ministro socialista) del centrisinistra, pur tra alcune contraddizioni, fece bene allo spettacolo di casa nostra. Non si dimenticava di citare il fatto, infine, che persi-
Il sostegno alla produzione e alla diffusione delle idee deve arrivare a tutti, non soltanto a quella lobby para-politica che prospera da anni versazioni del centro e del centrodestra. Questa critica serrata non voleva certo significare che il mondo dello spettacolo italiano dovesse essere «chiuso» per manifesta incompetenza e aboliti i finanziamenti pubblici. Tutto l’impianto andava corretto, rivisto, migliorato, riformato evitando favoritismi politici e personali, clientele di ogni tipo, lievitazioni eccessive dei costi e quant’altro. Da quel libro non scaturiva però di certo il consiglio di far saltare ogni e qualsiasi finanziamento pubblico. Ci si limitava a chiedere di distribuire con maggiore oculatezza il denaro.
no negli Usa il cinema, così come altri spettacoli, venivano finanziati dalla mano pubblica. Del resto il ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani fece nel periodo del suo “regno” una legge che limitava la discrezionalità di scelta delle Commissioni e poneva un freno alla distribuzione di finanziamenti a fondo perduto. Fu contestato anche lui, ma la strada era quella giusta: togliere un po’ di potere ai lobbisti politici e dare soldi per stimolare la produzione. Finanziamenti che però alla fine devono essere restituiti, soprattutto se assegnati a chi è del mestiere da molti anni. Il fondo perduto non veniva del
tutto abolito, ma si usava per le “opere prime”.
Insomma, un liberale colto e di buon senso aveva iniziato la riforma. Il ministro Sandro Bondi farebbe bene a ripartire da lì e a non prestare orecchio alle sparate di Brunetta (al quale ha comunque espresso la propria solidarietà). Quanto alla qualità del cinema italiano è da tempo purtroppo che è nettamente peggiorata. L’egemonia della sinistra c’è stata e ha avuto un ruolo spesso negativo. Da quando la critica “rossa”, che era fortissima in molti grandi giornali, cominciò a prendersela con la cinematografia americana, o a stroncare certe pellicole di genere o certa commedia all’italiana, o grandissimi registi che avevano il solo torto di non essere gauchiste: valga per tutti l’esempio di Pietro Germi. Per non dire dei tanti cineasti sessantottini che – tranne poche eccezioni – misero in campo più ideologia che idee, più propaganda che innovazione. Ma questo è un altro discorso, che meriterebbe un’analisi accurata e sfaccettata, senza fare di ogni erba un fascio. Tutto il contrario di quello che fa Brunetta.
Il nuovo anno scolastico potrebbe essere rivoluzionario in sede di valutazioni
Forse è finita l’era (orribile) del 6 politico anno scolastico è iniziato, ma fin da ora possiamo fare una previsione sulla sua conclusione: quest’anno ci saranno meno ammessi all’esame di Stato e, con molta probabilità, anche i voti finali saranno più bassi rispetto allo scorso anno. La previsione è abbastanza facile perché la novità più importante introdotta dal ministro Gelmini è la necessità per gli studenti di avere almeno 6 in tutte le materie per poter essere ammessi all’esame di Stato. In pratica, è la fine della stagione del cosiddetto “6 politico”.
L’
Finora, infatti, per essere ammessi all’esame di Stato bastava la media del 6. Dunque, non il 6 pieno in ogni disciplina, ma semplicemente la media del 6 come risultato dei voti ottenuti in tutti gli insegnamenti. Un 4 o un 5 o anche un 3 potevano essere riequilibrati da voti più alti in altre discipline. Se lo studente zoppicava in matematica, lo si poteva aiutare alzando il voto in storia e il gioco era fatto. Se poi non si poteva fare nulla con le altre materie, allora si poteva far ricorso al jolly del voto di condotta: un bel 9 o anche un dieci e la media del 6 era a portata di ma-
no. La “media del 6” era a conti fatti - e non è un gioco di parole - un vero e proprio “6 politico”: i professori ammettevano gli studenti alla prova dell’esame di Stato con un animo più sollevato. In fondo, l’ammissione all’esame di Stato voleva dire rimandare gli studenti alla prova d’esame: a esprimere un giudizio più severo o semplicemente più equilibrato o veritiero ci avrebbe pensato poi la commissione esaminatrice. In questo modo il momento dell’ammissione all’esame era soltanto una formalità che il meccanismo della “media” rendeva uno scivolo verso la prova finale. Questo scivolo ora con la necessità di avere 6 in ogni disciplina non c’è più. La strada è in salita. Almeno per chi è abituato a studiare poco, ma è bene che i ragazzi capiscano da subito il
valore della novità che ricadrà metà sulle loro spalle e metà sulle spalle dei professori. Il 6 pieno ridimensiona anche i poteri o la discrezionalità del consiglio di classe. La valutazione del consiglio è sempre decisiva, ma è un dato di fatto che il consiglio per quanto importante e decisivo non possa intervenire per modificare i voti o anche un solo voto. Gli studenti dovranno guadagnare prima di tutto con le proprie forze la sufficienza piena. La valutazione del docente è di fatto rivalutata e riequilibra i poteri collegiali del consiglio di classe. Certo, i docenti potranno anche regolarsi di conseguenza e rivedere la propria valutazione al rialzo per evitare conflitti, ma questa è un’altra storia e - si sa - se i docenti vengono meno ai loro doveri di insegnanti e di educatori
non c’è provvedimento o riforma che tenga. La fine della stagione del “6 politico” è a conti fatti il tentativo di recuperare l’autorevolezza del professore, ma l’autorevolezza del docente sarà effettivamente recuperata solo quando i professori decideranno di riprendersela. Questa, non c’è dubbio, è un’occasione che è offerta loro: si tratta di metterla a frutto caricandosi sulle spalle ciò che comporta, vale a dire insegnamento più rigoroso e valutazione più precisa.
Nella scuola italiana i professori sono di manica larga. Il 6 è quasi considerato un voto negativo e abbondano gli 8, i 9 a volte persino i 10. Una situazione grottesca che danneggia la serietà degli studi e il senso dello sforzo che gli studenti sono chiamati a fare a scuola per migliorarsi. La fine della stagione del “6 politico” potrà avere sulla scuola un effetto positivo se i professori applicheranno la riforma con rigore oppure potrà avere un effetto disastroso se verrà neutralizzata alzando la “asticella” della valutazione. Come in tutte le cose, forse ci vorrà un po’ di rodaggio, ma è bene abituarsi da subito alla fine del “6 politico”.
panorama
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Incontri. Si è svolto al Monastero di Bose, in Piemonte, il tradizionale convegno internazionale di spiritualità
Cattolici, ortodossi e il miracolo dell’unità di Sergio Valzania a scorsa settimana si è svolto preso il Monastero di Bose, in Piemonte, il XVII Convegno internazionale di spiritualità ortodossa. L’incontro di quest’anno è stato dedicato alla Lotta spirituale. Chi crede nel mistero del mondo, nella natura inconoscibile delle sue radici, ha avuto la possibilità di assistere a un miracolo. Persone di luoghi e culture lontane, di religioni prossime ma da secoli incamminate in percorsi diversi e spesso conflittuali si sono incontrate con gioia in nome della fede e hanno scambiato i doni delle loro tradizioni.
la consapevolezza di trovarsi tutti lungo un cammino comune. Più volte è stata ripetuta la frase «I muri che ci separano non arrivano a raggiungere il cielo», a memoria comune del fatto che le molte Chiese cristiane sono divise ma hanno in comune l’aspirazione a incontrarsi di nuovo nell’unità.
L
Il priore del monastero, Enzo Bianchi, ha inaugurati i lavori con una relazione sugli elementi biblici della lotta spirituale e poi si sono susseguiti in stretta sequenza interventi dedicati alla fatica ascetica, proposto dal vescovo Filarete di Minsk, la lotta del cuore, dal greco Pantelis Kalaitzidis, alle esperienze di Giovanni Callimaco, Isacco di Ninive, Luca di Sinferopoli e Massimo il Confessore, alla ricerca spiritale in Grecia, Bulgaria, Serbia e Russia, allo scambio di doni spiri-
Gli interventi si sono alternati alle preghiere, nel rispetto dei rispettivi riti, nella consapevolezza di trovarsi tutti lungo un cammino comune tuali e anche alla lotta spirituale per l’unità della Chiesa. L’elenco dei relatori sarebbe lunghissimo, cito per tutti i teologi Andrew Louth, Kallistos di Diokleias, che ha sintetizzato la banalità del male nel paradosso «che peccato non ci siano nuovi peccati!» a fronte del continuo innovarsi dei modi
della santità, e l’arcivescovo George del Monte Libano. Gli interventi sono stati scanditi da momenti di preghiera comune, nel rispetto dei ritmi monastici, sottolineando che i protagonisti delle giornate non sono stati gli argomenti, di grande importanza, o i prestigiosi relatori, quanto lo spirito dell’incontro,
Il senso della vicinanza pulsava nell’affollatissima e pittoresca sala delle conferenze, dove sedevano vicini uomini e donne i cui abiti parlavano della dedizione di ciascuno a una particolare esperienza spirituale, nella chiesa, durante il canto dei Salmi e l’ascolto della Scrittura, e anche, forse soprattutto, attorno alle tavolate della mensa, che i fratelli della comunità di Bose hanno offerto con meticolosa cura, affetto e grande fatica, dato che i partecipanti all’incontro sono stati oltre 250. Per le relazioni era in funzione una traduzione simultanea, che consentiva l’ascolto degli interventi in greco, russo, francese e italiano, ma durane i pasti si intrecciavano le lingue, in una sorta di Babele a rovescio, nella quale l’umanità si ricom-
Polemiche. È caos nei democratici dopo le uscite di Tonini su Bassolino e il caso-Puglia
Se la questione morale divide il Pd di Antonio Funiciello anto tuonò che non piovve. Sabato scorso Giorgio Tonini, in un’intervista al Riformista, aveva fatto notare che tutti i protagonisti del fallimento politico-amministrativo del Pd nel Mezzogiorno sostengono Bersani. Apriti cielo: i pretoriani dalemiani sono scesi in armi contro Tonini, agitando l’eterno spauracchio della questione morale. Tonini aveva precisato da subito che quanto gli premeva sottolineare era il rilievo politico di tale sostegno. In altre parole, se Loiero (esempio) in Calabria fa vincere la conta interna e le primarie a Bersani, è del tutto evidente che Loiero avrà un’influenza decisiva nella scelta del candidato presidente calabrese alle prossime regionali e nel governo del partito locale. Lo stesso dicasi per Campania e Puglia. Ancor più se, come pare, il cappotto di Bersani a Franceschini in queste tre regioni potrebbe risultare determinante per il risultato finale nazionale.
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per scacciare le critiche, come le filastrocche che i bambini impauriti usano di notte per tenere lontani streghe, folletti e uomini neri. Rispetto a quanto Tonini, politico dal pensiero fino, ha dichiarato in altre occasioni, l’ultima intemerata pare più che altro un’ovvietà. Eppure non soltanto la contraerea dalemiana ha cercato di abbatterlo, ma neanche dalle file amiche è giunto un soc-
Al congresso che verrà di tutto si parlerà fuorché del peso specifico di alcuni leader del Sud, dove il partito ha perso molti dei suoi consensi
Ma nel Pd funziona oggi come funzionava ieri nel Pci: la ”questione morale” è una specie di formula magica che si tira fuori
corso. Mentre al senatore trentino replicavano seccamente Bersani, Penati (coordinatore della mozione) e altri, né Franceschini né Fassino (l’altro coordinatore) hanno deciso di sostenere la tesi.Veltroni addirittura, di cui pure Tonini è stato uno dei principali uomini squadra, è uscito dal suo silenzio per garrire anche lui la bandiera sbrindellata della questione morale. Insomma, nel Pd è vietato parlare di Bassolino. In un dibattito congressuale in cui le idee sono poche, il clima è gelido e i due maggiori contendenti non fanno nulla per differenziarsi, il vertice del Pd sceglie di tenere fuori dalla discus-
sione anche la propria questione meridionale, fatta di clamorosi insuccessi politicoamministrativi che hanno avuto risalto sui giornali di tutto il mondo.
