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È più difficile, diceva Fabio Massimo, adunare nelle avverse guerre la prima coorte che tutto un esercito

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Ugo Foscolo di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 19 SETTEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

C’è un’Italia diversa Era già avvenuto dopo Capaci e Nassiriya: ora anche dopo Kabul. Ogni volta che il terrorismo colpisce agenti di polizia o soldati, dalle parole dei loro famigliari viene sempre fuori l’immagine di un Paese quasi sconosciuto: dignità personale, senso del dovere, amore per la Patria e per lo Stato, visione della vita come missione. Tutto il contrario del declino morale cui assistiamo impotenti ogni giorno… Mentre continuano le polemiche di Bossi e Di Pietro

di Giancristiano Desiderio

Napolitano: «Manterremo tutti i nostri impegni»

a vedova Schifani ce la ricordiamo tutti. In chiesa a Palermo, sull’altare, sorretta dal prete, dice: «Io vi perdono, ma voi vi dovete inginocchiare». Tutti ci ricordiamo Margherita Caruso, vedova del vicebrigadiere Giuseppe Coletta trucidato a Nassiriya, quando disse «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».Tutti abbiamo sentito, ieri l’altro, la mamma di Giandomenico Pistonami dire: «Sì, Giandomenico mio, sono fiera di te, il mio angelo militare». C’è sempre un’Italia che non ti aspetti e che invece c’è. L’Italia migliore perché è fatta di italiani che vivono con la guida di pochi, basilari e semplici principi che, però, guarda caso, sono il succo della vita civile. Matteo Mureddu, Antonio Fortunato, Davide Ricchiuto, Massimiliano Randino, Roberto Valente, Giandomenico Pistonami sono morti, sapendo di poter morire, sacrificando le loro giovani vite sull’altare di chi serve lo Stato che li ha inviati in missione tra la polvere e le montagne di Kabul. I loro familiari - mogli, madri, padri, sorelle, anche gli amici - hanno reagito con la dignità di chi non esibisce il dolore ma alla sofferenza dà il senso della forza dell’ideale.

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segue a pagina 2

di Riccardo Paradisi Il giorno dopo la tragedia di Kabul, il presidente Napolitano blocca discussioni e polemiche: «L’Italia manterrà i suoi impegni in Afghanistan». a pagina 2

Anche il portavoce Nato conferma: no a riduzioni

Perché è irresponsabile parlare ora di “exit strategy” di Andrea Margelletti

Il composto dolore della sorella di Roberto Valente, sergente maggiore rimasto ucciso nella strage di Kabul

Il portavoce della Nato, James Appathurai, conferma le preoccupazioni di molti osservatori: «Ora non possiamo diminuire il contingente italiano». a pagina 3

Medvedev annuncia lo smantellamento degli arsenali di Kaliningrad

Nuova, imponente manifestazione popolare contro Ahmadinejad

Niente più missili sull’Europa: così la Russia ringrazia Obama

Ancora duri scontri a Teheran Aggrediti Mousavi e Khatami

di Enrico Singer

di Antonio Picasso

bama ha cancellato lo scudo antimissili di Bush e Medvedev ha subito cancellato il controscudo che Mosca aveva minacciato di realizzare nell’enclave baltica di Kaliningrad a un passo da Polonia e Germania. Decisione scontata, ma non per questo meno significativa. Dal rischio di una nuova guerra fredda nel cuore dell’Europa a un nuovo clima di distensione che il Cremlino sottolinea e presenta come il possibile avvio di una «cooperazione con Washington contro la prolife-

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razione missilistica». Frase nemmeno tanto sibillina che può essere letta come un’apertura alla principale preoccupazione americana, quella di tenere sotto controllo la corsa agli armamenti - anche nucleari - dell’Iran che, finora, ha goduto del sostegno, più o meno segreto, della Russia. Ad annunciare la rinuncia al contro-scudo è stato, ieri, Dmitri Medvedev che, in tv, ha definito «responsabile» la decisione di Barack Obama.

se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

a pagina 16 I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

nulla è valso il perentorio ammonimento di Ali Khamenei, durante il sermone di una settimana fa, per evitare che l’opposizione al regime degli ayatollah tornasse a far sentire la sua voce. «Divieto assoluto di qualsiasi manifestazione di piazza non autorizzata e massimo rigore nei confronti di ogni trasgressione». Questo era stato l’ordine impartito dalla Guida suprema. Ieri al contrario, durante le celebrazioni della “Giornata di al-Quds”, organizzata provocatoriamente dal regime per ribadire

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l’appartenenza di Gerusalemme all’islam, ma soprattutto ultimo venerdì di Ramadan, tutto l’Iran è stato nuovamente interessato da episodi di proteste e scontri nelle piazze. C’era da aspettarsi che un’occasione tale potesse essere sfruttata anche dall’Onda verde per tornare a contestare il regime. In questo senso, le minacce di Khamenei erano suonate in parte come un timore da fugare per tempo, in parte come un inevitabile svolgimento degli eventi.

IN REDAZIONE ALLE ORE

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Dopo la strage/1. Come dopo Capaci e Nassiriya l’Italia reale è spesso diversa dal declino morale cui assistiamo ogni giorno

Italiani come non siamo

Dignità personale, senso del dovere, amore per lo Stato: le reazioni dei famigliari delle vittime di Kabul raccontano il Paese che vorremmo di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Il dolore è forte, ma - come dicono i cronisti - “i familiari delle vittime”sanno che il loro stesso dolore è parte delle vite dei soldati che non sono caduti in vano. Il presidente della Repubblica ha usato poche ma giuste parole e tra queste ha detto: «L’Italia vi è riconoscente». Sì, la riconoscenza è ciò che serve, nel vero senso della parola: riconoscere pubblicamente che ci sono italiani che credono nell’Italia e della vita ideale hanno fatto una ragione di vita. Davanti a questa idea di Italia fatta persona e storia ci si inchina e si dice grazie. Le nostre democrazie che vivono nel benessere e producono benessere non sopportano troppo a lungo la visione delle bare dei soldati. Perché morire al fronte - sì, al fronte: chiamiamo le cose con i loro nomi - se qui si vive in pace? Il prezzo che pagano le famiglie dei parà uccisi con un’azione di terrore alle 12.10 a Kabul è perciò ancora più alto. Le parole del generale Alberto Ficuciello, padre di Massimo Ficuciello morto nella strage di Nassiriya, sono vere, terribili ma umanissime: «Il dolore può avere diverse sfaccettature e nel mondo dei militari il dolore assume forme particolari, diverse. Perché è legato alla consapevolezza di avere dei compiti da svolgere, alla lealtà verso i propri commilitoni. Anche un soldato piange, ma è un pianto di un altro genere».

Si può dire: il pianto delle famiglie dei militari uccisi in Afghanistan è un pianto diverso: è il pianto della patria. È su queste lacrime che costruiamo la coesistenza della nostra vita civile. È il pianto di chi sa che delle vite si sono sacrificate per un ideale che ha in sé il senso della vita umana. È una legge dura dell’esistenza e costa fatica accettarla, ma ciò che non possiamo dire è che non sia una legge umana. La morte dei nostri soldati è un Appello e la dignità del dolore delle mogli e dei genitori è la risposta nobile e orgogliosa a quell’Appello. Questa è davvero la nostra miglio-

La Lega - con Calderoli - fa marcia indietro sul ritiro entro Natale proposto da Bossi

Dal Colle stop alle polemiche «L’Italia manterrà gli impegni» di Riccardo Paradisi i resta in Afghanistan, per ora. La linea che esce dal Consiglio dei Ministri è quella di mantenere il nostro contingente a Kabul rimotivando però la nostra missione. Anche la Lega sembra per ora rientrata nei ranghi. Bossi non parla più di ritiro delle truppe entro Natale, come aveva fatto giovedì scorso, immediatamente dopo la strage dei nostri sei paracadutisti.

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Anche se durante il Consiglio dei ministri, il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli, non ha mancato di sollevare qualche eccezione a nome della Lega. Non su Kabul, per la verità ma sull’impegno in altre aree, come ad esempio il Kosovo. Sull’Afghanistan La Russa ha reso nota la linea dell’esecutivo: l’Italia non prenderà decisioni unilaterali in disaccordo con gli organismi internazionali, anche se è confermato il rientro entro Natale dei 500 soldati in più inviati per le elezioni. Il rientro completo avverrà quando lo decideranno la Nato e l’Onu, ma la strada è lunga. Il premier Berlusconi ha invece ribadito che serve una transition strategy sull’Afghanistan: va cioè aumentata la capacità del governo Karzai di prendere in mano la situazione, garantire la sicurezza nel paese e contestualmente consentire alle truppe alleate di diminuire gli organici. Una linea quella della permanenza in Afghanistan caldeggiata dal presidente Giorgio Napolitano che si trova in Giappone per una visita ufficiale: «Discutere l’equilibrio tra le varie componenti - militari, civili, istituzionali della missione mi sembra argomento degno di nota. Il che non ha nulla a che vedere con intenzioni di ripensamento o annullamento di un impegno che il Consiglio Supremo di Difesa ha stabilito essere pienamente coerente e condiviso dalle istituzioni italiane». In particolare, riguardo alla presenza dei contingenti italiani a Kabul ed Herat, Napolitano ha sottolineato che non si tratta solo di una presenza militare; i componen-

ti civili di Trading, e di Institutional Building sono sempre stati molto importanti anche in altre aree di crisi. «Non spetta a me comunque – ha poi chiarito il presidente – ma al governo e al Parlamento una eventuale ridiscussione sull’impegno italiano». E il governo si era espresso già dalla mattina per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini: «Noi finora siamo stati in Afghanistan senza chiedere molto al governo di Karzai. Abbiamo dato. Abbiamo dato i nostri impegni economici, le vite dei nostri eroi, non solo italiani. Ora è il momento di una svolta. È il momento di dare degli obiettivi, di verificarli e di chiedere al governo afghano di rispettarli». Per il Colle comunque non c’è nulla da rivedere nella missione italiana in Afghanistan. C’è solo da mantenere gli impegni presi. E anzi il presidente della Repubblica registra non senza soddisfazione che dal Pd non trapela alcuna divisione sulla permanenza italiana in Afghanistan. E infatti il Pd in questa occasione, sembra aver ritrovato una sua unità nel dire un secco ”No” al ritiro. Un no unitario che diventa uno strumento polemico nei confronti del governo: «Si sperava che almeno nel giorno del lutto e del dolore il governo riuscisse a parlare con una sola lingua e un solo accento. Ancora una volta sentiamo invece il presidente del Consiglio e il ministro Bossi esprimere posizioni dissonanti da quelle del ministro della Difesa e del ministro degli Esteri».

«Chi parla di ritiro delle truppe in questo momento – sostiene il leader dei centristi Pier Ferdinando Casini – è solo un irresponsabile»

Anche il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini parla del dovere di mantenere gli impegni assunti: «Non è il momento di parlare di ritiro, chi lo fa è un irresponsabile. Queste dichiarazioni, per chi abbia un minimo di esperienza, finiscono solo per aumentare i rischi dei nostri militari. I terroristi che prendono nel mirino gli italianiosserva ancora il leader centrista – si prefiggono lo stesso risultato che sembrano evocare quelle voci irresponsabili, ascoltate ieri e ancora oggi da alcuni esponenti di governo e da una parte dell’opposizione, che hanno aperto il dibattito sul ritiro delle nostre truppe».

re Italia. Qui si crede in ciò che si fa. Perché la testimonianza c’è solo c’è il testimone. Diciamolo fino in fondo: i soldati erano lì perché c’era un compenso economico e perché in alcune parti del nostro Paese l’esercito è un’occasione di lavoro. Ma nessuno di loro era lì per i soldi (peraltro pochi, pochi, pochi). Perché non c’è soldo che formi il soldato, non c’è compenso che ricompensi il sacrificio. Solo la consapevolezza di sapere e credere in ciò che si fa crea il soldato e gli dà la ricompensa per la vita e la storia. Scoprire che gli ideali di lealtà, onore, sacrificio e fedeltà allo Stato sono non solo dei soldati, ma di chi ha scelto di condividere la vita dei soldati è come scoprire il cuore vivo della nostra vita nazionale. È l’Italia semplice che vive proprio perché mostra di saper morire assolvendo al compito che ha scelto “per” la vita. È l’Italia vera.

Perché c’è un’Italia finta. È il contrasto che ci fa parare innanzi la verità degli italiani e ci stupisce. C’è un’Italia che non crede in ciò che fa o che dovrebbe fare. Meglio: c’è un’Italia che non crede nell’Italia. È quella ufficiale, istituzionale, politica ma anche sociale che è sempre pronta a pronunciare “alte e nobili” parole che, però, suonano vuote, retoriche e si dicono solo perché così impone l’arte della messa in scena. È questa un’altra Italia, è quella dominante che sai benissimo che c’è e te la trovi innanzi ovunque, dal comune al parlamento, dalla scuola alla sanità: è l’Italia senza carattere e senza credo, ma con tanta sottile intelligenza e furbizia che diventano calcolo e tattica e quindi finzione, manovra, intrigo e realismo ormai privo, perché svuotato, di realtà. Questa Italia sa che tutta la scena pubblica è una finzione in cui tutti - chi parla e chi ascolta - fingono di credere in cose che sono solo parole: lo Stato, il dovere, la coscienza, la libertà.Tutto è un paravento per nascondere ciò che si fa ma non si dice. Poi sei soldati, fieri di esserlo, muoiono e la preghiera della Folgore da sempre recita la loro fine: «Se è scritto che cadiamo, sia». E la finzione appare per quel che è perché quando la vita vera entra in scena la vita falsa, sia pure per un momento, muore. In fondo, se siamo ciò che siamo quando ci sentiamo uniti nella vita della nostra storia nazionale lo dobbiamo ai nostri morti, a chi ha voluto e saputo morire per la patria, per noi. O forse qualcuno si sente ciò che è -


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Il portavoce della Nato: «Non possiamo ridurre ora il nostro impegno»

Perché è irresponsabile discutere proprio adesso di una “exit strategy” di Andrea Margelletti l grave attentato contro i nostri militari di giovedì pone pesanti interrogativi sul futuro della presenza italiana in Afghanistan. Come purtroppo accade molto spesso in situazione come queste, subito l’attenzione è stata posta sulle possibili strategie di uscita dal conflitto. È ormai una sorta di consuetudine, quasi un riflesso condizionato, che regolarmente, e tristemente, si ripete ad ogni grave attentato che colpisce i nostri militari. A maggior ragione in una situazione come quella che stiamo vivendo adesso in Afghanistan dove il governo Karzai non brilla certo per forza e autorevolezza, alle prese con gravi problemi di legittimazione interna e con il fiato sul collo dei suoi sponsor internazionali, e la guerriglia sembra sempre più forte, pronta a colpire con la massima violenza ovunque.

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Uscire da questa impasse non sarà facile. Ancora oggi non sappiamo quale sarà il futuro del processo elettorale - dopo che l’Unione Europea ha chiesto conto della regolarità

italiano, europeo - per questo o quel governo in carica? L’Italia migliore non chiede di andar via, ma non chiede neanche di restare. Chiede che sia rispettato il senso della morte per dare la vita. Chiede “riconoscimento”. Non quello ufficiale, dei funerali, delle cerimonie, della retorica di Stato senza Stato. Ma quello dell’esempio e della testimonianza. Perché ci si sacrifica sul campo di battaglia e sulle strade del terrore talebano di Kabul, ma anche nella vita civile di tutti i giorni se si svolge un compito che richiede sforzi, lealtà, principi. Rendere onore ai nostri eroi e al sacrificio degli affetti delle vite private dei

La madre loro familiari - gli orfani, le vedove - non può e non deve significa- di Giandomenico Pistonami, re la corona dei fiori del ricordo la signora istituzionalizzato, ma il miglioraAnnarita, mento della nostra vita politica e ha detto civile. Se è vero che Matteo, Antorivolgendosi nio, Davide, Massimiliano, Roberal figlio: to, Giandomenico sono morti per «Sì, la libertà è il senso di questa libertà che deve essere più vero e Giandomenico saldo nelle istituzioni e nelle co- mio, sono fiera di te. Il mio scienze. La madre di Giandomeangelo nico, la signora Annarita, ha detto militare» rivolgendosi al figlio: «Sì, Giandomenico mio, sono fiera di te. Il mio angelo militare». Che sia la fierezza di una nazione che mostri di essere all’altezza dei suoi uomini migliori.

di oltre un milione di voti - e questo aggiunge ulteriore incertezza ad un quadro già di per estremamente complesso. Le polemiche sulla exit strategy - o, peggio, sulla formula adesso più in voga del “a Natale tutti a casa”- non contribuiscono certo a migliorare la situazione sul terreno. Anzi, probabilmente la peggiorano e basta, perché tali parole possono essere interpretate dai nemici della stabilizzazione afghana - gli stessi che hanno compiuto l’attentato di giovedì - solo come segni di debolezza e scollamento. Quando in realtà, adesso, il segnale da dare dovrebbe essere di tenore totalmente diverso. La Nato e l’Occidente tutto, lo sappiamo, hanno sbagliato molto in Afghanistan. Per anni hanno prestato scarsa attenzione al Paese. Po-

che truppe sul terreno, troppo spazio a caveat che hanno indebolito e non poco l’efficienza operativa delle azioni sul terreno e, soprattutto, un impegno sul fronte della ricostruzione civile e politica limitato.

La Nato e l’America - quest’ultima per anni impantanata in Iraq hanno fatto poco per l’Afghanistan e per la popolazione afgana. Persino sul fronte dell’estensione dei principi democratici, come dimostra l’impasse di oggi, la loro azione ha lasciato a desiderare e l’incertezza sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli eventuali brogli alle presidenziali dello scorso 20 agosto non sta certo giovando all’immagine dell’Occidente. Con l’amministrazione Obama - ma già dei segnali analoghi si erano intravisti nell’ultimo scorcio bushiano - si è cercato di cambiare marcia. Le truppe sul terreno sono state aumentate, il tanto discusso “surge afgano”, sul piano diplomatico è stato adottato una strategia più aggressiva che ha portato ad un maggiore coinvolgimento, e responsabilizzazione, del Pakistan, mentre sul fronte della ricostruzione il budget per i vari progetti è stato incrementato. Prima di vedere i frutti di questa strategia occorrerà però un po’ di tempo e con molta probabilità i primi risultati si vedranno solo nei prossimi anni. Come ha detto ieri il portavoce della Nato, James Appathurai, «non possiamo permetterci di ridurre ora il nostro impegno». “Mollare”adesso, e montare un caso politico sulla exit strategy, mostrando al mondo (i nostri nemici compresi) troppa fretta nel voler riportare a casa i nostri ragazzi, sarebbe dannoso. Dannoso perché inficerebbe il grande lavoro fatto in Afghanistan negli ultimi mesi. I nostri militari, con in testa la Brigata Folgore, grazie soprattutto al suo approccio tutto incentrato sulla conquista del consenso della popolazione, sono stati la punta di lancia di questa strategia. Probabilmente lo stesso “approccio italiano” alle missioni di stabilizzazione ha fatto un po’ da precursore al cambio di strategia impresso dal generale McChrystal e ne ha in qualche misura anticipato i contenuti. Di questo, l’Italia può essere orgogliosa. Ma allo stesso tempo non può che sostenere i suoi uomini in divisa impegnati in questo duro lavoro. Poi, se, e quando, la situazione sul terreno dovesse migliorare, potremmo anche iniziare a parlare di strategia di uscita e di ritorno a casa, sempre di concerto con gli alleati della Nato. Fino ad allora l’unica cosa da fare è serrare i ranghi, nel rispetto del lavoro, e del sacrificio, dei nostri ragazzi.


