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È il perpetuo timore

di e h c a n cro

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della paura, la paura della paura, che forma il volto di un uomo coraggioso

9 771827 881004

Georges Bernanos di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 16 SETTEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La lettera dei 50 che si schierano con Fini

ORO NERO E DIRITTI UMANI Total e Chevron, i colossi mondiali del petrolio, finanziano la giunta militare birmana. E i soldi sono nascosti in una banca di Singapore. Lo denuncia un rapporto di EarthRights International

Gli ex An «avvertono» Berlusconi

«Nel Pdl servono più occasioni di confronto. E il premier deve difendere il presidente della Camera dagli attacchi del Giornale» di Riccardo Paradisi I cinquanta ex An guidati da Italo Bocchino escono allo scoperto e consegnano a Berlusconi una lettera di avvertimento. Non è in discussione la leadership, ma servono «occasioni di confronto» nel Pdl. E c’è da chiarire la «questione pericolosa» delle accuse di Feltri a Fini.

Il nuovo

itarismo alle pagine 2 e 3

alle pagine 8 e 9

Finalmente Washington ha convinto Barak

Ecco perché la pace in Israele passa anche per i Paesi arabi

Per i terremotati arrivano 94 abitazioni finanziate dalla Croce Rossa

L’Abruzzo rinasce di legno Show del premier per la consegna delle nuove case a Onna di Errico Novi

di Daniel Pipes

ROMA. Silvio Ber-

amministrazione statunitense, guidata dal democratico Barack Obama, ha stabilito in modo allarmante un ingenuo e pericoloso record sulle questioni arabo-israeliane, inducendomi a nutrire timori per degli spettacolari fallimenti della linea politica a venire. Ma va detto anche che Washington ha avviato una linea politica innovativa e positiva che merita grandi elogi. Alla fine di maggio il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto di «includere i Paesi arabi nel circolo della pace», invece di lasciare che Israele facesse ancor più concessioni unilaterali ai palestinesi. L’inviato speciale degli Stati Uniti d’America in Medioriente, George Mitchell, e il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, hanno focalizzato la loro attenzione su questa richiesta e hanno elaborato dei piani volti a integrare i Paesi arabi nel processo diplomatico. Suscitando dagli interessati risposte diverse.

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segue a pagina 16 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

lusconi è romantico. A Onna, luogo simbolico della rovina portata in Abruzzo dal terremoto di aprile, il premier ha consegnato a 94 famiglie fortunate altrettante case di legno, segno tangibile del “dopo terremoto”. «Fate in modo che siano il nido d’amore di una nuova vita», ha detto Berlusconi fra gli applausi e le proteste di quanti ritengono questa cerimonia solo una passerella per il governo, dal momento che sui tempi della ricostruzione vera (quella di mattoni e cemento) non si sa ancora alcunché di concreto, mlagrado le parole rassicuranti del deus-

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

183 •

Ma gli amministratori lanciano l’allarme

ex-machina Bertolaso. Il capo della protezione civile ha spiegato che entro l’anno non ci saranno più tendopoli in Abruzzo. La gente - i terremotati - si chiede però dove sarà, a gennaio, se non nelle tende. Per l’intanto, ora come ora c’è la concretezza di queste 94 case di legno, comprate dalla Croce Rossa Italiana e montate a tempo di record. «Qui avrete tutto quello che vi serve: pensate al futuro», ha concluso Berlusconi, prima di concedersi alla lunga diretta tv in prima serata con Bruno Vespa.

Pezzopane e Cialente: «Adesso pensiamo alla ricostruzione vera» di Franco Insardà

ROMA. L’incertezza e la preoccupazione per il futuro hanno la meglio sull’otttimismo governativo. Se per il governatore Gianni Chiodi finora è andato tutto bene e si è gestita questa fase con procedure «celeri e adeguate», il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, e il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane, puntano l’indice contro l’inadeguatezza dei fondi e il ruolo marginale degli enti locali. Preoccupa, soprattutto, la ricostruzione vera, la riconsegna del centro storico de L’Aquila, il restauro dei borghi e dei monumenti e la sistemazione degli studenti universitari fuori sede. a pagina 5

a pagina 4 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 16 settembre 2009

Inchiesta. Il gasdotto di Yadana è stato costruito con il sangue dei birmani e con i soldi dei colossi energetici

Il petrolio affoga i diritti Scoperti a Singapore i conti con cui Total e Chevron finanziano la giunta militare di Yangon. Nonostante le sanzioni Onu e la legge di Vincenzo Faccioli Pintozzi i tutta questa storia, il lato più interessante è (come sempre) economico. Se fossero vere le accuse mosse dall’Organizzazione non governativa EarthRights International, infatti, le Nazioni Unite avrebbero in mano i conti cifrati e le banche offshore dove la giunta militare che regge da decenni la Birmania ha nascosto i propri capitali. Un’informazione fondamentale per dare finalmente un senso a quelle benedette “sanzioni economiche” invocate dal Palazzo di Vetro ogni qual volta un regime dispotico dimostra il suo totale disprezzo per i diritti umani. Stiamo parlando di quasi cinque miliardi di dollari americani, un capitale enorme per uno dei Paesi più poveri del Sud Est asiatico, che Total e Chevron - i due giganti dell’industria petrolifera - avrebbero versato a dirigenti e militari di Yangon in cambio delle concessioni estrattive sul territorio nazionale. Dato che sulla carta quei diritti di perlustrazione e di scavo dovrebbero essere concessi dopo una gara d’appalto, saremmo davanti a due reati distinti: il primo, più diffuso ma non per questo meno grave, di carattere finanziario; il secondo, meno frequente, di carattere umanitario. Infatti, l’Onu ha più volte chiesto ai

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manager delle grandi compagnie di non far girare troppo denaro nelle casse private dei leader (dittatori) di alcuni Paesi, ma di distribuire la ricchezza su tutta la popolazione. Il rapporto di EarthRights International non lascia dubbi: il denaro è passato direttamente dalle mani degli investitori a quelle del Consiglio per lo svi-

il Dbs Group: i due colossi bancari offshore, entrambi con base a Singapore, che in barba al diritto internazionale si sono accordate con i militari per la gestione del denaro.

Ma la Ong non si ferma qui: partendo da un vero e proprio scoop, infatti, i redattori del progetto si soffermano sulle condizioni di vita di coloro che lavorano nei pressi dello Yadana. Come si legge testualmente nel testo, infatti, «per moltissimi birmani la questione del-

le birmana di Tenasserim: un groviglio etnico di difficile gestione, tenuto sotto controllo dai fucili della giunta. Gli emissari della multinazionale parigina si accordano in poco tempo con i rappresentanti della Commissione, che sulla carta è incaricata di approvare soltanto quei progetti internazionali in grado di «arricchire ed emancipare le popolazioni e il territorio in cui operano». Questo nobile proposito è in breve tempo messo da parte a favore del denaro, preferibilmente in

I militari costringono i membri delle etnie di Tenasserim a lavorare come schiavi per costruire le infrastrutture destinate al mercato thailandese

luppo e la pace statale (in mano a uno dei fedelissimi del generale Than Shwe) subito dopo l’inizio della produzione da parte del gasdotto di Yadana. Citando fonti «confidenziali ma estremamente credibili», le 110 pagine del rapporto puntano il dito anche contro la Overseas Chinese Banking Corporation e

l’appropriazione indebita è veramente l’ultimo dei problemi». I diritti umani di base, per coloro che lavorano al gasdotto, sono un miraggio: in posti come quello è la sopravvivenza il primo pensiero. La storia inizia nei primi anni Novanta del secolo appena trascorso, quando la francese Total decide di costruire un gasdotto che possa servire l’area metropolitana di Bangkok, capitale tailandese. Il bacino da sfruttare individuato dagli ingegneri d’Oltralpe è quello che si annida sotto le rocce della regione meridiona-

forma di anonimi - e ultrainternazionali - dollari americani. Il compratore, che conosce la situazione meglio di chiunque altro, è l’Autorità petrolifera tailandese, emanazione di un governo che ha sempre pianto amare lacrime da coccodrillo sulla situazione dei rifugiati birmani. Rimane, e siamo intorno al 1993, il problema dei diversi popoli che si contendono il controllo della regione: a risolvere il problema ci pensa Yangon, che invia nella zona diversi

Parla un ministro birmano in esilio: la fine della giunta militare è solo questione di tempo

«Con i media la democrazia vincerà» di Tint Swe a democrazia o i progetti umanitari sono umiliati quando hanno a che fare con il Myanmar.Tutto è politica. La politica è denaro. Questo è ciò che la maggior parte degli ignari birmani, ultimamente, ha sperimentato. Ma essi devono anche essere pazienti, lasciare che i governi e le organizzazioni straniere imparino qualcosa in più, sul vero volto della giunta militare. Molti li hanno acusati di mettere in luce solo il lato cattivo dei generali. Il movimento per la democrazia in Myanmar non disponeva dei giusti mezzi per parlare al mondo dei tremila morti durante le rivolte del 1988. Grazie ai videofonini, è andata diversamente per la rivolta dei

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monaci nel 2007. Tuttavia, i media sono ancora inefficaci nell’influenzare la maggior parte dei governi esteri. Le dure reazioni e le dichiarazioni dai toni forti dimostrano, al contempo, l’inutilità delle pressioni verso gli ufficiali dell’esercito birmano.

In seno al Consiglio di sicurezza Onu, è evidente il diritto di veto esercitato da Cina e Russia [sulle sanzioni]. Peraltro, vi sono molti altri poteri invisibili che lavorano dietro le quinte. Interessi economici, sicurezza energetica, traffico di armi e droga sono di gran lunga più importanti delle questioni morali: democrazia, diritti umani e aiuti umanitari. I visitatori

occasionali, che trascorrono un paio di settimane in centri turistici come Pagan, Inlay e sulle spiagge, tornano a casa e raccontano di come sia dolce il sorriso del popolo birmano, e quanto siano pittoreschi i paesaggi. La gente comune è spinta a pensare che tutto proceda come sempre, in Myanmar. Questi commentatori non hanno accesso al misero desco di quanti vivono nelle città satellite e non conoscono le fatiche di quanti, dalle città di origine, devono affrontare lunghi viaggi per raggiungere le carceri nelle aree più sperdute del Paese, dove i loro cari sono detenuti per la loro battaglia a favore della democrazia. Nessuno critica la mancanza di de-

battaglioni di fanteria con l’incarico di rendere più malleabili i caporioni locali.

E, ovviamente, reclutare manodopera di norma riluttante ad auto-ridursi in schiavitù. Armati con la brutalità che caratterizza i militari asiatici e con la potenza di un “leader del settore” alle spalle, i «battaglioni Total» (come vengono quasi subito ribattezzati) tracciano con il sangue il corridoio che aprirà la strada al magico combustibile. Parliamo di sessantacinque chilometri di terra, dal Mare delle Andamane al confine con la Thailandia. Convinti da stupri, torture e omicidi i membri delle etnie karen, mon e tavoyan si piegano alla costruzione di infrastrutture petroliere. Una donna karen, intervistata dai curatori del rapporto, racconta: «Un giorno mi sono avvicinata troppo a un tubo, e un soldato mi ha picchiata fino a farmi svenire. Quando mi sono svegliata, ho visto mio figlio che bruciava: lo avevano ucciso con il fuoco così, senza motivo». Tutto questo, aggiunge, lo ha raccontato a un tribunale locale; superfluo dire che non ha


prima pagina Lavoro avrebbe certificato l’assenza di lavori forzati nell’area in questione. Il problema non è soltanto che una dichiarazione del genere è totalmente inaccurata: il problema è che è falsa.

avuto giustizia. Ma va sottolineato che sono numerosi i processi avviati contro la Total anche presso Corti di giustizia americane ed europee: moltissimi esuli birmani hanno chiamato in giudizio i vertici del colosso petrolifero per complicità negli abusi subiti nella zona del gasdotto. Ma la Total non ha mai ammesso alcuna relazione con l’esercito birmano. Christophe de Margerie, ammini-

Giovani lavoratori in una risaia del Myanamar. Nella pagina a fianco, in alto, il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi; in basso, la sede centrale della Total

mocrazia, perché i generali sono guardati come bravi ragazzi capaci di nascondere accordi segreti. E i risultati sono la nascita del programma nucleare, i tunnel segreti e i dollari nel settore energetico. Quello che una volta era definito “la risaia dell’Asia”, ancora oggi benedetta da Dio in risorse naturali, dopo due decadi, il Myanmar è incapace di emergere dagli ultimi gradini dei Paesi sottosviluppati. Ma guardate il video delle nozze “di diamante”della prima figlia (del generalissimo Than Shwe), girate lo sguardo tra le inutili costruzioni a cinque stelle della capitale Naypyiday, ascoltate le radio in lingua birmana, la Bbc, Voice of America, Radio Free Asia e Democratic Voice of Burma. Quanti hanno davvero bisogno di informazioni veritiere di prima mano e di notizie dall’interno, basta che si facciano tradurre con facilità i feeds Rss di queste radio. Se i vostri giornali continuano a difendere la politica [della giunta] e l’approccio dei vostri gover-

stratore delegato del gruppo, è arrivato a dichiarare in un’intervista al settimanale Newsweek: «Sono fiero del nostro coinvolgimento in quel progetto. Le critiche derivano da invidia, e possono andare all’inferno». In altre occasioni sono state scelte tattiche più sottili, come quella dichiarazione - in grande evidenza sul sito web della Total - secondo cui l’Organizzazione internazionale del

ni, allora significa che forse siate un po’ accecati. La verità è che il Myanmar è un Paese disperatamente povero, mentre il regime è estremamente ricco. Il budget per la sanità e l’istruzione è al minimo, le spese militari al massimo. La droga e il mercato nero superano di gran lunga quanto il governo mostra al pubblico in materia di economia. Il rapporto pubblicato da EarthRights International, circa i 4,8 miliardi di dollari Usa versati alla giunta da due grandi compagnie petrolifere è un punto a favore.

È evidente che le compagnie, in prima istanza, debbano negare ogni addebito. Le multinazionali come Total - sottoposte alla pressione dell’opinione pubblica - dovrebbero cambiare atteggiamento e compensare la popolazione per la violazione dei diritti umani e degli standard lavorativi. Vi sono molte compagnie di diversi Paesi, dove né la democrazia né l’opinione pubblica possono essere di aiuto.

Un rappresentante dell’Organizzazione, interrogato sulla questione, ha risposto: «La Total non ha alcun diritto di fare dichiarazioni del genere, perché noi non abbiamo mai ricevuto risultati positivi dalle indagini sulla zona». Dal punto di vista politico, questa situazione ha un che di estremamente ironico: gli Stati Uniti e la Francia, da tutti i palcoscenici possibili, hanno più volte invocato «vere sanzioni contro i regimi dispotici», arrivando a dichiarare pubblicamente il loro sostegno alla causa democratica birmana incarnata da Aung San Suu Kyi. Ma i loro cavalli di battaglia economici, Total e Chevron (che nell’affare di Yadana ha le mani abbondantemente immerse) hanno generato un sistema commerciale che permette, di fatto, la sopravvivenza del regime. Ora, i conti correnti cifrati e le banche con sede a Singapore forniscono un’arma micidiale alla comunità internazionale, che può ordinare al governo asiatico di congelare quei beni e verificarne la provenienza. In questo modo si potrà finalmente capire la verità su un affare molto sporco, che getta ombre inquietanti - seppur vecchie come il mondo - sull’onestà dei nostri leader. D’altra parte, la legge di Singapore contro il riciclaggio di denaro recita: «Se ci sono dubbi giustificati sulla gestione di fondi internazionali, si possono fornire gli estremi alle autorità internazionali competenti». Bonifici bancari per un totale di cinque miliardi di dollari, a favore di dirigenti di una delle economie più povere del pianeta, potrebbero generare un dubbio giustificato.

Le banche di Singapore e le aziende sud-coreane sono solo un esempio. Per non parlare delle compagnie cinesi e indiane. Negli Stati Uniti vi sono sforzi congiunti di politici, sistemi di informazione e attivisti che traggono vantaggio da un allontanamento degli uomini d’affari americani dal Myanmar. Le trame segrete e le mani invisibili hanno sempre avuto un peso nella storia. Non tutte, però, sono state proficue. Poveri birmani, che devono ancora attendere decine di anni. Tint Swe è membro del consiglio dei ministri del National Coalition Government of the Union of Burma (Ncgub) costituito da rifugiati del Myanmar dopo le elezioni del 1990 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia e mai riconosciute dalla giunta militare. Fuggito in India nel 1990, dal 21 dicembre del 1991 vive a New Delhi. Da allora fa parte del Ncgub dove ricopre l’incarico di responsabile dell’informazione per l’Occidente.

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L’intervento della Pillay a Ginevra

Immigrati: l’Onu ribadisce le accuse migranti «non sono spazzatura pericolosa. L’Italia e le altre nazioni collegate a questa situazione devono tenerlo a mente e smetterla di trattarli come tali». Non riserva sorprese l’intervento di Navi Pillay, il capo della sezione diritti umani delle Nazioni Unite, che ieri a Ginevra ha mosso le stesse accuse anticpate il giorno prima. Il tono dell’intervento è stato polemico: «In molti casi, le autorità di questi Paesi rifiutano l’ingresso di questi immigrati e li lasciano affrontare difficoltà e pericolo, se non la morte, come se le loro navi trasportassero materiale pericoloso». Le nazioni, ha proseguito la signora Pillay, «sono obbligate secondo il diritto internazionale a determinare se i migranti abbiano diritto all’asilo o ad altre forme di protezione, prima di farli tornare indietro». La risposta del governo è stata affidata già ieri a Frattini, che ha negato le accuse. Nel frattempo, sempre alle Nazioni Unite è stato consegnato il rapporto stilato da una missione ispettiva dell’organismo sul conflitto israelo-palestinese a Gaza. Nel testo si denunciano i «crimini di guerra commessi da Israele e dalle milizie palestinesi». Il documento elenca «le prove che indicano serie violazioni dei diritti umani internazionali e della legge umanitaria commesse da Israele durante il conflitto a Gaza e che Israele ha commesso azioni che possono essere considerate crimini di guerra se non crimini contro l’umanità». La stessa commissione conclude anche che esistono «prove che gruppi armati palestinesi hanno commesso crimini di guerra, se non anche crimini contro l’umanità, con i loro ripetuti lanci di razzi e colpi di mortaio nel sud di Israele». Guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone, la missione - composta da quattro esperti - è stata nominata lo scorso aprile dal presidente del Consiglio dei Diritti umani dell’Onu. Nel compilare le 574 pagine del rapporto, la missione ha condotto «188 interviste individuali, studiato 10mila pagine di documentazione, visionato 1.200 fotografie, tra le quali anche immagini satellitari, e 30 video». Sono inoltre state ascoltate «38 testimonianze in due sedute pubbliche a Gaza e a Ginevra», decisione presa dopo che, si legge ancora nel rapporto, «Israele ha negato alla missione l’accesso» sul suo territorio e in Cisgiordania. Quanto ai ripetuti atti ostili da Gaza verso il sud di Israele, la missione osserva che queste attività «costituiscono crimini di guerra, se non anche crimini contro l’umanità» perché non distinguono tra target militari e civili «e vanno considerati come attacchi deliberati contro la popolazione civile». I razzi e i lanci di mortaio «hanno causato il terrore nelle comunità interessate, ma anche perdite di vite, danni fisici e mentali ai privati, danneggiamenti di proprietà civili e religiose con conseguenze sui diritti economici della popolazione».