Si attende di capire come il Pd intende occupare la scena nelle prossime settimane, visto il profilo basso adottato da Franceschini e Bersani. Quello che doveva essere il primo congresso “vero”della storia del centrosinistra italiano, pare al momento il più posticcio. Nelle ultime assise di Ds e Margherita, il dibattito sulla chiusura di quei due partiti appassionò di più. Soprattutto nei Ds si consumarono rotture di rapporti umani e politici decennali sull’opportunità o meno di chiudere l’ultima propaggine del Pci. Due anni dopo, durante la campagna delle prime primarie, Veltroni ebbe il merito di occupare la scena con forme e contenuti innovativi, in una corsa alla segreteria che pure era falsata dal patto di sindacato che gli assicurava la vittoria e che poi risultò essere il motivo più importante della sua resa incondizionata. Oggi si tira a campare, con buona pace di chi credeva che finalmente, con questo congresso, il Pd avrebbe cominciato a fare sul serio.
poneva nel desiderio comune di parlare l’uno con l’altro, scambiare esperienze e conoscersi più a fondo. I cattolici vivono il dono di una Chiesa dalla gerarchia unificata e sono poco consapevoli della ricchezza dell’articolazione delle Chiese ortodosse, che possiedono il dono complementare della difformità. È quindi con stupore che si trovano di fronte alle differenze, le sfumature e a volte le distanze che le caratterizzano e che l’esperienza ormai consolidata di Bose permette di mettere a confronto in un’occasione unica. Per una via misteriosa il luogo d’incontro privilegiato per il dialogo fra gli ortodossi è divenuto proprio un monastero appartato fra i monti del Piemonte, fra Biella e Santhià. Le gelosie dell’autonomia si sciolgono con maggior facilità lontano da casa, dove si diviene più disponibili, ai piedi della Alpi, a riconoscere meriti e ricchezze di tradizioni diverse dalla propria. Allora si assiste al miracolo del dialogo, materia prima rara ma necessaria al progresso, e ci si ricorda una volta ancora che Dio agisce attraverso gli uomini e la loro buona volontà.
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a ricetta esiste. E per fortuna non siamo condannati né a subire passivamente le conseguenze della diminuzione, già in atto, della disponibilità di combustibili fossili né ad affossarci coltivando le illusioni dell’energia dal Sole, del suo accumulo, dell’economia a idrogeno, del risparmio energetico, dell’efficienza energetica, o della creazione di posti di lavoro producendo energia.Vediamo come imboccare quella che oggi appare come l’unica via d’uscita di cui disponiamo. Innanzitutto, dobbiamo aver chiaro come un Paese richiede energia elettrica. La potenza elettrica assorbita dall’Italia nel 2007 è stata di 41 Gw (Gigawatt): è, questo valore, una potenza media (che, se moltiplichiamo per 8760, le ore di un anno, ci dà il consumo elettrico italiano nel 2007).
L
Tuttavia, il Paese richiede potenza elettrica in modo variabile a seconda della stagione e a seconda dell’ora del giorno. Per la sicurezza del sistema elettrico, poi, è necessario che la potenza installata minima garantita sia di circa il 20% superiore al picco massimo di potenza richiesta. Al picco massimo il Paese arriva a richiedere fino a quasi 60 Gw, valore che comporterebbe, per la sicurezza d’approvvigionamento, una potenza installata garantita di circa 70 Gw. Esiste un modo razionale di ripartire tra le varie tecnologie i 70 Gw di potenza installata? La risposta è sì, ed è ciò cui usualmente ci si riferisce quando si parla di mix energetico. Bisogna precisare che, in alcuni casi, può risultare conveniente adottare un mix diverso da quello che ora suggeriremo adatto all’Italia. Ad esempio, la Norvegia e il Paraguay producono dall’idroelettrico il 100% del proprio fabbisogno elettrico, ma solo perché l’orografia dei luoghi e la relativamente poco numerosa popolazione (meno di 5 milioni di abitanti ciascuno) lo consente. Analogamente, la grande disponibilità di carbone rispetto alla popolazione poco numerosa (poco più di 10 milioni
Perché le centrali atomiche sono più convenienti, razionali e rispett eolici e Fv farebbero solo risparmiare il combustibile usato per soddisfare la richiesta di base. Detto diversamente: le potenze eolica o Fv installate contano zero ai fini della capacità del sistema elettrico. L’idroelettrico è limitato dalle condizioni orografiche, e nulla vieta di sfruttarlo al massimo del consentito. Il problema, allora, si riduce alla determinazione del mix tra nucleare, carbone e gas per soddisfare la domanda che l’idroelettrico non riesce a soddisfare.
Per ripartire tra esse, in modo razionale, le quote di produzione elettrica, bisogna confrontare i costi degli impianti (installazione e manutenzione) e del combustibile. Allora, un modo razionale di produrre energia elettrica sarebbe il seguente: soddisfare la domanda di base col nucleare; la domanda superiore a quella di base, ma sempre nella norma, col carbone; e soddisfare la domanda di picco col gas naturale (ma anche, vedremo, con l’energia idroelettrica). Gli impianti nucleari sono i più costosi, ma producendo in continuo (e gli impianti nucleari, per ragioni tecniche, devono produrre in continuo) ammortizzerebbero il loro costo rapidamente, soprattutto tenendo conto del fatto che brucerebbero il più economico dei combustibili. Per soddisfare le richieste di picco bisogna installare impianti che stiano per lo più fermi, ma siano pronti a partire quando la domanda elettrica sale: a questi scopi è opportuno avere impianti più economici e pronti ad avviarsi quando la domanda elettrica sale rapidamente. Gli impianti a turbogas sono i più economici e i più versatili quanto a rapidità di avviamento. Essi, poi, bruciando il più costoso dei combustibili, è bene siano riservati alle sole domande di picco. Per la domanda elettrica superiore a quella di base, ma sempre nella norma (cioè inferiore alla richiesta di picco) l’ideale è il car-
A parità di massa impiegata, dal nucleare si ottiene, per fissione, un milione di volte più energia che dalla combustione di un fossile come il petrolio. E abbiamo uranio per 10mila anni di abitanti) consente al mix elettrico dell’Australia di essere fortemente sbilanciato verso il carbone. Queste, però, sono eccezioni: la norma - e l’Italia è nella norma - è che ogni Paese si serve di un mix più composito. Vediamo quale. Innanzitutto, dobbiamo ribadire quanto già anticipato, e cioè che siccome non sempre il Sole brilla o il vento soffia, la produzione da eolico e da fotovoltaico (Fv) non è adatta a contribuire né alla potenza richiesta di base né a quella di picco: gli impianti
bone, combustibile fossile ancora abbondante, economico, facilmente reperibile nel mondo e facilmente trasportabile via nave.
Riassumendo, le regole per una produzione razionale di energia elettrica sarebbero: 1) Non installare alcun impianto eolico o fotovoltaico; 2) Compatibilmente con l’orografia locale, massimizzare la potenza idroelettrica installata; 3) Coprire la richiesta elettrica di base col nucleare;
Ecologia de di Franco
Un antidoto contro il vetero-ambientalismo Edito da “21mo Secolo”, il nuovo libro di Franco Battaglia Energia nucleare? Sì, per favore - ha già fatto molto discutere in sede scientifica e riscosso un notevole successo, almeno al di fuori dei circoli vetero-ambientalisti) che hanno monopolizzato per decenni il dibattito sul nucleare in Italia e contribuito a quel colossale inganno dell’opinione pubblica che fu il referendum del novembre 1987. Con le presentazioni di Antonino Zichichi e Renato Brunetta, il libro è scritto con lo stile tipico dell’autore (da almeno dieci anni firma de Il Giornale): diretto, pragmatico, capace di andare dritto al cuore del problema senza tanti giri di parole.
4) Coprire la richiesta elettrica superiore a quella di base, ma sempre nella norma, col carbone; 5) Riservare al gas naturale, se proprio necessario, solo la richiesta elettrica di picco, cui dovrà concorrere anche, e principalmente, l’idroelettrico. Vediamo cosa significa, grosso modo, applicare queste regole all’Italia: 1) Interrompere le sovvenzioni di
denaro pubblico all’eolico e al Fv: è denaro dei contribuenti sprecato; 2) Attualmente, l’idroelettrico copre il 10% del nostro fabbisogno elettrico. Si noti che, a fronte di soli 4 Gw di potenza idroelettrica erogata, la potenza idroelettrica installata in Italia è di oltre 16 Gw. La potenza idroelettrica installata può senz’altro essere aumentata, secondo le stime più ot-
timiste anche fino al doppio dell’attuale, ma difficilmente essa potrà tenere il passo con l’aumento della domanda elettrica. Un obiettivo realistico è aumentare la potenza installata in modo da almeno mantenere al 10% il contributo idroelettrico; 3) Per soddisfare la richiesta di base col nucleare, dovremmo avere circa 25 Gw nucleari (circa 20 reattori), che soddisferebbero 20 Gw di consumi (pari a circa il 50% del nostro fabbisogno). Attualmente non produciamo nulla dal nucleare, ma copriamo con esso il 15% del nostro fabbisogno elettrico, visto che importiamo 6 GW elettrici, per i quali paghiamo alla Francia, ogni anno e da molti anni, l’equivalente del costo di un reattore nucleare. Come dire che un quarto del parco nucleare francese è stato pagato con denaro dei contribuenti italiani, prelevato direttamente con le bollette elettriche; 4) Una quota di circa il 30-35% dovrebbe essere soddisfatta dal carbone. A questo scopo, potremmo cominciare col convertire a carbone i nostri impianti che bru-
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tose dell’ambiente di quelle che utilizziamo in Italia
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pompare acqua nei bacini, e usare poi l’acqua dei bacini per soddisfare le richieste di picco.
Vi è anche una ragione economica che avvantaggerebbe il consolidamento del nucleare a scapito del gas. I costi del metano rappresentano risorse che andrebbero a beneficio dei Paesi esteri dai quali sia-
di chi di queste paure approfitta, vincono sulla razionalità e sull’interesse di un Paese che non sembra avere alcun pensiero per il futuro dei propri figli e nipoti.
In conclusione, possiamo così completare la nostra lista. Energia nucleare? Sì, per favore... Perché: 1) È l’unica in grado di competere
La localizzazione delle centrali elettronucleari nel mondo (sopra) e in Europa (sotto)
el nucleare Battaglia
ciano petrolio: il petrolio, come detto, è una risorsa preziosa e il suo uso andrebbe riservato al settore petrolchimico; 5) Limitare al 5-10% l’uso del gas naturale per la produzione elettrica.È, questo, un programma stravagante? Beh, in Europa, la prima fonte d’energia elettrica è il nucleare (33%), seguito dal carbone (30%) e dal gas (quasi 20%).
elettrica (e tale è in Europa). Naturalmente, l’abbiamo abbandonata senza rinunciarvi: ne abbiamo fatto, come già detto, un bene d’importazione. In Italia, poi, facciamo gli schizzinosi col carbone che, invece, dovrebbe essere la seconda fonte di produzione elettrica (e tale è in Europa). Nel caso dell’Italia, la riduzione dell’uso del gas sarebbe ancora più neces-
L’ignoranza, la demagogia, la diffusione di paure infondate e la convenienza politica vincono sulla razionalità e sull’interesse di un Paese che non sembra avere alcun pensiero per il futuro Quindi, anche se il contributo dal nucleare e dal gas non sono ancora ai livelli ottimali qui auspicati (oltre il 50% il primo e meno del 10% il secondo), il mix in Europa è consolidato verso un assetto razionale e facilmente perfettibile. Anomala è, invece, la situazione italiana. In Italia abbiamo abbandonato la fonte nucleare che, invece, abbiamo visto dovrebbe essere la prima fonte di produzione
saria in quanto ridurremmo in questo modo anche la dipendenza dall’estero, aumentando la sicurezza dei nostri approvvigionamenti d’energia elettrica. Inoltre, siamo gli unici a mantenere ancora eccessivo l’uso del prezioso e costoso olio combustibile e usiamo l’altrettanto prezioso e non meno costoso gas naturale per oltre il 50% della nostra produzione elettrica. Sull’uso del
gas la media europea si attesta a meno del 20%, ma vi sono Paesi che meglio rispettano la razionalità qui auspicata, tipo la Germania (che usa il gas per il 10% della produzione elettrica) o la Francia (che lo usa al 5%). La riduzione dell’uso del gas come fonte di produzione elettrica è un imperativo che il mondo dovrà presto imporsi: come il petrolio, anche il gas è una risorsa preziosa e, più che bruciarlo per produrre energia elettrica, sarebbe meglio riservarlo, finché ce ne sarà, come carburante per l’autotrazione. Ove possibile, quindi, per soddisfare le richieste di picco, sarebbe auspicabile, più che il gas, utilizzare l’idroelettrico: per garantirsi i bacini pieni, sarebbe allora auspicabile aumentare il carico di base (da nucleare) ad un valore superiore alla richiesta di base, in modo da utilizzare le eccedenze per pompare acqua da valle e alimentare i bacini. Ad esempio, se il carico di base fosse di 40 Gw, si avrebbe tra le ore 22 e le ore 6 una produzione superiore alla domanda e la produzione in eccedenza potrebbe utilizzarsi per
mo costretti ad acquistare gas, visto che l’Italia ne è povera. I costi degli impianti, invece, rappresentano risorse che rimarrebbero entro i confini nazionali. Il costo del chilowattora elettrico, infine, è abbastanza stabile rispetto al costo della materia prima: il costo dell’uranio naturale incide solo per il 5% sul costo del chilowattora elettrico, e anche dovesse raddoppiare il costo del primo, l’effetto sul costo del secondo sarebbe contenuto. Viceversa, un raddoppio del costo del gas quasi raddoppierebbe il costo del chilowattora elettrico da esso prodotto. Infine, non vogliamo esimerci dal commentare una recente mania: l’installazione dei rigassificatori. Sono, essi, inopportuni, inutili, economicamente dannosi e sono pericolosi, e non andrebbero installati. No ai rigassificatori, quindi. Una cosa, invece, andrebbe fatta per aumentare le nostre riserve strategiche: realizzare depositi di gas in siti geologici adeguati. Anche in questo caso, purtroppo, l’ignoranza, la demagogia, la diffusione di paure infondate, la convenienza politica
con i combustibili fossili; 2) Produce calore che viene poi trasformato - esattamente come avviene negli impianti a gas o a carbone - in energia elettrica; 3) A parità di massa impiegata, dal combustibile nucleare, si ottiene, per fissione, un milione di volte più energia che dalla combustione di un combustibile fossile; 4) È una fonte d’elettricità della quale non possiamo fare a meno: tutto il mondo industrializzato se ne serve (inclusa l’Italia, che ne ha fatto un nuovo bene d’importazione); 5) Dispone di combustibile per almeno 10mila anni; 6) Prendendosi cura dei rifiuti che genera, è l’attività umana più rispettosa dell’ambiente che ci sia; 7) È, in assoluto, la tecnologia di produzioen di energia elettrica più sicura che c’è; 8) È la sola in grado di alleviare la crisi conseguente alla necessaria minore disponibilità di combustibili fossili; 9) È la prima fonte da sfruttare per una produzione d’energia elettrica che sia razionale.
