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di e h c a n cro
L’onore è un privilegio
che trae la sua principale essenza dalla rarità Michel de Montaigne
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 22 SETTEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ultimo saluto dello Stato ai sei parà
Per un giorno, davanti alle salme dei caduti di Kabul e alla dignità dei loro famigliari, l’Italia si riscopre nazione
Un solo grido tra le lacrime: «Folgore, Folgore» di Franco Insardà Una giornata all’insegna del tricolore. Il tricolore sulle bare dei martiri di Kabul. Il tricolore ai balconi di Roma e in mano ai cittadini accorsi per salutare gli eroi di Kabul. a pagina 2
Le contraddizioni dell’etica pubblica Uno dei momenti più toccanti dei funerali di ieri: il figlio del tenente Antonio Fortunato saluta per l’ultima volta suo padre
Lo stesso Paese diviso tra onore e declino morale di Riccardo Paradisi «Sono orgogliosa di mio marito, paracadutista della Folgore». Stefania Giannattasio è la vedova del sergente maggiore Roberto Valente, uno dei caduti nell’attentato di Kabul. a pagina 4
La Lega insiste per il ritiro
Fratelli d’Italia
L’unica nota stonata è quella di Umberto Bossi di Giancristiano Desiderio La patria, chiede un cronista del Tg3 in un servizio sui funerali di Stato per i “nostri” caduti sul fronte di Kabul, è ancora un valore attuale? La domanda è lasciata senza risposta. a pagina 2
Bob Woodward rivela il rapporto
E McChrystal chiede a Obama più truppe
da pagina 2 a pagina 7
di Pierre Chiartano Obama sta riflettendo, da più di una settimana, sulle pagine del rapporto del generale McChrystal, che qualche giorno fa aveva chiesto rinforzi per 40mila uomini. a pagina 6 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
187 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 22 settembre 2009
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Il sentimento nazionale e la risposta dello Stato
La colonna sonora della patria (con la “stecca” di Umberto Bossi) di Giancristiano Desiderio a patria - chiede un cronista del Tg3 in un servizio sui funerali di Stato per i “nostri”caduti sul fronte di Kabul - è ancora un valore attuale? La domanda, lasciata senza una risposta positiva, sottintende l’idea che del valore della patria non solo si possa fare a meno, ma è bene fare a meno perché con le bandiere nazionali si avvolgono le bare dei soldati. Ma quei soldati, che hanno i nomi di nostri amici e parenti, per cosa sono morti se non per la patria? E cos’è la patria se non la nostra comune libertà? Cos’è la patria se non i cinquant’anni di pace dell’Europa della seconda metà del XX secolo? Matteo Mureddu, Antonio Fortunato, Davide Ricchiuto, Massimiliano Randino, Roberto Valente, Giandomenico Pistonami sono soldati italiani e più che italiani, europei, che hanno sacrificato la vita per darci la pace. Altrimenti, perché fare loro i funerali di Stato?
L
C’è un’idea italiana, troppo italiana dei funerali di Stato. È quella di chi dice “oggi è il momento di essere uniti, ci dobbiamo stringere intorno ai parenti dei caduti e rimandare a dopo le polemiche e le valutazioni politiche”. I funerali di Stato sono dunque solo una parentesi, un rito in cui si esorcizza una morte in cui i parenti siamo tutti. Passato il momento del dolore nazionale si può far ritorno alla vita di tutti i giorni e, con il passare del tempo, dimenticare il senso delle vite sacrificate sull’altare della patria. Fino a quando le vicende di odio, terrore e disordine internazionale di un secolo che sappiamo già essere diverso dal mezzo secolo di pace che abbiamo alle spalle, non ci porterà davanti agli occhi altre bare tricolori, altre vedove, altri padri che seppelliscono i figli. Così nuovi funerali di Stato e l’Italia ufficiale davanti all’Italia degli ufficiali si sentirà patria comune. È come se i funerali dei nostri soldati fossero un atto di fondazione della nostra vita civile che guarda se stessa allo specchio e vi scorge la tragedia, ma non sostenendo lo sguardo lo distoglie e passa alla ordinaria commedia di sempre. Quella commedia che pure davanti alle bare e alle bandiere italiane dice: “La patria è ancora un valore attuale?”. Ieri, giorno dei funerali di Stato, Angelo Panebianco nel suo“fondo”sul Corriere della Sera si diceva sicuro: «Oggi non si sentiranno le “stecche”che si sono udite nel giorno dell’attentato». Perché di mezzo c’è una cosa troppo importante: la vita dei soldati - di quelli nelle bare e di quelli al fronte - e davanti alle vite dei soldati non è come per un assessorato in Regione o la nomina del dirigente Asl (anche se l’ultima non la sottovaluterei troppo). Invece, la “stecca” c’è stata. Umberto Bossi, che già nel giorno della strage aveva detto «subito a casa», ha detto a mo’di confessione: «Votai anche io la missione, ma non per farli morire. Li abbiamo mandati noi e sono tornati morti». La “emotività politica”di Bossi è il modo giusto di rispettare il sacrificio estremo di Matteo,Antonio, Davide, Massimiliano, Roberto, Giandomenico? Perché le madri e i padri, la mogli e le sorelle e gli amici dei nostri caduti, che avranno un cuore dolente finché batterà, mostrano fierezza e compostezza, mentre troppo spesso gli uomini delle istituzioni si presentano con il cuore in mano? Tra la fierezza e la emotività il vero valore politico è nella prima, perché la mozione degli affetti utilizza la vita e la morte dei soldati secondo la ragion di partito.Troppo spesso i funerali di Stato sono i funerali dello Stato, mentre la vita sacrificata al fronte chiede rispetto e civiltà delle istituzioni perché è un dono che vuole elevare la nostra povera vita civile.
L’ITALIA SALUTA I SUOI PARÀ E PER UN GIORNO SI RISCOPRE NAZIONE
Un solo grido tra le lacrime «Folgore, Folgore!» A Roma istituzioni, cittadini e militari insieme. Il Papa: «Dio sostenga chi lavora per la pace» di Franco Insardà
ROMA. Una giornata all’insegna del tricolore. Il tricolore sulle bare dei sei martiri di Kabul. Il tricolore ai balconi di Roma o in mano ai cittadini accorsi nella Capitale, che finiscono per trasformarsi in un lunghissimo fiume verde, bianco e rosso. Il tricolore della scia degli aerei della pattuglia acrobatica, quasi a voler collocare nell’infinito il gesto di Antonio, David, Giandomenico, Massimiliano, Matteo e Roberto. Così li ha chiamati più volte affettuosamente l’ordinario militare per l’Italia, monsignor Vincenzo Pelvi, durante i funerali di Stato celebrati ieri nella basilica di San Paolo fuori le Mura. E l’Italia si è fermata per il lutto nazionale, con bandiere a mezz’asta e luci spente. Dopo l’omaggio reso da migliaia di persone alla camera ardente allestita all’ospedale militare, ieri molti negozi hanno abbassato le saracinesche alle 11 in punto per onorare gli eroi caduti in missione.
neità del bimbo ha colpito tutti: dall’inizio alla fine, infatti, è stato il protagonista inconsapevole di una cerimonia che ha fermato l’Italia intera e che si è stretta idealmente intorno ai suoi fratelli e alle famiglie. Con Simone e Martin su tutti. Ma il dolore dei familiari è composto: e se qualcuno stringe la foto del loro caro il padre di Gian Domenico Pistonami ha voluto indossare la giacca della divisa del figlio.
L’OMAGGIO DELLE ISTITUZIONI A rendere omaggio in forma solenne al tenente Antonio Fortunato, al primo caporal maggiore Matteo Mureddu, al primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, al sergente maggiore Roberto Valente, al primo
cinato e ha stretto le mani ai familiari dei sei ragazzi morti. Lo stesso hanno fatto i presidenti del Senato e della Camera e il premier. I quattro sono uno accanto all’altro. Poche file più indietro ci sono molti esponenti dell’opposizione: D’Alema, Rutelli, Di Pietro, Franceschini, oltre a Casini e Cesa, gli ex presidenti del Senato Marini e Pera, l’ex capo dello Stato, Scalfaro, gli ex ministri della Difesa Parisi e Martino e i governatori Bassolino e Vendola. Nelle prime file poi tutti i ministri. Ad accogliere le bare c’era don Salvatore Nicotra, cappellano di Kabul.
IL SALUTO DEI FERITI Nonostante siano ancora convalescenti, hanno voluto essere a San Paolo fuori le Mura per dare l’ultimo saluto ai compagni morti a Kabul. Ed erano lì provati e commossi. Il primo maresciallo dell’Aeronautica Felice Calandriello e i primi caporalmaggiori della Folgore, Rocco Leo, Sergio Agostinelli e Ferdinando Buono che hanno ricevuto il saluto del presidente della Repubblica e di quello del Consiglio. Ma tutta l’Italia intera si è fermata per un lungo e commosso minuto di silenzio dedicato ai suoi figli che hanno sacrificato la loro vita in Afghanistan. Tantissima gente ha ac-
Nella sua omelia monsignor Pelvi difende le missioni militari. Ma durante la cerimonia un uomo sale sull’altare e urla uno slogan pacifista
PICCOLI PROTAGONISTI Il piccolo Martin Fortunato, così come era successo ieri per Simone Valente, ha ricordato nel modo migliore il suo papà. E l’ha voluto accarezzare per l’ultima volta mentre portava con orgoglio il basco amaranto da paracadutista. La sponta-
caporal maggiore Gian Domenico Pistonami e al primo caporal maggiore Massimiliano Randino c’erano il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, il premier Silvio Berlusconi, il governo al completo e tutti i vertici delle forze armate. Prima dell’inizio della cerimonia funebre Giorgio Napolitano si è avvi-
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LA PREGHIERA DEL PARACADUTISTA Il testo della preghiera letta ieri ai funerali di Stato dall’ex parà Gianfranco Paglia, deputato del Pdl ferito in Somalia
Eterno, Immenso Dio, che creasti gli infiniti spazi e ne misurasti le misteriose profondita' guarda benigno a noi, Paracadutisti d'Italia, che nell'adempimento del dovere balzando dai nostri aerei, ci lanciamo nelle vastita' dei cieli. Manda l'Arcangelo S. Michele a nostro custode; guida e proteggi l'ardimentoso volo. Come nebbia al Sole, davanti a noi siano
eroe da solo: lo è inscindibilmente con dissipati i nostri nemici. Candida come la sua famiglia e la la seta del paracadute sia sempre sua patria». Il vescovo ha ringraziala nostra fede e indomito il coraggio. to le famiglie dei militari che «da ogLa nostra giovane vita e' tua o Signore! gi sono ancor più le Se e' scritto che cadiamo, sia! Ma da ogni goccia nostre famiglie» per aver insegnato del nostro sangue sorgano gagliardi figli «il lessico della pae fratelli innumeri, orgogliosi del nostro passato, ce nelle vostre case dall’infanzia fino sempre degni del nostro immancabile avvenire. all’eroismo della Benedici, o signore, la nostra Patria, le Famiglie, carità, del dono della vita per il bene di i nostri Cari! Per loro, nell'alba e nel tramonto, altre famiglie per il sempre la nostra vita! E per noi, o Signore, bene della famiglia dell’umanità ha il Tuo glorificante sorriso. detto». «L’intera nazione ha dimostracompagnato il corteo che dal Celio to in questa difficile prova quanto è arrivato alla basilica, dove il pic- siano saldi i valori di solidarietà e chetto d’onore ha accolto le bare fraternità che caratterizzano la nocon l’urlo «Folgore!», mentre la stra Italia - ha aggiunto monsignor banda militare eseguiva la marcia Pelvi -. Se uno Stato non è in grado funebre,“In pace per la pace”.Tra le di proteggere la propria pace da corone di fiori c’era anche quella violazioni gravi e continue dei diinviata dai familiari della strage di ritti umani, la Comunità InternaNassiriya del 12 novembre 2003. zionale è chiamata a intervenire.
IL CORDOGLIO DEL PAPA Prima di iniziare la celebrazione monsignor Pelvi ha letto il messaggio inviato dal Segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, con il quale è stato espresso il cordoglio di Papa Benedetto XVI «profondamente addolorato per il tragico attentato». Benedetto XVI ha espresso le «sentite condoglianze» ai familiari delle vittime «come pure all’intera nazione italiana per questo gravissimo lutto». Il Pontefice si è unito «spiritualmente alla celebrazione» e ha invocato «l’intercessione di Maria Santissima Regina Pacis affinché Dio sostenga quanti si impegnano ogni giorno a costruire nel mondo solidarietà, riconciliazione e pace». IQuindi ha rivolto un «particolare pensiero» ai militari feriti.
AL SERVIZIO DELLA PACE
Siena, il premio liberal ai caduti Alla luce dei tragici avvenimenti in Afghanistan, la Fondazione liberal ha deciso di dedicare il convegno che si terrà a Siena il 24 e il 25 settembre prossimi (a Santa Maria della Scala in piazza Duomo, 2) invece che ai temi della modernizzazione economica in Italia, agli eroi di Kabul e alla continuità della politica estera italiana. Interverranno al convegno: Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema e Beppe Pisanu. Il Premio Liberal 2009 verrà quindi assegnato alla memoria dei sei militari della Folgore caduti a Kabul.
Nell’omelia monsignor Pelvi ha ricordato uno a uno le vittime chiamandole per nome ed esaltando le loro vite vissute al «servizio della pace», un pensiero forse alla giornata internazionale della pace che si è celebrata proprio ieri e che ha assunto un significato ancora più importante. Monsignor Pelvi ha voluto tratteggiare alcuni particolari del carattere e del modo di essere di ognuno dei sei paracadutisti, riferiti dai cappellani militari che in questi anni li avevano conosciuti. E ha sottolineato che «nessun militare caduto per il proprio dovere è
Secondo i Ros sarebbe stata un’autobomba, fatta deflagrare con un telecomando, a causare la strage Le missioni di pace ci stanno aiutando a valutare da protagonisti il fenomeno della globalizzazione». Concludendo l’omelia, l’ordinario militare ha rivolto uno sguardo «alla bandiera che avvolge i corpi dei nostri fratelli in un abbraccio colmo di affetto e riconoscenza, che protegge e custodisce i nostri fratelli, che sono un tesoro e una perla preziosa di valore soprannaturale e inestimabile». La cerimonia è stata turbata soltanto da un piccolo incidente: durante lo scambio del segno della pace, un uomo si avvicinato all’altare, ha preso il microfono e ha gridato più volte «pace subito», prima di essere portato via.
LA PREGHIERA DEL PARACADUTISTA Sul finire della cerimonia funebre l’ex parà Gianfranco Paglia, deputato del Pdl, costretto su un sedia a rotelle dopo essere rimasto ferito in Somalia, ha letto la preghiera del paracadutista. Accanto a lui il piccolo Martin Fortunato con in testa
il basco amaranto della Folgore di papà. Paglia ha concluso la lettura con un «grazie ragazzi» salutato da un lungo applauso. Alle note del “Silenzio” tutti in piedi sull’attenti, compreso il piccolo Martin. Poi la benedizione delle bare e il canto del “Risorgerò” che ha concluso la cerimonia.
BOSSI INSISTE SUL RIENTRO Umberto Bossi, a dispetto delle regole del protocollo istituzionale, ha riproposto l’auspicio di un rapido rientro dei nostri militari dall’Afghanistan. «Ho votato anche io per la missione. Eravamo convinti che servisse, non certo a farli morire», ha dichiarato il leader della Lega. Non si è fatta attendere la replica del ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «Non possiamo andare via dall’Afghanistan finché loro non saranno in grado di contrastare la minaccia che incombe su quel Paese». Il ministro si è soffermato sul sentimento che percorre il Paese nel giorno dei funerali: «La cosa che mi è sembrata evidente in questa manifestazione è come si è veramente ormai dentro il sentire di tutti gli italiani, questa vicinanza ai nostri ragazzi con le stellette. Si è fatta strada la consapevolezza di quello che fanno ogni giorno non solo per ricostruire ma per la nostra libertà, per tenere lontani i pericoli della guerra e del terrorismo da casa nostra». All’uscita dalla basilica qualcuno ha urlato: «Adesso ritirateli!», mentre un’altra voce ha chiesto: «Quanti morti ancora?». E al passaggio delle bare in molti hanno chiesto di applaudire più forte «per far sentire la propria vicinanza e solidarietà ai familiari dei sei caduti». E per sottolineare la necessità di chiarezza. Al riguardo i Ros hanno inviato alla procura della Repubblica di Roma il primi rapporto sulla dinamica della strage di Kabul. Un’autobomba piazzata sul ciglio della strada, fatta deflagrare con un telecomando a distanza al momento del passaggio dei veicoli italiani.
DELLE
IL TRIBUTO FRECCE TRICOLORI
Un doppio passaggio a bassa quota delle Frecce Tricolori, che hanno disegnato in cielo i colori della bandiera italiana, ha poi chiuso la cerimonia all’esterno della basilica, tra applausi e il grido «Folgore!» ripetuto più volte dai picchetti delle sezioni dei paracadutisti, dei combattenti e reduci schierati lungo il recinto della basilica. Le bare hanno poi iniziato il viaggio verso le città dei soldati morti.
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Etica pubblica. Un politologo, Gian Enrico Rusconi, e uno psicologo, Claudio Risé, sulle nostre contraddizioni
Le due Italie
C’è quella “nascosta” della dignità: come i famigliari dei parà. E quella “ufficiale” del declino morale di ogni giorno. È la stessa nazione? di Riccardo Paradisi ono orgogliosa di mio marito, paracadutista della Folgore». Stefania Giannattasio è la vedova del sergente maggiore Roberto Valente, uno dei caduti nell’attentato di Kabul. Un veterano della Bosnia e del Libano, uno che aveva partecipato all’“Operazione strade sicure” contro la Camorra nel napoletano.
«S
Mio figlio è un eroe, ha detto Anna D’Amato, la madre del caporal maggiore Massimiliano Randino, «perché è morto facendo il proprio dovere». Il padre di Antonio Fortunato confessava spesso agli amici il suo timore sulle sorti del figlio prima che partisse per ogni missione in Afghanistan. Ma sapeva quello che faceva. «Vado fiero di mio figlio», dice il padre di Matteo Moreddu. A comunicare la notizia della morte di Matteo ai familiari – il padre Augusto, la madre Greca e la sorella Cinzia (l’altro fratello Stefano anche lui militare della Folgore era a Pisa) – è stato il comandante militare della Sardegna, il generale Sandro santoni: «Non c’è stato neanche il biso-
gno di dire nulla. Quando hanno visto le divise hanno capito da soli. Nessuna scena di disperazione. Sono dei veri sardi». Giandomenico Pistonami era scampato ad un altro attentato a Kabul, lo scorso agosto. Annamaria, amica del militare e della sua fidanzata lo ricorda così: «Amava il suo lavoro era consapevole dei rischi che correva ma era convinto che le missioni internazionali avrebbero riportato la pace in Afghanistan» «Come sto? - risponde il padre di Davide Ricchiuto a chi cerca di fargli forza - stavo meglio quando c’era lui, ma mio figlio è morto per questa Patria e troverò la forza per andare avanti». Non sono degli spartani a mostrare questo contegno e a usare queste parole, ma italiani, figli di questa Italia nei circuiti politici e mediatici passano quotidianamente altri messaggi. Si è parlato della grande di-
gnità di queste persone. Forse sarebbe più preciso parlare di stile, l’essere conseguenti a un modo di essere, all’idea che si ha di se stessi.
