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Poche persone riescono a essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo
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Bertrand Russell
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 30 SETTEMBRE 2009
Lo scudo penale
Da troppi anni l’Italia è ferma. È l’ora di una Grande Innovazione
Una misura discutibile (ma accettabile) trasformata (con tanto di fiducia) in un’amnistia mascherata di Marco Palombi
S
segue a pagina 4 s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
Parla Vietti, capogruppo Udc alla Camera
«Una forzatura costituzionale»
ROMA. Come trasformare un condono fiscale in
di Luca Cordero di Montezemolo
ono tempi difficili per tutti coloro che hanno creduto negli effetti benefici della globalizzazione. La crisi finanziaria non ha colpito solo gli equilibri economici di gran parte del pianeta ma anche la rappresentazione che in quest’ultimo decennio aveva descritto l’integrazione internazionale dei mercati e la caduta delle barriere come una straordinaria opportunità per tutto il pianeta, e non solo per i Paesi più avanzati. In questi mesi abbiamo assistito alla rinascita di tentazioni protezionistiche anche da parte di governi di orientamento liberale e anche da parte di Paesi che negli anni precedenti si erano distinti per il contributo fornito all’apertura dei mercati. Si è trattato di un fenomeno per molti versi inevitabile, su cui ha pesato la preoccupazione legittima di rassicurare quei segmenti anche molto vasti di elettorato e di opinione pubblica che di fronte ai timori innescati dalla crisi economica hanno chiesto e ottenuto di essere rassicurati dai propri governi. Eppure tutto questo, per quanto comprensibile e legittimo, non può e non deve rappresentare un segnale di “sciogliete le righe”per le nostre convinzioni nel potenziale positivo della globalizzazione. Soprattutto in un Paese come il nostro dove troppo spesso alle migliori convinzioni non fanno seguito azioni coerenti. E dove troppo poco è stato fatto per mettere in condizione l’Italia di cogliere le enormi possibilità di crescita e sviluppo che la globalizzazione ha fornito e continuerà a fornire alla nostra economia e alla nostra società.
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Ostruzionismo delle opposizioni: non è più un condono fiscale ma giudiziario
La globalizzazione e il sistema-Paese. Un intervento del presidente Fiat
«Tutti i governi che si sono fin qui succeduti non hanno affrontato i nodi che frenano la nostra competitività. Così oggi siamo il fanalino di coda delle nazioni occidentali»
di Ferdinando Adornato
un condono giudiziario. Senza consentire al Parlamento di discuterne, poi. È successo ieri, quando il governo ha capito di dover forzare la mano sul nuovo scudo fiscale che allarga le maglie dal semplice rientrod ei capitali dall’estero anche al falso in bilancio. In sostanza: chi pagherà il 5% per riportare in Italia soldi che aveva sottratto al fisco, sarà immune da verifiche fiscali anche nel caso in cui abbia falsificato i bilanci. Il Parlamento, ieri, è insorto di fronte alla prospettiva di un nuovo voto di fiducia che il governo vedeva come indispensabile. Ed è cominciato l’ostruzionanismo da parte delle opposizioni. «Si tratta di una forzatura costituzionale e di un regalo alla malavita», hanno detto in molti. E Tremonti ha risposto che no, è solo un sistema per racimolare fondi per la scuola e le imprese.
ROMA. «Quello che è accaduto ieri alla Camera è un’evidente forzatura che il governo sta ponendo in essere tra i diversi organi costituzionali». È durissimo Michele Vietti, responsabile del settore Giustizia del partito. «Noi non eravamo pregiudizionalmente contrari allo “scudo”, perché ci rendiamo conto dell’esigenza di fare cassa, però con la piega che ha preso in Senato è stato trasformato in un vero e proprio “scudo penale”. E allora ho chiesto a Maroni che fine avesse fatto la famigerata tolleranza zero tanto sventolata da lui e dalla Lega. Perché se vale solo quando si parla di extracomunitari, allora è evidente che è una mera convenienza elettorale».
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di Francesco Capozza
L’ex leader della Margherita ha presentato a Roma il “libro dell’addio”
Rutelli, il giorno dello strappo «In un partito socialista non ci sto». Bersani: «Basta caricature» di Errico Novi
Una replica al ministro sull’unità nazionale ROMA. Per ora siamo alla svolta, ma entro il 2013 ci sarà lo strappo. Francesco Rutelli, presentando il suo libromanifesto (La svolta, appunto, pubblicato da Marsilio) lo lascia capire con chiarezza: alla fine della legislatura il bipolarismo sarà tra il populismo e chi lo vuole combattere con un progetto che ridisegni da capo il Paese. Non è questione di Berlusconi, non è questione di Pd, non è questione di Lega: per Rutelli il Paese sta attraversando un travaglio che lo porterà lontano da dove era partito. A quel punto bisognerà capire chi sta con
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
Caro Bondi, quale Italia si può fare con Bossi? di Gennaro Malgieri
chi. E il Pd? Qual è il futuro di Rutelli nel partito? Per capirlo, occorrerà aspetare il congresso, ma gli approdi del Pd potrebbero essere - per lui troppo diversi dal punto di partenza. E su questo Bersani prende cappello: «Basta caricature: non si sono altri progetti riformisti possibili!».
ncora sulle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Non se ne può più. Ma siamo costretti ad occuparcene a fronte di interventi che invece di chiarire lo stato delle cose ne accentuano la complessità e, dunque, anche la confusione. Nel tentativo generoso di fare chiarezza, il ministro Sandro Bondi, in una intervista alla Stampa ha detto che «per avere un’identità nazionale dobbiamo prima di tutto riconciliarci con il nostro passato, da quello più antico a quello più recente, senza la preoccupazione di scartare ciò che ci appare buono da ciò che ci appare meno buono».
alle pagine 10, 11, 12 e 13
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• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
politica
pagina 2 • 30 settembre 2009
Battaglie. Bagarre alla Camera (e ostruzionismo) per la discussione sul provvedimento legato al rientro dei capitali dall’estero
L’amnistia mascherata
Il governo (con tanto di fiducia) trasforma lo scudo fiscale in un vero e proprio condono giudiziario. Tremonti: «Soldi per scuole e imprese» di Marco Palombi
ROMA. Siccome in questo Paese non è possibile fare alcunché senza imbattersi in Silvio Berlusconi, adesso nei palazzi del potere si comincia a parlare del Cavaliere anche in relazione allo scudo fiscale. Non solo o non tanto perché Mediolanum - banca di cui il presidente del Consiglio è sostanzioso azionista - ha già cominciato a fare pubblicità sui giornali per offrire i propri servizi agli evasori che volessero usufruire del nuovo condono predisposto dal governo, ma soprattutto perché ai più non è chiaro che fine abbiano fatto i capitali accumulati all’estero dalla struttura off shore di Fininvest nata alla fine degli anni Ottanta grazie a David Mills: «Per capirci – sostiene un deputato d’opposizione – Caltagirone è considerato un imprenditore liquidissimo perché ha due miliardi e mezzo da muovere sul mercato, cosa accadrebbe se il gruppo che fa capo al presidente del Consiglio facesse rientrare, in modo perfettamente legale e anonimamente, una somma analoga?». Non è una preoccupazione peregrina in un Paese in cui i soldi veri sono sempre stati pochini e le proprietà delle aziende si reggono su complicate alchimie di rapporti chiamate patti di sindacato: per capirci lo stesso Mills, difendendosi davanti al fisco inglese, ha dichiarato attraverso i suoi legali di aver movimentato per conto di Berlusconi almeno un miliardo di euro.
Venendo alla cronaca parlamentare, invece, va segnalato che ieri alla Camera sul decreto anticrisi – che contiene proprio lo scudo fiscale – il governo ha posto l’ennesima questione di fiducia, forte anche del fatto che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – come ha scritto ieri il Corriere della Sera – ha garantito a palazzo Chigi che non ascolterà le sirene di chi gli chiede di non firmare la legge. La partita, salve sorprese che nessuno si attende, si chiuderà entro la settimana. Il ministro dell’Econo-
Parla Vietti, responsabile del settore Giustizia dell’Udc
«Una forzatura costituzionale che imbarazza il Quirinale» di Francesco Capozza
ROMA. «Quello che è accaduto ieri in Aula alla Camera non ha fatto altro che palesare l’evidente forzatura che il governo sta ponendo in essere tra i diversi organi costituzionali». È durissimo Michele Vietti, vice presidente dei deputati Udc e responsabile del settore Giustizia del partito. Presidente Vietti, in un primo momento la vostra posizione sullo “scudo fiscale” era stata di minor chiusura, cosa vi ha fatto cambiare così radicalmente idea? Non eravamo pregiudizionalmente contrari allo “scudo”, perché ci rendiamo conto dell’esigenza di fare cassa, però con la piega che ha preso in Senato è stato trasformato in un vero e proprio “scudo penale”. Sotto questa forma, non è assolutamente accettabile. Intervenendo in aula si è rivolto anche al ministro dell’Interno (e quindi alla Lega), cosa intendeva? Ho chiesto all’inquilino del Viminale che fine avesse fatto la famigerata tolleranza zero tanto sventolata da lui e dalla Lega. Perché se questa vale solo quando si parla di extracomunitari, allora è evidente che è una mera convenienza personale e, oserei dire, elettorale. Non si può fare la guerra ad oltranza ai reati legati all’immigrazione e poi dare un colpo di spugna a quelli societari e fiscali. Lei parla di una sorta di amnistia mascherata... È esattamente così, infatti. Un’amnistia bella e buona, approvata senza neppure la maggioranza parlamentare prescritta dalla Costituzione e dai regolamenti, cioè due
terzi dei componenti l’Assemblea. Si fa passare, di fatto, un provvedimento del genere con un decreto legge. È una roba inaudita. Ma qual è la forzatura costituzionale di cui parla? Il governo ha agito di soppiatto aggirando tempi, modi e istituzioni. Innanzi tutto ha emanato un decreto legge, il n°78 del 1 luglio scorso, con un determinato contenuto poi firmato dal capo dello Stato. Successivamente, nel dibattito alla Camera, ha aggiunto l’articolo 13bis, quello che di fatto introduce lo scudo fiscale. Il tutto è stato approvato con due voti di fiducia, alla Camera il 24 luglio e al Senato il 1° agosto, molto prima che scadessero (il 30 agosto) i termini di conversione del decreto legge stesso. Poi, viste le perplessità del presidente della Repubblica si è rimessa mano al provvedimento, peggiorandolo e trasformandolo per l’appunto in uno “scudo penale”. Adesso la ciliegina sulla torta è che si paventa un voto di fiducia sulla modifica ad un decreto attuativo di un precedente decreto legge (diverso, tra l’altro). È pura fantascienza politica e rischia di mettere in serio imbarazzo Napolitano. In che modo, mi perdoni? Se il presidente della Repubblica non firmasse questo decreto si tornerebbe a quello precedente da lui stesso criticato. Lo si costringe, in pratica, a firmarlo. Che ne pensa del ruolo di Fini, ieri invocato in aula dal Pd? Esiste il cosiddetto “Lodo Iotti” che introduce la possibilità di esporre gli emendamenti anche in caso di fiducia.Vediamo come si comporterà Fini, prima di giudicarlo.
mia, dal canto suo, sostiene che il suo è un provvedimento di “buon senso”visto che «tra non pagare per niente per sempre e pagare il 5% come avvio e poi continuare a pagare è più giusto dal punto di vista del bilancio pagare e continuare a pagare». Si presume sia lo stesso Tremonti che il 13 marzo del 2008, in piena campagna elettorale, si lasciò andare negli studi di Repubblica Tv all’impegnativa dichiarazione “basta coi condoni”: «Oggi non ci sono più le condizioni per farli, non li ho certo fatti volentieri, ma perché costretto dalla dura necessità. I condoni sono una cosa del passato» (e d’altronde il passato, specialmente in Italia, ha la fastidiosa abitudine di tornare indefinitamente). Una dichiarazione, questa, che al non economista di Sondrio dispiace ricordare: ad un giornalista dell’agenzia Reuters che gliela sottopose lo scorso luglio riservò un “testa di ca…” sussurrato a mezza bocca, ma a portata di microfono. Oggi, insomma, «bisogna raschiare il fondo del bari-
le» (Cicchitto) e quindi sotto con lo scudo: secondo l’Associazione italiana dei Private bankers, citata ieri da Agenzia delle entrate e Guardia di Finanza, i patrimoni che potrebbero rientrare assommano a 300 miliardi di euro. Al governo, ha sostenuto il sottosegretario Casero, ne basterebbero 100: grazie all’aliquota del 5% prevista dal decreto significherebbe ritrovarsi in cassa 5 miliardi di euro.