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politica

Intestazioni. Il premier parla di «promessa mantenuta» ma non può fare a meno di ringraziare la Croce rossa, da cui sono arrivati i 5,2 milioni per i prefabbricati

Onna, la città di legno Per i terremotati arrivano le prime 94 case: applausi e proteste per Berlusconi prima della passerella televisiva di Errico Novi

ROMA. C’è un equivoco che accompagna il premier in tutta la sua visita sui luoghi del sisma. Lo segue come un’ombra, come le telecamere di “Porta a porta”, e certo non lo lascia al momento di congedarsi da Onna: «Torneremo qui nella città ricostruita quando tutte le case saranno state consegnate, per fare un pranzo e per ringraziare gli uomini della Protezione civile e della Croce rossa». Non può disconoscere, Berlusconi, il merito dell’organizzazione umanitaria, motore dei lavori grazie ai quali ieri sono state consegnate le prime casette di legno nel paesino più devastato dal terremoto. In quella promessa sembra emergere il presidente del Consiglio che unifica, che va in Abruzzo a rappresentare lo sforzo di un’intera Nazione, da Dellai al sindaco di L’Aquila Massimo Cialente. Ma l’ambiguità resta imprigionata nel cuore del discorso, in quella «promessa mantenuta» che Berlusconi rivendica davanti al nuovo villaggio, nell’enfasi mediatica che culmina con la diretta di “Porta a porta”. E qui si perdono le buone intenzioni, almeno quelle che riguardano la connotazione attribuita dal capo del governo all’evento di ieri. Si perde in fondo anche l’appello del vescovo di L’Aquila, Giuseppe Molinari, che descrive gli abruzzesi «stanchi delle chiacchiere sterili e della politica dell’odio». Difficile che il senso dell’unità e della solidarietà nazionale possa incarnarsi in un premier che fa di questo primo passo verso la ricostruzione una straordinaria vetrina mediatica. Ed è per la pretesa di indirizzare verso se stesso ogni merito che Berlusconi non può sottrarsi a un’obiezione: quelle consegnate ieri agli sfollati di Onna non sono “case”, nel senso che non sono definitive; si tratta di 94 prefabbricati in legno prodotti in Trentino, finanziati dalla Croce rossa con 5,2 milioni di euro e realizzati dal presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai, appunto, che servono a portare via qualche centinaio di persone dalle tendopoli. Sono abitazioni temporanee. Casette di legno la cui incidenza sul dramma dei senzatetto è relativamente bassa, visto che a fronte delle 94 famiglie che ieri hanno ricevuto con le chiavi un bigliettino d’auguri del premier, restano qualcosa come 10.500 persone ancora in accampamento e altre 25mila tra case di amici e alberghi. Avrebbe avuto più senso rinviare un cerimoniale vistoso come quello andato in onda ieri a un’occasione più significativa: per esempio al taglio del nastro per le case “vere”, quelle di Bazza-

Annullata la trasmissione del 23 settembre

Franceschini: «No, non vado da Vespa» ROMA. Si fa sempre più profonda la spaccatura fra le tv “governate” dal premier e le opposizioni: il segretario del Pd, Dario Franceschini, ha inviato a Bruno Vespa una lettera per comunicargli la sua indisponibilità a partecipare alla trasmissione del 23 settembre prossimo. Il testo è secco e duro: «Caro dottor Vespa, Le scrivo per comunicarle la mia indisponibilità a partecipare alla puntata di Porta a Porta del 23 settembre. Quando nei giorni scorsi il mio ufficio stampa ha ricevuto l’invito dalla sua redazione a partecipare alla trasmissione ho comunicato la mia disponibilità ritenendo si trattasse della programmazione ordinaria. Leggo ora alcune sue dichiarazioni secondo le quali la mia presenza a Porta a Porta sarebbe da intendere come una sorta di par condicio per coprire l’incredibile scelta della Rai di stravolgere i palinsesti dell’azienda allo scopo di garantire al Presidente del Consiglio una vetrina strumentalizzando e spettacolarizzando il dramma dei terremotati d’Abruzzo. È un’operazione grave di cui non posso e non voglio rendermi complice in nessun modo», conclude Franceschini. Immediata e stizzita la replica del conduttore tv: «Caro Segretario - scrive Vespa - debbo dirLe con franchezza che le motivazioni del Suo rifiuto mi paiono pretestuose. Nei giorni scorsi abbiamo invitato il presidente del Consiglio come facciamo da 15 anni per la seconda serata che apre la nostra stagione. Contestualmente, fedeli alla correttezza che ci ha sempre caratterizzato, abbiamo invitato il leader dell’opposizione. Nello scorso fine settimana, la direzione generale della Rai ha deciso di portare in prima serata l’evento di oggi e non vedo come questa scelta possa essere attribuita a noi e stravolgere il senso dell’invito che Le abbiamo rivolto. Non Le consento peraltro prosegue Vespa - di definire una nostra trasmissione che Lei ancora non ha visto, come una vetrina al servizio del presidente del Consiglio. Esigo da Lei - conclude - lo stesso rispetto rivolto ad altre trasmissioni». La replica di Vespa ribadisce che in Rai non governa la Rai ma il presidente del Consiglio: nessuna novità, dunque.

no. Ieri Berlusconi ha visitato il cantiere dove sono in via di completamento 700 abitazioni. Sarebbe forse stato meglio aspettare quelle, o ancora il grosso degli edifici antisismici che restituiranno, quelli sì, un avvenire diverso a quasi 20mila persone, e la cui consegna, secondo il sottosegretario Guido Bertolaso, è prevista per dicembre. Ma a meno di non dar retta a chi imputa alla Protezione civile una pesante sottovalutazione dei tempi, viene davvero il sospetto che il premier abbia voluto anticipare tutto a ieri per spezzare la tormenta mediatica che lo avvolge, in un modo o nell’altro, da fine aprile. «Dispiace che Berlusconi si intesti meriti che non ha: è squallido fare la ruota del pavone sulle disgrazie di tante persone e su meriti altrui», gli contesta per esempio un deputato abruzzese dell’opposizione, il democratico Lanfranco Tenaglia, «Le case di Onna non facevano parte del progetto di ricostruzione del governo, il presidente del Consiglio non può approfittarne per mettersi al centro della scena», giacché secondo il parlamentare del Pd «viste tempistica e modalità si tratta di un’abile opera di distrazione voluta per distogliere gli italiani dalla guerra intestina che squassa il centrodestra».

La presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro segnala il rischio che «dopo lo show cali il sipario», Antonio Di Pietro non perde l’occasione per distendere gli animi rivolgendosi a

Bruno Vespa con il tono di un capo missino della Reggio Calabria di quarant’anni fa: «Il governo sta sabotando l’informazione di Stato e lei si presta come boia di questa esecuzione lasciando trasmettere, senza contraddittorio, le menzogne di Berlusconi sull’Abruzzo». Ma anche senza ricorrere a tanta diplomazia, è difficile dissentire da Pier Ferdinando Casini, che con un certo understatement si affida a Twitter (il social network che ha sbaragliato Facebook): «Non credo giovi a Berlusconi una così palese gestione dell’informazione pubblica: comunque non ditelo a Vespa, ma stasera vedo le partite». Resta decisamente sospeso nell’aria l’appello provocatorio di Daniele Capezzone: a suo dire il Pd «è una delusione» perché «almeno su un terreno come questo poteva esserci un segno di saggezza, uno sforzo di coesione come avviene in tutto il mondo in occasioni del genere». Dovrebbe mettersi d’accordo con un altro tupamaro del Pdl, quella Michaela

«Squallido prendersi meriti altrui», secondo il Pd. Casini: «Non credo giovi a Berlusconi una così palese gestione dell’informazione pubblica». Di Pietro senza freni: «Vespa è un boia»


politica

16 settembre 2009 • pagina 5

Gli amministratori prendono le distanze dall’ottimismo del premier

«Ma adesso pensiamo alla ricostruzione vera»

Pezzopane e Cialente rilanciano: «Dopo l’emergenza, tocca a noi gestire il futuro della gente d’Abruzzo» di Franco Insardà

ROMA. «Più che la mancanza di trasparenza, questo rallenterà - aggiunge la Pezzopane - l’inipreoccupa l’incertezza». Massimo Cialente, sindaco de L’Aquila, interpretra così il sentimento dei suoi concittadini che, dopo cinque mesi e con l’inverno ormai alle porte, ancora non riescono ad avere certezze sul loro futuro. La cerimonia di consegna, da parte del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, delle prime casette antisimiche di Onna è sicuramente un passo avanti, ma il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane precisa: «È soltanto una piccolo primo passo, a fronte delle 90 famiglie ci sono ancora circa 12mila persone nelle tende e 25mila negli alberghi della costa. I numeri, come è evidente, sono fortemente sproporzionati tra coloro che attendono un alloggio e quelli che, fortunatamente, lo hanno avuto». Se da una parte c’è soddisfazione, dall’altra l’aspettativa è enorme per le migliaia di persone che non hanno ancora questa possibilità e ripongono speranze nel lavoro di costruzione di questi alloggi temporanei. Opere che stanno procedendo, ma che non riescono a soddisfare tutta la domanda. Il governatore abruzzese, Gianni Chiodi, ci tiene a mettere in evidenza che «fin qui, obiettivamente, è andato tutto bene. L’emergenza è stata gestita nel migliore dei modi. Non credo che siamo in ritardo. In altre situazioni, dopo appena cinque mesi, non c’era neanche una legge. Qui le procedure sono state molto più celeri e adeguate».

zio dell’anno scolastico e delle attività produttive. Speriamo che vengano mantenute le scadenze prefissate, ma riteniamo che si debba fare lo sforzo prevedendo la requisizione di case, l’utilizzo di case su ruote e le casette di legno. Molte famiglie non hanno ancora deciso che cosa fare, dal momento che la situazione è diversa se avranno assegnato un alloggio adesso o a gennaio». L’economia aquilana era legata a filo doppio con l’università e con i migliaia di fuorisede e il sindaco si preoccupa della sistemazione degli studenti universitari. A questo proposito il presidente della Provincia ricorda: «avevamo suggerito anche in questo caso l’utilizzo di casette di legno, ma la proposta è ancora al vaglio. E finora le immatricolazioni sono molto poche».

Il ruolo degli enti locali e il recupero del centro storico de L’Aquila sono senza dubbio gli argomenti più spinosi sui quali si dibatte da mesi. «La legge per la ricostruzione - secondo il presidente Pezzopane - ha lasciato irrisolte questioni fondamentali. Il passaggio, previsto a fine anno, dalla Protezione civile al territorio avverrà in pratica nelle mani del Commissario delegato che è il presidente della Regione. Per Provincia e Comuni non sono è prevista alcuna erogazione straordinaria e i poteri degli enti locali sono molto compressi. Chiediamo a gran voce di rivedere gli strumenti governance e di prevedere nella prossima Finanziaria maggiori fondi per la ricostruzione vera del centro storico de L’Aquila e di tutto il patrimonio edilizio e monumentale dei borghi che ancora non parte e che rischia il degrado». Su questo punto anche il governatore non nasconde la sua preoccupazione: «La fase due sarà fonte di gravi problemi e difficoltà. Sarà necessario un maggior coinvolgimento degli enti locali per quel che riguarda le scelte strategiche e la programmazione socio economica». Il sindaco Cialente ripropone la necessità di una tassa di scopo per sostenere il recupero del centro storico. Mentre il Governatore puntualizza: «Emotivamente tutti vorremmo tornare in centro il prima possibile, ma il disastro che ci ha colpito ci impone di prendere in considerazione tempi più lunghi. E questo lo dobbiamo far capire alla gente, altrimenti si rischiano di ingenerare aspettative irrazionali». Nonostante tutto Stefania Pezzopane si dichiara ottimista: «Ho molta fiducia negli aquilani, nelle nostre energie e il futuro va costruito e spero che tutti continuino a darci una mano, ma abbiamo bisogno di strumenti, di risorse e di sostegno. Per questo se da una parte i risultati vanno sottolineati, dall’altra va abbandonata ogni strumentalizzazione e ogni enfasi da parte del presidente del Consiglio e di tutti i protagonisti di questa vicenda. Il rischio è che sottolineando esageratamente gli aspetti positivi l’opinione pubblica nazionale e internazionale può pensare che i problemi siano risolti. Purtroppo così non è».

Il governatore Chiodi: «La fase due sarà fonte di gravi problemi e difficoltà. È necessario un maggiore coinvolgimento degli enti locali»

Biancofiore secondo la quale è il premier e non Dellai («mosso da interessi politici e di ribalta») l’unico «vero pervicace responsabile dell’immediata riconsegna delle case ai terremotati, con la sua costanze presenza e il suo protagonismo etico e fattivo».

A Berlusconi riesce bene una parte, che sarebbe tanto fruttuosa se messa al servizio di una causa comune e non del suo “protagonismo”: la parte dell’animatore, del trainer, che sa interpretare solo quando consegna materialmente all’inquilina le chiavi della prima casetta in legno giallo ocra «con l’augurio che questo sia un nido d’amore per una nuova vita e per guardare avanti». L’appello rivolto a tutti gli sfollati è giusto, condivisibile: «Guardate al futuro, sia questo un luogo per stare insieme e andare avanti con speranza e serenità». Peccato sia sempre il “protagonismo” a tradirlo, quello che Berlusconi esibisce anche quando minimizza le contestazioni dei senzatetto di Paganica («No alla deportazione», recitava un loro striscione) come un moto d’impazienza «solo di quei paesi dove non siamo ancora arrivati». Il confine tra l’incoraggiamento e lo spregio è labile e bisognerebbe saperlo sempre rispettare.

Qui sopra, dall’altro, Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell’Aquila; il governatore abruzzese Gianni Chiodi e il sindaco della città Massimo Cialente. In alto, il premier consegna una delle nuove case di Onna. Nella pagina a fianco, Giudo Bertolaso

Anche per il sindaco alcuni passi avanti si sono fatti. «È - dice - stato smantellato il campo di accoglienza di piazza d’Armi, il più importante della città, ma la gente si chiede ancora cosa accadrà nei prossimi mesi. L’ordinanza per l’assegnazione degli alloggi è stata firmata lunedì e nei prossimi giorni potremo essere in grado di comunicare la graduatoria di chi entrerà nelle case o nei Map». Su questo argomento il presidente Pezzopane ci tiene a sottolineare che «erano state date informazioni su date che, purtroppo, non saranno rispettate. Si era detto che da settembre si sarebbe passati dalle tende alle case, ma, tranne che per gli abitanti di Onna, questo non sarà possibile. Chi era in tendopoli sta passando in albergo, solo quei pochi che hanno le case agibili potranno avere un tetto. Gli altri dovranno aspettare altre settimane o mesi». La cosa non è secondaria visto che sin dai primi giorni tutti avevano avvertito del rischio che si sarebbe corso se si fosse andati oltre la metà di settembre per la consegna degli alloggi. «Tutto


diario

pagina 6 • 16 settembre 2009

Crisi. Il governatore di Bankitalia appoggia la riforma globale delle regole proposta da Barack Obama a Wall Street

Draghi: «Sì alla nuova finanza» E adesso anche Bernanke annuncia: «Forse la recessione è finita» di Alessandro D’Amato

ROMA. «I mercati sono in via di normalizzazione, ma non perdiamo l’occasione per portare nuove regole nella finanza». Mario Draghi, nella veste di presidente del Financial Stability Board, porta una ventata di ottimismo al termine della riunione dell’organismo a Parigi. «Negli ultimi mesi sono stati registrati segnali incoraggianti e i mercati stanno tornando alla normalità, sebbene restino delle sfide all’orizzonte, tra le quali la debolezza del flusso di credito», dice il governatore di Bankitalia. Al vertice, ha spiegato Draghi, si è discusso della necessità di un coordinamento delle “exit strategy” dai piani di stimolo, una volta che saranno state elaborate.

Draghi ha anche sottolineato l’importanza di non abbassare la guardia sulle riforme, e ha affermato che le società finanziarie devono rafforzare i propri bilanci e conservare gli utili in modo da poter ricostituire il capitale. Anche perché le svalutazioni per le banche potrebbero arrivare a livello mondiale a quota 2.800 miliardi di dollari, dei quali 1.500 non ancora certificati dagli istituti di credito, proprio secondo la stima del Fondo Monetario Internazionale nel Global Financial Stability Report che sarà pubblicata alla vigilia dell’assemblea annuale del Fmi. E il Fondo avverte inoltre che a livello globale le condizioni di erogazione del credito «per molte imprese (e in particolare per quelle piccole e medie) e per le famiglie resteranno molto rigide». Per questo, secondo Draghi, è necessario non perdere l’occasione per portare nuove regole

vato una stesura definitiva. Draghi ha comunque indicato l’accordo al Financial Stability Board sui principi che dovranno seguire le istituzioni finanziarie sulle remunerazioni. I tre principi base riguardano la governance delle società, la piena trasparenza sui sistemi di retribuzione e la loro struttura. In particolare le politiche retributive dovranno essere

Per il presidente della Fed, il terzo trimestre si chiuderà con un Pil in crescita, ma la disoccupazione sarà lenta a diminuire nella finanza globale. E dal Fsb è arrivata anche una frenata sui bonus ai manager: «Stiamo ancora lavorando», ha fatto sapere Draghi in conferenza stampa: questo significa che la norma punitiva nei confronti delle aziende, fortemente voluta da Francia e Germania ma osteggiata dalla Gran Bretagna e dagli Usa, e sulla quale il Board doveva esprimersi, non ha ancora tro-

supervisionate da figure indipendenti, dovrà esserci un legame con l’andamento della società, dovranno essere previste clausole di restituzione nel caso in cui l’andamento della società sia negativo. «Definiremo delle linee guida in modo che i supervisori possano intervenire su questo terreno verificando se tali principi saranno rispettati», ha indicato Draghi. La vera novità «è

Secondo l’Istat, in un anno salgono del 4,6%

Retribuzioni in crescita ROMA. Malgrado la crisi, crescono le retribuzioni dei lavoratori italiani. Nel secondo trimestre 2009, secondo quanto riferisce l’Istat, le retribuzioni lorde per Ula (Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno), al netto degli effetti stagionali, hanno registrato nel complesso dell’industria e dei servizi un incremento, rispetto al trimestre precedente, dell’1 per cento. Per gli indici grezzi è risultato un aumento tendenziale (ovvero rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente) del 4,6%. Al netto degli effetti stagionali, rispetto al trimestre precedente, sottolinea l’Istat, l’indice registra un incremento dell’1,2% nell’industria e dello 0,9% nei servizi. Il tasso di crescita tendenziale delle retribuzioni per Ula nel secondo trimestre del 2009 è stato del 4,6% nell’industria e del 4,2% nei servizi.

All’interno del settore industriale, nel secondo trimestre del 2009 le retribuzioni per Ula hanno segnato l’incremento tendenziale più marcato nelle costruzioni (più 8,2%). All’interno del terziario, la crescita tendenziale delle retribuzioni più elevata si è manifestata nel settore del trasporto e magazzinaggio (più 4,9%). La dinamica tendenziale degli oneri sociali per Ula nel secondo trimestre del 2009 segna un +1% ma è stata, nell’insieme dei settori dell’industria e dei servizi, inferiore a quella delle retribuzioni, con un incremento del 4,3%. Sempre ieri l’Inps ha comunicato che nei primi sette mesi dell’anno sono state utilizzare dalle aziende il 61 per cento delle ore di cassa integrazione chieste e autorizzate dall’Istituto. Un anno il “tiraggio” era al 77 per cento.

che finora le politiche retributive delle istituzioni finanziarie venivano considerate un territorio in cui nessuno poteva intervenire mentre oggi fanno parte a pieno titolo dell’attività dei supervisori». E ieri anche il presidente della Fed Ben Bernanke ha sottolineato che la crisi si sta comunque spegnendo: «C’è un forte accordo sul fatto che l’economia Usa sia in ripresa. Probabilmente la recessione è passata». Il terzo trimestre si chiuderà - ha detto Bernanke - con un Pil in crescita. La disoccupazione - ha però avvertito rispondendo ad alcune domande dalla platea - sarà lenta a diminuire. E le novità, sul fronte italiano, non tarderanno ad arrivare. «Obama ha giustamente suonato un campanello d’allarme. Entro la fine del 2009 saranno definiti i nuovi coefficienti patrimoniali delle banche che entreranno in vigore il prossimo anno», ha annunciato il direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, rispondendo alle domande dei deputati della Commissione finanze. Per evitare il ripetersi di crisi finanziarie «si va verso un rafforzamento della base patrimoniale e si stanno definendo misure per evitare rischi di forti indebitamenti delle banche. Tutte queste misure - ha detto Saccomanni devono essere annunciate, anche a livello quantitativo, entro la fine dell’anno ed entreranno in vigore il prossimo».

Ma di certo nelle discussioni informali del FsF venuta fuori anche la polemica italiana che continua ad andare avanti ormai da settimane tra il ministro dell’Economia e il settore edilizio, nella quale l’ultimo intervento polemico di Corrado Faissola all’assemblea di Confartigianato - quando il presidente dell’Abi ha tirato in ballo la Russia putiniana - è solo la punta dell’iceberg. Oggi c’è alta tensione tra gli istituti di credito e via XX Settembre; soprattutto dopo il “ni” ai Tre-Bond che è arrivato da Ca’ de Sass: Draghi potrebbe essere l’uomo delle istituzioni destinato a far da paciere tra la politica e il mondo finanziario; ma il ministro non la vede così. Già dai primi attacchi ai “guardiani mondiali delle regole”, in piena crisi, si era capito che tra i due non scorreva buon sangue.


diario

16 settembre 2009 • pagina 7

La conduttrice di “Report” contro Viale Mazzini

Influenza A: parere favorevole del Consiglio superiore della sanità

Gabanelli: «In onda anche senza tutela legale»

Sì al vaccino per bambini e donne in gravidanza

ROMA. «Spero che l’intenzione di togliere la tutela legale a quelli che lavorano sul programma, quindi a tutti i miei collaboratori, rientri, perchè è difficile andare in autostrada con la bicicletta». Lo ha detto Milena Gabanelli, conduttrice di Report, in un’intervista su Corriere tv. «La trasmissione non salterà - replica la Gabanelli - noi andiamo in onda comunque, siamo anche pronti a rischiarla in proprio». La nuova edizione di inchieste coordinate dalla popolare giornalista dovrebbe partitre il prossimo 11 ottobre. «Da parte del servizio pubblico, programmare in prima serata un programma d’inchiesta e poi gli autori non vengono tutelati, ma gli viene detto che se si apre un contenzioso “sono fatti vostri”, mi sembra crudele e ingiusto, non ne vedo il senso». E alla domanda dell’intervistatore «a chi date fastidio?», la Gabanelli ha risposto: «Può farmi l’altra domanda, a chi non diamo fastidio?». Sottintesa c’è il suggerimento che la popoalre trasmissione d’inchiesta, almeno nelle intenzioni degli autori, non ha colore politico e si batte un po’ contro tutti. «Nel nome della verità», come dicono i cronisti di Milena Gabanelli.