Uno stile che in un Paese come l’Italia colpisce, perché i valori che sono stati dimostrati dai parà e dalle loro famiglie sembrano arcaismi rispetto al circo Barnum in cui sembra di essere immersi. Tanto che fanno notizia. Ma come è possibile che convivano due Paesi così diversi? E soprattutto quali sono i motivi di questa differenza? «Una delle ragioni di questa separazione potrebbe essere il peso maggiore o minore del denaro, del tornaconto economico immediato con tutto lo sfondo valoriale che il denaro e il consumo portano con loro». Claudio Risé psicanalista e saggista vede due Italie in scena: «Quella che ha dei valori
profondi, che durano nel tempo, legati all’identità famigliare, regionale, di corpo, dall’altra un’Italia dell’immagine, effimera, involta nella plastica e nella celluloide, nel luccichìo del denaro facile ma con un patrimonio identitario scarso. Un Paese che non è in grado di riconoscere un nucleo di valori così importanti come il sacrificio della propria vita per la patria per esempio».
pire quell’altra». Eppure, sostiene Risé, l’Italia che si sacrifica redime e riscatta anche l’altra: «Il valore dei militari ha tra le sue funzioni implicite, quello di essere un termine di paragone per i politici. I politici sono degni di questi militari? Di questi loro ripetuti sacrifici? Ecco questo sangue versato da persone che sanno cosa fanno e lo fanno consapevolmente è materia drammatica ma anche preziosa per lo sviluppo delle coscienze di chi ha una coscienza. Io non credo che sia sangue versato inutilmente. Il sangue versato è drammaticamente fecondante. Rigeneratore rispetto alla marcescenza di situazioni di stallo dove tutto sembra degenerare e nulla fiorire» Si diceva che in Italia una tenuta come quella dei famigliari dei parà uccisi fa notizia, «In Gran Bretagna sono esterrefatti del nostro stupore per il comportamento sobrio e contenuto delle famiglie dei nostri militari. Per loro – dice lo storico e politologo
I valori dimostrati dai parà e dalle loro famiglie sembrano arcaismi rispetto al circo Barnum politico-mediatico in cui siamo immersi. Tanto da fare notizia e stupire il Paese Sacrificio, vita e patria non sono parole, sono idee forza, «archetipi concreti – dice Risé – che però per gran parte della nostra classe politica sembrano non avere più nessun significato. È imbarazzante ma la nostra classe dirigente sembra non avere proprio gli strumenti culturali, cognitivi, affettivi per riuscire a ca-
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Gian Enrico Rusconi – è una cosa normale». Però Rusconi non si scandalizza troppo di questa differenza tra l’Italia militare e quella politica. «L’uomo politico appartiene a una vocazione e ad un’antropologia diversa rispetto al militare. Il suo compito è quello di mediare, di trovare il compromesso, di persuadere anche con la retorica. Non mi scandalizzo dunque di queste differenze. anche se la politica italiana ha passato il segno».
Rusconi parla infatti di “degenerazione” della nostra classe dirigente: «È la peggiore che abbiamo dal dopoguerra. Ormai l’arruolamento del personale politico avviene all’interno delle dello stesso ceto politico, non c’è più una selezione che avviene nella società civile. Un eccesso di endogamia che trasforma il personale politico in burocrazia spesso parassitaria. È questa consuetudine tra le altre cose, rispetto per esempio al primo dopoguerra, a produrre una classe politica che appare spesso senza dignità. Il che non significa la fine della democrazia, ma certo segna una mutazione del sistema democratico». Una mutazione in cui le classi politiche e le elite dirigenti non danno più l’esempio. Eppure come ci ricorda suo padre Davide Ricchiuto si è sacrificato per questa patria. L’unica che abbiamo.
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SERGIO ROMANO
«No, siamo lo stesso Paese» a politica italiana, al netto dello spettacolo quotidiano che offre, è migliore di quella che appare. Sergio Romano, ambasciatore e editorialista del Corriere della Sera, non ci crede alle due Italie che liberal ha ritenuto di vedere in questi giorni successivi alla tragedia di Kabul, dove sei nostri paracadutisti sono rimasti uccisi in un attentato della guerriglia afghana. «Capisco che può essere suggestivo e anche evocativo distinguere in questo momento tra due Italie, soprattutto a fronte della grande compostezza che le famiglie dei nostri militari stanno dimostrando rispetto al modo scomposto con cui la politica ci si è mostrata in questi ultimi mesi. Ma francamente mi sembra una semplificazione o appunto una suggestione. No. Non ci sono le due Italie, c’è l’Italia con i suoi difetti e le sue virtù. Ci sono i molti volti di questo Paese. Anche i parà, le loro famiglie sono prodotti di questa Italia. L’italia è un Paese contraddittorio e non credo dicendo questo di dire una cosa originale».
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E la politica degli scandali boccacceschi, delle alchimie eterne, dell’immobilismo e della dema-
gogia? Non è un Italia diversa da quella del sobrio compimento del proprio dovere dei nostri parà, dai valori che in queste ore stanno mettendo in circolo i loro parenti? «Ma insomma noi stiamo parlando delle forze armate. E in particolare di un corpo di professionisti che per tradizione, educazione, formazione è addestrato ad accettare il rischio. Forse non è chiaro ma siamo di fronte a un corpo che trasmette principi così radicati ai propri uomini che diventano anche patrimonio delle loro famiglie. Che arrivano ad accettare anche l’esito estremo di accettare la morte in battaglia dei propri cari. Di metterla in conto. Ma appunto parliamo di un corpo d’elite. Certo, se vogliamo paragonare questa Italia a quella dei palazzi evidentemente ne viene fuori un quadro diatonico. Ma è uno sguardo espressionistico. Perché considerata sulla lunga durata alla fine la politica italiana finisce col decidere per il meglio. Alla fine certo, perché prima di decidere bene la politica italiana è abituata a dire un cumulo di sciocchezze. Ma questo perché la politica è costretta a un confronto quotidiano con gli umori della popolazione. Che i nostri politici, forse più di altri per carità, tendono a intercettare. Voi dite i militari si comportano in modo diverso. Giusto, ma i generali, gli ufficiali i soldati non vengono votati o eletti. I politici si».
“
Poi certo, ammette Romano, ogni Paese ha il suo stile e il nostro non è il migliore ma insomma i difetti della politica italiana sarebbero insiti nella fisiologia della stessa politica contemporanea, fortemente mediatizzata e pressata da un’opinione pubblica le cui preferenze o avversioni vengono sempre più velocemente registrate in presa diretta. «Se l’Italia veniva rimproverata all’estero – continua Romano, ricordando il tempo quando era ambasciatore – era per un eccessiva prudenza e non per questa irruenza comunicativa, per questa coazione a mettere in piazza umori fatti privati ed esternazioni emotive. Una prudenza a cui seguivano però decisioni improntate a un grande realismo».
La politica italiana è molto migliore di quanto non appaia. I politici devono prendere i voti, i generali no
L’Italia politica insomma, secondo Romano, predicherebbe male ma razzolerebbe bene. L’ambasciatore prende ad esempio il terremoto in Abruzzo: «Alla prova dei fatti e malgrado le gaffe comunicative, si è agito bene. Malgrado tanti condizionamenti Prodi, dice Romano, è andato in Libano e la stessa cosa avrebbe fatto Berlusconi. Questo è un Paese che si muove secondo le sue tradizioni i suoi costumi, eccedendo per prudenza a volte, a volte distinguendosi per assenza di stile. Ma l’Italia è questa. Nel bene e nel male è il nostro Paese. Ed è uno, non sono due o tre». (r.p.)
”
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Strategia. Il rapporto del comandante al vaglio della Casa Bianca, che rimane scettica sull’aumento di truppe senza «strategia giusta»
Sostiene McChrystal
Sul “Washington Post”, Bob Woodward rivela le richieste del generale Usa all’amministrazione Obama: più soldati o la missione è destinata a fallire di Pierre Chiartano arack Obama sta riflettendo, da più di una settimana, sulle pagine del rapporto del generale Stanley McChriystal. Nominato pochi mesi fa dalla Casa Bianca al comando sia di Isaf che di Usfor-A (Enduring Freedom) per riprendere le fila del conflitto afghano. E che qualche giorno fa aveva chiesto rinforzi per 40mila uomini. Il generale Usa è stato colui che eliminò il pericolosissimo alZarqawi, il proconsole di al Qaeda in Iraq. Più uomini sul terreno, possibilmente non chiusi nei compuond, ma in giro per le strade, e più civili che diano una mano a far crescere il Paese. Costruire una nazione, dove trovi strutture tribali e una cultura aliena al concetto di cittadinanza – e dove poliziotti appena addestrati ed equipaggiati non si vadano a vendere armi e divise per sbracare il lunario – non è un compito di quelli facilissimi.
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Per capire cosa pensa l’amministrazione americana, valgono le parole del capo degli Stati maggiori riuniti, l’ammiraglio Michael Mullen, pronunciate durante un’udienza davanti alla Camera bassa Usa, questo mese: «non servono solo soldati sul terreno, ma camion per le
strade, insegnanti nelle scuole e giudici e avvocati preparati nelle corti di giustizia». Molti tra i militari ricordano quanto i successi del surge iracheno siano fuorvianti, se male interpretati. Ma veniamo alle anticipazione della stampa Usa che sono comparse, ieri, sul rapporto McChrystal, ora al vaglio della Casa Bianca.
I passaggi chiave del documento con cui il generale McChrystal, segnalano che se non si invieranno altre truppe la
sono poche: la missione in Afghanistan è storicamente sottodimensionata e lo è ancor oggi. C’è bisogno di un «balzo» in avanti nelle risorse, tanto civili che militari. Manca la fiducia degli afghani: le truppe internazionali devono fronteggiare non solo una guerriglia «vigorosa e sofisticata», ma anche la mancanza di fiducia degli afghani (tanto nei confronti del proprio governo che della comunità internazionale). Le forze internazionali, «preoccupate di proteggere le proprie forze,
hanno operato in una maniera che ci ha distanziato –fisicamente e psicologicamente – dalla gente che dovevamo proteggere». Serve una nuova strategia, credibile e accettabile per gli afghani: invece di concentrarsi sul «guadagnare terreno» e «distruggere» la guerriglia, l’obiettivo deve essere quello di conquistare l’appoggio della popolazione, proteggendola dai talebani e moderando l’uso della forza. Le critiche all’Isaf: «la situazione sociale, politica economica e cul-
Il personale militare dovrebbe «trascorrere il minor tempo possibile dentro i veicoli corazzati, dietro le mura delle postazioni più avanzate e imparare i dialetti locali». Anche se ci saranno maggiori rischi immediati guerra «probabilmente terminerà in una sconfitta». La situazione si è aggravata. Nonostante qualche progresso, gli indicatori segnalano un generale deterioramento della situazione: ma se i talebani non verranno sconfitti, l’Afghanistan diventerà di nuovo un focolaio del terrorismo. Le truppe sul terreno
Il generale americano Stanley McChrystal, capo supremo delle operazioni militari in Asia centrale. Sopra, un gruppo di marines riceve le proprie istruzioni in una base afgana. Nella pagina accanto, una delle rare immagini del mullah Omar e un talebano,
turale afghana è complessa e poco capita. L’Isaf non comprende sufficientemente le dinamiche nelle comunità locali, né il modo in cui la guerriglia, la corruzione, i funzionari incompetenti, gli intermediari e la criminalità, tutto finisce per incidere sulla popolazione afghana». Anche l’intelligence Isaf, si è concentrata sui talebani, minando «la capacità di comprendere gli aspetti critici della società».
Nuoce anche la corruzione diffusa: «la corruzione della struttura amministrativa è una minaccia pericolosa esattamente come gli stessi talebani per la missione Isaf». Inoltre «la debolezza istituzionale, l’azione nociva di alcuni intermediari al potere, la corruzione, l’abuso di potere di alti funzionari e gli stessi errori Isaf hanno dato poche ragioni agli afghani per appoggiare il loro governo».Le prigioni, culla della guerriglia: le prigioni sono le basi in cui vengono organizzati le azioni contro il governo e le forze internazionali. Tutti i centri detentivi, compresa la prigione nella Bagram Air Base, dovrebbero essere consegnate alle autorità afghane che hanno la capacità di gestirle. Il piano del generale: «ll personale Isaf de-
prima pagina Messaggio del leader talebano per la fine del Ramadan: la guerra continua
a campagna internazionale in Afghanistan «non può essere vinta. Per quanti uomini possa mandare Washington, sarà una disfatta. D’altra parte, da Alessandro Magno in poi nessuno è riuscito a governare questa parte di mondo». È il senso del messaggio inviato dal mullah Omar, il leader talebano afgano, in occasione della fine del mese sacro di Ramadan. Secondo il terrorista, che si nasconderebbe attualmente al confine con il Pakistan, «è evidente che il popolo è irritato: persino la vostra falsa democrazia, con le sue elezioni, si è rivelata una frode piena di corruzione». Il vero punto in questione, in effetti, è invece l’aumento di truppe americane in Afghanistan: quello che per il generale McChrystal capo delle operazioni in loco - è un passo fondamentale per evitare la sconfitta, è invece per Obama ancora un dubbio. Davanti a un Congresso diviso e a un’opinione pubblica ancora scettica sull’argomento, il presidente statunitense ha più volte dichiarato di non voler affrettare alcuna decisione sull’argomento. Che potrebbe divenire la questione dominante nella politica estera della sua presidenza. Per il mullah Omar, ci sono diversi paragoni da poter fare fra la campagna americana a Kabul e il tentativo di invasione da aprte del re macedone. Il religioso ricorda come la sua terra sia stata definita «la tomba degli imperi. Gli invasori dovrebbero studiare la storia prima di prendere decisioni avventate. Più aumentano il numero di uomini che ci lanciano contro, più affronteranno un’inequivocabile sconfitta». Alessandro, infatti, «lasciò dietro al suo passaggio delle città, che sperava potessero divenire centrali nella dominazione dell’area. Ma dopo la sua morte si sono dissolte come un raggio di sole».
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ma ha ricordato, come sempre, che questi potranno avvenire «soltanto quando tutte le forze militari d’occupazione avranno lasciato l’Afghanistan». Il tentativo di negoziare con i talebani e con gli altri gruppi armati presenti nel territorio è una delle sfide maggiori che attendono il prossimo esecutivo di Kabul, anche se le accuse di brogli e il ritardo nel conteggio delle schede del 20 agosto hanno ritardato di molto la formazione del governo. Secondo l’intelligence afgana, tuttavia, la questione è simile a un serpente che si morde la coda: sarebbe la sfiducia nei confronti di Karzai (e non la retorica anti-occidentale dei talebani) la vera causa dell’aumento della violenza nel territorio.
La risposta di Omar: «L’Occidente perderà»
L’aumento di truppe non basterà per fermare i talebani Che combattono il colonialismo e la presidenza Karzai di Massimo Fazzi stra gente che i piani di neo-colonialismo globale sono falliti. Falliti grazie al vostro sacrificio: negli ultimi otto anni, la Nato (sotto il comando dei dittatori del Pentagono) hanno aumentato le loro atrocità. Senza successo». Un richiamo anche ai mezzi di informazione, in questo caso non soltanto occidentali: «I me-
Nel testo il terrorista tratteggia un paragone fra gli Usa e Alessandro Magno, un «invasore occidentale che sperava di dominare le nostre terre ed è rimasto deluso»
In ogni caso, è il primo punto del messaggio quello che caratterizza il sunto militare del testo: «Assicuro ai nostri coraggiosi guerrieri e alla no-
ve essere considerato un ospite del popolo e del governo afghano, non un esercito occupante». «Coloro che occupano posti di rilievo nell’Isaf dovrebbe imparare i dialetti locali». Il personale militare dovrebbe «trascorrere il minor tempo possibile dentro i veicoli corazzati e dietro le mura delle postazioni più avanzate»; questo comporterà maggiori rischi e più vittime nel breve periodo, ma la coalizione «non può avere successo se non è disposta a dividere i rischi, almeno alla pari, con la popolazione». La Casa Bianca, domenica, ha approfittato di una copertura mediatica senza precedenti – principal-
dia hanno due facce, e cercano di tenere il pubblico non informato di quello che succede realmente in questa guerra. Ma i governi lo sanno, hanno ben chiaro in mente quale sia la realtà di questa terra: le enormi perdite e il morale a terra dei propri soldati. Più uomini manderanno da queste parti, più inequivocabile sarà la loro sconfitta». Il mullah, considerato il capo militare di al Qaeda, ha citato anche i possibili colloqui di pace con il governo;
mente per promuovere la riforma sanitaria – per lanciare messaggi anche verso la politica estera che intende perseguire. In Afghanistan, per Obama, la consultazione elettorale: «non si è svolta bene, come avevo sperato e lo scrutinio delle schede in alcune regioni pone problemi seri».