Tremonti fa il filosofo ma poi
Da qualche giorno Mediolanum, la banca vicina al premier, ha iniziato a fare pubblicità per offrire i propri servizi agli evasori che volessero usufruire del nuovo condono premia gli evasori” s’intitola invece un editoriale del vicedirettore di Famiglia Cristiana, Fulvio Scaglione, pubblicato sul prossimo numero: ci vorrebbe qualcuno avvezzo a complicate missioni diplomatiche, sostiene il settimanale cattolico, per mettere d’accordo “il Tremonti A”, “moralista” e “filosofo dell’economia”, “ispirato lettore dell’enciclica Caritas in veritate”, con il “Tremonti B”,“manovratore di scudi fiscali” e “furbetto
politica
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Il governo spera di poter incassare almeno 5 miliardi di euro
A caccia di un tesoretto da 300 miliardi di euro In maggioranza si spinge per utilizzare i fondi recuperati nella detassazione delle tredicesime di Francesco Pacifico
ROMA. «L’interpretazione secondo cui lo scudo fiscale sarebbe stato utilizzabile solo ai fini fiscali e non penali sarebbe stato un suicidio». Dopo il giallo sull’emendamento Fleres (e sul suo estensore carneade), Giulio Tremonti esce allo scoperto e ammette il principale obiettivo del governo: fare cassa. Progetto difficile se rimpatriare il denaro produce «automaticamente l’effetto di autodenuncia penale».
Con i soldi della sanatoria che dovrebbero supplire alle scarse risorse messe in campo contro la crisi, il mondo politico e quello economico si divertono a calcolare quanto possa rientrare. Hanno provato a dare una risposta Agenzia delle entrate e Guardia di Finanze attraverso un’indagine dell’associazione italiana dei private bankers. Ieri, in un convegno sui paradisi fiscali organizzato dall’Erario e dalla Gdf, si è fatto sapere che si può mettere le mani su un tesoretto di quasi 300 miliardi di euro. In realtà lo studio dell’Aipb, dove la cifra complessiva è di 278 milioni, si riferisce a quanta valuta è stata depositata all’estero. Anche perché gli operatori bancari valutano più probabile un rientro tra gli 80 e i 100 milioni di euro. Comunque il 30 per cento di quanto incassato con i due precedenti scudi (73,1 miliardi di euro). Fatto sta che, sparando questa cifra, l’Agenzia delle entrare dimostra di avere alte aspettative sul rientro dei capitali dall’estero. E indipendentemente dall’esito dello scudo. Non a caso, e non soltanto per respingere al mittente le polemiche sull’estensione della sanatoria, Giulio Tremonti ha voluto sottolineare che «se ci sono fenomeni, fatti o fattispecie già oggetto di attività di controllo, questi non possono essere oggetto di rimpatrio. Questa era la finalità originaria del decreto». Quindi gli accertamenti andranno avanti. Così per la politica italiana diventa campale la data del 15 dicembre: allora sarà più chiaro sia il livello dell’autotassazione sia lo stock di capitali che ritornano a casa. In attesa di questa scadenza però si può fare qualche ipotesi sugli esiti della sanatoria. Anche perché l’indagine dell’Aipb ricostruisce anche i lidi che hanno accolto i capitali in fuga. Come hanno ricordato ieri mattina i vertici dell’Agenzia delle entrate e quelli della Guardia Finanza, «125 miliardi si troverebbero in Svizzera, 86 in Lussemburgo, 2 miliardi nella Repubblica di San Marino».Va da sé che poter recuperare i quasi due terzi dell’evasione all’estero nell’area Ue, diventerà più facile se i 27 si confermeranno inflessibili nella loro batta-
glia contro i paradisi fiscali. Senza contare l’apporto che possono dare le intese bilaterali come quella tra Stati Uniti e la Confederazione elvetica, che l’Italia spera di ripetere al più presto con San Marino. Eppoi, se sono quasi 300 miliardi i capitali volati all’estero, potrebbero trovarsi oltre confini immobili e beni simili. Anche perché quello dell’evasione è un pozzo senza fondo: l’Ocse ha stimato in quasi 7mila miliardi di dollari il giro di denaro nei paradisi fiscali, dei quali 1.600 provenienti da attività criminali. Se rientrasse la stima ipotizzata dai banchieri – 100 miliardi – il governo incasserebbe grazie alla risicata multa del 5 per cento circa 5 miliardi di euro. Soldi che non ci sono ancora, ma sui quali già si litiga nel governo. Al riguardo l’ultima a rivendicarli è stata il ministro dell’Istruzione e dell’università, Maria Stella Gelmini, per la riforma della scuola. Il ragioniere dello Stato, Mario Canzio, ha già chiarito che gli introiti delle una tantum – come è lo scudo – non possono essere utilizzati per motivi strutturali. Di conseguenza tra i dossier più analizzati dal governo (sgravi fiscali sul secondo livello di contrattazione, interventi di politica industriale e detassazione delle tredicesime) è proprio quest’ultimo capitolo al momento quello più gettonato. Più in generale ci si interroga su come saranno utilizzate le risorse oggi nascoste all’estero. La speranza dell’esecutivo è che almeno il 30 per cento di questa cifra venga trasferita nelle imprese e lì usata per gli investimenti o per aumentare la capitalizzazione. La cosa, infondo, non dispiacerebbe neanche alle banche, ben sapendo che una parte di questa cifra servirà per restituire prestiti e anticipi di cassa.
Si profilano grandi affari per le banche (commesse tra lo 0,6 e l’1 per cento sulla gestione dei capitali) e parcelle stellari per i legali
Ieri alla Camera è stata una giornata di battaglia sullo «scudo fiscale» che il ministro Tremonti ha difeso come un semplice provvedimento di cassa. Idea contrastata da Michele Vietti del governino”. Tradotto: «L’ennesima beffa per la gente onesta». Al di là delle petizioni di principio, infatti, questo scudo fiscale presenta aspetti particolarmente odiosi: non solo si concede, pagando assai poco, a gente che ha evaso le tasse di “lavare” ingenti patrimoni, ma lo si fa anonimamente e attraverso una sorta di amnistia preventiva.“Uno scudo penale” l’ha definito a Montecitorio Saverio Romano dell’Udc. «E i processi che stanno partendo sulle operazioni all’estero di Fininvest?», insiste il dietrologo deputato del Pd: “Bloccati dallo scudo tombale”. Il decreto infatti non smacchia solo l’omessa dichiarazione fiscale – cioè l’evasione – ma pure cosette come il falso in bilancio, l’emissione di fatture false, il falso materiale e ideologico e altre amenità.
A prezzi di saldo, in buona sostanza, si potrà riciclare denaro frutto di illeciti. Fatto salvo, pare, quello in qualche modo riconducibile a organizzazioni terroristiche e criminalità organizzata, nel qual caso l’intermediario – scelto e pagato da chi usufruisce dello scudo deve segnalare la cosa alle au-
torità «se sa, sospetta o ha ragionevoli motivi per pensare» che ci sia del marcio. Tremonti, giustamente, s’affida invece alle sue ben note capacità previsive: «I capitali criminali non rimpatrieranno mai. O sono già in Italia perfettamente sbiancati o sono all’estero e lì continueranno la loro attività». E ancora: «Non credo che la criminalità si servirà di questo strumento e non è serio configurare quella ipotesi». Il ministro dell’Economia, peraltro, continua a sostenere che altri Paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno fatto il loro scudo fiscale e quindi si tratta solo di un necessario capitolo della battaglia ai paradisi fiscali innescata dalla crisi finanziaria. Peccato che in quei Paesi chi possiede fondi neri all’estero vedrà ridotte le sanzioni, ma dovrà pagare le tasse. Per non parlare dell’anonimato: il provvedimento americano si chiama addirittura “Voluntary disclosure of offshore accounts”. Disclosure, ovvero svelamento. La filosofia di base della norma è proprio ottenere nomi e procedure di occultamento, come ha spiegato a luglio lavoce.info, per predisporre le «future politiche di accertamento».
Proprio per il mondo del private banking si annuncia un business molto interessante. Se in entrata i costi sulla gestione saranno tenuti bassi per attirare clienti, già dall’anno prossimo potranno incassare commissioni tra lo 0,6 e l’1 per cento, che negli anni diventeranno invece strutturali. Grandi affari anche per i professionisti, commercialisti e tributaristi in testa, gli stessi che in un primo tempo avevano definito lo scudo poco conveniente per la clientela per il rischio che oltre ai capitali si denunciassero anche reati penali. L’emendamento Fleres ha spazzato via gli ultimi dubbi tanto che il sistema della consulenza guarda già a parcelle (quella base sui grandi capitali è di 50mila euro) che in totale potrebbero far registrare un incasso vicino ai 50 milioni di euro.
politica
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Prospettive. L’Italia sta affrontando le sfide della crisi e della globalizzazione in modo duplice: di qua il Paese, di là la politica
La Grande Innovazione
Da molti anni tutti i governi non hanno affrontato né risolto i nodi che frenano la crescita del Paese. Ecco la svolta che ci vuole di Luca Cordero di Montezemolo segue dalla prima Perché c’è ancora moltissimo da fare sia per portare nel mondo il nostro Paese sia per portare nel nostro Paese le occasioni di investimento che possono venire dal mondo. In questi ultimi anni abbiamo recuperato una parte dei ritardi grazie ad un impegno straordinario di tutto il sistema imprenditoriale. Abbiamo inaugurato un modo nuovo di andare sui mercati internazionali presentandoci come un sistema piccole, compatto: medie e grandi imprese, banche, università,
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mettendo sempre al centro gli incontri faccia a faccia tra piccoli imprenditori. Questo è il gioco di squadra di cui ho spesso parlato e di cui il nostro Paese ha grande bisogno.
Ho vissuto personalmente questa nostra riscossa da prospettive diverse: come rappresentante delle imprese italiane, come imprenditore e come manager impegnato nel riuscito processo di rinascita del più nostro grande gruppo industriale privato. Perché il sistema industriale vince quando è capace di innovare a 360 gradi. Quando mette al centro i propri collaboratori, i propri prodotti, i propri clienti. Ma dobbiamo continuare, investendo ancora di più in ricerca e sviluppo, in nuovi software, riorganizzando la produzione e il marketing. Asset immateriali sui quali si gioca la competizione globale, investimenti importanti come quelli in capitale fisso. Non mi stancherò mai di ripeterlo: innovazione, innovazione, innovazione. Ricordando che la sfida della globalizzazione è infatti la più importante per il mondo delle imprese, sappiamo che l’industria italiana ha sempre avuto una forte vocazione
Se prendiamo qualunque parametro che misuri l’efficienza dell’Italia vediamo che siamo agli ultimi posti fra i paesi industrializzati
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all’export così come sappiamo che le tentazioni di chiusura, presenti ieri e oggi se pur marginalmente nel mondo delle imprese e nel mondo politico italiano, sono il frutto di una visione che continua ad essere antistorica e conservatrice e che mal si sposa con il Dna di un imprenditore: la capacità di abbracciare il cambiamento e di volgerlo a suo vantaggio.
So bene che l’integrazione internazionale delle economie racchiude rischi anche molto seri, come la corsa dei prezzi delle materie prime e la pressione competitiva di paesi che spesso non rispettano le regole. Ma il fatto che decine di milioni di persone in tutto il mondo escano ogni anni dalla povertà e guardino per la pri-
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turbolento non possiamo che constatare che il sistema non ha funzionato come doveva. Tuttavia è responsabilità di tutti dimostrare di voler mantenere la rotta, e i cosiddetti nuovi attori della politica internazionale devono tutti fare la propria parte.
Guardando all’Italia nel suo intreccio con la globalizzazione, non possiamo evitare di constatare le due facce della medaglia. Da una parte vediamo come il sistema delle imprese italiane abbia rifiutato la logica del declino, dimostrando ancora una volta di saper cambiare per trovare nuove strade di crescita, di innovazione, di successo internazionale. Abbiamo riguadagnato importanti quote di mercato all’estero, siamo tornati ad essere secondi tra i paesi europei dopo la Germania per valore delle esportazioni verso i mercati extra-Ue. Sono risultati significativi ottenuti anche grazie allo straordinario coraggio di tantissimi piccoli imprenditori che si sono spinti con fiducia su mercati difficili e lontani. Nello
In Italia le imprese hanno accettato di operare in un ambiente concorrenziale e si sono ristrutturate, il sistema Paese no
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Fenomeni così complessi come quelli innescati dalla globalizzazione e dalla crisi finanziaria impongono un forte sistema di governance
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ma volta con speranza al proprio futuro rappresenta un traguardo epocale per tutta l’umanità. Naturalmente, fenomeni così complessi come quelli innescati dalla globalizzazione e dalla crisi finanziaria impongono un forte sistema di governance, che non spetta al mercato esercitare. E se ci troviamo davanti ad uno scenario così difficile e
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politica
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Il 7 ottobre, appuntamento a Roma
Italia Futura al debutto
Fini e Riccardi presenteranno insieme la nuova fondazione di Francesco Capozza
stesso tempo, se le imprese hanno accettato di operare in un ambiente competitivo e concorrenziale e si sono ristrutturate, il sistema paese non lo ha fatto. Da molti anni tutti i governi che si sono succeduti non hanno affrontato e risolto i veri nodi che frenano la crescita e la competitività del Paese. Lo dimostrano i tassi di crescita dell’economia tra i più bassi in Europa. E le aziende, quelle straniere ma in parte anche quelle italiane, sempre più spesso scelgono di investire fuori dall’Italia. I molti deficit del sistema sono noti, ma vale la pena ripeterli. Infrastrutture, burocrazia, tasse sul lavoro e sulla produzione, investimenti in ricerca e innovazione, qualità del sistema scolastico e universitario, tempi della giustizia, presenza ipertrofica del pubblico nell’economia soprattutto a livello locale, mancanza di concorrenza in tanti settori della società. Senza parlare degli enormi e inaccettabili ritardi del Mezzogiorno, dove è cresciuta una nuova classe imprenditoriale che guarda al mercato.