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Dopo la strage/2. Nones, Jean e Silvestri sottolineano l’insufficienza degli investimenti militari. Ma il nodo, in tempi di crisi, è ancora più intricato

Un governo di tutti gli afgani Gli esperti: «Più risorse per la ricostruzione, ma soprattutto serve una politica capace di coinvolgere tutti i settori della società» di Errico Novi

ROMA. Non poteva che essere così. Era scritto che il nodo dell’intervento occidentale in Afghanistan si incrociasse con quello della crisi economica. E nelle valutazioni degli analisti è proprio dal superamento di questo intreccio sempre più complicato che dipende la sorte dei nostri militari, innanzitutto, e in definitiva l’esito di questa lunghissima missione. Un intervento che d’altra parte è nato per rispondere all’assalto del terrorismo al-qaedista e che non può risolversi in ogni caso con un ritiro anticipato: «Ne deriverebbe una gravissima vittoria strategica per il terrore fondamentalista, e il suo propagarsi ben oltre i confini afghani», concordano gli esperti del Comitato di difesa interpellati da liberal.

Fatto sta che adesso le forze alleate sembrano sospese in una sorta di limbo. In una condizione in cui il livello di controllo del territorio non consente certo di scongiurare tragedie come quella di cui sono rimasti vittime sei paracadutisti italiani: né offensiva militare dura né peace keeping, come l’attentato di giovedì scorso dimostra. Il professor Michele Nones interpreta però questa fase come l’inevitabile conseguenza della virata strategica verso le posizioni “europee”: «Da tempo si misurano due diversi approcci, nel fronte alleato: quelle tradzionale, classico che vede nell’intervento militare la solu-

zione alla crisi e l’altro più recente che ha caratterizzato l’intervento di Paesi tra cui l’Italia e che privilegia la ricostruzione civile ed economica del Paese. In base a questa seconda visione il nodo militare può essere sciolto con il miglioramento delle condizioni di vita per gli afghani, un’idea verso la quale sembrano adesso maggiormente orientati, appunto, anche

STEFANO SILVESTRI «Le difficoltà sono legate al coinvolgimento dei Paesi dell’area, dall’Iran al Pakistan, all’India e alla Cina. Non si può prescindere dal dialogo»

gli Stati Uniti», ricorda il professore di Storia americana della Luiss.

Se lo stallo c’è è perché «non si è conseguenziali dal punto di vista dei finanziamenti: si continua a destinarne la gran parte alla spesa militare anziché al rafforzamento dell’economia afghana. I costi sono nettamente sbilanciati a favore sia

del sostegno della missione che dell’addestramento di forze di sicurezza locali. È questo il problema: perché l’insufficiente attenzione alla vita civile del Paese impedisce di isolare i terroristi di al-Qaeda». La tragedia di Kabul è esemplare, dal punto di vista di Nones, nel senso che «un attentato del genere può essere portato a termine solo se in città esiste una buona rete di coperture». L’analisi suscita un inevitabile dubbio: davvero con un Afghanistan meglio avviato sulla strada dello sviluppo economico e civile i nostri soldati sarebbero meno esposti al rischio di attentati? «Non mi sogno di dire che i nostri militari non correrebbero pericoli. Rispetto ai metodi di al Qaeda non esistono sistemi di protezione assoluta, ma si può creare un contesto in cui i terroristi abbiano maggiori difficoltà».

Non si tratta di implementare una rete di hi-tech intelligence ma di human intelligence, sostiene dunque Nones. «E per arrivarci, per indurre almeno una parte del popolo afghano a collaborare, bisogna diffondere l’idea che aiutare le forze occidentali serva a creare condizioni di vita migliori». Un lato oscuro ed evidentemente non controllabile da parte del fronte alleato riguarda «il livello di corruzione sempre più alto nell’amministrazione Karzai: questo complica la politica di avvicinamento della popolazione, perché se quei po-

chi aiuti direttamente destinati alla ricostruzione civile finiscono nelle mani di quattro oligarchi il distacco aumenta». Un fatto è certo, d’altra parte: il comandante delle forze occidentali Stanley McChrystal si appresta a chiedere altri 50mila soldati al presidente Obama. «Diciamo che non sono risolutivi», dice Nones, «e comunque dipende dal quadro strategico nel quale si intende utilizzarli: vanno bene se ci saranno investimenti altrettanto forti per lo sviluppo dell’economia, ma certo in una fase di crisi tutti i Paesi occidentali tendono a riservare le risorse più per le necessità intrerne». E allora? «Ci vuole un forte impegno politico, basato sull’idea che la stabilizzazione dell’Afghanistan determinerebbe una vittoria magari non definitiva ma comunque utile contro il terrorismo. E che

MICHELE NONES «Lo stallo deriva anche dal fatto che si continua a destinare gran parte degli investimenti alla spesa militare anziché al rafforzamento dell’economia afghana»


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L’avvicendamento degli uomini e i problemi della missione

Soldi e organizzazione Le colpe della politica Pochi fondi per l’addestramento e tempi troppo brevi: tutto quello che c’è da cambiare di Stranamore mmesso che il governo di centrodestra non faccia quello che non è riuscito al centrosinistra, ossia concludere la stagione delle missioni militari internazionali ed escludere così l’Italia dal novero dei Paesi che contano qualcosa sul palcoscenico internazionale, è certamente il caso di “aggiustare” il meccanismo di organizzazione e finanziamento delle missioni. La cosa più urgente, soprattutto nei teatri di guerra come è quello afgano, riguarda la durata dei turni operativi dei reparti, che attualmente si avvicendano ogni sei mesi. Troppo poco. Perché tra passaggi di consegne in arrivo e poi in partenza e attività logistiche finisce che il reparto “lavora” a pieno ritmo forse 4 mesi. Specie in zone dove i rapporti personali con capi, anziani, autorità locali sono cruciali, così come con gli alleati afgani, per non parlare della esigenza di padroneggiare il quadro intelligence 6 mesi sono insufficienti. E infatti molti contingenti alleati hanno una turnazione ben più lunga, che arriva e supera in qualche caso i 12 mesi.

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CARLO JEAN «Se si investe solo nella ricostruzione civile, se non ci fosse chi materialmente protegge le opere, queste opere di ricostruzione non si farebbero»

viceversa, se ce ne andiamo consegneremmo al fondamentalismo una vittoria tutt’altro che periferica. Se prevalessero discorsi come quello della Lega in Italia, tutti via da Kabul entro Natale, ci troveremmo i terroristi a piazza San Pietro».

Ma la crisi economica rende davvero praticabile il doppio impegno, militare e civile? Lo si deve per forza sostenere, osserva il generale Carlo Jean: «Se si investe solo nella ricostruzione civile, se non ci fosse chi materialmente protegge le opere, queste opere di ricostruzione non si farebbero». Allora l’equazione è in una sorta di raffinatissimo diagramma: «La crisi finanziaria mondiale favorirà senz’altro delle resistenze, che dipendono soprattutto da un meccanismo: dall’abilità delle classi politiche occidentali di calibrare gli interventi in base alla capacità di tenuta dell’opinione pubblica». In termini elementari il diagramma richiede «più soldati in meno tempo», spiega l’esperto di geostrategia, dal momento che «un impiego di forze militari più consistenti consentirebbe di accelerare l’addestramento delle forze militari afghane», in modo che siano queste ultime a subentrare progressivamente nella protezione delle opere civili. Sempre in base all’equazione, l’Occidente avrebbe così la possibilità di «diminuire man mano il numero di unità impiegate e aumentare proporzionalmente il loro tempo di permanenza». I rischi per il nostro contingente, come per quelli degli altri Paesi, restano, «ma a

maggior ragione bisogna ben calibrare gli interventi con le risposte dell’opinione pubblica, perché a ogni sussulto in Occidente i talebani acquisiscono maggior vigore».

Tante risorse militari da concentrare in tempi brevi possono non essere insostenibili, secondo un altro autorevole esperto che liberal chiama in causa, il professor Stefano Silvestri, «soprattutto se l’impiego dei soldati si inserisce in un disegno più complessivo, che deve essere innanzitutto politico, di stabilizzazione e pacificazione dell’Afghanistan», spiega il presidente dell’Istituto affari internazionali. Le spese sono in ogni caso «infinitamente inferiori rispetto a quelle destinate alla guerra in Iraq», a meno che la crisi afghana non si protragga troppo a lungo, naturalmente: le difficoltà, nota Silvestri, «sono piuttosto quelle legate al coinvolgimento di tutti i Paesi dell’area, dall’Iran al Pakistan, all’India e alla Cina. Non si può prescindere d’altronde dalla ricerca del dialogo con tutte le componenti della società afghana, non solo con Karzai e Abdullah ma anche con tante tribù che hanno contatti con i talebani». L’incostanza del lavoro compiuto finora su questo terreno dipende dal fatto che la questione strettamente politica «è stata sostanzialmente ignorata da Bush: anche quando c’è stato il compromesso su Karzai, e si è avuta dunque una possibilità di pacificazione del Paese, non si è insistito. Ora bisogna recuperare». In tutto questo non c’è dubbio, aggiunge Silvestri, che l’esposizione al rischio per i nostri soldati «sia aumentata: è così anche a causa della maggiore centralità acquisita dalla questione afghana». In ogni caso l’Occidente a carte utili da giocare sul piano diplomatico «visto che l’apertura degli Usa al mondo islamico facilita il dialogo con tanti leader islamici moderati». L’aumento di 50mila unità previsto da McChrystal può d’altra parte «indurre il timore che siamo di fronte a un nuovo Vietnam: aumentano i soldati ma non la via politica al superamento della crisi. Ma questo è solo un altro buon motivo per impegnarsi di più proprio sul terreno della politica».

simile, anche se con minori capacità combat, quello in Bosnia invece è su telaio reggimentale.

Per poter sostenere deployment di almeno 9 mesi occorrerebbe un Esercito di campagna più consistente, con brigate più grandi. Il che non vuol dire necessariamente più soldati, ma solo più soldati proiettabili. E con un recupero di efficienza si potrebbe fare, se intanto i tagli di bilancio non colpissero proprio l’arruolamento di giovani volontari a conferme brevi o medie. E questi soldati poi andrebbero tutti addestrati ed equipaggiati a dovere, mentre si dovrebbero abbandonare operazioni politico propagandistiche stile “strade sicure/pulite”. Un governo che avesse a cuore le proprie forze armate considererebbe prioritaria una riforma del genere. Invece del famoso progetto di riforma sbandierato a suo tempo non c’è ancora traccia: la supercommissione di alta consulenza avrebbe dovuto licenziare uno schema di legge delega in parlamento a fine luglio. Ma funziona così bene che naturalmente non ha ultimato i lavori. Il che non sorprende visto i ritmi con i quali opera.

Molti contingenti alleati hanno una turnazione ben più lunga, che in qualche caso supera i dodici mesi contro i nostri sei

Tra l’altro il continuo valzer di avvicendamenti di uomini e, in parte, di mezzi e materiali, impone un costoso tour de force logistico. Tutto questo i generali lo sanno benissimo: è che le nostre Forze Armate non sono organizzate e per certi aspetti non hanno la mentalità adatta per un simile cambio di marcia. Intendiamoci, miglioramenti negli anni non sono mancati: ad esempio un tempo capitava che un Comando di una Brigata gestisse reparti non propri, perché i comandi e i reparti ruotavano con tempi diversi. Oggi invece il Comando della Brigata Folgore opera in larga misura con i “suoi” uomini e reparti, ovviamente rafforzati con altre pedine operative e di service e combat support. Inoltre le nostre Brigate, con l’eccezione proprio della Folgore, sono un po’troppo striminzite per assemblare contingenti omogenei a livello brigata. In pratica si “assemblano” contingenti pescando di qua e di là. Il che non è certo ottimale. La questione è complicata dal fatto che l’Italia è simultaneamente impegnata su più fronti, con contingenti della più varia consistenza e capacità: ad esempio il contingente in Libano è a livello brigata leggera, quello in Kosovo è ancora per qualche mese relativamente

C’è poi un secondo punto. I costi delle missioni sono finanziati con provvedimenti extra bilancio ad hoc che fanno venire l’orticaria al ministro Tremonti. Ora, con un’opera meritoria il Capo di Stato Maggiore della Difresa, il generale Camporini, ha convinto la politica ad inserire in questi provvedimenti anche gli oneri di addestramento e preparazione dei reparti ed un minimo di risorse per acquistare materiali ed equipaggiamenti. Un tempo invece si pagavano solo il soldo extra e i costi vivi diretti. Però ancora non basta, perché i soldi non bastano per coprire il depauperamento e ammortamento accelerato dei mezzi. In pratica, i Lince distrutti, usurati, gli elicotteri che bruciano le ore di volo ad un ritmo ben più elevato di quello previsto, le armi che… sparano, le munizioni etc. In larga misura bisogna attingere allo striminzito bilancio ordinario, mettendo a terra tutti reparti e i mezzi che non sono impiegati/impiegabili in teatro. Anche a questo bisognerà porre rimedio, magari copiando da Stati Uniti, Gran Bretagna e in parte Francia. Perché non c’è nulla da studiare o da inventare.


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Dopo la strage/3. Gli Usa seguiranno la lezione irachena. Più tecnici per sviluppare l’economia e le infrastrutture

Obama cambia strategia

I più ascoltati think-tank gli consigliano, oltre allo sforzo militare, un impegno per la ricostruzione. E un rapporto di McChrystal dice... di Pierre Chiartano lui il comandante in capo delle forze armate statunitensi, è quindi naturale che tutti ascoltino ciò che ha da dire Barack Obama sul rethinking della strategia per l’Afghanistan, per capire cosa accadrà nel prossimo futuro. L’Italia è scossa dalla grave perdita subita, ma anche gli Usa, il generale McChrystal in testa, si sono accorti che qualcosa non funziona sul terreno. Sono 4mila, per adesso, gli uomini in più che verranno inviati in Centrasia, per meglio addestrare la polizia e l’esercito afghano.

È

Probabilmente il focus sarà spostato sullo sviluppo civile, grande cruccio del nuovo inquilino della Casa Bianca. Il Pentagono, per voce del comandante a Kabul, aveva chiesto dai 30mila ai 40mila uomini in più, Obama sembra voler resistere alle sirene dei militari. Per lui la strada maestra è quella già usata da John Kennedy per il Sudamerica nei primi anni Sessanta, con l’Alleanza per il progresso. Per

adesso, la luce verde è ancora per il surge dei 17mila militari già previsti che si aggiungerebbero ai 38mila già presenti di Enduring Freedom e a quelli prestati all’Isaf. Come previsto nel piano delineato in marzo. L’occhio di Washington non può essere solo diretto a Kabul, ma anche a Islamabad, perché è lì che stanno scommettendo se gli Usa rimarranno o faranno le valigie. E si comportano di conseguenza nei loro stretti

Una nuova politica dove avranno tribuna sia i comandi militari che le forze diplomatiche, sia le ong che i partner della Nato e le organizzazioni umanitarie.

Per Obama la situazione si tinge di scuro, soprattutto quando parla dell’area di con fine tra Afghansitan e Pakistan, il cosiddetto Afpak, «una delle aree più pericolose del mondo» l’ha definita il presidente, in passato. Oltre a costruire un locale di esercito STANLEY A. McCHRYSTAL 134mila uomini e una forza di polizia di 82miIl capo la unità, gli sforzi magdelle forze giori andranno verso le militari strutture civili. Nel piainternazionali no di Obama ci sarebbe in Afghanistan un forte incremento ha chiesto della presenza di consial presidente glieri, con l’invio di cenObama tinaia di tecnici nel setl’invio di altri tore agricolo, ingegnequarantamila ristico e legale. Un apuomini proccio che secondo la sul teatro Casa Bianca aiuterà il delle operazioni governo a combattere la corruzione, il traffico di droga e a garantire i rapporti con i gruppi pashtun servizi base per i cittadini. Ma oltre confine. Potremo definirla vediamo quali correnti di pen“concertazione”, la strategia siero sono all’opera per inche Obama vorrebbe applicare. fluenzare l’esecutivo sulle scel-

te per la nuova politica centrasiatica. Secondo il Council on foreign relations, noto think tank, legato alla figura di Henry Kissinger, gli Usa devono affrontare un forte calo di consensi nei confronti di questa guerra. Nel mezzo di una crisi economica epocale è normale che la gente guardi più agli interessi domestici che altrove. Visto anche che le violenze in Afghanistan sono aumentate nell’ultimo anno. Per il Council è in gioco la credibilità sia degli Usa che del Pakistan nella lotta contro l’ultrafondamentalismo islamico. L’Afghanistan è dunque la «guerra di Obama», come l’ha definita la stampa americana, ma non è un conflitto che Washington può permettersi di perdere. «Altrimenti quelle lande torneranno ad essere un paradiso e una base per il terrorismo internazionale» sostiene Daniel Senor del Cfr. Il

generale dei Marines, James Jones, national security adviser del presidente, all’inizio dell’estate aveva sconsigliato il generale McChrystal dal chiedere un aumento delle truppe. Il Cfr

ROBERT GATES «Serve una strategia complessiva, ma va continuamente aggiustata, secondo quello che succede sul campo», dice il segretario alla Difesa Robert Gates

suggerisce comunque che si crei uno spirito bipartisan sull’argomento, facendo resistenza al riflesso condizionato di contrastare sempre la politica del governo da parte dell’opposizione repubblicana. Più di cento morti tra i soldati Usa, accuse di brogli a Karzai e secondo le parole del capo degli Stati maggiori riuniti, Mike Mullen «un quadro generale


prima pagina della sicurezza deteriorato», non sono digeribili per nessuno. E lo stesso comandante in capo del settore, generale David Petraeus, ieri da Londra, gli faceva eco: «I talebani hanno

ni». Non bisogna assolutamente farsi prendere da tendenze «disfattiste», soprattutto ora, che la nuova strategia di Obama sta per partire. Un mix militare, civile ed economico che «combina nuove e più DAVID PETRAEUS efficaci misure militari di coun«I talebani terinsurgency a hanno un vero sforzo incrementato per la costruziola loro ne di una struttuinfluenza ra-nazione in Afe la loro forza»: ghanistan». è questa l’opinione I punti nodali del generale sono che non è che ha guidato vero che gli afle forze ghani siano coninternazionali tro la modernità. in Afghanistan Troppo spesso

incrementato la loro influenza e la loro forza». Giovedì, anche il Pentagono aveva detto la sua. Le contestate elezioni in Afghanistan hanno «complicato il quadro» per l’amministrazione Obama, in vista di una revisione delle strategie di guerra degli Stati Uniti.

Questo l’intervento del segretario alla Difesa, Robert Gates, nel corso di una conferenza stampa. Per Gates le linee guida per l’Afghanistan restano i successi ottenuti in Iraq. «Serve una strategia complessiva, ma va continuamente aggiustata, secondo quello che succede sul campo» ha affermato ieri in conferenza stampa. Poi alcuni alti ufficiali hanno spiegato che il riferimento ai successi iracheni non facevano riferimento al surge. Come aveva già speigato il generale Fabio Mini a liberal. Era stato attribuito erroneamente all’aumento graduale di truppe un successo che era legato al cambio di strategia “politica” in Iraq: tra l’altro la separazione fisica tra sunniti e sciiti. Il surge era solo la ruota di scorta per Petraeus, in caso non avesse funzionato la nuova strategia. Sullo sfondo gli ammonimenti di molti che incominciano a fare dei paragoni con il Vietnam. E c’è chi già scongiura il pericolo. Questi i punti da cui partire, per il Brookings instituition, il pensatoio più vicino all’area culturale della Casa Bianca. «Ci sono problemi di strategia di base, specialmente dal punto di vista economico e dello sviluppo» spiega Michael E. O’Hanlon, specialista dell’istituto americano. Ma sottolinea che qualunque cosa possa fare Washington, augurandosi che faccia la cosa giusta, niente potrà funzionare senza il contributo attivo «dei nostri amici afgha-

sono stati descritti come il cortile dei vari imperi che si sono succeduti nel tentativo di domarli. Ora gli afghani vogliono il progresso e «solo il 6 per cento della popolazione appoggia i talebani», spiega l’esperto del Brookings. Sarebbero ancora largamente filoamericani, anche se l’andamento del gradimento segue i successi della guerra al terrorismo. Anche se ancora di ridotte dimensioni l’esercito afghano comincia a combattere bene e si sta integrando con le altre forze Nato. L’economia è ancora povera e dominata dall’oppio, ma se guardiamo i numeri del pil “legale” la crescita è intorno al 10 per cento annuo. In America non sono sfuggite neanche le dichiarazioni del premier Ber-

DANIEL SENOR «Se ce ne andremo, quelle lande torneranno ad essere un paradiso per il terrorismo internazionale» sostiene Daniel Senor del Council for Foreign Relations

lusconi a Brussel, sul ritiro rapido dei nostri militari.