ROMA. Il Consiglio Superiore

Poi, a proposito di un possibile parallelismo tra il caso Ballarò, il caso Boffo e Report, Milena Gabanelli risponde: «Io credo che sono cose molto diverse se è da leggere sotto la faccia di un’unica medaglia lo interpreti chi studia questi fenomeni, io posso limitatamente parlare per quel che mi compete e conosco bene e quindi so cosa dico». Il clima in questi giorni è particolarmente pesante fa notare il giornalista del Corriere, «ma lo è sempre - ribadisce la Gabanelli -: quando sono costretta a frequentare i corridoi ho sempre l’impressione che non si possa fare niente, ed e’ il motivo per il quale che io frequento soltanto la mia redazione di via Teulada, lavoro e alla fine vado in onda».

Montezemolo chiede un bis per le rottamazioni Il presidente della Fiat: «Hanno salvato posti di lavoro»

di Sanità (Css) ha espresso all’unanimità parere favorevole a tutte e tre le richieste avanzate dal Ministero della Salute in merito alla possibilità di vaccinare contro l’influenza A le donne in gravidanza nel secondo o terzo trimestre, i bambini e i ragazzi dai 6 mesi a 17 anni e sull’ipotesi di una eventuale co-vaccinazione con il vaccino dell’influenza stagionale.

Il parere favorevole del Consiglio Superiore di Sanità, arrivato all’unanimità dopo tre ore circa di riunione, sbroglia tre dei principali nodi legati al piano vaccinale antipandemico e sarà sottoposto domani nel corso del tradizionale incontro sul-

di Francesco Pacifico

ROMA. Ci sono voluti oltre 12 miliardi di euro di fondi pubblici, ma dopo 14 mesi il mercato dell’auto è tornato a correre in Europa. Nel terzo trimestre 2009 le immatricolazioni hanno fatto registrare un saldo positivo (+2,4 per cento a giugno, +2,8 a luglio, + 3 ad agosto). E quest’inversione fa bene a tutto il settore (in crescita tutti i marchi, non soltanto l’“habituè” Fiat) quanto alla ripresa tout court, visto che quello dell’auto è il primo comparto che può dire di essere uscito dalla recessione. Sicuramente le cose vanno meglio del previsto alla Fiat, che rispetto al 2008 vede diminuire di un risicato 0,2 per cento le vendite. Ma che a fine anno potrebbe ridurre ulteriormente la produzione e la forza lavoro in Italia.

Dentro i confini nazionali il gruppo si conferma leader di mercato anche grazie al +10,8 per cento nelle immatricolazioni segnato a luglio. Ma per certi aspetti il Lingotto fa meglio all’estero (+12,8 per cento, più del doppio rispetto al mercato), soprattutto in considerazione dello scarso appeal che ha il marchio italiano oltre Chiasso. Le vendite, infatti, segnano un exploit in Olanda (103,1 per cento), Regno Unito (+82,5) e in Germania (+56,7). Non ai livelli di Fiat, ma anche gli altri grandi gruppi europei come Psa e Volkswagen tornano a crescere. E proprio i tre milioni di nuovi veicoli venduti inaspettatamente in estate acuiscono uno spettro che per il momento si materializza in America: cosa succederà quando gli incentivi saranno terminati? Anche perché gli aiuti permetteranno al settore di chiudere l’anno con 13 milioni di immatricolazioni, quindi con un passivo soltanto del 6 per cento rispetto al 2008. Non a caso dal salone dell’auto di Parigi il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, è uscito allo scoperto, spiegando che «non può essere data per scontata» la fine degli incentivi a fine anno. Il numero uno del Lingotto ha spiegato che «gli incentivi hanno portato benefici in Euro-

pa, hanno salvato posti di lavoro. È un dato di fatto che gli incentivi sono un fatto positivo per l’economia del Paese, per l’indotto, per l’occupazione, per le Pmi, per il rinnovo del parco vetture, per una spinta verso vetture di basso impatto ecologico e di bassi consumi sia per l’Italia sia per gli altri Paesi». Va da sé che gli incentivi abbiano portato benefici anche per il gruppo Fiat, visto che in Italia – principale mercato dell’azienda – il 42 per cento degli acquirenti di nuove auto l’ha fatto spinto proprio dalle rottamazioni. Questo almeno si evince da una ricerca dell’Aci, secondo la quale nel terzo trimestre dell’anno è tornato stabile anche il mercato dell’usato. Il Lingotto non ha presentato ancora una richiesta di proroga al governo, ma sarebbero tanti i segnali che vanno in questa direzione. Innanzitutto il costo contenuto a carico dello Stato. Come ha ricordato il ministro Claudio Scajola, i circa due miliardi stanziati dallo Stato «si ripagano in gran parte grazie all’aumento dell’Iva sulle vendite e alla riduzione della cassa integrazione nelle imprese automobilistiche e dell’indotto». E se in Francia Sarkozy ha già confermato le rottamazioni per tutto il 2010, altri costruttori europei starebbero facendo pressioni sui loro governi per ottenere un bis ed evitare quando sta accadendo in America. Qui, a settembre, la fine degli aiuti ha portato un crollo verticale nelle vendite (-19 per cento).

Dopo 14 mesi in caduta tornano a crescere le immatricolazioni in Europa: +3 per cento tra giugno e agosto. Corre la Fiat (+12,8)

Questo trend rende difficile il lavoro di Sergio Marchionne, globe trotter tra Torino e Detroit per provare a rilanciare il marchio Chrysler. Per la più piccola delle case americane si stima un calo delle vendite del 30 per cento, aggravato dai bassi livelli di scorte. In più manca un piano sulla costruzione della 500 e dei mini Suv per il mercato Usa. Al riguardo Giorgio Airaudo, leader Fiom a Torino, si chiede «se la Fiat ha conquistato l’America o se ha deciso di lasciare Torino per l’America. Per ora gli incentivi dati dal governo italiano servono a vendere da noi auto prodotte in Polonia».

l’unità di crisi al ministero della Salute, al quale spetterà poi l’ultima decisione in merito alla scelta di vaccinare le donne incinte del secondo o terzo trimestre e i bambini dai 6 mesi ai 17 anni e sull’ipotesi della coovaccinazione, ovvero la somministrazione in contemporanea del vaccino antipandemico e di quello contro l’influenza stagionale. È molto probabile, a questo punto, come aveva già in precedenza annunciato il vice ministro della Salute Ferruccio Fazio, che il ministero emani una successiva ordinanza, più dettagliata, in riferimento a queste specifiche categorie, che prenderà atto delle decisioni del Consiglio superiore. Intanto, secondo il vice ministro, l’’epidemia di influenza ci sarà, ma se il clima dovesse essere mite gli effetti del virus saranno meno violenti. «Appena possibile - ha dichiarato Fazio vaccineremo la popolazione. Potremmo ricevere prima del 15 novembre i vaccini che provvederemo a trasferire subito alle regioni in forma quarantenata: non potranno cioè essere somministrati prima dell’arrivo dell’autorizzazione dell’Emea, l’agenzia del farmaco europea. Questo potrebbe avvenire in un periodo che ci auguriamo non vada oltre il 15 novembre».


politica

pagina 8 • 16 settembre 2009

Poste. Tensione nel Popolo della libertà per la prima uscita pubblica di un gruppo di “dissidenti”. Solo gli ex-colonnelli di Via della Scrofa si defilano

Tutti gli uomini di Fini Parte la lettera di 50 ex An a Berlusconi per chiedere più «dibattito interno». Per molti è il primo avviso di Riccardo Paradisi ra gli effetti prodotti dal durissimo scontro tra il direttore del Giornale e il presidente della Camera c’è soprattutto quello di avere accelerato le dinamiche del dissenso finiano all’interno del Pdl. L’annunciata lettera dei cinquanta parlamentari capeggiati dal vicecapogruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino ieri è finalmente diventata pubblica e dopo una lunga giornata di concitate trattative è stata sottoscritta, tranne poche eccezioni, da tutti i deputati ex An.

Arriva la querela dopo le «minacce» del direttore del Giornale

T

Una lettera quella preparata da Bocchino dai contenuti tutto sommato non incendiari. Non vi si legge nessuna minaccia di rottura o ipotesi di formare un nuovo gruppo parlamentare ma la richiesta esplicita di un ”patto di consultazione permanente” tra i ”cofondatori” del Pdl Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, per riequilibrare i rapporti all’interno della maggioranza troppo sbilanciati a favore della Lega. L’obiettivo della lettera insomma sarebbe quello di «armonizzare le varie anime politiche e parlamentari che si ritrovano nel Popolo della Libertà». Nella petizione poi si riconosce al Governo e a Berlusconi la capacità «di risolvere i problemi dei cittadini, anche grazie alla Tua leadership e alla Tua ineguagliabile politica del fare». Al tempo stesso peró si chiede che il Pdl «conservi la sua natura di partito del pensare, allenato alla discussione, avendo come priorità una solida e visibile democrazia interna». E a tal fine «riteniamo che sarebbe opportuno un patto di consultazione permanente tra Te e il cofondatore del Popolo delle Libertà Gianfranco Fini, al quale siamo politicamente e personalmente legati e con cui siamo entrati nel PdL e in Parlamento». Insomma un dissenso apparentemente misurato ma senza dubbio un segnale di un salto qualitativo nella dialettica interna al Pdl. Assolutamente impensabile solo fino a una settimana fa. Eppure se la lettera viene interpretata come un’iniziativa di supporto alla linea di Fini in un primo momento non tutti i finiani sembrano d’accor-

Feltri o Feltrusconi? di Giancristiano Desiderio così è arrivata la querela. Gianfranco Fini ha querelato Vittorio Feltri, direttore de il Giornale (ma, a quanto se ne sa, non ha querelato il Giornale medesimo né l’editore Paolo Berlusconi fratello del capo del governo). Il querelato è solo Feltri, ma se si considera che l’ex direttore e fondatore di Libero è stato ribattezzato Feltrusconi si capirà che qualcosa in questa vicenda poco edificante fatta di avvertimenti a mezzo stampa c’entra anche il presidente del Consiglio. Lo confessa lo stesso Feltri quando dice: «Tutti possono parlare della D’Addario e io non posso tirar fuori una storia nota. Ma stiamo scherzando?». No, qui si fa terribilmente sul serio.

E

Quando si scriverà la biografia intellettuale di Vittorio Feltri - tardi, il più tardi possibile, lunga vita al direttùr - si dovrà dedicare un capitolo a capire l’evoluzione che senz’altro c’è stata da Feltri a Feltrusconi. Come è possibile che un giornalista - e che giornalista! - che è alla guida del quotidiano Libero - o più meno libero - che ha fondato con le sue forze e la sua fantasia e che ha sognato per tutta la vita decida di prendere armi e bagagli e ritornare nella casa giorna-

listica della famiglia Berlusconi da cui era uscito dodici anni prima dopo aver sbattuto la porta con un garbo non certo britannico? Feltri è uomo di passione oltre che di una spietata lucidità ed è uomo a cui piace non solo guadagnare bene e benissimo - e lì dov’è guadagna più che benissimo - ma è anche uomo di penna o di lettere che si compiace di dare un’interpretazione letteraria, ma non irreale, delle vicende politiche della nazione. Sarà un caso ma il «caso Feltri» che diventa il «caso Feltrusconi» è perfettamente spiegabile con le parole dello stesso Vittorio Feltri.

Non molti l’avranno letta, ma nel 1993 Feltri - all’epoca era direttore de L’Indipendente scrisse la prefazione ad un libretto di Tito Giliberto pubblicato da Stampa Alternativa. Quel romanzo storico s’intitolava Penne sporche ed era un viaggio dietro le quinte del mondo giornalistico della Milano del Risorgimento. Scriveva Feltri (riporto il testo senza cambiare una virgola): «In Italia le penne sono sempre state sporche. In alcuni casi luride. Motivo? Semplice. Tanto per cominciare, la tradizione. La nostra stampa - quotidiana e periodica - non è nata per informare, bensì per polemizzare. Chi aveva soldi e interessi da difendere, finanziava un giornale, magari con l’intento di farsi eleggere in Parlamento. E farsi eleggere in Parlamento significava, allora come oggi, abbassare gli avversari per innalzare se stessi. Per fare ciò era necessario assoldare giornalisti disponibili. Disponibili a che? A insultare tutti, tranne il padrone che pagava. Così nacquero le penne sporche, che hanno avuto molti figli e molti nipoti. Che a loro volta si riproducono perché, in fondo, il sistema non è cambiato». Dite voi se questa non è la teorizzazione (o l’anticipazione) di Feltrusconi.

do sul metodo usato da Bocchino per dare voce al disagio degli ex di An.Tra i primi firmatari della lettera – Angela Napoli, Antonio Nicolò, Donato la Morte, Souad Sbai, Giuseppe Consolo, Riccardo Migliori, Carmelo Briguglio, Nicola Cristaldi – c’è chi dice che ci sono state addirittura pressioni da parte di ex

esponenti di An perché non sottoscrivessero una petizione giudicata appunto inopportuna. «La lettera inviata da Italo Bocchino a Silvio Berlusconi – dice il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl, Ignazio La Russa alle agenzie nel primo pomeriggio – e firmata da una parte degli ex parlamentari di An anziché portare, come si vorrebbe, a una serena definizione di questa fase di tensione all’interno del Pdl, che è inutile negare,

finirebbe col favorire interpretazioni opposte e creare ulteriori problemi».

Però attenzione, La Russa sostiene e ci tiene a sottolinearlo, di condividere il contenuto della lettera di Bocchino, a non andar bene è il metodo. Subito dopo le esternazioni di La Russa si mettono sulla stessa onda di frequenza anche gli altri ex colonnelli di ciò che fu An: da Gianni Alemanno ad Altero Matteoli passando naturalmente per Maurizio Gasparri. Nemmeno il deputato triestino Roberto Menia – il più critico tra gli ex di An nel passaggio del partito di Fini verso la fusione e l’unico che al congresso di scioglimento di An parlò chiaramente delle sue riserve – aderisce all’appello di Bocchino: «Mi prendevano per folle quando, sei mesi fa, ponevo le stesse questioni che vengono oggi poste al presidente del Consiglio nella lettera di alcuni deputati di An». Insomma non sembra proprio che tutti i deputati già An aderiscano alla petizione, come pure garantiva il deputato Amedeo La Boccetta. Sembra dunque averla vinta quell’area di ex An convinta in cuor proprio che una petizione con qualche decina di firme in calce sarebbe un autogol. A parte Adolfo Urso dunque, segretario generale della fondazione finia-


politica

16 settembre 2009 • pagina 9

Ecco chi sono i primi firmatari ROMA. Il testo della lettera dei «cinquanta» ha cominciato a circolare nel primo pomeriggio di ieri quando ancora non era stata spedita né firmata da tutti i prlamentari dell’ex Alleanza nazionale. I primi a firmare sono stati: Donato La Morte, Gennaro Malgieri, Angela Napoli, Giuseppe Consolo, Souad Sbai, Riccardo Migliori, Fabio Granata, Carmelo Briguglio, Antonio Nicolò, Nicola Cristaldi, Adolfo Urso e Flavia Perina. Nel pomeriggio, poi, il tam tam ha preso corpo e tutti i parlamentari che erano di An hanno aderito al “merito”del documento. Solo i colonnelli storici (La Russa, Gasparri e Matteoli) non hanno aderito dicendosi contrari al metodo ma non al merito della lettera.

Gli ex An sono scesi in campo per difendere Gianfranco Fini dagli attacchi del ”Giornale” della famiglia Berlusconi, diretto da Vittorio Feltri na Fare Futuro, che sostiene da subito l’iniziativa di Bocchino – «Il fine della lettera è buono e quindi giustifica anche il mezzo» – tutti i pezzi da novanta di ciò che era An si sfilano. Il più critico verso l’iniziativa di Bocchino è il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Non c’è bisogno di creare momenti di divisione, ma realizzare quella coesione che gli elettori hanno invocato, apprezzato, votato». Ma è molto critico anche il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Altero Matteoli «Considero la lettera a Berlusconi, condivisibile nel merito ma inopportuna, perché il chiarimento richiesto da Fini si può raggiungere senza dare adito a equivoci». Insomma un’iniziativa quella di Bocchino riuscita a metà, se non proprio

IGNAZIO LA RUSSA La lettera, anziché portare a una serena definizione di questa fase di tensione, potrebbe finire col favorire interpretazioni opposte e creare altri problemi

fallita. Ma il deputato di An sembra tranquillo e convinto del fatto suo e aggirandosi in Transatlantico garantisce che firmeranno tutti. E infatti alle 18 e 20 le agenzie descrivono un repentino mutamento di scenario: «La lettera degli ex di An proITALO BOCCHINO mossa da Italo Bocchino continua a far discutere, ma le tenIn qualità sioni delle prime ore di deputati si sarebbero stemimpegnati perate. Anche i dea sostenere putati vicini ai miniil governo ci stri Altero Matteoli rivolgiamo a Te e Ignazio La Russa, per segnalare che avevano criticaun disagio to l’iniziativa, avrebche richiede bero sciolto la risersubito va e stanno firmanun intervento do la missiva. I ministri, a quanto si

apprende, avrebbero deciso di dare il loro via libera perché le critiche all’iniziativa di Bocchino si limitavano al metodo e non certo al merito e al contenuto della missiva che sono del tutto condivisibili». Che è una spiegazione un po’ curiosa visto che il metodo non è mutato col passare delle ore.

Viviana Beccalossi, deputato del Pdl ed ex esponente di via della Scrofa, che in un primo momento non ha firmato la missiva, spiega – diciamo così – il cambio di rotta: «Ora ho deciso di firmare la lettera. Innanzitutto perché c’è stato un chiarimento tra i massimi dirigenti provenienti da An sul metodo utilizzato, che resta sbagliato e non tendeva tanto a difendere Fini ma a dividerci. Quanto al contenuto della lettera condivido il fatto che ci sia una sede, il Pdl appunto, dove si discuta non solo delle azioni del governo ma anche di quelle del partito». Angela Napoli, tra le prime e più convinte firmatarie della lettera è indignata: critico i colleghi che hanno aspettato il placet dei capicorrente. Dei capicorrente di quello che era An.

Sembra incredibile, An non c’è più ma sono sopravvissute le sue correnti». Ai cui vertici si sarebbe atteso di vedere il livello di consenso dell’iniziativa prima di decidere se aderirvi. Quando si è visto che si stava raggiungendo una certa massa critica – racconta una fonte interna alla partita – nessuno ha voluto restare fuori da quello che ancora è un circuito finiano». L’ultrafiniano Fabio Gra-

gnificativo. Ora in Parlamento, su alcuni provvedimenti importanti, si potrà disegnare un’identità del Pdl innovativa e repubblicana». Ma molte prudenze si potrebbero anche spiegare col fatto che la lettera dei cinquanta potrebbe essere anche l’avvertimento a Berlusconi che Bocchino aveva già ventilato che non tutti i provvedimenti sarebbero stati automaticamente votati. Insomma una non velata minaccia di ALTERO far andare sotto il MATTEOLI governo su alcuni passaggi delicati La firma della legislatura. sulla lettera, «Mi hanno colpito condivisibile per le recenti uscite i contenuti, pubbliche del vice di una parte presidente dei dedei deputati può putati del Pdl, Italo rappresentare Bocchino, sopratun equivoco tutto nel passaggio e allontanare in cui spiega che il l’indispensabile nostro voto non chiarimento sarà più scontato. Se tutta An sta con Fini tutta Forza Itanata può così cantare vittoria lia sta con Berlusconi». Altro «Chi andava dicendo, che il che fusione e unità d’intenti inpresidente della Camera era somma. Da parte dello staff del isolato dentro An ha avuto la ri- presidente Fini si tiene infine a sposta che meritava. Anche il sottolineare che quella fatta gi’travaglio mediatico’ e l’alter- rare da Bocchino è «Una lettenanza di posizioni di alcuni au- ra di iniziativa parlamentare di torevoli amici – continua Gra- cui la presidenza è totalmente nata riservando una stoccata all’oscuro». ”Come no”, chiosavelenosa ai suoi colleghi – è si- va ieri, sorridendo, un finiano…


panorama

pagina 10 • 16 settembre 2009

Polemiche. I dirigenti continuano ad avvalorare l’idea di una similitudine con le primarie Usa

Se il Pd gioca a fare l’americano di Antonio Funiciello a presunta offerta di Bersani a Franceschini di fare il capo gruppo del Pd alla Camera, ammesso sia questo l’esito del congresso, ha rilanciato i paragoni tra le primarie americane e quelle italiane. Vera o no che sia, è stata una bella trovata fare uscire la notizia nei giorni del voto degli iscritti nei circoli. I bersaniani hanno esaltato la magnanimità del loro leader che, come Obama ad Hillary, chiede al suo competitore di lavorare insieme dopo la conta. In verità, a parte il fatto di chiamarsi alla stesso modo, le primarie americane sembrano sempre più lontane parenti di quelle italiane. E non tanto per questioni regolamentari. Con buona pace di quanto va dicendo D’Alema, che cioè ci vorrebbe un registro a cui gli elettori delle primarie si iscrivano mesi prima del voto «perché così si fa in America», negli Stati Uniti in tre stati su quat-

L

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

tro l’elettore può iscriversi a questo registro il giorno stesso del voto. Esattamente come accade in Italia. Le differenze sono esclusivamente politiche.