Qui sopra, la presentazione della nuova Ferrari. Sotto, la Borsa di Tokio. Nella pagina a fianco, Luca Cordero di Montezemolo; grattacieli in costruzione a Pechino e operai Fiat
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C’è ancora moltissimo da fare per portare il nostro Paese nel mondo e per portare qui le occasioni che possono venire dall’esterno
Se prendiamo qualunque parametro che misuri l’efficienza e la competitività dell’Italia vediamo chiaramente che siamo agli ultimi posti fra i paesi industrializzati. Non lo meritiamo e non vogliamo accettarlo. Nel breve periodo le imprese potranno salvarsi an-
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dando all’estero, l’Italia no. Noi vogliamo un Paese dove si possa investire perché ci sono le condizioni per farlo. Tutti, nessuno escluso – imprese, politica, società civile, governo e sindacati – devono fare la propria parte per modernizzare il Paese e le sue regole. Per questo dobbiamo ricordare ancora una volta che ciò che frena la crescita non è la globalizzazione, che ha i suoi rischi e i suoi squilibri ma che rappresenta per gli imprenditori la possibilità di uscire da un contesto-Paese asfittico e non competitivo. Ma perché la globalizzazione resti la più grande opportunità per il nostro mondo economico, e soprattutto per le piccole e medie imprese, è indispensabile che l’Italia aumenti la sua capacità di attrazione dall’esterno. Facendo dell’integrazione internazionale, anche e soprattutto guardando ai tempi che seguiranno alla crisi, un contesto di autentico benchmarking politico e civile.
ROMA. È tutto pronto. La creatura di Luca Cordero di Montezemolo, il pensatoio Italia Futura sta per salpare e il prossimo 7 ottobre partirà in grande stile con la presentazione, a Roma, della piattaforma programmatica. Un evento che avrà di certo grande risonanza mediatica, considerate le arti di grande comunicatore del presidente di Fiat e Ferrari, e che potrà contare sul richiamo storico della sede scelta per ospitarlo: palazzo Colonna. C’è una storia recente tutta politica, tra l’altro, a rendere più interessante la scelta dello staff di Italia Futura guidato dal direttore Andrea Romano, già mente e motore della fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. Palazzo Colonna, poi, è in piazza Santi Apostoli 66, a due passi dal portone che per anni ha visto entrare Romano Prodi e tutti gli altri leader del centro-sinistra nelle stagioni d’oro dell’Ulivo. E a pochi metri di distanza dal luogo dove il 10 aprile del 2006 venne eretto il palco che avrebbe dovuto celebrare una grande vittoria elettorale trasformata poi in una affannosa attesa dell’ultimo voto. Piazza Santi Apostoli, insomma, è una sorta di tempio del centro-sinistra, tanto che Pierluigi Bersani, uno dei tre candidati in lizza per la segreteria del Partito democratico, ha deciso di insediarsì lì con il suo comitato. Di certo la scelta di Montezemolo non è stata dettata da sentimentalismi o da affinità ulivistiche, anche perché palazzo Colonna non è terreno riservato al centro-sinistra, dal momento che ogni anno ospita centinaia di manifestazioni e convegni organizzati da partiti e movimenti politici vicini a uno o all’altro schieramento, ma anche da aziende e organizzazioni di ogni tipo.
Il direttore Andrea Romano rispedisce al mittente ogni collocazione politica del nuovo think tank: «Energia nuova per il Paese»
Resta il fatto che la coincidenza è curiosa, e c’è da giurare che anche questo particolare, oltreché la presenza del presidente della Camera Gianfranco Fini, del centrista del Pd Enrico Letta e del fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, sarà di richiamo per il primo grande evento organizzato da Italia Futura. Lo spiega Andrea Romano, che nell’illustrare l’appuntamento del 7 ottobre scrive: «Italia Futura non è parte di una manovra neo-centrista, come si dice, ma una libera associazione di competenze, intelligenze e professionalità che hanno deciso di dedicarsi a riflettere sul futuro del paese. Come faremo a partire dal 7 ottobre, e come continueremo a fare nei mesi successivi su temi come la scuola, l’industria culturale, la sanità. Né più né meno, perché questo è quanto viene realizzato in tutto il mondo da associazioni simili a Italia Futura.Tutto il resto può essere legittimamente detto ma non lascia alcun segno». Se, infatti, le mosse di Montezemolo sono state inizialmente scrutate soprattutto da sinistra, più recentemente all’ex presidente degli industriali è stato attribuito il gravoso compito di ridare slancio all’eterno progetto neocentrista. Su Repubblica, Massimo Giannini ha addirittura indicato in Montezemolo e Casini gli interlocutori di un “Piano Esterno” coltivato oltre Tevere.
diario
pagina 6 • 30 settembre 2009
Rai. Anche l’Idv chiede l’abolizione della tassa sul servizio pubblico. Il Cda unito: «Occorre combattere l’evasione»
Di Pietro fa Feltri: no al canone Ancora polemiche su servizio pubblico e libertà d’informazione di Riccardo Paradisi embriamo i pianisti che suonano nel saloon mentre si spara e si fa a Immagine cazzotti». perfetta quella di Paolo Gentiloni, responsabile delle comunicazioni del Pd, che interviene al convegno organizzato dalla rivista Formiche alla Camera sull’evasione del canone Rai e sulle forme per combatterlo. Convegno organizzato da mesi ma che si tiene mentre infuria la polemica sulla campagna della stampa di destra per invitare a non dare più un euro all’azienda radiotelevisiva di stato.
bolletta elettrica non c’è solo la stampa di destra invece a fare campagna contro il canone Rai. Il leader dell’Idv Antonio di Pietro per esempio ha presentato un ordine del giorno, per impegnare il governo a valutare l’opportunità di abolire il canone Rai, nonché il tetto alla raccolta pubblicitaria imposto alla Rai. Antonio Di Pietro, primo firmatario dell’odg, è piombato al’improvviso fuori dalla sala del Mappamondo dove si teneva il convegno di Formiche distogliendo l’attenzione dei giornalisti dal dibattito: «Da sempre noi dell’Italia dei Valori diciamo che questa Rai non merita che gli italiani paghino il canone, perché ormai è una tassa inutile per un servizio non pubblico, ma lottizzato dal sistema dei partiti». Venga eliminato anche il tetto alla pubblicità imposto alla Rai chiede Di Pietro «Cosicché chi ha più gambe per correre, corre. E la Rai può diventare più libera, con l’eliminazione del controllo del sistema dei partiti».
S
Gentiloni aveva definito un ricatto senza precedenti nella lunga storia del conflitto di interessi la campagna del Giornale anche se ieri faceva notare come il canone sia una forma d’imposta superata che deve trovare altre forme. Soprattutto si deve considerare la necessità di riqualificare il servizio pubblico di ridargli credibilità, magari attraverso un indice di qualità al luogo dell’auditel. Ma l’iniziativa di Formiche ruotava intorno alla proposta del consigliere di amministrazione Angelo Maria Petroni, di ottenere il pagamento del canone Rai attraverso la bolletta della luce. Un modo per rendere impossibile l’evasione e soprattutto per recuperare 400 milioni di euro «di cui 100 si potrebbero lasciare alla fasce sociali più basse, ad esempio i possessori di social card, o in alternativa abbassare il canone a 99 euro per tutti». Certo, ha aggiunto Petroni, pagare il canone nella bolletta della luce non è l’unica idea praticabile, un’alternativa sarebbe demandarlo alla fisca-
tevole soprattutto considerando la complicazione di chi dimostrando di non avere la tv pretenderebbe scalata la tassa sul suo possesso. Insomma le cose non sono così semplici. Sta di fatto che c’è molta preoccupazione per gli attacchi al servizio pubblico e per una possibile abolizione del canone. Il presidente della Rai, Paolo Garimberti ricorda
Spunta l’ipotesi di far pagare l’abbonamento alla tv tramite la bolletta della luce: un modo per rendere impossibile l’evasione lità generale «ma un’imposta di scopo significa indipendenza dal governo in carica. Se il servizio pubblico dipende dalla legge finanziaria si rimette alla mercé di cicli e controcicli». Il problema fa notare a Petroni Paolo Romani viceministro delle comunicazioni è che le società addette alla fornitura dell’elettricità in Italia sono almeno 150, una dispersione no-
come sia essenziale per la Rai il contributo pubblico. Tanto più che il canone non basta a coprire tutto ciò che è servizio pubblico: «Ogni anno l’azienda spende 250 milioni, che provengono dalla pubblicità, per gli obblighi del contratto di servizio». Se tutto il Cda è d’accordo con la proposta del consigliere Angelo Maria Petroni di far pagare il canone attraverso la
Romani minaccia, dopo l’incontro con Zavoli
Multa per «Annozero»? ROMA. «Il governo ha piena facoltà di chiedere alla Rai cosa è successo sulla base del combinato disposto del Contratto di servizio, del Testo unico e del Codice etico». Lo ha ribadito con durezza il viceministro delle Comunicazioni Paolo Romani al termine dell’incontro con il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli. Romani non ha voluto entrare nei contenuti del confronto con Zavoli, chiesto dal viceministro dopo le perplessità dello stesso presidente sull’istruttoria aperta dal ministero dopo la prima puntata di Annozero. Nel corso del colloquio, durato circa mezz’ora e definito dal viceministro «costruttivo e franco», Romani ha «ricordato al presidente Zavoli gli articoli del contratto di servizio e del testo unico sulla televisione che consentono al governo
di chiedere la verifica della giusta attuazione del contratto di servizio». Romani ha precisato che quello che ha definito «impulso del governo» non è peraltro vincolante, ovvero è l’Agcom ad avere la parola definitiva e senza ulteriori diffide all’azienda di viale Mazzini, qualora ravvisasse la violazione dei principi di obiettività o di completezza di informazione o di rispetto del pluralismo. Tanto è vero che «nel parere dell’Agcom al direttore generale Masi sulla questione Travaglio - ha ricordato Romani - c’è scritto che l’Autorità è in grado di irrorare una sanzione pecuniaria, fino al 3 per cento del fatturato, senza ulteriori diffide». In sostanza, «basta l’errore» perché l’Agcom proceda, e «c’è quindi un rischio di sanzione molto forte». Insomma: per Santoro è in arrivo una mega-multa?
Insomma per Di Pietro, come per Vittorio Feltri, il canone è una tassa ”obsoleta”: «la sfida dell’emittente pubblica deve avvenire con l’emittenza privata sui contenuti, deve essere sfida culturale, deve esserci un confronto vero, libero e senza limitazioni sul mercato pubblicitario». Stupisce chiosa Messa, il direttore di Formiche che un legalitario come Di Pietro faccia l’apologia dell’evasione del canone Rai. Anche se non è solo Di Pietro ad appoggiare indirettamente la campagna del Giornale: «Fuor di contingenza santoriana – scriveva lunedì in un fondo sul Riformista il suo direttore Antonio Polito, l’abolizione del canone Rai sarebbe davvero una cosa di sinistra, se per questo si intende una cosa giusta, equa e moderna. Innanzitutto il canone è un residuo di un’altra era geologica. Milioni di anni sono passati da quando la nascita della tv pubblica fu finanziata anche con quella tassa. A quei tempi, il semplice fatto di acquistare un apparecchio televisivo ci rendeva utenti della Rai, di un servizio unico gestito dallo Stato. Ma oggi le cose sono completamente diverse».
diario
30 settembre 2009 • pagina 7
Polemiche sulla magistratura: Alfano attacca l’Amn
Ha scontato la pena e non è «socialmente pericoloso»
Mancino a Brunetta: «Dialogo, non insulti»
In libertà Gianni Guido, l’omicida del Circeo
ROMA. Nicola Mancino, vicepresidente del Csm difende i magistrati dagli attacchi spettacolari di Brunetta. Forse per guadagnare un titolo sui giornali, il rutilante ministro aveva parlato di «sindacato delle toghe» e di «mostro», annunciando controlli più stringenti sulla produttività dei giudici. Mancino ha risposto: «Le affermazioni sopra le righe possono solo ridurre ulteriormente il prestigio dello Stato, un bene che va difeso soprattutto quando si hanno responsabilità politiche ed istituzionali. Serve dialogo, non violenza verbale». Anche l’Associazione nazionale magistrati ha risposto alle accuse: il presidente dell’Anm Luca Palamara ha replicato che «Brunetta non sa di cosa parla. È stato proprio il governo, l’anno scorso a tagliare drasticamente gli organici del personale degli uffici giudiziari. E sempre il governo ha chiesto ai magistrati di non fissare udienze pomeridiane per l’impossibilità di assicurare lo straordinario al personale di cancelleria. Evidentementeè più facile insultare e fare propaganda, che assumersi la responsabilità del proprio operato». «Non esagerate», ha risposto laconicamente il guardasigilli Alfano.