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L’analisi. Lo stimulus ha dato il via alla ripresa dei mercati, ma i grandi broker sembrano ignorare la lezione del crack
Il vizietto di Wall Street Di nuovo bonus folli e stipendi miliardari: un anno di crisi non ha insegnato niente di Eamon Javers l collasso di Lehman Brothers, avvenuto giusto un anno fa, ha scatenato un panico finanziario globale che ha massacrato migliaia di punti del Dow, fatto sparire trilioni di dollari di benessere americano e provocato il più massiccio intervento governativo nel campo economico sin dai tempi del New Deal. Uno potrebbe pensare che una cosa del genere sia interessante anche per Wall Street. Ma, mentre il 2009 scorre via, è come se nulla fosse avvenuto. Sono tornati i bonus generosi, l’industria finanziaria mostra un rinnovato
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appetito per il rischio, e nuove securities esotiche vengono sognate da innovatori finanziari. Molto simili a quelle che hanno contribuito al primo collasso del mercato. Persino all’interno di Aig - la compagnia divenuta simbolo degli eccessi per i bonus riconosciuti ai manager qualcuno si comporta come se nulla fosse avvenuto. Il nuovo amministratore delegato Robert Benmosche ha da poco mostrato il suo palazzo estivo sul Mar Adriatico in Croazia: quello con dodici bagni, marmi italiani, tappezzeria francese e una cantina ben fornita di vini pregiati.
Le lobby finanziarie sono tornate con foga a scatenarsi nelle stanze del potere, mentre la Borsa investe 222 milioni di dollari in attività di sostegno (bipartisan) ai maggiori partiti statunitensi
Alla Reuters è arrivato a dichiarare: «Ogni bagno è come un’opera d’arte. Le donne impazziscono quando entrano qui dentro». Allo stesso tempo, da Washington, il presidente Barack Obama ha proposto una serie di riforme dell’industria finanziaria che cercano la loro strada al Congresso. Ma queste si muovono con lentezza, dato che Obama ha mostrato di volersi impegnare molto di più nella riforma sanitaria. Al momento attuale, nessuna singola nuova legge è stata messa in cantiere per prevenire una nuova crisi. Ieri Obama ha pronunciato un discorso sullo stato della nostra economia alla Federal Hall di New York. Ma mentre il presidente va a Wall Street, alcuni analisti economici lanciano l’allarme: ci sono tutti gli ingredienti per una nuova grossa crisi, da qui a pochi anni a venire. Soltanto, la prossima volta le banche che falliranno saranno più grandi e più incoraggiate a rischiare di quanto lo fossero l’ultima volta, perché il governo ha deciso che erano troppo grandi per fallire. Un effetto diretto del bailout deciso dal presidente Bush e continuato da Obama. Potrebbe avvenire un collasso economico tale da impedire al governo di contenerlo. Secondo Camden Fine, presidente della Comunità indipendente dei banchieri d’America (un consorzio che riunisce le banche minori), «sarà terribile. È l’avarizia, non l’umiltà, che guida Wall Street. Le memorie sono corte, e da una crisi si fa presto a generarne un’altra». Persino la Casa Bianca è scettica sul fatto che la finanza Usa abbia imparato la lezione. Il direttore del Consiglio nazionale economico, Larry Summers, ha dichiarato: «Io credo nella fiducia, ma verificate. E regolate. Non credo che ci sia bisogno, per nessuno, di stimoli per ricordare cosa è successo lo scorso anno. Ma credo che, seppure tutti abbiamo imparato qualcosa dalla scorsa crisi, non ci si può semplicemente affidare alla paura per evitare che le stesse vecchie pratiche portino a un nuovo crack». All’inizio di quest’anno, Obama ha promesso che avrebbe sistemato i problemi che hanno generato il collasso economico. Nel
Il presidente avverte: basta aiuti di Stato
Obama lancia la «riforma mondiale della finanza» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Il presidente ha poi continuato: «Numerosi progetti di rinascita stanno per vedere la luce in America. Otto mesi dopo, il lavoro continua: non sarò mai soddisfatto finché tutti gli americani non avranno un posto di lavoro. Se continuiamo ad aver bisogno di un coinvolgimento del governo per stabilizzare il sistema finanziario, lo faremo. Stiamo iniziando a vedere un ritorno di capitale liquido nelle tasche dei contribuenti: le banche hanno ripagato più di 70 miliardi di dollari a Washington».
Questa rivoluzione copernicana della finanza non deve però vedere i suoi limiti geografici all’interno degli Stati Uniti: «All’interno di forum molto efficaci, come il G20
che si è svolto a Londra e che si ripeterà fra pochi giorni a Pittsburgh, dobbiamo concordare delle regole comuni per questo mondo: deve essere una riforma mondiale, condivisa anche dagli emergenti». Ci sono però alcune cose sulla finanza che non stanno andando al posto giusto: «Non torneremo indietro a quei bruttissimi giorni di un anno fa, a quel comportamento sbagliato che sono stati il cuore della crisi». Proprio questo comportamento sbagliato, spiega l’inquilino della Casa Bianca, ha generato dei problemi non soltanto nel credito ma proprio nella mentalità generale del mercato americano. Troppi, sottolinea Obama, «erano mossi dall’idea del denaro facile. Dobbiamo proteggere i contribuenti americani. Dobbiamo fare nuove regole: dobbiamo riformare il
mondo corso di un incontro alla Georgetown University, lo scorso aprile, ha pronunciato un toccante discorso che citava il sermone di Gesù dalla montagna per descrivere come si sarebbe dovuto ricostruire il mondo economico. L’America, ha detto, «non può ricostruire sulla stessa pila di sabbia. Dobbiamo innalzare la nostra casa sopra una roccia». Il presidente non ha parlato molto della crisi economica: ha preferito sottolineare i segnali di recupero, nella speranza di convincere la popolazione che il suo piano di stimolo e le altre iniziative governative hanno contribuito a riportare le cose in movimento.
Una visione, per altro, che molti economisti condividono. Ma coloro che temono che Wall Street non abbia imparato la lezione hanno paura che Obama non abbia il pieno controllo del-
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re comunicazione del Centro, aggiunge: «Stanno cercando, è ovvio, di influenzare il governo. Ma questo non deve accadere». Per Rickards «il fatto interessante riguarda il modo in cui il mercato finan-
ziario si è ripreso. Sei mesi fa eravamo (o, per meglio dire, erano) nelle peggiori acque possibili e oggi sono tornati alla grande». Nel suo pacchetto di riforme finanziarie, Obama ha proposto di creare una nuova agenzia per la protezione dei consumatori, in modo da moni-
Citigroup paga un singolo trader più di dieci milioni di dollari per l’anno in corso. Goldman Sachs ha stanziato undici miliardi in bonus, ma ha chiesto ai broker di comportarsi in maniera discreta con i soldi sistema, non possiamo dimenticare quello che è successo.Tutto questo non si deve ripetere.Vogliamo che il sistema finanziario si unisca a noi in uno sforzo, per formare delle regole condivise e affrontare le sfide del nuovo secolo. Abbiamo delle idee, che arrivano da tecnici e consumatori, per migliorare la situazione». Ma, come sottolineava ieri il New York Times, nella Federal Hall di Wall Street - dove un tempo si discuteva animatamente di quanto controllo il governo dovesse o potesse avere sull’economia nazionale - Obama si è presentato anche come il riluttante, ma reale, azionista delle maggiori industrie ed istituzioni finanziarie americane.
tempi della Seconda Guerra Mondiale - il governo americano al momento finanzia 9 mutui su 10. Se si compra un’auto della General Motors si compra da una compagnia al 60 per cento governativa». Secondo Lawrence Summers,
«Sono fallite le responsabilità Usa. Sono stati ignorati tanti segnali, e questo ha generato la crisi. Ora una vera svolta globale per il mercato»
In un anno «convulso e drammatico per l’economia americana, infatti, una serie di interventi federali hanno fatto in modo che il governo sia diventato il principale istituto di credito, di assicurazione, il principale produttore di auto e garante contro i rischi di investitori grandi e piccoli». Con il controllo del 26 per cento dell’economia nazionale - la quota maggiore dai
il direttore del National Economic Council della Casa Bianca, «si tratta di misure straordinarie di aiuto che non sono parte di un programma permanente. Anzi, è già iniziato il processo di disimpegno: un processo che richiederà del tempo ma che prevede prospettive più rosee oggi di quanto fossero 9 mesi fa».
la situazione. Per Jim Rickards, consulente finanziario alla Omnis Inc (studio di consulenza finanziaria), «sembra che manchi, da parte dell’amministrazione centrale, una vera volontà di affrontare il problema». Più in generale, una parte di quello che è avvenuto ha avuto l’effetto di un narcotico sul mercato. Da quando ha toccato lo scorso marzo il suo punto più basso, il Dow ha avuto una corsa folle: giovedì scorso ha chiuso con tremila punti di più rispetto a quel drammatico giorno. E quindi, nonostante il tasso di disoccupazione della nazione si attesta intorno a un terribile 9,7 per cento, e decine di migliaia di persone perdono il loro lavoro, un boom del mercato si è rifatto vivo per coloro che operano a Wall Street.
Un modo per, spiegare questo singolare fattore può essere l’enorme nube che, a Washington, ricopre l’industria finanziaria: uno dei tanti esempi dell’abilità con cui quel mondo ferma qualunque serio tentativo di riforma. Il Centro per una politica responsabile (non di partito) sostiene che quel mondo, insieme a quello delle assicurazioni e a quello immobiliare, ha già versato quest’anno, cinquanta milioni di dollari per i contributi alla campagna elettorale. Il sessanta per cento di questi soldi è andato ai democratici, il quaranta ai repubblicani. Inoltre, sono stati spesi per attività di lobby politica altri 222 milioni di dollari: a Washington opera infatti un esercito di faccendieri dell’industria finanziaria che conta più di 2.300 persone. Dave Levinthal, diretto-
torare e bloccare pratiche abusive di prestito, consolidare il potere alla Federal Reserve per permettere alle agenzie indipendenti di calcolare in maniera autonoma il rischio e molte altre piccole proposte, fra cui quelle di regolazione dei derivati da registrare all’interno della Commissione per la sicurezza e gli scambi. Ma il Congresso ancora non ha visto l’intero pacchetto, e alcuni fra i capitani di industria dell’amministrazione Obama si sono già scontrati in pubblico sui suoi contenuti. Da parte loro, i lobbisti del sistema finanziario sostengono che le loro aziende hanno compiuto enormi cambiamenti nella gestione degli affari. Gli standard per i prestiti si sono considerevolmente ristretti, aumentano i capitali d’azienda e le compagnie buttano giù piani di investimento a lungo raggio.