«Sono state segnalate frodi, un fatto che sembra molto grave», ha aggiunto. Poi ha spiegato che approverà la richiesta di rinforzi solo nel quadro di una strategia chiara di lotta ad al Qaida. «Finché non sarò convinto che abbiamo la strategia giusta, non metterò in pericolo
la vita di giovani uomini e donne più di quanto già facciamo (…) Non mi interessa stare in Afghanistan per il fatto di stare in Afghanistan, o per mandare il messaggio che l’America è lì in eterno», ha affermato. Obama ha criticato l’atteggiamento dei militari che hanno «la naturale inclinazione» a ritenere che l’impiego di più truppe sia la risposta a ogni problema. Il presidente ha però smentito le indiscrezioni secondo cui la Casa Bianca avrebbe chiesto a McChrystal di frenare sulla richiesta di rinforzi. «L’unica ragione per cui mando un soldato in giro per il mondo è se giudico che il suo dislocamento sia
Aleem Siddique, portavoce delle Nazioni Unite, sostiene che il conteggio finale dei dati si concluderà molto presto, con la riconferma del presidente o l’indizione di un ballottaggio fra Karzai e Abdullah: in entrambi i casi, è prevista una nuova ondata di attentati terroristici contro la popolazione civile del Paese. Questo anche perché, come sottolinea il terrorista, «l’Emirato islamico dell’Afghanistan vuole che i veri figli di questa terra partecipino al governo del Paese, ma soltanto dopo che gli stranieri se ne saranno andati. Fortunatamente, un gran numero di giovani esperti in molte materie hanno deciso di non aiutare l’occupazione: vogliono un governo libero, indipendente e musulmano». La conclusione del testo - curiosamente scritto in un inglese abbastanza sgrammaticato - presenta un accorato appello: «Nessun Paese al mondo ha il diritto di intromettersi negli affari interni di una nazione vicina. I poteri arroganti che dominano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sappiano che non sarà mai tollerata la loro presenza a migliaia di chilometri di distanza. La loro stupida intromissione verrà punita dalla Ummah islamica mondiale. Perché tutti sanno che i loro piani di espansione coloniale vanno contro i valori umani, contro la giustizia e la pace». Per questo, la chiusa della lettera ricorda «il martirio dei nostri fratelli, che non sarà dimenticato; il coraggio delle loro famiglie, che deve essere sostenuto; l’amore di Allah, che non ci verrà mai a mancare».
necessario alla nostra sicurezza» ha poi sottolineato alla Cbs. Per capire come starebbe cambiando il vento a Washington, basta vedere i piani di Leon Panetta, neodirettore della Cia, che ha annunciato che la stazione di Kabul, con 700 nuovi agenti, sarà una delle più importanti fuori dai confini Usa, paragonandola a quella messa in campo in Vietnam.
Il richiamo al Vietnam non è tra i più felici, ma ricordiamo quanto, in un certo periodo, sia stata l’azione di Langley. Tutta la politica degli hamlet, i villaggi, i rapporti con il clero cattolico e gli sforzi profusi per co-
struire un’amministrazione periferica credibile, sono molto simili a ciò che dovranno metter in campo ora gli uomini di Panetta. Un mix in cui le forze armate italiane sono leader nella Nato, con l’unità d’addestramento e proiezione Cimic di Motta di Livenza. Specializzata nelle operazioni civili-militari non solo per la sicurezza delle forze in campo, ma per stabilire una migliore relazione con popolazione civile. È una unità multinazionale della Nato, a guida italiana, per il soccorso e ricostruzione di aree sconvolte dai conflitti. Proprio ciò che vorrebbe fare Obama in Afghanistan.
diario
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Etica. Prolusione al Consiglio permanente dei vescovi. E sul fine-vita chiede una legge che scongiuri un altro caso Eluana
Bagnasco: «Politici, più sobrietà» Il capo della Cei: «Per le cariche pubbliche i valori sono importanti» di Francesco Capozza
ROMA. Si è aperto ieri il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, il primo dopo il “caso Boffo”, che terminerà i lavori il 24 settembre prossimo. Il cardinale presidente, l’arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, prima di pronunciare la sua attesissima prolusione ne aveva voluto anticipare le linee direttamente al Sommo pontefice, in un incontro avvenuto sabato scorso presso la residenza di Castelgandolfo, dove Benedetto XVI sta trascorrendo un soggiorno più lungo del solito a causa, probabilmente, della riabilitazione al polso che si era fratturato a luglio e che da qualche giorno è libero dall’ingessatura. Il papa ed il presidente della Cei non si vedevano da giugno, ma si erano sentiti più volte telefonicamente, ed è proprio in una di queste conversazioni telefoniche, come riferiscono fonti giornalistiche vicine alla sala stampa vaticana, che il pontefice avrebbe fatto velatamente intendere al presule genovese la necessità di «risolvere tempestivamente» il caso Dino Boffo. Nell’incontro di sabato scorso è molto probabile che Benedetto XVI e Bagnasco abbiano parlato anche di questo, del futuro di Avvenire e della necessità di mantenere dei buoni rapporti con lo Stato e con l’attuale governo. Secondo alcuni Bagnasco nella sua prolusione avrebbe voluto bacchettare l’esecutivo ma il pontefice gli avrebbe “consigliato” di agire diversamente.
riculum scolastico».
«Chiunque accetti di assumere un mandato politico sia consapevole dell’onore che esso comporta, come la nostra Costituzione ricorda» Non è dato sapere se questa ricostruzione è esatta o meno, certo è che descrivere il papa come il “pompiere” del governo pare una lettura alquanto fantasiosa. Il risultato, comunque è che dal testo della prolusione di Bagnasco emerge un messaggio ben chiaro: «con lo Stato italiano – si legge tra le righe – si confermano reciproca autonomia e impegno condiviso per il bene dell’uomo e del Paese».
Se da una lato, però, la Cei – per bocca del suo presidente – conferma ottimi rapporti con lo Stato, dall’altro non viene
meno l’accusa nei confronti di chi (leggasi: Vittorio Feltri) ha sferrato un attacco personale «ad una persona impegnata a dar voce pubblica alla nostra comunità», con chiaro riferimento alle rivelazioni che Il Giornale ha pubblicato sull’ex direttore di Avvenire, Dino Boffo. Che Benedetto XVI abbia voluto sentire immediatamente il capo della Cei, lo conferma lo stesso Bagnasco quando rivela che «la telefonata che il Santo Padre ha avuto la bontà di farmi, per raccogliere notizie e valutazioni sulla situazione e le parole di grande benevolenza
che egli ha riservato al nostro impegno, ci hanno notevolmente confortato». Messa da parte la “polemica mediatica” che ha tenuto banco nelle ultime settimane il capo dei vescovi italiani ha voluto enucleare vari punti su cui la Chiesa attende dei riscontri dal governo. Uno su tutti: l’ora di religione nelle scuole pubbliche superiori. «Il grande tema dell’emergenza educativa sarà il centro del nostro prossimo piano pastorale» precisa subito, tanto per non lasciar spazio a vaghezza, il cardinale di Genova. «Quest’estate il Tar del Lazio accoglieva il ricorso presentato da un variegato cartello di associazioni laiciste e di esponenti di altre confessioni religiose non cattoliche, con il quale si chiedeva che l’insegnamento di reli-
gione non produca crediti aggiuntivi nella valutazione scolastica di quel 91 per cento di studenti che liberamente scelgono di avvalersi di tale insegnamento» ha detto Bagnasco rivolto alla platea dei vescovi italiani, precisando che «le motivazioni di questa iniziativa appaiono speciose, perchè in nome di una supposta non discriminazione, di fatto si finisce per discriminare la stragrande maggioranza degi studenti». E su questo punto Bagnasco ha voluto dare atto al governo di essersi mosso bene, «opportunamente, il ministero della Pubblica Istruzione - ha detto il presidente della Cei - ha già avanzato ricorso al Consiglio di Stato, ribadendo con altro suo atto la validità della presenza dell’insegnamento di religione nel cur-
«Occorre osservare - ha proseguito Bagnasco - che la posizione italiana sull’argomento è in sintonia con i più avanzati sistemi scolastici nazionali e con il pronunciamento della Congregazione vaticana per l’Educazione cattolica». Nonostante, come detto, il presidente della Cei abbia voluto ribadire che il clima tra Chiesa e Stato rimane buono, una tirata d’orecchie ai politici (leggasi: al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi) Bagnasco la fa nell’affermare che: «Occorre che chiunque accetta di assumere un mandato politico sia consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda». Parole forti, rivolte ad un Paese, l’Italia, che l’arcivescovo di Genova non esita a definire «ciclicamente attraversata da un malessere tanto tenace quanto misterioso, che non la fa essere talora una nazione serena e del tutto pacificata al proprio interno, perchè attraversata da contrapposizioni radicali e da risentimenti». Infine, il presidente della Conferenza episcopale italiana, ha voluto sollecitare il mondo politico sul problema che assai sta a cuore alla Chiesa, quello del cosiddetto “fine-vita”. «Attendiamo (sul fine-vita, ndr) una legge che possa scongiurare nel nostro Paese altre situazioni tragiche come quella di Eluana» ha precisato Bagnasco, che ha però insistito: «Nel rispetto delle prerogative del Parlamento, ci limitiamo ad auspicare che un provvedimento, il miglore possibile, possa essere quanto prima varato a protezione e garanzia di una categoria di soggetti tra i più deboli della nostra società, senza lasciarsi fuorviare da pronunciamenti discutibili. In questo senso il lavoro già compiuto al Senato è prezioso, perchè tutela la volontà di assicurare l’indispensabile nutrimento vitale a chiunque, quale che sia la condizione di consapevolezza sogegttiva». E sul tema, il cardinale Presidente cita il papa: «Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado se l’indifferenza caratterizza l’atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è?».
diario
22 settembre 2009 • pagina 9
Il Commissario Rocca: «Ennesimo grave atto di teppismo»
Parere negativo della procura: «Non salverebbe il Gruppo»
Assaltata ieri a Roma la sede della Croce Rossa Italiana
“Risanamento”: i pm bocciano il piano di salvataggio
ROMA. Ieri mattina il Comitato
MILANO. La procura di Milano ha bocciato il piano di ristrutturazione di “Risanamento”, il gruppo immobiliare di Luigi Zunino, depositato qualche settimana fa. Le banche esposte con il gruppo (principalmente Intesa San Paolo, Unicredit, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano) avevano trovato un accordo sulla ristrutturazione del pesante debito della società (quasi tre miliardi di euro) e sulla possibilità di salvarlo. L’accordo prevedeva anche un passo indietro dello stesso Luigi Zunino dai suoi incarichi. Ma ieri mattina, da palazzo di Giustizia, era stato bocciato dai pm Laura Pedio e Roberto Pellicano. In sostanza, i due pubblici ministeri sostengono che
provinciale di Roma della Croce Rossa Italiana (in via Ramazzini) è stato assaltato da una decina di persone con i volti coperti da passamontagna. Gli assalitori, giunti a bordo di macchine e moto, hanno fatto irruzione nel Comitato provinciale di Roma gettando volantini contro la presenza della Cri nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), imbrattato l’ingresso del Comitato ed un mezzo del Cem (Centro di rieducazione motoria) con vernice rossa e malmenato un vigilante che aveva tentato di opporsi. Il volantino recitava così: «Nella tua città c’è un lager, chiudiamo il Cie di Ponte Galeria», «Chi gestisce un lager è una carogna», «Croce Rossa italiana assassini»,e ancora: «Il vostro volontariato vuol dire sevizie e torture».
Immediata la replica del Commissario straordinario della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca: «Per l’ennesima volta vigliacchi a volto coperto, agendo protetti dall’anonimato, colpiscono una delle nostre sedi. Si tratta, bisogna dirlo senza mezzi termini, di un gesto teppista e infame che di certo non intimidirà le nostre migliaia di volontari e neanche quelli che quotidianamente aiutano i vul-
Finanziaria, nuova frattura tra Regioni e governo L’Ocse: con le liberalizzazioni crescità del 10 per cento di Francesco Pacifico
ROMA. La frattura istituzionale è lontana dal sanarsi. E così – forse per non far passare sotto silenzio lo sgarbo di venerdì scorso – le Regioni hanno presentato il conto al governo nel modo più fragoroso: disertando il tavolo di ieri a Palazzo Chigi sulla Finanziaria. Alla base della decisione i tanti dossier aperti che il governo – in attesa di capire come evolverà la crisi – non riesce a chiudere l’entità dei fondi Fas, i finanziamenti per la sanità o i tagli alla scuola. Con il risultato che il protrarsi della stasi della Stato Regioni finisce per bloccare la macchina burocratica del Paese. In una lettera al sottosegretario Gianni Letta, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha spiegato che i governatori non saranno «presenti in attesa dei chiarimenti sui punti di merito unanimemente sollevati dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nella lettera al presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, del 2 luglio scorso». Quindi, dopo gli incontri slittati il 4 e il 17 settembre – il numero uno dell’Emilia Romagna ha «sollecitato l’individuazione di una data, in tempi molto stretti, per superare questa fase di stallo».
tito fiscale e sarà chiaro l’incasso attraverso lo scudo, potrà essere emendato dalle Camere con misure più espansive. «Eventuali aggiustamenti sul 2010 saranno valutati sulla base degli ulteriori incassi», ha spiegato.
Di conseguenza la prossima Finanziaria non dovrebbe andare oltre un impegno a reperire risorse nei prossimi mesi per i rinnovi contrattuali, definendo soltanto quelle per l’indennità di vacanza contrattuale (circa 580 milioni di euro). Per il resto non saranno poche le proroghe a interventi introdotti con le scorse manovre come la detrazione del 36 per cento sulle ristrutturazioni edilizie (con l’aliquota Iva al 10) e gli incentivi sulla contrattazione di secondo livello che si applicano sui redditi fino a 35mila euro. Intanto il ministro incassa la decisione dell’agenzia di rating Fitch che conferma il giudizio AA- sul debito italiano. Ha spiegato il suo analista, Brian Coulton: «L’Italia è sotto certi aspetti andata meglio durante la crisi di altri Paesi avanzati comparabili, con interventi limitati per supportare il settore finanziario e un ampliamento relativamente ridotto del deficit fiscale, in parte grazie alla decisione delle autorità di adottare un pacchetto di stimoli fiscalmente neutro». Una bocciatura – seppure indiretta – all’Italia invece arriva dall’Ocse. Oltre a stimare la caduta del Pil 2009 a -5 per cento, l’organizzazione fa presente che il Belpaese, per crescere di 10 punti percentuali in altrettanti anni, avrebbe bisogno di un alleggerimento degli oneri lavorativi e di forti processi di liberalizzazioni. E che il nostro sia un Paese ingessato lo dimostra anche lo stato del mercato energetico. L’Ocse ha calcolato che da noi il costo medio di un megawatt/ora è per le imprese pari a 200 euro. In Europa nessuno paga così tanto. Non a caso la distanza rispetto al secondo Paese più caro, l’Irlanda con i suoi 120 euro a megawatt/ora, risulta di 80 euro. La soluzione, quindi, è investire nel nucleare. Come è stato fatto in Francia, dove un mw costa 40 euro.
Tremonti blinda la manovra: «Eventuali aggiustamenti sul 2010 saranno valutati in base a nuovi incassi». Decisivo lo scudo
nerabili anche nei Cie. È triste e avvilente vedere come continua senza sosta la campagna denigratoria e diffamatoria nei confronti della Croce Rossa Italiana da parte di persone che parlano di solidarietà, ma che a ben vedere nulla hanno a che fare con essa. Voglio esprimere tutta la solidarietà ai volontari e agli operatori di Roma e ovviamente al vigilante che ha cercato di fermare il gruppo di teppisti. Questo gesto non arresterà la nostra opera, che anzi va avanti giorno dopo giorno con umanità e imparzialità». Il vigilante, hanno quindi fatto sapere da Croce rossa, è già stato medicato e dimesso ieri stesso dai sanitari del pronto soccorso.
Ma difficilmente Palazzo Chigi avrebbe dato le risposte chieste dai governatori. Anche perché Tremonti, oltre ad annunciare che non c’è «nessun bisogno di interventi correttivi», si è presentato con un impianto più leggero (3 articoli e tabelle per un ammontare di circa 3 miliardi di euro) del previsto. Soprattutto il testo non affronta nodi come la dotazione degli aumenti per il pubblico impiego, quelli per le politiche del Mezzogiorno o la proroga alle rottamazioni auto chiese a gran voce dall’Ad della Fiat, Sergio Marchionne. Se sindacati e ambienti della maggioranza avevano chiesto un testo aperto ad apporti parlamentari, Tremonti sarebbe riuscito a blindarlo affidandosi a un compromesso: quello che arriverà questa mattina in Consiglio dei ministri sarà un testo molto generico, che nei prossimi mesi, quando ripartirà il get-
il piano depositato non sarebbe in grado di rimettere in piedi il Gruppo Zunino. I pm aggiungono che questo si ricaverebbe da una lettura generale del piano depositato ai primi di settembre. Per queste ragioni i due magistrati, stamattina, davanti al Tribunale fallimentare, presieduto dal giudice Pierluigi Perotti, chiederanno di non interrompere la procedura fallimentare per il gruppo che, dopo le dimissioni di Zunino, è al momento guidato da Giovanni Marconda.
Toccherà quindi al giudice prendere una decisione sulla scelta di salvataggio. Non è escluso che di fronte a una simile situazione si possa prendere ancora un po’ di tempo decidendo un breve rinvio. Impegnato in un dibattito all’Università Bocconi, l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, Corrado Passera, si è limitato a un breve commento: «Quello di “Risanamento” è un piano molto serio. Comunque alla fine sarà la magistratura a decidere». Intanto ieri il titolo del Gruppo Zunino, in Borsa, ha perso il 13 per cento. E la società ha diramato un breve comunicato in cui si dichiara fiduciosa che il Tribunale accetti il piano di salvataggio concordato con le banche creditrici.
politica
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Incontro al vertice. Due ore e mezza a casa di Gianni Letta: Berlusconi rassicura il cofondatore ma le distanze restano
La tregua armata Fini chiede democrazia nel Pdl, ora attende i fatti. Bocchino: «Silvio ha un’idea di partito diversa» di Errico Novi
ROMA. I dolci di casa Letta sono un’istituzione che sopravvive a tutte le riforme mancate, dalla bicamerale ad oggi. Così né Silvio Berlusconi né Gianfranco Fini, al termine del loro incontro nella residenza del sottosegretario, osano profanare la sacralità della location. Restano in silenzio, con il piccolo strappo del sorriso concesso dal premier ai cronisti assiepati a via della Camilluccia. Ma la prudenza corrisponde a un sostanziale bisogno di verifica. Avvertito soprattutto dal presidente della Camera, che incassa ancora una volta le rassicurazioni del capo del governo sul «maggiore coinvolgimento del Parlamento nel processo decisionale», sul pluralismo delle idee all’interno del Pdl («lasceremo libertà di coscienza per il testamento biologico», ribadisce Berlusconi) e su una maggiore democrazia interna al partito. È soprattutto su que-
st’ultimo punto, in realtà, che Fini aspetta di poter giudicare i fatti, dopo aver soppesato le parole di un faccia a faccia durato due ore e mezza. Non a caso Italo Bocchino adopera formule cautelative: «L’incontro da un lato ha ribadito l’esistenza di due visioni diverse di partito, ma è anche emersa la volontà reciproca di dar vita a quel percorso che abbiamo auspicato negli ultimi giorni e che può portare a una strutturazione sul territorio, a una costante convocazione degli organi e quindi a un autentico funzionamento democratico: se son rose fioriranno», chiosa il promotore della “lettera dei 60” in una dichiarazione ad Affaritasliani.it, pochi minuti dopo aver commentato con Fini l’esito del vertice.