Gary Schmitt dell’American entrprise institute ha sottolienato come «sia un momento veramente triste quando una nazione perde alcuni suoi uomini (...) è altrettanto triste che il leader di quel Paese risponda immediatamente a quelle morti, suggerendo una riduzione dell’impegno fino al ritiro dal conflitto». McChrystal ha da pochi giorni consegnato alla Casa Bianca il suo rapporto sull’Afghanistan. I contenuti devono essere particolarmente delicati, se il Pentagono e il segretario Gates vogliono tenere il generale a distanza da l Congresso Usa. Comunque il tempo della riflessione per Obama sta per scadere.

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È essenziale ricordare l’esempio di Petraeus e far parlare al Paese McChrystal

«Sosteniamo Barack, se aumenta le truppe»

La lettera-programma dei candidati repubblicani che spiega come vincere un conflitto maledetto di Lindsey Graham, Joseph I. Lieberman e John McCain n numero sempre crescente di americani inizia a dubitare della necessità di avere le nostre truppe di stanza in Afghanistan e della possibilità di vincere questa guerra. Noi crediamo non soltanto che si possa vincere, ma anche che non abbiamo altra scelta. Dobbiamo prevalere in Afghanistan. Siamo entrati in questa guerra perché gli attacchi dell’11 settembre erano una diretta conseguenza del paradiso che era stato fornito dai talebani ad al Qaeda. Rimaniamo in guerra perché i rinati talebani, ancora alleati con i qaedisti, cercano di riportare in auge il loro regime brutale e riformare in quella nazione un porto sicuro per il terrorismo. Rimane quindi un interesse chiaro e vitale, per gli Stati Uniti, prevenire che succeda tutto questo. Un crescente numero di commentatori, compresi alcuni di quelli che si opposero alla surge irachena e che chiesero il nostro ritiro da quel Paese, ora definiscono la guerra in Afghanistan «essenzialmente invincibile». Se le loro idee avessero prevalso nella questione dell’Iraq, le conseguenze sarebbero state disastrose. Allo stesso modo, le ramificazioni di una sconfitta americana in Afghanistan sarebbero non soltanto una disastrosa recessione per la nostra nazione in quello che oggi è il fronte principale della guerra al terrore, ma aprirebbero le porte anche a un’ulteriore destabilizzazione della nazione che confina, il “nucleare” Pakistan. Chi sosteneva certe posizioni sbagliate sull’Iraq sbaglia anche sull’Afghanistan. La chiamata crescente al ritiro riflette, più di ogni altra cosa, il nostro fallimento nel mostrare un progresso nella guerra. Dopo otto anni di combattimento, il popolo americano vede crescere il numero delle vittime e nessun segnale che indichi un cambiamento a nostro favore. I loro dubbi sono naturali e comprensibili, dubbi ai quali dobbiamo rispondere direttamente e con chiarezza. I nostri problemi in Afghanistan non derivano dal fatto che i talebani siano invincibili o popolari. Non sono né l’uno né l’altro. Invece, i nostri problemi derivano da quella che, per anni, è stata una guerra gestita male, con risorse minori rispetto al necessario. I nostri errori hanno infuriato per la zona, ma sono anche reversibili. Siamo stati in Afghanistan nove mesi fa, e un’altra volta lo scorso mese.

U

fallite e dà priorità ai principi della contro-guerriglia, della protezione dei civili, del rafforzamento dell’economia e della creazione di una legittima ed effettiva governance interna.

Insieme a McChrystal ci sono un nuovo vice-comandante e un nuovo ambasciatore: sul campo, oggi, riteniamo di avere le forze che ci permetteranno di vincere questa guerra. Eppure, abbiamo bisogno di qualcosa di più: non bastano il giusto team e la giusta strategia. C’è bisogno di dar loro anche le risorse di cui hanno bisogno, compreso l’aumento delle truppe sul campo. Come abbiamo visto in Iraq, i numeri contano se si vogliono vincere le guerre. Proteggere la popolazione e sviluppare le forze di sicurezza interne sono compiti che necessitano di uomini e capacità. Riconosciamo che la decisione di aumentare il numero di soldati americani in Afghanistan è complicata da prendere, qui a casa. Alcuni diranno che non possiamo permettercelo. Altri chiederanno al presidente di non mandare nuove truppe, forse con la promessa al generale di «valutare più avanti» la richiesta. Ma è precisamente questa via di mezzo - la stessa che la precedente amministrazione ha portato avanti per troppo tempo in Iraq - che porta al collasso del sostegno politico interno alla guerra. Obama aveva ragione quando, lo scorso anno, diceva: «Non dovete confondervi all’interno del fronte centrale del terrore… Non dovete confondervi sulla convinzione di dover cacciare i talebani». Abbiamo raggiunto un momento fondamentale nel nostro sforzo contro l’estremismo violento dell’islam, e dobbiamo ora mettere in campo quella «forza decisiva» che richiede il generale McChrystal. Siamo pronti a sostenere il presidente nei prossimi mesi, e crediamo che una forte e inamovibile leadership della Casa Bianca possa ricostruire il sostegno pubblico alla guerra. La popolazione americana ha bisogno inoltre di sentire da vicino il proprio comandante sul campo: il generale deve essere chiamato per parlare a Washington davanti al Congresso. Quando il generale Petraeus si presentò nel settembre del 2007 per parlare dei progressi ottenuti grazie alla surge in Iraq, permise a tutti di essere informati sui nostri sforzi e sulle nostre speranze di successo in quel Paese. Noi crediamo che più gli americani ascolteranno da McChrystal, più avranno fiducia nel nostro impegno. Gli Stati Uniti se ne sono già andati una volta dall’Afghanistan, dopo il collasso dell’Unione sovietica. Il risultato di quella decisione è stato l’11 settembre. Non dobbiamo ripetere oggi lo stesso errore: questa guerra va vinta. E ora è il momento di usare la decisiva forza militare per farlo.

I talebani non sono troppo popolari: siamo stati noi ad aver gestito molto male questa guerra. È arrivato il momento di cambiare tutto

Nel tempo passato fra le due visite, si è verificato un cambiamento significativo nella nostra leadership strategica. Abbiamo sul campo un nuovo, eccezionale comandante: il generale McChrystal, che ha iniziato una revisione totale di tutti gli aspetti della nostra politica bellica e ha imposto un avanzamento della strategia civilemilitare, che identifica con chiarezza le politiche


diario

pagina 8 • 19 settembre 2009

Recessione. Il giro d’affari di luglio, rispetto a giugno, è cresciuto dello 0,7%. In aumento anche gli ordini: +3,2%

Crisi finita (per le industrie)

È tornato a salire il fatturato. Ma resta lo spettro disoccupazione di Alessandro D’Amato

ROMA. Fatturato e ordinativi su, ma i consumi soffrono ancora. I numeri dell’Istat spiegano che il vento della ripresa si è levato sull’Italia, ma soltanto perché la nostra economia è attaccata al treno di Francia e Germania. Ma i dati di Confcommercio, nel frattempo, confermano che il nostro mercato interno è ancora stagnante, e rischia di esserlo anche l’anno prossimo. Quindi, per noi la crisi non è ancora finita. Nel mese di luglio il fatturato dell’industria ha registrato un aumento dello 0,7% rispetto al mese precedente e un calo del 21,7% rispetto a luglio 2008, secondo l’Istat. Una buona notizia: era da giugno 2008 che il giro d’affari del settore industriale non registrava una crescita. In più, anche gli ordinativi dell’industria hanno segnato un aumento, e per il terzo mese consecutivo: +3,2% rispetto a giugno 2009, anche se il confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente dà luogo a una riduzione del 23,2%. E nei primi sette mesi del 2009 gli indici grezzi di fatturato e ordinativi hanno registrato, rispetto allo stesso periodo del 2008, rispettivamente un calo del 22,7% e del 28,6%. In ogni caso, lo scorso giugno il fatturato era sceso dell’1,6% su base mensile (25,4% tendenziale); gli ordinativi, sempre a giugno, erano aumentati del 2,6% mensile mentre su base annua il calo era stato del 22,7%. Da segnalare anche i dati sul settore degli autoveicoli, che, sempre a luglio, ha registrato un calo del fatturato pari al 25% su base tendenziale. Gli ordini

produrre a pieno ritmo e comincino a pensare di assumere di nuovo. Un tempo nel quale la disoccupazione continuerà a mordere.

che la ripresa si sta rafforzando e potrebbe essere più sostenuta di quanto indicato nei giorni scorsi dalla Commissione Europea», afferma il ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola, sottolineando che nei prossimi mesi potremmo registrare un incremento del pil superiore allo 0,2% previsto di recente

Intanto i dati di Confcommercio dicono che i consumi continuano a scendere: soltanto nel 2012 torneranno ai livelli del 2000 hanno segnato invece una flessione del -21,8% rispetto allo stesso mese del 2008. A giugno il fatturato del settore autoveicoli era sceso del 27,3% su base annua. Gli ordinativi, sempre a giugno, avevano registrato una flessione del 28,9%. Dati che permettono al governo di esultare: «L’incremento del fatturato industriale e degli ordinativi segnalati dall’Istat significa

dalla UE. «È evidente - ha concluso Scajola - che dobbiamo accelerare al massimo la ripresa per sostenere le imprese e l’occupazione ed evitare contraccolpi sul mercato del lavoro». Ma, come ha osservato l’Ocse, in realtà è possibile che il peggio per l’Italia, sul fronte occupazionale, possa ancora venire: perché fatalmente passerà del tempo prima che le imprese ritornino a

Da 1,01 miliardi del 2008 a 2,4 milioni del 2009

Mediobanca: utili a picco MILANO. La crisi finanziaria pesa sui conti di Mediobanca che archivia l’esercizio finanziario al 30 giugno con un utile netto consolidato di appena 2,4 milioni rispetto a 1,01 miliardi del precedente esercizio. A condizionare il cattivo risultato, il portafoglio titoli che apporta minori ricavi per 507 milioni e svalutazioni per 452 milioni di euro. I conti approvati ieri dal cda mostrano che «nel contesto della severa crisi economico-finanziaria, il cui apice ha coinciso con l’esercizio sociale, Mediobanca ha confermato la sua solidità». Le attività bancarie evidenziano risultati positivi, in particolare nella seconda metà dell’esercizio, con ricavi per 1,61 miliardi e un +13%. Sotto il profilo patrimoniale gli impieghi crescono del 2% nei comparti corporate e re-

tail, la provvista aumenta del 17% a 53,4 miliardi di euro e il grado di patrimonializzazione rimane inalterato con un Core Tier 1 pari al 10,3% e il total Capital all’11,8%. L’analisi per settore di attività mostra che l’investment banking ha registrato un utile netto di 230 milioni da 464 milioni. Perdita di 236 milioni (rispetto a un utile di 478) per la divisione Principal Investing per svalutazioni di 244 milioni di cui 144 milioni Telco e 94 milioni Rcs oltre a 488 milioni di minore controbuto dalle partecipazioni. Il Retail & rivate banking ha registrato un utile lordo in calo del 26% a 86 milioni. Infine, secondo Mediobanca, ha ottenuto «Ottimi risultati commerciali» nel primo anno di attività di Chebanca con 6,2 miliardi di raccolta e oltre 165 mila clienti.

E la conferma viene dai dati della Confcommercio. Che ci dicono che, nonostante le voci di una ripresa economica, i consumi continuano a stentare. Soltanto nel 2012 torneranno ai livelli del 2000, mentre quest’anno e il prossimo anno caleranno infatti dello 0,6%. Comunque meglio della media Ue a 27 (-1,6%) ma peggio rispetto ad altri grandi paesi quali Germania e Francia, che vedranno invece una inversione di tendenza. L’associazione dei commercianti evidenzia come nel triennio 2009-2011 la variazione dei consumi nei 27 paesi dell’Ue «risulterà negativa per due decimi di punto» all’anno. A soffrire saranno soprattutto i Paesi dell’Est e l’Irlanda (-3%), ma il calo previsto per l’Italia si aggiunge a una riduzione dell’1% subito nel 2008 e riporterà la quota di consumi pro capite alla fine del trienno 20092011 al livello del 2000. Secondo l’associazione, poi, il ritorno ai livelli pro capite pre-crisi sarà particolarmente lungo e non potrà concretizzarsi prima della fine del 2012. «Alla fine di questa specifica crisi finanziaria potremmo trovarci con il 56% di Pil in meno, con il 2-3% di disoccupazione in più e con gli stessi tassi di crescita del prodotto potenziale con i quali ci siamo entrati» dice infatti Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi. Che sottolinea «le debolezze strutturali» del Paese. «La fine della nostra crescita risale all’inizio degli anni 2000, datando alla seconda parte degli anni ’80 l’ultimo ciclo fortemente espansivo. Oggi la variazione del Pil pro capite potenziale è addirittura nulla. I rilevanti sprechi di cui soffriamo riducono il frutto del lavoro immesso nel processo produttivo, data l’attuale quantità e qualità del capitale privato e pubblico. E i consumi, conseguentemente, si contraggono». La cura? Secondo Raffaele Bonanni, segretario Cisl, è la detassazione del lavoro: «Bisogna diminuire il carico fiscale sui redditi, soprattutto di quelli che hanno la ritenuta alla fonte. Costoro hanno pesi maggiori di altri. L’unica soluzione è che pesi e cariche siano giusti per tutti. Chi ha di più, paghi di più».


diario

19 settembre 2009 • pagina 9

Al centro dell’incontro il rapporto con l’islam

Il processo si celebrerà a Milano dal primo febbraio

Oggi il Papa riceve i patriarchi orientali

Unipol-Bnl, Antonio Fazio e Consorte a giudizio

ROMA. La crescita del fonda-

MILANO. L’ex governatore del-

mentalismo in Medio Oriente e l’inquietudine dei cristiani, l’importanza del dialogo islamo-cristiano, lo statuto del patriarca cattolico orientale nella Chiesa universale e la giurisdizione ecclesiastica in Kuwait e nei Paesi del Golfo. Sono i quattro punti dei quali i sette patriarchi cattolici orientali, su loro richiesta, parleranno oggi con Benedetto XVI che li riceverà a Castelgandolfo. Il patriarca maronita Nasrallah Boutros Sfeir, l’armeno cattolico Bedros XIX e il sirocattolico Ignace Youssef III Younane sono giunti a Roma ieri l’altro; ieri sono statio raggiunti dal melkita Gregorio III, dal caldeo Emmanuel Delly, da quello latino di Gerusalemme Fouad Twal e dal copto Antonios Nagib. Al Pontefice i patriarchi manifestano la loro inquietudine per i cristiani del Medio Oriente, sfidati dalla crescita del fondamentalismo soprattutto in Egitto e Iraq e sottolineano l’importanza di un’azione internazionale energica e concertata per riparare alle ingiustizie subite dalla Palestina e raccomandano una regolamentazione giusta che comprenda il diritto dei palestinesi a un loro Stato.

la Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte sono stati rinviati a giudizio per la scalata di Unipol a Bnl del 2005 e perciò saranno processati. Tra le accuse: l’ostacolo all’autorità di vigilanza, l’aggiotaggio e l’insider trading. Il processo a Milano inizierà il primo febbraio. Contemporaneamente, per quanto riguarda la vicenda del riacquisto di obbligazioni Unipol, Consorte e Ivano Sacchetti saranno processati a Bologna. Il giudice ha mandato a processo tra gli altri anche l’allora direttore generale di Unipol, Carlo Cimbri, i banchieri Giovanni Zonin e Giovanni Alberto Berneschi, ai tempi ri-

Le considerazioni dei patriarchi sono state messe nero su bianco in una nota che sarà

Arrestato Tarantini «C’era rischio di fuga» Il difensore: «È soltanto una questione di cocaina» di Francesco Capozza

BARI. L’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, coinvolto in varie inchieste sulla sanità regionale e nel filone delle escort, è stato sottoposto ieri mattina a fermo di polizia giudiziaria da militari della Guardia di Finanza di Bari. Tarantini è stato fermato all’aeroporto del capoluogo pugliese mentre si accingeva a recarsi a Roma. L’imprenditore è stato sottoposto a fermo per spaccio di stupefacenti e perchè - in base a quanto riferito dal procuratore della Repubblica, Antonio Laudati, che ha controfirmato l’atto del pm con la richiesta della misura cautelare - c’era il pericolo di fuga e di inquinamento delle prove. L’inchiesta a carico di Tarantini è condotta dal pm Giuseppe Scelsi. Tarantini è stato portato nel carcere di Bari dove è stato successivamente interrogato dal pubblico ministero. Secondo l’avvocato di Tarantini, Nicola d’Ascola, il fermo è però «dovuto con ogni probabilità all’acquisto e alla successiva cessione in occasione festaiole di sostanze stupefacenti». Feste per lo più organizzate a casa dello stesso Tarantini: «Non so se la stessa condotta - specifica D’Ascoli - veniva ripetuta altrove o in altre case», alludendo evidentemente alle feste e alle cene organizzate a Palazzo Grazioli dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Il legale esclude invece che ci fosse il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove: «Tarantini - spiega - si stava recando proprio in Procura a Bari, dove era arrivato in aereo molto probabilmente da Roma».

to di vista investigativo, per le cose che sono successe nelle ultime ore, negli ultimi giorni, c’era un forte inquinamento della prova, quindi ci sono delle esigenze cautelari, e che sussiste il pericolo di fuga per le segnalazioni che ci sono pervenute dagli organi di polizia circa movimenti, spostamenti e progetti. La situazione di Tarantini - ha concluso Laudati - riguarda tutti i reati per i quali è attualmente indagato. Il fermo è stato compiuto in relazione a una prospettazione di spaccio, ma le indagini che seguiranno immediatamente dopo il fermo riguarderanno tutte le posizioni processuali di Tarantini».

Sulla vicenda ieri è calato un silenzio surreale da parte del mondo della politica. Un silenzio assordante oltre che scontato. Su Tarantini, com’è noto, pendono varie accuse oltre a quella di spaccio di stupefacenti e corruzione nel campo della sanità regionale. Oltre alla nutrita scuderia di escort da lui assoldate per rallegrare le serate romane del premier, infatti, l’imprenditore barese ha più volte confessato di averne delle belle anche sul centrosinistra locale, in particolar modo su autorevoli esponenti della galassia dalemiana. Lo stesso ex ministro degli Esteri è stato tirato in ballo in più di un’occasione da Tarantini e stando alle confessioni rese alla magistratura avrebbe partecipato non solo a cene, ma anche ad una mini-crociera a Ponza organizzata dall’imprenditore. Stando, infine, ad alcune notizie filtrate nei giorni scorsi, l’affaire inerente al giro di prostituzione non riguarderebbe solo il premier, ma anche numerosi uomini politici locali e nazionali. Una situazione delicatissima, come si evince, resa ancor più tesa dalla notizia di ieri del fermo cui è stato sottoposto Tarantini. «Dio solo sa cosa potrebbe uscire dalla bocca di quell’uomo o, peggio ancora, dalle registrazioni che, si dice, possegga» ci ha confidato ieri un autorevole esponente del Pd nazionale. E c’è da credergli. The show must go on cantava il grande Freddie Mercury.