Secondo Scott Talbott, lobbista del Financial Services Roundtable, dice: «Wall Street è molto più avversa ai rischi di prima, più concentrata sul lungo termine. Si è riconosciuto che le fortune delle industrie e dei consumatori sono collegati in maniera inestricabile». Un rappresentante anonimo della Borsa newyorkese dice: «I clienti si sono fatti molto più conservatori, rispetto ai duri giorni del 2007. Sono caduti molti amministratori, molte aziende e molti lavoratori. È difficile sostenere che non si sia sofferto e che si voglia tornare indietro». Eppure, moltissimi segnali indicano che si sta tornando indietro. Ad esempio i bonus, che hanno provocato così tanta rabbia all’i-
nizio del 2009, sono tornati. Citigroup, ad esempio, ha rivelato di voler pagare un singolo trader più di dieci milioni di dollari per l’anno in corso. Goldman Sachs ha stanziato undici miliardi in bonus per la prima metà dell’anno, anche se l’amministratore delegato Lloyd Blankfein ha detto ai suoi impiegati di comportarsi in maniera discreta con i propri soldi. È tornato anche il rischio: Goldman è riuscita a presentare 3,4 miliardi di dollari di progitto nel secondo quarto dell’anno, nonostante abbia ripagato i dieci miliardi di dollari che aveva preso - sotto forma di aiuti governativi - lo scorso anno. Secondo i migliori analisti, questo profitto record si spiega con la decisione di investire in quegli affari di trading troppo rischiosi per gli altri operatori.
Questa settimana ha fatto scalpore la notizia delle dimissioni molto anticipate di John Mack, l’uomo che ricopriva l’incarico di direttore esecutivo di Morgan Stanley. Fra le critiche del suo mondo, Mack è stato in realtà cacciato: il suo appetito per il rischio era troppo limitato per la compagnia che era stato chiamato a dirigere. Sono tornate persino le esotiche securities che ci hanno trascinato sul baratro. Il NewYork Times ha rivelato che le agenzie di Wall Street stanno lavorando su pacchetti di assicurazione vita che assomigliano molto ai subprime. Un anno dopo, inoltre, la Sec (la Commissione per la sicurezza economica) non è riuscita a recuperare neanche uno dei dollari rubati da Madoff. Il morale dello staff sembra essere molto basso, perché il grande teorico dello schema Ponzi l’uomo che ha truffato mezza America e che per questo è stato condannato a più di cento anni di galera - ha nascosto troppo bene i suoi soldi. Inoltre, nonostante si siano verificati dei cambiamenti impegnativi al vertice della Commissione sin dalla scoperta della truffa Madoff, non è ancora chiaro se il sistema a porte girevoli si sia interrotto con la cattura del suo ideatore. In ogni caso, la cultura della truffa portata all’eccesso da quello che un tempo era il leader indiscusso del mondo dei broker di Wall Street non sarà dissolta dalla sera alla mattina, come se niente fosse. Uno dei loro dirigenti, Ross Albert, dice: «Non credo che le cose cambieranno dal giorno alla notte, ma credo che la nuova leadership si stia muovendo nella giusta direzione. Anche se pensare di cambiare l’animo di Wall Street è come voler dare battaglia alla nostra economia».
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Afghanistan. L’opinione pubblica Usa ed europea non crede nella missione atteggiamento dell’opinione pubblica americana ed europea a sei mesi dall’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è efficacemente illustrato nell’edizione 2009 del rapporto Transatlantic Trends, presentato in Italia la settimana scorsa a cura dell’Istituto Affari Internazionali e della Compagnia di San Paolo. L’indagine è stata condotta nel giugno scorso su un ben assortito campione di tredici paesi - undici dei quali membri dell’Unione Europea - tutti facenti parte della Nato e presenti sul terreno in Afghanistan. Per l’esattezza, oltre agli Stati Uniti, si tratta di Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Francia, Spagna, Regno Unito, Bulgaria, Slovacchia, Romania, Polonia e Turchia. Per quanto riguarda la popolarità, il rapporto registra un ritorno di fiamma dell’opinione pubblica europea occidentale nei confronti dell’America, la cui leadership globale oggi viene mediamente meglio accettata. Questo può apparire normale, mentre desta qualche perplessità - se non preoccupazione il fatto che a metà 2009 il sostegno per Obama sia maggiore in Europa, con punte in Germania, Regno Unito e Francia, piuttosto che negli Stati Uniti. In casa, evidentemente, è l’innovativa politica sociale, sulla quale vi è un’opposizione trasversale, a far pagare lo scotto.
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Tiepidi anche i paesi dell’Europa orientale, che si sentivano maggiormente protetti dalle maniere forti di Bush. Ma questa non è una sorpresa. Senza precedenti è invece il rapidissimo cambio delle opinioni pubbliche nei paesi Ue e in Turchia circa la condotta di Obama in politica estera: mediamente e sia pure con oscillazioni tra est e ovest, tre intervistati su quattro (77%), si
La stella di McChrystal non brilla più a Kabul I più scettici? Gli inglesi. Ma tutti d’accordo sulla ricostruzione del paese di Mario Arpino
L’indagine è stata condotta nel giugno scorso su un ben assortito campione di tredici paesi, undici dei quali membri dell’Unione Europea sono dichiarati favorevoli, e quindi disponibili a un incremento qualitativo delle relazioni transatlantiche, contro un uno su cinque (19%) del 2008. La questione dell’uso della forza militare è tra le più spinose, ed anche qui le opinioni popolari degli alleati
Nato delle due sponde atlantiche non si trovano d’accordo. Mentre un’indagine statistica condotta dall’International Council for Security annuncia che, a otto anni dalla prima guerra in Aghanistan, i talebani sono ormai presenti nel 97% del Paese - contro un
50% ammesso dalle Autorità di Kabul - il generale McChristal continua a chiedere più uomini e un cambio di strategia. In cosa debba consistere questo “cambio” ancora non è chiaro, ma è certo che abbia l’approvazione di Obama e quella del nuovo segretario generale della Nato. Con la differenza che il primo queste nuove truppe prima o poi le invierà davvero, mentre il secondo, persistendo la neghittosità degli Stati membri, do-
vrà probabilmente già produrre uno sforzo per mantenere quelle che ci sono. In Europa, tre intervistati su cinque si sono dimostrati pessimisti circa una possibilità di stabilizzazione del Paese (62%), con una punta di maggiore negatività in Germania (75%). Reazioni in genere decisamente negative (77%) nei Paesi Ue e in Turchia all’idea di inviare altri soldati sul campo. Anzi, eccetto gli Stati Uniti, la maggioranza degli intervistati (55% dell’Europa Occidentale e 69% dell’Europa Orientale) ha espresso l’avviso di ridurre i propri contingenti, o addirittura di procedere al ritiro. Ma, nonostante questo pessimismo, gli alleati europei non sembrano restii ad impegnarsi in Afghanistan, piuttosto che con soldati, con aiuti per favorire la ricostruzione e l’economia.
Questo invito di Obama, a differenza di quello per l’incremento dello sforzo militare, viene accolto in modo moderatamente favorevole (55%) in dieci dei dodici Paesi esaminati. Negli Usa - in Europa la differenza è meno netta - le opinioni sull’impiego delle truppe in Afghanistan riflettono decisamente il credo politico. Tra i democratici e gli indipendenti due intervistati su cinque auspicano un rientro almeno parziale delle truppe, mentre solo un repubblicano su cinque condivide questa posizione. Anche per quanto riguarda la questione iraniana le opinioni differiscono. La maggior parte degli intervistati europei tende a escludere il ricorso alla forza per impedire all’Iran di acquisire un arsenale militare, mentre la maggior parte degli americani non scarta l’evenienza di un intervento armato, ritenendolo comunque una delle opzioni possibili. La stella di Barak Obama brilla ancora, ma sembrerebbe aver esaurito la spinta verso l’alto.
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Nuovo messaggio del leader di Al Qaeda
E l’Aiea nomina il successore di El Baradei. È Yukiya Amano
Torna Bin Laden, ma solo via web: «Usa, liberatevi dei sionisti»
Nucleare: l’Iran dice sì ai 5+1, ma per Israele è la solita tattica
WASHINGTON. A pochi giorni
TEHERAN. La notizia era nell’aria, ora e ufficiale. L’Iran tornerà a sedersi al tavolo con il 5+1, il gruppo formato da i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Usa, Gran Bretagna, Cina, Russia e Francia) più la Germania. La riunione è stata fissata per il primo ottobre in una sede ancora da definire. Al centro dei colloqui ci sarà la nuova proposta presentata da Teheran in merito al suo controverso programma nucleare. Il regime ha subito ribadito quanto detto nei giorni scorsi, e cioè che il programma nucleare non è argomento di discussione, ma il ministero degli Esteri ha assicurato che «una cosa che possiamo fare, così come è citato nella nostra propo-
dall’ottavo anniversario dell’11 settembre e dall’annuncio da parte del presidente pachistano Zardari della sua morte, Osama bin Laden è tornato a far sentire la sua voce. In un messaggio audio il capo di al Qaeda si è rivolto «al popolo americano»: da una parte mettendolo in guardia contro Israele e i neo-con che continuano a contare alla Casa Bianca grazie ad un presidente definito «senza potere», dall’altra prospettando l’ipotesi che il conflitto tra al Qaeda e gli Stati Uniti possa terminare. «Il tempo è venuto per voi di liberarvi dalla paura e dal terrorismo ideologico dei neo-conservatori e della lobby israeliana - ha detto bin Laden nel discorso di 11 minuti pubblicato ieri sul sito AsShahab Media, tradotto, attribuito e reso noto da due gruppi americani che tengono sotto controllo la propaganda terrorista (Site Intelligence Group e IntelCenter). - La ragione della nostra disputa con voi è il vostro sostegno al vostro alleato Israele, che occupa la nostra terra in Palestina». Nel messaggio bin Laden entra anche nel merito della politica interna americana, sostenendo che a Washington non c’è stato vero cambiamento visto che Obama ha mantenuto esponenti della precedente amministrazione Bush,
Lampi sulla Somalia a caccia dei ribelli Commando francesi nella base di al Shabab, Parigi smentisce di Pierre Chiartano i è trattato di un raid aereo, una specie d’azione con lo stile dei commando, quella delineata ieri pomeriggio dalle notizie arrivate dalla Somalia. Truppe straniere a bordo di elicotteri avrebbero sparato su una formazione di militanti islamici ribelli. È ciò che battevano le agenzia stampa, ieri sera, facendo riferimento ad un episodio accaduto a Barawe, una città nel sud del Paese. Dopo l’azione di forza sarebbero rimasti sul campo, vicino a un mezzo dei ribelli in fiamme, due corpi dei membri del gruppo al Shabab. Secondo alcune testimonianze, riprese anche dal sito della Bbc, gli elicotteri sarebbero decollati da un’unità della marina francese in rada vicino alla costa. La marina di Parigi sta operando da tempo contro la pirateria in quel braccio di mare che sembra diventato una sorta di Tortuga dell’Oceano indiano. Il ministero degli Esteri transalpino nega che propri militari siano stati coinvolti in scontri a fuoco in quella parte di territorio. Christopher Prazuk portavoce delle forze armate francesi ha puntualizzato: «Non ci sono nostre operazioni in corso». Alcuni testimoni avrebbero affermato che uno degli elicotteri impegnati nell’azione sarebbe atterrato e avrebbe catturato due uomini, poi caricati a bordo dei mezzi.
S
to come reazione alla perdita di potere delle Corti Islamiche a causa del Governo federale di transizione e dei suoi alleati, principalmente l’Etiopia, durante la guerra in Somalia (2006-2009). Il gruppo è formato anche da elementi mercenari ed è stimato tra le 3mila e le 7mila unità. Pare che molti siano stati addestrati in Eritrea.
Si sospettano legami con al Qaeda e Barawe, 250 chilometri a sud di Mogadiscio, è il loro quartier generale. Non sarebbe la prima volta che i militari francesi lanciano azioni di commando per difendere o liberare cittadini francesi. Washington dal 1993, quando si è ritirata da quella terra senza legge, cerca rallentare la crescita del terrorismo senza l’utilizzo in loco di truppe. Da quando il governo provvisorio somalo è stato nominato, meno di un anno fa, le formazioni islamiche gli danno battaglia, nella capitale e in tutto il Paese. Gli scontri hanno causato fino ad oggi più di 10mila vittime, in gran parte tra la popolazione civile. La vicina base di Gibuti è la sede della 13ma mezzabrigata della Legione Straniera. Formata da due compagnie e uno squadrone da ricognizione dotato di mezzi blindati, situati nella caserma Montclar di Gibuti. Lì sarebbe stata dislocata anche la Task Force 88, unità segreta per le operazioni speciali che, da qui e dal Kenya, effettua azioni in Somalia. Utilizzerebbero la vecchia caserma della Legione vicino all’aeroporto e sarebbe costituita da circa 2mila uomi, tra forze speciali e marines. A Gibuti gli Usa hanno anche il comando della Combined joint task force (Cjtf) Horn of Africa, che in precedenza era a bordo della nave Mount Whitney, dislocata nel Golfo di Aden. Il quartier generale degli americani è a Camp Lemonier. In caso di necessità possono arrivare rinforzi dall’Us Central Command, da cui dipende. Da qui sono decollati gli aerei Usa impegnati in azioni belliche in Africa: i Predator, aerei Usa senza pilota, che hanno compiuto un’incursione nello Yemen e gli aerei che hanno colpito la Somalia.