Non è convinto che sia tutto risolto, l’ex leader di Alleanza nazionale. Fatto scontato, vista la giovane età del Pdl e il gran numero di nodi da sciogliere, ma da non sottovalutare. «Gianfranco viene da una comunità
politica in cui le cose sono sempre andate molto diversamente rispetto alle abitudini di Forza Italia», dice un esponente dell’ex partito di Fini, «a via della Scrofa si veniva cooptati dal vetrtice ma sempre dopo che c’era stata una selezione di base». Una differenza costitutiva, di fatto insuperabile: «Nell’Msi si veniva promossi dai livelli più bassi della struttura perché dotati di coraggio, o di capacità organizzative o perché si era in grado di esprimere delle idee. Innanzitutto Fini ha avuto modo di sperimentare da giovane questo tipo di concezione della vita di partito, e poi bene o male anche dentro An certi presupposti non sono stati del tutto disattesi, almeno nella selezione dal basso». Adesso al cofondatore del Pdl sembra assurdo che in una forza del 35-40 per cento «il ceto politico debba essere interamente nominato dal leader, senza un minimo di riconoscimento per l’esperienza, la maturazione e la stessa capacità di sopportare la dura gavetta dei livelli inferiori».
All’obiezione che in fondo anche An era un partito del leader e che l’inimicizia con il capo aveva costi salati anche a via della Scrofa, l’anonimo esponente del Pdl di sponda finiana ribatte: «Da noi c’era un’opposizione interna del 2025 per cento guidata da Alemanno e Storace che non era affatto esclusa dalle cariche dirigenziali. E non dimentichiamo che la corrente di maggioranza non era quella di Fini, in cui c’erano Urso e Matteoli per intenderci, ma il gruppo guidato da Gasparri e La Russa». Non sarebbe mai potuto succedere, allora, quello che avviene oggi nel Pdl, un partito in cui «figure che hanno il solo merito di vantare un rapporto diretto, personale, praticamente feudale con il presidente del Consiglio fanno mangiare la polvere a dirigenti politici esperti che vengono da An». Finche l’ex numero uno di via della Scrofa punta tutto sul dissenso politico-culturale, su un’identità che è minoritaria anche tra i
«Finché Gianfranco si limita a marcare distanze ideologiche non crea problemi», dicono gli ex di An, «ma ora che esige il rispetto delle regole ha con lui anche settori dell’ex Forza Italia» suoi, Berlusconi non ha dunque nessun particolare problema. Ma tutto cambika nel momento in cui Fini fa emergere anche un disagio sulla gestione del partito, come ha fatto ieri per la prima volta in modo diretto e insistito.
Anche se l’esito viene rappresentato come pacificatorio anche da Adolfo Urso (quello di ieri tra l’altro è stato il primo incontro tra Berlusconi e Fini celebrato in un contesto quanto meno “neutrale” dopo una serie di visite del premier nell’ufficio di presidenza della Camera) la sospenbsione del giudizio, da parte di Fini, resta. Non solo sulla mortificazione del Parlamento, non solo sull’eccessivo peso assegnato alla Lega nelle scelte del governo, ma soprattutto sul delicatissimo punto dell’organizzazione e della democrazia interna. E se Fini aspetta di verificare le prossime mosse del Cavaliere, quest’ultimo sa di trovarsi stavolta di fronte a un ostacolo più difficile da aggirare. Sul tema della meritocrazia interna, della selezione della classe dirigente, Fini ha verificato di essere molto seguito, e non solo dagli ex parlamentari di
An. Un segno se n’è avuto giovedì e vebnerdì scorsi con il seminario organizzato da quattro senatori – Mario Baldassarri, Giuseppe Valditara, Andrea Augello e Pasquale Viespoli, che è anche sottosegretario al Welfare – nonostante il veto posto dai capigruppo del Pdl Gasparri e Quagliariello. All’incontro, svolto al Palazzo della Cooperazione a Roma, ha aderito anche qualche parlamentare di provenienza forzista, come il vicepresidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama Domenico Benedetti Valentini, il senatore bergamasco Valerio Carrara, e outsider come il sottosegretario Carlo Giovanardi o l’ex folliniano di Brescia Riccardo Conti. Oltre a sposare le posizioni di Fini su immigrazione e cittadinanza, i ribelli del seminario pretendono di partecipare alla definizione delle regole interne. Lo dicono con chiarezza nella stessa nota in cui si sottraggono al divieto delle gerarchie superiori (in questo caso i presidenti del gruppo) rispetto allo svolgimento stesso del loro incontro. E che Fini sia seguito su questa linea di rottura con il sistema feudale nell’organiz-
politica
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Senza simboli e senza pathos: al centrodestra manca una “visione del mondo”
Quelle idee di plastica del Popolo della libertà di Gianfranco de Turris l simbolo, in politica, è ancora oggi importante, se non fondamentale. Non bisogna aver letto le illuminanti analisi di Mircea Eliade per sapere che quanto rappresenta una nazione è un simbolo. Lo dovrebbe sapere anche il “governo del fare”, quale si presenta orgogliosamente l’attuale. Eppure sembra che l’abbia dimenticato avendo forse paura di vedersi rappresentato da idee forti, quasi per l’ossessionante paura di essere qualificato come “fascista” non solo dalla sinistra e dal centrosinistra, ma forse anche da qualcuno all’interno del centrodestra.
I
zazione del Pdl è provato anche dal fatto che dopo gli attacchi del Giornale di Feltri gli sono arrivate dichiarazioni di solidarietà da tutti i parlamentari ex An, anche da chi non condivide le sue recenti virate ideologiche. Altra prova lampante è la lettera predisposta da Bocchino e sottoscritta da quasi tutti i deputati provenienti da via della Scrofa. Sulla democrazia interna c’è disagio, malessere: è la leva che Fini ha nelle mani. Si può obiettare che era stato proprio l’ex leader di Alleanza nazionale a dire, al congresso di scioglimento, che nel nuovo partito non ci sarebbero più state le vecchie appartenenze. Ma ora lui e gli ex di An sono fatalmente riavvicinati da una convergenza d’interessi: pur non riconoscendo più l’antica casa di provenienza, sono riuniti dal bisogno di far valere un minimo di regole democratiche nella selezione della classe dirigente. Una necessità che per Fini fa da presupposto alla definizione della propria, futura leadership.
Come dice Bocchino «restano due visioni diverse di partito». Berlusconi, ricorda ancora l’anonima fonte dell’ex partito di Fini, «concepisce solo l’esistenza di notabili nominati, e di una struttura che si rimaterializza in forma di comitato elettorale solo quando necessario, cioè alla vigilia del voto. Dall’altra parte ci sono persone che comunque negli
Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. In basso, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta
anni Settanta andavano in piazza a sfidare il rischio di essere sparati». Dalla sua Fini ha anche il controllo della Fondazione Alleanza nazionale che vanta un patrimonio calcolato, secondo l’amministratore, il deputato Donato Lamorte, in circa 500 milioni di euro. Una ricchezza che forse è superiore addirittura rispetto a quella dell’ex Forza Italia, la cui fonte primaria per l’appianamento dei debiti è sempre stata costituita dalle rimesse di Berlusconi. Il quale peraltro non ama regalare soldi al partito, prova ne è che in capo alle finanze del Pdl risulta anche il costosissimo affitto di Palazzo Grazioli..
Avendo paura di ricorrere, o non essendo più capaci di ricorrere, ai simboli forti ecco che al centrodestra di oggi, e nel campo della politica e nel campo della cultura, manca quel pathos che riesce ad accendere gli animi, in certi casi più dell’abbassamento del rapporto deficit/pil o dell’inaugurazione di una metropolitana. Ne consegue ancora che avendo questa paura o questa incapacità non si sono riuscite a contrastare come si conviene le provocazioni estive della Lega o di leghisti sciolti o a pacchetti: si è preferito annaspare, farfugliare, minimizzare. Ma, come ha scritto sul Giornale Mario Cervi, al di là di certe sparate occorre stare attenti, occorre non pensare che si tratti soltanto di mere uscite agostane per tener vivo l’elettorato del Carroccio. Certe cose sono state effettivamente dette, scritte e documentate, e quindi bisogna tenerle nel debito conto. Ma il Pdl, per quieto vivere, ha preferito abbassare i toni, non polemizzare troppo, con gli uomini dell’ex Am in testa (con alcune eccezioni, per la verità) proprio loro che hanno un retaggio che una volta si definiva “nazionalista” o almeno “nazionale”. Certo, che si può dar poco conto a tutte le scemenze leghiste, ma lo si potrebbe fare soltanto se il centrodestra possedesse, e facesse uso anch’esso come il partito di Bossi, di simboli forti, e quindi di idee forti. Che ha e non usa. Infatti - ricordiamolo agli immemori - il centrodestra potrebbe benissimo non preoccuparsi minimamente di quanto la Lega ha detto (e chiesto) su bandiere locali (o meglio gonfaloni), Inno di Mameli, dialetti nelle scuole e negli sceneggiati televisivi e sui prodotti agricoli e nelle strade e addirittura negli uffici pubblici, se avesse, come si suol dire, le spalle coperte. Ricordiamoci, allora, che l’Inno di Mameli è un inno “provvisorio” da sessant’anni: ufficializziamolo e si potrà discutere accademicamente su di esso quanto si vorrà. Ricordiamoci che da nessu-
na parte è scritto che la lingua italiana è la lingua della nazione italiana o dello Stato italiano (come è in altri Paesi): se si fosse portato a termine l’iter di legge costituzionale proposta dal professor Lucio d’Arcangelo e da altri, con anche la creazione di un Istituto Superiore della Lingua Italiana, si potrebbe discutere quanto si vuole sui dialetti per pura accademia. Se la Costituzione comprendesse queste due piccole novità le provocazioni leghiste non farebbero paura, qualche concessione al lume del buon senso si potrebbe fare, ma i simboli forti rimarrebbero a difesa di certi principi. Si eviterebbe, inoltre, di assistere a scene fra il ridicolo e l’ipocrita, cioè la difesa del Tricolore e dell’Inno di Mameli da parte di quella sinistra che della “nazione” se n’è sempre fregata e la bandiera nazionale e gli inni patriottici ha sempre sbeffeggiato. Perché delegare la difesa della nostra identità ad una cultura ormai allo sbando, e che lo fa solo strumentalmente, per dare addosso al governo, e non perché abbia fatto pubblica ammenda delle posizioni del proprio passato?
Le prospettive del Pdl sono deboli, fragili, non resistenti, pronte a spezzarsi, incapaci di reggere al confronto politico con Lega e sinistra
Viene voglia di ritirar fuori una vecchia definizione spregiativa della sinistra allorché Berlusconi apparve all’orizzonte politico: il suo, si disse, è un “partito di plastica”, intendendo riferirsi alla sua struttura, alla sua organizzazione. Oggi, che dopo quindici anni questa fase appare superata, si potrebbe ben dire che il Popolo della Libertà, in cui gli ex “nazionali”del Msi e di An si sono fusi, è un partito dalle idee di plastica: deboli, fragili, non resistenti, pronte a spezzarsi, incapaci di reggere un peso forte o anche semplicemente di rispondere a tono. Il che vale anche nei confronti, ovviamente, della sinistra che - pur essendo a pezzi - controlla ancora i centri di potere culturale. Ha un bel dire il ministro Bondi che lui è un “liberale” e crede nella circolazione delle idee e delle iniziative meritevoli svincolate dai padrinati politici, come ha scritto sul Corriere della sera de 16 settembre, rispondendo a Pierluigi Battista che sullo stesso giornale aveva paragonato la situazione attuale a quella degli anni Cinquanta: alla Dc il potere concreto, al Pci il potere culturale. Eppure, il signor ministro è stato costretto ad ammettere che oggi certo la sinistra non ha più idee e «si riduce a tecnica di gestione del potere». Il punto è proprio questo: finché la sinistra, incistita da mezzo secolo nei gangli della gestione del potere culturale lo gestirà, non si muoverà un passo e le cose andranno come stanno andando. Con un Paese governato dal centrodestra che non riesce ad esprimere una cultura consona alla propria “visione del mondo” perché le sue idee sono di plastica. Ma, a proposito: il centrodestra possiede o non possiede una sua “visione del mondo”?
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l recente Festival della filosofia, svoltosi tra Modena, Carpi e Sassuolo (18-20 settembre) è stato dedicato all’idea di comunità. Un tema quanto mai attuale a fronte della crisi strutturale che attraversano le società complesse incardinate attorno al principio di proliferazione delle autonomie che dovrebbe coniugarsi con quello tecnocratico di efficientismo e con quello culturale di individualismo. L’atomizzazione come risultato, insomma. L’approfondimento proposto dai partecipanti al seminario emiliano non ha tenuto conto delle implicazioni concernenti il “passaggio” da uno scenario “societario” ad un altro“comunitario”, soprattutto per ciò che concerne il rapporto della persona con lo Stato. Qualcuno, come Marc Augé, si è limitato a fornire interessanti suggestioni, chiamando in causa Hannah Arendt e la sua teoria sulle origini del totalitarismo che rintraccia, tra l’altro nell’estraneazione dal contesto pubblico e, dunque, comunitario. Altri hanno dato peso, giustamente, alla fine del “bene comune” quale elemento qualificante le aggregazioni fondate sui valori della persona. Soltanto Wolfgang Schluchter si è riferito in maniera specifica all’idea più corretta, ed ancora oggi praticabile, di comunitarismo a fronte dell’esasperazione individualistica che condiziona le nostre esistenze, quella elaborata, oltre un secolo fa, da Ferdinand Tönnies il cui fantasma, politicamente scorretto, ha aleggiato sul festival filosofico.
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A Tönnies, infatti, fondatore della sociologia tedesca insieme con Werner Sombart e George Simmel, si deve la più completa definizione del “comunitarismo” come reazione alle strutture societarie del liberalismo borghese. È probabile, come è stato detto più volte, che non sia mai riuscito a creare una scuola, tuttavia le sue teorie hanno alimentato il dibattito culturale nel secolo scorso fino ad influenzare i movimenti politici più vari che a diverso titolo si sono richiamati e si richiamano allo spirito comunitario. Circostanza che a Modena e dintorni è stata ampiamente trascurata nell’ansia di mettere al riparo il comunitarismo, come dottrina e prassi, dall’utilizzo antipopulista ed antitecnocratico. Per quanto la produzione di Tönnies sia ragguardevole, il suo nome e la sua fama restano legati all’opera che racchiude tutto il suo pensiero: Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e Società), la cui prima edizione è del 1887. È difficile, partendo da questo lavoro, incasellare ideologicamente il suo autore. Personalità complessa, Tönnies pur muovendo dalla scolastica marxiana non esitò ad emanciparsi da essa capovolgendo gli assunti di Marx, che erano di ordine economico, e “gettando” con la nozione di Comunità le basi di una nuova interpretazione dei rapporti politici lontana da
quella discendente dal materialismo dialettico e dall’utilitarismo liberale, cioè a dire «premessa della perfetta unità delle volontà umane come stato originario e naturale».
Ingiustamente ignorato all’ultimo Festival della filosofia, il della Comunità, o almeno ricrearne nelle condizioni attuali lo
L’importanza dell’opera di Tönnies è racchiusa nell’originale riflessione sulle cosiddette “forme sociali e concrete” alla cui determinazione hanno lavorato nel Novecento i teorici dell’organicismo statuale e studiosi come Herman Schmalenbach e Talcott Parson. Ferdinand Tönnies nacque il 26 luglio 1855 a Riep sulla costa occidentale dello Schleswig-Holstein dove avrebbe vissuto per buona parte della sua vita. Nel 1881 divenne assistente nell’università di Kiel e nel 1909 ottenne l’incarico di professore di Scienze sociali nello stesso ateneo, divenendo nel contempo presidente della Società tedesca di sociologia. Nel 1920 ricoprì la cattedra di Sociologia sempre a Kiel, dove morì il 9 aprile 1936. Fra le sue opere principali ricordiamo: Der
Il suo lavoro su “Gemeinschaft und Gesellschaft“ durò, in pratica, per tutta la vita, correggendo e modificando le otto edizioni. Tutti gli altri scritti sono una rielaborazione di queste idee fondamentali Zarismus und seine Bundesgenossen (1914), Die Schuldefrage (1919), Kritik der Offentlichen Meinung (1922), Neue Beitrage zur Kriegschuldfrage (1922) e le biografie di Thomas Hobbes e di Karl Marx. L’opera più celebre ed importante per spessore scientifico e per l’innovazione che introdusse negli studi sociologici, come si è detto, resta Gemeinschaft und Gesellschaft alla quale Tönnies lavorò praticamente per tutta la vita, correggendo e modificando le sue ben otto edizioni.Tutti gli altri scritti del sociologo non sono altro che un ripensamento e una rielaborazione delle idee fondamentali esposte nell’opera principale a conferma della sostanziale “unicità”dell’opera di Tönnies. Le “fonti”delle quali lo studioso si serve per costruire la sua teoria sono innumerevoli, ma è soprattutto alle intuizioni di Auguste Comte, di Herbert Spencer, di Albert Schäffle, di Adolf Wagner che attinge, senza trascurare gli studi di Henry Maine, autore di Ancient Law, Village communities in the East and West e Dissertation on Early Law and Custom di J.J. Bachofen, storico del diritto e autore celebrato di Das Mutterrecht; di Otto von Gierke soprattutto per le opere Das Deutsche
Tönnies, l’a Genossensch altrecht e Johannes Althusius und die Entwichlung der naturrechtlichen Staatsteorien; di Karl Marx per le riflessioni contenute in Zur Kritik der politiche Oekonomie. Con la pubblicazione di Gemeinschaft und Gesellschaft, Tönnies, rilevò nel 1936 lo studioso tedesco Freirer, diede inizio ad una sociologia di tipo filosofico corrispondente ad una visione tipicamente tedesca, capovolgendo cioè l’ottica sociologica dell’epoca dominata dall’indirizzo francese.
Nell’ambito della cultura di Weimar, oltretutto, Tönnies trovò l’ambiente favorevole all’accoglimento benevolo delle proprie teorie soprattutto grazie
all’entusiasmo con cui a esse guardavano i sostenitori della Jügendbewegung, il “Movimento dei giovani”, dalle cui file sarebbe uscita buona parte degli intellettuali di punta della rivoluzione conservatrice. I giovani che animavano il“Movimento” ritrovarono nell’opera di Tönnies il fondamento scientifico delle loro intuizioni rivoluzionarie con le quali contestavano la società del tempo e un’esplicitazione teorica del loro entusiasmo per il “potere vitale dell’esistenza”, anche se Tönnies, come osservò A. Salomon nel saggio a lui dedicato in occasione della sua morte, aveva un temperamento estremamente razionalista e «nessuna cosa fu più estranea alla sua mente che l’indirizzo emozionale e l’irrazionalismo del movimento della gioventù».