ROMA. Nessuna misura di sicurezza per Gianni Guido, uno dei tre autori - con Angelo Izzo e Andrea Ghira - del massacro del Circeo del 30 settembre 1975, tornato in libertà il 25 agosto scorso dopo aver scontato la pena per l’omicidio di Rosaria Lopez e quello tentato di Donatella Colasanti. È stato respinto il ricorso presentato dalla Procura al Tribunale di sorveglianza contro la sua scarcerazione. Il giudice ha stabilito che Guido non dovrà essere sottoposto ad alcuna misura restrittiva. Il giudice del tribunale di Sorveglianza Enrico Della Ratta Rinaldi, accogliendo la richiesta dell’avvocato Massimo Ciardullo, ha respinto la richiesta di ap-
Del resto Brunetta era stato pesante: «Penso anche per i
Il Cavaliere brinda con l’elisir abruzzese Festeggia i suoi 73 anni consegnando altre 400 case di Franco Insardà
ROMA. I bagni di folla sono per lui il vero elisir di lunga vita. Dopo averne preso in dosi massicce alla Festa della Libertà di Milano, Silvio Berlusconi per i suoi 73 anni ha scelto di tuffarsi tra la gente abruzzese. L’Aquila è il suo fiore all’occhiello e appena può lo sfoggia per dimenticare e far dimenticare affanni, polemiche e attacchi. Le allegre feste a villa Certosa sono un ricordo. A villa San Martino ormai dorme da solo. Le stanze di palazzo Grazioli lo intristiscono a tal punto da chiedere ieri nella telefonata in diretta con Uno Mattina - «chiamatemi più spesso, perché così mi sento meno solo».
E così il “presidente capocantiere” ha pranzato a Coppito con le maestranze che hanno realizzato il complesso abitativo di Bazzano. Insieme con lui i sottosegretari Gianni Letta e Paolo Bonaiuti, il presidente della regione Abruzzo, Gianni Chiodi, il capo dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, il prefetto dell’Aquila Franco Gabrielli e una nutrita rappresentanza della Protezione civile e delle Forze armate. «Signor presidente le offro il più alto simbolo che in se raccoglie l’identità dell’intera comunità regionale», ha detto il presidente Chiodi donando al premier un cofanetto contenente una bandiera con lo stemma dell’Abruzzo. Silvio Berlusconi ha ringraziato tutti per gli auguri e ha detto: «Grazie per il miracolo che siete riusciti a compiere». ll premier ha sottolineato che «se si è positivi succedono i miracoli» e ha ipotizzato che il modello sperimentato per la costruzione delle case antisismiche potrà essere utilizzato «anche per le giovani coppie in altre città». E ha concluso con un «vi auguro di arrivare alla mia età con tutta la gioia di vivere che ho io oggi». Mentre il procuratore capo de L’Aquila, Alfredo Rossini, chiariva che «i numeri dati dai giornali sono fantasiosi, non ci sono ancora indagati nell’inchiesta sul terremoto», Il Cavaliere insieme con il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, andava a consegna-
re agli sfollati di Bazzano 400 appartamenti, su 500 pronti, in cui alloggeranno 1.800 persone circa. Berlusconi. Ne ha approfittato per fare da guida alla prima famiglia assegnataria illustrando tutto quello che c’era: servizi di piatti da dodici, lenzuola matrimoniali e singole, coperte e piumoni, asse da stiro, stendibiancheria, scopa e paletta, ma anche spumante e dolcetti. E non è riuscito a trattenere un «Evviva, Evviva, ce l’abbiamo fatta. Dobbiamo essere veramente felici, non abbiamo dubbi di rispettare i tempi per la consegna di tutte le altre case».
Ma è stato lo spirito sportivo berlusconiano a prendere il sopravvento: «Abbiamo demolito ogni record mondiale» assicurando che «i tempi saranno rispettati». Ringraziando la Protezione civile, i vigili del Fuoco e le altre forze dell’ordine ha detto: «A L’Aquila abbiamo dimostrato che lo Stato c’è e non lascia indietro nessuno. Questo è lo Stato che ci piace e che tutti vogliamo, che ha la medaglia d’oro sul petto». Anche il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, e la presidente della Provincia, Stefania Pezzopane, si sono detti soddisfatti. Il primo cittadino nel suo discorso ha detto: «Oggi non mi sento solo il sindaco di questa città, mi sento italiano. Se vinceremo questa sfida, non come sindaco ma come italiano, sono orgoglioso». E rivolto a Berlusconi: «La ringrazio come capo del governo». La presidente Pezzopane ha aggiunto: «Oggi è una festa, ma sarà ancora più grande quando potremo tornare all’Aquila. Quello che è stato fatto non è un miracolo, i miracoli li fa quello che sta lassù. Gli uomini si impegnano». Ma a una signora che ha fermato Berlusconi e gli ha detto: «Presidente non si deve arrabbiare con i suoi avversari», ha replicato: «Signora sono loro che ce l’hanno con me». Così, dopo il pieno di elisir abruzzese, il premier ha ripreso la strada per Roma dove ad attenderlo c’era la cena con i deputati del Pdl. Altra linfa, forse meno genuina.
Soddisfatti anche il sindaco Cialente e la presidente Pezzopane che ha detto: «Non facciamo miracoli, ci impegnamo»
magistrati a un badge che controlli le presenze e la produttività: sono servitori dello Stato come tutti gli altri, forse si sono montati un po’ la testa». E poi aveva continuato contro l’Anm: «Un’organizzazione che determina, al netto dei membri laici, la composizione dell’organo di governo autonomo che è il Csm. Quindi, tutti i problemi legati all’autonomia della magistratura vengono determinati per via sindacale. Tagliato questo cordone, anche l’istituzione della giustizia tornerebbe ad essere una grande istituzione». «Il ministro non conosce la realtà», gli risposto con secchezza il presidente dell’Anm di Roma e del Lazio Paolo Auriemma.
plicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata che la Procura di Roma aveva avanzato nell’aprile del 2008 quando l’uomo, che oggi ha 54 anni, fu affidato ai servizi sociali. Il giudice doveva valutare se Guido, condannato a trent’anni anni di carcere, fosse tra l’altro socialmente pericoloso.
Nell’ordinanza emessa dal tribunale di Sorveglianza sono spiegati i motivi per cui Guido può rimanere in libertà. Il documento sottolinea che «la condotta corretta tenuta dall’interessato in carcere e nella fruizione di benefici penitenziari è continuata anche dopo la fine della pena». Alla luce del comportamento di Guido negli ultimi anni, quindi, non ci sarebbero elementi per definirne la pericolosità sociale. L’ordinanza mette in evidenza anche come Guido sia consapevole e pentito del delitto commesso: «Il reato commesso ha costituito per Gianni Guido un evento che ha radicalmente modificato l’evoluzione della sua personalità, contribuendo ad orientarla verso la riflessività, la consapevolezza della complessità, la ricostruzione etica e rendendola attraversata dal tormento e dal rimorso per il crimine commesso».
politica
pagina 8 • 30 settembre 2009
Maggioranza. Non bastano le buone intenzioni per trasformare il centocinquantenario dell’Unità in un’occasione politica
O la nazione o la Lega Caro Bondi, quale identità italiana sarà con l’«alleanza irreversibile» con Bossi? di Gennaro Malgieri ncora sulle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Non se ne può più. Ma siamo costretti ad occuparcene a fronte di interventi che invece di chiarire lo stato delle cose ne accentuano la complessità e, dunque, anche la confusione. Nel tentativo generoso di fare chiarezza, il ministro Sandro Bondi, in una intervista alla Stampa ha detto (e chi scrive lo condivide pienamente) che «per avere un’identità nazionale dobbiamo prima di tutto riconciliarci con il nostro passato, da quello più antico a quello più recente, senza la preoccupazione di scartare ciò che ci appare buono da ciò che ci appare meno buono».
A
Se l’intento di Bondi è quello di riassumere il percorso accidentato che ha portato alla costruzione dello Stato nazionale tutti dovrebbero contribuire a far sì che si diradassero le nebbie e si accettasse, finalmente ed una volta per tutte, che nel processo di unificazione sono intervenuti fattori politici, civili e culturali diversi che negarli, come certa letteratura risorgimentalista vorrebbe, non fa fare nessun passo avanti a quella riconciliazione auspicata dal ministro. Il quale, per di più, dovrebbe tener conto anche delle dispute recenti che mettono a dura prova il lavoro di quanti cercano di ritrovare le coordinate della convivenza tra ragioni diverse e proiettarle in un ripensamento dello Stato unitario senza più cadere nella tentazione di distinguere, se non sotto il profilo meramente storiografico
da non strumentalizzare a fini politici, i resistenze che gli Stati pre-unitari opposero all’annessione al Regno sabaudo.
In altri termini, ci chiediamo come si possa celebrare un evento, con tutte le implicazioni politiche che esso comporta, quando nel governo impegnato in tal senso lavorano soggetti che tirano da un’altra parte, verso quella disunità nazio nale che è il loro obiettivo primario, ideologico e programmatico. Insomma, con tutta la buona volontà, se Bondi s’impegna, come sta facendo, per portare a buon fine il progetto (ancorché ridimensionato rispetto alle ambizioni originarie), i ministri della Lega, con le loro truppe al seguito, non fanno mistero della loro avversione e lo testimoniano non soltanto dal punto di vista della polemica culturale e storica, ma con gli atteggiamenti politici e simbolici che certo non vanno nel senso della ricomposizione delle annose fratture nazionali e statuali. Il continuo richiamo
tivi al riguardo sono diametralmente opposti?
Incoraggiare le interpretazioni del processo di unificazione nazionale è un conto; chiudere gli occhi davanti allo scempio corrente che della stessa viene fatto, dalle polemiche sull’inno a quelle sulla bandiera è un altro. Con tutta evidenza siamo di fronte ad un contesto quantomeno contraddittorio che sarebbe bene sanare. Ma a quale
Incoraggiare le interpretazioni del processo di unificazione nazionale è un conto; chiudere gli occhi davanti allo scempio che ne viene fatto, polemizzando sull’inno e sulla bandiera, è un altro ad un’inesistente Padania contrapposta al resto del Paese; il ritorno ad un secessionismo morbido ribadito nella recente kermesse fluviale culminata nella manifestazione di Venezia; le gabbie salariali, le polemiche contro il Mezzogiorno, finanche il malmostoso atteggiamento nei confronti dei “troppi” docenti scolastici del Sud nelle regioni settentrionali, sono elementi di inquietudine che certo non aiutano a riconsiderare l’unità nazionale, ma al contrario accentuano il malessere e vanificano gli sforzi tesi alla ricomposizione. Se, come dice il ministro Bondi, è necessario «sgravare le celebrazioni da ogni orpello retorico e valorizzare ciò che unisce» al fine di «affrontare le questioni ancora irrisolte dell’unità nazionale», non crede che innanzitutto bisognerebbe chiarire i rapporti con un partner di governo come la Lega i cui obiet-
prezzo? Ci rendiamo conto che, al momento, non è possibile. Ed allora come si fa a dare peso politico-culturale ad un avvenimento contestato da chi dovrebbe promuoverlo, cioè il governo del Paese nel suo insieme, la maggioranza che lo sostiene senza distinguo, tutte le forze politiche che, lo vogliano o meno, rappresentano interamente la nazione e non una parte di essa. Forse ha ragione il professor Tommaso Padoa Schioppa, verso il quale non nutro simpatie politiche ricordandone le “gesta” quale ministro dell’Economia di Prodi, quando sostiene che il problema potrebbe essere aggirato, se non proprio superato in una cornice diversa da quella fin qui immaginata. In un editoriale apparso sul Corriere della sera, ha posto la questione del centocinquantenario dell’unità d’Italia esplicitando ciò che doveva essere chiaro a tutti fin dall’ini-
zio delle polemiche. Vale a dire che il modo migliore e più corretto per ricordare l’evento dovrebbe essere quello di far ruotare tutte le iniziative attorno al grande tema delle condizioni in cui versa lo Stato italiano, attivando dunque un’approfondita riflessione su ciò che resta della sua costruzione a seguito delle devastazioni che ha subito.
Padoa Schioppa, incline a ritenere, come il grande storico risorgimentalista Gioacchino Volpe, che nel 1861 non venne fondata la nazione italiana, la quale già esisteva e le cui origini sono rintracciabili a cavallo tra il X e l’XI secolo, ma fu costruito lo Stato italiano unitario, giustamente pensa sia opportuno rivederne le condizioni poiché, come tutti riconoscono, esso è un «organo malato, quello la cui patologia sta facendo deperire l’intero corpo sociale, l’economia, la terra, le acque, la cultura, la scienza, il rapporto con la sfera religiosa». Difficile dargli torto, anche se avrebbe dovuto aggiungere un piccolo elenco di responsabili del deprecabile stato delle cose. Dimenticanza non veniale. Comunque, se l’anniversario che tanto sta facendo impazzire politici ed intellettuali, oltre a tenere in apprensione il presidente del Comitato dei garanti, Carlo Azeglio Ciampi, dovesse svilupparsi secondo le linee ipotizzate da Padoa Schioppa (la cui visione laicista limita di molto la portata della sua proposta, comunque) non si risolverebbe nella celebrazione di un rito sterile, per quanto doveroso, ma in una proficua rimessa a centro dell’attenzione della
politica
30 settembre 2009 • pagina 9
Minoranza. Macaluso controcorrente: «Non fare un caso dell’insuccesso dei socialdemocratici»
«Ma io dico: facciamo l’Spd» Il duello tra Bersani e Franceschini? Una guerra tra apparati di Riccardo Paradisi a socialdemocrazia europea non sta bene. E del resto non c’era bisogno di attendere l’esito del voto tedesco. Del resto era un dato questo già emerso con sufficiente chiarezza lo scorso giugno, quando il partito socialista europeo aveva registrato complessivamente un marcato arretramento all’interno dell’Europarlamento. Ora la dura sconfitta della Spd tedesca e la vittoria di misura del Ps in Portogallo – dove i socialisti hanno perso la maggioranza assoluta – peggiorano il quadro clinico della socialdemocrazia continentale. Che guarda con grande preoccupazione anche alle prossime elezioni in Gran Bretagna, dove il favorito per la corsa al governo inglese è David Cameron e non Gordon Brown.