Chi partecipa alle primarie americane sa che interviene nella scelta del candidato presidente del suo partito che, nel

crisi finanziaria, Obama e Hillary se le sono date di santa ragione, partendo dal presupposto che stare nello stesso partito è una condizione necessaria e sufficiente per non perdere tempo in discussione interne incomprensibili per il paese reale. Non a caso in America l’adozione del sistema della

Bersani, sicuro di vincere, ha già annunciato che nominerà Franceschini al vertice della Camera: forse per imitare Obama che ha promosso Hillary caso dovesse vincere le elezioni, sarà anche il capo del partito. Mentre nessuno nel Pd americano mette in discussione la coincidenza tra premiership e leadership, nel Pd italiano tutto il fronte bersaniano, D’Alema e Letta in testa, la nega risolutamente. Nei mesi che hanno visto contrapposti Barak Obama e Hillary Clinton, il loro impegno è stato finalizzato a far risaltare le diverse posizioni sui temi cruciali dell’attualità. Il contrario di quanto accaduto finora in Italia. Dal Nafta alle politiche dell’immigrazione e della sicurezza, per non parlare delle risposte alla

primaria diretta ha accresciuto notevolmente la funzione politica dei media, con un rafforzamento del cosiddetto ”quarto potere” che è diventato un’assoluta garanzia di sicurezza democratica. Per i candidati alla presidenza americana non è stato possibile, come fanno oggi Bersani e Franceschini, sottrarsi ai confronti televisivi e dividersi sui maggiori temi: Obama e Hillary hanno dovuto rendere conto in diretta televisiva delle loro differenze programmatiche.

Non è un caso che Obama abbia pensato alla Clinton per

il ruolo di Segretario di Stato e non per quello di un altro dipartimento. La campagna delle primarie aveva difatti evidenziato che tra i due si poteva riscontrare una coincidenza di vedute proprio sulla politica estera. Le diverse posizioni del passato (Hillary pro guerra in Iraq, Obama contrario) erano superate dagli orientamenti assunti durante le primarie. Si può senz’altro dire che se qualche differenza c’era (vedi la posizione obamiana più morbida verso l’Iran), questa è stata corretta da Obama in direzione della neo-nominata Clinton. D’altro canto, se un Bersani vincente indicasse Franceschini capo gruppo alla Camera, il significato dell’operazione sarebbe coincidente con quello del caso americano negli effetti, ma non nel merito. Equivarrebbe ad ammettere che non essendoci distinzioni decisive di orientamento politico generale, i due risultano interscambiabili. Una sconfessione delle primarie che spetta più a Franceschini (primatista convinto) che a Bersani (primatista scettico) smentire al più presto.

Le piccole contraddizioni di una diciottenne che, prima di tutto, si sente calabrese

Lettera aperta (non scritta) a Miss Italia vrei voluto scrivere una lettera alla nuova Miss Italia: la bella e altissima Maria Perrusi. Ma ho vinto l’intenzione dell’istinto e ho recuperato il buon senso. Avrei voluto scrivere alla bella Maria per dirle: «Cara Miss Italia, tu che rappresenti non solo la bellezza delle Italiane - massì, con la maiuscola - ma la stessa Italia - in fondo anche tu sei stata eletta - tu che ora porterai in giro per il nostro Paese e per il Mondo non solo il tuo nome, ma anche il nome dell’Italia, a te, cara Maria, piace questa Italia?». Ecco, avrei voluto scrivere a Miss Italia una lettera sull’Italia e sulla scontentezza generale in cui vive - non nascondiamocelo - la nostra gente, ma poi mi son detto: è giovane, è bella, è contenta, avrà anche il diritto di godersi la sua giornata di trionfo e allora piantiamola qua.

A

Si sa poi come son fatte le Miss. Vogliono la pace e un mondo migliore, come se bastasse la freschezza del loro giovane sorriso a far felice il mondo che non ne vuol sapere dei desideri degli umani. Ma forse hanno ragione le ragazze: mica si vorrà desiderare la guerra? Tuttavia, la domanda resta: a Miss Italia piace questa Italia? Castana, oc-

chi verdi, 18 anni appena compiuti, la nuova reginetta di bellezza - scusate, ma si dice proprio così - è nata a Cosenza e vive a Fiumefreddo con la famiglia. Alle finali, dicono le cronache, ha vinto anche la fascia di Miss Sasch. Alta 1.82 l’altezza, si sa, è mezza bellezza fino a poco tempo fa era quasi imbarazzata dalla sua altezza. Adesso si gode invece la vittoria che in parte, diciamo per metà, deve proprio al fatto di esser fuori di misura: «Non ci posso credere, saluto la Calabria» è stato il suo primo commento. Già la Calabria. Non l’Italia, la Calabria. La sua terra, la terra di Miss Italia è la Calabria e, forse, Maria si sente prima di tutto calabrese, poi, solo dopo, anche italiana. Che per essere Miss Italia è un bel paradosso. Italiano, naturalmente. Il paese di Maria che è diventata Miss Ita-

lia è Fiumefreddo. Sapete dove si trova Fiumefreddo? Località di mare in provincia di Cosenza, affaccia sul Tirreno e a dispetto del nome vi fa un gran caldo d’estate e un freddo pungente d’inverno. È un posto non facile da raggiungere e, dunque, non facile da lasciare. Ma è difficile che si possa avere un futuro ricco di aspettative a Fiumefreddo. Almeno fino a ieri. Diventare Miss Italia qualcosa comporta nella vita di una ragazzina di 18 anni, o no? In Calabria ogni mattina la sveglia per Maria Perrusi suonava alle 5.30. Bisogna alzarsi presto per prendere il pullman e andare a scuola, quinta ragioneria. Continuerà Maria a prendere quel pullman? Continuerà a caricare la sveglia la sera per sentirla suonare puntuale all’alba? Certo è che la sveglia le è arrivata dal concorso di Salsomaggiore.

Al titolo di Miss delle Miss - ha confessato - ha sempre pensato come a un’opportunità di lavoro: «Io vivo in un posto con tremila abitanti». L’intraprendenza è stata premiata. Nella vita bisogna pur provarci, bisogna pure sapersela meritare un po’ di fortuna. Il colpo di fortuna prima o poi arriva per tutti, ma quando arriva bisogna farsi trovare pronti. L’occasione per non vivere più «in un posto di tremila abitanti» - ma perché, è poi così brutto vivere in un paesino con tremila abitanti? - è arrivata: ora Maria dovrà dimostrare di essere capace di sfruttare bene e al meglio l’occasione del premio. Ha preso la fascia e la corona davanti a mamma e papà, Lina casalinga e Francesco operaio. Naturalmente, i suoi primi estimatori e “grandi elettori”, ma anche i primi ad essere increduli. Chissà cosa passa per la testa ai genitori di Miss Italia? Maria - dicono sempre le cronache - ama Laura Pausini e Celine Dion, ma il suo mito è Sophia Loren: «Perché ha sempre mantenuto le sue tradizioni, anche la cadenza nel modo di parlare».

Auguri, Maria , l’Italia ti ha portato fortuna, vedrai, porterai fortuna all’Italia.


panorama

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Proposte. In margine al dibattito di Chianciano: per non perdere la sua identità, l’Udc deve allearsi con il Pdl

Cari centristi, cambiamo insieme la politica di Giuseppe Gargani aro direttore, ho seguito una parte del dibattito che si è tenuto a Chianciano e ritengo molto importante la riflessione che l’Udc sta facendo per rilanciare una sua posizione e una politica di centro capace di superare gli attuali poli in competizione. È per questo che offro a te e ai tuoi lettori una mia riflessione.

formula politica. Finora - lo ha rilevato con acutezza Angeletti nel suo intervento a Chianciano - esiste in Italia il berlusconismo e l’antiberlusconismo: questo si che è chiaro bipolarismo dannoso e sterile che non dà spazio ad altro e quindi la vita politica è asfittica.

C

La sfida politica che l’Udc fa o vuole fare interessa tutti perché si riferisce all’avvenire politico del nostro paese. La situazione attuale di grande fermento e di scarsissima coesione all’interno del Pdl e del Pd determina una condizione favorevole per il superamento dell’attuale blocco definito “bilaterale” che vede finora l’Udc appunto in una posizione anomala e apparentemente fuori gioco. Il fulcro del ragionamento sviluppato a Chianciano sta nella critica al “bipolarismo” causa di tutti i mali del paese e del mancato respiro politico e dialettico delle parti in causa: l’Udc assegna a se stessa la funzione di superamento dell’attuale sistema che ritiene dannosamente “bipolare” ed è cosa importante. Dico subito

I movimenti che sono protagonisti oggi, invece, sono scomposti perché ognuno risponde a logiche diverse. I partiti non riescono a far venire a galla le peculiarità e le logiche politiche a cui si ispirano e determinano quindi un “bipolarismo negativo” che non fa cre-

Cedere alle lusinghe del Partito democratico significherebbe tradire la vostra storia e limitarsi a una crociata contro il governo Berlusconi che il “bipolarismo” non è un “sistema politico” che bisogna accettare o condannare: è la conseguenza del modo di essere e di competere dei partiti che, se omogenei e solidali al loro interno determinano posizioni precise e contrapposte con partiti unitari e coesi. Il “bipolarismo” non è neppure una

scere la società. I partiti sono ossessionati dalla necessità di stare insieme per fare maggioranza e aggregano tutto quello che è possibile, indiscriminatamente: questa è la causa del malessere non il bipolarismo come tale che non esiste. La causa di questa situazione riconosciamolo una volta per

sempre sta nella scelta dei sistemi elettorali dal referendum del 1991 in poi. Se c’è dunque un bipolarismo malato, la ragione è nel tipo di votazione che offriamo agli elettori. Nel 2000 il Parlamento ha votato una legge elettorale, dopo lo sciagurato Mattarellum, che assegna il premio di maggioranza alle coalizioni per cui vi sono state aggregazioni non coalizioni. E la situazione si è ingessata. Orbene, l’Udc ha due vie: o sceglie di caratterizzare la sua autonomia con liste proprie e investe per un futuro capace di rompere la logica attuale o fa una scelta di adesione ad una delle parti in competizione e in questo caso è inutile protestare “contro” il bipolarismo perché alleandosi lo rafforza e lo alimenta.

E dunque la mia valutazione politica, ma credo di tanti, è che se l’Udc segue la seconda strada e sceglie il Pd rinnega i suoi valori e non sconfigge il berlusconismo perché quel partito non esiste, come ripetono tutti e non crede ad una politica di alleanza, ma solo ad un accordo per far fuori Berlusconi. Una illusione nient’affatto poli-

tica che ancora una volta oscurerebbe il centro; d’altra parte per fare il centro-sinistra dovrebbe esistere la sinistra che per Bersani è quella vecchia e tradizionale, postcomunista e niente altro, per Franceschini è l’equivoco del partito democratico: in entrambi i casi la scelta tra socialdemocrazia e sinistra radicale non è stata fatta. Se l’Udc sceglie il Popolo della Libertà lo rafforza e dà un contributo notevole e determinante per caratterizzare e ispirare maggiormente il centro, rafforzare il moderatismo come metodo e cultura di governo che certamente è carente e alterato in un momento di violenza politica e istituzionale. Questa seconda scelta è una scelta intelligente per il presente e garantisce la governabilità; la scelta di autonomia è intelligente per il futuro e valida nonostante la “legge elettorale”. In ogni caso un rilievo di fondo che appartiene ai canoni fondamentali della nostra storia è che le alleanze o sono politiche o non sono. L’equivoco dell’accordo programmatico nasconde la volontà di non restare fuori dai giochi di potere ed è appunto un equivoco.

Ritratti. Il «duro» del sindacato di sinistra continua a dire di no. Ma il suo modello era diverso

Rinaldini non fa rima con Sabattini di Giuliano Cazzola e vogliamo chiamare le cose con il loro nome quello compiuto dalla Fiom è un vero e proprio blitz. Con una tempestività veramente singolare, la Fiom si è presentata al tavolo del negoziato con la Federmeccanica ponendo direttamente la pregiudiziale dell’accordo quadro del quale ha contestato l’applicabilità non avendolo essa sottoscritto. Poi, prima che la FimCisl e la Uilm-Uil e la Federmeccanica avessero il tempo di dire beo, il Comitato Centrale della Fiom ha proclamato uno sciopero generale di otto ore (un’astensione pesante in un momento come quello in cui versa l’economia nei settori manifatturieri) per il 9 ottobre, contro un accordo di rinnovo separato (uno sciopero preventivo visto che di accordi siffatti non se ne sono ancora raggiunti).

S

ria di Cgil, Cisl e Uil nella formazione delle piattaforme rivendicative. Un conto è che, durante una campagna contrattuale, ci sia la solita eccezione conflittuale dei metalmeccanici, in un contesto sufficientemente collaborativo per le altre categorie interessate; altro è la scissione orizzontale in partenza – come vuole la Fiom – che divida tutta la platea dei carnet contrattuali. Il disegno di Epifani era evidente: convincere la Confindu-

Lo sciopero preventivo proclamato per il 9 ottobre sembra quasi un macigno lanciato dalla Fiom sul dialogo possibile tra Epifani e Marcegaglia

Ma la “follia” del gruppo dirigente della Fiom è assolutamente “lucida”. Rinaldini e compagni hanno voluto togliere di mezzo ogni possibile invito alla prudenza da parte della Confindustria nei confronti della Federmeccanica. Infatti, se ha avuto un senso il colloquio svoltosi a Cernobbio tra Emma Marcegaglia e Guglielmo Epifani, i due leader si erano impegnati almeno ad una gestione più soft dei dissensi. A favorire, quindi, ogni possibile convergenza tra le federazioni di catego-

stria a chiudere un occhio sulla coerenza delle piattaforme contrattuali rispetto ai principi e alle modalità di cui all’accordo quadro del 22 gennaio, al fine di poter affermare che, alla prova dei fatti, la Cgil era riuscita ad affermare le proprie posizioni e a ricucire lo strappo dell’intesa separata. Adesso – con l’accelerazione che la Fiom ha voluto imprimere ai processi, dichiarando uno sciopero prima ancora che Emma Marcegaglia potesse consigliare alla Federmeccanica di prendere tempo – tutto diventa più difficile perché il clima di rissa nei metalmeccanici condizionerà necessariamente e in modo negativo anche il lavoro delle altre categorie.

Rinaldini e Cremaschi sono due «sandinisti» antemarcia. Ovvero amici e discepoli della prima ora di Claudio Sabattini, una sorta di «genio del male» (lui stesso si definiva «il maligno»), ora prematuramente defunto, che ha diretto la Fiom negli anni Novanta, dopo che, venti anni prima, era stato incolpato (ingiustamente, dal momento che non era lui il solo responsabile) della sconfitta alla Fiat nell’autunno del 1980. Chi scrive ha conosciuto bene Sabattini: un dirigente dotato di un’intelligenza fuori del comune, ma portatore di una linea politica e di condotta spesso opinabile, quasi mai condivisibile. Eppure, Sabattini è stato l’ultimo segretario generale della Fiom capace di concludere un contratto senza farsi estromettere dal negoziato e senza dover ricorrere a lotte durissime per rinnovare il contratto di lavoro. Purtroppo, in questo caso i discepoli non sono all’altezza del maestro.


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ella passione dei bambini di Kabul per gli aquiloni è stato detto tutto: solo ieri Hosseini era nella capitale afgana per giocare con i più giovani sotto il vento battente che spazza l’Afghanistan senza sosta. L’amore per quel gioco si perde nella notte dei tempi, ma da un paio d’anni è “lavorato ai fianchi”, nell’immaginario dei ragazzi di Kabul, da un altro sport. Meno nobile e più di strada, meno delicato e decisamente più rock: lo skateboard. Arrivato dritto al cuore dei più giovani grazie a Oliver Percovich. Australiano, trentaquattro anni, un viso sempre sorridente e bello come il sole, Ollie - così lo chiamano tutti - è arrivato in Afghanistan due anni e mezzo fa quasi per caso, seguendo la sua fidanzata che lavorava per una delle tante Ong internazionali. Doveva fermarsi poco più di un mese e da casa si era portato la tavola da skate, la sua passione. Nella Kabul devastata dalla guerra e praticamente priva di strade, non aveva molti posti dove esercitarsi, ma bravo com’era improvvisava qua e là. Suscitando l’interesse di frotte di ragazzini. «È stato amore a prima vista - ci racconta. I bambini non erano solo incuriositi, volevano provare e riuscivano ad andare fin da subito. Una predisposizione, mi vien da dire, naturale». Colpito dall’accoglienza, divertito dai ragazzi, comincia a dare appuntamento a qualcuno di loro per dargli qualche lezione. E questi non solo vanno, ma aumentano. Non solo giocano, ma cominciano a portarsi dietro le madri. La data della sua partenza slitta, al parco improvvisato fanno capolino le prime bambine. Ollie non ha skate a sufficienza per fronteggiare il successo delle sue lezioni, chiama i suoi amici con Skype, gli chiede di fargliene arrivare un pò. La lega degli afecionados australiani si mobilita, gliene regala una trentina. Intanto la sua relazione va a monte e mentre la sua ragazza torna a Sydney lui decide di fermarsi a Kabul.

D

La sua è una storia di caparbietà e riscatto sociale: insegnare ad andare sullo skate ai bambini e ragazzini afgani, disabituati a sport e divertimenti dopo anni di regime talebano e poi di guerra. Fino a pochi giorni fa le lezioni si tenevano solo in un’area dismessa della città, ma la scorsa settimana ha aperto il primo padiglione della sua scuola «una scuola vera - dice Ollie - un parco strutturato» che sarà completato in primavera in un quartiere povero di Kabul. Lo spazio glielo ha dato la Commissione olimpica afgana, i soldi - un milione di dollari - sono arrivati grazie a una certosina operazione di fundraising che ha visto in prima linea le federazione di skateboard canadese,

Oliver Percovich ha 34 anni e vive con la tavola da skate sotto braccio. Due anni fa è a Ha convinto gli sponsor a finanziarlo e ha appena aperto un parco dove masch

Ollie, il cacciator

di Luisa

tedesca, norvegese e danese. Il nome, invece, glielo ha dato lui, Ollie. E che nome: Skateistan. Il logo è un un skateboarder che salta su un mitra e lo spezza. «I bambini afgani non hanno avuto le stesse opportunità degli altri, hanno bisogno di un ambiente positivo, sereno. Nel nostro piccolo - Ollie parla sempre al plurale, non dimenticando mai i suoi compagni di squadra, quasi tutto volontari che arrivano da mezzo mondo - noi cerchiamo di darglielo». Ci riescono: il 20 agosto, il giorno delle elezioni, le strade di Kabul erano deserte. Nessuno usciva per timore degli attentati minacciati dai talebani, le forze Isaf monitoravano una trentina di possibili kamikaze arrivati in città. L’atmosfera era surreale. Un solo luogo era pieno di bambini, bambine e mamme: il suo parco dei divertimenti. Una piccola oasi di sicurezza, dove nessuno oserebbe farsi esplodere.

In un paese islamico, dove la divisione fra i sessi è rigida e senza eccezioni, Percovich si è impegnato per raccogliere fondi e superare i divieti. I suoi obiettivi sono promuovere l’integrazione tra bambini di varie classi sociali e tra maschi e femmine; insegnargli l’importanza di un’attività sportiva; quando crescono offrirgli una piccola opportunità di lavoro (già adesso, alcuni dei primi alunni sono diventati a loro volta maestri e guadagnano qualche dollaro al giorno). «Ma soprattutto - dice Ollie mentre non smette un attimo di saltellare da un parte all’altra della pista - fargli capire l’importanza dell’istruzione e della formazione. Nella nuova scuola di Skateistan ci saranno anche delle classi di inglese e di informatica. Sotto questo punto di vista, potrei dire che lo skate è lo specchio per le allodole per farli avvicinare al mondo dello studio. Non solo: è anche la carota con la quale riesco ad avvicinare le madri e qualche volta i padri per motivarli a mandarli a lezione in futuro». Al momento, Percovich usa le ore di skate per raccogliere i ragazzi in classi informali e farli studiare ad alta voce, ma a Skateistan ci saranno banchi, sedie e lavagne. La nuova sede avrà rampe e le classiche strutture ondulate della disciplina e una volta completa-

Questa è una storia di caparbietà e riscatto sociale: insegnare ad andare sullo skate ai bambini afgani, disabituati a sport e divertimenti dopo anni di regime talebano e poi di guerra, per invogliarli a studiare to sarà il centro di skate più grande dell’intera Asia centrale. «Un primato che non è fra i più difficili - si schernisce - da queste parti nessuno lo pratica..». Sarà. Certo è che Ollie sembra instancabile: ha convinto dei donatori privati a pagare una retta di 60 dollari al mese per mandare i “suoi” bambini in altre strutture pubbliche e non farli gironzolare a vuoto. «Ho solo pensato che magari possiamo avere un piccolo ruolo in questo paese ed evitare che alcuni bambini si trasformino in terroristi». Sulla scia del suo entusiasmo, nel 2008 ha raccolto da solo 7mila dollari. La sua ex fidanzata ha continuato ad aiutarlo riuscendo a fargli avere una sov-


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arrivato a Kabul e ha scoperto che i bambini amavano il suo sport. Oggi è il loro mito. hi e femmine possono allenarsi assieme. E dove le loro mamme sono al sicuro

re di skateboard

a Arezzo

In apertura, l’allenamento dei ragazzi di Skateistan. Sotto, Oliver Percovich riceve l’assegno di mille dollari che una soldatessa tedesca gli ha regalato tagliando i capelli ai suoi commilitoni. Sotto, Fazila, dieci anni e istruttrice di un gruppo di coatenei

Alcuni uomini non vedono di buon occhio le classi miste della scuola ma finora, a parte qualche minaccia, nessuno ha mai paventato la chiusura del centro. Dove si parlano tutte le lingue del Paese venzione dal governo canadese di 15mila dollari. E mese dopo mese i suoi “alunni”sono passati da 90 a 360.