Il nazionalsocialismo giudicò Tönnies “persona non grata”, ma nonostante l’ostilità delle gerarchie, nel 1936, anno della sua scomparsa, venne pubblicato un volume di scritti in suo onore. In realtà, gli ambienti conservatori tedeschi, guardati con sospetto dal regime, auspicavano un ritorno allo spirito della comunità in virtù dell’avversione che nutrivano verso le strutture societarie del liberalismo borghese e scorgevano nell’opera di Tönnies i fondamenti teorici che avrebbero dovuto presiedere alla costruzione della Volkgemeinschaft. Come si configurano nel pensiero di Tönnies la Comunità e la Società? La comunità organica di un gruppo umano vivente in comune, per il sociologo si basa «sulla perfetta unità delle volontà
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l pensiero del sociologo tedesco torna d’attualità. Ma è possibile riappropriarsi o spirito, dopo le devastazioni operate dal razionalismo e dall’ideale “moderno”? prossimi derivanti dalla discendenza e dal sesso, e quindi quelli più lontani espressi dalla parentela, dal vicinato, dall’amicizia dall’omogeneità dei mestieri e delle arti esercitate.Tutti questi rapporti sono “legittimati” dal “consenso”, vale a dire dalla comprensione che si estrinseca come modo di sentire comune che costituisce la “volontà propria” della Comunità, ma anche la forza che tiene uniti gli uomini come membri di un tutto. Alla base delle forme di Comunità richiamate c’è sempre la stessa nozione di “eredità comune”: di sangue, cultura, religione, storia, etnia, etc.: “eredità comune” che, al contrario di quanto si sarebbe portati a credere, non appiattisce uniformandoli gli appartenenti, ma, al contrario, li differenzia essendo essi partecipi organicamente differenziati
Forse siamo ancora molto lontani dalle sue prospettive, ma un fatto resta indiscutibile: il sentimento dell’appartenenza non si lascia vilipendere a lungo. E prima o poi la reale natura dell’uomo riemerge con prepotenza
Le forme comunitaria e societaria rispecchiano anche (e soprattutto) le strutture funzionali-abitative che gli uomini si danno. In un passo esemplare e scintillante della sua opera, Tönnies sottolinea: «Le forme esteriori della vita in comune quali sono date dalla volontà organica e dalla comunità, sono state distinte come casa, villaggio e città. Questi sono i tipi duraturi della vita reale e storica in generale. Anche nella società sviluppata, come nelle epoche primitive e medie, gli uomini coabitano secondo questi tipi. La città è la più elevata e perciò stesso la più complicata delle forme della vita comune in generale. Ha in comune con il villaggio una struttura locale in opposizione alla struttura familiare della casa. Ma la città e il villaggio conservano molti caratteri appartenuti alla famiglia: nel villaggio sono numerosi, nelle città in quantità media. Solo quando la città si evolve in grande città li perde quasi per intero; le persone individuali o anche le famiglie sono allora divise, e non sono radunate in un luogo comune, scelto come casa di abitazione, che in un modo fortuito. E così come la città persiste all’interno della grande città, così pure i modi di vivere della comunità persistono in generale, come i soli reali, all’interno della società, anche se vi si trovano atrofizzati e si estinguono a poco a poco. Le grandi città, come le nazioni e il mondo, non sono costituite in tutte le loro forme, che da persone libere, che, nel traffico, sono co-
antidoto comunitario di Gennaro Malgieri umane come stato originario o naturale, che si è conservato nonostante e attraverso la separazione empirica, atteggiandosi in forme molteplici a seconda della natura necessaria e data dei rapporti tra gli individui diversamente condizionati». Ma c’è un elemento ancor pù particolare su cui si fonda la Comunità secondo Tönnies: la dignità. Elemento questo che nessun sociologo prima di lui aveva“isolato”e considerato scientificamente. «Si può chiamare dignità o autorità» scrive Tönnies «una forza superiore che viene esercitata per il bene dell’inferiore o secondo la sua volontà, e viene perciò affermata da questa. Se ne possono così distinguere tre specie: la dignità dell’età, la dignità della forza e la dignità della saggezza e dello spirito. Tutte e tre si tro-
vano unite nella dignità che compete al padre, che sta al di sopra dei suoi in posizione di tutela, di assistenza, di guida. Il lato pericoloso di questa potestà genera nei più deboli il timore, e questo di per sé quasi soltanto negazione e rifiuto (a meno che ad esso non sia frammista l’ammirazione); ma il lato benefico di essa e la benevolenza inducono all’onore ed in quanto essa predomina, dall’associazione nasce il senso della reverenza. Così la tenerezza e la reverenza, o (in grandi più deboli) la benevolenza e il rispetto si contrappongono come le due determinazioni-limite – nel caso di una decisa differenza di potestà – del modo di sentire che è alla base della comunità». Tönnies considera come esempi sui quali la comunità si fonda i rapporti più
dei vari “corpi”che concorrono a formare la Comunità.
Discorso inverso per l’individuazione della Società. Essa, osserva Tönnies, «muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente uno accanto all’altro, ma che non sono già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati». Con questo Tönnies vuol dire che nella società non esiste alcun bene comune e ogni individuo vive dei propri beni escludendo gli altri, in continua tensione di fronte ai suoi simili. Ecco perché in tale forma di aggregazione umana i rapporti tra i singoli sono essenzialmente di scambio il cui suggello è il contratto «risultante di due volontà individuali divergenti che s’intersecano in un punto».
stantemente in contatto le une con le altre, fanno scambi tra di loro e cooperano, senza che la comunità e la volontà comunitaria possano esistere fra di loro se non in una maniera sporadica, o come residuo di stati primitivi che ne sono ancora i fondamenti.(…) La grande città è, semplicemente, il tipo della società».
Nella Gesellschaft, nella Società, dunque, l’anonimato diventa la regola, l’interesse personale la morale dominante, ogni manifestazione o atteggiamento umano rispondente ad uno sterile criterio di razionalità. Analizzando i due tipi di volontà che stanno alla base delle nozioni di Comunità e di Società, Tönnies individua una “volontà essenziale” e una “volontà arbitraria”. La prima è «l’equivalente psicologico
del corpo umano, cioè il principio dell’unità della vita, in quanto questa viene concepita sotto quella stessa forma della realtà alla quale appartiene lo stesso pensiero». La seconda, invece «è una formazione del pensiero stesso, la quale possiede una vera e propria realtà soltanto in relazione al suo autore, il soggetto del pensiero, anche se essa può venir conosciuta o riconosciuta da altri». La Comunità, quindi, discende da «caldi impulsi del cuore», mentre la Società «procede dal freddo intelletto». Inutile dire che Tönnies dimostra ampiamente di preferire la Comunità alla Società in quanto nella prima individua concretizzazione di un modello reale di vita organica, e nella seconda un ideale di vita meccanico. Esempi contrapposti – all’estremo limite – delle due sono il mondo contadino legato alla terra, con tutti i significati che essa racchiude, e quello del mondo mercantile che vive rinchiuso nel proprio egoismo utilitaristico.
Questi i capisaldi della teoria di Tönnies dalla quale hanno originato le moderne elaborazioni neo-comunitariste. Pur concordando con l’affermazione di Pitrim Sorokin, secondo il quale la teoria di Tonnies non è del tutto originale dal momento che spunti dello stesso genere sono riscontrabili in Platone, Aristotele, Hegel, von Gierke, non dobbiamo dimenticare che il merito dello studioso tedesco è stato soprattutto quello di aver collocato le nozioni di Comunità e di Società in un’esatta prospettiva storica che gli ha permesso di rispondere agli interrogativi della sociologia politica, vale a dire quelli concernenti le origini dell’uomo, la sua innata vocazione, il suo futuro. A questo punto s’impone una domanda. È possibile ritornare alla Comunità, o quanto meno a ricrearne nelle condizioni attuali lo spirito, dopo le devastazioni operate dal razionalismo e dall’“ideale moderno”? La conclusione che Tönnies adombra nella sua ultima ed incompiuta opera Geist der Neuezeit (Lo spirito dei tempi nuovi, 1935) è in senso positivo. La società, sostiene, sarà divorata dalla sua stessa crescita: un corpo troppo grande per un cervello troppo piccolo. La radicale inversione di tendenza sta soltanto, dunque, nella ripresa dei cosiddetti valori tradizionali. Per necessità o per volontà. Non sappiamo se per l’una o per l’altra oggi stia riaffiorando un nuovo senso di comunità nazionale che la politica è ancora incapace di comprendere. Forse siamo ancora molto lontani dalle prospettive e dalle speranze di Ferdinad Tönnies, ma un fatto è indiscutibile: il sentimento dell’appartenenza non si lascia vilipendere a lungo; prima o poi la reale natura dell’uomo prepotentemente riemerge. Ne tengano conto gli ingegneri delle istituzioni e gli ortopedici dell’anima.
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Analisi. Piccolo manuale per districarsi in una delle settimane (politiche e diplomatiche) più impegnative dell’ultimo decennio
La resa dei conti Gli undici problemi che l’Assemblea generale dell’Onu e il G20 devono risolvere al più presto di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. Domani, a New York, si apre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Si tratta del più rappresentativo fra i sei organi istituzionali di cui si compone l’Onu. L’Assemblea generale ha principalmente funzioni consultive: esamina infatti i princìpi generali di cooperazione per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e adotta, riguardo a tali principi, raccomandazioni sia agli Stati membri che al Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea generale discute ogni questione relativa al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che le sia sottoposta da qualsiasi stato membro e può fare raccomandazioni riguardo qualsiasi questione del genere allo Stato o agli Stati interessati. Il 24, a Pittsburgh, parte invece il G20 chiamato a risolvere i problemi relativi alla crisi finanziaria e a preparare la Conferenza di Pittsburgh sul clima. I problemi sul tavolo dei grandi del mondo sono variegati e complessi. Questi sono alcuni fra i più urgenti.
COME AFGHANISTAN. Oggi più che mai, le riunioni dei grandi del mondo possono rappresentare un punto di svolta per il conflitto in Afghanistan e per la guerra al terrorismo internazionale. Guardare in faccia i propri partner europei potrà aiutare Obama a capire se e come sia possibile chiedere una maggiore presenza degli alleati sul terreno di guerra. Va inoltre capito l’approccio dei vari leader alle elezioni presidenziali del 20 agosto scorso: pur avendo lodato in maniera unanime la partecipazione popolare alle consultazioni, infatti, rimangono i dubbi di Germania e Francia sulla legittimità dei risultati. L’Assemblea dell’Onu avrà co-
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me primo intervento quello del presidente americano, che dovrà chiarire i dubbi dei convitati. COME CLIMA. Il clima è il vero, grande punto di scontro fra le economie in via di sviluppo e quelle già affermate. Limitare le emissioni dannose per l’ambiente significa inevitabilmente rafforzare o indebolire questo o quel Paese, che comprensibilmente hanno posizioni diverse sul tema. Ac-
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COME DITTATORI. Gheddafi, Chavez e Ahmadinejad sono soltanto alcuni fra i partecipanti all’incontro del Palazzo di vetro. È l’occasione buona
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Nella lista dei primi relatori ci sono Barack Obama, Mahmoud Ahmadinejad e Muhammar Gheddafi. A confronto, quindi, la mano tesa degli Stati Uniti e la repressione degli ayatollah canto a Cina e India, contrarie ai protocolli di Kyoto, si pongono gli Stati Uniti. Washington, fino ad oggi, non ha mai ratificato i più importanti accordi climatici internazionali. Proprio su questo si concentra il vertice odierno sul cambiamento climatico convocato dal Segretario generale dell’Onu. All’evento partecipano i capi di Stato e di governo di oltre 90 Paesi delle Nazioni Unite e le rappresentanze di tutti i 192 membri. L’obiettivo del summit, sottolineano al Palazzo di Vetro, è «quello di mobilitare la volontà politica e sviluppare la convinzione necessaria affinché la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si terrà a dicembre a Copenaghen, porti alla firma di un accordo ambizioso, che tenga conto degli ammonimenti imprescindibili della scienza». Il vertice non prevede negoziati, ma ha la struttura di un forum all’interno del quale i leader mondiali potranno confrontarsi. Non ci sarà un risultato formale come una dichiarazione o un comunicato.
per ascoltarli e capire quanto la realpolitik possa prendere il sopravvento sulle questioni morali e sulle problematiche legate ai diritti umani. Particolarmente interessante sarà il discorso di Muhammar Gheddafi: il leader libico compie oggi il suo “debutto in società”. Pur essendo al potere da circa 40 anni, infatti, non è mai intervenuto a un’assemblea delle Nazioni Unite: questa volta non può esimersi, dato che la Libia sta per inaugurare il suo semestre di presidenza dell’organismo internazionale. Dopo le recenti polemiche sulla liberazione dell’attentatore di Lockerbie, sarà inoltre interessante vedere se e come si stringeranno le mani di Londra e Tripoli. Da tenere sott’occhio anche l’eventuale presenza di Omar al Bashir, padre-padrone del Sudan, sul cui capo pende una richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale.
COME FINANZA. Il problema più pressante, più grave e più contestato di questi ultimi tempi. La crisi che ha sconvolto i mercati finanziari internazionali – nata dalla malagestione di mutui e prestiti – ha generato un buco economico di cui pagheremo le conseguenze per le generazioni a venire. In risposta, è stata chiamata una nuova “governance finanziaria mondiale”, una sorta di carta dei diritti e dei doveri degli operatori di Borsa nel mondo. Difficoltà tecniche e oggettive sono allo studio dei ministeri del Tesoro di tutto il mondo civilizzato, che probabilmente proporranno belle parole e poco altro. Pittsburgh si prepara a uno dei più grandi ring mondiali: si scontrano il mercato occidentale e quelli in via di sviluppo. Sperando che i rivali si ricordino di risparmiatori e investitori nella loro battaglia per la supremazia finanziaria internazionale.
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COME G20. L’incontro di New York ha una sua rilevanza per la presenza dei capi di Stato di tutto il mondo, ma sarà il G20 in programma a Pittsburgh poche ore dopo la conclusione dell’incontro di NewYork a dare molte risposte. Sarà l’occasione per vedere in grande spolvero le cosiddette
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economie in via di sviluppo come Cina, India e Brasile: all’alba della creazione del Bric l’associazione di Mosca, Pechino, Delhi e Brasilia - è chiara l’intenzione di non rimanere più nell’angolo. E sarà difficile approvare un nuovo codice di governance finanziaria senza l’appoggio di quelle nazioni dove l’economia reale è ancora dominante rispetto a quella sulla carta che ha creato la grandezza e il crollo di Wall Street. Cruciale anche la preparazione della conferenza sul clima di Copenaghen, di cui probabilmente i venti Grandi vorranno discutere in separata sede. L’incontro dura due giorni, dal 24 al 25 settembre.
COME HILLARY. Potrebbe sembrare fuori luogo, ma la questione Hillary Clinton potrebbe provocare in questi due appuntamenti statunitensi uno scossone imprevisto per l’amministrazione Usa. Il Segretario di Stato, infatti, sembra essere sparito dalla scena internazionale. Sin dai giorni del suo incidente al gomito, che le sono
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COME NUCLEARE. Il riarmo, il disarmo, lo scudo spaziale, le centrali atomiche, l’uranio impoverito, i bunker na-
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valsi alcuni soprannomi poco carini nella comunità internazionale, la presenza della Clinton sui media e agli appuntamenti mondiali è radicalmente diminuita. Si registrano alcuni suoi commenti di prammatica sulla questione birmana e sulla repressione dell’Onda verde in Iran, ma poco più. Alcune “gole profonde” del mainstream a stelle e strisce la vogliono chiusa in un silenzio piccato, in cui starebbe meditando un clamoroso abbandono della poltrona per “incomprensioni incolmabili” con il presidente. Che, a sua volta, sta gestendo con maestria la politica estera più importante del mondo.
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COME INFLUENZA.
L’Ah1n1, la famigerata febbre suina, non ha smorzato la sua potenza: nonostante i numerosi e rassicuranti proclami delle varie organizzazioni internazionali, la nuova epidemia continua a colpire. Fra i più afflitti ci sono i Paesi asiatici, che hanno un maggior grado di animali allo stato brado anche nelle città e sono difficilmente vaccinabili. In ogni caso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto sapere che il virus dell’influenza Ah1n1 non è ancora mutato in una forma più grave. Margaret Chan, direttore generale dell’Oms, ha
anche detto che la produzione dei vaccini sta procedendo secondo i ritmi previsti. La Chan ha anche ribadito che solo i pazienti ad alto rischio (come anziani, obesi e coloro che hanno malattie pregres-
feroce: sciiti contro sunniti contro curdi, cristiani contro musulmani e via discorrendo. Nel secondo caso c’è da registrare una elezione presidenziale duramente contestata dall’interno, un’opposizione
Grande attesa per le nuove e auspicate regole di governance finanziaria rinviate fino al G20 di Pittsburgh. A un anno dalla crisi, infatti, è necessaria una svolta corale e decisa se) potrebbero essere gravemente colpiti dalla malattia. Nel frattempo, in Italia si registra il primo morto senza sintomi precedenti. COME MEDIORIENTE. Non solo Israele e PaL’incontro lestina. dell’Assemblea generale dovrebbe fornire, se non
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una risposta corale, almeno un indirizzo di massima riguardo all’atteggiamento da tenere nei riguardi della questione irachena e di quella iraniana. Nel primo caso parliamo di un Paese ancora quotidianamente devastato da atti di violenza
mai così bene organizzata e una lotta interna per il potere che sembra ricalcare quella avvenuta alla morte dell’ayatollah Khomeini. Se fino ad oggi il mondo ha risposto in maniera sconclusionata e disorganizzata alla repressione ordinata da Teheran nei confronti dei membri dell’Onda verde, è improbabile che rimarranno tutti in silenzio dopo il discorso di Ahmadinejad. Che ha già iniziato a riscaldare i motori negando per l’ennesima volta l’Olocausto. Ovviamente, occhi puntati anche all’incontro trilaterale in programma per oggi fra Netanyahu, Abu Mazen e Obama: la Casa Bianca ha già detto che «è inutile aspettarsi grandi proclami». Ma sperare non fa male a nessuno, soprattutto in questi frangenti. Rimane aperta la questione degli insediamenti, che i falchi di Tel Aviv non hanno intenzione di congelare prima di uno smantellamento militare di Hamas. Che però, da parte sua, aspetta la proclamazione di uno Stato palestinese indipendente.
scosti. Fra Washington, Mosca, Teheran e Pyongyang si mette in scena un balletto che dura da decenni, dal quale non sembra esserci via d’uscita. L’Iran vuole il nucleare ma non vuole la bomba; vuole la bomba e non se ne fa nulla delle centrali; ha già la bomba e intende venderla al miglior offerente; è prossimo un attacco a Israele. Sono ipotesi, suggestioni, news analysis che si rincorrono sin da quando Obama ha deciso una nuova strategia, quella della “mano tesa” a tutti. Il presidente americano cerca di distaccarsi dall’approccio del suo predecessore alla questione, ma fino a oggi ha incassato un sonoro rifiuto da parte del regime degli ayatollah. Mentre il regno incontrastato di Kim Jong-il, con alle spalle il potente alleato cinese, sembra voler partecipare alla samba nucleare. Se all’Onu nessuno dovesse dire una parola sulla bomba, vorrebbe dire che siamo veramente nei pressi di un conflitto nucleare: più probabile che vi sia la solita ridda di dichiarazioni senza capo né coda. Questo perché nessuna delle potenze in gioco vuole veramente scoprire le proprie carte prima degli altri contendenti. La speranza è che venga redatto il piano di colloqui per il 5+1 sul disarmo.