A Barawe alcuni elicotteri decollati da un’unità francese sulla costa sarebbero entrati in azione contro i ribelli islamici
come il segretario alla Difesa Robert Gates. «La Casa Bianca è occupata da gruppi di pressione. Piuttosto che combattere per liberare l’Iraq, come pretendeva Bush, è la Casa Bianca che dovrebbe essere liberata». Ma la voce che viene attribuita a bin Laden apre pure uno spiraglio ad una ipotesi di pace futura tra al Qaeda e gli Usa. Il messaggio annuncia infatti che se gli Usa metteranno fine alla guerra, si aprirà uno spiraglio. Viceversa saranno vinti come i russi in Afghanistan. Il messaggio fa riferimento ad un solo evento recente, il discorso di Obama al Cairo del 4 giugno scorso. Quello di ieri è il 19esimo messaggio attribuito a bin Laden dall’attentato alle Torri Gemelle.
«Abbiamo sentito un’esplosione poi un elicottero volare sopra di noi» la testimonianza di Mohamed Ali Aden, autista di bus che era presente sulla scena. Va precisato che né le forze governative, né i ribelli islamici dispongono di mezzi ad ala rotante. Dopo l’Afghanistan e il Pakistan è la Somalia la nuova base di addestramento per i gruppi radicali islamici. L’allarme arrivato dalla stampa inglese qualche giorno fa, secondo la quale decine e decine di giovani britannici, ogni anno, raggiungerebbero il paese del Corno d’Africa per prendere parte al Jihad. Negli ultimi cinque anni il numero di cittadini del Regno che ha visitato la Somalia sarebbe quadruplicato. Il gruppo al Shabab è stato fondato nel 2004 e si sviluppa-
sta, è certamente sciogliere i timori riguardo alla questione nucleare, concentrandoci sul disarmo nucleare globale». La notizia del ritorno ai negoziati è stata diffusa dai media iraniani, che hanno riferito di un colloquio telefonico tra il capo negoziatore della Repubblica islamica, Saeed Jalili e il rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Javier Solana. La conferma è arrivata dal portavoce di Solana, mentre il governo francese ha annunciato che i ministri degli Esteri dei Paesi del 5+1 si incontreranno a margine dell’Assemblea generale dell’Onu il 21 settembre a New York per discutere del dossier nucleare iraniano. La ripresa dei negoziati rappresenta «un primo passo avanti che fa sperare nel meglio», ha commentato il segretario americano all’energia, Steven Chu, confermando la partecipazione degli Stati Uniti. Intanto, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) ha ufficializzato la nomina del giapponese Yukiya Amano, che dal primo dicembre ricoprirà l’incarico di direttore generale. Succedendo così all’egiziano Mohamed El Baradei, già nobel per la Pace. Amano, diplomatico di 62 anni, è un esperto di disarmo e nella lotta contro la proliferazione nucleare.
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Riscatti. Entrato in un museo e privato del suo contesto storico, il giocattolo non racconta più il mondo da cui proviene. Occorre restituirgli un’anima...
In «gioco» stat virtus Come recuperare i valori della nostra società attraverso il valore storico e simbolico dei balocchi del Novecento di Franco Palmieri iocare è un po’ sognare. Dice: lo fanno anche gli animali; quasi fosse possibile ridurre il giocare a una esperienza meccanica. Infatti giocare è un atto consapevole. Non il solito Huizinga (Homo ludens), ma già nel mondo antico Marco Fabio Quintiliano, il retore di Calahorra (Spagna), maestro dell’imperatore Adriano, celebre per le sue Istitutiones oratoriae, nel capitolo dove si propone di definire la complessità degli studi necessari per formare un buon retore, riferendosi all’educazione dei giovani, scrive: «Non mi dispiace che i fanciulli giochino, né potrò sperare che abbia mente pronta per gli studi colui che è sempre melanconico e lento in quei divertimenti, cui d’ordinario essi si abbandonano con maggior ardore». Questo non ha impedito che in varie epoche i giocattoli siano stati considerati degli insignificanti trastulli. Kant ha osservato che «nulla in un fanciullo vi ha di più ridicolo che una prudenza senile». Giocare è certamente un modo per apprendere e cimentarsi, ma soprattutto è un’esperienza di libertà e arbitrio. Al gioco si viene introdotti attraverso una sorta di magia, tacitamente condivisa, un passaporto che rende possibile l’inimmaginabile. Da Munari a Gianpaolo Dossena, da Sergio Tofano a Gianni Rodari, giocare - con le parole, con gli oggetti, con le filastrocche, con il disegno, rievocando o organizzando sfide e contese - è forse l’unico comun denominatore che unisce mondi culturali differenti, un alveo che trova d’accordo perfino i nemici. Addirittura giocare è un esperienza pacifista. Beh, stiamo un po’ esagerando? Giocare con i giocattoli di latta litografata, come siamo abituati ormai da decenni a pensare al gioco, è in realtà un’esperienza legata a quel periodo storico, sociale ed economico che va sotto il nome di Modernariato e che nasce con la rivoluzione industriale, quando dalla lavorazione alla catena di montaggio azionata dalle macchine a vapore cominciano a uscire oggetti che rendono agevole e conforte-
G
vole la vita quotidiana di milioni di persone di ogni ceto sociale; in Occidente, però. Lo sappiamo tutti che prima, e non solo i giocattoli, tutto veniva fatto pezzo per pezzo dagli artigiani, quasi sempre di ferro di legno o di stoffa; e così anche i giocattoli. Tranne però le teste delle bambole che erano di biscuit, cioè di porcellana cotta due volte (bis); praticamente di bis-cotto. Perché a metà cottura veniva tolta dal forno e su quella testa andavano dipinte le sembianze da bambina o da signora, o da ometto. Sappiamo che la bambolina di avorio nota come Cre-
Essi raccontano il mondo: ogni invenzione del 900 - aereoplano, automobile, treno diventavano riproduzioni in miniatura di latta colorata fatte per giocare
rare nulla di quel mondo perduto, obbedendo a un istintivo accaparramento virtuale di una sterminata rappresentazione di un passato riprodotto in oggetti grazie ai quali quel passato si manifesta e rivive. Dopo l’impatto nostalgico, memorialistico e dopo il piacere tutto estetico di osservare quanto fantasiosamente può essere riprodotta la realtà, ci accorgiamo in verità di sfogliare un libro di Storia la cui traccia temporale è indicata dai giocattoli. Perché essi raccontano il mondo, perché tutte le invenzioni del Novecento - aereoplano, automobile, treno e tutto quanto entrava nelle case borghesi - diventavano subito riproduzioni in miniatura di latta colorata fatti per giocare. Un mondo parallelo al reale dove era ammessa anche la trasgressione. Eppure, prima che i giocattoli diventassero oggetti da vendere in milioni di esemplari nei negozi di tutto il mondo occidentale, la loro evoluzione tecnologica, come tante altre novità della modernità, origina non da una ricerca formale inerente l’universo ludico, ma da una guerra. Infatti i giocattoli di latta litografata hanno una data di origine : 1870, guerra FrancoPrussiana. Quando alla battaglia di Sedan i Prussiani sconfissero l’esercito guidato dal generale Mac Mahon e la Francia dovette cedere alla Germania
I giocattolo qui illustrati si trovano nel Museo storico – didattico e di Memorabilia del Novecento La Memoria Giocosa a Roma
l’Alsazia e la Lorena dove erano i giacimenti carboniferi necessari per alimentare le macchine a vapore delle industrie (l’elettricità arriverà più tardi), è a Norimberga che sorgono decine di fabbriche grandi e piccole dedicate esclusivamente alla produzione di giocattoli di latta, stampati a colori secondo la tecnica messa a punto dal francese Senefelder (1771-1834). Ma perché in Germania, dal momento che anche in Inghilterra e Francia si producevano già giocattoli? Un educatore e filosofo tedesco, Frederich Froebel (1782-1852), aveva all’inizio dell’Ottocento teorizzato i Giardini d’infanzia come luoghi di educazione e di apprendimento per i più piccoli, una sorta di scuola primaria dove i giocattoli c’erano, sì, ma venivano usati per giocare solo dopo averli ottenuti in premio, come doni. Era stato co-
L’AEREOPLANO pereia Triphaena, ritrovata durante gli scavi nell’area dove sorge il palazzo di giustizia a Roma e oggi custodita nei musei Capitolini, testimonia già nel mondo antico la presenza dei giocattoli. In quanto ricopiavano il mondo borghese, i giocattoli hanno sempre marcato le differenze sociali. Oggi avvicinarsi al mondo dei giocattoli ci fa scoprire chi e come vivevano quelli che ci giocavano, meravigliandoci del nostro ossequioso stupore che sa di non poter recupe-
Partendo da Roosevelt Field di Long Island, NewYork, un campo d’aviazione che oggi è un museo aereonautico, Charles Lindberg affrontava con un aereo monoplano battezzato Spirit of St. Louis per la prima volta la traversata dell’Atlantico New York-Parigi, in un’epoca in qui solo i dirigibili progettati da Graf Zeppelin, e tra questi l’Hinderburg che nel 1937 si incendiò al suo arrivo a New York, avevano osato farlo. Un avvenimento che dette un impulso straordinario all’aereonatica civile. La ditta Schuko di Norimberga un anno dopo presentò il giocattolo commemorativo della traversata con tanto di pupazzetto Lindberg alla guida. Anche la ditta americana Girard presentò il modello Spirit of St. Louis in ferro. Di questo evento corredato di cartoline commemorative e di libri si racconta giocando una memorabile avventura.
sì creato su base meritocratica una specie di circuito dove la scuola acquistava i giochi, i bambini li ottenevano come doni, le fabbriche li producevano, il mercato li diffondeva nei negozi. Una idea per così dire “socialdemocratica e cristiana”, (Froebel era una persona molto re-
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IL TRENO Il più famoso treno a vapore della storia correva nel 1870 nelle praterie del Far West, all’epoca della Guerra Civile americana. La sua avventura è stata raccontata in un film diretto da Buster Keaton nel 1927 intitolato The General, che è anche il nome di quel treno. Catturato alternativamente da sudisti e nordisti, nel corso della guerra precipitò da un ponte di legno e lì rimase abbandonato fino a quando, negli anni Trenta, venne recuperato, restaurato e collocato nel museo di Chattanuga, capitale del Tennessee, luogo di una famosa battaglia di quella guerra. Benny Goodman per l’occasione compose il pezzo jazz Chattanuga-chu-chu e la ditta di giocattoli Lionel presentò al Macy’s store di Manhattan un trenino in lamiera e bachelite che riproduceva l’originale The General, oggi un ambito pezzo “storico”da collezionare. Collocato nel suo ambiente: la prateria, gli indiani, i rangers e cow boys, quel giocattolo racconta un capitolo non secondario della Storia americana.
lia che in una successiva ricerca di Tullio de Mauro sulla alfabetizzazione del Paese, annovera più del trenta per cento di analfabeti. Eppure quelli furono gli anni dei giocattoli alla portata di tutti, quando aziende, ministeri, dopolavori sociali, enti pubblici
ligiosa) nasce nella Germania dell’Ottocento che aveva visto l’origine dei Bund, ovvero le organizzazioni sindacali mensceviche che si opporranno più tardi a quelle bolsceviche rivoluzionarie, e questa idea conciliava produzione industriale, scuola, cultura, didattica e gioco
in una sintesi efficace e di alto valore educativo. Se dobbiamo parlare del mondo dei giocattoli, bisogna cominciare dalle fabbriche tedesche di Norimberga. I costi di produzione erano piuttosto limitati, perché venivano usati gli avanzi dei laminatoi. Tutto l’impegno era quindi riservato alla qualità e finitura del prodotto. La produzione si sviluppava secondo un doppio filone: il giocattolo tecnologico e quello che raccontava le meraviglie della meccanica, quella meraviglia che ha incantato anche i Futuristi, i quali fin dalla pubblicazione del Manifesto di Marinetti sul numero di febbraio di Le Figaro del 1909, si fecero vessilliferi di tutto il modernismo novecentesco. I giocattoli, nella loro livrea e decoro, nei colori e nella forma estetica dominata dallo Jugenstil mittleuropeo, testimoniavano come abbiamo detto vita e costumi della borghesia dell’epoca. Il cinema cosiddetto dei telefoni bianchi, da Mario Camerini a Blasetti, è contemporaneo di un’epoca che vede anche nel teatro di Sem Benelli e di Sabatino Lopez, tutto agito in salottini sofisticati ricopiati dai modelli anglofrancesi, il suggeritore di tante pretenziosità che ritroviamo nei giocattoli. E tutto questo tripudio di fascinosità un po’ recitata e fasulla, va avanti fino a ridosso negli anni Quaranta, in una Ita-
L’AUTOMOBILE Nel 1926 Antonio Ascari sul circuito automobilistico della Germania, guidando L’Alfa Romeo P2 vinceva il Gran Premio d’Europa. Un anno dopo la ditta norimberghese Tipp.Co presentava un giocattolo in latta litografata col marchio P2, con Ascari pure di latta alla guida, per celebrare l’avvenimento, che era stato anche ricordato in una tavola di Beltrame sulla Domenica del Corriere di quell’anno. Insieme al giocattolo e ad altri memorabilia dell’epoca, tra cui un libro pop up sull’automobile edita delle Edizioni Mediterranee, nonché il primo manuale dello chauffeur pubblicato dalla Hoepli nel 1903, si racconta un evento sportivo che segue i fasti del mantovano Nuvolari.