L’uomo, che si è accusato di aver fornito prostitute a Berlusconi, secondo i giudici «inquinava le prove e voleva fuggire»

portata al Papa e nella quale è sottolineata l’importanza del dialogo islamo-cristiano. Con Benedetto XVI, nel loro incontro, i patriarchi desiderano parlare anche delle questioni della presenza delle loro Chiese nell’ambito della Chiesa universale e di altri temi ecclesiologici. Tra questi anche la questione della giurisdizione ecclesiastica del Kuwait e degli altri emirati del Golfo, verso i quali sono emigrate dagli altri Paesi arabi decine di migliaia di operai e funzionari cristiani, chiamati dal boom economico. Le Chiese orientali cattoliche vogliono chiedere una riflessione sul fatto che, sul piano storico, la regione dovrebbe far parte del rito antiocheno.

Sulla necessità della misura cautelare - che dovrà essere convalidata entro 48 ore dal giudice per le indagini preliminari - il procuratore Laudati ha inoltre specificato: «Il processo è delicato, la Procura ha deciso di dare un’accelerazione alle indagini. Uno dei compiti del pubblico ministero è quello di garantire la presenza dell’imputato alle fasi processuali». «Il fermo - ha spiegato ancora il procuratore - è frutto delle scelte che sta facendo la Procura dopo la costituzione di un gruppo di lavoro. È stato ritenuto che, nel caso di specie e dal pun-

spettivamente presidente di Banca Popolare di Vicenza e Carige, e anche tutti i cosiddetti contropattisti tra cui gli immobiliaristi Stefano Ricucci e Danilo Coppola e Vito Bonsignore.Tra gli imputati prosciolti ci sono le banche Nomura e Credit Suisse First Boston con i loro esponenti e l’imprenditore Marcellino Gavio.Tra i rinvii a giudizio c’è anche Deutsche Bank e inoltre la stessa compagnia assicuratrice Unipol.

«Accolgo con sorpresa e stupore la decisione del gup del tribunale di Milano – ha subito commentato Consorte -. I fatti in sede di dibattimento mi daranno ragione». La strategia è quella di dare ampia visibilità al processo: «Il primo passo in questa direzione sarà quella di richiedere lo svolgimento del processo Bnl alla presenza dei principali organi di comunicazione per mettere in luce, oltre alla correttezza del mio operato, la poca trasparenza delle dinamiche politiche e processuali che hanno di fatto dato origine al fallimento della scalata a Bnl». In particolare, l’ex presidente di Unipol chiederà chiarimenti «in merito alle vicende che in questi ultimi anni hanno evidenziato diversi punti oscuri in questa complessa vicenda giudiziaria».


politica

pagina 10 • 19 settembre 2009

Regionali. L’opinione di Crespi, Pessato, Piepoli e Valente sul peso del partito di Casini in vista delle elezioni di marzo

Il Centro decisivo L’analisi di D’Alimonte suscita consensi tra i sondaggisti: Udc determinante di Franco Insardà

ROMA. Questa volta il voto “utile”potrebbe essere proprio quello per l’Udc. Per le Regionali di primavera il partito di Casini è infatti decisivo in alcune regioni, mentre in altre potrebbe garantire una vittoria netta. La sfida è tutta aperta e i centristi, consapevoli della loro forza, ribadiscono che «le alleanze si faranno su impegni scritti e senza insulti». Come ha scritto il politologo Roberto D’Alimonte sul Sole 24Ore, commentando le percentuali dei voti dell’Udc e del Centrodestra e del Centrosinistra alle Politiche del 2008 e alle Europee del 2009, «per l’Udc queste elezioni rappresentano un’opportunità, perché i suoi voti potrebbero essere decisivi in molte regioni anche se non in tutte». Secondo Maurizio Pessato della Swg l’analisi del professor D’Alimonte «i dati elettorali sono un’importante base di partenza per i sondaggi che, ovviamente, tengono conto del cambiamento delle situazioni politiche. Siamo ancora alle schermaglie iniziali e per questo motivo i primi sondaggi pensiamo di farli all’inizio di ottobre».

FONTE:

Anche Antonio Valente, amministratore delegato di Lorien Consulting, la società che analizza proprio per l’Udc i dati elettorali, pensa che al momento «sia ancora prematuro fare dei sondaggi. Rispetto ai dati delle ultime elezioni bisognerebbe chiedersi come si sta

IL

SOLE 24ORE

centrodestra-centrosinistra, il concetto bipolare è ormai saltato già nelle ultime due competizioni elettorali. Senza tener presente che il dato elettorale del Pd, al momento, non è quantificabile. Bersani dovrebbe risultare vincente e a quel punto si creerà una formazione

Pessato (Swg): «C’è una parte dell’elettorato che non accetta un bipolarismo imposto ed è in libera uscita». Crespi: «Casini sta dimostrando una grande lucidità, quella che manca agli altri leader» spostando l’orientamento dell’elettorato e che cosa succederà fino a marzo 2010.Va considerata anche l’enorme differenza tra le elezioni amministrative e le Europee».

Su una cosa, però, sono d’accordo sia il professor D’Alimonte sia i sondaggisti: il ruolo dell’Udc. Lazio, Liguria, Marche e Calabria sono le regioni dove il partito di Casini sicuramente potrà fare la differenza. La predominante del centrosinistra in Umbria e del centrodestra in Puglia lasciano maggiore incertezza, così come in Piemonte e Campania. «Ma non esiste - secondo Antonio Valente - soltanto l’opzione

di sinistra che potrebbe riaggregare alcune componenti più radicali, con la conseguenza che l’area di centro del Pd sarebbe disorientata. Rispetto ai dati delle ultime elezioni ho dei dubbi che la forza del Pdl sia quella, se così fosse Berlusconi non avrebbe dubbi a tenere fuori i centristi da qualsiasi alleanza. L’Udc diventa decisivio non per i numeri, ma per gli equilibri che riesce a garantire nelle varie regioni».

Luigi Crespi, della Crespi ricerche, sposta il ragionamento anche sulla scelta dei candidati: «L’Udc in alcune regioni può essere decisivo, ma dipenderà molto dalle scelte per i governatori. Il partito di Casini alle amministrative ha, senz’altro, un maggior appeal e questo peserà». L’altro elemento da tener presen-

Le «prospettive» di Monsignor Crociata

La Cei: nuovi assetti dopo questa crisi ASSISI. La Cei prevede grandi rivolgimenti politici in tempi ragionevolmente brevi. Per l’esattezza: «Stiamo attraversando una crisi dai molteplici risvolti dai quali emergeranno nuovi assetti e inedite prospettive che matureranno in questi mesi e in questi anni». Lo ha detto ieri pomeriggio monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, intervenendo al seminario nazionale su «Carità, Verità, Sviluppo integrale», organizzato in questi giorni ad Assisi dal network di associazioni cattoliche Retinopera. Insomma, lo scontro fra il governo e i vescovi italiani (dopo l’esposione del caso Boffo nelle scorse settimane) si arricchisce di un nuovo tassello particolarmente significativo. In questo frangente, ha aggiunto monsignor Crociata, sul versante della carità, della verità e dello sviluppo integrale «i cattolici sono chiamati a intervenire con particolare urgenza». Nella connessione fra

la Chiesa e il «vasto e complesso mondo cattolico potremo dare un contributo importante e atteso per il bene comune nel passaggio significativo e incerto di questi anni», ha continuato il segretario generale della Cei. «Il nostro Paese - ha aggiunto - come il resto del Pianeta si sta infatti misurando con una crisi dai molteplici risvolti, la cui auspicabile uscita potrà determinare nuovi assetti ed inedite prospettive: quelli che matureranno proprio in questi mesi e in questi anni». «Carità, verità e sviluppo integrale sono - ha spiegato ancora monsignor Crociata - parole chiave che disegnano i tratti della dottrina sociale della Chiesa rilanciata da Benedetto XVI nel solco dei suoi predecessori, proiettandoci al centro di quel dinamismo della testimonianza sociale, a cui oggi, i cattolici italiani, singolarmente e nelle multiformi esperienze del loro associarsi, sono chiamati con particolare urgenza».


politica terzo orientato verso il centrosinistra e due terzi al centrodestra. Non va, però, sottovalutato che l’elettorato si fa guidare dalle indicazioni del partito di riferimento. Se l’Udc giustifica l’appoggio a uno schieramento che garantisce i valori di riferimento dei moderati e dei cattolici, potrebbe perdere una parte dell’elettorato, ma quello che rimane è sufficiente a compensare i voti che mancano allo schieramento per poter vincere». Mentre Nicola Piepoli ritiene l’elettorato dell’Udc «tendenzialmente di centrodestra», Luigi Crespi pensa, invece, che «si tratta di persone che non si riconoscono nello schema bipartitico e che quindi sarebbero disorientati se il partito decidesse di schierarsi o con una parte o con l’altra».

te, collegato alle decisioni dell’Udc, è il Carroccio. «Al momento è più semplice - dice l’amministratore delegato di Swg - fare un’analisi in alcune realtà dove non c’è la Lega. Dal ruolo dei leghisti dipenderanno molte alleanze. Finché non si definiscono quali regioni andranno alla Lega e di conseguenza la posizione che prenderà il partito di Casini la situazione è ancora molto confusa».

Proprio nel rapporto tra Berlusconi e Bossi si inserisce Casini perché, secondo Valente «le radicalizzazioni leghiste al centronord finiscono per creare scompensi al Sud, senza sottovalutare il ruolo che sta svolgendo Fini nel Pdl.Tutto questo fa aumentare la credibilità nazionale dell’Udc». Ma che tipo di elettorato è oggi quello dell’Udc? Per Pessato di Swg se si dovesse fare il gioco della torre «schematicamente si può considerare un

Sia Berlusconi sia Bersani da mesi inseguono i centristi in vista delle Regionali. Nella pagina a fianco, la tabella pubblicata dal «Sole 24ore»

Sulla strategia politica di Casini c’è un consenso unanime. Per Piepoli «quando l’Udc deciderà con chi schierarsi nelle varie regioni avrà sicuramente il seguito degli elettori cattolici che sta aggregando e stiamo parlando di un elettorato di piombo, non di paglia». Mentre Antonio Valente giudica saggia la posizione «perché non esistono delle condizioni omogenee a livello nazionale, ma delle situazioni diverse anche a livello di offerta politica tra Nord, Centro e Sud. Il Pdl e il Pd, ad esempio, non sono gli stessi in Liguria e in Calabria». Il giudizio di Luigi Crespi è molto lusinghiero per la strategia del leader dell’Udc: «È ineccepibile. Sta dimostrando una grande lucidità, quella che in questo momento, manca agli altri leader che produrrà risultati interessanti». Anche Maurizio Pessato condivide la scelta di non schierarsi a livello nazionale: «Il bipolarismo non ha conquistato tutti, esistono i due schieramenti grandi, ma molto accidentali. Nel centrodestra la Lega scalpita, nel centrosinistra, invece, non è chiaro il ruolo dell’Italia dei Valori e della sinistra.Tutto questo crea confusione e c’è una parte dell’elettorato che non è convinta, non accetta un bipolarismo imposto ed è in libera uscita. Proprio a questi si rivolge Casini e giustamente aspetta, in una posizione intermedia, di sapere chi sarà il segretario del Pd e quale sarà il punto di accordo tra Berlusconi e Fini. L’Udc lancia segnali, afferma un moderatismo e una parte della Chiesa potrebbe considerare utile che il partito abbia un buon consenso. In alcune regioni potrebbe essere il contraltare o alla sinistra estrema o alla radicalità della Lega. Non è una posizione facile, ma neanche così scomoda».

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I centristi cambiano le abitudini della politica

La strategia dei grandi Valori di Angelo Sanza Chianciano lo abbiamo detto con chiarezza: vogliamo essere protagonisti di un’Italia diversa perché è chiaro che il dopo Berlusconi è già cominciato. Ma che tipo di società vogliamo costruire? Quali modelli istituzionali vogliamo? Sono questi gli interrogativi di oggi.Dobbiamo fare ogni sforzo per allontanare dalle istituzioni un affogante e becero populismo, un radicalismo ideologico che secolarizza lo scontro politico. La nostra resistenza rispetto al finto bipartitismo ha certificato, in due competizioni elettorali (2008-2009), l’utilità di una forza politica di ispirazione cristiana e di innovazione liberale, protagonista della grande famiglia del popolarismo europeo.

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Se questa dunque è la nostra missione, bisogna riaffermare la nostra identità, individuando obiettivi e combattendo battaglie coerenti con la nostra storia e le nostre scelte più recente. In primo luogo, la Famiglia – cavallo di battaglia dell’Udc – che ogni giorno è sempre più penalizzata sia per le politiche valoriali che per le politiche economiche del governo, dal quoziente familiare al testamento biologico, dalla formazione educativa dei figli all’assistenza per gli anziani. Non aiutando la famiglia, in assenza di politiche di sostegno, questo governo si mostra lontano dai nostri valori, ancor più di quanto lo testimoni la vita privata del premier. Poi la stessa Sanità, alla luce di quanto accade in tutto il paese, approfondisce il solco tra nord e sud, tra ricchi e poveri e a pagarne le conseguenze sono sempre le famiglie, le più povere, quelle a monoreddito e numerose.

dove meno, sono inquinate: le vicende di Bari sono emblematiche, non solo e non tanto per i reati commessi, ma per il degrado morale, istituzionale, politico, economico e sociale. C’è di tutto: la politica. da destra a sinistra, la corruzione con sesso e denaro e l’incertezza della stessa magistratura. L’Udc è fuori dal polverone. Ora però è tempo di agire. Non dobbiamo subire i cambiamenti, dobbiamo cercarli, provocarli e governarli. Dobbiamo costruire una politica economica dei singoli territori dove le vocazioni territoriali evolvono verso la qualità e l’eccellenza. Poi decidere le alleanze.

Finora abbiamo vissuto in un’economia dell’illimitato, oggi siamo costretti ad elaborare una nuova economia, quella del limite. Tutto diventa limitato: la benzina, l’acqua, le risorse naturali, la distribuzione stessa delle risorse. Per governare il cambiamento servono nuove idee, servono passaggi creativi e occorre avere una visione più ampia: muoversi nel globale tenendo presente il locale. In questa visione sono essenziali: le energie rinnovabili, la sostenibilità, i giovani, l’economia della conoscenza, la tipicità, le innovazioni, il valore della sussidiarietà. Solo sprigionando le energie sociali diffuse nel tessuto della comunità e facendole interagire, modifichiamo gli apparati e costringiamo i partiti a superare i vecchi steccati ideologici per mettersi al servizio del cittadino. Per questo il cambiamento deve riguardare il metodo: l’idea di una politica che governa dall’alto, gerarchica e di apparato è arcaica e non funziona più. Impoverisce e genera sfiducia, distacco nella pubblica opinione.

Prendiamo a esempio tutti i casi in cui siamo stati capaci d’imporre la nostra idea di politica del territorio

Assistiamo a una diffusa secolarizzazione, a un diffuso senso dell’egoismo: la solidarietà è una bella parola, ma poco praticata. Assistiamo ad una penetrante laicizzazione del sociale, prevale la cultura dell’effimero, del futile: tutti aspirano ad essere belli, ricchi ecc. C’è tanto spreco e tanta povertà nella società di oggi. La stessa Chiesa è in affanno: costretta a difendersi, a mettere in piazza le proprie divergenze e spesso i propri limiti. E i laici praticanti, sempre più isolati, trovano comodo distinguere tra fede e pubblica testimonianza. Le istituzioni, dove più

Così è nato il tanto richiamato modello-Brindisi. Certo una piccola realtà. Siamo stati capaci d’imporre la nostra idea di politica del territorio, mettendo insieme forze che venivano da destra e da sinistra e scegliendo l’uomo giusto. Dobbiamo immaginare una politica capace di dialogare, di abbattere ogni forma di cesarismo. Di proporsi come rete, come sistema, con gli enti locali, le organizzazioni sociali, i cittadini attivi. Per trasformare la politica in una discussione ampia e condivisa, limpida e appassionata.


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ll’inizio dell’anno prossimo, arriva Harry Potter e il Viaggio Proibito. No. Non è l’ottava puntata della saga che nel decennio 19982007 si è articolata attraverso le varie vicende del maghetto via via alle prese con la Pietra Filosofale; con la Camera dei Segreti; con il Prigioniero di Azkaban: con il Calice di Fuoco; con l’Ordine della FenicePrincipe Mezzosangue; con il Principe Mezzosangue; e con i Doni della Morte. Già dal 2004, per la verità, insistenti indiscrezioni hanno reiterato che questo ottavo libro sarebbe stato in programma. Ma per conto suo Joanne Kathleen Rowling ha sempre insistito che già col settimo titolo vengono risolti tutti i nodi in sospeso, e semmai tutta questa insistenza l’ha scocciata, e nel 2007 ha finito pure per fare marcia indietro su un’altra disponibilità che aveva manifestato. Cioè, quella di scrivere un volume enciclopedico sull’intera la saga, e in cui avrebbero potuto trovare posto tutte le idee, gli appunti ed i tagli non inseriti nei sette libri.

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A dir la verità, poi, in effetti un’ottava puntata già esiste. Ma è un prequel di appena 800 parole, che si svolge tre anni prima della nascita di Harry Potter e i cui protagonisti sono Sirius Black e James Potter. In stile ottocentesco la Rowling l’ha redatto in forma manoscritta, e per beneficienza lo ha poi rivenduto all’asta, in cambio di 25.000 euro. Neanche Harry Potter e il Viaggio Proibito è il titolo di un film: dopo che sullo schermo tra il dicembre del 2001 e lo scorso luglio pur se a tappe forzate si è arrivati appena alla sesta puntata, la storia di Harry Potter e i Doni della Morte per la sua lunghezza dovrà essere divisa in due parti, che usciranno rispettivamente il 19 novembre del 2010 e il 15 luglio del 2011. Harry Potter e il Viaggio Proibito, invece, è una sfida a Topolino. Più precisamente, si tratta di un parco tematico della Universal Orlando Resort: iniziativa ricreativa congiunta di Nbc Universal e Blackstone Group nella stessa città della Florida che ospita anche Disneyworld, e rispetto alla quale Disneyworld è da sempre relegata a un costante secondo posto a cui cerca ora di risalire proprio grazie all’epopea del maghetto con gli occhiali. Una saga che è stata tradotta in 67 lingue, con 400 milioni di libri venduti in oltre 200 Paesi e 5,3 miliardi di dollari di incasso dei film. Esattamente come gli apprendisti stregoni dei libri di Harry Potter, anche i visitatori una volta pagato il biglietto dovranno entrare nel Wizarding World, “il Mondo della Magia”, attraverso l’immaginaria stazione ferroviaria del villaggio di Hogsmeade. Una colonna di fumo, un fischio di treno, ogni visuale del mondo esterno sparirà, e ci si ritroverà a bordo dell’Hogwarts Express. Lo stesso Castello di Hogwarts, sede dell’omonima Scuola di Magia e Stregoneria, è stato ricostruito in modo da dare la sensazione di ritrovarsi a 200 metri

di altezza. I cancelli dell’entrata sono stati ricostruiti fuori dalla struttura del castello come nel sesto film. E ci sono anche le case di Hogsmeade: l’unico villaggio del Regno Unito abitato solo da maghi, dove gli alunni del terzo anno di Hogwarts possono andare periodicamente in gita, se in possesso di un’autorizzazione firmata da un genitore o un tutore. A Harry però i perfidi zii la carta non l’hanno firmata, e così è costretto ad andarci nascosto sotto il Mantello dell’Invisibilità. Sebbene la Rowling non si sia ancora recata a visitare Orlando, i realizzatori del parco hanno viaggiato con assiduità a Londra, per consultarsi con lei passo a passo. E all’iniziativa hanno d’altronde collaborato anche il capo scenografo dei film Stuart Craig, che ci ha vinto pure un Oscar, e il direttore artistico Alan Gilmore. Tri-Wizard tournament, “Torneo Tremaghi” nella traduzione italiana, è la competizione di cui Harry Potter e il calice di fuoco racconta che fu in-

Sarà riprodotta anche l’immaginaria stazione ferroviaria di Hogsmeade. Mentre il Castello di Hogwarts, sede dell’omonima Scuola di Magia è stato ricostruito per dare la sensazione di trovarsi a 200 metri di altezza detta per la prima volta verso la fine del 1200 e che continuò poi ad essere disputata ogni cinque anni fino ai primi anni del XIV secolo. In teoria, avrebbe dovuto essere un confronto amichevole tra le tre più prestigiose scuole magiche d’Europa: la scozzese Scuola di Magia e di Stregoneria di Hogwarts, appunto, la francese Accademia della Magia di Beauxbatons e il bulgaro Istituto Durmstrang.