Oggi sono circa cinquecento, ma l’obiettivo, come abbiamo già scritto, è più ambizioso: diventare una scuola a tutti gli effetti, offrendo programmi specifici a seconda delle inclinazioni degli studenti. Al momento, il progetto (totalmente no-profit) prevede oltre alla pratica sportiva, lo studio delle diverse etnie del paese, una formazione sanitaria di base, educazione civica, informatica, storia dell’arte e del disegno e delle lingue. Il reclutamento degli studenti, oltre alla via più semplice - il passaparola - è anche veicolato da

Undici anni, va a scuola e frequenta il parco di Ollie

Mi chiamo Fatana e voglio restare a vivere in Afghanistan Fatana ha i pantaloni rosa e un cappellino da baseball. Grandi occhi scuri e capelli lunghi, legati ma non coperti dal velo. Fra qualche mese dovrà cominciare ad indossarlo. Da un anno frequenta il parco di Ollie ed è diventata molto brava. È timida, come tuttii bambini afgani, ma anche se sottovoce e a “mozzichi e bocconi” si apre e si racconta. Come ti chiami? Fatana. Quanti anni hai? Ne ho appena compiuti 11. Da dove vieni? La mia famiglia è di Kandahar. Avevi mai visto delle persone andare sullo skateboard prima di venire a Kabul? Una sola volta in televisione. Sulla Noorin Tv. Vai a scuola? Sì, in un quartiere chiamato Macroryan. Qual è la tua materia preferita? Il dari (la loro lingua. Dunque è come dire: l’italiano, ndr) Che progetti hai per il futuro? Pensi di lasciare l’Afghanistan? No, assolutamente. Io vivrò sempre in Afghanistan. Hai degli hobbies? Mi piace correre.. Lo pratichi come sport? No. Però corro con mio padre tutte le mattine. Cos’altro ti piace? Mi piace andare sullo skateboard. I miei esercizi preferiti sono il salto e il tic tac con la tavola, da un lato all’altro. Il tuo cibo preferito? Il riso! Se avessi 200 dollari, come li spenderesti? Li darei alla mia famiglia e loro deciderebbero cosa farci.

ong sparse nel paese che gli segnalano ragazzi promettenti disponibili a trasferirsi a Kabul. Anche qui, di ogni etnia e livello sociale. «Perché conoscersi - fra di loro, intendo - è fondamentale» ci spiega Percovich. Nato in Australia ma cresciuto in Papua Nuova Guinea, nel 1995 Ollie partecipa (e arriva terzo) alla Mystic Cup, una gara internazionale di skate che si tiene a Praga. Ma se la passione lo porta a scivolare in ogni piscina vuota che incontra (parole sue), i suoi studi lo portano a specializzarsi in management nelle aree di rischio. La sua sfida in Afghanistan, dunque, era un po’ scritta nelle sue stelle.

Oggi al suo “club” (come ama definirlo) lavorano in dieci: c’è Max, 30 anni, che si occupa dei media, Shams, 22 anni, afgano, che è il capo degli istruttori, Mirwais, 21 anni, afgano (rifugiato in Pakistan durante il regime talebano), che cura i rapporti con le istituzioni e le scuole locali. «Un fenomeno: parla inglese, dari, pashto e urdu!». Asheesh, 35 anni, direttore di Skateistan dagli Stati Uniti (dunque un fund raiser vero e proprio...), Kristoffer, 30 anni, danese, che finora ha portato nella casse di Skateistan 60mila dollari, Nell, americana laureata in letteratura sanscrita ad Harvard che va e viene dall’Afghanistan, Sharma, australiana, che si occupa di sviluppo nelle aree rurali, Jim - il più giovane - che è il

webmaster e infine Alexandra, tedesca, che si occupa della parte grafica e pubblicitaria. Una squadra che è un continuo work in progress, aperta all’aiuto di tutti, anche per tempi brevi. Proprio a fine agosto, una soldatessa tedesca con un passato da parrucchiera, Alexandra, ha aiutato Ollie tagliando i capelli ai suoi commilitoni e donando gli incassi a Skateistan: mille dollari tondi tondi. Subito utilizzati per pagare gli studi a due bambini.

Certo, la sfida di Oliver in Afghanistan non è passata inosservata: soprattutto l’aver messo assieme maschi e femmine per alcuni è stato un vero e proprio shock. «Nessun afgano mi ha detto di smettere - ci dice sudato e nella sua maglietta nera ma è chiaro che alcuni uomini padri e fratelli - non sono d’accordo con noi.Vede quel signore - ci dice indicando un giovane padre che richiama la figlia dalla piazzetta di allenamento - arriva sempre in anticipo e si porta via la bambina senza fermarsi mai a parlare con nessuno. È chiaro che disapprova». Poche settimane fa, due uomini si sono presentati al parchetto intimando a Percovich e a un volontario di smetterla di far partecipare le ragazzine. La discussione ha preso una piega poco felice ma la questione, a parte uno spintone, si è chiusa là. La maggior parte della bambine si dice sostenuta da entrambi i genitori, ma ci sono stati dei casi in cui alcune ragazze sono state picchiate dai maschi della famiglia per essere venute qui a provare lo skate. Il programma di Ollie Percovich è dedicato alle bambine fino ai 12 anni compiuti e ai ragazzi fino ai 17. Ma la maggior parte dei maschi non supera i 13 anni. Le femmine, come vuole la legge islamica, una volta raggiunta la pubertà non possono più frequentare l’altro sesso. È per questo che Ollie cerca di attirarne quante più può e invita le appassionate di skate a passare qualche mese nella sua palestra. Non solo: alle più brave delle sue sportive paga 2 dollari al giorno per allenare gli adepti. È il caso di Fazila, 10 anni, capo coperto da velo, che scorrazza e saltella sul suo skate e riesce così a pagarsi la scuola quasi interamente con i suoi guadagni. Ma il più attivo e carismatico, fatto salvo Ollie, è Mir Wais Ahmad, 17 anni, che di dollari ne guadagna 10 al giorno e si dice quasi pronto a sfidare il suo “capo” in una gara. «Quel giorno è molto vicino - dice Ollie - e sarà un sollievo se riuscirà a battermi. Mi sento il suo fiato sul collo. Faremo una gara a due la prossima primavera. E come tutte le sfide che si rispettano si terrà in un giorno simbolico: l’inaugurazione ufficiale di Skateistan».


mondo

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Unione europea. Oggi il Parlamento di Strasburgo si confronta per scegliere la nuova guida dell’organismo. Incognita “Verde”

Commissione in panne L’affaire Magna-Opel apre un caso diplomatico E la riconferma di Barroso non è più scontata di Sergio Cantone ischio di frontale in vista nell’ultimo rettilineo per José-Manuel Barroso. Il traguardo sarebbe la sua riconferma alla presidenza della commissione europea, ma ci si è messa di mezzo Opel. Infatti la vendita sostenuta da Angela Merkel a Magna puzza di aiuti di Stato. La commissione dovrà indagare. E nel caso in cui i soldi sborsati dallo stato federale per accompagnare Opel dal crack di GM alla vendita siano stati condizionati al salvataggio dei posti di lavoro in Germania a detrimento dello stabilimento Belga di Anversa, la commissione dovrà

R

ripete per Barroso la stessa circostanza che lo aveva portato in rotta di collisione con Sarkozy all’inizio dell’anno. Lì il frontale fu con Peugeot Psa. Nulla di grave, ma qualche ammaccatura è rimasta. Fu proprio a partire da quel momento che il presidente francese cominciò a essere piuttosto ambiguo dei confronti della riconferma di Barroso. Passò da un appoggio chiaro a frasi di circostanza che lasciavano aperte molte porte. Atteggiamento, quello dell’Eliseo, che rafforzò gli argomenti degli oppositori del portoghese.Tantoché si parla con insistenza di un asse eu-

L’Esecutivo Ue deve indagare sui fondi tedeschi a Opel in vista della fusione. Ma esiste la possibilità di dover richiamare Berlino per il suo comportamento (e perdere la Merkel) agire contro la Germania. Per Barroso la situazione è imbarazzante. Fare passi impopolari in Germania, proprio quando i tedeschi stanno per votare alle elezioni federali potrebbe mettere nei guai Merkel. La cancelliera quindi potrebbe togliergli il suo appoggio. Così come gli eurodeputati tedeschi al momento dell’investitura del presidente della commissione questa settimana a Strasburgo. Si

ropeo Sarkozy/Cohn-Bendit. E questo avviene proprio quando il parlamento europeo è diviso come non mai per la nomina di un presidente della commissione europea. Questa volta passione, ideologia, crisi economica e nazionalismi economici l’hanno spuntato sulle quiete, discrete e felpate procedure di investitura del capo dell’esecutivo comunitario. Tranquilla e consensuale fu la scelta di Romano Prodi nel ’99,

sebbene un po’ più politicizzata che in passato. Dev’essere José Manuel Barroso da Lisbona che accende gli animi. Perché cinque anni fa il suo nome uscì dal cilindro di Tony Blair per stendere a mai più la nomina dell’allora primo ministro Belga Guy Verhofstadt. Era il 2004, il federalista Verhofstadt era la mascotte franco-tedesca di Chirac e Schröder.

José-Manuel invece era un primo ministro portoghese di centro-destra in crisi di popolarità, che onorando la secolare amicizia luso-britannica aveva appoggiato la guerra in Iraq ospitando il vertice di falchi (Bush, Blair, Aznar e sè stesso) alle Azzorre. Ospitò la coalizione dei volenterosi non a caso nell’arcipelago portoghese a metà navigazione tra Europa e America, simbolo dell’atlantismo più fedele. Ebbene fu la foto di famiglia di quel summit che ha condanno Barroso al cospetto degli anti-guerra in Irak. In una sola serata del consiglio europeo di giugno 2004, la storia dell’Ue cambiò e divise gli animi. Gli avversari videro da subito in Barroso l’incarnazione del modello atlantico opposto al modello renano. L’ultra liberale Barroso, l’interventista Barroso creò, suo malgrado, un’opposizione vera e reperibile in seno all’Ue, fatta di governi doppiogiochisti (francese e tedesco) e di gruppi politici. E proprio sull’Iraq il pre-

sidente della commissione, incalzato dal Verde Daniel CohnBendit, suo oppositore accanito, ha detto di recente: «Il vertice delle Azzorre me lo porto dietro, ma io ero contro la guerra, lo dissi anche a Bush e a Blair, anche se in extremis sentii il dovere di appoggiare degli alleati, delle democrazie che andavano alla guerra contro un dittatore come Saddam. Avevo ricevuto informazioni sulle armi di distruzione di massa». Per poi concludere, misterioso: «Avrei anche delle verità da dire su quel periodo, le rivelerò nelle mie memorie. Ma sono ancora troppo giovane per scriverle». Dovrebbe forse tirare in ballo gli allora governi di Parigi e di Berlino, e questo per chi aspira a un secondo mandato alla presidenza della commissione potrebbe essere piuttosto controproducente. Barroso, sempre involontariamente, dimostra che nell’Ue il bianco e il nero non esistono, ma c’è una grande zona grigia con aree più chiare o altre tendenti al fumo di Lon-

dra. Prendiamo ad esempio il caso della direttiva sui servizi, la mitica Bolkenstein.

L’Ue si divise tra chi voleva un mercato dei servizi liberalizzato e chi con un po’ più di controllo e limiti, soprattutto sulla libertà di circolazione dei lavoratori con i salari più bassi. A uno sguardo superficiale poteva sembrare che la divisione fosse su base ideologica, dunque di gruppi politici contro una direttiva difesa dalla commissione. In realtà, è vero che i partiti di sinistra gridarono come ossessi contro la direttiva «Frankenstein», che voleva importare idraulici con salari e diritti polacchi in Francia a fare concorrenza a idraulici con tariffe e diritti francesi. Ma analizzando, ad esempio, il gruppo socialista si scopriva che i partiti socialisti dei nuovi stati membri e i laburisti britannici erano a favore della direttiva. E a destra stessa cosa, il fa-


mondo

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Teheran si candida a diventare primo fornitore dell’Unione. Senza Nabucco

L’incognita del petrolio d’Iran di Massimo Fazzi

BAKU. L’Iran vuole diventare il principale fornitore di gas dell’Unione Europea, e per farlo è pronto a valutare una pipeline alternativa al Nabucco, nel caso venga estromesso dal progetto. Lo ha sottolineato ieri a Baku Hasan Torbati, il rappresentante della società pubblica del gas iraniano, secondo quanto riferisce l’agenzia d’informazione Trend. «Nei prossimi dieci anni saremo il principale produttore ed esportatore di gas in Europa e siamo pronti a realizzare i nostri progetti indipendentemente», ha dichiarato Torbati. Che poi ha aggiunto: «Se l’Ue deciderà di collegare il Nabucco alla rete iraniana esporteremo il gas attraverso questa pipeline, altrimenti svilupperemo rotte alternative attraverso la Turchia o l’Iraq e la Siria fino alla Grecia». Torbati ha concluso il suo intervento dichiarando che l’Iran «investirà 38 miliardi di dollari nel settore del gas entro il 2015, cos’ da es-

moso spauracchio dell’idraulico polacco venne da un partito francese ultra-conservatore ed euroscettico, il Movimento Soveranista di Philippe de Villiers. Mentre alcuni membri dell’Ump, il partito di Chirac e di Sarkozy, come Jaques Toubon collaborarono attivamente con i sindacati per annacquare la direttiva. Il portoghese quando sente parlare di direttiva Bolkestein scuote il capo e se ne dissocia con amarezza. Effettiva-

fiammingo ed ex alto funzionario nel gabinetto di Frits Bolkenstein: «Barroso è un ottima scelta perché ha capito che bisogna andarci cauti e con diplomazia nei rapporti con gli stati membri, altrimenti il sistema si blocca», Eppink aggiunge che alla commissione europea ogni funzionario fa più o meno quello che gli “suggerisce”il suo Paese di provenienza anche in barba al commissario o al presidente. Quindi un pre-

Il cammino per il prossimo leader è denso di ostacoli: dal voto irlandese del Trattato di Lisbona agli appuntamenti climatici, dalla riforma finanziaria al G20 di Pittsburgh. E manca una posizione comune mente il liberista senza complessi Frits Bolkestein era sì un commissario olandese al mercato interno, ma era un membro della commissione precedente a quella di Barroso, vale a dire della commissione Prodi. Ma la grancassa di stampa e sindacati francesi non bada a certi dettagli marginali.

Ormai Barroso era l’uomo da abbattere, perfino il presidente Chirac, nervoso per i sondaggi negativi in vista del referendum sulla costituzione europea, gli intimò di tacere: «Ogni volta che il presidente della commissione apre bocca il sì al trattato costituzionale perde elettori». Non è stato Barroso un campione dell’integrazione europea, anzi, è considerato da molti e soprattutto dal tandem federalista e pro-metodo comunitario Cohn-Bendit /Verhofstadt «l’uomo del consiglio, colui ha trasformato l’esecutivo comunitario in dependance delle cancellerie degli stati membri». Per l’eurodeputato olandese, Derk-Jan Eppink, rappresentante di un piccolo partito conservatore belgo-

sidente della commissione che si volesse opporre ai desiderata di Parigi, Berlino o chi per essi, sarebbe ostacolato dalla propria amministrazione. Ecco perché Barroso cerca di dire al proprio interlocutore la frase che vuole sentirsi dire. Di fronte ai popolari esalta le virtù dell’economia sociale di mercato, anzi lo dice in tedesco sozial markt wirtshaft per compiacere la forte delegazione tedesca, i Merkel Kinderen. Ai liberali propone più concorrenza e libero mercato aprendo brecce in un gruppo che fino a luglio era pronto a dire no a Barroso. Così sintetizza un Graham Watson (ex capogruppo liberale e democratico) in vena di fascia TV notturna e di bollino rosso: «Barroso con il suo programma per i prossimi cinque anni ha saputo accarezzare i punti erogeni del parlamento europeo. Penso che molti deputati abbiano cambiato opinione sul votargli contro». Per i socialisti invece il diabolico lusitano ha in serbo una sorpresa sull’impatto sociale delle direttive e la difesa del modello sociale europeo: «Pensate che

sere pronto a esportare in Europa dieci miliardi di metri cubi di gas all’anno».

L’ambasciatore della Repubblica islamica in Azerbaijan, Muhammadbaghir Bahrami, ha spiegato oggi che «senza la partecipazione dell’Iran, il progetto Nabucco non vedrà la luce». Una volta realizzato, il gasdotto Nabucco trasporterà in Europa gas naturale dal Caucaso, dal Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente, collegando la Turchia all’Austria. Uno degli obiettivi della nuova pipeline è rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento di gas per i Paesi dell’Unione europea. Attualmente le società che fanno parte del consorzio per la costruzione del Nabucco sono Botas (Turchia), Bulgargaz (Bulgaria), Transgaz (Romania), Mol (Ungheria), Omv (Austria) e Rwe (Germania). Rimane tuttavia l’incognita Russia, che potrebbe non gradire il progetto.

Obama vuol dare agli Usa quello che gli Europei hanno da quasi mezzo secolo». Alcune delegazioni cedono e si dicono pronte al sì, spagnoli, portoghesi, olandesi, forse britannici e polacchi, qualche tedesco. Un no certo viene invece dai soliti francesi. La frattura del gruppo duole, probabilmente opteranno per l’astensione.

Con i Verdi di Cohn-Bendit invece si tira una zappata sui piedi proponendo per la prossima commissione un portafoglio per le politiche sul cambio climatico. Domanda di Dany il rosso: «Avrà come base la Direzione Generale ambiente?» risposta: «No». La sala: indignazione e risate sarcastiche. La DG ambiente è nota per essere la cattedrale della lotta contro il riscaldamente globale. Un presidente della commissione non è come un primo ministro, ha bisogno di una maggioranza quasi-totale. Ha bisogno dei voti dei tre gruppi principali per lavorare serenamente e non essere un’anatra zoppa. Socialisti e Liberali pur se divisi sono ben lungi dal garantire un voto favorevole al completo. La soluzione che sembra profilarsi è pletorica come talvolta solo l’Unione europea sa essere, ma pare che i servizi giuridici del parlamento abbiano dato l’avallo. È un’idea del sulfureo Verhofstadt, appoggiata da alcuni socialisti, votare due volte per Barroso. Una volta questa settimana, con il trattato di Nizza, l’altra a ottobre con il trattato di Lisbona, sempre che gli irlandesi lo approvino. Insomma, ci sono ancora troppi ma e il tempo stringe perché il presidente della commissione europea sarà chiamato a dare una risposta univoca ed europea alla gestione del dopo crisi economica.

Nella foto in alto, il Commissario europeo José Barroso. Dall’alto: Angela Merkel, Cancelliere tedesco; Daniel Chon-Bendit, leader dei Verdi francesi; l’emiciclo di Strasburgo. Nella pagina a fianco l’incontro fra Bush, Aznar, Blair e Barroso all’inizio del primo mandato del portoghese nelle Azorre


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Proposte. L’amministrazione Obama ha scelto i giusti interlocutori segue dalla prima A metà luglio la Clinton ha affermato che «i Paesi arabi hanno la responsabilità (…) di prendere delle misure per migliorare i rapporti con Israele e preparare la gente di questi Paesi ad abbracciare la pace e ad accettare il posto ricoperto da Israele nella regione». Un mese dopo Barack Obama si è detto fiducioso di «vedere non solo un cenno da parte israeliana, ma anche da parte dei palestinesi, riguardo a questioni di istigazione all’odio e di sicurezza, come pure da parte dei Paesi arabi che mostrano la loro disponibilità nei confronti di Israele». Secondo Laura Rozen, Obama «ha inviato delle lettere ad almeno sette Paesi arabi e del Golfo chiedendo delle misure atte a costruire la fiducia nei confronti dello Stato ebraico.» (Di questi Paesi fanno parte il Bahrein, l’Egitto, il Marocco, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.) In una di tali lettere, inviata il 7 luglio a Re Mohammed VI del Marocco, Obama ha espresso la sua speranza che i Paesi arabi prenderanno delle misure per porre fine «all’isolamento» di Israele in Medio Oriente e che «il Marocco avrà un ruolo da leader nel colmare i divari tra lo Stato ebraico e il mondo arabo».Tra gli esempi di misure per costruire la fiducia: l’ipotesi che i Paesi arabi aprano delle loro sedi commerciali in Israele; che accordino il permesso agli aerei israeliani di attraversare il loro spazio aereo; che rilascino visti turistici ai cittadini israeliani; e incontri tra i funzionari arabi e i leader dello Stato ebraico.