si facevano vanto nel distribuire sotto Natale bambole e trenini ai figli dei dipendenti. In molte case “povere” italiane i giocattoli arrivavano con la Befana fascista inventata a ridosso dei raduni popolari delle Corporazioni professionali dell’epoca; con i balli e le gite sociali tutto contribuiva alla fabbrica del consenso. La Ingap, la più famosa fabbrica di giocattoli italiana dell’epoca che operava a Padova, produceva tanti giocattoli “fascisti”, compresi i fuciletti, gli arredi e le divise per i Balilla. Oggi la memoria nostalgica che va a caccia dei simboli borghesi di quel mondo - che pure stava preparando gli orrori delle dittature del Novecento, fascismo, nazismo, e bolscevismo - dove i giocattoli ma anche tutti i prodotti del Modernariato trovano una nuova apoteosi, soggiace a una sorta di deformazione culturale indotta da un collezionismo che vuole il giocattolo elevato al ran-
go artistico, di pezzo unico, mentre esso non è che il multiplo di uno stampo essendo questo l’originale e i suoi prodotti soltanto copie. Isolati in una teca svuotati del contesto storico, sociale, culturale e famigliare che arricchiva di testimonianze e significati la loro qualità, non rievocano e non raccontano più nulla a chi del loro mondo non ha memoria diretta, inalberando appena una loro potenzialità acquisitoria e collezionistica che si esaurisce in una solitaria e fugace ebbrezza. Entrato in un museo e privato del suo contesto storico, il giocattolo non racconta più il mondo da cui proviene, il suo luogo di nascita. Gli è stata tolta l’anima. Il giocattolo di latta del Novecento come strumento didattico e sussidiario della programmazione scolastica, entra nelle finalità della Legge sui Musei n° 4 del 1993, nota come Legge Ronchey, la quale prevede una radicale risistemazione degli assetti museali concepiti come spazi di apprendimento e conoscenza; meglio se questa interazione didattica si svolge in presenza di nonni, genitori, insegnanti. Come recitava una illustrazione del Vittorioso, giornale illustrato dei ragazzi dell’Azione Cattolica, «la famiglia che gioca insieme resta insieme». Recuperare tale finalità e funzione non esclude certo il giocattolo dal piacere del gioco. Ma scoprire che si può raccontare un secolo importante della Storia sociale dell’uomo facendosi guidare dai giocattoli almeno dalla metà dell’Ottocento e fino agli anni Sessanta, quando col premio Nobel (1963) Giulio Natta arriva la plastica, significa recuperare del “secolo breve” una testimonianza e una memoria che ha prodotto non solo conflitti e tragedie, ma anche illuminanti pause di giocosità. Franco Palmieri è il direttore del “Bibliomuseo di Giochi e Giocattoli del 900”
spettacoli
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Cinema. Più che riuscito il nuovo film sulla Seconda guerra mondiale “Bastardi senza gloria”. In Italia dal prossimo 2 ottobre
Tarantino ci riprova. E fa centro di Pietro Salvatori o sai? Credo proprio che questo sarà il mio capolavoro». Stacco. Schermo nero. Titoli di coda. Se collegate questa descrizione a Bastardi Senza Gloria, le cui pizze fremono di irrompere nelle sale italiane dal prossimo 2 ottobre, l’immagine che subito potrebbe balenare in mente potrebbe essere quella di un backstage del film. La faccia sorridente del mitico Quentin Tarantino - seduto sulla più classica delle poltroncine dallo schienale di tela, lo sfondo monocromo e la locandina del film che sfuma in prospettiva - che sornione incanta l’intervistatore di turno con il suo carisma ed una sana dose di falsa modestia, e con la battuta perfetta per chiudere uno specialino da inserire negli extra del dvd, o da mandare al massimo in onda sulle televisioni via cavo che pagherebbero a peso d’oro ogni immagine del film che possa spacciarsi per succulenta anticipazione. Bene. Se questa vi sembra la spiegazione più plausibile, o non avete mai visto un film di Quentin Tarantino, oppure vi consigliamo un bel ripassino rigeneratore prima di recarvi al cinema. Resettate tutto, chiudete gli occhi, e iniziate ad immaginare. Otto soldati americani. Otto soldati americani di religione ebraica. Un solo obiettivo: uccidere quanti più nazisti possibile. Li guida il tenente Aldo Raine - al quale dà corpo, voce ed anima uno straordinario e spassosissimo Brad Pitt - che ama i suoi uomini, e gli chiede di essere ricambiato con una prova d’amore: portargli in dono almeno cento (cadauno) scalpi di crucchi. Paracadutati dietro le linee nemiche, per i mangiacrauti che si imbattono nella pattuglia non c’è scampo. Ai pochi che si salvano viene posta una domanda di rito: «Alla fine della guerra, ti toglierai la divisa?». Immancabile il sì, immancabile il disappunto del tenete Raine, al quale no, proprio no, non piacciono i nazisti che non si possono riconoscere da almeno un chilometro di distanza.
Qui sotto, la locandina del nuovo film di Quentin Tarantino, nelle sale italiane a partire dal prossimo 2 ottobre, “Bastardi senza gloria” e, a fianco, un’immagine pubblicitaria della pellicola. Sotto, uno scatto del regista
«L
Così, preso il fido coltello, si improvvisa artista, intagliando una simpaticissima svastica sulla fronte del malcapitato. Ora rileggete la descrizione iniziale, e capirete che (ooops!) vi abbiamo raccontato la fine del film. Quattro righe, non più di dieci secondi di pellicola, che restituiscono però appieno la cifra di quello che vedrete sullo
schermo. Bastardi senza gloria non è un film sulla seconda guerra mondiale diretto da Quentin Tarantino.
Bastardi senza gloria è un film di Quentin Tarantino che si auto-accredita di tentato capolavoro, e che sfrutta come pretesto l’immaginifico scenario di drappi rosso fuoco ornati da svastiche, ufficiali americani rudi e fottutamente belli che masticano impertinentemente chewingum, bellissime ragazze francesi che vivono le loro storie d’amore e di dolore nella Parigi rimbombante delle suole del nemico invasore. Il tenente Aldo Raine diventa così uno che, alla stregua del Mr.
Wolf di Pulp Fiction, “risolve i problemi” (o li complica, a seconda dei punti di vista), primus inter pares di una schiera di personaggi sui generis «catapultati in uno sporco affare durante la seconda guerra mondiale», per utilizzare le parole dello stesso regista. Ma come in tutti i film del buon Quentin, il pane per i critici è abbondante e saporito. Una serie di citazioni, rimandi, ammiccate allo spettatore, pescando a piene mani nella storia del cinema, così come nei gossip e nelle storie da retrobottega del jet-set (omaggiata la Fenech dal nome di uno dei personaggi, solo per citare una pillola gustosa). Il tutto inca-
infarcisce la pellicola di riferimenti e citazioni cool, strizzando decisamente l’occhio al pubblico più popolare. Lo Jewish bear, nomignolo dato dai nazisti ad uno degli otto bastardi, ci viene presentato che esce da una vera e propria caverna, durante un’incalzante sequenza dalla durata irreale, e assume le fattezze di Eli Roth, che
Come in tutti i suoi film, il pane per i critici è abbondante e saporito. Una serie di citazioni, rimandi, ammiccate allo spettatore, pescando a piene mani nella storia del cinema, così come nei gossip e nelle storie da retrobottega del jet-set stonato in una messa in scena perfetta, tanto esteticamente roboante quanto funzionalmente ineccepibile.
Al punto che il lunghissimo dialogo che apre il film - sono più di venti i minuti lungo i quali si dipana la prima sequenza - è da solo un pezzo di eccezionale perizia tecnica, che sa coniugare la staticità di due uomini che dialogano attorno ad un tavolo, con la costruzione di un climax che disorienta, avviluppa e conquista anche lo spettatore più smaliziato. Giocando con i generi, rimescolando le carte in tavola, disorientando e ammaliando per l’utilizzo di canoni stilistici ribaltati rispetto al loro utilizzo abituale, Tarantino
nei sudici e inquietanti sotterranei dei suoi Hostel ha costruito le proprie fortune. Così come il montare del phatos, che spazza via la quiete prima della tempesta, e prepara la vendetta finale della giovane e bellissima ebrea che reclama giustizia per i suoi cari uccisi, viene incastonato in una scenografia che strizza l’occhio a Il Corvo, preparando inconsapevolmente il pubblico all’ineluttabilità del fatto che la bella di cui ci si è appena innamorati dovrà morire e far morire per ritrovare la pace perduta. Si potrebbe continuare per pagine e pagine, alzando il livello e aprendo un ulteriore, e più colto, capitolo di possibili interpretazioni, con il regime che muore divorato dalle fiam-
me di una catasta di pellicole, prigioniero di un cinema dentro il quale si era riunito per autocelebrarsi, sterminato con malcelata violenza proprio da quegli ebrei che ha perseguitato nei modi più barbari (livello di analisi che sta mandando in sollucchero i critici di tutto il mondo, dando il là a polemiche tra le più assurde ed incomprensibili).
Ma non lo faremo. A noi basta sapere che Tarantino ama prendere in giro il proprio spettatore, coinvolgerlo in un’esperienza in cui è lui a dettare le regole, convincerlo di qualcosa, per poi dimostrargli l’esatto opposto. Una volta accettato il compromesso, non c’è polemica che tenga. I 37 milioni di dollari incassati al boxoffice nel suo primo weekend negli Stati Uniti, sono segno che tanti la pensano come noi. La prova del nove? Naturalmente il 2 ottobre. In sala.
sport
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la mole di chi la minacciava, è corsa a riferirlo al giudice arbitro, severa e bionda assisa sul seggiolone. Conciliabolo a centro del campo tra Serena visibilmente in difficoltà che diceva «mica ho detto che l’ammazzo» – come Sacconi forse deve averlo però pensato – ma le “rules are rules”, le regole son regole, e siccome Serenona, rompendo una racchetta, aveva già preso un penalty point, il suo
l “vaffa” sta acquistando sempre più piede nel riprovevole idioletto sportivo. Due giorni fa a Genova, durante Genoa-Napoli, il terzino del Genoa e della nazionale Criscito si è buscato un bel rosso per averlo gridato a piena gola. Non ce l’aveva con l’arbitro, almeno così ha dichiarato, lontano una trentina di metri dall’esclamazione, ma in ogni caso non mi pare delicato, con chiunque ce l’avesse. La galleria calcistica di questi gestacci e parolacce è colma. A memoria vado a un Chinaglia che lascia il campo con la maglia della Nazionale, sarò romantico ma vestendo quella divisa servirebbe anche maggior garbo, con un esplicito riferimento alla direzione che il ct di allora, Valcareggi, doveva prendere per la sua sostituzione.