Ci morivano però talmente tanti concorrenti che alla fine fu deciso di sospendere il torneo. Fino al 1994, quando l’Ufficio per la Cooperazione Magica Internazionale e per i Giochi e gli Sport Magici del Ministero della Magia della Gran Bretagna decide di riportarlo in vita: sia pure con precauzioni speciali, per evitare nuovi lutti. Premio, 1000 Galeoni. Come racconta appunto la Rowling, il Tremaghi consisterebbe in tre prove, distribuite per l’intero anno scolastico a distanza di parecchi mese l’une dalle altre. È il Calice di Fuoco a scegliere i campioni: quattro, perché per Hogwarts vengono indicati due concorrenti, compreso Harry Potter (poi si scoprirà per quale inghippo di Voldemort). E il loro compito è prima di tutto recuperare un uovo d’oro da un nido protetto da un Drago: uno dei concorren-

Il maghetto inglese creato da Joanne Kathleen Rowling s progettato dalla Universal a un passo da Disneyworld. U

Harry Potter sf ti lo ipnotizza, uno lo acceca, un terzo lo distrae con una pietra trasformata in cane, e Harry Potter lo recupera volando. L’uovo d’oro messo sott’acqua proporrà poi un indovinello, per cui i concorrenti dovranno salvare dal fondo del lago nero di Hogwarts la persona a loro più cara al mondo: per Harry Hermione, ma finirà che dovrà preoccuparsi di recuperare anche un secondo ostaggio. Infine, terza prova, il superamento di un labirinto sul campo di Quidditch di Hogwarts, disseminato con ostacoli e creature ributtanti di ogni tipo, che però nel film sono eliminate e sostituite da siepi magiche. Salvo poi una vittoria che nasconde una trappola di Voldemort... Anche i visitatori potranno fare lo stesso Torneo, ma in una versione semplificata. Dragon Challenge,“Sfida del Drago”, è in-

fatti una doppia montagna russa ad alta velocità. C’è però la limitazione che si potrà scegliere solo tra due varietà della vasta tipologia di draghi presente nella saga di Harry Potter, anche se le più peri-

colose: l’Ungaro Spinato e il Petardo Cinese. I fan sentiranno la mancanza del Dorsorugoso Norvegese, l’unico senza spine. E del Verde Gallese Comune, che al Torneo Tremaghi è sfidato dalla campionessa francese. E del Grugnorosso Sve-


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Pumpkin Juice, “Succo di Zucca”. Anche questo esiste nella realtà, e gli intenditori lo considerano un elisir per la salute, utile soprattutto per regolare la digestione.

Poiché corrispondono a ricette vere, entrambi si potranno gustare al Three Broomsticks “I tre manici di scopa”, o all’Hog’s Head,“La testa di porco”: stessi nomi dei pub frequentati dagli studenti di Hogwarts. Ambientazione e arredamento saranno però più medievali che rinascimentali, come la storia della Burrobirra richiederebbe. Ma evidentemente non è il problema maggiore quello della verosimiglianza storica... Alla Posta della Civetta si potrà inviare una cartolina col timbro di Hogsmeade, anche se non saranno le civette a trasportarla: e anche qui forse è meglio. C’è però una Guferia con gufi che riposano su travi che offrirà un ambiente calmo dove potersi riposare e prendere fia-

Sarà la terza aggiunta (in tre anni) a un complesso di cui fanno già parte “The Simpsons Ride” e “Hollywood Rip Ride Rockit”. Da una parte avrà il “Jurassic Park Lost Continent”, dall’altra le “Dueling Dragons”

sarà il protagonista di un parco tematico di divertimenti a Orlando, in Florida, Un’operazione colossale, il cui costo è stimato intorno ai 300 milioni di dollari

sfida Mickey Mouse di Maurizio Stefanini dese, quello con cui se la vede invece il concorrente di Tassorosso, Cedric Diggory. E l’Ironbelly Ucraino, la razza più imponente. E il Lungocorno Romeno, soggetto a allevamento intensivo per l’importanza delle sue corna come ingrediente di pozioni. E il Nero delle Ebridi, tanto aggressivo da aver bisogno di un territorio di cento miglia per ogni esemplare. C’è anche un’altra montagna russa, meno veloce: il Volo dell’Ippogrifo. Prende infatti il nome dalla creatura con testa di aquila e corpo di cavallo che, a dire la verità, prima che da Harry Potter era stata cavalcata da Astolfo nell’Orlando Furioso, per andare a recuperare sulla Luna il senno d’Orlando. Il senno d’Orlando, e i dissennatori di Harry Potter: altro corto circuito tra le due epopee fantasy pur separate da mezzo millennio di storia lette-

raria. Dalla storia dell’Ippogrifo, oltre che da tutto il contorno, venne l’immortale rimprovero del Cardinal Ippolito all’Ariosto: «Messer Lodovico, ma da dove avete cavate tante corbellerie?». E invece l’Ippogrifo vola ancora: e proprio in quella Florida da dove quarant’anni fa l’uomo partì per andare sul serio fino alla Luna!

Dal villaggio di Hogsmeade si sono poi trasferiti a Orlando il negozio Honeydukes, nella traduzione italiana Mielandia. E lì si potranno comprare le famose Chocolate Frogs e gli ancor più famosi Bertie Bott’s Every Flavour Beans, quelli che i lettori italiani conoscono rispettivamente come“Cioccorane”e “Gelatine tutti gusti+1”.Anche se, a differenza di quelle dei libri, le une non salteranno nello stomaco come se fossero vere; le altre non

avranno certi gusti a sorpresa particolarmente hard tipo vomito o cerume. Ma anche il signor Ollivander, il famoso costruttore di bacchette magiche, ha aperto in Florida una filiale in franchising della sua Ollivander’s Wand Shop di Diagon Alley. E l’esperienza sarà interattiva, dal momento che le bacchette magiche, custodite a migliaia in scatole polverose sugli scaffali, saranno loro a scegliersi ognuna il suo nuovo padrone.

Non manca un Negozio degli Scherzi di Zonko munito di spioscopi (sneakosopes): anche se forse non si metterano a fischiare quando si avvicina qualcuno di cui è meglio non fidarsi. E probabilmente è meglio così: figuratevi come vi si ridurrebbero le orecchie, ad avere un aggeggio che fa rumore ogni volta che incrociate perso-

naggi non affidabili! Da Zonko ci si potrà rifornire anche di orecchie oblunghe e di quei telescopi pugno che quando li strizzi di danno un cazzotto in un occhio. Mentre nell’’emporio di Filch degli oggetti confiscati si trovano creature magiche, quegli omnioculi che ti permettono di rivedere le azioni che ti sei perso, e anche i controlli a distanza dei Boccini d’oro. Filch però non è nel villaggio, ma dentro allo stesso castello. Nel mondo di Harry Potter c’è poi anche la Butterbeer, in italiano reso con Burrobirra: un intruglio costituito da birra, burro fuso, uova, zucchero e chiodi di garofano a piacere, e che una volta tanto non è stata inventata, ma corrisponde a una bevanda effettivamente di modo in Inghilterra mezzo millennio fa, ai tempi della dinastia Tudor. Oppure l’analcolico e rinfrescante

to dalle altre attrazioni, e in cui poi anche i gufi potranno poi essere spediti usando i francobolli ufficiali che si trovano solamente nel parco. E da Dervish & Banges, o “Mondomago Accessori Magici” secondo la versione italiana, è in scaffale tutto l’armamentario dei maghetti. Altre bacchette magiche, mantelli, metropolvere, passaporte, gira tempi, mappe del malandrino, polvere buio pesto peruviana, armadi svanitori, pietre filosofali, marchi neri, calderoni, zellini, falci, galeoni, ricordella, gli spectrespecs, vestiti del Torneo Tremaghi e perfino l’attrezzatura completa per giocare a Quidditch, «lo sport che per i maghi è come il calcio per i babbani». Bluffa, bolidi, boccino d’oro, mazza, guanti, anelli, e anche le scope. Ovviamente, se ci si accontenta di una scopa che in realtà non vola. Malgrado tutta questa complessità e i suoi otto ettari di estensione, Wizarding World non è però un’attrattiva isolata a sé stante. Si tratta infatti della terza aggiunta in tre anni a un parco di cui fanno già parte The Simpsons Ride e Hollywood Rip Ride Rockit: il tutto per un costo stimabile tra i 275 e i 310 milioni di dollari. Da una parte avrà il Jurassic Park Lost Continent. Dall’altra le montagne russe Dueling Dragons. Dai dinosauri ai draghi, passando attraverso la magia.


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Iran. Nuove violenze nella capitale e a Isfahan, Qum e Shiraz. Il popolo invoca le riforme e chiede la liberazione dei detenuti

La guerra senza fine Nemmeno la solita retorica contraria a Israele ferma gli scontri: aggrediti Khatami e Mousavi di Antonio Picasso nulla è valso il perentorio ammonimento di Ali Khamenei, durante il sermone di una settimana fa, per evitare che l’opposizione al regime degli Ayatollah tornasse a far sentire la sua voce.“Divieto assoluto di qualsiasi manifestazione di piazza non autorizzata e massimo rigore nei confronti di ogni trasgressione”. Questo era stato l’ordine impartito dalla Guida suprema venerdì 11 settembre. Ieri al contrario, durante le celebrazioni della“Giornata di alQuds”, organizzata provocatoriamente dal regime per ribadire l’appartenenza di Gerusalemme (al-Quds appunto) all’Islam, ma soprattutto ultimo venerdì di Ramdam, tutto l’Iran è stato nuovamente interessato da episodi di proteste e scontri nelle piazze. C’era da aspettarsi che un’occasione tale potesse essere sfruttata anche dall’Onda Verde per tornare a contestare pubblicamente il regime. In questo senso, le minacce di Khamenei erano suonate in parte come un timore da fugare per tempo, in parte come un inevitabile svolgimento degli eventi. Due sono state le manifestazioni che si sono sviluppate lungo le strade della capitale iraniana. Quella filo-governativa, praticamente contemporanea all’ennesimo discorso auto-celebrativo del presidente Ahmadinejad.

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E quella dell’opposizione, guidata dal sempre più indiscusso leader di tutta l’Onda Verde, Min-Hosseini Mousavi. L’altro grande riformista, Mehdi Karroubi, paga lo scotto di aver subito recentemente il maggior numero di arresti tra i suoi più stretti collaboratori. Il regime è riuscito a fare terra bruciata intorno a lui. Allo stesso tempo, la folla è scesa in piazza anche in altre città del Paese. Isfahan, Qum, Shiraz e Tabriz hanno contribuito a fare della giornata di ieri una nuova pagina di disordini in questo Iran po-

st-elezioni. Interessante è notare che praticamente tutti i cortei di protesta si sono concentrati nelle zone delle rispettive università. Segno, questo, che le generazioni più giovani non cedono un passo alla repressione del go-

verno. Con un atteggiamento di resistenza spontanea, hanno trasformato gli atenei in roccaforti del loro impegno politico, ma bersaglio diretto della loro stessa contestazione. “Liberi tutti i prigionieri politici”,“morte al tiranno”,“morte all’assassino di Teheran e Ashraf”. Questi gli slogan che si leggevano ieri. Agli occhi dei giovani iraniani, se il regime deve essere abbattuto e, conseguentemente, se deve sorgere una nuova rivoluzione, tutto questo deve nascere nei centri della cultura e del sapere nazionali. E, in un secondo momento, coinvolgere la società civile.

fatto da scudo agli assalitori, che hanno incluso anche Khatami nella lista dei dissidenti meritevoli di una punizione fisica, in quanto oppositori di un regime, a loro dire,“consacrato da Allah”. Con il trascorrere del tempo, la situazione interna iraniana appare sempre più complessa.

Da parte avversa, la repressione è intervenuta nel modo più cruento, seguendo un grottesco canovaccio che da tre mesi a questa parte ci viene presentato. Alcuni gruppi di pasdaran, a bordo di motociclette, hanno aggredito i cortei, disperdendo la folla e spingendola verso i basij, il gruppo paramilitare che obbedisce ciecamente agli ordini della Guida suprema. Questi, armati di manganelli e bastoni, hanno inscenato uno spettacolo di violenza ormai ben conosciuto in Iran. La novità però è che questa volta ad essere aggrediti sono stati anche i capi dell’opposizione. L’auto si cui viaggiava Mousavi è stata assaltata. Per puro caso, il leader riformista è riuscito a scappare dal linciaggio. L’ex presidente Mohammad Khatami - un riformista sì, ma molto più defilato rispetto ad altri ha subito percosse ed è stato sbattuto per terra dopo che aveva pronunciato il suo sermone. Il fatto di essere Ayatollah, come Khamenei, il suo turbante e gli abiti da alto prelato non hanno

Le istituzioni non intendono abbassare la guardia in merito ad intransigenza e durezza. Il discorso di Ahmadinejad, pronunciato ieri, ne è stata l’ennesima conferma. Il presidente, di fronte a un redivivo Segretario generale di Hamas, Khaled Meshal ospite d’onore al “meeting” anti

l’Onda Verde si rafforza di giovani esasperati. Cosa possono ordinare ancora gli Ayatollah? Imprigionare ed eventualmente eliminare i capi della resistenza? Sarebbe senza ombra di dubbio un gesto controproducente. E questo il regime lo sa bene. Le masse, anche le frange più moderate che hanno preferito finora restare ai margini della protesta, si sentirebbero ulteriormente provocate. La comunità internazionale, a sua volta, non potrebbe assistere passivamente a una manifestazione di despotismo così anacronistico e spietato. L’alternativa sarebbe quella di fare concessioni. In termini di riforme

Quella che si sta combattendo nel Paese è una guerra di logoramento. La vittoria sarà di chi saprà sfruttare il primo passo falso commesso dall’altro, anche se l’Onda si rafforza ogni giorno israeliano di Teheran - ha delineato l’Iran quale nuovo Eldorado, in cui le elezioni del 12 giugno sono state «le più libere nella storia dell’umanità». Un probabile anticipo, questo, del suo imminente intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la settimana prossima. D’altra parte, al regime restano ben poche possibilità di manovra. Alle proteste iniziali aveva risposto con le minacce. Rendendosi conto però che queste non avrebbero portato a nulla, era passato a una massiccia repressione. Scontri nelle piazze - tutti si ricordano di Nada, la ragazza uccisa dalla polizia con un colpo di pistola alla testa - impiccagioni, denunce di torture e violazioni dei diritti umani nelle carceri. Insomma, una lunga serie di atti criminosi, che ci hanno mostrato la brutalità del regime iraniano.Tuttavia, anche questa soluzione non ha portato i risultati sperati. Anzi, più circolano le notizie di violenze nelle carceri e persecuzioni nei confronti dei dissidenti, più

sociali, di una modernizzazione del sistema politico e di una nuova linea economica produttiva. Una tattica finalizzata a guadagnare tempo e a sopravvivere.

Le fazioni più estreme tenderebbero a placarsi, mentre gli elementi più moderati, forse, potrebbero dimostrarsi finalmente disposti a un confronto. Progressivamente Teheran riacquisterebbe la stima di alcuni governi stranieri, ovviamente con l’obiettivo di proseguire la sua corsa al nucleare. Ma tutto questo nasconde un rischio. La storia dei regimi più autoritari - vent’anni fa cadeva il Muro di Berlino - ricorda che aprire una falla nel sistema significa non poterla più chiudere. Quella che si sta combattendo in Iran è una guerra di logoramento. La vittoria sarà di chi saprà sfruttare il primo passo falso commesso dall’altro. In questo senso lo scambio di violenze al quale stiamo assistendo appare come uno gioco con i coltelli ad altissimo rischio.


mondo

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Incurante delle proteste che squassano Teheran, il presidente rispolvera la propaganda. E liquida le proteste del mondo

«L’Olocausto? Una bugia»

Torna in scena il negazionismo di Mahmoud Ahmadinejad di Vincenzo Faccioli Pintozzi uesta volta, lo stratagemma non ha funzionato. O meglio, la ripetizione del solito ritornello non è riuscita fino in fondo a distrarre gli oppositori. Anche se l’Olocausto «è il falso pretesto su cui i sionisti hanno creato Israele»,Teheran ieri è andata a fuoco (simbolicamente) per l’ennesima volta. E quindi la retorica del regime non è servita, non fino in fondo, a ricompattare l’opinione pubblica iraniana. Mahmoud Ahmadinejad ce l’ha messa tutta, non può essere accusato di negligenza: tutta la migliore propaganda, tutto il fuoco di sbarramento contro i nemici di una vita sono stati tirati fuori dal cilindro magico. Ed ecco che, come ogni anno, la giornata di Quds (Gerusalemme) è diventata l’ennesimo pretesto per dire la propria: lo sterminio degli ebrei per mano nazista «è una menzogna basata su pretese indimostrabili e favolistiche, e l’occupazione della Palestina non ha niente a che vedere con l’Olocausto. Sono bugie depravate, e depravato è il pretesto. L’esistenza stessa di quel regime è un insulto per la dignità del popolo, ma non durerà a lungo».

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Incurante delle proteste organizzate dall’opposizione contro la sua rielezione nelle presidenziali del 12 giugno, in forte odore di brogli, e senza badare ai disordini che scoppiavano in ogni parte di Teheran, il presidente è tornato alla carica contro Israele, il Paese che nel 2005 – a pochi giorni dalla sua prima elezione - giurò solennemente di «cancellare dalla carte geografica». L’Olocausto, dicevamo, che Ahmadi-

nejad definisce nell’ordine «un mito», «una bugia», «un mero pretesto creato ad arte per permettere la nascita del terribile Stato ebraico».

Lo sterminio della popolazione ebraica - ha ululato dalla tribuna degli oratori all’Università di Teheran, epicentro delle celebrazioni per la Giornata di Quds - «è il pretesto per la creazione del regime sionista, ma è un pretesto falso. È una menzogna basata su pretese indimostrabili e favolistiche, e l’occupazione della Palestina non ha niente a che vedere con l’Olocausto. Sono bugie depravate, e depravato è il pretesto». Rivolgendosi alle migliaia di persone che lo ascoltavano (il discorso è stato trasmesso anche dalla radio e dalla televisione nazionale), Ahmadinejad ha aggiunto: «Non legate a Israele il vostro destino, perché non ha futuro. La sua esistenza è giunta al termine. Ha i giorni contati, e sta per crollare. Quel regime sta morendo. Contrastarlo è un dovere, nazionale e religioso». Naturalmente, ma questo fa parte della mistica presidenziale, la colpa di tutto questo è del Grande Satana democratico: «Le potenze occidentali hanno lanciato il mito dell’Olocausto, ma men-

tivano. Imbastiscono uno spettacolo e poi appoggiano gli ebrei. Se però sostenete che l’Olocausto è davvero reale, allora perché non sono permesse ricerche sull’argomento?». Dopo questa sortita, è scattata l’ovazione con la folla assiepata nell’ateneo che urlava “Morte a Israele!”. Continuando sul tema del Me-

dioriente, Ahmadinejad ha quindi confermato che il suo regime «mai accetterà un piano di pace regionale frutto di compromesso, qualora non garantisca i diritti del popolo palestinese». Che, ha aggiunto a scanso di equivoci, «deve tutto alla propria resistenza»; in altre parole ad Hamas, sostenuta ideologicamente ed economicamente proprio dal regime di Teheran. Il presidente ha lasciato per il finale le proteste con cui po-

trebbe essere accolto la settimana prossima a New York, dove arriverà per prendere parte all’annuale sessione ordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Certe azioni futili non hanno il benché minimo valore politico. Per cose del genere la nazione iraniana non batterà ciglio». E tanti saluti alla libertà di espressione. Il nervosismo del presidente, che non ha un giorno di tregua dalla data delle ultime e contestatissime elezioni, si sfoga dunque nel vecchio amore: la propaganda. Tre anni fa il presidente iraniano non esitò a organizzare una conferenza negazionistica, tesa a smascherare la presunta infondatezza dell’Olocausto; e in precedenza aveva tacciato lo Stato ebraico di essere un «tumore» nel tessuto mediorientale.