COME OBAMA. Ovvero, il battesimo del fuoco. Finora, il presidente-profeta del cambiamento non ha avuto modo di relazionarsi a tu per tu con i vari protagonisti del panorama internazionale. È arrivato il momento
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di raccogliere, se ce ne sono, i frutti della mano tesa e impostare il proprio mandato: non è più possibile pensare di non dare delle linee guida alla popolazione e alla diplomazia internazionale. Il suo sarà il primo intervento in agenda - gli Stati Uniti chiudono il semestre di presidenza dell’Assemblea generale - e quello del G20 sarà il primo, serio incontro post-crisi finanziaria. Va detto che l’inquilino della Casa Bianca sembra molto, molto più impegnato a convincere i suoi concittadini dell’importanza della riforma sanitaria che intende a tutti i costi varare in patria. Una riforma estesa e dispendiosa, che tocca un sesto dell’economia interna. Su cui si gioca, probabilmente, una possibile ri-elezione. COME UNESCO. Ovvero, l’organizzazione delle Nazioni Unite dedita a propugnare l’educazione, la scienza e la cultura
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nel mondo. Il candidato forte è l’egiziano Farouk Hosni, ministro della cultura del governo Mubarak dal 1987. Fino a pochi mesi fa, il ministro Hosni girava il mondo accusando Gerusalemme «di vivere rubando i diritti altrui e negando agli altri tali diritti» e criticando apertamente il governo israeliano «d’essersi infiltrato tra i media occidentali e appartenere ad una cultura arrogante e razzista». Inoltre, aveva dichiarato in Parlamento che se avesse saputo della esistenza di libri israeliani nelle biblioteche egiziane, avrebbe appiccato di persona il fuoco per bruciarli. A maggio di quest’anno, la svolta: Hosni ha fatto un mea culpa e ammesso di aver parlato di getto e senza calibrare le parole, decidendo successivamente di abolire la direttiva contro la pubblicazione di libri israeliani e permettendo quindi la traduzione dei libri di Amos Oz e di David Grossman, anche se le traduzioni in arabo sono state fatte da una mediatrice europea proprio per non dover trattare direttamente con gli editori israeliani. Vedremo se l’abiura sarà sufficiente per metterlo a capo del programma culturale Onu.
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quadrante Requiem. Il “padrino” dei neo-con e la sua immortale impronta sociale
rving Kristol, morto il 18 settembre all’età di 89 anni, è stato notoriamente il padrino del neoconservativismo. È stato anche il padrino del City Journal quando, 20 anni fa, sollecitò l’allora presidente del Manhattan Institute Bill Hammet a lanciare una rivista. Irving Kristol, sempre pratico e realistico, sapeva che ai conservatori non bastava avere buone idee; avevano anche bisogno di strumenti per comunicarle. Se i principali media (che nell’era pre-internet avevano il monopolio sulle notizie e sull’opinione pubblica) non volevano concedere ai conservatori una piattaforma a nulla serviva lamentarsi: dovevamo solo far partire le nostre pubblicazioni. Irving capì il potere delle idee come chiunque, ma capì anche il potere delle istituzioni. La sua rivista dall’influenza storica mondiale, The public Interest, portava il bollo della praticità e del realismo, invece che quello della realpolitik. Essa ambiva, attraverso la sua enfasi testarda sui dati socio-scientifici, ad andare oltre la semplice teorizzazione e opinione nel regno dei fatti e delle prove. Irving, sempre anti-utopista in politica e nel temperamento, era interessato nel mondo per quello che era, non come ciò che qualche sistema voleva che fosse.
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Egli ebbe la sua infatuazione giovanile con l’utopismo di sinistra e, disilluso da questa esperienza, divenne un neoconservatore: un liberale, come lo definiva lui, che è stato assalito dalla realtà. Quello che realmente intendeva, naturalmente, era semplicemente un liberale che era stato assalito, che aveva visto che tutti gli ideali liberali e assistenziali per elevare i poveri, e specialmente la minoranza povera, avevano alla fine prodotto una sottoclasse criminale, esattamente l’opposto dell’originaria intenzione. Le buone intenzio-
La lezione di Kristol nell’America di Obama Aveva lanciato “The Public Interest” con in mente una società migliore di Myron Magnet ni non contavano nulla per lui, anzi suscitavano un certo secco disprezzo. Era il risultato che contava. Per quanta testardaggine ci fosse in The Public Interest, comunque, Irving (un intellettuale newyorchese, dopotutto) vide chiaramente il potere di quella realtà, di quella cultura non tangibile. Aveva capito il perverso errore di Marx, secondo il quale le relazioni economiche forgiano il mondo, dando forma anche alle nostre idee. Al contrario, Irving capì che le idee, le opinioni, gli usi, le virtù, anche i pre-
ziativa e sincerità. Anche nel mondo economico, la realtà materiale era solo una parte della storia.
Per quanto riguarda la virtù, Irving riuscì ad esprimerla in maniera leggera e graziosa, con il suo matrimonio da romanzo con una donna di pari intelletto, la storica Gertrude Himmelfarb, come padre dei suoi bene educati figli, e come amico amato, eternamente carismatico, conviviale come io per cui New York divenne un posto più povero e cupo dopo che Irving e Bea si trasferirono a Washington - posso testimoniare con affetto. Aveva un ottimismo disingannato e aperto: quando un’enorme crepa squarciò il suo soggiorno in perfetto stile londinese del XIX secolo mentre stava scrivendo Encounter, si rivolse a Bea e le disse con uno scintillio: «Bene, questo significa che quest’anno non ci dobbiamo preoccupare dei bambini». La sua generosità, specialmente verso i giovani conservatori, era leggendaria. Si trattava in parte di una questione di politica, poiché alimentare i talentuosi e trovare loro lavori influenti era il mezzo per co-
Il suo operato portava il bollo della praticità e del realismo, invece che quello della realpolitik. Aveva capito da subito l’importanza dei media giudizi che costruiscono il tessuto della nostra cultura sono i veri forgiatori della realtà. Come spiegò nel suo saggio più importante “Quando la virtù perde tutta la sua amorevolezza”, che chiude “Two Cheers for Capitalism”, Adam Smith, per quanto fosse un grande economista e filosofo, non vide quanto la cultura Presbiteriana della Scozia in cui era cresciuto fosse cruciale al funzionamento dei mercati come li descriveva, con la sua enfasi sulla probità, parsimonia, ini-
struire un movimento. Ma si trattava maggiormente di un’emanazione della dolcezza del suo carattere e della profondità della sua umanità. Mi stavo lamentando con lui sulla piaga dei mendicanti aggressivi di New York negli anni Ottanta e lui disse: «Se qualcuno è così bisognoso da dover chiedere soldi, chi sono io per determinare cosa ce lo ha portato? Io do loro sempre qualcosa». La realtà che egli aveva sempre di fronte a se stesso era la realtà umana.
quadrante
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Storica apertura voluta dai reali dell’Arabia Saudita
La Casa Bianca costretta a rispondere ai suoi post
Apre a Jeddah il primo ateneo a classi miste. Una rivoluzione
850mila amici: Sarah Palin è la regina di Facebook
JEDDAH. Oggi è un giorno sto-
WASHINGTON. Sarah Palin, scomparsa dalle cronache politiche americane dopo la sconfitta elettorale, sta risorgendo grazie a internet ed è ormai considerata “un fenomeno mediatico” fra gli esperti di social network. Il sito Usa Politico.com ha scritto ieri che l’ex candidata vicepresidente repubblicana, su Facebook, ha raggiunto la quota record di 850mila amici, seconda solo a Barack Obama, i cui diversi siti web si stima abbiano più di 2 milioni di contatti. Sarah Palin, dopo le sue dimissioni da governatore dell’Alaska, ufficialmente per motivi familiari, ha evitato con attenzione nuove apparizioni pub-
rico per le donne saudite. Per la prima volta nella storia del Regno wahabita, paese culla dell’islam conservatore dove vige un rigido regime di sgregazione del donne e dove studenti di sesso diverso, per legge, non possono frequentare la stessa scuola, si apre uno spiraglio. La tv satellitare al Arabiya dà notizia dell’inaugurazione della prima università ”mista” nella storia del Regno, voluta dal Re Abdullah Bin Abdul Aziz. E per sottolineare la portata dell’evento, è stato deciso che il battesimo del nuovo ateneo coincidesse con la giornata di festa nazionale della fondazione e unificazione del Regno avvenuta il 23 settembre del 1932. Le novità non finiscono qui: le studentesse non solo frequenteranno le stessi classi e caffetterie dei loro compagni maschi, ma molto presto «potranno forse guidare l’auto dentro il perimetro della città universitaria», come riferisce un consigliere del colosso petrolifero Aramco che ha finanziato il progetto. Il nuovo ateneo, non a caso, porta il nome del suo ispiratore, lo stesso sovrano saudita. Sorge a nord della città di Jeddah sulle rive del Mar Rosso. Costato, oltre 2 miliardi di dollari, la nuo-
Tra Israele e Palestina c’è di mezzo Washington Oggi l’incontro tra Netanyahu, Abu Mazen e Obama di Antonio Picasso on ci allontaneremmo molto dal vero se dicessimo che ciascuno dei tre leader Abu Mazen, Obama o Netanyahu - desidererebbe trovarsi da tutt’altra parte ed evitare questo incontro tripartito, oggi a New York. In realtà la situazione fra israeliani e palestinesi non è così incandescente da far pensare che l’intenzione di evitare il summit sia dettata da un’eventuale altissima tensione. Al contrario, il processo di pace in Medioriente sta attraversando una bonaccia che gli impedisce di compiere quel piccolo grande balzo per arrivare alla soluzione. Lo stato dell’arte, infatti, ci suggerisce come le due parti avverse non dispongano in questo momento di una valida offerta da avanzare al proprio interlocutore.
N
Il Premier israeliano Netanyahu si presenta all’Assemblea Generale dell’Onu con una serie di nodi da sciogliere sul piano internazionale e monco di un supporto concreto da parte dell’opinione pubblica interna. A chi gli chiede - in primis Washington - uno stop categorico nell’avanzata degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sarebbe ben lieto di dimostrarsi disponibile e di offrire questo pegno di pace, seppur doloroso. Se lo facesse però, tornerebbe in patria accolto da traditore, come colui che ha svenduto Israele e soprattutto Gerusalemme dopo decenni di guerre. Ma ancora, il suo governo è chiamato a rendere conto del“rapporto Goldstone”, il dossier dell’Onu che metterebbe in luce i crimini contro l’umanità che sarebbero stati commessi, sia dagli israeliani sia dai miliziani di Hamas, durante la guerra di Gaza. Infine c’è la questione del nucleare iraniano. Perché se a Teheran si chiede di rinunciare alle proprie ambizioni bellicose, altrettanto viene domandato a Israele. Un’arma nucleare nelle mani degli Ayatollah sarebbe pericolosa. L’intenzione di un attacco preventivo contro questi ultimi non sarebbe da meno. Ancora più vuote sono le mani di Abu Mazen. Il Presidente dell’Anp, per quanto la sua leadership sia stata confermata recentemente al congresso di Fatah, appare come un traghettatore che trascina per
inerzia la sua barca verso la riva. In attesa delle elezioni nel gennaio 2010, non se la sente di assumersi responsabilità di alto contenuto politico. Pur non rendendosi conto che un summit all’Onu è comunque un’occasione. Ma soprattutto soprassedendo le ultime mosse di Hamas. Sembra che a Ramallah sia passata sotto silenzio la presenza del Segretario del movimento islamico, Khaled Meshal, a Teheran venerdì scorso, in occasione del discorso anti-sionista del Presidente iraniano Ahmadinejad. Così come non hanno fatto molto rumore gli scontri a fuoco lungo la Striscia durante questo fine settimana. Ricordiamoci però che la guerra di Gaza, scoppiata fra dicembre e gennaio scorsi, fece le sue prime avvisaglie tre mesi prima. Fatah, se desidera che le elezioni si facciano - peraltro con il consenso di Israele - dovrebbe ricordarselo. In quest’ottica è difficile dar torto agli osservatori israeliani, che hanno indicato la presenza dei palestinesi come una photo opportunity, priva però di contenuti. Di conseguenza, le speranze che il processo di pace si riavvii e trovi nuova linfa nel mese di ottobre ricadono tutte sulla Presidenza Obama.
A margine dell’Assemblea generale dell’Onu, che inizia domani, i tre leader a confronto (anche) sul Medioriente
va università internazionale di Scienza e Tecnologia - scrive il sito web dell’emittente saudita - affronterà le nuove sfide del 21 secolo: in particolare la trasformazione dell’energia solare e la dessalinizzazione dell’acqua marina. Interpellato dalla tv araba, il presidente dell’Università, Mohammed Ibrahim al Swail, ha detto che il sovrano saudita «vuole che l’università sia la nuova Dar al Hikma; ovvero la “casa della Saggezza”voluta dal califfo abbassita, Abu Jaafar al Mansour che nell’800 fondò la città di Baghdad. Grande l’entusiasmo nel mondo accademico saudita: l’ex rettore della facolta del Petrolio all’Università di Dahran, Ibrahim Abbas Netto, si è detto convinto che «la nuova realtà porterà benificio a tutti».
Venerdì scorso il suo inviato speciale in Medioriente, George Mitchell, è tornato dagli incontri bilaterali con Netanyahu e Abu Mazen lasciando intendere che neanche stavolta ci saranno gli spazi per un nuovo confronto. Del resto, la Casa Bianca ha ben altre priorità che non nasconde. L’Afghanistan, l’Iran, il cambio di rotta nelle politiche bilaterali con la Russia, senza considerare gli impegni di politica interna. Ciononostante, la risoluzione del processo di pace israelo-palestinese resta per Obama un nodo fondamentale nel suo programma di politica estera. Rivitalizzarne i negoziati, giunti così stancamente all’Assemblea dell’Onu, costituirebbe una prima vittoria personale. Non è da escludere quindi che, paradossalmente, la questione possa prendere la strada giusta e arrivare a una conclusione nel momento della sua maggiore inerzia. Significherebbe chiudere il capitolo israelo-palestinese per sfinimento delle rivalità.
bliche. Tuttavia, alcune sue posizioni politiche espresse sul web hanno scosso l’opinione pubblica americana, facendole ottenere anche più di mille post al giorno. È il caso del cosiddetto death panel, ovvero il fantomatico comitato di esperti in grado di stabilire la morte di una persona, un’espressione che la Palin ha usato il mese scorso per sostenere che la riforma della sanità di Obama legalizzerebbe l’eutanasia. Il presidente Usa non pensa assolutamente a istituire comitati di questo tipo, ma è bastato che la Palin lasciasse un messaggio su Facebook dal semplice titolo «preoccupazione per questi comitati», a far diventare la sua frase uno degli slogan più usati nella campagna contro Obama. Nel giro di poche ore la questione dei death panel è finita direttamemnte sulle home page dei principali quotidiani statunitensi, costringendo la Casa Bianca a replicare. E non è un caso isolato, anzi. Sono più le volte che Washington deve risponderle di quelle in cui la può ignorare. «Non posso dire quale sia la sua strategia - ha commentato Mary Matalin, un’esperta di marketing politico vicina ai repubblicani - tuttavia, quello che è certo è che funziona».
cultura
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Il reportage. Da Mimmo Cavallaro ai Marvanza Reggae Sound. Viaggio nei ritmi di una terra sospesa a metà tra il riscatto e la ’ndrangheta
The rock’n’ Locri Show Fermo immagine sulla costa calabrese, da anni ormai vero e proprio laboratorio di proposte musicali di Bruno Giurato cendere dall’Eurostar nello sfascio urbano di Rosarno, percorrere la due mari che passa nella vallata del Torbido fino a Gioiosa Marina. Arrivati al bivio sulla statale 106 ci siamo. Di fronte c’è lo Jonio. A destra e a sinistra, a Nord e a Sud, c’è la Locride. Benvenuti nel luogo più oscuro d’Italia. Oscuro non solo nella metafora dell’incoscienza nazionale. Viaggiando in macchina sulla costa si nota che molti paesi hanno le luci basse, rossastre, i comuni risparmiano sulle bollette. Incrociano macchinoni: Bmw, Mercedes, Jaguar come squali in un mare cupo.
S
È la Locride delle rovine archeologiche, del mare vinoso che resta uno dei più belli d’Italia, ma soprattutto è la Locride che segna uno degli indici più alti di tristezza sociale. È quasi un parametro scientifico, luci basse più macchinoni vuol dire proprio quello. Dall’omicidio Fortugno alla strage di Duisburg, fino all’allontanamento discusso del vescovo di Locri Giancarlo Bregantini, la parabola locridea è quella di un luogo che ha rinunciato a ogni visibilità sul terreno nazionale. La cappa della ’ndrangheta ha il suo peso, anzi è l’attore principale di questa decadenza inespressa, fatta di negozi chiusi, lungomari malprogettati che crollano alla prima tempesta, chilometri di strade deserte nella notte, presenze turistiche in diminuzione. Ma la ’ndrangheta è un concetto difficile, sempre nell’incoscienza nazionale, sospettiamo che sia perché è un nome difficile da pronunciare. È un Shaitan che non si vede ma c’è, muto e zannuto. La locride è l’ultimo Me and the devil blues dell’orizzonte occidentale. Bene, proprio qui, in questi ottanta chilometri che vanno da Monasterace a Bianco, passando per Caulonia, Roccella Jonica, Siderno, Locri e Bovalino c’è una scena
musicale originale che sta muovendo passi decisi, in direzione di una identità sonora che ha qualcosa di etnico, regionale e paesano, ma si muove felicemente in direzioni srego-
Il sostrato di suoni è originale e muove passi decisi in direzione di una identità che ha qualcosa di etnico, regionale, paesano
late, e che il mercato sta iniziando ad assorbire. L’ultima uscita si chiama Marvanza Reggae Sound, gruppo dei fratelli Lentini, Ivan e Marco, che da qualche settimana ha pubblicato il primo disco, prodotto dal cantautore Domenico Panetta e distribuito da una delle etichette storiche della scena italiana, la Self. Il reggae etnico dei Marvanza prende la forma di un antidoto perfetto alla tristezza sociale di cui parlavamo. Musica allegra, reggaetton con venature punk - chi scrive le avrebbe desiderate più in evidenza, uscendo un po’ dal laghetto pop di cui si nutre la sce-
na italico/autotrofica - spinta da testi in un dialetto di Monasterace, strettissimo, tosto, funambolico. La forza dei Marvanza è quella spontanea del gruppo di amici capaci di inventare un gergo ”di compagnia”e poi trasferirlo nelle canzoni. Il creativo Lentini Ivan, voce del gruppo, durante le sessioni in studio perseguitava il produttore Panetta con la frase: «e cca nci mentimu a pompaggioni», dove la “pompagione” è il ritmo dell’organo Hammond che sostiene l’incastro degli ottavi. E la forza delle musiche popolari, siano reggae o rock n roll è tutta qui, nella verità di quello che si vive che diventa verità di quello che si scrive, in una forma ritmicamente più sbarazzina delle tranches de vie che volevano ammannire i naturalisti dell’Ottocento. I testi hanno molto del blues paesano e raccontano dei pomeriggi in cui la Calabria si fa Giamaica in virtù di principi attivi tradizionali in Giamaica - e del resto ormai anche in Calabria. Dunque, si tratta di serate rischiarate dalla luce di una cimetta, di questioni paesane (Pari ca non su u dicìa, la loro canzone più bella). Di storie che girano attorno al chiosco di Bruno, il bar di Zio Belo, sul lungomare del paese.