L
funzione dello Stato a fronte delle spinte che ne minano l’unità e del suo ruolo nella promozione e nella difesa dei diritti collettivi e della persona. Ma anche in una significativa discussione sull’ammodernamento delle sue strutture a cui poco purtroppo si pensa anche se di tanto in tanto qualcuno s’affaccia sul balcone della storia, mettendo in secondo piano la cronaca, per ricordarci della necessità di riconsiderare lo Stato dalla cui decadenza dipendono le numerose disfunzioni sociali, economiche e culturali che quotidianamente lamentiamo.
Non so se ci si rende conto, soprattutto in ambito politico, che tra i compiti dello Stato dovrebbe esservi quello di promuovere la crescita e lo sviluppo di una classe dirigente adeguata alle esigenze del nostro tempo. Credo che la mediocrità rilevata in vari ambiti, al di là delle appartenenze politiche, sia il frutto della consapevolezza che per funzionare al meglio una società civile abbia bisogno di èlite capaci di connettersi con le richieste ed il sentire del popolo. Dopo la fine del processo unitario, sia pure tra disagi e contraddizioni, fu proprio questo che accadde come, in tempi lontanissimi ed in contesti diversissimi, ci hanno ricordato Alfredo Oriani e Giovanni Spadolini. Il fatto che si sia spezzato tale legame è segno che non esiste più una coscienza statuale e che anche quella nazionale è minata dalle fondamenta. Perciò una messa a punto è d’obbligo. Perché non cogliere l’opportunità che ci viene da un anniversario per farlo?
Del resto a guardare la cartina della Ue ormai le bandierine blu del centro destra sommergono quelle rosse dei socialdemocratici: Francia, Germania, e Italia sono a tutte a destra e consola poco che la socialdemocrazia greca sia data per favorita alle prossime elezioni. L’analisi di Massimo D’Alema è molto dura, e chiara la diagnosi: il paradigma socialdemocratico va archiviato. Ecco quello che scrive D’Alema sulla rivista della fondazione ItalianiEuropei: «Le forze progressiste europee devono superare il loro passato socialdemocratico e costruire una nuova identità forte legata ai bisogni sociali, alle contraddizioni e alle attese del tempo in cui viviamo. Perché mentre nel resto del mondo sono le grandi forze progressiste che guidano l’impegno per aprire una nuova prospettiva oltre la crisi e gettare le basi di una nuova stagione economica e politica nella vecchia Europa, sembra essere cosí difficile la sfida per i progressisti?”. Secondo l’esponente del Pd «il socialismo europeo, non è riuscito di fronte alla globalizzazione ad andare oltre il riformismo nazionale». Un’analisi completamente sbagliata quella di Massimo D’Alema. Almeno secondo Emanuele Macaluso, direttore delle Ragioni del socialismo ed esponente storico della sinistra italiana. Sbagliata perché «alla liquidazione della socialdemocrazia degli esponenti del Pd segue il nulla politico della sinistra italiana. Le socialdemocrazie – argomenta Macaluso – hanno avuto sempre degli alti e bassi. I laburisti inglesi sono stati per lunghi anni all’opposizione, sembrava che l’ondata neoliberista li avesse sommersi per sempre. Poi invece sono tornati al governo. Con Blair». Già, ma Blair ha dato al labour inglese una decisa torsione liberale, obiettiamo a Macaluso. «Vero – è la risposta – ma lo ha fatto all’interno della tradizione e del partito laburista.Tanto che dopo Blair è venuto Brown che ha gestito bene, con un ritorno a politiche sociali la fase della crisi internazionale». E il fatto che per i laburisti si annuncia una nuova sconfitta e un ritorno al governo dei conservatori con David Cameron? Macaluso lo iscrive negli
alti e bassi della politica: «Noi siamo abituati a pensare che si debba stare sempre al governo. Ma non è così. Oggi ci sono serie difficoltà per la socialdemocrazia, è vero, ma le socialdemocrazie europee hanno tradizioni e culture politiche robuste per rimontare. Ieri è cominciata la convention laburista inglese dove si mettono a tema divisioni e contrasti. Parliamo di un partito vivo, non anchilosato, dentro cui si svolge un dibattito serio. La mia rivista pubblica tutti i testi che emergono nel dibattito laburista europeo, dalla Gran Bretagna alla Svezia passando per la Francia, è un materiale di straordinaria ricchezza». Secondo Macaluso la dialettica politica europea resta tra forze conservatrici e forze progressiste: «i socialisti rappresentano l’altra parte rispetto alla conservazione. È uno schema che descri-
“
Il Pd secondo Macaluso è un partito paralizzato. «Prendiamo le questioni etiche un partito che si vuole richiamare alla sinistra europea dovrebbe avere una posizione chiara. Questi ondeggiano, balbettano, dicono e non dicono. I socialdemocratici europei discutono, si scornano, ma poi decidono. Perché quelli sono partiti veri». Se poi a Macaluso si dice che l’obiettivo del Pd è quello di diventare un partito di centrosinistra lui risponde che «Quando il partito socialdemocratico tedesco aveva il 45 per cento era naturalmente un partito di centrosinistra, perché copriva al tempo stesso un’area sociale di centro e di sinistra. E ora dopo questa sconfitta all’interno dell Spd si aprirà una discussione, da cui riprenderà un cammino politico. Ci sono nuove gene-
Oggi ci sono serie difficoltà per la socialdemocrazia, ma è una cultura politica robusta che saprà rimontare. Non mi sembra che quelli che in Italia l’hanno liquidata si siano così salvati dalla sconfitta e dal collasso politico
ve una realtà e che è un errore clamoroso archiviare. Del resto scusi – riflette Macaluso – ma non mi sembra che quelli che in Italia vogliono liquidare in gran fretta la socialdemocrazia si siano con questo espediente salvati dalla sconfitta e dal collasso politico». Il direttore delle Ragioni del socialismo è molto severo con il Pd: «Il dibattito in corso tra Bersani e Franceschini a me pare lunare, incomprensibile. Di che stanno parlando? Dico una cosa grossa, ma era più chiaro, trasparente e comprensibile il dibattito che c’era nel Pci del centralismo democratico tra Amendola e Ingrao che quello che c’è tra Franceschini e Bersani. Qual è la differenza tra i due? Che rispondono ad apparati di potere interni diversi?»
”
razioni che si affacciano ai vertici della socialdemocrazia tedesca, a cominciare dal borgomastro di Berlino. Un partito vero può essere sconfitto ma continua a produrre classe dirigente e cultura politica». Il partito di plastica nella comparazione di Macaluso è sempre il Pd: «In Gran Bretagna si fanno delle analisi politiche: un settore del labour dice che Blair è stato sconfitto per aver cavalcato troppo l’onda della finanza contro lo Stato, c’è chi critica Brown per i motivi contrari. Ma appunto c’è dibattito. Il pericolo è quando il dibattito non c’è più, quando è assente la cultura politica e tutto si riduce a un nominalismo vuoto e a una guerra tra apparati».
congresso Pd
pagina 10 • 30 settembre 2009
Primarie. L’ex leader della Margherita presenta il “libro dell’addio”: all’Italia serve un nuovo progetto riformista
Lo strappo di Rutelli «In un partito socialista io non ci sto». E Bersani gli risponde: «Basta caricature» di Errico Novi
ROMA. «Se percorriamo i binari del passato sappiamo dove si va a finire: nel deposito». Cioè nell’irrilevanza, nella «condanna a essere minoritari». Su questo Francesco Rutelli non ha dubbi: La svolta è così l’ultimo doveroso avviso, la Lettera a un partito mai nato, come si legge nel sottotitolo del libro edito da Marsilio e da oggi in vendita. Il Pd non può rinchiudersi «nel porto sicuro e tranquillizzante, per alcuni, della sinistra riformista». Lui di certo non ci finirà. «Farò la battaglia all’interno del partito, vedremo che reazione ci sarà», assicura in nome di una moderazione che deve prevalere anche all’atto del congedo. «Non ho smesso di sperare che al congresso prevalgano le ragioni fondative: si scrive un libro nella speranza di essere ascoltati, e io non ho perso la speranza». È un modo per far intendere che non è, non sarà in ogni caso lui ad abbandonare la causa ma saranno piuttosto gli altri a dover rispondere del passo indietro. E qual è lo scenario che Rutelli ha davanti? Anche se il governo arrivasse fino al termine della legislatura – circostanza che alle ultime righe del libro viene data per non ineluttabile – prima o poi si arriverà «a una competizione tra due schieramenti alternativi, basati su alleanze di nuovo conio». Perché solo gli schieramenti sarebbero solo due, è la domanda rivolta alla fine della conferenza stampa all’ex leader della Margherita, così critico, negli ultimi tempi, verso il bipartitismo? «Non c’è dubbio che a un centrodestra che diventa sempre più destra populista non possiamo contrapporre un centrosinistra riformista con una componente caudillista o giustizialista». Più chiaro il discorso non potrebbe essere.
È da qui che si apre la finestra sul futuro di Rutelli. Dalla certezza che la competizione politica in Italia non potrà più svolgersi tra i poli disegnati dalla Seconda Repubblica ma tra una destra populista «dalla quale Pier Ferdinando Casini si è reso autonomo e in cui Gianfranco Fini è sempre più in difficoltà» e un fronte moderato con un’ani-
ma «liberale, riformatrice, progressista», secondo l’ispirazione che l’autore de La svolta vorrebbe veder prevalere nel Pd. È un bipolarismo diverso, segnato dall’egemonia della Lega a destra, «un fatto che provocherà sconquassi» e che vedrà irrobustirsi di contro le fila del campo moderato. Rutelli non farà nascere un nuovo soggetto politico. «Non propriamente», almeno. Si aspetta però «risposte» alle severe critiche rivolte al Pd sul percorso fin qui compiuto. «E la risposta non può essere che bisogna ricostruire il campo
la mozione Bersani, secondo il quale «bisogna fare una riflessione e arrivare a una gestione collegiale fino alle primarie, visto che i due terzi del partito sono contro l’attuale segretario»; quindi la reazione di Franceschini con i suoi («resto in carica, le parole di Penati creano una situazione particolarmente grave») e l’immediata richiesta a Bersani e D’Alema di prendere le distanze dall’ex presidente della Provincia di Milano; infine la correzione dello stesso stesso ex ministro: «Sgombriamo il campo da ogni equivoco più o
«Alla destra populista non si può rispondere con un ritorno alla sinistra socialdemocratica», dice il presidente del Copasir, che immagina per il futuro un fronte moderato, liberale e progressista della sinistra», come sostiene Bersani. Il quale, secondo Rutelli, «sbaglia», anche se non si tratta di «una questione nominalistica ma di strategie».
Il primo errore a cui andrebbe posto rimedio è «l’ingresso nell’eurogruppo socialista: sono uno dei dieci esponenti del Partito democratico che hanno votato contro la scelta», ricorda il presidente del Copasir, «ora ci troviamo a sostenere Barroso e ad archiviare l’idea della rappresentanza autonoma all’interno del gruppo unico», cioè della federazione tra liberaldemocratici e Pse illusoriamente coltivata in passato. Il porto della socialdemocrazia può rassicurare qualcuno «ma certo l’esito delle elezioni tedesche non può essere definito un incidente come pure è stato fatto». Di tutto questo però ci sono scarsissime tracce, nel dibattito precongressuale. Sulla ricerca di «territori nuovi e di nuovi consensi, necessari per contendere alla destra la guida del Paese» prevale, osserva Rutelli, «la semplice corsa al consenso interno, al voto di chi è già col Pd». Non a caso ieri la tensione tra Bersani e Franceschini si è innalzata non su questioni di identità o di programma ma di potere interno: prima l’entrata a gamba tesa di Filippo Penati, coordinatore del-
meno interessato, Franceschini, come è ovvio e come è giusto, è a pieno titolo il segretario del Pd così come prevede lo statuto, e ha la nostra piena collaborazione come è stato fin qui».
Nell’aridità di un confronto modesto Bersani trova però la vena giusta per prendersela proprio con Rutelli, chiedergli di «smetterla con le caricature» (quale sarebbe a suo giudizio la rappresentazione di un partito guidato da lui come esumazione della socialdemocrazia) e avvertire che «quello del Pd è chiaramente l’unico progetto possibile». Di certo la prospettiva di Rutelli è definita anche dal destino di minoranza interna a cui sembrano consegnarsi gli ex popolari. Non c’è modo, allo stato attuale, di immaginare un deflusso significativo di strutture postdemocristiane verso un nuovo partito cattolico democratico. E questo contribuisce a spiegare per quale motivo Rutelli respinga da sé la “caricatura” (questa sì che lo sarebbe) di alfiere dei teodem: parola, dice peraltro, «che non mi è mai piaciuta, che ho sempre contestato: intanto perché da cattolico credo che non si debba nominare Dio invano, e poi perché i cattolici in politica devono sempre condurre la battaglia per le proprie idee nel confronto con gli
altri, senza alzare il muro tra credenti e non credenti. Non bisogna mai ricorrere ad atteggiamenti arroganti, questa è la laicità: si guardi allo stile di Obama».