Nessuna sorpresa, dunque, che sia tornato alle questioni relative al mondo israeliano: soltanto in questo modo può sperare di ricompattare il suo elettorato e distrarre l’Occidente dalle proteste di piazza di Teheran. Un tentativo che purtroppo è destinato a fallire: non fosse altro, sono cose già sentite.


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Il Cremlino applaude la svolta di Obama e parla di nuova collaborazione bama ha cancellato lo scudo antimissili di Bush e Medvedev ha subito cancellato il contro-scudo che Mosca aveva minacciato di realizzare nell’enclave baltica di Kaliningrad a un passo da Polonia e Germania. Decisione scontata, ma non per questo meno significativa. Dal rischio di una nuova guerra fredda nel cuore dell’Europa a un nuovo clima di distensione che il Cremlino sottolinea e presenta come il possibile avvio di una «cooperazione con Washington contro la proliferazione missilistica». Frase nemmeno tanto sibillina che può essere letta come un’apertura alla principale preoccupazione americana, quella di tenere sotto controllo la corsa agli armamenti - anche nucleari - dell’Iran che, finora, ha goduto del sostegno, più o meno segreto, della Russia. Ad annunciare la rinuncia al contro-scudo è stato, ieri, Dmitri Medvedev che, in tv, ha definito «responsabile» la decisione di Barack Obama. È andato ancora più avanti Vladimir Putin - «quello del presidente americano è stato un atto giusto e coraggioso» - che si è anche augurato che adesso la Casa Bianca riconsidererà tutte le limitazioni che l’Amministrazione Bush aveva posto ai rapporti con la Russia «compreso il trasferimento delle tecnologie di punta e l’ingresso nel Wto».

O

La Russia cancella il suo contro-scudo Medvedev ferma i missili a Kaliningrad E la Nato propone una difesa comune di Enrico Singer

Anche per Mosca la cancellazione del contro-scudo avrà un effetto benefico sulle casse pubbliche. Oltre all’installazione dei missili Iskander a Kalilingrad, le misure militari

russe prevedevano la costruzione di un radar pensato per disturbare quello che era previsto dal progetto di Bush e che sarebbe stato realizzato nella Repubblica ceca. Un risparmio importante proprio adesso che lo stato maggiore dell’Armata rossa e il minisitro della Difesa, Anatoli Serdiukov, stanno definendo con il Consiglio per la sicurezza nazionale guidato dallo stesso Medvedev stanno definendo la nuova dottrina di difesa della Russia che prevede anche una progressiva riduzione numerica delle forze armate che dovrebbero passare da 1,4 milioni a un solo milione di effettivi. Il piano incontra, però, la forte resistenza dei

Washington si augura che adesso Mosca congeli anche il suo appoggio ai piani nucleari del regime iraniano. E magari voti le sanzioni Onu militari che fanno pressione sul Cremlino in vista della sua approvazione da parte della Duma (il Parlamento russo), entro il marzo prossimo. I risparmi nella corsa alle difese antimissile a Kaliningrad - più politiche che strategiche - potrebbero alleggerire la pressione sui tagli che si abbatteranno su un apparato militare comunque ridondante. Ma, al di là di queste considerazioni interne, il rinato spirito di cooperazione Usa-Russia potrebbe avere ripercussioni positive su due capitoli-chiave della situazione internazionale. Il pri-

mo, naturalmente, è il controllo della proliferazione dei missili a lunga gittata con testate nucleari.

Nel luglio scorso, quando si sono incontrati a Mosca, Obama, Medvedev e Putin hanno fissato la road map del nuovo accordo Start che dovrebbe ridurre a mille per parte le testate strategiche. Si tratta di un accordo bilaterale, ma è chiaro che è interesse sia di Mosca che di Washington evitare che il club delle potenze con arsenali atomici si allarghi. E a questo punto la Casa

Bianca si augura che il Cremlino, invece di soffiare sul fuoco dei programmi nucleari di Iran e Corea del Nord, collabori nella nuova politica del contenimento varata da Obama. «Piuttosto che concentrarsi nel proteggere il territorio degli Stati Uniti, il nuovo piano sposta lo sforzo immediato sulla difesa dell’Europa e del Medio Oriente», ha scritto il New York Times nell’analizzare la mossa di Barack Obama che, alle installazioni in Polonia e Repubblica ceca, ha sostituito una difesa antimissile più flessibile e, soprattutto, più vicina alla potenziale minaccia. Spostando gli intercettori - del tipo SM-3 a corto raggio - sulle navi e in basi in Turchia e in Israele, Obama lancia un messaggio preciso: il nuovo scudo difenderà direttamente dalla potenziale minaccia iraniana non soltanto l’Europa, ma Israele e gli stati arabi moderati, in particolare l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Nel nuovo sistema di difesa antimissile il ruolo della Russia potrebbe anche essere attivo. Secondo fonti militari israeliane, tra le sedi individuate per ospitare la batterie mobili di SM-3 ci sarebbe anche una base militare russa in Azerbaijan. Illazioni, certo. Ma proprio ieri il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha evocato la possibilità di un unico sistema di difesa tra Stati Uniti, Nato e Russia. E questo è il secondo capitolo-chiave dello scenario internazionale che potrebbe essere positivamente influenzato dal nuovo clima di distensione Usa-Russia. Rasmussen ha detto che l’Alleanza atlantica «è pronta ad aprire la discussione in materia di difesa missilistica comune in base ai principi della solidarietà e dell’indivisibilità della sicurezza». Si tratta di una strada ancora tutta da esplorare e non priva di rischi, come ha notato anche il New York Times, perché sulle buone intenzioni e sulla sincerità di Mosca è legittima una dose di dubbio. Gli analisti più cauti sulla portata del disgelo Usa-Russia sostengono che il motivo più probabile e immediato della mossa di Obama è quello di ottenere il sì della Russia in Consiglio di sicurezza dell’Onu per sanzioni più dure nei confronti dell’Iran. Il dibattito sulle sanzioni dovrebbe seguire l’Assemblea generale delle Nazioni Unite di fine settembre alla quale interverrà anche il capo del regime iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. Ma dove ci sarà anche Dmitri Medvedev che ha già in programma per il 23 settembre un incontro con Barack Obama.


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19 settembre 2009 • pagina 17

Oltre 50 i feriti. L’esplosione nella Provincia nord-occidentale

A 9 giorni dal voto, la Cdu verso la maggioranza qualificata

Pakistan, massacro al mercato: 33 morti

Germania, la Merkel apre alla coalizione con i liberali

ISLAMABAD. I terroristi hanno colpito al mercato nell’ultimo venerdì del Ramadan. Sono almeno 33 i morti e più di 50 i feriti, secondo fonti governative, nell’attentato dinamitardo di ieri in un bazar di Ustarzai, località situata nella provincia nordoccidentale pakistana della North West Frontier. L’attacco è stato rivendicato dal Lashkar-iJhangvi al Almi, un gruppo terrorista sunnita fondato negli anni ’90 e che in Pakistan ha già colpito comunità sciite, ma anche cristiani e stranieri. Secondo la polizia l’attentatore è arrivato da Orakzai, il distretto tribale dove si nasconde il Hakimullah Mehsud, successore di Baitullah Mehsud, ucciso in un raid americano. Le vittime sono state per lo più dilaniate dall’esplosione, ma molte sono invece state travolte dai detriti degli edifici, crollati a causa della violentissima onda d’urto. Allertato tutti gli ospedali della zona, che hanno stentato ad accogliere così tante persone bisognose di cure. Poco dopo la strage, una folla inferocita è scesa in piazza per protestare, prendendo a sassate i veicoli di passaggio, e provocando cosi’ l’intervento delle forze di sicurezza. L’attacco sarebbe stato opera di un kamikaze, che guidava un fuoristrada carico di oltre 150

BERLINO. Obiettivo governo, ma questa volta in coalizione con i liberali, e solo con loro: a nove giorni dalle legislative in Germania, la cancelliera cristiano democratica Angela Merkel, nella sua ultima conferenza stampa prima del voto, ha glissato sullo scenario di una riedizione di una grande coalizione con i socialdemocratici, e ribadito il suo endorsement per una coalizione della Cdu-Csu con i liberali della Fdp. La grande coalizione con la Spd ha fatto bene, specie nella crisi,ma ora serve una coalizione coi liberali, che offrirebbe maggiore «stabilità». «C’è una competizione nel mondo, con gli Usa, la Cina, non abbiamo tempo da perdere». La cosa

Punjab in fiamme: “blasfemi” nel mirino Sempre più tesa la situazione dopo la morte di Fanish di Osvaldo Baldacci l subcontinente indiano si conferma terra di martirio per i cristiani. La situazione negli ultimi anni si va aggravando sempre più e non c’è giorno che da Pakistan o India non arrivi qualche cattiva notizia. Chiese bruciate, cristiani uccisi o comunque perseguitati, comunità aggredite, intimidite, brutalizzate. Azioni di estremisti, certo, ma non si può nascondere la protezione o almeno la benevola distrazione da parte delle autorità. In Pakistan si va anche oltre, in quanto è in vigore una legge sulla blasfemia che dà adito ad ogni sorta di abuso. In pratica è severamente vietato e pesantemente punito ogni atto che possa offendere l’Islam. E già così l’estensione interpretativa resta piuttosto ampia, pronta a essere strumentalizzata a piacere da qualsiasi fondamentalista violento. Ma le cose vanno anche peggio, in quanto il clima creatosi ha fatto sì che basti il sospetto di blasfemia perché la gente si possa sentire autorizzata a farsi giustizia. Non a portare davanti alla giustizia il presunto colpevole, bensì a sistemare le cose con la violenza in base a un semplice sentito dire, a una voce che gira. E si è arrivati al punto di punire che è accusato di aver pensato blasfemie. Il Codice infatti condanna «quanti con parole o scritti, gesti o rappresentazioni visibili, con insinuazioni dirette o indirette, insultano il sacro nome del Profeta». Le pene relative prevedono carcere duro, fino all’ergastolo e alla pena di morte. Secondo gli ultimi dati forniti a Fides dalla Chiesa pakistana, negli ultimi 25 anni sono circa mille i casi di persone accusate ingiustamente di blasfemia, fra i quali numerosi cristiani e membri di altre minoranze religiose (quella cristiana rappresenta l’1,6 per cento della popolazione, cioè 2,8 milioni di persone), ma anche musulmani. Almeno 30 persone sono morte e centinaia hanno sofferto molto per le vicende di ingiusta carcerazione, emarginazione, perdita delle proprietà, in seguito alle false accuse di blasfemia. Di fronte a tutto questo i vescovi locali sono tornati a chiedere l’abolizione della “legge sulla blasfemia”, pretesto di molte delle violenze. L’ultimo, grave episodio

I

riguarda il giovane cristiano Robert Fanish, accusato e arrestato per blasfemia, ucciso in carcere in quella che è stata definita «una autentica esecuzione extra giudiziale».

Il 19enne era stato rinchiuso nel carcere di Sialkot, nel Punjab, ed è stato trovato morto impiccato nella cella dove era stato lasciato in isolamento da quattro giorni. In pochi credono alla versione del suicidio, che rapidamente è stata accreditata dalla commissione di inchiesta che ha deferito per negligenza quelli che in molti ritengono torturatori omicidi. Si tratta della stessa città di Gojra dove ad inizio agosto sette cristiani, fra cui tre donne, erano stati fatti morire tra le fiamme. Dall’inizio del 2009 sono stati almeno sette gli attacchi contro le minoranze religiose nel Paese, sempre con il pretesto della legge anti-blasfemia. Appena venerdì una chiesa è stata bruciata e 35 famiglie sono state cacciate da un villaggio perché una folla di fanatici si era scatenata a partire da solito pretesto della blasfemia. Il caso del giovane morto in cella è drammatico ma anche esemplare. Come rispondono le autorità a un crescente clima di odio? Non garantendo maggior protezione e tutelando i diritti, ma mostrandosi accondiscendi con gli aguzzini estremisti. Certo, la situazione in Pakistan è molto precaria. Il fondamentalismo prende piede e ha un grande peso nella vita del Paese nato separandosi dall’India proprio in nome dell’identità islamica. E questo fondamentalismo è tutt’altro che relegato alle aree settentrionali infiltrate o addirittura controllate dai talebani. Anche ieri un violento attentato in un mercato d Kohat ha provocato più di trenta morti. Resta però il fatto che le autorità, a parole più aperte, laiche e interessate al rispetto dei diritti, nel concreto vengono a patti con i fondamentalisti e accarezzano demagogicamente i peggiori sentimenti popolari. Ancora ieri il primo ministro Gilani ha risposto ai vescovi impegnandosi a una revisione della legge sulla blasfemia, ma in questi anni a tante parole sono seguiti pochi fatti mentre si continuavano a susseguire molte violenze.

I vescovi chiedono una piena revisione del Codice penale, che di fatto discrimina i non musulmani e li condanna a morte

chilogrammi di esplosivo; si è fatto saltare in aria non appena ha raggiunto il mercato, antistante un albergo e una stazione degli autobus. Ustarzai, situata tra le città di Kohat e Hangu, è abitata in prevalenza da sciiti, sempre più spesso bersaglio di attacchi da parte dei Talebani del Pakistan o dei loro alleati di al-Qaeda, di confessione sunnita. Ieri inoltre era l’ultimo venerdi’ del Ramadan, il mese sacro islamico consacrato al digiuno e alla preghiera, e le autorità temevano qualche colpo di mano degli integralisti. Proprio nel distretto di Orakazi elicotteri dell’esercito hanno attaccato un nascondiglio talebano uccidendo 13 militanti.

migliore per la Germania sarebbe una coalizione nerogialla con la Fdp. Sullo scenario di una nuova grande coalizione con la Spd, dato per probabile dai commentatori, non ha voluto pronunciarsi: «Chiedo la fiducia per una coalizione con la Fdp, sono convinta che abbiamo buone chance», ha detto rifiutandosi di indicare quale sarebbe per lei un risultato elettorale buono o cattivo (nel 2005 la Cdu-Csu prese il 35,2 per cento, la Spd il 34,2 e la Fdp il 9,7). Alla Spd ha lanciato una stoccatina: al momento è alquanto «lacerata».C’è chi è per una nuova grande coalizione, chi per una “semaforo” (rosso-verde-giallo),chi ha “riflessioni latenti” su una alleanza con la Linke (sinistra radicale).«Nella prossima legislatura abbiamo bisogno soprattutto di stabilità» e la migliore garanzia è una coalizione con la Fdp. «Sarebbe bello» arrivare a una maggioranza solida e un «risultato il più ampio possibile, ma nulla in contrario se fossero necessari i mandati eccedenti. È la legge elettorale: il mandato eccedente non è un mandato di seconda classe, anche così è possibile una maggioranza solida». Secondo gli ultimi sondaggi, la Spd recupera terreno (fino al 26% delle intenzioni di voto), la Cdu-Csu è stabile al 35, e la Fdp al 14.


cultura

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Miti. Raccoglieva i “gusci di mare” da tutto il mondo: «Mi davano il piacere della prodigiosa struttura: la purezza lunare di una porcellana misteriosa»

Le conchiglie di Pablo Non solo poeta, non solo amatore, non solo uomo politico Ecco le passioni e le collezioni di una vita del grande Neruda di Luciano Luisi osa non è stato detto o scritto di Pablo Neruda, il grande poeta cileno che ha saputo cantare come pochi l’amore? La sua vasta opera letteraria, ma anche la sua stessa vita avventurosa ha offerto materia per crearne la leggenda, il mito. Una popolarità, la sua, quale raramente ha goduto un poeta e che il passare degli anni non ha offuscato. Ne sono state prova le celebrazioni per il centenario della sua nascita, nel 2004, quando le edizioni dei suoi versi si sono moltiplicate nel mondo con una imprevedibile risposta dei lettori.

C

Di lui sappiamo tutto: della sua infanzia infelice, del suo impegno politico da comunista, della sua partecipazione alla rivoluzione spagnola, dei suoi viaggi, delle sue fughe da perseguitato, dei suoi amori, ma di un aspetto privato, pure molto significativo nella sua vita, si è parlato pochissimo. Neruda amava le cose, aveva la natura del collezionista e una irrefrenabile passione per le conchiglie. Il primo dei suoi molti viaggi in Italia, in questo nostro Paese che gli era caro e dal quale aveva tante prove salvifiche di amicizia e di affetto, risale al 1950, quando, essendosi opposto al governo anticomunista di Gabriel Gonzalez Videla, dovette lasciare il Cile. Mi ha raccontato Guttuso che Neruda era scappato senza mezzi di sostentamento e fu necessario fare una colletta fra amici e compagni per farlo vivere decentemente. Ma due giorni dopo il poeta andò da Guttuso visibilmente mortificato e gli disse di essere rimasto senza una lira. La colpa era delle caracoles, delle conchiglie che aveva comprato. La sua grande passione era prevalsa nonostante i problemi che lo affliggevano. Collezionista incallito Neruda amava tutto, comprava tutto. Racconta in Confesso che ho vissuto, il libro

delle sue memorie: «Nella mia casa ho raccolto giocattoli piccoli e grandi: l’uomo che non gioca ha perso per sempre il bambino che viveva in lui e che gli mancherà molto». «I miei giocattoli più grandi sono le polene. In realtà bisognerebbe di-

Così cantò la “tibia fusus”: «Fiore impenetrabile come un segno elevato in una spilla, minima cattedrale, lancia rosa, spada della luce, pistillo d’acqua» re polene di prua. Sono figure a mezzo busto, statue marine, effigi dell’oceano perduto». E ancora: «Ho un veliero dentro la bottiglia: A dire la verità ne ho più d’uno: è una vera e propria flotta». Ma fra tante collezioni ecco come il poeta ci svela la sua prediletta: «In realtà, la cosa migliore che ho collezionato in vita mia sono state le mie conchiglie. Mi davano il piacere della loro prodigiosa struttura: la purezza lunare di una porcellana misteriosa aggiunta alla molteplicità delle forme, tattili, gotiche, funzionali. Mi-

gliaia di porte sottomarine si aprirono alla mia conoscenza». Il mare è il filo azzurro che cuce queste collezioni. Ma devo aggiungere un’altra passione che, come mi disse Guttuso, creava qualche problema per le spedizioni, una passione italiana, cioè le fiancate dei carretti siciliani dipinte con le scene cavalleresche. Alle conchiglie Neruda ha dedicato molti versi, di una potente carica di surrealtà, dove si rincorrono immagini, metafore, iperboli, invenzioni linguistiche a gara con la inimmaginabile imprevedibilità strutturale di questi gioielli del mare. Ecco (nella traduzione di Dario Puccini) come canta la “tibia fusus”, che è una conchiglia il cui corpo si allunga in una sorta di spina (è il canale sifonale) lungo anche una quindicina di centimetri, spina (chiamiamola ancora così) che raddoppia talvolta la misura complessiva dell’animale. ... fiore impenetrabile come un segno elevato in una spilla, minima cattedrale, lancia rosa, spada della luce, pistillo d’acqua. Ed ecco i versi dedicati al “nautilus”, una conchiglia che ha la forma di una spirale a ruota. Al suo interno ha una serie di camere che, riempiendosi a comando di gas, consentono all’animale di salire e scendere verticalmente nel mare, facoltà che suscitò in Verne l’idea del suo sottomarino cui dette quel nome.