Questo appello è stato accolto da parte araba in vario modo. Il lato positivo è che il principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad al-Khalifa ha asserito che «è necessario che tutte le parti prendano dei

Israele, gli Usa e una nuova pace Nei negoziati in corso con la Palestina vanno inseriti subito i Paesi arabi di Daniel Pipes

provvedimenti sincroni e dettati dalla buona fede, se la pace deve avere un’opportunità» e il ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh ha impegnato il suo governo «a creare la giusta atmosfera». Al contrario, il re saudita Abdullah non ha accolto l’appello di Obama per prendere delle misure atte a costruire la fiducia verso Israele nel corso di una visita presidenziale ai primi del giugno scorso. La Rozen

Washington ha scritto ad almeno sette Paesi del Golfo chiedendo delle misure volte a costruire la fiducia nei confronti dello Stato ebraico riporta che il sovrano saudita «ha lanciato una bordata nel corso del lungo incontro con Obama svoltosi a Ryihad». È andata così male che «poi i funzionari sauditi si sono scusati con il presidente americano per il comportamento del

sovrano». Così pure il ministro degli esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit ha chiesto retoricamente: «La normalizzazione è possibile finché continuerà la costruzione degli insediamenti?». La risposta è no, di certo. Malgrado le rea-

zioni negative, il coinvolgimento dei Paesi arabi che può offrire benefici a Israele dovrebbe contenere il male inflitto da “operatori di pace” diplomatici e che esercitano una filantropia ingenua e inefficiente. Quasi vent’anni fa in un articolo da me pubblicato sul Wall Street Journal nel giugno 1990, chiesi di includere i Paesi arabi nel processo di pace. Notai l’esistenza di una certa simmetria in cui «i palestinesi vogliono da Israele ciò che lo Stato ebraico vuole dai Paesi arabi: riconoscimento e legittimità. Pertanto, i palestinesi cercano concessioni da parte di Israele che, a sua volta, cerca di ottenere concessioni dai Paesi arabi». Nel pezzo asserii di accoppiare le parallele delusioni vale a dire che «Israele non riesce ad avere ciò che vuole dai Paesi arabi e i palestinesi non riescono ad ottenere ciò che vogliono dallo Stato ebraico».

Proposi dunque che il governo americano avrebbe dovuto «collegare le concessioni a Israele da parte dei Paesi arabi con le concessioni israeliane ai palestinesi». Ossia, quando i Paesi arabi danno a Israele qualcosa che esso vuole, allora ci si dovrebbe aspettare che gli israeliani diano qualcosa in cambio ai palestinesi. Questo approccio bilanciato, come da me asserito, «pone il peso dell’iniziativa direttamente a carico dei Paesi arabi, dove dovrebbe essere». Dopo il lungo, sterile e controproducente giro di negoziati esclusivamente israelo-palestinesi, fa piacere assistere finalmente a un tentativo di portare i Paesi arabi nei negoziati. Continuo ad asserire che i palestinesi devono essere sconfitti prima che i colloqui di pace possano svolgersi in modo proficuo, ma il coinvolgimento dei Paesi arabi migliora gli equilibri e riduce il rischio di danni.


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Pakistan. L’Hrcp accusa: «È un omicidio legalizzato»

Denunciò l’uso di fosforo bianco a Gaza (e collezionava cimeli nazisti)

Ucciso in carcere il cristiano accusato di blasfemia

Human Rights Watch sospende l’analista “anti-israeliano”

ISLAMABAD. È stato ucciso la notte scorsa in carcere il giovane cristiano arrestato il 12 settembre in un villaggio del Punjab con l’accusa di blasfemia. Lo ha riferito l’agenzia AsiaNews. Ieri gli inquirenti avevano confermato il provvedimento di custodia cautelare a carico di Fanish, 20 anni, per approfondire le indagini. Questa mattina i secondini del carcere distrettuale di Sialkot hanno trovato il corpo del giovane privo di vita e con segni evidenti di ferite.

NEW YORK. L’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch ha sospeso uno dei suoi principali analisti militari dopo aver scoperto che faceva collezione di cimeli nazisti. Marc Garlasco, questo il suo nome, era stato uno degli estensori dei recenti rapporti del gruppo che mettevano sotto accusa Israele per l’invasione di Gaza durante l’operazione “piombo fuso”, in particolare per il presunto uso di fosforo bianco. Il governo israeliano di Benyamin Netanyahu aveva accusato piu’volte Human Rights Watch di parzialita’ nelle sue analisi. Poi il sito filo israeliano Mere Rethoric ha scoperto ”l’hobby” di Garlasco, che è anche autore di un saggio di 400 pagine sulle medaglie naziste.

«È un omicidio legalizzato», accusa Nadeem Anthony, membro della Commissione pakistana per i diritti umani (Hrcp). Condannando «senza mezzi termini» l’ennesimo caso di violenze contro i cristiani, l’attivista spiega ad AsiaNews che «la polizia parla di suicidio: egli si sarebbe impiccato in carcere, ma questo non ha senso». Nadeem aggiunge che il giovane «ha subito torture, in seguito alle quali è deceduto». «Sono visibili - aggiunge - i segni delle percosse e delle ferite sul corpo, come emerge dalle fotografie». AsiaNews ha ricevuto degli scatti del corpo privo di vita che confermano le ferite inferte, le quali nulla hanno a che vedere con i segni di strangolamento da impiccagione. Fanish era stato arrestato il 12

Tornano i capitali stranieri sotto la Muraglia Auto e mattone in crescita, ancora guerra dei dazi con gli Usa di Pierre Chiartano li investimenti esteri in Cina hanno ripreso a crescere ad agosto. Dopo un avvio d’anno che aveva registrato un meno 17 per cento nella fiducia degli investitori stranieri nel Chung Kuò, c’è stata una decisa ripresa. Si tratta, precisa il ministero del Commercio di Pechino, del primo aumento dopo una serie di ribassi lunga dieci mesi consecutivi. Nei primi otto mesi dell’anno gli investimenti complessivi ammontavano a 55,86 miliardi, il 17,5 per cento in meno rispetto al corrispondente periodo del 2008. Ricordiamo che la Cina sta per cambiare le regole sui capitali stranieri, con una ulteriore liberalizzazione nei movimenti dfi denaro. La prima fase di liberalizzazione (2002) permise agli investitori stranieri l’ingresso nel mercato. Ora, il limite dei progetti finanziari di una singola istituzione passerebbe da 800 milioni a 1 miliardo di dollari. Tra i grandi investitori, oltre alla Fiat, si è aggiunta anche la Wolkswagen, con un piano industriale nel settore auto di circa 4 miliardi di euro entro il 2011. Quindi un inversione di tendenza, in linea con altri dati che, da giugno, lanciano segnali di fumo favorevoli per una ripresa in Cina. Prima l’aumento della richiesta di materie prime per alimentare il settore automobilistico, che aveva portato alla guerra dell’alluminio con l’Australia. Poi i dati sul pil di Pechino che cominciava a riprendere il movimento verso l’alto. I dati di agosto riportati su base annua, annuncerebbero un più 7,9 per cento per il prodotto interno lordo cinese. Anche i dati sui prestiti bancari e le importazioni sono da mesi in costante crescita. Le tensioni fra Pechino e Washington sul deciso aumento dei dazi, quindi possono essere lette come un problema legato alla ripresa - anche se ancora debole - delle maggiori economie mondiali. Si vorrebbe sfruttare al massimo ogni occasione per una ripartenza che rimetta in carreggiata la crescita, cercando di proteggere i settori ancora deboli. Nel corso del weekend Washington aveva deciso un aumento del 35 per cento dei dazi sugli pneumatici made in China, a

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partire dal prossimo 26 settembre e per un anno. Dopo 12 mesi il rialzo sarebbe del 30 per cento e il terzo anno del 25 per cento. La misura è stata decisa per tutelare l’industria e i lavoratori americani. Anche se Obama ha cercato di buttare acqua sul fuoco di un nuovo pericolo protezionista. «Vi garantisco che questa amministrazione è impegnata a proseguire lungo la via del mercato aperto e dei nuovi accordi commerciali. È assolutamente essenziale per il nostro futuro economico. Ma nessun sistema di scambio funzionerà se non faremo rispettare i nostri accordi di scambio», aveva affermato Obama, lunedì, a Wall Street, ricordando che gli Usa, sia nell’ambito del G8 sia in quello del G20, hanno sottolineato la loro contrarietà al protezionismo.

La reazione di Pechino non si è lasciata attendere: le autorità si sono immediatamente dichiarate «fermamente contrarie» all’aumento dei dazi. E hanno subito chiesto un tavolo con Washington. Pechino ha ribadito, in un comunicato del ministero del Commercio, che la misura adottata dagli Usa è «un abuso» che violerebbe le regole della World trade organization. Sempre ieri, il portavoce del Ministero delle finanze cinese, Yao Jian ha affermato che finora il Ministero cinese non ha ancora ricevuto la richiesta per l’acquisito della Hummer da parte della Tengzhong , produttrice di macchinari pesanti del Sichuan. Ha sottolineato che il Ministero delle finanze cinese ha costantemente espresso il proprio appoggio sia per attrarre investitori, che per promuovere operazioni all’estero. Ha aggiunto che prima di muoversi, le imprese devono prestare molta attenzione alle leggi e all’andamento delle politiche settoriali dei Paesi stranieri. Ora la domanda da porsi è se durerà questa tendenza alla ripresa. Se Pechino saprà ridare fiato alle esportazioni, al mercato interno, evitando che si creino bolle speculative, legate al ”denaro facile”immesso dallo Stato, come misura anticrisi, e sul mercato immobilari dagli stranieri.

Si tratta, per il ministero del Commercio di Pechino, del primo aumento dopo una serie di ribassi che durava da dieci mesi

settembre scorso, con l’accusa di blasfemia. Il giorno precedente una folla di musulmani si era riunita attorno alla chiesa del villaggio di Jaithikey, poco distante dalla città di Samberial, nel distretto di Sialkot (Punjab) per «dare una lezione» alla comunità cristiana. Gli estremisti hanno prima danneggiato l’edificio, poi gli hanno dato fuoco. Gli estremisti hanno saccheggiato anche due abitazioni adiacenti la chiesa. Secondo le prime ricostruzioni, all’origine delle tensioni vi era una relazione fra il ventenne cristiano e una ragazza musulmana. Il giovane è stato accusato di aver “provocato” la ragazza e «aver gettato via il Corano che aveva fra le mani».

Sotto lo pseudonimo “flak88”, l’analista interveniva sui siti dei collezionisti esprimendo entusiasmo per oggetti come le giacche di cuoio usate dalle SS.

Sulle prime, racconta il New York Times, Human Rights Watch ha difeso il proprio analista, diffondendo una dichiarazione in cui si precisava che Garlasco «non ha mai espresso opinioni naziste o antisemite». Il direttore del gruppo, Carroll Bogert, aveva anche sottolineato che il suo lavoro era sempre stato rivisto e controllato. E Garlasco aveva spiegato che il suo interesse era legato ad un nonno tedesco. Ma le spiegazioni non sono bastate a risolvere una questione che stava causando crescente imbarazzo al gruppo per i diritti umani basato a New York. «Ci chiediamo se abbiamo saputo tutto quello che dovevamo sapere», ha dichiarato la Bogert dopo che ieri sera è stato diffuso l’annuncio che Garlasco era stato sospeso dall’organizzazione, in attesa di un’inchiesta. L’analista, che aveva lavorato al Pentagono durante la seconda guerra del Golfo, ha scritto diversi rapporti per Human Rights Watch, denunciando l’uso del fosforo bianco a Gaza e di bombe a grappolo in Iraq, Afghanistan e Libano.


cultura

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Riletture. Singolari sintonie, punti di contatto e analoghe esperienze del pittore e del cineasta nel nuovo libro del giovane critico Luca Puddu

Maccari... e i suoi “spiriti” A vent’anni dalla morte, il difficile rapporto dell’artista con il cinema e un inedito confronto con Federico Fellini di Orio Caldiron fogliando le pagine di Il Selvaggio - che con alterne fortune esce dal 1924 al 1943 prima a Colle Val d’Elsa, poi a Firenze, a Siena, a Torino e infine a Roma - si è tentati di scambiare la spregiudicatezza di Mino Maccari per l’opposizione di un antagonista se non addirittura per antifascismo. Ma non è così. Se nelle sue feroci incisioni i gerarchi sono repellenti, grotteschi, mostruosi, è perché il grande disegnatore non smette mai di fustigare il malcostume dell’epoca, nonostante la sua adesione al regime, più volte rievocata: «Sono stato fascista, un fascista a modo mio. Nel ’22 avevo ventiquattro anni, e a Colle Val d’Elsa, un paesino in provincia di Siena, ci s’annoiava da morire. Quando venne la marcia su Roma, ci andai anch’io con qualche amico, al grido di “O Roma o Orte”. Era un’avventura da boy-scout, nessuno ci torse un capello, non ci furono incidenti: neppure uno di noi a cui uscisse il sangue dal naso. Poi venne il Ventennio e il regime ci avvinse, ci avviluppò nelle sue beghe interne, nel gioco dei suoi clan. Per Colle Val d’Elsa fu una scoperta: schiaffi, finti duelli, querele. Con le vignette e le filastrocche mettevamo un gerarca contro l’altro a volte con un po’ di incoscienza».

S

Ardente fascista agli inizi, vicino allo squadrismo quando crede nella capacità di persuasione del manganello raddrizzatore, diventa sempre più tiepido negli anni del consenso generalizzato, in cui si moltiplicano i profittatori, gli adulatori, gli arrivisti, gli intellettuali sedotti dal potere. Se ne distacca nel momento in cui vede prevalere l’odiata ideologia nazista. Nel settembre ’44 raggiunge le forze partigiane, partecipando alla Resistenza. Sin dal ’43 si era già clamorosamente congedato dai miti del fascismo con la Rassegna Dux, singolare ciclo di immagini satiriche su cui si staglia la figura del Duce. Le sue tipiche pose si risolvono ormai nella derisoria pantomima in cui il disinganno storico del Paese coincide con lo scacco privato del pittore. Nei vari nu-

meri di Il Selvaggio emergono gli estri e gli umori del maledetto toscano, ma anche le contraddizioni del tempo. Non si può trascurare Strapaese, che si proponeva di esaltare i valori rivoluzionari dello spirito paesano e nazionale in opposizione al cosmopolitismo moderno, industriale, cittadino di Stracittà. Se Mino Maccari incarna l’insolente spavalderia di Strapaese, Massimo Bontempelli è l’instancabile profeta di Stracittà. La modernizzazione è la bestia nera di Maccari, pronto a buttare a mare cinematografi e tabarin, snobismi anglofran-

tuona contro la “bontempellagine” di chi rinuncia alla propria identità per riconoscersi nei modelli stranieri: «Noi siamo poveri italiani: crediamo nell’arte e non nel cinematografo. Quando noi sapremo fare film come gli americani, saremo tutt’al più come gli americani. È lo scopo dell’espansione intellettuale italiana?».

In queste pagine, alcune tavole di Mino Maccari. In un libro del critico Luca Puddu (“Mino Maccari e Federico Fellini. Quando pittura e cinema si confrontano”), l’artista viene accostato al grande regista italiano

Cosa c’entriamo noi con la glorificazione della morale yankee dei marinai, dei vigili del fuoco, dei boxeur? Non c’è film americano dove non si faccia l’esaltazione dell’“american

I due, sostiene l’autore, erano accomunati non solo per le loro traversie durante il regime fascista, ma soprattutto per un’espressiva visionarietà cesi e psicoanalisi viennese in nome della tradizione. Se Bontempelli, che ha un debole per il jazz e i balletti russi, il Nove-

cento e i grattacieli, si arrischia a vedere nel cinema l’arte del Ventesimo secolo, Maccari

way of life”. Se il cinema è uno straordinario strumento di prestigio per il popolo che lo

produce, perché dobbiamo spalancare le porte alla produzione hollywoodiana? Nei primi anni Trenta, quando il muto ce-

de il passo al sonoro, l’atteggiamento di Maccari e dei suoi selvaggi è rissosamente polemico nei confronti dei tentativi più ambiziosi della “rinascita” del nuovo cinema italiano promossa dal regime. Non gli piacciono le presunte novità di Terra madre e Resurrectio di Alessandro Blasetti e degli altri velleitari film campestri che mettono in scena una ruralità di maniera con contadini che ballano il saltarello e cantano nei cori delle sagre paesane. La polemica non risparmia la Cines, che continua a sfornare insulse commediole, e Emilio Cecchi, il critico letterario che per quasi due anni ne è il direttore artistico. Il gusto dello sberleffo allegramente distruttivo prevale sulle argomentazioni critiche: «Cines rasa al suolo. Dria Paola messa a bollire in una pentola di pece ardente in Piazza Navona: con ballo di ragazzini». Si prende in giro apertamente Armando Falconi, che in Rubacuori si crede ancora un grande tombeur de femmes: «Il vecchio attore che, con l’epa mal trattenuta nelle brache, l’occhio smorto, le braccia penzoloni in avanti, ballonzola alla moda dei negri, non fa ridere, fa pena». Il suc-

cessivo Patatrac, di nuovo con Falconi, suscita l’indignazione: «Ci si chiede se, in un paese nel quale persone che non si guadagnano il pane con una certa fatica si contano sulle dita, sia decoroso, edificante, dare in pasto al pubblico italiano un film dove la vita scioperata, scioccamente gaudente di talune categorie, viene trattata con tanto rispetto e benevolenza». Pollice verso anche per Acciaio, rovinato dall’atteggiamento “turistico”di Walter Ruttmann, il regista tedesco chiamato per l’occasione in Italia: «Il paese, la fabbrica, gli italiani hanno fornito gli elementi. Il regista li ha adoperati malamente. Ruttmann non sa fare un film, sarà bene rispedirlo al suo paese».

Non si salva niente e nessuno: «Quello che è stato prodotto finora fa rivoltare lo stomaco, è la sciatta pittura di una piccola borghesia mediocre e gretta, che non sa muoversi, o di un paesanismo di maniera che non esiste e non esisterà mai. Noi abbiamo affidato a mani assolutamente inadatte questo che sarebbe un prezioso strumento, capace di indirizzare potentemente le folle verso costumi e passioni degne di un popolo vivo e deciso a vivere. I film che abbiamo prodotto fino ad oggi descrivono al mondo un’Italia imbecille e meschina,


cultura di Mae West mentre la nave Attualismus va a fondo. Nella quarta, il filosofo si toglie il cappello davanti a una spiritata ballerina, che nella dida (“L’arrivo della filosofia a Hollywood”) lo saluta con un disinvolto “Ciao, John”.