Ma non manca una versione solare di Stessa spiaggia stesso mare, un inno a un’allegria estiva che forse nei fatti non c’è, ma ci potrebbe essere, per cui alla fine del disco il brano più scacciapensieri è anche quello più utilmente coi piedi nell’aria d’utopia. In un panorama indipendente gravato da malesseri esistenziali che hanno fatto già troppe vittime il reggae dei Marvanza è una ventata di fresco Sud. E l’ascolto dal vivo conferma l’impressione. Lentini Ivan è un ottimo
In basso, Enrico Rava in un momento di relax durante le prove a Roccella Jazz (foto di Peppe Macrì). A sinistra, dal vivo al Blue Dahlia di Gioiosa Marina. Nella pagina a fianco, i Marvanza Reggae Sound a Monasterace. Qui a destra, un disegno di Michelangelo Pace
maestro di cerimonie, accompagnato con gioia di vivere dal fratello Marco all’altra voce e alle percussioni. Gli interventi di sax e voce di Mafalda Gara aggiungono grinta e colori a un sound originale, e per fortuna non ancora maturo.
L’altra novità dell’estate è stata Mimmo Cavallaro, con il suo disco Sona Battenti pubblicato dalla Taranta Power di
Eugenio Bennato. Si parla di musica tradizionale, naturalmente, cioè della vis abdita, l’oggetto oscuro e propulsivo della cultura regionale. La musica calabrese documentata già negli anni Cinquanta da Alan Lomax, scopritore del country blues e del flamenco, è un tesoro nascosto di idee, sfruttate malissimo. Innanzitutto non ha mai avuto un personaggio di punta in grado di farne passare
cultura
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conosce una calabresità diversa dagli stereotipi malandrini, un richiamo identitario incredibilmente attivo dopo anni e anni di autoflagellazione culturale e di terra bruciata. E per restare nel cerchio dei dischi in uscita bisogna citare Per esempio a me piace, un libro con allegato cd curato dal chitarrista e produttore Marco Ambrosi per Rubbettino. La casa editrice di Soveria Mannelli (Vv) è nota al pubblico soprattutto per il bel lavoro di ripensamento della cultura liberale, ma ha sempre avuto un occhio di riguardo per il locale calabrese e quest’ultimo prodotto offre uno spaccato di musica e narrazione che ragiona e immagina sul territorio, e lo fa davvero. Una ventina di gruppi, tra cui Peppe Voltarelli, Il parto delle nuvole pesanti, I Quartaumentata, hanno contribuito al Cd con brani originali. Una dozzina di scrittori hanno fornito saggi e racconti, tra cui Luigi Lombardi Satriani e Vito Teti. L’insieme è variegato, discontinuo e affascinante. Ma torniamo allo specifico locrideo. Il punto vero della questione è che la Locride da tempo è un laboratorio di proposte musicali. Un esempio è il festival jazz di Roccella Jonica, nato una trentina d’anni fa per iniziativa di Sisinio Zito, è una delle manifestazioni storiche del Jazz italiano. L’edizione 2009 ha visto sul palco maestri come Jan Garbarek e Dee
i contenuti. Un Matteo Salvatore calabrese non c’è mai stato, al massimo c’è stato un Otello Profazio, che ha ridotto a macchietta tutto il riducibile. La schiatta dei ricercatori di etnomusicologia italiani non ha aiutato, avendo un atteggiamento esclusivo, snob e parrocchiale all’inverosimile. Ide desiderio nascosto dell’etnomusicologo italiano, tranne qualche caso felice, è strangolare il vecchiet-
to appena registrato per restare amministratore unico del documento sonoro. La riscoperta etnica degli anni Novanta e Duemila è passata attraverso tentativi notevoli: su tutti il gruppo dei Re Niliu, finito ai primi posti delle hit parade americane di World Music. Ma le varie manifestazioni estive di musica etnica spuntate come funghi a partire da fine anni Novanta, con tanto di corsi di tarantella, o non hanno tenuto la barra dritta sulla musica del luogo o si sono disperse in diatribe politico-amministrative. Ancora sopravvive la confusione tra Tarantella (calabrese) e Taranta (pugliese), e a chi volesse sentire i suoni tradizionali resta sempre da consigliare la festa dei santi Cosma e Damiano a Riace il 25 settembre, che trabocca di tarantelle suonate dagli zingari. Una delle feste religiose più antiche in Calabria è ancora il palco per le ruote di Tarantella più senti-
te e potenti. Un caso fuori dagli schemi è appunto Mimmo Cavallaro da Caulonia, che ha assorbito musica tradizionale sin da piccolo, l’ha rielaborata negli anni Novanta con il progetto etnorock dei Folìa (molti dei brani del suo disco provengono da quel repertorio) e adesso la restituisce sotto forma di chansonnier ionico.
Cavallaro è una figura a metà tra il cantautore e il cantaturu, il cantante tradizionale. Il suo disco è un mix di canzoni prodotte lussuosamente (straordinari i musicisti) e cantate con inflessioni profonde. I concerti di Cavallaro in tutt’Europa sono dei riti collettivi in cui si ri-
Dee Bridgewater. E in passato da Roccella sono transitati davvero tutti, da Ornette Coleman a Michael Petrucciani, da Joe Zawinul a Bill Evans. Il tutto tra problemi di budget che hanno richiesto funambolismi per tenere in piedi la manifestazione. Bisogna citare naturalmente anche i luoghi meno sitituzionali. Uno di questi è il Blue Dahlia music club, che da vent’anni è il luogo di passaggio delle rock band in tournée e il catalizzatore di parecchi gruppi della zona. Vera celebrità del luogo è “il patrone del Blue Dahlia”, Ruggero Malgieri orco del rock ’n locride, gran maestro del Negroni preparato in bicchieri grandi. La scena si
addensa anche in locali come il Mojo Pin o il Blue Tango a Caulonia, o in studi di registrazione come il 6 sul Dado, l’ArangoSonic Studio e l’Arlesiana Studio. Il risultato è un giro di strumentisti senza nessuna preclusione di stili. A differenza di altri luoghi d’Italia dove imperversa il fenomeno dei gruppi tributo e dove la confezione musicale obbedisce a regole “di genere”, quaggiù, un po’ per senso d’avventura, un po’ perché non si ha molta voglia di provare, ci si ritrova a suonare di tutto con tutti. Una palestra che ha fatto crescere musicisti eccellenti, come Stefano Simonetta, bassista e mente del gruppo di Eugenio Bennato, o Francesco Loccisano chitarrista sempre con Bennato.
Proprio Simonetta sta lavorando a un’uscita discografica attesa dal mondo indipendente italiano, il progetto Mujura. Invece sul versante tra classica, etnica e sperimentazione d’avanguardia si muove l’Arlesiana Chorus Ensemble di Carlo Frascà, che qualche anno fa ha realizzato la colonna sonora del cartone animato Totò Sapore. E bisogna anche citare il progetto del chitarrista Guido Tassone, dai trascorsi rock, che con i suoi Toma Halistar corre sui binari di un pop accattivante, e dal vivo arricchisce il tutto con soli di chitarra tra lirismo e aggressività. E ultimo ma non ultimo, come esempio di fedeltà al modello punk assunto come stile di vita (ma temperato da una certa aura di reggae mediterraneo, e dal famoso detto di Ficarra e Picone: come si dorme in ufficio non si dorme da nessun’altra parte) bisogna raccontare degli Invece. Il gruppo guidato da Salvatore Scoleri (voce e chitarra) e da Peppe De Luca (basso) porta in giro per l’Italia uno strano reggae calabro. Tra buchi clamorosi di oruna ganizzazione, stagione in Norvegia e un festival in Sila gli Invece hanno realizzato una serie di dischi ingenui e poetici, e ogni anno organizzano a Bovalino un concerto in memoria di Totò Speranza, un ex componente del gruppo ucciso dalla ’ndrangheta. Organizzano un raduno socialmente rilevante, caso unico, senza usufruire di una lira di contributo pubblico. A chi scrive è capitato di intercettare una battuta tra i due. Pare vogliano farsi stampare il prossimo disco dai marocchini e intitolarlo “mprosu a Siae”. I Fan di Camilleri capiranno per contiguità linguistica. Da parte nostra diciamo solo che questa Locride oscura, vista sub specie rock ‘n roll sembra perfino luminosa.
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cultura
Esposizioni. Fino al 4 ottobre prossimo, a Venezia, una mostra antologica che ne documenta la produzione dal 1961 al 2007
La Pop Art secondo Wesley di Stefano Bianchi
VENEZIA. C’è chi l’ha incluso fra i pesi massimi della Pop Art americana, vista la predilezione pittorica per fumetti, moda e look. E chi ne ha fatto un’icona dell’arte Minimal, per l’utilizzo d’una ristretta gamma di colori (blu, bianco, grigio, rosa) che appiattiscono e semplificano la superficie delle sue tele. John Wesley (da non confondersi con l’omonimo, settecentesco teologo metodista), è in realtà il “fil rouge” fra la nobile banalità “popular” della vita quotidiana e la minimale freddezza di griglie e motivi grafici. All’artista nato a Los Angeles nel 1928, la Fondazione Prada dedica fino al 4 ottobre un’antologica che ne documenta la produzione dal 1961 al 2007.
studio dove concretizzare la sua “strategia”: contrapporre alla sgocciolante gestualità materica dell’Action Painting campiture di colori che sono sì freddi e distaccati, ma liberi di dialogare con forme e figure ispirate al Surrealismo e al Dadaismo. Non nasconde, Wesley, la passione per René Magritte e Max Ernst. Né fa mistero d’apprezzare il New Dada griffato Jasper Johns. Quest’ultimo, nel ’58, aveva dipinto la bandiera a
In mostra a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini all’Isola di San Giorgio Maggiore, più di 150 opere provenienti da musei internazionali e collezioni private. Dipinti che oscillano fra reale e surreale, le cui radici vanno anzitutto rintracciate nella Los Angeles degli anni Cinquanta. Città, all’epoca, capace di evolversi in metropoli col moltiplicarsi di quartieri che accolgono gli immigrati attratti dall’opportunità di trovare lavoro nell’industria degli aerei e delle armi. Los Angeles, in più, con quel cuore pulsante dell’entertainment chiamato Hollywood, è la fabbrica dei sogni e delle immagini. John Wesley osserva tutto. Attentamente. Trovato un impiego alla Northrop Aircraft come illustratore di manuali, traduce in racconti visivi i disegni tecnici degli ingegneri aeronautici. Mescolando il blu con immagini piatte e impersonali, crea i presupposti di un’arte spesso e volentieri enigmatica. Nel ’59, ha finalmente uno
stelle e strisce (Flag) attuando una piatta “messa in scena”del soggetto, ai limiti del figurativo. Wesley fa altrettanto, nel ’61, quando persegue l’idea del colore assoluto dipingendo il distintivo di un postino (Post Office Badge) e la disarmante essenzialità di un francobollo (Stamp). Nel frattempo si è trasferito a New York, ha trovato lavoro in un ufficio postale e stringe amicizia coi minimalisti Donald Judd, Dan Flavin e Sol
LeWitt. Con l’immagine di quel distintivo, vuole identificare se stesso e il mondo circostante. Stabilire un legame fra privato e pubblico. L’Io e le sue storie, d’ora in poi, “abiteranno” i suoi quadri. Simboli, archetipi presi a prestito dal mondo animale (per rappresentare l’inconscio, lasciando che il flusso narrativo rimanga in sospeso) e personaggi, riempiono le tele in mostra evidenziando un impeccabile gusto decorativo mutuato
Circa 150 opere provenienti da musei internazionali e collezioni private. Dipinti che oscillano fra reale e surreale, le cui radici vanno rintracciate nella Los Angeles degli anni 50 dall’Art Nouveau. Nobiluomini (The Arrival of Count de Baillet-Latour: opera trattata alla stregua di un “ex libris”) e dandy nello stile di Marcel Proust; pinup da rotocalco e scorci “magrittiani” (Paris, con la Tour Eiffel circondata da una pattuglia di nuvole); creature fiabesche (il topolino di The Mouse Tells Jokes) e fantasmi hollywoodiani (Suzanna and the Lugosis).Tutto è “happening”, nella pittura di John Wesley. Un
ostinato, continuo accavallarsi di conscio e inconscio, donne nude e uomini elegantemente vestiti. Che pone in primo piano il fumetto: non copiato e poi ingigantito come quello di Roy Lichtenstein, ma reinterpretato ammiccando al metafisico. È il caso dei lavori dedicati a Blondie Boopadoop e Dagwood Bumstead, moglie e marito, mattatori della “strip”creata nel 1930 da ChicYoung e da noi conosciuti come Blondie e Dagoberto. Bella lei, impacciato lui, vengono “inquadrati” dall’artista nell’intimità della loro vita sessuale. Il mito del matrimonio perfetto viene così dissacrato, ma con leggerezza e perfino un soffio di poesia. Blondie si trasforma in una Geisha (come quelle tratteggiate dal disegnatore giapponese Utamaro), mentre quell’impiegato ridicolo di Bumstead fa castelli in aria (al contrario dei fumetti tradizionali, che vivono in un mondo senza libido).
Sogna, chissà, un giorno o l’altro d’incontrare certe modelle che John Wesley cattura in un sorriso smagliante, in uno sguardo conturbante. Bellezze senza età, che vengono “tagliate” in maniera fotografica bloccando un dettaglio anatomico (labbra vermiglie che si dischiudono al desiderio, gambe, cosce), In questa oppure “zoomando” pagina, su un indumento inalcune timo. È qui che la delle opere Pop Art (parafrasandi John Wesley do, forse, certe diviin mostra ne creature ritratte a Venezia da Tom Wesselfino al 4 ottobre mann) raggiunge i prossimo. massimi livelli esteL’antologica tici e “voyeuristici”. ospita Ed è qui che il “glaoltre 150 opere mour” cancella tutto provenienti il resto: ragionando da musei su certi scatti di internazionali Helmut Newton e e collezioni Bruce Weber, gioprivate cando col rosa cipria, promuovendo il monocromo fiore all’occhiello dell’arte contemporanea.
sport referisce la coppa, questo ormai è risaputo, ma Ancelotti Carlo da Reggiolo, classe 1959, professione allenatore di calcio, si è saputo subito adattare a un bel pudding, alla birra e ai biscottini con il tè alle cinque del pomeriggio, volando, stufo delle sfuriate del suo datore di lavoro in rossonero Milan, verso oltre Manica, destinazione Londra. Che pace e che silenzio in quelle lontane lande, un silenzio appena rotto dal fragoroso e gioioso tifo ma, soprattutto, da un filotto di 6 vittorie consecutive con il suo nuovo club: il Chelsea del magnate petrolifero russo Abramovich. Eppure qualcosa non va: in queste prime giornate della Premier League quando Ancelotti Carlo esce dal campo al termine di 90 minuti di solo calcio e non vede il Varriale o il Pellegatti di turno interpellarlo sul minimo soffio del pallone o sul rigore mica rigore dato o non dato non gli par vero. Si guarda attorno stranito che nessun inviato di qualsivoglia tv gli faccia domande impertinenti, cioè non pertinenti al fatto tecnico-calcistico.
no beffardo da contadino, piede grosso e cervello fino, con il quale sfotte i vizi del mondo italico del calcio e l’ironia dell’autoritratto, ma soprattutto perché i proventi della vendita andranno tutti in favore della Fondazione di Stefano Borgonovo per la lotta contro la Sla.
P
Così deve essergli sembrato di stare su Marte, come Altafini in delirio nel commentare il recente derby di Manchester: polemiche praticamente zero e solo il piacere di giocare a pallone. Perché in Inghilterra, insegna l’altro celebrato italiano in terra albionica, sir Fabio Capello, «solo raramente vedo arbitrare e fischiare rigori all’italiana. Il pubblico non accetta che l’arbitro interrompa spesso il gioco, qui si deve giocare bene, ma deve vincere chi è più coraggioso. Non accettano le scorrettezze». E che calcio è, si chiedono invece tutti i nostrani cronisti pallonari che popolano lo sterminato universo televisivo italiota, se non si può ricamar su tutti i giorni, festivi compresi, ore e ore di chiacchiera da bar dello Sport davanti alle telecamere e buttar giù fiumi di inchiostro a riempimento di pagine altrimenti bianche? Senza poi dire che nella capitale londinese vivono bellamente insieme 7 squadre in Premier. Vai nei negozi di merchandising del club preferito, fatti stampare il nome sulla maglia del cuore, tipo Francesco Napoli, e poi gira per la città indossandola. Risultato? Nessuno ti attacca e puoi familiarizzare con chiunque, tutto qui. Test eseguito a luglio 2009 con maglia Chelsea. Rimpianti Ancelotti ne avrà? A parte la coppa, naturalmente il salume, non credo. E pensare che non aveva alcuna intenzione di andarsene dal suo habitat di Milanello: la nebbiolina, la stessa porta per entrare nello stesso spogliatoio. E poi i Maldini e i Gattuso, i Seedorf e
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Gli antieroi della domenica. Le sei vittorie consecutive del suo Chelsea
Ancelotti, il nuovo «guru» di Londra di Francesco Napoli
E pensare che non aveva alcuna intenzione di andarsene dal suo habitat naturale di Milanello. Oggi invece si gode un bel riscatto i Kakà per tentar di tener su il diavolo rossonero, cosa fatta più che egregiamente. È pigro, forse, e 8 anni e 420 panche, secondo solo al paròn Rocco, gli sembravano un buon viatico per restare nonostante i sempre più insopportabili strali del suo datore di lavoro che insisteva per avere in campo Ronaldinho ma lui, sordo alle
Sopra, una foto di Carlo Ancelotti ai tempi della Roma, nel 1980. In alto e a destra, l’allenatore con la maglia del Chelsea, la squadra che allena dalla scorsa estate
invocazioni di chi tutto può (o vorrebbe), tutelava un giocatore non al meglio della condizione, per usare un eufemismo. Ancelotti Carlo aveva perfino dichiarato che nella stagione 20092010 l’allenatore del Milan sarebbe stato un aziendalista, profondo conoscitore delle dinamiche del club, paffutello, «comunque un bel ragazzo»: cioè lui. S’illudeva. Invece l’altro, il presidente, ha pensato: «Giusto, Leonardo». L’identikit combaciava alla perfezione. Così dagli uno, dagli due e dagli tre, anche il più paziente degli impiegati si sarebbe messo in pista alla ricerca di un’alternativa. Con il suo curriculum vitae si è dato da fare e ha trovato, beato lui, abbastanza facilmente posto.