I
Ma, invero, forse non è più tempo di scandalizzarsi. Masini Marco ci aveva già pensato a sdoganare la volgare esortazione e dopo un minuto della canzone omonima ne inanella una corona così, per sentirsi se stesso, e siamo nel 1993. Successo incredibile, tanto da pensar bene di fare due anni dopo un altro singolo. Titolo: Bella stronza. Ancora però non capisco perché spesso concluda i suoi concerti proprio con quel maleducato quanto deplorevole invito. Forse semplicemente perché al peggio non c’è mai fine. Certo se poi la Cassazione si pronuncia, luglio 2007, affermando che il “vaffa” non è nepdi Francesco Napoli pure più ingiurioso per chi lo riceve, «talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative York, Serena Williams, la nu- tenuta finché ha potuto, ha cerdi concetti osceni o a carattere mero uno di fatto del tennis cato calma e concentrazione sessuale, sono diventate di uso mondiale, sabato notte l’ha andando ad asciugarsi dal sucomune ed hanno perso il loro combinata proprio grossa. Nel- dore e a recuperare due palline carattere offensivo», allora sia- la foga di una semifinale contro però deve esserle passato per la mo davvero a posto. Come dire la Clijsters non ce l’ha proprio mente anche il film di Pearl che l’uso ne ha attenuato l’effi- fatta a contenersi. Era un mo- Harbour nel vedersi mortificacacia oltraggiosa. Poca meravi- mento delicato: indietro 15-30, ta da un giudice dai tratti visiglia, allora, se a giugno 2008 il batteva per salvare l’incontro. bilmente orientali e non si è ministro del Welfare Sacconi lo Sulla seconda di servizio una trattenuta più. L’ha presa di sussurra in pubblico a un’as- giudice di linea, con gli occhi a petto e avvicinandosi le ha grisemblea della Cisl, poi dice di mandorla, le ha chiamato il fal- dato: «Sei pronta? Sto per cacnon interpretare male il suo la- lo di piede, roba che non si ve- ciarti in gola biale e poi ancora che magari deva da secoli, a occhio dai questa fottutissil’ha pensato; poi, per par condi- tempi di McEnroe, quindi dop- ma palla!». La cio, rammento a maggio 2009 pio fallo e 15-40 con due match- pseudogiappoVendola che “vaffa” Gasparri point contro. Serenona si è trat- nesina, vedendo sul caso Mills in tele a Ballarò. Di Grillo Beppe non voglio neppure parlare, mi davvero sembra troppo già così: altro che “lei” al posto del “tu”, comincerei dal più antico e semplice rispetto. Ancora nello sport, per fortuna, un tale tipo di turpiloquio lo paghi, almeno all’estero, dove si guarda meno in faccia chi “vaffa” e chi no. L’iIn alto, la tennista Serena Williams e, sulla destra, l’espulsione dolo femminile delle di Criscito durante Genoa-Napoli di domenica scorsa. Qui sopra, folle di Flushing il tennista Arthur Ashe. A destra, il cantante Marco Masini Meadows a New
Gli antieroi della domenica. Dopo la dura reazione di Serena Williams
Dalla politica allo sport, breve storia del «vaffa» Durante GenoaNapoli, il terzino Criscito si è buscato un bel rosso per averlo gridato a piena gola. Mentre Masini ne fece addirittura una canzone
improperio si è tradotto in doppia ammonizione tipo calciopedatoria. Non ha potuto neppure servire il primo dei due matchpoint contro l’avversaria, in verità alquanto attonita: tutti sotto la doccia. Serena con la coda tra le gambe e la Clijsters in volo verso al vittoria finale.
Probabilmente la Williams sentiva di non avere più scampo di fronte all’avversaria ma non mi pare il caso di invocare certa accondiscendenza, sono, nel caso, per la tolleranza zero. Così facendo si sarebbe evitato che un gran signore del tennis, Arthur Ashe, fosse costretto a lasciare proprio Flushing Meadows contro un gran mascalzone, Ilie Nastase, che per l’intera partita aveva tormentato l’avversario alzando la mano e interrompendolo ogni volta che serviva. A un certo punto Ashe chiama a rete Nastase dicendogli «ancora una volta e me ne vado...». Come finì? Il romeno annuì sornione, sapeva chi aveva di fronte: appena Ashe si apprestò a servire alzò la mano per annunciargli che non era pronto. Senza fare una piega l’americano raccolse le racchette e uscì, lasciando il pubblico esterrefatto. Nastase vinse per ritiro dell’avversario, non solo il match ma il Masters che non gli apparteneva. «Signori si nasce!», affermava il principe De Curtis, e Arthur Ashe, come dimostrò un’ennesima volta, modestamente lo nacque.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Le Figaro” del 14/09/2009
Il terzo uomo a Beirut di Adrien Jaulimes urante la guerra fredda è stata la Berlino la cittàò preferita dalla penna di John Le Carré oppure la Vienna del Terzo uomo. La guerra di spie che coinvolge tutto il Medioriente ha come capitale Beirut. Spie occidentali e agenti dell’Iran teocratico, i servizi segreti siriani e i militanti di Hezbollah, il Mossad, la Cia e altre agenzie si scontrano in una guerra opaca, una lotta tra fantasmi, in cui vittorie sono a volte gridate a i quattro venti. Le sconfitte mai. In questa guerra di ombre, i servizi segreti israeliani hanno sofferto quest’anno, una delle più grandi sconfitte della loro storia. Come potrebbe non esserlo, visto che hanno dovuto assistere allo smantellamento della più grande rete di spionaggio che erano riusciti a creare in un paese arabo. I numeri sono senza precedenti. Più di settanta libanesi sono stati accusati di spionaggio a favore di Israele negli ultimi mesi. Quaranta sospetti sono stati arrestati. Una trentina di altri funzionari sono ricercati dalle autorità libanesi. Alcuni sono riusciti a tagliare la corda, prendendo l’aereo per una destinazione sconosciuta, o hanno attraversato il confine tra i due paesi, che sono ancora tecnicamente in guerra dal 1949. Altri hanno cessato la propria attività. A differenza di come li descrivevano di maestri dei romanzi di spionaggio, i membri di queste reti appartengono al mondo meno glamour del settore dell’intelligence. Reti di piccole dimensioni, formate da cellule responsabili della raccolta di informazioni spesso frammentarie, su aree specifiche o incaricate di seguire i movimenti quotidiani del nemico.Tra questi agenti, alcuni in “dormienza” per anni, sono rappresentate tutte le comunità libanesi: cristiani, sunniti, sciiti dal sud del Libano, di Beirut e della valle della
D
Bekaa. «Alcuni stavano lavorando per Israele, da anni, a volte partire dal 1980» ha spiegato il generale Ashraf Rifi, comandante della Forze di sicurezza interna in Libano, che ha fatto scattare gran parte del arresti. «Venivano reclutati per varie ragioni: economiche, ideologiche o psicologiche. Ci sono stati anche casi di ricatto sessuale o di altro genere. Ma il fattore principale che il reclutamento è stata la lunga occupazione israeliana del Libano meridionale. Ha creato i contatti tra israeliani e libanesi, e che, in qualche modo, ha reso accettabile questo genere di rapporti».
È possibile che, dopo il semifallimento della guerra del 2006, dove aveva prevalso l’aspetto tecnologico dell’informazione, gli israeliani abbiano deciso di tornare con i piedi per terra con i vecchi metodi dello spionaggio umano (humint, ndr) per ricostituire le loro liste di obiettivi. «Ma questi arresti sono principalmente il risultato di un senza precedenti delle forze di sicurezza libanesi» afferma un diplomatico europeo che non vuol essere citato. Come in tutti questi casi, la matassa è difficile da districare. In particolare in Libano, dove Hezbollah è uno Stato all’interno dello Stato, mantiene i propri servizi di controspionaggio, a volte in collaborazione con gli enti statali ancora pieni di agenti e ufficiali filo-siriani. Diretto, dal ritiro di Damasco, da sunniti fedeli ad Hariri, comprese le forze di sicurezza interna. Nel gennaio del 2009, Hezbollah ha catturato due sospetti. Joseph Sader, impiegato
presso l’aeroporto di Beirut, è stato rapito quando andava a lavorare. Segnalava il transito di emissari e diplomatici dal Medioriente. Poi il proprietario di un garage a Nabatiyeh, città sciita nel sud del Libano, è un altro uomo fermato da Hezbollah. Marwan Fakir era un rivenditore di auto che ha fornito i veicoli anche al movimento sciita. Si racconta che abbia usato la sua abilità come meccanico per l’installazione di dispositivi di localizzazione sulle autovetture che il partito di Dio gli dava da riparare. Molti anche gli alti ufficiali, in pensione o in servizio attivo, reclutati dal Mossad. Alla base di molti di questi successi dell’intelligence libanese un software avuto in dotazione dai servizi occidentalie sviluppato localmente. Permette di analizzare anomalie delle comunicazioni telefoniche. Responsabile di questo lavoro era il capitano Wissam Eid, fatto saltare in aria all’interno del suo carro nel gennaio 2008. Stava indagando sull’omicidio Hariri e forse era un uomo che sapeva troppo.
L’IMMAGINE
Fa bene Fini a ricordare al premier dei problemi irrisolti del nostro Paese Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta solo ribadendo per il bene del Pdl e quindi per il bene del Paese, che in Italia esistono problemi politici irrisolti, che richiedono un partito di maggioranza che sia, per l’appunto, politico quanto più possibile. Per ridare luce a quella democrazia diretta che la destra classica ha sempre voluto richiamare, come metodo moderno di efficienza dialettica e esecutiva. In tale contesto non mi sembra che esistano delle reminiscenze sinistrorse o antitetiche al governo stesso. Il Pdl è una realtà, ampiamente desiderata e costituita, che non possiede pecche se non quella di migliorare nel tempo per non stallare in quelle beghe che una sana politica, movimentista e al fianco degli italiani, non potrebbe sostenere a lungo. Anche in questo Fini non si pone in contrasto con il premier, se non invitandolo a non permanere troppo sugli allori quando il Paese langue di molte crepe: dal lavoro ad una immigrazione che non viene ancora concepita e regolamentata come bene per il futuro del Paese.
Bruno Russo
QUALCHE DRITTA SUI FUNGHI Con l’arrivo dell’autunno migliaia di italiani vanno a caccia di funghi e inevitabilmente qualche centinaio si intossica. Nella maggioranza dei casi si hanno effetti a carico dell’apparato gastroenterico, in percentuale minore si evidenzia una grave sindrome da insufficienza epato-renale, potenzialmente mortale, determinata da funghi contenenti sostanze letali come le amatossine. I funghi hanno scarso potere nutritivo e costano molto. Così come per il tartufo, i funghi dovrebbero essere usati come condimento che serve ad insaporire il piatto principale. Meglio cotti perché più digeribili. Ricordo che le cassette o gli involucri che contengono i funghi devono riportare una etichetta che attesti l’avvenuto
controllo da parte degli Ispettori micologici delle Asl e che l’essiccazione non elimina le tossine velenose così come la cottura non degrada tutti i veleni. Da sfatare alcune leggende metropolitane: i funghi sono commestibili se li mangia, senza effetti, il gatto, o che un pezzo di argento diventa scuro se messo nella padella con funghi tossici. Il Medio Evo è passato da tempo ma certe credenze resistono nei secoli.
Primo Mastrantoni
ASSURDITÀ NAPOLETANE Il tentativo di fermare due centauri a Napoli, zona centro storico, si è concluso con una zuffa incredibile tra la gente e alcuni vigili. I tutori dell’ordine, aggrediti e picchiati, sono stati presi addirittura a mor-
La zampata della tigre Un minaccioso felino si aggira nell’oscurità del cosmo. Non ci credete? Date un’occhiata a questa foto scattata dalla sonda spaziale Cassini: sulla superficie immacolata di Encelado, la sesta luna di Saturno, si notano strani crepacci simili alle unghiate di un predatore. Sono i cosiddetti “graffi di tigre” fratture lunghe, secondo gli astronomi, circa 130 chilometri e profonde 500 metri
si, mentre uno degli inseguiti si prendeva tranquillamente un caffè in un bar adiacente. I centauri, padre e figlio, avevano forzato un posto di blocco. Ora, questi sono “i fatti”. Per affermare che, nonostante la bontà delle istituzioni, il Meridione soffre di un cancro che nessuna tecnica invasiva sembra risolvere: ma, attenzione, alla base
di tutto non c’è la politica ma un’economia bancaria, che non vuole migliorare la qualità di vita dei cittadini, per non parlare di quelli più pericolosi.
Simonetta
VIVA SILVIO MA… Finalmente qualcuno del Pdl che critica Berlusconi. Silvio è bravo,
viene subito dopo De Gasperi, ma le fa grosse anche in negativo: vedi tutti quei soldi a Gheddafi, i funerali di Stato a Mike Buongiorno. Presidente, bisogna svegliare i ministri che vivono alla giornata; sono troppi; si salvano Brunetta, Gelmini e Maroni: i tre Grandi; gloria e lode!