Non si tratta di una sconfessione della componente di Paola Binetti e Luigi Bobba, ma della ricerca di un perimetro più ampio in cui muoversi, uno spazio che dovrebbe essere molto arricchito dalla suggestione Obamiana anche sul versante ambientalista: «È un profilo in cui mi riconosco da quando faccio politica, ma certo secondo l’approccio del fare: da sindaco ho piantato 120mila alberi, l’ambientalismo non si riduce a dire solo dei no». Se la direzione è questa, e al di là dei mezzi con
cui Rutelli intende seguirla, non sarebbe difficile immaginare una convergenza al centro con Pier Ferdinando Casini. Lo sa anche il leader dell’Udc, che però commenta l’esordio in libreria de La svolta con lo stesso approccio moderato scelto dall’autore in conferenza stampa: «Sono troppo intelligente e rispettoso per capire che le nostre strade potrebbero incontrarsi, ma oggi la cosa non è all’ordine del giorno: Rutelli sta facendo una battaglia che gli fa onore nel Pd e un domani si potrà realizzare una convergenza», ma «non c’è fretta» perché «per fare le cose solide non bisogna avere fretta sennò si fanno male». Spiega Casini: «È giusto che ci sia un percorso parallelo e se son rose fioriranno».
Ieri Francesco Rutelli ha prospettato la sua uscita dal Pd ma non ha ”rotto” con Dario Franceschini. Nella pagina a fianco: sopra, Linda Lanzillotta e, sotto, Paola Binetti: sono d’accordo con l’ex leader della Margherita
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Paola Binetti e Linda Lanzillotta commentano la scelta del leader
«Ma un Pd di sinistra non piace a nessuno» «Schemi ideologici vecchi e poca attenzione alla libertà di coscienza: Francesco non è solo» di Francesco Lo Dico ’adesione al Pse proprio non l’ha digerita. E poi certo ci sono anche il «fondamentalismo laicista», il giustizialismo e la riproposizione di vecchi schemi ideologici da vecchio Pci. Per il momento fa sapere che non se ne andrà, ma Francesco Rutelli l’ha detto chiaro e tondo:«Il Pd non mi piace». Siamo al prologo di una fuga al centro? E quanto è diffuso il malessere avvertito dall’ex Margherita nel Pd? «Sottoscrivo le riflessioni di Rutelli perché le considero un coraggioso tentativo di diagnosticare affanni e disagi ampiamente diffusi all’interno del partito», spiega a liberal la senatrice Paola Binetti. «Analisi condivisibile – le fa eco la deputata Pd, Linda Lanzillotta – Già le dimissioni di Walter Veltroni avevano manifestato le difficoltà di dar vita a un vero progetto riformista. L’idea di plasmare una nuova cultura politica capace di offrire risposte in linea con il nuovo secolo è rimasta incompiuta».
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Se cadesse l’esecutivo Berlusconi, sostiene Rutelli, «ci vorrebbe un governo del presidente». Casini: «Le nostre strade possono incontrarsi ma la fretta è inutile: se sono rose fioriranno» Nel frattempo l’ex leader della Margherita rivendica di aver fatto il proprio dovere di iscritto: «Sono andato nel mio circolo a votare, per Franceschini». È la probabile sconfitta del segretario uscente a imporgli il probabile addio? Alla domanda Rutelli oppone il discorso sulla speranza di essere ascoltato, ma anche quello sulla critica alla scelta socialdemocratica di Bersani, non rivolta alla persona ma appunto alla strategia. D’altra parte «finita la fase botanica del centrosinistra, in cui l’Ulivo, la Quercia, la Margherita, il Girasole servivano a nascondere i problemi, ora è venuto il tempo di risolverle, le questioni». Si può farlo solo in coerenza con il discorso di Walter Veltroni al Lingotto («che ho apprezzato molto come l’avvio della campagna elettorale») e dunque con un «progetto nuovo». Anche perché «chi ha ripiegato le bandiere dell’Ulivo non lo ha fatto per sventolare quelle con falce e martello».
Se ne continuerà a parlare domenica prossima, alla presentazione-dibattito organizzata all’auditorium della Conciliazione di Roma, a cui interverranno, oltre al curatore dell’editrice Marsilio, Giuliano Da Empoli, Linda Lanzillotta, Bru-
no Tabacci ed Enrico Mentana. Si continuerà a parlare a lungo del populismo che a tratti diventa «svergognato» e che secondo Rutelli rappresenta il vero avversario da battere, a maggior ragione adesso che la destra si è ridotta al duo BossiBerlusconi. Al quale il presidente del Copasir dedica passaggi del libro e della conferenza stampa: «È un grandissimo uomo di marketing, un grande combattente di campagne elettorali, ma non verrà certo ricordato come un grande uomo di governo. Non è un riformatore come lo è stata la Thatcher, né un capo di governo attento al sociale come la Merkel e nemmeno un innovatore dinamico come Sarkozy. Se questa legislatura avrà compimento, Berlusconi avrà condizionato la scena nazionale in modo decisivo per un ventennio, ma al Paese ne sarà venuto poco o nulla in termini di riforme strutturali». Rutelli trova più realistico che possa realizzarle un «governo del presidente» nel caso in cui l’esecutivo attuale dovesse cadere prima del tempo. Una coalizione in cui potrebbe fiorire quell’alleanza di nuovo conio, moderata e riformatrice, liberale e progressista, che per Rutelli costituisce l’unica possibilità di battere la destra populista in Italia.
angusti. È giusto tirare le somme, e comprendere come certi paradigmi statalisti siano ormai obsoleti». Ma le due esponenti del Pd concordano anche su quella «zavorra giustizialista» che a detta di Rutelli avvelena il partito. «Un partito di matrice riformista come il Pd non può pensare di rinnovare la classe politica liquidandola per via giudiziaria – rileva la Lanzillotta –. La linea inseguita da Di Pietro non è conforme a un partito come il nostro, che si propone piuttosto di governare il cambiamento con risposte efficaci. Pensare di fare politica limitandosi a mandare a casa chi già la fa, è un atteggiamento miope. Spediti tutti in galera, i problemi dell’Italia restano irrisolti». «Non si può pretendere di rinnovare la classe politica spedendo tutti a casa in modo indistinto – sottolinea la Binetti – È un atteggiamento pervaso da antichi furori di lotta di classe, che suppone una superiorità etica e morale che nessuno in questa Italia è in grado di rivendicare se non in modo autolesionistico. Il caso Marino, in questo senso, è emblematico».
Per Binetti «La Margherita era nata per dare voce al mondo cattolico». Anche per Lanzillotta «ora il partito deve cambiare»
Ma quali sono le ragioni di questo fallimento? «Il Pd ha esasperato le differenze, si è divaricato in una forbice sempre più ampia e ha estremizzato l’approccio laicista su questioni come l’immigrazione, le scelte eticamente sensibili e la libertà di coscienza. Una chiave di lettura che ha messo a disagio la componente cattolica del partito, che non si sente ben rappresentata da una linea politica ambigua sul fine vita o a tutela della stessa, ad esempio. Anche i cattolici del Pd vogliono essere, oltre che credenti, credibili», argomenta Paola Binetti. «La crisi del 2008 è stata il cuore rivelatore di una sostanziale inadeguatezza nel chiudere la modernizzazione dell’Italia del ‘900 e scrivere i nuovi capitoli del futuro di questo Paese nell’era della globalizzazione. Si è continuato a rispondere alle emergenze di famiglie e lavoratori attraverso schemi ideologici ormai superati, improntati a strategie di lotta di classe buone per altri tempi», chiosa Linda Lanzillotta. Tesi condivisa anche da Binetti: «Nell’era della globalizzazione, non è possibile ignorare le notizie che arrivano dalla Germania: è in atto una marcata evoluzione di stampo liberale, che relega modelli parastatalisti come quello spagnolo, in confini sempre più
Voci sempre più insistenti danno Francesco Rutelli sempre più vicino all’Udc. Ipotesi percorribile? «Le critiche di Rutelli prendono le mosse dalle ragioni fondative della Margherita – spiega Paola Binetti –, un progetto riformista capace di dare spazio al mondo cattolico. Una compagine animata dunque dal vecchio spirito Dc: un centro che guarda a sinistra. Il Partito democratico era nato nell’idea di mettere al centro la persona. Non ci resta che aspettare e capire se nel Pd c’è ancora posto per le persone cattoliche». «Mi sembra per ora uno scenario avveniristico – osserva invece Linda Lanzillotta – Per il momento l’unica cosa certa è che assisteremo alle ennesime divisioni tra innovatori riforimisti e conservatori di sinistra di vecchia osservanza, per così dire. Ma Il Pd deve rendersi conto che in Europa la sinistra tradizionale ha fallito. In nome della tradizione, ha tradito la sua originaria visione progressista, volta ad armonizzare la società e ridurre le disuguaglianze.
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o sviluppo delle virtù liberali si è sostituito all’interruzione dello sviluppo lineare del «progresso sociale» atteso alla dottrina marxista. La libertà ha prevalso sull’egualitarismo. Anche per conseguire una maggiore equità sociale, la maggioranza delle persone pensa che si debba passare prima dalla porta della libertà, che da quella dell’uguaglianza. La società dominata dall’individuo non cessa di avere problemi, di essere teatro di drammi collettivi, ingiustizie sociali e tragedie individuali. Chi dovrebbe fornire le soluzioni necessarie alla comunità, la dignità di pari diritti per tutti? L’individuo-re cerca, attraverso soluzioni personali, una prospettiva di vita gratificante; di realizzare se stesso; al limite, lasciando una breve fiammata (possibilmente, visibile dal satellite). Molti, tra i ragazzi, proiettano nell’esistenza concreta il tentativo di riprodurre dialoghi, «emozioni», sentimenti e risentimenti, modi di relazione ricavati dalle competizioni di quella particolare realtà che sono i reality.
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Questa generazione di giovani ha reinvestito nella sfera dei media l’energia che negli anni sessanta veniva destinata alla politica. Ma siamo davvero sicuri che la loro voglia di comunicare r di comunicarsi – attraverso tutti i canali a disposizione – sia solo un segno di narcisismo, inutilizzabile da parte della politica? Gli aspiranti emulatori si sono concentrati sul dito, anziché intravedere la luna. Piantare una bandierina su Facebook o su Twitter, di per sé serve a poco: il punto non sono gli strumenti. I ragazzi cresciuti nella rete – i nativi digitali, li chiama qualcuno – sono abituati a costruire i media, non si accontentano di consumarli. L’approccio televisivo del broadcasting à la Berlusconi, da un centro unico alla periferia, con loro non funziona. Per coinvolgerli bisogna offrire la possibilità di contribuire a costruire un progetto. Accettare di cedere una parte del controllo – sui contenuti e sul contenitore – per ricavarne in cambio una straordinaria ventata di idee e di energie. Per quante persone si mettano intorno a un tavolo, le idee migliori saranno sempre fuori. È questa la filosofia della rete ed è anche la filosofia con la quale dobbiamo accettare di metterci in gioco. Scrivere un programma politico non è compito di nessun libro, tanto meno di questo (…). Mi piacerebbe la sfida di concorrere ad assemblare una piattaforma sulla quale altri accettino di costruire progetti, un po’ come ha fatto Steve Jobs con il suo iPhone, il cui valore aggiunto deriva oggi dalle migliaia di applicazioni sviluppate da programmatori indipendenti. La vocazione di questo libro è di contribuire a iniziare un percorso. Comincio con una scorciatoia, fatta di suggestioni e provocazioni.