Nessuno sconto neppure per Luigi Freddi, l’onnipotente Direttore generale della cinematografia, che a bordo di un elefante orchestra la battaglia di Zama alla mostra di Venezia per lanciare Scipione l’Africano, il kolossal imperiale di Carmine Gallone. Nel 1938, alla fine di un’ampia recensione di Un giorno alle corse di Sam Wood con i fratelli Marx, di cui in piena campagna razziale mostra di apprezzare le «clownesche macchinazioni» e l’«humour feroce», torna con rinnovata perfidia sul cinema italiano più che mai addormentato: «Si è detto proprio in questi giorni che occorre fare del pubblico il giudice supremo. Nel nostro caso, aggiungiamo che occorre però fare il pubblico: cioè spaventarlo, muoverne le passioni, svegliarlo da quel torpore che indubbiamente a furia di De Sica e di Besozzi l’ha ridotto a desiderare soltanto le cause facili, le cause vinte, da liquidarsi con qualche insipido applauso e con la stessa identica stereotipa formula che, tra le

di cui è enorme che non ci si vergogni». Gli intellettuali che esaltano il cinema come espressione artistica sono anch’essi nel mirino di Maccari. La copertina del 30 aprile 1935 è dedicata a Giovanni Gentile, autore della prefazione a Cinematografo di Luigi Chiarini un nome importante nella nomenclatura dell’epoca, direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia - con il faccione del barbuto filosofo siciliano che spunta dal salvagente, sollevando le braccia verso l’icona

labbra odorose di macedonia extra delle piccoloborghesi frequentatrici delle prime, suona indifferentemente assoluzione e condanna. Cinematografia italiana! Paradiso di circostanze attenuanti! Quando vedremo nella tua gabbia un colpevole, che abbia veramente e gravemente peccato d’intelligenza?». L’idiosincrasia nei confronti del cinema è la rimozione del guastafeste che si ribella al malcostume della società dello spettacolo e respinge con impietosa ironia ogni

forma di contraffazione. Perché, in realtà, dice Maccari, «noi non siamo nemici del cinema, come non siamo nemici dell’automobile, dell’ascensore, del grammofono, degli accendisigari, della radio e di tanti altri prodotti della tecnica, dei quali accettiamo i servizi, senza riconoscerne la divinità, pretesa e postulata dai pessimi interpreti e apologeti dei nostri tempi». L’esorcismo si risolve in conversione grazie all’incontro sullo schermo con Eric von Stroheim - lo Stroheim di Mariti ciechi, Femmine folli, Sinfonia nuziale, Il gran Gabbo - finalmente un personaggio a cui riconosce personalità, istinto, stile, gusto, fantasia e, naturalmente, sfortuna: tutte cose che gli piacciono molto, anche al cinema. Si tratta davvero di una folgorazione se, nella folla di immagini evocate da Maccari, non c’è nessun altro che ricorra più del grande regista-attore, impettito nella divisa bianca da ufficiale austriaco, con tanto di monocolo, cranio rasato, orecchie a sventola. L’altro personaggio a cui va l’esplicita simpatia del pittore è Mae West, il sex-symbol biondo platino dalla formosa sensualità in cui apprezza la donna disinibita, sfacciata, candidamente amorale. L’irriducibile energia dell’attrice e la sua scandalosa popolarità si impongono con Lady Lou - La donna fatale di Lowell Sherman, dove con le sue battute micidiali tiene testa al capitano dell’Esercito della Salvezza Cary Grant: «Lady Lou: quanti ricordi! Quando partimmo per la guerra, Lady Lou aveva già fatto le sue campagne, ma fu lei a salutarci, dal varietà dove ci fermammo prima di montare in tradotta; fu lei, Lady Lou, a darci l’ultima “mossa” in grande stile. Migliaia di girls non ci hanno saputo, più tardi, ripagare di quell’inobliabile ancheggiare». Nei volti di questi due grandi irregolari l’artista senese vede una sorta di scaramantico contrassegno dell’avventura umana, attraverso il quale si riconcilia con il cinema, che influisce sulla stessa costruzione del disegno e sul taglio dell’immagine, fino a accogliere in modo sempre più esplicito le suggestioni della sala buia, la singolare intensità emotiva delle figure in movimento. Il bilancio alla fine è addirittura capovolto, tutto paradossalmente a favore del cinema. «Siamo giusti, quanti simpatici uomini e care donnine non ci ha fatto conoscere il cinema?», dirà a un certo punto. «Oseremo dire che quando s’è cercato qualche persona viva e vera s’è dovuta andare a cercare sullo schermo? Sarebbe una condanna troppo grave

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per la società moderna affermare che soltanto nella finzione e nella recitazione la nostra umanità sappia esprimere qualche accento capace di appassionare e di entusiasmare la folla; ma è un fatto che i ceti, le categorie sociali si sono talmente annacquate e afflosciate, hanno talmente perso il proprio

carattere, che sembra sia di spettanza del cinema tenerne in alto le tradizioni». Nel dopoguerra collabora a Il Mondo di Pannunzio con i suoi disegni satirici, in cui prende di mira potenti funzionari, commendatori, capitalisti, alti ufficiali che contano sulla nuova classe dirigente per prosperare all’ombra dei partiti di governo. Si dedica prevalentemente alla pittura, mentre i critici per la sua opera

grafica fanno giustamente i grandi nomi di Grosz, Daumier, Ensor, Toulouse-Lautrec. Il rapporto con lo schermo si affievolisce fino a scomparire quasi del tutto se non fosse per la sarcastica raffigurazione di produttori e faccendieri del sottobosco cinematografico. Solo ora, a vent’anni dalla morte dell’artista, il giovane critico Luca Puddu lo ha acutamente accostato a Fellini (Mino Maccari e Federico Fellini. Quando pittura e cinema si confrontano, La Riflessione, Cagliari, 2009), riconoscendo nei due, al di là della distanza anagrafica, singolari sintonie non soltanto per le analoghe esperienze della dittatura fascista e della dura realtà del dopoguerra, ma soprattutto per la loro espressiva visionarietà.

Non sfuggono le differenze tra il pittore e il cineasta, ma la convivenza spesso conflittuale con lo scenario della società italiana, rappresentata con sarcastica ironia e grottesca irrisione, sembra almeno in parte accomunarli. Nessuna perplessità nell’avvicinare i linguaggi diversi del cinema e della pittura, se lo stesso Fellini ha insistito più volte sulla sua aspirazione a risolvere il film nel quadro, nell’utopia di una grande immagine colorata che raccolga miracolosamente in sé le fila del racconto. Ma non c’è solo il cineasta. Fellini è anche uno straordinario, incontenibile disegnatore. Qui i punti di contatto si moltiplicano. La vicinanza diventa particolarmente intensa, elettrica, quando entra in scena la donna, protagonista principale dell’immaginario di Fellini e di Maccari, che si sbizzarriscono e si esaltano nella esplosiva varietà delle forme. Un’inedita chiave di lettura per ripercorrere i miti personali dei due artisti, i segni e i sogni del loro viaggio ininterrotto e appassionato nell’universo femminile.


cultura

pagina 20 • 16 settembre 2009

Libri. Un romanzo mozzafiato “La biblioteca dei morti” di Glenn Cooper, in testa alle classifiche e tradotto già in 22 Paesi

2009, Odissea nella (fanta)storia di Pier Mario Fasanotti idea è davvero straordinaria. Ed è questa, non certo la scrittura che a volte è sbrigativa e convenzionale, che fa da perno a un romanzo che in pochissimi giorni ha scalato la classifica dei libri più venduti. Mi riferisco a La biblioteca dei morti (Edizioni Nord, 439 pagine, 1860 euro). È stato tradotto in 22 Paesi e sta vendendo milioni di copie.

L’

L’autore si chiama Glenn Cooper, assolutamente ignoto fino a oggi come narratore. Avrà dai 40 ai 50 anni: notizie anagrafiche la casa editrice non ne fornisce, solo la sua foto. Si è laureato in Archeologia ad Harvard, poi ha deciso di seguire il dottorato di medicina. Un altro scarto professionale: è diventato presidente e amministratore delegato della più importante industria di biotecnologie del Massachussetts. Non contento di questo è anche sceneggiatore e produttore cinematografico. Un ciclone, insomma.Trattandosi di un giallo storico, anzi di un fantagiallo con piani temporali diversi, mi guardo bene dal riassumere la trama, limitandomi a una subdola operazione di accenni e di rimandi. Il lettore, che davvero resta inchiodato alle pagine del romanzone mozzafiato, non dev’essere avvelenato il pasto letterario. Si dice che la precipitosa ascesa de La biblioteca dei morti in classifica sia dovuta in gran parte a un video realizzato da Alessandra Casella, responsabile di Booksweb (la web television dedicata ai libri). Può darsi, ma non ci credo. È scattato il più classico, e anche più sicuro, meccanismo di diffusione libraria, il famoso tam tam tra i lettori. Il romanzo di Cooper ricorda Il nome della rosa di Umberto Eco, anche se ha una struttura che si dipana in maniera assai diversa. C’entra il Medioevo, si descrive il lavoro di amanuensi in un’abbazia (nell’isola di Vectis, nome latino diventato poi Wight), ci sono eventi oscuri che hanno a che fare con la magia, la superstizione e più in generale con l’insondabile volontà di un Essere Superiore. Ma qui finisce la misura del raffronto. Anche perché, come ho accen-

nato, la narrazione riguarda (principalmente) la New York del 2009, ma anche l’Inghilterra del 1947 e alcuni secoli “bui”. Il tutto parte dall’uccisione del giovane e brillante, nonché ricco, banchiere David Swisher. Siamo nell’upper class. Come ogni bravo manager - tratteggiato secondo collaudati ma non sempre veritieri stereotipi David rientra a casa ove l’aspetta una bella moglie, della quale è innamorato, butta l’occhio sulla posta e la sua attenzione viene fissata su un car-

l’alba, il suo cane. I suoi nervi diventano tesi, in strade ancora deserte, quando un uomo con il cappuccio (pare un ispanico o un afro-americano) lo segue, salvo poi prendere un’altra direzione. Sollievo. Ma dopo pochi minuti David viene colpito mortalmente alla testa mentre il cagnolino fa i suoi bisogni attorno a un albero. Stessa sorte, ma con l’aggravio della violenza sessuale, tocca a un’infermiera ispanica, così ingenua da accettare il passaggio in auto di un cordialissimo sconosciuto.

larme vero si tratta: il mondo non deve sapere nulla, proprio nulla. Usa e Impero britannico in questo sono perfettamente d’accordo. Intanto le vittime, trovate in possesso del cartoncino con il disegno della bara, aumenta. L’Fbi interviene, con dubbi e intuizioni. A coordinare le indagini c’è Will, affiancato dall’arguta e precisa

toncino dove è disegnata una bara (con un’iscrizione inquietante che lo riguarda direttamente). Scherzo di cattivo gusto? Però, malgrado la tranquilla cena al ristorante con la moglie e l’intimità fisica che consegue con la medesima, il macabro disegno lo fa riflettere prima di prendere sonno. Per la spartizione dei ruoli familiari tocca a David portare fuori, al-

Complice è la lingua comune. Tregua narrativa, che sconcerta ma nello stesso tempo stuzzica il lettore: il 12 febbraio del 1947, l’attuale premier John Attle richiama il suo precedessore Winston Churchill. Un funzionario della marina britannica mette sotto il naso del brusco e rancoroso statista, indiscusso eroe della seconda guerra mondiale poi punito dagli elettori, un dossier super-segreto, e questi fogli - dei quali il narratore non fa alcun cenno demoliranno la resistenza dell’uomo che non ha mai smesso di fumare grossi sigari e lo inducono a mettersi a disposizione della nazione, patriotticamente e in completo segreto. È ovvio che si tratta di un “affaire” delicatissimo, che esige la complicità del presidente degli Stati Uniti d’America Harry Truman, l’uomo che decise di sganciare la prima bomba atomica. Nello studio ovale della Casa Bianca scatta un eguale drammatica emergenza. Di al-

Si tratta di un thriller avvincente strutturato su piani temporali diversi: c’entra il Medioevo, la New York contemporanea ma anche l’Inghilterra del 1947

Sopra, lo scrittore Glenn Cooper. A destra, la copertina del suo libro “La biblioteca dei morti”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

Nancy. Un altro salto indietro: nell’arida zona che circonda Las Vegas si moltiplicano gli avvistamenti di Ufo, così come le chiacchiere attorno a una misteriosa costruzione, chiamata zona 51, fatta erigere dal governo. Ci si chiede: saranno tenuti lì gli esserini verdi venuti dallo spazio? All’iniziale sconcertante curiosità subentra la passiva accettazione di quello che si pensa sia un segreto militare. Ma ecco il più imprevedibile salto all’indietro: anno 777, abbazia inglese. Un frate esamina oscuri presagi (la data è già un

indizio) che apparentemente sono da ricondurre all’influenza del maligno.Vuole una tradizione intrisa di superstizione che il settimo nato di un uomo che a sua volta è stato il settimo dei suoi fratelli sia destinato a iniziative sconvolgenti. Il timoroso padre, ben consapevole di questa minaccia, lo uccide brutalmente malgrado la presenza del frate Octavius, saggio e prudentissimo. Il caso vuole però che dal ventre della donna, che muore subito dopo, esca un altro figlio. È l’ottavo, quindi il pericolo pare scongiurato. In realtà, secondo la scienza medica è lui, creatura con i capelli rossi, il settimo e non l’ottavo. Viene affidato all’abbazia. E Octavius si accorgerà presto che il bimbo, pur non possedendo alcuna nozione di scrittura, verga nomi, prima sulla terra poi su pergamene. Man mano che cresce il suo elenco s’infittisce. Non riveliamo il prosieguo della tormentata storia dell’abbazia, sta di fatto che i nomi, corredati da date e da parole in lingue straniere (dall’arabo al cinese, dal russo all’inglese) formeranno centinaia di migliaia di tomi con la copertina nera. Un’immensa biblioteca che sarà tenuta nascosta, anche perché l’intuizione del frate si mostra esatta e viene accettata da generazione a generazione.

C’è il fondato dubbio che non si tratti di meccanismo diabolico, ma addirittura divino. Si susseguono intanto a New York svariati colpi di scena, con l’inevitabile “intervento dall’alto” che blocca, almeno formalmente, l’indagine della coppia dell’Fbi,che diventa affiatata e va oltre il rapporto professionale. L’informatica la farà poi da protagonista, collegata alla misteriosa biblioteca dell’abbazia benedettina. Accanto ci sono la frustrazione e l’avidità di un insospettabile individuo. Quesito che lasciamo aperto, per i lettori: la decina di morti violente è opera dell’uomo? Oppure del diavolo? Oppure…


cultura Ancora recuperi di arte rubata da parte dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. Stavolta sono stati recuperati ben dieci dipinti rubati, nel 2004, dal Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia a Roma. Il valore di questi dipinti si aggira intorno ai quattro milioni di euro. Uno di questi dipinti (foto) raffigura la Sacra Famiglia ed è attribuito - anche se in modo controverso - al Parmigianino. È un quadro del 1550 che da solo può arrivare a valere un milione di euro

carabinieri dei Ris sono ricorsi all’analisi del Dna per scovare una banda di ladri di opere d’arte che saccheggiavano abitazioni, musei e luoghi di culto. Le ultime frontiere delle tecnologie investigative non si fermano ad assassini, stupratori e assalitori di banche, ora interessano anche uno dei mercati più fiorenti del Belpaese, il traffico di oggetti d’arte. Nel 2008 il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri ha registrato 1.031 furti per un totale di 15.837 oggetti. Nella sola Sicilia i beni d’arte rubati nel 2008 sono quadruplicati rispetto all’annata precedente.

I

L’ultimo furto di rilievo si è registrato ad Udine dove il Comune è subito corso ai ripari inventariando 130mila reperti di proprietà pubblica. Con i pezzi recuperati e riconsegnati al Comune dagli uomini del Nucleo operativo e radiomobile dei Carabinieri di Udine verrà realizzata prossimamente un’apposita mostra aperta al pubblico. Invece l’ultimo ritrovamento di rilievo è quello del dipinto a olio su tela Edipo Re di Pierre Auguste Renoir, rubato nell’84 a Roma e recuperato in Veneto dopo 25 anni. Ad aprile, inoltre, i Carabinieri hanno fermato sulla Cassia un vetusto furgoncino con un bordo un ingente tesoro: tredici dipinti del XVIII secolo, raffiguranti la via Crucis (parte del bottino di un furto perpetrato, nel 2006, ai danni di una chiesa a Capranica, nel viterbese), 30 quadri raffiguranti immagini sacre, 180 libri antichi, statue, inginocchiatoi, bassorilievi, vasi e statue. Il proprietario del camioncino, un commerciante romano di 72 anni, il quale non ha saputo dare spiegazioni plausibili sulla provenienza delle opere d’arte, è stato sottoposto a fermo di indiziato per il reato di ricettazione. L’Interpol ha aperto un sito con un menu di 34 mila pezzi di pregio rubati, un caveau di meraviglie perdute. L’obiettivo è quello di tutelare i legittimi proprietari svaligiati dai ladri e di mettere in guardia le case d’asta dal vendere oggetti di dubbia provenienza. «C’è anche un motore d ricerca ed una condivisione delle informazioni» spiega il maresciallo Fabrizio Rossi, ora ufficiale specializzato presso il dipartimento Opere d’arte dell’Interpol con sede a Lione. Lo stesso Rossi è stato protagonista diretto di un episodio incredibile: andato a verificare il contenuto di una blasonata casa d’asta torinese si è accorto che un pezzo in vendita apparteneva alla chiesa della sua parrocchia, nella natia città della Spe-

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Recuperi. Ecco come il nostro Ris (e non solo) inchioda i «ladri dell’arte»

“Csi” dà la caccia ad Arsenio Lupin di Marco Ferrari zia, uno Spinolotto del XV secolo portata via dalla Pieve di San Venerio nel 1974 ed ora restituito al Museo Diocesano spezzino. I paesi sotto tiro sono principalmente l’Italia, la Francia, la

Russia, la Polonia e la Germania. Nella penisola il problema di fondo è la mancanza di una adeguata catalogazione e di un sistema di sicurezza: troppo materiale tra chiese, ville, monumenti e musei da tener d’oc-

chio e da salvaguardare. Accanto ai professionisti della refurtiva artistica ci sono poi gli occasionali predatori di oggetti d’arte o antichi. La Toscana è un pozzo senza fine. Si ruba di tutto: lastre di granito o

L’Interpol ha aperto un sito con un menu di 34mila pezzi di pregio rubati, un caveau di meraviglie perdute. L’obiettivo, tutelare i legittimi proprietari e mettere in guardia le case d’asta dal vendere oggetti di dubbia provenienza arenaria, tegole, embrici, acquai, mezzane, travi di legno, pietrame di ogni genere, persino panchine di parchi pubblici. Un grande patrimonio a cielo aperto che si sta sgretolando. A volte sono gli stessi visitatori e turisti a volersi portar via una pietra del Giardino di Boboli o un mattone delle mura di Lucca come se fossero quelle di Berlino. Piccoli ricordi che vanno ad abbellire giardini privati o salotti oppure che finiscono nei mercati antiquari della domenica, ma che danneggiano visibilmente l’entità di grandi patrimoni storici. Non sono so-

lo i vandali, dunque, a dare colpi mortali alla nostra arte, ma occasionali ladri di storia, un esercito di autofornitori che opera all’aria aperta per portarsi a casa vecchi coppi in cotto, lastre, pietre, pezzi di davanzali, maioliche e pavimenti. A Ponte Buggianese due pensionati sono stati fermati con un camioncino pieno di tegole prelevate da un vecchio cascinale; due rumeni hanno reiteratamente portato via dalla campagna livornese pietre antiche finché non sono stati colti sul fatto dal legittimo proprietario; addirittura a Livorno un anziano di 65 anni è stato preso mentre portava via dei sampietrini nella centralissima Piazza Garibaldi come se fosse un operaio del Comune. Due pistoiesi sono invece finiti in carcere per aver sottratto una ventina di lastre d’epoca da un edificio storico in abbandono, guarda caso proprio adatte ai pavimenti della loro abitazione. Ad Arcidosso due uomini sono stati sorpresi mentre sottraevano pezzi di pietra ai lati della strada provinciale. Vandalismo e furto spesso si intrecciano. Il famoso acquedotto voluto nella prima metà dell’Ottocento da Maria Luisa di Borbone e realizzato dal regio architetto Lorenzo Nottolini, monumento storico della piana lucchese che si può ammirare dall’Autostrada Pisa-Firenze, è stato preso di mira più volte con asportazione di pietre dai ponti e delle vasche. Molte di quelle pietre hanno finito per rompersi una volta sottratte alle arcate e agli alvei.

Questo tipo di furto è quello che va più di moda in Toscana. Così ponti e muri di strade sono private di pietre senza alcun valore artistico ma di grande valore storico, lavorate da scalpellini di altre epoche. I danni più ingenti si registrano all’Argentario, in Lunigiana, in Garfagnana e persino all’isola d’Elba. La sistematica asportazione di coperture in antica arenaria a Fivizzano ha indotto ad un ragionamento da parte dell’Amministrazione provinciale sull’evenienza di stoccare i blocchi in qualche deposito. Anche nelle aree archeologiche è ormai dilagante la mania di mettersi in borsa un sasso o un pezzo di mura di casa, tempio o anfiteatro. Il fatto che sia “made in Tuscany” rappresenta di per sé un valore aggiunto inestimabile in luoghi che spesso non hanno radici nell’antichità. Guardando quella pietra, un giorno ci si ricorderà di un viaggio indimenticabile nella terra dei lucumoni o nei giardini dei Medici, tra le chiese di Michelangelo e gli affreschi del Masaccio.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Asharq Alawsat” del 14/09/2009

Dalla parte degli infedeli di Abdul Rahman Al-rashed on so se le affermazioni dello sheik Yusuf alQaradawi siano vere o meno. Siamo abituati all’utilizzo politico delle fatwa religiose. Questo giornale ha riportato la notizia che lo sheik avrebbe emanato una fatwa per proibire ai cittadini iracheni di acquisire la cittadinanza statunitense. Non sarebbe possibile – spiega l’editto religioso – perché gli Stati Uniti sarebbero un Paese occupante. Ciò non ha alcuna attinenza con la realtà e contiene una serie di assurdità di carattere politico e pochissime rilevanze di tipo religioso. Lo stesso al-Qaradawi è un egiziano con passaporto del Quatar, che gli fu concesso dopo che si oppose pubblicamente agli accordi di pace tra Egitto e Israele. Quando però Gerusalemme aprì una sede diplomatica a Doha, non rinunciò alla nazionalità quatarina. Questo caso ci interesserebbe poco, se non fosse per il fatto che dimostra, ancora una volta, l’uso politico che si fa degli editti religiosi. Armi improprie di un confronto che religioso non è. Forse lo sheik avrebbe potuto avere qualche motivo di rispolverare questo strumento ideologico, nel caso ci fossero migliaia di richieste di naturalizzazione, oppure ci fosse un piano per la deportazione di massa negli Usa, oppure che la nazionalità irachena fosse stata abolita. Ma nulla di tutto questo è accaduto. È invece successo il contrario, con migliaia di cittadini iracheni che fanno la fila davanti alle ambasciate occidentali per chiedere un visto, che verrà dato solo a pochi. Infatti, ottenere la cittadinanza americana o europea non è così facile – come invece immagina lo sheik alQaradawi – e solo pochi riescono ad ottenerla. Per gli iracheni è ancora più difficile, visto l’alto numero di rifugiati, compresi coloro che hanno chiesto asilo politico all’estero. Il ministero degli Esteri inglese sta pen-

N

sando come far rientrare i tanti iracheni accolti fino ad oggi e così per molti altri Paesi europei. Una realtà che si scontra con ciò che immagina al-Qaradawi, con un Occidente in trepida attesa di accogliere il popolo iracheno. Questi Paesi sono invece pieni di rifugiati e immigrati e sono diposti a pagare incentivi pur di vederli tornare nel loro Paese d’origine. Dopo l’annuncio all’inizio dell’anno, che le truppe Usa si sarebbero ritirate dai centri urbani, un gruppo di interpreti che lavoravano per l’esercito statunitense hanno chiesto un visto d’ingresso in America. Temono di poter subire delle rappresaglie, quando gli americani lasceranno il Paese, e vorrebbero oltre la cittadinanza anche un lavoro.