Michele Ricciardi
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Almeno potessi vedere te! Carissima Soniuccia, finora non ho avuto il permesso: perciò non potrò essere a Berlino in tempo per il Reichstag. Forse per il giorno del mio compleanno? Tutto ondeggia ancora nell’incertezza. Almeno potessi vedere te! Chissà che cosa succederà dopo. Potresti disporre le cose in modo da recarti fra pochi giorni a B., sei io dovessi trovarmi colà? Certo io non potrò viaggiare, liberamente, anche prescindendo dal fatto che sono vincolato per le sedute del Reichstag. Qui tutto va come al solito. Abbiamo cambiato di quartiere. Una cicogna nel nido e alveari e cespugli di bacche (e sotto di queste il ribes che ti piace tanto) e una peschiera renderebbero idillico il soggiorno se si fosse qui in altre circostanze. Oggi mi sono disteso sopra un prato durante il riposo serale. Sul mio capo si libravano fiori di caglio giallo, verso un cielo di un azzurro profondo, illuminato da argentei raggi solari. La felicità si sarebbe impadronita di te, come quel giorno nella masseria vicino al campo dei lupini. Il tempo è stato cattivo, le strade impraticabili. Dal mare vicino sono venute continue sorprese meteorologiche: ma ora la natura splende di nuovo magnificamente. E queste sere! Ah, se tu fossi qui! Quanto da godere e da imparare ci sarebbe. Karl Liebknecht a Sonia
ACCADDE OGGI
SERVE UN’ASSEMBLEA GENERALE SUL TEMA DELLA GIUSTIZIA Sarebbe auspicabile che il governo si facesse promotore di una assemblea nazionale interamente dedicata alla Giustizia, da tenersi entro la fine del mese di settembre 2009, a cui far partecipare esperti ed operatori del settore, dal quale trarre utili spunti per l’annunciata riforma del processo penale e quella, urgente e non più rinviabile, del sistema penitenziario nazionale. Riunire attorno allo stesso tavolo le varie categorie professionali che gravitano nel mondo della giustizia sarebbe già un buon risultato. Se poi si riuscisse a formalizzare nuove linee guida da sottoporre al Parlamento a partire dalle quali ricostruire i sistemi giudiziari e penitenziari del Paese sarebbe indubbiamente un ottimo successo. Riteniamo che costituire un tavolo di approfondimento che esami realtà e prossimi interventi per il sistema della giustizia e per il pianeta carcere in particolare dovrebbe essere prioritario nell’agenda del ministero della Giustizia. A tutt’oggi non ci risulta che classe politica e governativa che si sono avvicendate nella guida del Paese abbiano fatto seguire all’indulto i necessari interventi strutturali sull’esecuzione della pena, che garantiscano la giusta sanzione a chi commette reati soprattutto a tutela delle vittime della criminalità e che rendano la pena uno strumento efficace per ripagare la società del reato commesso. A cominciare dall’individuazione di provvedimenti legislativi che potenzino maggiormente l’area penale esterna e
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
15 settembre 1935 La nuova bandiera tedesca è il vessillo nazista
1940 Battaglia d’Inghilterra: la Raf britannica stabilisce il proprio record di veivoli nemici abbattuti in un solo giorno 1950 Truppe statunitensi sbarcano ad Inchon, in Corea 1952 Le Nazioni Unite concedono l’Eritrea all’Etiopia 1959 Nikita Khruscev diventa il primo leader sovietico a visitare gli Usa 1966 Papa Paolo VI emana l’enciclica Christi Matri 1975 Álvaro del Portillo succede a Josemaría Escrivá de Balaguer come capo dell’Opus Dei 1993 A Palermo, nel quartiere Brancaccio, un commando di Cosa Nostra capitanato da Salvatore Grigoli, detto U Cacciatori, uccide don Giuseppe Puglisi in piazza Anita Garibaldi, davanti al portone della sua casa 1996 Viene proclamata a Venezia, dal leader della Lega Nord Umberto Bossi, l’indipendenza della Padania 2000 Si apre a Sydney la XXVII Olimpiade
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
dall’incremento degli organici della polizia penitenziaria, unico corpo di polizia cui affidare completamente l’esecuzione penale esterna a tutto vantaggio della cittadinanza, destinando le unità di carabinieri e polizia di Stato oggi impiegate in tali compiti nella prevenzione e repressione dei reati, specie di quelli di criminalità diffusa. Dispiace infatti che proprio dopo l’indulto non vennero programmati dal governo Prodi quegli interventi strutturali per il sistema carcere - chiesti anche dal capo dello Stato Napolitano - necessari per non vanificare in pochi mesi gli effetti di questo atto di clemenza. Ma ci sembra che anche il governo Berlusconi tentenni sul fronte delle riforme penitenziarie, come attesta drammaticamente il fatto che oggi l’Italia ha raggiunto un record di detenuti (con oltre 64mila presenze), il più alto numero mai registratosi nella storia del Paese. Noi continuiamo a parlare della necessità di individuare provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci, e di potenziamento degli organici di polizia penitenziaria cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale. Di un maggior ricorso all’area penale esterna, destinando i soggetti a misure alternative alla detenzione e impiegandoli in lavori socialmente utili non retribuiti. Di una revisione della legge sugli extracomunitari che permetta espulsioni più facili piuttosto che la detenzione in Italia.
IMPRESA LIBERA, FORTE, SOLIDALE Fare impresa oggi presuppone peculiarità che ieri si liquidavano con la nonchalance data dai numeri che non ammettevano quasi più variabili umane. Alla luce della crisi attuale e delle sue cause, è necessario ristabilire il primato del lavoro e della imprenditorialità rispetto alla finanza speculativa. Le condizioni del mercato impongono l’ottica del conservare per resistere. Eppure, mai è stato così fondamentale dare una sbirciatina ottimista al futuro con un indispensabile sentimento che si chiama speranza. Oggi si riparla di valori dimenticati quali la solidarietà. Ma come fare a declinare insieme sviluppo, efficienza e solidarietà? Secondo me le chiavi di lettura consistono in un nuovo senso di responsabilità che dovrebbe investire, come pioggia benefica, ogni settore del “convivere civile”. Questo va applicato ad ogni campo e l’impresa, come naturalmente la politica, non può che esserne simbolo. La piaga dei licenziamenti vede il proliferare di situazioni drammatiche e la ricetta in alcuni casi è stata la grande solidarietà dei lavoratori che hanno preferito vedersi ridurre gli stipendi con una scelta che coinvolgeva tutti concordemente per salvare il posto di lavoro dei colleghi. L’Italia non è costituita solo da fannulloni, ma anche da una schiera di eroi silenziosi a cui andrebbe rivolta l’attenzione del mondo dell’imprenditoria e della politica. L’impresa, centro promotore di lavoro, la sua efficienza, la sua sopravvivenza sul mercato e i lavoratori chiamati ad esserne protagonisti, sono aspetti convergenti ed indissolubili uno dagli altri. È responsabilità precisa dell’imprenditore comportarsi di conseguenza e sottoporre in primo luogo se stesso al fondamentale compito di non dimenticare questa interdipendenza. Penso che l’ottica della responsabilità e della partecipazione di tutte le parti sociali intorno a valori condivisi, premi chi la applica. Si tratta, dunque, di investire finalmente sui valori e su scelte positive e sostenibili. Occorre affrontare il mondo della produttività. Non si può prescindere più dalla persona e dai suoi valori . Quando si consegue questo, con tutto il massimo dell’impegno possibile, la realtà dei “liberi e forti” è a portata di mano. Spero che altri amici vogliano continuare a parlare di questo argomento, segnalando e raccontando di realtà aziendali che hanno già fatto scelte di questo tipo. Una nuova cultura economica ci tende la mano: non perdiamo l’occasione di comprenderne i significati e le infinite possibilità. Lucia Pignatelli P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L LA Z I O
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 GIOVEDÌ 24, VENERDÌ 25 SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Premio “liberal Siena 2009”. Convegno “Alice nella globalizzazione - La modernizzazione mancata: l’Italia sospesa tra passato e futuro”. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO Finlandia. Dal sollevamento della consorte al Calcio-Palude. Tutte le gare più assurde che vanno per la maggiore
Se “lanciare” la moglie diventa di Maurizio Stefanini a Finlandia è quel Paese europeo e nordico i cui abitanti hanno in gran parte occhi azzurri e capelli biondi, ma che parla una lingua asiatica, imparentata col turco e col mongolo. Dopo aver lottato con furore per la propria indipendenza mantiene un rango ufficiale accanto a finlandese e chiesa luterana sia all’idioma svedese di coloro che furono i dominatori fino al 1908; sia alla chiesa ortodossa di quei russi che furono invece i padroni tra 1809 e 1917. Fu alleato con i nazisti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale e dei comunisti sovietici durante la Guerra Fredda, pur mantenendo sempre il proprio modello di democrazia liberale. E dopo essere entrato nell’Unione Europea ha adottato l’Euro non tanto per annacquare la propria identità, quanto per ribadirla con forza rispetto a quei vicini Svezia e Danimarca che invece hanno tenuto a mantenere le proprie Corone.
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Insomma, è un Paese che ha quasi un genio cromosomico per distinguersi. Sarà per questo che da qualche anno a questa parte è diventato la Mecca degli sport strambi? Il bello è che è lo stesso Ufficio del Turismo finlandese a vantarlo con orgoglio, nella sua pagina web: «Se c’è qualcosa di ridicolo i finlandesi ci hanno creato sopra una competizione». Anche se, a guardar bene, un po’ tutti questi sport strambi affondano le proprie solide radici nella storia e nella geografia della Finlandia. Qual è, ad esempio, il nome finnico per Finlandia? Suomi, che significa letteralmente “Palude”. La ragione: ci sono qualcosa come 188.000 laghi, tra grandi e piccoli. E, ovviamente, ognuno con la sua brava nuvola di zanzare. Ed ecco qui i primi due, tra gli sport buffi che il governo sta propagandando come attrattiva turistica. Primo: il Campionato Mondiale di CalcioPalude, particolare versione del football che si gioca in mezzo a una specie di risaia. Si disputa ogni hanno a Hyrynsalmi, un paesino di poco più di 3000 abitanti nella parte centro-orientale del Paese, e lo scorso luglio ci hanno partecipato ben 300 squadre provenienti da vari Paesi: anche Norvegia, Russia, Germania, Olanda e Spagna. Ha però vinto una squadra locale, evidentemente più allenata. Specialità numero due: la gara a chi ammazza più zanzare in meno tempo. Sia-
UNO SPORT bili è infatti quella parte essenziale di noi che si connette quasi con ogni louogo del mondo ma che, quando più ne hai bisogno, resta senza batteria o il tuo partner non risponde o qualcuno non restituisce la tua chiamata». Con ammirevole spirito di cosmopoli-
che hai incontrato da un’altra parte», spiega il regolamento. Non c’è un peso prestabilito, e dunque chi trova una moglie più ossuta è in teoria avvantaggiato. In quel caso, però, potrebbe trovarsi svantaggiato nel premio: una quantità di birra equivalente appunto al peso della donna. La disponibilità di laghi ghiacciati, oltre che di rami di betulla con cui sferzarsi, ha inoltre permesso ai finlandesi di inventare la sauna. E anche la gara a chi resiste più a lungo in una sauna a 110 gradi centigradi di temperatura è infatti uno sport locale. È presumibile che l’insensibilità da freddo debba anche aiutare in un’altra prova di resistenza: a chi riesce a stare di più seduto su un formicaio senza mutande.
Tra le altre competizioni assai bizzarre, il Campionato Mondiale di Lancio del Cellulare; la gara a chi ammazza più zanzare in minor tempo; la prova di resistenza a chi riesce a stare di più seduto su un formicaio senza slip; il fingere di suonare una chitarra invisibile imitando le rock star mo giusti: anche noi in Italia avremmo potuto pensarci, che la materia prima non ci manca. Ma qui si vede appunto quella capacità di innovazione imprenditoriale, che ha permesso appunto alla Finlandia di lanciare al mondo il grande successo della Nokia. D’altra parte, Nokia ha avuto un ruolo importante nella genesi del terzo di questi sport atipici: il Campionato Mondiale di Lancio del Cellulare, che è arrivato ormai alla sua nuova edizione, e che si disputa a Punkaharju, nel sud-est. Spiegano gli organizzatori nella pagina web dell’iniziativa: «Questo è l’unico sport che ti permette di risarcirti delle frustrazioni provocate da questi apparati moderni. Il telefono mo-
tismo, pur disputandosi nel Paese che qualcuno ha perfino ribattezzato Nokialand il lancio del cellulare si può fare con qualsiasi tipo di marca.
Pur se in modo più indiretto la diffusione delle pozzanghere ha un ruolo anche nel Campionato Mondiale di Sollevamento Mogli, che di disputa dal 1992 a Sonkajärvi, nel centro della Finlandia.Tra i vari ostacoli che i vari concorrenti devono superare durante la loro corsa di 253 metro con una moglie sulle spalle c’è infatti anche una piscina di un metro di profondità. Attenzione, deve essere una moglie, ma non necessariamente la tua: «Anche di un vicino o di qualcuno
Tuttavia, lo sport strambo finlandese che è diventato più famoso a livello internazionale è poi quello che meno è collegato all’ambiente locale: o forse proprio questo. L’air guitar consiste infatti nel fingere di suonare una chitarra invisibile, imitando le rock star. Iniziato 14 anni fa come appuntamento estivo nella città di Oulu, al nord-est, è diventato un fenomeno di culto con varie migliaia di fan in tutto il pianeta: tant’è che ormai si fanno eliminatorie in tutto il mondo, prima di arrivare alla fase finale finlandese.