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Un possibile programma per il bene comune: l’ultim
Oltre la destra,
Prima ci vuole un governo di ricostruzione nazionale,
di Frances Tutti, senza eccezione, gli italiani dedichino sei mesi della loro vita a un servizio civile. È stato inevitabile e giusto porre fine alla leva militare: troppo diverse dal passato, infatti, sono le esigenze operative delle forze armate, che richiedono specializzazione crescente. Conosco le obiezioni all’idea di un servizio civile obbligatorio: le persone che non hanno lavoro si aggrapperebbero a un ciclo formativo perché possa schiudere un’opportunità di reddito assistito. (…) Nella società dell’individualismo à la carte lo stato ha il dovere di garantire un breve percorso formativo unificante per tutte le giovani generazioni. La definizione di questa attività in sé, costituirebbe uno dei compiti più interessanti per il governo, il legislatore, per insegnanti e formatori, sociologi e scienze sociali, amministratori pubblici. Garantire che ogni anno alcune centinaia di migliaia di persone compiano attività di servizio utili alla comunità e per se stessi è una sfida non rétro, ma innovativa. In particolare, tutti dovranno imparare ad accendere Internet padroneggiando l’inglese (o un’altra lingua straniera). Sarebbe saggio costituire un gruppo di alto livello che studi concretamente la fattibilità, i costi, i benefici dell’operazione. La scarsità delle nascite e l’invecchiamento della popolazione - l’abbiamo definito «inverno demografico» - è una cruciale difficoltà per il futuro nazionale: per la competitività economica, per la crescita della ricchezza prodotta, per lo squilibrio che viene formandosi rispetto alle nascite tra le popolazioni immigrate (inclusi gli aspetti di integrazione culturale e religiosa, come si vede nelle scuole dove prevalgono i bambini di religione islamica). Si dice, spesso, che si tratta di una difficoltà propriamente culturale: nella nostra società prevarrebbe, cioè, un egoismo autoreferenziale degli adulti. È falso. Lo dimostra l’esperienza di una società come quella svedese, che aveva conosciuto una forte concentrazione del tasso di fecondità è risalito al 2,1% (in Italia, oggi, è
al 1,3%). Si potrebbero semplificare,e molto, i meccanismi di sostegno al reddito delle famiglie. Prima di approdare all’opportuno sistema del «quoziente familiare», adottare una terapia shock, che accorpi le varie detrazioni e i sostegni esistenti in un unico assegno da erogare per la nascita di ciascun figlio: quindicimila euro da attribuire senza mediazioni nei primi tre anni di vita del bambino.Tutti sappiamo che le difficoltà per la maternità e la paternità derivano dalla scarsità di servizi (asili nido, sostegno alle madri che lavorano eccetera) e, in generale, dai costi crescenti per le esigenze delle famiglie. Ma una spinta pragmatica e sicura (il sistema dei bonus e degli incentivi è stato troppo mutevole e incerto nell’ultimo decennio) può permettere alle famiglie di programmare meglio le loro scelte. (…)
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La società dominata dall’individuo non cessa di avere problemi, di essere teatro di drammi collettivi, ingiustizie sociali e tragedie individuali. Chi dovrebbe fornire le soluzioni necessarie alla comunità, la dignità di pari diritti per tutti?
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La parola meritocrazia è spesso equivocata. Ricordo una vecchia edizione di un saggio visionario, L’avvento della meritocrazia, 1870-2033, di Michael DunlopYoung, edito da Comunità nel 1962 (uscito in Inghilterra alcuni anni prima). Descriveva uno scenario paradossale e inquietante, alla Orwell. La denuncia romanzata di una società futura in cui la fortuna delle persone dipende solo dal quoziente di intelligenza.
Ecco: volendo evitare sia la pianificazione socialista, sia la meritocrazia di stato, la democrazia liberale italiana è matura per un sistema generalizzato di valutazione trasparente dei risultati in tutte le amministrazioni pubbliche. La meritocrazia che ci interessa, per università e scuole, ma soprattutto per il gran bubbone sanitario, riguarda standard armonizzati e rigorosi, come ha più volte proposto Linda Lanzillotta. Non si daranno più soldi per pagare prestazioni sproporzionatamente costose. E, per sradicare la corruzione, gli organismi di valutazione e controllo dovranno essere formati da persone eccellenti, perché specchiate, ben formate e ben pagate.
Tagliare le tasse si deve, anche se è difficile in un periodo di contrazione della crescita e, dunque, delle entrate. Il paese dovrebbe convenire, prima di ogni altra ipotesi di riduzione della pressione fiscale, su un intervento sulle tasse sul lavoro. Azzarare la parte del «cuneo fiscale» che non riguarda i contenuti previdenziali è indispensabile: non solo perché le tasse sul lavoro sono in Italia enormemente più alte (circa il 40%) della media dei paesi Ocse, ma perché è una scelta di equità e di sviluppo: è il momento di indicare con chiarezza la priorità di detassare il lavoro. C’è ancora troppa differenza con i lavori parasubordinati e precari (...). L’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri dev’essere reso molto più lineare e scorrevole. Gli incentivi per i nuovi nati, per esempio, riguarderanno anche gli stranieri che diventano italiani. La lingua va conosciuta perfettamente (non come avviene con certi italiani all’estero, cui si riconosce il diritto di voto senza che conoscano una parola corretta di italiano). Non potrà essere data la cittadinanza a chi rifiuti l’integrazione e a chi abbia compiuto determinati reati: la dichiarazione di adesione ai principi e ai valori della Costituzione sarà rigorosa.
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mo capitolo de “La svolta. Lettera a un partito mai nato”
, oltre la sinistra
, poi potremo costruire un bipolarismo di “nuovo conio”
sco Rutelli La frammentazione del consumerismo italiano, con decine di associazioni spesso in conflitto tra loro, non aiuta a combattere una grande disparità. I sociologi hanno analizzato da decenni la sostituzione della società strutturata del XX secolo con una «società dei consumi»; molti denunciano l’atomizzazione del cittadino consumatore privo di tutela e rappresentanza. Ma le organizzazioni del passato, per primi i sindacati, non sono attrezzate né legittimate per questo tipo di tutela. L’Italia è in arretrato nell’organizzazione di questa frontiera di nuovi diritti e doveri. È una modernizzazione incompiuta che va accelerata con meccanismi trasparenti e universali (...). Liberalizzare gli affitti. Introdurre una «cedolare secca» sulle locazioni. Al massimo del 20% della tassazione - ma proporrei addirittura il 10%. Questo creerebbe un potente meccanismo di mobilità (anche territoriale) e favorirebbe un accesso alla casa per centinaia di migliaia di giovani coppie. In breve tempo, con un sistema di controllocompartecipazione da parte dei Comuni, il gettito per l’erario competerebbe con l’attule, grazie al ragionevole incentivo, all’emersione degli affitti in nero.
Abbiamo in Tv l’accesso per i partiti. Per le confessioni religiose. Per le campagne di pubblica utilità eccetera. Ma non abbiamo autentico accesso per le storie di successo. Sembra di essere, qualche volta, nel Brasile degli anni cinquanta, dove l’unico modo per farcela appariva la selezione calcistica (oggi, tocca al Grande Fratello). Eppure, siamo un paese pieno di storie di successo, di imprenditori partiti dal nulla che hanno conquistato il mondo, di creativi che dettano legge a livello globale, di ricercatori che contribuiscono a spingere più in là le frontiere della conoscenza scientifica (...). Il quadro per la ricerca del bene comune resta e resterà quello dell’economia
sociale di mercato. C’è bisogno di uno spazio sicuro a tutela dell’equità e dell’efficienza. E non può che essere quello delle istituzioni riformate. È bene, e non male, a questo proposito, che un sistema unitario sia a base federalistica: che garantisca il giusto e necessario per tutti, e articoli la diversità delle risposte in base alla diversità delle situazioni e dei territori (per eempio, nel contratto di lavoro, rafforzando molto la contrattazione decentrata di secondo livello).
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Volendo evitare sia la pianificazione socialista, sia la meritocrazia di Stato, la democrazia liberale italiana è matura per un sistema generalizzato di valutazione trasparente dei risultati in tutte le amministrazioni pubbliche
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Le vecchie risposte di sinistra si ritirano sempre più in un territorio di minoranza. La destra definisce «popolo» il suo principale partito, ma esso viene costretto a difendersi dal populismo ancora più spinto della Lega. Il sud perde l’occasione di porsi al centro delle opportunità di crescita dell’area mediterranea; il nord ha bisogno di sentirsi servito con ben maggiore efficacia dai poteri pubblici.
Occorre uno schema nuovo di gioco di squadra per far tornare l’Italia in partita. Le tendenze di medio periodo sono negative. Con la brevità dei cicli economici un paese può decluinare lentamente, può andare in crisi bruscamente, ma anche risvegliarsi. L’Italia deve imparare dagli errori,
cooperare per far sbocciare i propri diffusi talenti. L’agenda del Paese si è formata, storicamente, in base a fattori esterni. La minaccia comunista. Le conseguenze del croillo della minaccia comunista. Gli adempimenti dell’integrazione europea. L’ingresso nella moneta unica. Il Paese, con una perdita della ricchezza nazionale attorno al 5% nel 2009, si prepara ad altri anni di crescita zero, e a tornare – forse – nel 2013 al livello di ricchezzaprodotta nel 2007. Con la crescita della disoccupazione, il debito che ci fa male, il silenzioso radicamento di situazioni di povertà, gli investimenti fragilissimi, la qualità dei servizi collettivi e alla persona in calo, la corruzione in crescita, il sud in crisi verticale e l’espansione dei poteri criminali.
A sinistra la mezza mela del Pd rappresenta solo un quarto del Paese. Un quarto di mela. La mezza mela delle destra è impegnata in uno scontro interno senza quartiere per il controllo del potere, a partire dal nord. Crescono miasmi e veleni, e non c’è modo di occuparsi in modo strategico dell’Italia. Per cambiare, prima che sia irreversibilmente tardi, si dovrebbe formare un governo di costruzione e rilancio dell’economia. Un governo del presidente, con larga base parlamentare, l’interruzione dei conflitti più distruttivi, un programma ambizioso per tre anni, per poi riportare gli orologi, nel 2013, all’appuntamento con una competizione tra due schieramenti alternativi. Basati su alleanze di nuovo conio. Fantasia? Vedremo. Francesco Rutelli, qui a destra. In alto, da sinistra: Konrad Adenauer, Barack H. Obama, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani, Romano Prodi e Pierferdinando Casini
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Piombo Fuso. Il giudice sudafricano ha presentato un dossier di 575 pagine. Shimon Peres denuncia: «Così si travisa la storia»
La versione di Goldstone Inaccettabile relazione Onu a Ginevra: criminalizza Israele e “rimprovera” Hamas di Luisa Arezzo sraele e i palestinesi soffrono di una «cultura dell’impunità» che non prevede si debba rispondere dei presunti crimini di guerra commessi durante l’ultimo conflitto a Gaza. Non è così. Con queste parole Richard Goldstone, a capo della missione Onu istituita lo scorso aprile per indagare la verità e le eventuali atrocità commesse durante l’operazione Piombo Fuso, si è rivolto ieri al Consiglio per i Diritti umani di Ginevra per discutere il suo rapporto: uno spesso studio di 575 pagine. «Sia Israele che Hamas - ha proseguito Goldstone non hanno adeguatamente indagato sulle loro azioni nè affrontato le violazioni delle leggi internazionali commesse durante le tre settimane del conflitto, fra la fine del dicembre 2008 e il gennaio 2009. La mancanza di giustizia per le vittime sta minando le possibilità di pace nella regione».
I
Con una certa equidistanza (solo iniziale, a dir il vero), e portando ”alla sbarra” anche Hamas, il giudice Goldstone ha tentato di arginare le accuse che vogliono le Nazioni Unite in prima linea contro Israele. Dati alla mano, come ha già sottolineato l’esponente del Pdl Fiamma Nirenstein, «l’Onu dedica ogni anno due terzi delle sue risoluzioni sui diritti umani alla condanna di Israele»; la sua assemblea, dove sono già risuonati i discorsi antisemiti del presidente Ahmadinejad, adesso sembra procedere con una versione flautata, quella di Goldstone. Ex giudice della Corte costiuzionale del Suda-
frica, procuratore all’Aja del Tribunale penale internazionale sia per l’ex Jugoslavia che per il Ruanda, ma anche ebreo e con una figlia che vive in Israele. Che però, a leggere il rapporto, sembra trattare la questione mediorientale più sotto il profilo dell’apartheid (palestinese) che sotto la lente dell’imparzialità che da lui ci si sarebbe aspettata.
Un’operazione politico-culturale che Israele non ha gradito, tanto da rifiutarsi di concedere il permesso alla commissione di entrare in Israele o nei Territori palestinesi, obbligandola a
mente riferite e analizzate durante la guerra di Gaza. Di più: il rapporto cita abbondantemente le diverse relazioni che condannano le tattiche di Israele come violazioni delle leggi di guerra e del diritto umanitario internazionale. Vedi Amnesty International, Human Rights Watch e numerosi gruppi internazionali per la difesa dei diritti umani. Il presidente di Israele, Shimon Peres, ha classificato il rapporto «un travisamento della storia» che non fa distinzioni tra aggressore e uno stato che esercita il diritto di autodifesa, ribadendo che il rapporto «legittima l’attività terrorista e
Il rapporto raccomanda al Consiglio di Sicurezza di intervenire entro sei mesi in assenza di indagini di Tel Aviv e autorizza i tribunali nazionali ad agire contro indagati israeliani in viaggio all’estero far capo al governo egiziano per entrare a Gaza attraverso il punto di passaggio di Rafah. Diniego, peraltro, avanzato anche da Hamas. Solo che Israele è sotto accusa e lo era fin dall’inizio, tanto che persino personaggi antisraeliani come Mary Robinson, commissaria Onu organizzatrice della Conferenza di Durban del 2001, hanno rifiutato la scorsa primavera di partecipare al comitato ritenendolo «non equilibrato».
Nella sostanza il rapporto Goldstone non aggiunge nulla di nuovo all’ennesima criminalizzazione dello Stato di Israele e di fatto il suo principale contributo è la conferma delle pratiche militari di Israele ampia-
le azioni di omicidio e morte». Ma c’è anche del’altro: un’analisi più attenta, infatti, mostra l’esistenza di buoni motivi per la reazione di Israele al rapporto. Soprattutto verso le sue conclusioni abbinate a precise raccomandazioni che vanno ben al di là delle relazioni precedenti.