Solo a pochi di questi è stato garantito un visto per gli Usa. Allo stesso modo le organizzazioni umanitarie che gestiscono la difficile situazione dei campi profughi in Siria e in Giordania, non sono riuscite a stabilire un canale con gli Usa per dirottare parte di quegli iracheni che non vogliono più tornare in patria. Ci sono un milione di iracheni in Siria e nessun Paese ha accettato di accoglierne neanche uno. Stessa sorte per il milione di rifugiati dei campi giordani che fanno ogni giorno la fila davanti ai consolati di mezzo mondo. Dove il signor al-Qaradawi avrebbe tratto la convinzione che Washington sia pronta ad accogliere i cittadini iracheni? Tanto da farlo inorridire ed emettere la fatwa. La verità è proprio agli antipodi di ciò che crede lo sheik. Negli Usa esiste una lobby molto

forte, che non vuole venga data la cittadinanza né ai musulmani e nenache agli arabi, per motivi razziali e politici. Immigrare negli Stati Uniti non significa automaticamente ottenere la cittadinanza e tutte le garanzie che questa comporta. Un fatto che non è vero per questi rifugiati neanche nei Paesi arabi, indipendentemente da quanto possa essere grave la situazione umanitaria. Al-Qaradawi dovrebbe chiedere come vengono trattati i rifugiati palestinesi in molti Stati arabi. Dove sono trattati come animali e tenuti in condizioni di vita impossibili. Gli è proibito lavorare o aver alcun sostentamento di vita, ad alcuni è perfino proibito di spostarsi e viaggiare per andare a trovare la propria famiglia. In futuro, prima di parlare, lo sheik al-Qaradawi farebbe meglio ad informarsi. E chiedere a qualsiasi immigrato arabo, abbia avuto la fortuna sufficiente per guadagnarsi la cittadinanza in un Paese degli infedeli. Tanto per saper distinguere la realtà dal mito.

L’IMMAGINE

Chiarezza sui 120 fusti di scorie radioattive nel mare della Calabria Bisogna indagare, fare chiarezza e intervenire subito, energicamente. Il fatto è gravissimo, il carico tossico di questa nave potrebbe arrecare danni irreparabili non solo all’ambiente ma alla vita stessa delle persone per quei veleni radioattivi trovati sul fondo del mar Tirreno a venti miglia al largo di Cetraro. La priorità è scoprire quale carico contenesse. Quasi certamente il relitto trasportava 120 fusti pieni di scorie radioattive. Ora sta alla magistratura, ma soprattutto al governo, il cui aiuto è considerato indispensabile, a far recuperare questo materiale, analizzarne il contenuto e procedere, infine, ad un’operazione di bonifica. La cosa che al momento preoccupa di più è il numero delle altre navi clandestine fatte sparire nel nulla al largo delle coste calabresi. Sarebbero circa una trentina, frutto di un lavoro criminale ancora oggi impunito e perpetrato per decenni dalle mafie quando si facevano affari, oggi come allora, con i rifiuti tossici.

Lettera firmata

ENTRA COME ENEL E RIFILA CONTRATTO TELE2 Una venditrice porta a porta riesce ad entrare in casa di una fiorentina, grazie ad un cartellino Enel. Le propone un contratto Enel Energia (la divisione libero mercato di Enel). Per valutare la convenienza dell’offerta, invita la signora a fargli vedere le precedenti bollette della luce, con questi dati inizia a compilare il contratto. La signora non firma subito, «mi lasci i documenti, ci penserò!». bLa venditrice a quel punto tira fuori gli opuscoli e i moduli contrattuali di Tele2 (il gestore telefonico che fa capo aVodafone). La risposta è identica: «mi lasci i documenti, ci penserò!». Tra una chiacchiera e l’altra, la venditrice ricopia i dati dalla modulistica Enel Energia sul contratto Tele2. Prima di andare via, con una scusa preleva due

delle tre copie dei proforma contrattuali (Enel e Tele2) che sono redatti su carta copiativa. Dopo un mese la signora si ritrova la linea telefonica disattivata. Tele2 l’ha distaccata da Telecom Italia e la signora rimane senza telefono e Adsl per 10 giorni. Alla richiesta di chiarimenti,Tele2 dice che hanno in mano il contratto numero 09/0155769 sottoscritto dalla signora e gliene inviano copia con una firma falsa. Che Tele2-Vodafone abbia una politica di vendita (tramite call center) poco ortodossa, piu’volte sanzionata dall’Antitrust, non è una novità Pure Enel Energia è già stata sanzionata dall’Antitrust per pratiche commerciali scorrette messe in atto dai call center. Ma che Enel, società controllata dal ministero dell’Economia, si affidi (direttamente o indirettamente) a vendi-

Se mi rapisci, ti sposo Nella sua vita quest’uomo keniota ha rapito almeno una ragazza. Ma niente paura, non è un criminale, per le donne della sua popolazione, i Kikuyu, il rapimento è una grande prova d’amore. Il giorno del matrimonio il promesso sposo si reca danzando, con le donne della sua famiglia, a casa della fidanzata per “sequestrarla” e portarla nella sua capanna. Seguono la cerimonia e un po’ di baldoria

tori che truffano gli utenti, grazie proprio all’affidabilità che il nome Enel ancora ispira nelle persone, è inaccettabile.

Lettera firmata

PREGI DEL MERCATO COMPETITIVO Fra i diritti umani fondamentali si annoverano l’autodeterminazione, l’autorealizzazione, la proprietà privata, lo scambio e la conquista

del benessere con il lavoro e l’intrapresa. Il sistema economico libero si fonda su proprietà privata, mercato e concorrenza. La cooperazione è realizzata dalla competizione. Questa appaga i bisogni del consumatore; alloca le risorse efficientemente; ostacola il monopolio e il sovrapprofitto; stimola innovazione, produttività e progresso. Per la sussidiarietà, la società può solo supplire le comunità inferiori e gli

individui, ai quali spetta realizzare liberamente ciò che possono, con le loro forze e industrie. Il mercato crea e distribuisce risorse, con efficacia e razionalità; soddisfa la domanda, ossia i bisogni “pagati” dal consumatore. La solidarietà appaga le necessità dei poveri che non possano acquistare nel mercato. Il libero commercio internazionale concorre a ridurre la povertà.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Le care speranze dell’avvenire E s’io non ti scrivo quale conforto mi resta più? Allontanato da te, vorrei riparare così alla crudele fortuna e a quei fatali riguardi che ci contendono di poterci vedere. Quante volte io prendo la penna per narrarti ogni minima mia azione, e per farti, per così dire, un giornale di tutti i miei pensieri. Così potess’io, mia dolce amica, mostrarti, scrivendoti, tutta la mia anima; io sono sicuro che tu m’ameresti assai più; e oso dire che se qualche volta in te languisse l’amore per me, ti resterebbe sempre una amicizia candida, eterna. Ma io ti scongiuro; cerca ogni via perch’io possa vederti, e parlarti, e… - oh, divina illusione! -. Se tu sapessi, mia cara, com’io vivo pascendomi delle care speranze dell’avvenire! Come io mi addormento sovente salutandoti, e ringraziando que’ tuoi grandi occhi che tante volte mi hanno detto che tu m’amavi. Sì, tenta ogni via: io n’ho immaginato mille; ma non ho saputo nulla risolvere. Se almeno tu fossi in campagna! Dimmi, esci sola a messa? Quando e dove ci vai? Oh che lieve espediente! Ma è più facile che tu ci riesca meglio di me in quest’affare. Ho veduto tuo marito: te ne scriverò domani: non osai dirgli nulla ancora. Penso del resto di venire nel tuo palco da me solo. V’è egli bisogno ch’io ti sia presentato se io sono conosciuto da tutta la tua famiglia? Maledetta etichetta! Eterno Iddio! Quanti tormenti. Addio. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese

ACCADDE OGGI

UN POPOLO PRIVO DI MEMORIA È UN POPOLO PRIVO DI SÉ Gli stranieri, e tra questi anche gli italiani, discriminati in Svizzera: è quanto evidenzia il quarto rapporto della commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa. In Svizzera, si sottolinea nel rapporto, assicurare la propria macchina può costare a un italiano, solo per il fatto di essere italiano, fino al 27% in più che a un elvetico. Negli anni ’50 gli immigrati italiani nel Paese degli orologi spesso venivano chiamati zingari. Anche in Svizzera c’è un partito, l’Unione democratica di centro, che ha fatto degli “stranieri”il suo tema centrale. «Il suo programma e le sue campagne mediatiche vengono descritte da tutti gli esperti come xenofobe e razziste», sottolinea l’Ecri, secondo il quale «ripetuti attacchi dei membri del partito ai diritti fondamentali degli stranieri hanno avuto un impatto sulle scelte politiche». Anche da noi c’è un partito che ha fatto degli “stranieri”uno dei temi centrali della sua politica. Si chiama Lega Nord. Eppure i migranti in Svizzera, nei decenni passati, sono stati anche i “padani”, in particolare quelli del nord-est. Evidentemente la memoria non sovviene, ma un popolo privo di memoria è un popolo privo di sé.

Primo Mastrantoni

PIANO DI CONCILIAZIONE MIGLIORE RISPOSTA PER LE DONNE Il grande piano di conciliazione e di stimolo del lavoro femminile, annunciato dai ministri Carfagna e Sacconi, costituisce un intervento qualificante dell’azione di governo. È infatti sul terreno dell’occu-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

16 settembre 1893 Corsa alla terra dell’Oklahoma, i coloni corrono per la terra migliore del Cherokee Outlet 1904 In Italia inizia il primo sciopero generale che durerà sino al 21 settembre, innescato dalla strage dei minatori sardi il 4 settembre ad opera dei carabinieri 1908 Viene fondata la GeneralbMotors 1940bIl governo degli Stati Uniti avvia il selective service act, che istituisce la leva militare 1941 Lo scià di Persia è costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi sotto la pressione di Gran Bretagna e Urss 1949 Rilascio del primo episodio di Wile E. Coyote e Road Runner 1955 Il Play-Doh viene lanciato sul mercato 1959 A Barletta, un crollo causato da sopraelevazioni abusive provoca 60 morti 1963 La Malesia viene formata da Malaya, Singapore, Borneo settentrionale britannico e Sarawak 1975 La Papua Nuova Guinea ottiene l’indipendenza dall’Australia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

pazione, secondo gli obiettivi dell’Agenda di Lisbona, che va affrontata la sfida delle pari opportunità, che vede le donne ancora divise nella drammatica scelta fra essere madri oppure lavoratrici. Che le donne costituiscano una ricchezza e possano innescare un formidabile volano di sviluppo, specie in un momento di crisi, è un dato acclarato. Se l’occupazione femminile, ad esempio, raggiungesse la media di quella europea, la crescita stimata del Pil sarebbe quasi del 7%. In questo senso, lo stanziamento di 40 milioni di euro per progetti a sostegno delle famiglie, come i voucher per gli asili nido e le tagesmutter, unito ad un più ampio intervento volto alla flessibilizzazione dell’orario di lavoro e al potenziamento dei servizi per l’infanzia, costituiscono la migliore risposta da dare alle donne. Interessante è anche l’indicazione, emersa dallo studio di Confidustria relativamente alla previsione di incentivi e sgravi contributivi per l’occupazione femminile. Così come, in una prospettiva strategica di aumento della natalità, occorre sostenere le famiglie con politiche fiscali premianti in attesa di quella grande e ineludibile riforma che si chiama quoziente familiare. L’esempio francese, a questo riguardo, ha dimostrato che le famiglie sono pronte a fare più figli se opportunamente sostenute e incentivate dallo Stato. E un tasso più elevato di natalità costituisce la garanzia più solida per un Paese, anche dal punto di vista dello sviluppo economico. Concordo con quanto detto dal ministro Carfagna, si tratta di una rivoluzione culturale che siamo chiamati a compiere con coraggio.

DA CHIANCIANO LA NUOVA UDC PER RINNOVARE LA POLITICA A Chianciano, con gli Stati Generali del Centro, sono state gettate le fondamenta per la costruzione della nuova casa dei moderati, aperta a quanti hanno ancora passione civile e vogliono impegnarsi a rinnovare la politica per assicurare la governabilità del Paese e delle istituzioni locali. L’Italia ha bisogno di una profonda rigenerazione politica e morale. È giunto di nuovo il tempo di fare appello alle migliori energie del Paese, alla partecipazione reale delle donne e degli uomini liberi, alla responsabilità delle donne e degli uomini forti, per determinare una grande svolta di cambiamento per il futuro della nazione. La seconda Repubblica è fallita in quanto, anziché costruire una “democrazia degli elettori”, ha finito per dar vita ad una soffocante “democrazia delle oligarchie”, con la instabilità e il vuoto politico nelle istituzioni e il declino della politica e la mancanza di partecipazione nei partiti defragratisi. È per queste ragioni che il nuovo partito annunciato dal presidente Pier Ferdinando Casini punta a riaggregare i tanti moderati e a richiamare all’impegno e alla partecipazione le tante intelligenze rimaste ai margini della vita politica in questi anni per costruire un Paese normale. Dopo le esaltanti parole di Casini e ripartendo dalla giustezza dell’analisi del “Manifesto di Todi”, elaborato dai costituenti Adornato, Buttiglione, Cesa e Pezzotta, riprenderà con maggior vigore l’impegno dei Circoli liberal per costruire anche in Basilicata unitamente al segretario regionale dell’Udc, Agatino Mancusi, e agli altri consiglieri regionali Vincenzo Ruggiero e Gaetano Fierro e di altri aderenti a soggetti e movimenti politici di centro un nuovo partito forte e alternativo capace di recuperare nuovi consensi e la fiducia dei lucani, dopo la deludente gestione del centrosinistra e l’assenza politica dell’opposizione del Pdl. L’Unione di centro, forte delle sue tradizioni, della sua storia, della passione civile della sua classe dirigente, dopo la kermesse di Chianciano sarà la vera novità politica delle prossime elezioni regionali, su cui gli italiani e i lucani dovranno scommettere per ritrovare il senso e le ragioni di un’appartenenza ai valori della politica. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 GIOVEDÌ 24, VENERDÌ 25 SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Premio “liberal Siena 2009”. Convegno “Alice nella globalizzazione - La modernizzazione mancata: l’Italia sospesa tra passato e futuro”. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

B.S.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

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PAGINAVENTIQUATTRO Follie estive. Non bastavano un deputato repubblicano, una tennista e un rapper. Ora ci si mette anche il presidente...

Questa pazza pazza di Andrea Mancia casi sono due: o l’America è impazzita o il “primo emendamento” della sua Costituzione (quello sulla libertà di parola) sta conoscendo un momento di assoluto splendore. Qualunque sia l’interpretazione che si voglia dare al fenomeno, non c’è dubbio che negli States qualcosa stia accadendo. Pensiamo soltanto alla cronaca degli ultimi giorni. Il congressman repubblicano della South Carolina, Joe Wilson, durante il discorso del presidente al Congresso sulla riforma sanitaria, si permette di urlare quello che molti cittadini statunitensi (più della metà, secondo i sondaggi) pensano, ma che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di sussurrare in pubblico: «Obama è un bugiardo!». Apriti cielo. I democratici si scandalizzano (dimenticandosi che Bush=Liar era il meme più affettuoso utilizzato dall’opposizione nei confronti del presidente uscente) e si appellano al rispetto dell’etichetta parlamentare. Intanto Wilson conosce il suo “quarto d’ora di celebrità”, migliaia di tshirt in suo onore (I’m with Joe Wilson!) vengono stampate e vendute da costa a costa. E soprattutto centinaia di migliaia di dollari piovono nelle casse del suo war-chest elettorale per il 2010, ma anche in quello del suo rivale democratico. Il (maleducato) battito d’ali di farfalla a Capitol Hill rischia di provocare un terremoto a Columbia (capitale della South Carolina e città principale del 2° distretto della Camera, collegio in cui è stato eletto Wilson).

I

Ma non basta. Pochi giorni dopo, nel momento cruciale della semifinale femminile degli US Open di tennis, la “schiacciasassi”(o almeno, “schiacciaPennetta”) Serena Williams minaccia di morte una giudice di linea che le ha contestato un “fallo di piede”durante un match-point dell’avversaria. Anzi, come ha giustamente sottolineato Serena al-

però, è stata senz’altro la sceneggiata del rapper Kanye West agli Mtv Video Music Awards di domenica scorsa. In finale per il miglior video “femminile” ci sono Beyonce (moglie dell’altro rapper Jay-Z, grande amico di West) e la giovanissima Taylor Swift (cantautrice pop-country della Pennsylvania). Vince la seconda.

Il buon Kanye, visibilmente alticcio (lo hanno visto passeggiare per il red carpet con una bottiglia di bourbon mezza vuota) non accetta con sportività la sconfitta di Beyonce. E decide di farlo sapere a tutti, in diretta televisiva, salendo sul palco durante il tradizionale discorso di ringraziamento della Swift, strappandole di mano il microfono e biascicando tutto il suo disappunto per la decisione della rilievo mediatico che viene attribuito ai suoi eccessi). Se non fosse che, proprio ieri, il caso Swift-West ha avuto una corsa presidenziale.

Registrando un’intervista per il canale televisivo Cnbc, Barack Obama si è lasciato scappare un commento - rigorosamente off-the-record - sullo “scandalo Mtv”, definendo Kanye West un «jackass» (qualcosa di un po’ più volgare di «coglione»). Immediatamente, il giornalista di Abc News Terry Moran, probabilmente con un telefono cellulare, ha riportato il commento sulla sua pagina di Twitter (che conta oltre un milione di iscritti), gettando nel panico la twittersphere, la “blogosfera”e qualsia-

AMERICA Durante un’intervista alla Cnbc, Obama si lascia andare a un commento (off-the record) contro il cantante Kanye West. E un reporter lo scrive su Twitter

l’arbitro cercando di giustificarsi, non si tratta di una vera e propria minaccia di morte, perché - con il copioso condimento di una decina di “fucking” - la tennista avverte la giudice che «rimpiangerà di non essere morta». A completare il quadro splatter, la minaccia - questà sì - di far ingoiare un paio di palle da tennis alla malcapitata. L’outburst di maleducazione che ha fatto discutere gli americani negli ultimi giorni,

giuria. Sguardi imbarazzati tra gli organizzatori, una marea di “boo” dalla platea e rapido segmento pubblicitario mandato in onda da Mtv per togliersi dall’impaccio mentre West viene trascinato via dalla sicurezza. Ri-apriti cielo. Taylor Swift viene vista piangere in camerino, distrutta dall’episodio (il più bel giorno della vita di una diciannovenne rovinato da un ubriacone), mentre gli Stati Uniti si sollevano - come un sol’uomo - contro la maleducazione di West, che viene costretto a scusarsi per l’accaduto sul suo blog, a furor di popolo. Il rapper scrive di essere «sooooo sorry» (con cinque “o”) per aver rovinato la festa di Taylor e chiede scusa a lei, ma anche ai suoi “fans” e ai suoi «amici di Mtv». L’episodio, anzi il trittico di episodi, potrebbe finire qui. Per essere archiviato come una serie di spiacevoli “mattane” di fine estate accadute in un Paese grande anche nei suoi eccessi (e nel

si altra sfera vi possa venire in mente. Ri-riapriti cielo. Il post, nel giro di pochi minuti, è stato rimosso dalla pagina di Moran. Ma ormai il danno era fatto, scatenando una discussione infinita sul web (che sta proseguendo anche mentre vengono scritte queste righe) e costringendo Abc a un comunicato ufficiale di scuse: «Un impiegato di Abc ha frettolosamente “tweettato” uno stralcio di un commento del presidente che si è poi rivelato appartenere ad una porzione off-the-record dell’intervista. Il tutto è avvenuto prima che il nostro processo editoriale potesse essere completato. Ci scusiamo con la Casa Bianca e con Cnbc e abbiamo compiuto i passi necessari per assicurarci che un episodio del genere non si verifichi più». È davvero pazza quest’America. Quando Wilson ha dato del bugiardo a Obama, i repubblicani ne hanno fatto un eroe e i democratici un demonio. Quando West e la Williams hanno dato fuori di testa, la stragrande maggioranza del Paese li ha attaccati, ma qualcuno è arrivato a ipotizzare un “complotto razzista” nei loro confronti. Adesso che il presidente interpreta (una volta tanto) lo “spirito della nazione”, dimostrando di saper riconoscere un “jackass” quando lo vede, la Abc si scusa al posto suo e cerca di nascondere la notizia. Il primo emendamento è uguale per tutti. Ma c’è sempre qualcuno più uguale degli altri.


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