Ma debbo cantare, toccando appena, oh Nautilus, la tua alata dinastia, la rotonda equazione in cui navighi, come scia di nave di madreperla, la tua spirale geometria dove si fondono, orologio del mare, linea e iride, e debbo verso l’isole, nel vento, fuggir con te, o dio della struttura.

In queste pagine, tre immagini del grande poeta cileno Pablo Neruda e, a destra, nella pagina a fianco, una sua poesia tradotta da Luciano Luisi e inserita nel volume curato dallo stesso Luciano Luisi “Luna d’amore” (Newton Compton, 1990)

Sono tante le vicende che seguirono l’espulsione del poeta dal Cile, raccontate nelle sue memorie, e tante le pagine che riguardano l’Italia, dove Neruda fu protagonista di un episodio che da drammatico si è volto in farsesco. Era il gennaio del ’52 e sotto scorta della polizia Neruda veniva portato da Napoli dove si era rifugiato, a Roma per essere poi accompagnato alla frontiera, sempre su richiesta del governo cileno. Ma a Roma accadde l’imprevedibile. Una folla, in cui riconobbe Renato Guttuso, Carlo Levi, Moravia, la Morante, Antonello e Fulvia Trombadori, si scagliò contro i poliziotti per strappare il poeta dalle loro mani. Racconta Neruda stesso: «Nella mischia potei vedere la dolcissima EIsa Morante colpire col suo ombrellino di seta la testa di un poliziotto». Alla fine quella gazzarra quasi di sapore goliardico si concluse con un atto

ufficiale di clemenza che rese libero Neruda. Guttuso lo portò nel suo studio di Villa Massimo, dove gli fece anche il ritratto, e lì il poeta ricevette la telefonata dello storico Erwin Cerio, che gli offriva ospitalità per alcuni mesi in una villa a Capri.

E a Capri il poeta visse il suo travolgente amore con Matilde Urrotia che gli ha ispirato le poesie più intense, più appassionate, e per la quale poi lascerà la moglie. Ma a Capri possiamo facilmente immaginarlo - avrà goduto dell’amicizia di pescatori che gli avranno procurato le conchiglie del loro mare. A quel soggiorno caprese si è ispirato il regista Michael Radford per il film Il postino interpretato da Massimo Troisi. Philippe Noiret che impersona Neruda ne ha reso la grande umanità, il suo amore per le cose semplici, per il mare e per i doni della natura. Era ormai ce-


cultura

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Mi piaci se rimani come assente in silenzio, e mi ascolti lontana né la voce ti sfiora. E sembra che i tuoi occhi siano volati via, e sembra che la bocca te l'abbia chiusa un bacio. Perché l'anima mia vive in tutte le cose tu sorgi dalle cose e di me sei ricolma dell' anima. O farfalla di sogno tu somigli all'anima mia, tu somigli alla parola malinconia. Mi piaci se rimani come persa in silenzio. Sei chiusa in un lamento flebile di farfalla e mi ascolti lontana né la mia voce ti giunge: lascia allora che taccia anch'io col tuo silenzio. E con io tuo silenzio lascia che io ti parli che è chiaro come lampada, semplice come anello. Tu sei come la notte che è costellata e muta. Il tuo, così lontano, è un tacere di stella. Mi piaci se rimani come assente in silenzio distante e dolorosa come se fossi morta. Allora una parola ed un sorriso bastano a dirmi non è vero, a rendermi felice. Traduzione di Luciano Luisi da Luna d'amore, Newton Compton, 1990

lebre, letto e ammirato in tutti i continenti, quando Neruda tornò in Italia nel 1967, dove a Viareggio il 20 luglio gli venne consegnato il premio internazionale ViareggioVersilia. Lo andò a ricevere all’aereoporto Libero Bigiaretti come segretario nazionale del Sindacato Scrittori. Durante il percorso, dopo esser rimasto qualche secondo assorto, Neruda gli chiese se sapeva indicargli dove poter comprare il Mediterraneo. Si può immaginare l’imbarazzo di Bigiaretti che non poteva capire che il poeta volesse soltanto comprare le conchiglie del Mediterraneo! Bigiaretti me lo raccontò perché sapeva che anch’io mi stavo “ammalando” di quella invadente passione malacologia.

Ma ero troppo un principiante per parlarne con Neruda durante il nostro incontro prima della cerimonia che avrei poi condotto per la televisione.

Parlammo invece, come era giusto, di poesia, e Neruda concludendo un discorso molto accalorato mi disse che ormai la poesia doveva uscire dai libri e

entrare negli stadi. Voleva dire che la poesia non doveva essere, o non essere più, elitaria, ma parlare per tutti. Ecco: consiste in questo il segreto del suo immenso successo popolare: portare sulla pagina la vita, con tutte le sue passioni e le sue sofferenze con un linguaggio realistico dove il lettore possa rispecchiarsi ma non privo dello smalto della surrealtà. In questo mirabile incontro fra le due forme espressive sta la grandezza della sua poesia. Nella sua autobiografia, alcuni anni dopo, Neruda stesso chiarirà questa sua visione del fare poetico: «Il poeta che non è realista è morto, ma il poeta che è soltanto realista è morto anche lui. ll poeta che è soltan-

to irrazionale sarà capito soltanto da se stesso o dalla sua amata, e questo è abbastanza triste. Il poeta che è solo un razionalista sarà capito persino dagli asini e anche questo è sommamente triste. ( ... ) lo non credo nell’ originalità. È un altro feticcio creato nella nostra epoca di vertiginoso dirupo. Credo nella personalità attraverso qualsiasi linguaggio, qualsiasi forma».

Portammo questi argomenti nell’intervista in diretta, e in chiusura, pensando a come è ormai poco letta gran parte della sua opera e in particolare quella di ispirazione sociale e politica come il Canto Generale, e invece ai milioni di lettori delle sue poesie d’amore, osai dirgli (ricordo quasi testualmente): «La sua poesia è come un grande albero da cui cadranno al vento del tempo i grossi rami nodosi, e resteranno senza mai cedervi, quelli più leggeri che portano fiori». E aggiunsi togliendomi dalla tasca un foglietto - che mi confortava - anche il parere di un suo grande amico che poneva al primo posto nella sua produzione la poesia d’amore. Mi chiese chi fosse: «Garcia Lorca», gli risposi. Non lo ri-

cordava, o forse il poeta spagnolo non aveva mai voluto fargli conoscere quel suo giudizio che poteva sembrare, e non lo era, limitativo. Quattro anni dopo Neruda riceve il premio Nobel che lo riporta in trionfo nel suo Paese dove il Comitato centrale del Partito Comunista lo designa candidato alla presidenza della Repubblica. Ma Neruda rifiuta a favore del suo grande amico Salvator Allende. Ciò che accade dopo lo racconta la storia: Allende perde la vita per un colpo di stato. È l’11 settembre del 1973. Dodici giorni dopo Neruda muore nella sua amata casa di Santiago del Cile.

Mentre il poeta era ancora in agonia i suoi avversari hanno devastato, distruggendo tutto, le sue case di Isla Negra e di Valparaiso (quelle sue case che «aveva costruite come giocattoli») nelle quali le sue collezioni, tutti gli oggetti amati, erano come pagine di un suo singolare e personalissimo diario. Si illudevano, con la sapidità dell’odio, di far tacere la sua voce di libertà, di condolenza con tutte le sofferenze umane (così inconsapevolmente cristiana), di spegnere l’intramontabile sua poesia d’amore.


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utobiografia e storia si intrecciano. E l’una contamina e influenza l’altra. È il risultato di chi ha vissuto una vita da protagonista senza essere un uomo ai vertici del potere. Ne scaturisce il racconto di un gruppo di amici nell’Italia anni Cinquanta e Sessanta, un’Italia vista “dal basso”, ma anche dai “quartieri medio alti”. È questa la qualità migliore del libro di Vittorio Emiliani: Vitelloni e Giacobini, «Voghera-Milano fra dopoguerra e boom», edito da Donzelli.

A

Si parte dal racconto di una cittadina della provincia “sabauda” come Voghera dove l’autore si trasferisce nel 1954. Un luogo nel quale Emiliani sperimenta il primo rapporto col giornalismo: legge con passione Il Mondo” e scrive per Il cittadino. Ama lo sport e incontra ogni tanto per strada il “favoloso”Fausto Coppi: prima con la moglie poi con la Dama bianca. Voghera comincia ad avere le industrie e gli operai ma resta pur sempre ancora un centro che mantiene dentro di sé un’ incoercibile anima contadina. C’è una bella palestra per la box dove i giovanotti più robusti vanno ad allenarsi sperando di far carriera e ci sono i vitelloni e le goliardate. Gruppi che passano la notte fra solenni bevute e piccoli furti con pronta restituzione del maltolto: è un come eravamo – quello che racconta il libro – fatto di speranze, di ingenuità e di una incoercibile vitalità. L’Emiliani ragazzo fa le prime esperienze che lo portano ad aderire al socialismo liberale: dalla frequentazione costante della locale Camera del Lavoro sino ai racconti di alcuni compagni dell’Università di Pavia (dove si è iscritto e frequenta) che sono andati a lavorare nelle campagne inglesi per guadagnarsi i soldi per le vacanze e scoprono lì che, al contrario dell’Italia, vengono pagati a contratto. Potenza delle Trade Unions che diventano un faro per questi giovani i del Nord che assistono alla ricostruzione di un’Italia ancora povera, dove nel 1955 i sindacati subiscono in Fiat la loro più cocente sconfitta. E poi c’è la vita politica: quella del Comune di Voghera e quella universitaria. Nella cittadina c’è una strana amministrazione: la giunta è composta da socialisti e socialdemocratici con l’appoggio esterno del Pci. Il sindaco è un amico di Emiliani, Italo Betto. Il gruppo di amici attraversa la terribile vicenda dell’Ungheria e con i comunisti diventa tutto più difficile. Il Pci si irrigidisce in difesa dell’intervento e anche nel Psi spuntano i carristi. Ma a Voghera si leggono i giornali inglesi (uno dei

Libri. «Vitelloni e Giacobini», quasi un’autobiografia di Vittorio Emiliani

La storia d’Italia vista da Voghera di Gabriella Mecucci ragazzi conosce bene la lingua). E poi ci sono alcuni fari nazionali: Il Mondo, Comunità, alcuni ambienti cattolici di sinistra (Don Milani). Insomma, Emiliani e compagni vivono in provincia ma si sprovincializzano progressivamente. Arriva

Grassi e Strehler. E c’è la Feltrinelli con i suoi straordinari colpi editoriali, di cui il più importante è la pubblicazione del Dottor Zivago.

Emiliani ha già iniziato a fare politica all’Università. L’a-

damentale per la vita politica italiana, dove militarono personaggi come Craxi, Pannella, Jannuzzi, Occhetto: insomma, socialisti, radicali, comunisti. Una sorta di grande “nave scuola”. Emiliani succede a Mombelli nella direzione

Dai primi passi fra giornalismo e politica in provincia alla militanza universitaria con Craxi, Pannella, Jannuzzi, Occhetto, fino al grande palcoscenico nazionale: ritratto di un Paese che scopre insieme la modernità e l’impegno il vento della cultura della città: della Milano di quegli anni. Un Comune che fa una politica di sinistra e riformista. E poi c’è la la grande cultura: la Scala, ma anche il Piccolo di

mico Gerardo Mombelli, «il mentino», da direttore dell’Ateneo pavese diventa nel 1957 presidente dell’Ugi. Dopo l’Ugi, l’Unuri, un’organizzazione universitaria fonLa Voghera raccontata da Vittorio Emiliani (nella foto in alto) è quella del passaggio dalla vita contadina a quella industriale: una trasformazione culturale, prima ancora che economica, che ebbe grande peso nella politica di quegli anni

dell’Ateneo pavese: è la prima volta, ma non l’ultima, che si troverà alla testa di un giornale. A Pavia passano un sacco di studenti iperpoliticizzati a ridosso del ’68: fra questi un

Carlo Rossella molto guachiste, ma anche gli economisti di sinistra alla Michele Salvati che insieme ad altri diventerà l’asse portante della “scuola economica”di Modena. Il giornalismo e la politica sono le due importanti attività del “gruppo di Voghera”. Arrivano a collaborare con Il Mondo e poi l’entusiamante conoscenza con Camilla Cederna che propone loro una collaborazione con l’Espresso: «Bisogna però che lasciate il Mondo» - dice loro. Ne viene fuori una prima grande inchiesta che rivela una una Milano ignota, proprio mentre si assapora il boom economico e il capoluogo lombardo diventa sempre più «la capitale morale». Racconta Emiliani: «Era un viaggio verso le cordiali apparenze della città del benessere». «Ventimila – prosegue – risultavano le famiglie senza tetto e altrettante abitavano in alloggi degradati, come le “case minime”. La criminalità minorile stava diventando una piaga. Il caro affitti imperversava un po’ ovunque, anche in periferia. Milano stava completando un processo enorme di decentramento delle sue fabbriche oltre la cinta daziaria, anche a 40-50 chilometri, e questo voleva spesso dire, lì per lì, disoccupazione». «Non trascurammo – prosegue Emiliani – l’altra faccia della medaglia. Il Comune di Milano spendeva in assistenza dai 6 ai 7 miliardi di lire contro il miliardo e mezzo di Roma, ben più popolosa. Aveva raso al suolo le baracche dell’Ortica, aveva svuotato la zona di Porto di Maree ripulita la Baia del Re. Le associazioni di volontariato erano più di duecento». Un ritratto del capoluogo lombardo dal quale scaturisce la forte impronta socialista sul modo di operare dell’Amministrazione municipale. L’anima riformista che verrà rappresentata poi da Craxi è fortissima nel Psi milanese. Ma l’operato di Craxi, che pure all’epoca fu un protagonista della politica socialista meneghina, viene almeno in parte occultato.

Cosa resta della Milano e della Lombardia raccontate in questo libro? Secondo il suo autore poco o nulla. Il territorio intorno alla città è stato distrutto dalle colate di cemento, persino gli storici navigli sono stati stravolti. Emiliani nelle ultime pagine mette al centro la sua passione da ambientalista e vede nello snaturamento del paesaggio il simbolo di un più generale imbarbarimento. Sino in fondo la propria biografia dialoga con la storia e questo è il bello del libro (si legge tutto di un fiato), anche se qua e là ne costituisce pure il limite.


spettacoli

19 settembre 2009 • pagina 21

Lirica. La «Traviata» di Verdi diretta dal maestro coreano a Venezia è uno spettacolo d’inappuntabile professionismo

Libiamo nei calici... di Chung di Jacopo Pellegrini

VENEZIA. Chi lo desiderasse, farebbe ancora in tempo ad assistere alle ultime repliche di questa Traviata veneziana. Ma, senza nulla togliere alla probità artistica di Luciano Acocella, salito al podio per le cinque ultime repliche, è irrefutabile che l’attrattiva principale di questa produzione, ripresa dello spettacolo montato da Robert Carsen nel 2004 per il battesimo operistico della risorta Fenice, sia stato il concertatore e direttore delle prime sette recite, MyungWhun Chung.

La vetusta dicitura, per una volta non potrebbe risultare più appropriata: oltre a dirigere, ad assicurare cioè la precisione e la tenuta all’insieme, a instradare ogni elemento sul cammino da lui segnato, il maestro coreano ha saputo anche ricondurre a un unico centro le diverse componenti musicali in gioco, sì da imprimere allo spartito il sigillo di un’interpretazione personale. La più bella Traviata degli ultimi venti anni, asserisce Mario Messinis, critico musicale degno della massima fede; con ciò intendendo certamente dire, la più bella dai tempi di Carlos Kleiber. Messinis non ha però tenuto conto di quella realizzata due anni fa a Parma da Temirkanov, meno raffinata e sottile forse rispetto alla presente edizione, benché non meno emozionante nella naturalezza disarmata del suo respiro. Siamo comunque nell’empireo, e tanto basti a Messinis e a noi. Ovvio che, trattandosi di me- non troppo una sensibilità piagata e dolodramma italiano, l’assenza di voci- lente, che balza in primo piano a partire personaggio adeguate condannerebbe dal quadro successivo. Basta ascoltare il qualsiasi lettura alla morta gora delle «sì», improvvisamente raddolcito, in ribuone intenzioni. Chung poteva contare sposta al «Vi fia grato?» di Alfredo, inda un lato su seconde parti d’insolita certo se sciogliere o no un brindisi (sarà qualità - salvo qualche otturamento di il celebre «Libiamo»), per intuire la vegola nel dottor Grenvil (Dall’Amico) e rità del cuore celata sotto i panni della festa (panni contemporanei, e pouna palese stanchezza vocale in co attraenti, quelli disegnati Gastone (Zennaro) - e su un dallo scenografo e costucoro, affidato alle cure di mista Patrick Kinmoth). Claudio Marino Moretti, ben in sesto a partire dal Finale dell’Atto II; dall’altro, su protagonisti non paghi a priori della solita Patrizia routine. Ciofi, come già nel 2004 qui in Laguna e altrove in più occasioni (anche poche settimane orsono al teatro romano di Orange, sempre accanLa consapevolezza che to a Chung, che tornava a amore vuol sofferenza inTraviata dopo un incontro tride ogni gesto vocale e senza seguito, un quarto di sescenico di questa Violetta, doncolo fa), era Violetta. «Attricena piena di dignità e fermezza Qui sopra, cantante» (espressione veranche e soprattutto quando Giuseppe Verdi diana doc) di prim’ordine, ti sussurra, tra sé o ad altri, i e la locandina aspetteresti che col suo fisico propri sentimenti (e la Ciofi è della sua teso e nervoso, colla sua voce una specialista del canto lega“Traviata”. poco risonante e non priva di to in pianissimo ad alta quota: In alto, inflessioni gutturali nel regiDuetto con Germont, «Alfredue immagini stro medio-basso, disegnasse do, Alfredo»). Al momento, dello spettacolo una donna preda dell’isteria, diretto a Venezia però, il soprano non sembra giusta il cliché della psichiaattraversare una fase di forma dal maestro tria ottocentesca. Niente di perfetta: aspri e alle volte riotcoreano tutto ciò: il côté spiritato fretosi gli estremi acuti, rauche le Myung-Whun netico del I Atto, nasconde ma note gravi e le prime centrali: Chung

La spinta ritmica e le escursioni dinamiche sono sempre in luce là dove occorra, e anzi, ben differenziate a seconda che investano “numeri” individuali oppure collettivi

che si riguardi, per carità; neanche la più piccola ruga siamo disposti ad ammettere sulla sua voce, almeno per i prossimi vent’anni. Vittorio Grigolo, Alfredo, è un tenor giovane, che agisce alla moderna, fisico tonico (ma il jeans a vita bassa non gli dona granché) e molta disinvoltura, fin troppa in quel continuo lisciarsi i capelli e far le faccine, ma canta all’antica, tirando indietro e allungando la durata di certe note (da qui, riprese di fiato non previste: «scordo ne’ gaudii suoi || tutto il passato»). Timbro personale e attraente, scuro sotto, squillante sopra, da un anno a questa parte ha affinato la tecnica; rinunci al fading (l’effetto assolvenza/dissolvenza a inizio e fine frase) da cantante di musica leggera, sia più sobrio e preciso, e da sicura promessa entrerà di diritto nelle fila delle certezze.Vladimir Stoyanov è un baritono che sa il fatto suo, eccome (appena qualche estremo acuto un po’ sfocato); e quando canta piano e morbido («Di Provenza»), riesce persino toccante. Del resto, Germont padre è il personaggio che più d’ogni altro esce rigenerato dalla “cura” prescritta allo spartito verdiano da Chung: un uomo serio ed eloquente, che incarna dei princìpi condivisibili o no, ma pur sempre ragionevoli e degni di rispetto. Non un ipocrita o un vigliacco; tanto meno un trombone. Gli accordi degli archi che ne annunciano l’ingresso imprimono, com’è ovvio,

una svolta alla vicenda: il direttore li vuole forti fondi incisivi, perché destinati a una figura autorevole e imponente, davvero pericolosa per la felicità degli amanti. Per la prima volta, grazie a Stoyanov e a Chung, ho compreso la giustezza del disegno melodico (una sequenza di note ribattute concluse da un abbellimento veloce) che riveste l’apostrofe «Un dì, quando le veneri»: una smorfia ironica, demolitrice. Ho parlato all’inizio di raffinatezza, a proposito del podio. Non si equivochi sul vocabolo: in questo caso, non è per nulla sinonimo di esecuzione slentata, priva di nerbo. Tutt’altro: la spinta ritmica e le escursioni dinamiche sono sempre in luce là dove occorra, e anzi, ben differenziate a seconda che investano “numeri” individuali (le strappate a «Non sapete», le ondate dal piano al fortissimo e ritorno in «Amami Alfredo») o collettivi (magnifico, come solo a Karajan era riuscito, il crescendo graduatissimo nel coro «Si ridesta in ciel l’aurora»). Danze e motivi “triviali” innervano le scene di festa, e Chung non ne attenua il carattere franco, realistico, se non nella misura in cui inclina a trattare queste pagine come musica vera, non pura e semplice mimesi di un intrattenimento borghese a metà Ottocento (la banda interna a casa di Violetta, Atto I; i cori di zingarelle e mattadori da Flora, Atto II, quadro II). Qui sta anche il punto di massima distanza rispetto all’impostazione di Carsen, che la trivialità tende invece a esplicitare (la pioggia continua di denaro), ignaro o privo d’interesse qual egli è per le tendenze trasfiguratrici del “vero”praticate dall’opera italiana.