La valigia pronta dietro la porta di casa l’aveva da un paio di anni, come le donne incinta, e poco prima di andar via ha fatto in tempo a consegnare le sue agrodolci memorie sul calcio italiano in un libro dal titolo, indovinate un po’? Preferisco la coppa (Rizzoli) che il suo sottoposto, e direi amico, Paolo Maldini ha voluto impreziosire con una prefazione. Un volume caldamente consigliato a tutti, fosse solo per i pungenti ritratti di alcuni dei suoi giocatori, per il to-
Giunto a Londra e palla al centro della Premier League, soddisfazioni tante e subito. Innanzitutto battere il record del rivale Mourinho: 11 vittorie consecutive in campionato, tra le sue e quelle del suo predecessore Hiddink. E uno. Poi riuscire a far segnare con regolarità perfino il tedescone un po’ gnucco e talvolta privo di sale in zucca, calcisticamente parlando sia ben inteso, dal nome Ballack. E due. Infine, il successone presso i tabloid inglesi che ora lo chiamano “Mr Cool” perché ha detto la cosa più naturale del mondo: «Ho visto la partita dello United, ma io sono interessato solo a far giocare bene il Chelsea e a vincere». La scoperta dell’acqua calda che in Italia avrebbe provocato un’alluvione a mezzo stampa. E tre.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal ”Jerusalem Post” del 21/09/2009
Dall’Iraq non si passa sraele è un Paese pacifico. Sulla intricata e decisiva vicenda iraniana – per le sorti del Medioriente e non solo – il presidente russo Dimitri Medvedev ha gettato acqua sul fuoco. Ha assicurato che Israele non sta preparando un attacco militare contro l’Iran. Durante un’intervista rilasciata alla Cnn, ha anche confermato di una visita segreta a Mosca, compiuta dal premier Benjamin Netanyahu, in settembre. In agenda era previsto anche un incontro con il presidente.
I
In una trascrizione dell’intervista, rilasciata domenica dal Cremlino, il presidente si è parato il fianco dalla domanda più critica: se la Russia, in caso di attacco israeliano, avrebbe o meno aiutato Teheran. Anche se la Russia non ha alcun accordo di carattere difensivo con gli iraniani «ciò non significa che un evento simile ci lascerebbe indifferenti (…) ma i miei colleghi israeliani mi hanno assicurato che non hanno intenzione di questo genere, e io mi fido di quello che mi dicono» ha spiegato Medvedev. Secondo l’agenzia Reuters Shimon Peres avrebbe fatto questa promessa al presidente russo, durante una visita a Sochi nel mese d’agosto. «Quando venne trovarmi a Sochi il presidente israeliano fece una promessa molto importante per tutti noi: “Israele non ha intenzione di lanciare un qualsiasi attacco contro l’Iran, siamo un Paese pacifico e non faremo niente di simile”» ha aggiunto il leader del Cremlino. Anche la possibilità che si raggiunga entro l’anno un accordo con gli Stati Uniti, per la riduzione delle armi offensive strategiche «rimane molto elevata», secondo l’opinione dell’alter ego di Putin. Israele non ha mai minaccia-
to pubblicamente l’Iran di ritorsioni militari, ma ha sempre affermato che dal tavolo delle scelte non avrebbe scartato alcuna opzione, sottintendendo che anche quella militare poteva essere valida, per bloccare il programma atomico di Teheran. L’Iran insiste che il progetto nucleare sia destinato solo a produrre energia. Intanto dall’altra parte dell’Oceano Atlantico arrivano venti pungenti, sullo stesso argomento. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniev Brzezinski ha esortato il presidente Usa, Barack Obama a chiarire la posizione americana in merito. Cioè spigare che, in caso un attacco aereo diretto agli impianti nucleari iraniani, dovesse attraversare lo spazio aereo iracheno, controllato dagli Usa, non ci sarebbero remore, da parte di Washington, ad abbattere i mezzi della Israelian air force (Iaf).
«Noi non siamo impotenti come dei bambini piccoli» Brzezinski ha affermato durante un’intervista rilasciata domenica al Daily Beast. «Dovrebbero sorvolare il nostro spazio aereo sull’Iraq. E dovremo stare lì, seduti a guardare? (…) Dobbiamo essere credibili nel negargli questo diritto. Ciò significa che un rifiuto non deve essere solo un modo di dire. Se dovessero sorvolare quello spazio, dovremo rispondere con i nostri mezzi in volo. Allora dovrebbero scegliere se tornare indietro o meno». Immigrato dalla Polonia negli Usa dopo la seconda guerra mondiale, Brzezinski ottenne la cittadinanza americana nel 1958. Si è distinto nel mondo accade-
mico per le sue analisi politiche e la sua conoscenza dell’Europa e dell’Urss. Infatti, è considerato uno dei maggiori esperti di politica internazionale con particolare riferimento ai rapporti con l’Unione Sovietica. È stato Consigliere per la sicurezza nazionale durante il mandato presidenziale di Jimmy Carter (dal 1977 al 1981). È tuttora membro effettivo della Commissione Trilaterale. Ha avuto un ruolo nelle scelte effettuate dall’amministrazione Usa in Centrasia, specie sull’utilizzo dei mujiahiddin contro i sovietici in Afghanistan.
Ricordiamo che giovedì scorso anche il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak aveva affermato come l’Iran non costituisse una minaccia per l’esistenza di Israele. «Io non sono tra quelli che ritengono che l’Iran sia un problema vitale per Israele» ha affermato al quotidiano Yedioth Aharonot. «Israele è forte, non vedo nessuno che potrebbe costituire una minaccia alla sua esistenza».
L’IMMAGINE
Libertà di coscienza per i parlamentari e non per i cittadini sul testamento biologico Un partito, dice il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli invocando la libertà di coscienza, non può imporre un voto su un argomento come quello del testamento biologico. Giusto, ma allora se un partito, su un tema del genere, non può imporre una linea ai suoi parlamentari, può farlo una maggioranza di governo nei confronti dei cittadini? Una legge, come quella del ddl Calabrò, si basa infatti su una visione religiosa e fondamentalista, dei diritti della persona, che toglie un diritto all’individuo, quello alla libertà di cura. C’è solo da augurarsi che siano sempre di più nel Pdl quelli che si oppongono a una pretesa del genere. Piuttosto meglio lasciare le cose come stanno, ovvero che siano medici e famigliari a interpretare le volontà di chi non è più in grado di esprimersi.
P. Locatelli
LA TRAVIATA In riferimento all’articolo di Jacopo Pellegrini di sabato scorso sulla Traviata, ci scusiamo con l’autore e con i lettori se le foto pubblicate non erano riferite allo spettacolo della Fenice di quest’anno.
OPPRESSIONE TRIBUTARIA Le tasse sono imposte, ossia coatte; nonché inevitabili, come la morte. La martellante ideologia statalista – tramite scuola pubblica, università e apparati mediatici – ha contribuito a trasformare la tassazione in quasi schiavitù. La spesa pubblica - che richiama tasse e inefficienza supera il 50% del reddito nazionale (pil), mentre nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale era nettamente inferiore al 10%. Nel trasferimento di denaro
dai tassati e tartassati agli assistiti, lo Stato trattiene esorbitanti spese burocratiche di gestione. La tassazione è una sorta di profitto garantito, che beneficia particolarmente il padronato politico e burocratico; avversa competizione e innovazione; genera coercizione, parassitismo, ingiustizia e complicati adempimenti. «L’assolutismo consiste principalmente nel comandare alla borsa degli altri» (Antonio Rosmini). Per promuovere lo sviluppo, occorre ridurre di molto la pressione fiscale e la spesa pubblica. Le imposte dovrebbero limitarsi a costituire il corrispettivo di servizi efficienti resi dallo Stato minimo (guardiano notturno), soprattutto ordine pubblico, difesa e giustizia. Occorre spezzare la catene stataliste con vere privatizzazioni, onde liberare la
Vanitoso come una gallina Chi pensa che le donne siano più vanitose degli uomini probabilmente non ha mai assistito alle lunghe sedute di trucco e parrucco degli uomini Karo, popolazione etiope. Qui non solo le signore, infatti, si decorano, anche figli e mariti si addobbano. Si cospargono di polveri di gesso, ocra e carboncino, disegnando simboli e motivi decorativi a imitazione degli animali
più efficiente operatività privata nel mercato concorrenziale.
Frank Caustico
SINISTRA E LIBERTÀ Merito, rigore, laicità devono essere gli ingredienti su cui fondare una sinistra nuova. Più che alle elezioni regionali, bisogna pensare a costruire un perimetro
per un centrosinistra competitivo e vincente per il prossimo appuntamento delle elezioni politiche. Un appuntamento a cui non possiamo mancare e che, come tutto lascia credere, potrebbe arrivare molto prima della scadenza naturale. Che questo sia possibile, c’è lo dice il nervosismo di Berlusconi e dei suoi uomini. D’altra par-
te non si riuscirebbe altrimenti a capire a cosa si riferisse Brunetta parlando di colpo di Stato. A leggere i libri di storia certo non è una tradizione della sinistra italiana. Più che altro l’atmosfera ricorda quella del 25 luglio del ’43 e allora forse il ministro parla a nuora perché suocera intenda.
Nencini
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Io sono, per sempre, inconsolabile Se tu mi guardassi nell’anima, come ti farei pena! Mi sento come devastato dall’orribile crisi di dolore che la tua ultima lettera ha mossa. Una spossatezza e un disgusto inesprimibili mi occupano tutto l’essere. Ti scrivo qualche riga, con uno sforzo di volontà angoscioso. Dunque è vero che tu parti; è vero che per lunghi mesi non ti rivedrò. La notizia m’è giunta quasi inaspettata, violentemente, se bene io la sapessi già da tempo. Io m’ero cullato nell’incertezza, avevo non so qual cieca fiducia in un qualche avvenimento favorevole; speravo che la tua risoluzione non fosse definitiva o, almeno, non fosse di così rapida esecuzione. Non pareva a te, qualche mese fa impossibile che l’evento minacciato si compisse. Ora, invece, la cosa è reale e, come tutte le realtà, irrimediabile. Il mio spirito è ancora vittima delle illusioni! Nondimeno, io potrei sopportare forse questo dolore; io potrei sopportare l’orribile nausea che mi dà la vita senza di te. La speranza di rivederti in un giorno più o meno lontano mi sorreggerebbe. Quel che non posso più sopportare èlo strazio che fa di me la gelosia, l’insensata e feroce gelosia che tu conosci. Io faccio ira e vergogna a me stesso. Io sono, per sempre, inconsolabile. Gabriele D’Annunzio a Barbara
ACCADDE OGGI
112 113 840042121: IL BALLETTO DEI NUMERI D’EMERGENZA CONTINUA L’incidente. Sabato 12 settembre, autostrada del Sole, mattina. Incidente poco dopo il casello di Firenze sud (direzione Roma): un camion si ribalta, sparge su tutta la carreggiata prodotti alimentari. Autostrada bloccata. I cartelli elettronici annunciano l’evento e anche le radio rilanciano la notizia, uscita obbligatoria a Firenze sud. Per chi si trova già nell’area fiorentina, proveniente da nord ci sarebbe la possibilità di uscire anche prima, a Firenze Certosa. Sarebbe stato il caso di farlo, visto che chi si affida alle sole informazioni di Autostrade e prosegue, finisce imbottigliato tra i due caselli, Certosa e Firenze sud. Auto e camion in coda, fermi e due ore per percorrere cinque chilometri. I tre numeri.Avendo una donna incinta in macchina, cerco di essere previdente. Chiamo il 112 per ottenere informazioni più puntuali. Sbaglio. Il 112 è il numero dei Carabinieri, che non sanno nulla dell’incidente. «Attenda, le passo il 113 (il numero d’emergenza della Polizia)». Squilla a vuoto per un po’ e poi «Pronto Carabinieri». Spiego che sono quello di prima, ritenta. Nulla da fare, neppure utilizzando un collegamento tramite linea tradizionale. Chiamo direttamente il 113. Risponde. Espongo il problema: quanto tempo durerà la coda? «Per questo tipo di informazioni deve rivolgersi all’840042121, numero dell’Aiscat, l’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori». Chiamo, rispiego il tutto e ottengo la risposta: «non si può sapere, ma se ci fosse un’emergenza le passo le forze dell’ordine per far intervenire un elicottero». De-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
22 settembre 1949 L’Urss detona la sua prima bomba atomica
1961 Fondazione dei Corpi della Pace 1965 La guerra tra India e Pakistan per il Kashmir finisce dopo il cessate il fuoco richiesto dalle Nazioni Unite 1970 Tunku Abdul Rahman di dimette da primo ministro della Malesia 1975 Sara Jane Moore cerca di assassinare il presidente statunitense Gerald Ford 1979 Test nucleare effettuato nei pressi dell’Isola Bouvet nell’Atlantico meridionale, apparentemente eseguito dal Sudafrica; l’accaduto è noto come incidente Vela 1980 L’Iraq invade l’Iran 1981 In Francia François Mitterrand inaugura ufficialmente il servizio Tgv Parigi-Lione 1985 Concerto del Farm Aid a Champaign (Illinois) 1993 Un Tu-154 della Transair georgian airlines viene abbattuto da un missile sopra Sukhumi, Georgia 1994 Negli Stati Uniti la Nbc trasmette il primo episodio della serie Friends 2006 Ultimo volo dell’F-14 Tomcat
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
clino l’offerta. Per fortuna l’emergenza non c’era e non c’è stata. Il numero unico d’emergenza, questo sconosciuto. Ora, a parte la gentilezza di tutti gli operatori contattati, l’esempio è emblematico di come l’istituzione del numero unico d’emergenza sia essenziale anche in Italia. Non avere un’unica centrale operativa ha dei costi. Il caso narra una mancata emergenza. Ma in caso di emergenza effettiva? Quanti preziosi minuti si sarebbero persi tra i vari operatori? Eppure il numero unico d’emergenza dovrebbe essere cosa fatta da 18 anni. Nulla. Dopo anni di inutili tentativi e l’apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea, a febbraio 2009 alla Protezione civile è stato affidato l’incarico di coordinatore tecnico per armonizzare le piattaforme informatiche di carabinieri (112), polizia (113), vigili del fuoco (115), servizi sanitari regionali (118). Intanto in Europa, la Commissione europea ha annunciato di aver siglato un accordo con le aziende europee di telefonia mobile per lo sviluppo della tecnologia e call, che permetterà di installare sulle auto un sistema automatico di chiamata in caso di incidente al numero di emergenza europeo 112. Insomma è direttamente l’auto incidentata che “chiama”il 112. I cittadini ancora si perdono tra i numeri d’emergenza (112, 113, 115, 118, ecc.) e il Governo non risponde neppure alle interrogazioni parlamentari. Il motivo della mancata unificazione? È vecchio come il cucco, ha a che fare con la competizione di competenze tra Carabinieri e Polizia, perché in Italia neppure le forze dell’ordine sono “ordinate”.
LA NUOVA PROGRAMMAZIONE DEL TURISMO IN BASILICATA Dalle esperienze del passato la “nuova programmazione”del turismo ha appreso che: la conoscenza dei bisogni e delle opportunità, la cui chiara identificazione va posta al centro di ogni scelta di investimento pubblico, non è patrimonio di alcun centro di governo ma è diffusa fra i suoi diversi livelli, fra le parti sociali, fra le varie forme di associazione della società; solo il confronto fra queste diverse parti può consentire a questa conoscenza di venire alla superficie; solo una chiara attribuzione di responsabilità crea condizioni sufficienti a garantire la qualità e l’attuazione degli interventi. Si tratta di un metodo che rifugge da ogni centralismo e che si caratterizza per un grado elevato di sussidiarietà che rafforza le responsabilità dei livelli decentrati di governo e che ricerca, quando possibile, il vaglio di mercato. I principi ispiratori di questa aggiornata “governance” rimette al centro delle attenzioni il ruolo diretto degli Enti locali sia quando si pianifica sia quando si realizza. Sentirsi più coinvolti nella fase di programmazione è un aspetto culturale ed amministrativo vincente che da spessore al ruolo dell’Ente locale che non si sente più terminale dell’iniziativa bensì promotore ed ideatore della medesima. Si dà voce, così, alle esigenze dei territori e delle comunità locali che si sentono più coinvolti nella buona riuscita della programmazione turistica da promuovere. Seguendo, come si accennava, questo percorso legislativo alcuni principi fondamentali del federalismo vengono sanciti. Ci riferiamo al principio della cooperazione e a quello della sussidiarietà, attraverso cui l’Ente Regione, sia a livello delle proprie strutture interne, rappresentate nel Comitato di indirizzo (art. 13), sia a livello di distribuzione e di assegnazione di risorse economiche certe (art. 29), applica il federalismo in modo articolato e compiuto garantendo soprattutto alle istituzione delle aree interne, meno vocate al turismo, sostegni reali e, altresì, creando le premesse di crescita per quelle aree in ritardo ma sempre suscettibili di sviluppo. A tal riguardo abbiamo apprezzato l’apertura del governo regionale nell’aver condiviso la nostra proposta di coinvolgimento diretto, nella pianificazione turistica regionale, dei Parchi Letterari e dei Parchi Naturali che possono concorrere a integrare i pacchetti delle azioni da trasferire nelle realtà sociali interne della regione che sono quelle più esposte al disagio. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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LE IMMAGINI DI UNA GIORNATA PARTICOLARE La rabbia e l’orgoglio: erano proprio i sentimenti richiamati da Oriana Fallaci quelli prevalenti nella folla che si è raccolta ieri, nella Basilica di San Paolo fuori le mura per salutare i parà caduti venerdì scorso a Kabul. Ecco qualche immagine della cerimonia d’addio a partire da quella del figlio del tenente Antonio Fortunato con l’onorevole Gianfranco Paglia, capitano dei paracadutisti ferito in Somalia
LA RABBIA E L’ORGOGLIO