Spettacolo peraltro d’inappuntabile professionismo nel seguire la progressione del dramma, com’è lecito attendersi da regista di tale levatura; colmo d’intuizioni sottili (il dottore che al III Atto si fa pagare la visita, in quanto Violetta, morente e impoverita, non è più una regina del demi-monde), ma non esente da cadute di gusto. Senza dubbio, però, Chung dà il meglio di sé negli episodi intimi, negli sguardi sull’anima: la lentezza estatica del Duetto «Un dì felice, eterea», il lavoro capillare sui recitativi; e ancora, i mille particolari scovati in orchestra. Prevale in questi momenti, un’accentuata libertà di fraseggio, con risultati struggenti, da groppo alla gola. Ecco, nel concertato finale dell’Atto II, dopo l’assolo di Violetta, il tempo accelerare inaspettatamente, per quasi fermarsi agli accordi conclusivi; ecco, nel Preludio dell’Atto III, gli accelerando i rallentando gli accenti ricondotti alla misura di un legato senza fratture; ecco, la sottolineatura delle pause che increspano tante melodie legate all’immagine della Violetta amorosa e allo strumento che ne impersonifica la voce interiore, il clarinetto («Ah, fors’è lui», scrittura della lettera ad Alfredo, Atto II).


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Moscow Times” del 18/09/2009

Gaz compra Opel (ma licenzia) di Alex Anishyuk enti di crisi e disoccupazione soffiano più forte in Russia. Il gigante dell’auto Gaz e la compagnia di bandiera Aeroflot hanno annunciato migliaia di licenziamenti per la fine dell’anno. Lo ha comunicato, giovedì, il ministero della Salute e dello sviluppo sociale, segnalando un orizzonte pieno di nubi. Anche se il governo vede ormai un rimbalzo verso l’alto dell’economia.

V

Il gruppo Gaz di Oleg Deripaska dovrà mandare a casa 14mila dipendenti, il 35 per cento della sua forza lavoro, mentre l’Aeroflot licenzierà 2.215 persone, circa il 14 per cento del totale, secondo le fonti del ministero. I licenziamenti di Gaz group dovrebbero essere distribuiti anche su tutte le proprie controllate. Ricordiamo che Gaz è uno dei partner principali di Magna-Sberbank nell’acquisto di Opel-Gm. Solo l’azienda principale del gruppo russo manderà la lettera a 5.480 lavoratori sui 16mila del totale. Mentre Gaz Factory ne eliminerà dal libro paga 5.840 su 7.781. Anche altre società satellite subiranno tagli al personale. Un portavoce di Gaz ha negato queste cifre, affermando che la direzione aziendale non aveva ancora preso una decisione definitiva sui licenziamenti, ma che in futuro ci sarà una rimodulazione dei posti di lavoro tramite programmi di formazione. « Abbiamo varato di recente un progetto che permetterà a molti nostri impiegati di riqualificarsi e di prepararsi a lavorare in altri settori industriali» ha spiegato a Moscow Times la portavoce di Gaz. «Ai dipendenti verrà corrisposta una parte del loro stipendio per tutta la durata del corso di formazione, che dovrebbe durare un anno» ha poi precisato. Il primo modulo formativo cominciare a settembre e coinvol-

gerà 4mila dipendenti. I seminari di aggiornamento sono parte di un programma governativo per cercare di creare degli ammortizzatori sociali contro la disoccupazione, nelle more della crisi economica. Il governo è preoccupato che la perdita di occupazione porti a tensioni sociali e ha messo insieme un miliardo di dollari per un pacchetto anti-crisi. «Politicamente, il salvataggio di una casa automobilistica, piuò essere più facile che dover affrontare dei licenziamenti di massa», è il parere di Luc Jones della Antal, società di reclutamento lavoro. «La maggior parte di queste imprese si trovano nelle città-fabbrica come Togliattigrad, ad esempio. Licenziamenti in blocco potrebbero facilmente provocare delle sommosse» ha spiegato Jones. «È più facile per il governo matenere il posto di lavoro di queste persone. Altrimenti qualcuno dovrebbe gestire i licenziamenti e subirne le conseguenze». L’annuncio di Gaz su questa forte riduzione di personale, serve anche a creare pressione su Mosca, per chiedere ulteriori aiuti finanziari, è l’analisi di Vladimir Gimpelson, direttore del Centro per la ricerca sul lavoro. «Può darsi che ventilare tutti questi licenziamenti sia un modo per intimidire le autorità federali» aggiunge l’esperto. «Autovaz che aveva fatto un’operazione simile, ha avuto oggi la risposta dal governo assieme ai finanziamenti». Il quotidiano economico Vedomosti aveva riportato giovedì, che Autovaz, la più grande industria automobilistica del Paese, aveva aperto le trattative col governo per una seconda tornata di aiuti pubblici. La società aveva annunciato alle autorità ministeriali di voler mettere fuori dalle sue fabbriche di Togliattigrad 36mila dipendenti, entro il prossimo di-

cembre. Irina Dannenberg, portavoce di Aeroflot, non aveva voluto commentare, i dati del ministero. Anche se già mercoledì, il direttore generale della compagnia aerea, aveva avvertito che i licenziamenti avrebbero potuto anche crescere, fino ad arrivare a 6mila.

Il problema, affermano gli analisti, è che molte società ex statali e in compartecipazione, sono piene di personale in eccesso e poco efficiente. Sono aziende che hanno bisogno di ristrutturazioni, che dovrebbero essere fatte in periodi di crescita non in quelli di crisi come oggi. Una boccata d’ossigeno potrebbe arrivare anche da Opel-Gm il cui nuovo management ha già dichiarato che potrebbe investire circa 170 milioni di euro nel mercato russo, comprese le attività di Gaz.

L’IMMAGINE

Invadente interventismo pubblico Il progresso si basa su libertà e ordine

Un tuffo tra le meduse

Il progresso si fonda su libertà e ordine spontaneo. La politicizzazione - che mira a redistribuire i redditi e a realizzare l’uguaglianza sostanziale - riduce l’efficienza e la libertà individuale; deprime l’iniziativa e l’intrapresa; restringe l’area del diritto privato. L’ipertrofia legislativa e burocratica opprime, affievolisce l’operosità e frena la competitività. L’innovazione è ostacolata dalla burocrazia, che è statica, ripetitiva, subordinata, vincolata, uniforme, lenta e macchinosa. Al burocratismo possono essere correlati: parzialità, diffidenza, invidia, affermazione di pigri e pavidi, pressioni di partiti e lobbies, episodi di clientelismo e corruzione. Le “necessità”della politica sono sovente rimedi ai guasti di precedenti interventi pubblici. Politically correct e interventismo pubblico tolgono agli uni per dare agli altri; avvantaggiano e ostacolano; incentivano e disincentivano; promuovono produzioni e ne penalizzano altre. Spesso favoriscono il locatario. Possono agevolare la cooperativa, pure se questa abbia prosperità e redditività superiori all’impresa familiare.

Nuotare tra migliaia di meduse senza finire urticati. Non è un sogno ma ciò che accade ai subacquei che si immergono nel Jellyfish Lake (Lago delle Meduse) nell’arcipelago di Palau, nel Pacifico. Un piccolo lago salato protetto dalla barriera corallina dove meduse di ogni dimensione nuotano e si riproducono indisturbate

Franco Padova

MANCA LA VOLONTÀ DI INTEGRARSI L’episodio deve far riflettere molto quei politici che parlano di integrazione in termini decisamente sbagliati. L’integrazione bisogna volerla per poterla attuare. Occorre una legislazione molto più dura. L’uccisione di Sanaa ci fa capire che non c’è la volontà di integrarsi, di vivere rispettando le nostre leggi e la nostra cultura.

Daniela S.

della visione, non attivazione dei servizi pagati, difficoltà a recedere dal contratto. A fronte di questi e altri disservizi, contattare il call center o utilizzare il sito Internet è del tutto inutile. Perciò denunciamo la condotta commerciale scorretta all’Antitrust, che ci ha comunicato l’apertura della pratica Mediaset Premium - costi call center, numero Ps/4466, a carico della società: l’Autorità verificherà la rilevanza dei fatti segnalati.

Lettera firmata

MEDIASET PREMIUM: CAMPIONE DI SCORRETTEZZA

UNO SCATTO DI ORGOGLIO

Nella versione Premium (i servizi a pagamento), Mediaset si distingue per addebiti ai clienti senza autorizzazione e legittimità, mancato invio della scheda per fruire

Pare che la politica spettacolo, con l’annesso culto della personalità, abbia iniziato la parabola discendente e che cominci a tornare la vera politica quella della elaborazio-

ne dei progetti di sviluppo della società e della loro realizzazione e di consolidamento della democrazia. Il condizionale è d’obbligo anche se giungono segnali forti che recepiscono il disagio delle organizzazioni della periferia. Il recente convegno di Chianciano può rappresentare l’inizio dell’inversione di tendenza del modo paternalistico e spettacolarizzato di fare politica, e ciò può avvenire nella misura in cui la periferia del partito accoglierà il

rinnovato appello sturziano“ai liberi e forti”. È ovvio che si tratta di una battaglia dura che può riservare sorprendenti risultati. Occorre che dalla periferia si risponda non solo con entusiasmo alla nuova tensone elettorale ma che si risponda con uno scatto di orgoglio per i valori politici e morali che si vogliono riaffermare. Uno scatto di orgoglio, non frutto di superbia per le antiche glorie ma per la consapevolezza che il nuovo percorso, necessaria-

mente autonomo per riaffermare la fine del bipolarismo mai nato, è l’unico percorribile. Occorre accantonare i piccoli personalismi e puntare al rialzo. Solo così si potrà registrare un ulteriore balzo in avanti. Cosa possibile sia perché vi è molto malumore nella popolazione e anche perché nel carrozzone si notano evidenti segni di sbandamenti, molti tentennamenti e sintomi di una prossima implosione.

Luigi Celebre


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sono sicura che adesso Sophia è in cielo Durante la malattia, sono stata a trovare spesso la mia amica Sophia e sono rimasta al suo capezzale e curarla. Ma col passare del tempo, la ragione la abbandonò e il medico impedì a chiunque, tranne che all’infermiera, di entrare nella sua stanza. Poi mi parve che anch’io avrei dovuto morire se non me la avessero lasciata curare o almeno guardare in faccia. Col passare del tempo il dottore disse che avrebbe dovuto morire e mi permise di guardarla per un attimo attraverso la porta aperta. Mi tolsi le scarpe e senza far rumore scivolai dentro la stanza dell’ammalata. Se ne stava là, dolce e bella, come in salute, i lineamenti pallidi illuminati da un sorriso, che non era di questo mondo. La stetti a guardare fino a quando gli amici me lo concessero, e quando mi dissero di smettere, lasciai che mi portassero fuori. Non versai una lacrima, avevo il cuore troppo gonfio per piangere, ma dopo che la misero a giacere nella bara e sentii che non avrei più potuto richiamarla, diedi sfogo ad una malinconia permanente. Non svelai a nessuno la causa del mio dolore, anche se mi rodeva il cuore. Non stavo bene e andai a Boston per un mese e mi rimisi in salute così anche il morale migliorò. Sono sicura che adesso è in cielo e anche se non la dimenticherò mai, tuttavia la incontrerò in cielo. So quello che devi aver provato alla morte della tua amica, e spero che sopporti con sottomissione. Con affetto Emily Dickinson a Abiah Root

ACCADDE OGGI

GESTO D’ORGOGLIO Nello stendere in aria il lenzuolo variegato dei nostri colori nazionali, gli aerei che compongono la flotta delle Frecce Tricolori riproducono in alto uno dei primi elementi di orgoglio nazionale che non trovano pari, e che non possono essere ricertificati da straniere esigenze. Per non dare ulteriore carico pagante ai piloti delle frecce mandati in Libia per un’incredibile performance, è stato veramente opportuno ribadire che i colori non cambiano, neanche mischiandoli tra loro in una tavolozza da pittore. I nostri artisti del volo acrobatico, non sono dei giullari che indossano il vestito d’occasione con i toni voluti dalla corte che la fa da spettatore, ma sono piloti duramente addestrati a fare delle loro virate, la spinta d’orgoglio che nasce da un profondo sentimento professionale e militare. Il protocollo tradizionale non è mai stato variato nella storia di tale pattuglia, e tantomeno la richiesta è venuta dalle esigenze dei commissari europei, perché ogni patrimonio nazionale appartiene solamente al Paese che lo ha reso possibile, né tantomeno può essere modellato secondo dei teoremi di rivalsa coloniale, che poi non sono mai stati equiripartiti dal rispetto degli accordi di buon vicinato, che rendono critico il problema extracomunitario tra lo Stretto e Lampedusa. L’Unione europea ha dato ancora una volta l’impressione però di voler regolare i comportamenti dell’Italia, con la questione degli im-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

19 settembre 1972 Una lettera bomba spedita all’ambasciata israeliana di Londra uccide un diplomatico 1973 Re Carlo XVI Gustavo accede al trono di Svezia 1978 Le isole Salomone diventano membri delle Nazioni Unite 1979 Si disputa il Gran Premio Dino Ferrari, non valido per il campionato mondiale disputatosi in un’unica edizione all’autodromo di Imola omonimo 1983 Saint Kitts e Nevis ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1988 La Apple annuncia il suo Macintosh IIx 1994 Viene pubblicata la dimostrazione dell’Ultimo teorema di Fermat ad opera di Andrew Wiles 1995 Il Washington Post pubblica il manifesto di Unabomber 2002 In Costa d’Avorio truppe di ribelli controllano gran parte del Paese e l’ex presidente Guéi viene ucciso 2005 Gloria Gaynor è la prima donna a essere inserita nella Dance music hall of fame, sia come interprete che come singolo (I Will Survive)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

migrati, invece di fornire essi stessi il valido contributo alle peculiarità di avere tante acque territoriali tra i confini del nostro stivale. Resta palese che in tale contesto si forma la precisa strategia di Gheddafi di dividere l’Unione europea e l’Occidente, trattando poi personalmente con le singole nazioni, le questioni che lo riguardano, e dando l’impressione che le linee preferenziali si possano meglio stendere di quelle comunitarie. Lo spirito diligente dei nostri piloti, ha detto però no, con orgoglio e compostezza; lo stesso che nel precedente governo Prodi, fu conseguente alla notizia dei tagli di bilancio, che impattavano sulle tournée delle Frecce, inesorabilmente ridotte nel calendario. Se ne parlò tanto, azzardando persino l’assurda proposta di cancellarne l’esistenza, e non so a che cosa si sarebbe arrivati se la sinistra regnava ancora in Italia, ma per fortuna alla fine si è riaffermato che le Frecce Tricolori sono anche il simbolo della prima scuola che funziona in Italia: l’aviazione e le accademie aeronautiche. Gli Aermacchi Mb 339 hanno così ribadito tale valenza con una prospettiva di continuità e compattezza che non può essere modificata, soprattutto adesso che abbiamo un governo che cerca di dare a Cesare quello che è di Cesare. Oltretutto è assurdo che in un piano di riduzione del bilancio nazionale si debbano tagliare le fonti ottimali dell’orgoglio storico acrobatico militare.

NON DILAPIDIAMO UN PATRIMONIO CHE DEVE ESSERE COMUNE La Sicilia è la regione nella quale è più forte l’esigenza di una classe politica che sappia rispondere con fermezza e unità alle sfide che la criminalità organizzata propone. È infatti una sfida politica l’eliminazione delle cause sociali che determinano il perdurare del fenomeno mafioso e di comportamenti mafiosi. L’attenzione dell politica deve spaziare dai piccoli reati nelle città ai nuovi mercati redditizi per la mafia, per poter meglio approntare quegli strumenti che possano finalmente debellare il fenomeno mafioso. Strumenti non solo giudiziari, ma anche culturali. La creazione di un tessuto culturale fertile al rinnovamento ed alla legalità ha avuto un punto di massimo dopo le tragiche stragi di mafia degli anni Novanta. Sull’onda emotiva di quegli efferati delitti il popolo siciliano ha saputo rialzare la testa, cosciente che un futuro senza mafia fosse possibile. Da quella stagione, nella quale l’unità di intenti spaziava tra tutte le forze politiche, si è passati ad una fase nella quale si è tentato di capitalizzare a fini elettorali il patrimonio culturale della lotta alla mafia, dando l’impressioneche la diversità dei partiti rispecchi in certa misura, anche la distinzione tra buoni e cattivi. In qualche caso le vicende di cronaca hanno dato l’opportunità di individuare in singole persone, spesso con ruoli di dirigenza secondari, vicinanze con le organizzazioni criminali. Passando dal giudizio particolare al giudizio su tutto il quadro dirigente di alcune forze politiche non è stato difficile propagandare l’idea di partiti mafiosi e partiti antimafiosi. Dove gli antimafiosi sono quelli che si autoproclamano tali, per una presunta superiorità morale - a volte contraddetta da evidenti fatti di cronaca e politica locale - o solo per aver candidato esponenti della lotta alla mafia. L’errore culturale, provato dalla sempre minore partecipazione di cittadini alle commemorazioni delle vittime della mafia - segno eclatante del raffredarsi nelle coscienze dell’idea di vincibilità della mafia - è stato aver fatto diventare di parte la lotta alla mafia. Un errore già commesso negli anni Cinquanta dai partiti siciliani di sinistra che ha rallentato l’azione politica di contrasto alla mafia, quando questa lotta era utilizzata per fini politici per delegittimare gli avversari. Similmente oggi chi utilizza il contrasto alla mafia per fini elettorali, non riuscendo a proporre un progetto di governo regionale, dilapida un patrimonio che deve essere comune, al di là dell’appartenza partitica. Giovanni Nocera C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L I CI R C O L I LI B E R A L SI C I L I A

APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 GIOVEDÌ 24, VENERDÌ 25 SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Premio “liberal Siena 2009”. Convegno “Alice nella globalizzazione - La modernizzazione mancata: l’Italia sospesa tra passato e futuro”. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Bruno Russo

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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