Due su tutte: il rapporto raccomanda vivamente che se Israele e Hamas non avviano entro sei mesi un’indagine e azioni conseguenti, conformi a standard internazionali di obiettività sulle violazioni del diritto di guerra, si dovrebbe adire il Consiglio di Sicurezza e invitarlo a deferire eventualmente l’intera questione della responsabilità di Israele e Ha-
mas al Procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aia. È evidente che anche se gli Stati Uniti e alcuni governi europei eserciteranno pressioni diplomatiche per risparmiare al governo di Israele questa spada di Damocle, le implicazioni negative per le relazioni pubbliche in caso di mancato rispetto della raccomandazione del rapporto potrebbero essere gravi. Il secondo motivo di preoccupazione per Israele è che il rapporto autorizza i tribunali nazionali in tutto il mondo a far applicare la legislazione penale internazionale contro indagati israeliani in viaggio all’estero e sottoposti a fermo per azione penale o estradizione in un paese terzo. Questi soggetti potrebbero essere accusati di crimini di guerra legati alla loro partecipazione al conflitto di Gaza. Il rapporto incoraggia quindi a far capo alla nozione di “giurisdizione universale”, ossia il potere di un tribunale in
qualsiasi paese di porre soggetti in stato di fermo per estradizione ed esercizio dell’azione penale a seguito di violazioni del diritto penale internazionale, a prescindere dal luogo dove sono avvenuti i presunti reati.
La reazione dei media in Israele rivela che i cittadini israeliani temono già di essere arrestati se viaggiano all’estero. Ipotesi non pregerina visto che un gruppo di palestinesi residenti a Londra è già al lavoro per chiedere l’incriminazione di Ehud Barak (vedi articolo a fianco, ndr). Come indicato da un commentatore giuridico nella stampa israeliana «A partire da oggi, non soltanto i soldati dovranno fare attenzione quando si recano all’estero, ma anche i ministri e i consulenti legali». Alla luce di tutto questo, sembra quantomeno legittimo che Israele abbia già lanciato un’offensiva mediatica e diplomatica volta a presentare il rapporto come
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La richiesta è stata avanzata a Londra da un’organizzazione palestinese
«Arrestate Ehud Barak per crimini di guerra» di Antonio Picasso ono due le motivazioni per cui un gruppo di palestinesi ha invitato la magistratura di Londra a emettere, entro domani, un mandato di arresto nei confronti del ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak. La denuncia presentata formalmente è finalizzata ad aprire un’inchiesta nei confronti del ministro israeliano ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità durante la guerra di Gaza. Come prima ragione, il fatto che il “Rapporto Goldstone” sia nell’occhio del ciclone. Il dossier che prende il nome dal procuratore sudafricano, Richard Goldstone appunto, parla di una serie di episodi, che sarebbero avvenuti durante il conflitto di gennaio lungo la Striscia di Gaza, in cui le truppe israeliane e le milizie palestinesi di Hamas si sarebbero macchiate di azioni efferate contro civili inermi. Seconda cosa, Barak è a Londra proprio in questi giorni. Ieri ha incontrato il premier britannico Brown e domani è atteso al meeting“Labour friends of Israel”, un convegno del laburismo internazionale favorevole alla causa israeliana. Quale occasione migliore, per questa rappresentanza palestinese residente nel Regno Unito, per rovinare la visita di Barak nella capitale inglese, tentando bloccarlo come una preda in trappola? Ed è altrettanto studiata la scelta di far cadere sul ministro israeliano tutte le responsabilità di eventuali crimini commessi durante la guerra, che fece circa 1500 morti complessivi. Colpire Barak significherebbe colpire il governo Olmert, che allora insistette per dare il via all’operazione “Piombo fuso”. Ma accanirsi sulle stesso ministro significa anche prendere come bersaglio un esponente dell’esecutivo israeliano attualmente in carica. Barak era al governo allora e lo è ancora oggi. Per quanto la sua forza politica si sia significativamente ridimensionata, chiederne l’arresto sarebbe come delegittimare l’esecutivo guidato da Netanyahu. Da Gerusalemme infatti è arrivato l’invito a Barak di tornare in Israele, onde evitare spiacevoli manifestazioni di piazza. Ma il ministro ha rifiutato.
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mente più piccolo. Per Hamas, che ha cercato sempre di far passare l’immagine del suo movimento disposto a difendere la gente di Gaza a costo di qualsiasi sacrificio e che, al contrario, adesso sarebbe accusata di aver posizionato le rampe di lancio dei suoi razzi Qassam sui tetti delle abitazioni civili, facendone così bersaglio dell’artiglieria israeliana. Goldstone, in questo senso, non fa sconti a nessuno. Ma proprio per questo né l’inchiesta in generale, né tanto meno l’iniziativa di far comparire Barak al banco degli imputati di una Corte di Sua Maestà britannica hanno provocato la benché minima reazione.
Attaccare il ministro significa sia colpire il governo Olmert che avallò Piombo fuso, sia prendere come bersaglio un uomo dell’esecutivo israeliano in carica
un testo di parte che non merita di essere preso in considerazione. Offensiva accolta dal governo degli Stati Uniti, che ha respinto la raccomandazione centrale del rapporto Goldstone secondo cui il Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere incaricato di implementarne le conclusioni. Il 16 settembre, infatti. appena un giorno dopo la pubblicazione del documento, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha espresso in una seduta a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza «serie preoccupazioni riguardo a diverse raccomandazioni del rapporto». Sviluppando questo tema, l’ambasciatrice Rice ha affermato che il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, che non dispone di poteri esecutivi, è l’unica sede adatta per qualsiasi azione da intraprendere sulla base del rapporto.
Linea confermata ancor ieri dal vice segretario di stato americano per la democrazia e i diritti umani, Michael Posner, che da Ginevra ha chiesto ad Israele di indagare sulle presunte violazioni commesse durante Piombo Fuso. La battaglia, dunque, nelle prossime ore verterà probabilmente sulla questione di seguire o meno la raccomandazione del rapporto che invita il Consiglio di Sicurezza a deferire la problematica della responsabilità al Tribunale Penale Internazionale, avendo però ben presente che l’operazione potrebbe essere bloccata da un veto degli Stati Uniti e di altri membri permanenti.
Una più ampia riflessione politica
In alto, un “frame” dell’operazione Piombo Fuso, a sinistra, il consiglio per i Diritti Umani di Ginevra e in alto a destra, Barak
suggerisce però che il calcolo minuzioso, alle spalle di questa iniziativa, altro non è che un tatticismo compiuto, o meglio tentato da un gruppo di palestinesi interessato a richiamare ulteriormente l’attenzione sul rapporto Goldstone. Non è un caso che da Gaza, come dalla sede ufficiale di Hamas a Damasco e ancor meno da Ramallah non siano giunte dichiarazioni di sostegno. Il dossier in questione è evidentemente fonte di imbarazzo per chiunque. Per Israele, accusata di aver ecceduto nell’uso della forza contro un nemico sproporzionata-
Ragionando per ipotesi, se il ministro della Difesa israeliano dovesse pagare lo scotto di aver condotto la guerra con metodi “illegali”, si innescherebbe un effetto domino bilaterale. Netanyahu perderebbe una pedina per quanto debole del suo governo. D’altra parte, Barak - per la sua disponibilità a proseguire le trattative di pace - è anche l’uomo politico più presentabile di fronte all’Occidente e ai palestinesi di Fatah. Senza di lui, il premier israeliano sarebbe ancora più schiavo dell’intransigente e provocatore ministro degli Esteri Lieberman. Che dire poi di Hamas, un movimento islamico che indossa da sempre gli abiti della purezza? Goldstone comprometterebbe il lavoro di Khaled Meshal e Ismail Haniyeh nei tentativi di riconciliazione con Fatah e in vista delle elezioni di gennaio prossimo. Da tutto questo è facile giungere alla conclusione che la proposta di arresto per Barak abbia l’esclusivo sapore della provocazione mediatica. Una richiesta di attenzione calcolata bene, ma che vale il tempo che trova.
quadrante
pagina 16 • 30 settembre 2009
Elezioni. Dodici punti di distacco dai tories non fermano il premier Brown, che seduce i delegati del partito e rilancia
Brighton, parte la corsa del Labour Il discorso alla convention apre la lunga corsa alle urne inglesi di Lorenzo Biondi
LONDRA. Retorica obamiana, orgoglio per i dodici anni di governo laburista e la promessa di nuovi servizi per i più deboli. Parte da Brighton, nel sud dell’Inghilterra, la rincorsa di Gordon Brown ai rivali conservatori in vista delle elezioni della prossima primavera. E se forse la distanza tra il Labour e i conservatori (il 12 per cento nei sondaggi) è ormai troppo grande da colmare, quantomeno il discorso di Brown alla conferenza annuale laburista sembra poter ridare vigore alla base del partito. Impresa non da poco, per un partito che - dopo la crisi economica, gli scandali a Westminster e il crollo dei consensi - sembrava arrivato al limite del collasso interno. Gordon Brown, con i suoi tic e la parlata poco spigliata, non è di certo un grande oratore. Si presenta però ai delegati laburisti con un discorso aggressivo, per ribattere alle critiche verso il suo governo e lanciare i temi della campagna elettorale. Lo avevano accusato di aver perso contatto col «Paese reale». Brown non accetta la critica, e vuol mostrare che sono loro, i laburisti, i soli ad essere vicini «alla maggioranza che lavora sodo, e non ai pochi privilegiati». Change è la parola chiave, come già lo fu per Obama; ma qui, dopo tre legislature laburiste, suona in modo ben diverso. Lo status quo che propongono i conservatori, dice il
In libreria
Noi europei pagine 100 • euro 12
stimenti e la creatività delle piccole imprese, e che alcuni servizi bancari verrano delegati agli uffici postali, «per riportare le banche vicino alla gente». Ritornano tanti temi «classici» per il Labour, primo tra tutti l’esaltazione del servizio sanitario nazionale. Gordon Brown apre l’argomento ribaltando le polemiche dei giorni scorsi sul suo stato di salute. Alcuni blog avevano raccontato che il premier sarebbe stato sul punto di dare le dimissioni, a causa del deteriorarsi della sua vista (Brown è cieco da un occhio, dopo un incidente in gioventù sui campi da rugby).
Le ovazioni che interrompono il programma elettorale sono già un ottimo risultato per un politico che sembrava finito da tempo premier, non è un’ipotesi percorribile. Cambiamento è tornare ai valori del ceto medio, della classe operaia tradizionale, che sono stati persi. Al loro posto, spiega il leader laburista, l’avidità dei banchieri e l’ideologia conservatrice del libero mercato hanno portato alla crisi finanziaria. In arrivo
LE
dunque un giro di vite sui bonus per i banchieri, in linea con le decisioni del G20. Brown promette: «Non saranno più i cittadini a pagare per i salvataggi delle banche, ma le banche dovranno ripagare i cittadini britannici». In parallelo il premier annuncia un fondo per finanziare gli inve-
OPERE DI
L’Europa riletta lungo un secolo di grandi trasformazioni. La società e la politica italiana osservate attraverso la lente di una transizione incompiuta. La lezione dei “ribelli al conformismo” che hanno saputo, nel Novecento, indicare un’alternativa ai percorsi della libertà. Questi i temi dei tre libri di Renzo Foa “Noi europei”, “Il decennio sprecato” e “In cattiva compagnia”. Il primo, firmato insieme al padre Vittorio, è un confronto tra due testimoni del “secolo breve” che con occhi
Il primo ministro smentisce e ribatte: «La mia famiglia non aveva i soldi per pagare le mie operazioni agli occhi, il servizio sanitario nazionale è stata la migliore assicurazione che io potessi avere». Ovazione dalla platea, che si ripete all’annuncio di una nuova legge che obblighi gli ospedali a fornire i risultati delle analisi per i malati di cancro nel giro di una settimana. Dodici punti di distacco dai conservatori sono tanti, Brown deve osare e lo sa. A sorpresa lancia la promessa di aumentare il salario minimo - una conquista del Labour di Blair - ogni anno per i prossimi cinque anni. Poi regole più dure contro i «comportamenti antisociali» da parte di minorenni, le cui famiglie verranno inserite d’obbligo in progetti di assistenza.
RENZO FOA ed esperienze diverse osservano le mutazioni del Vecchio Continente e soprattutto degli uomini che lo hanno abitato. Nel secondo, l’autore riflette sulle speranze e le delusioni messe in campo da quel cambiamento iniziato nel 1994 e mai davvero concluso. Il terzo raccoglie gli esiti di un meraviglioso viaggio personale nella vita e nelle opere di quei “grandi irregolari” (da Koestler alla Buber-Neumann, dalla Berberova a Joseph Roth, ma anche De Gaulle e Wojtyla) Il decennio sprecato che per Renzo Foa sono stati pagine 204 • euro 14 maestri riconosciuti.
E nuovi sostegni per le ragazze madre, con l’istituzione di «reti di abitazioni sociali». Ma i soldi? È chiaro che di tagli alle tasse, come propongono i conservatori, non se ne parla proprio. «Ridurremo il deficit assicura l’ex ministro delle Finanze - ma senza tagli ai servizi di base per i cittadini». Verrano invece aumentate le tasse per i redditi più alti, ma senza toccare le fasce più deboli, garantisce il premier.
È un Brown in piena campagna elettorale. Un documento che girava oggi tra i delegati al congresso lascia intendere che le elezioni politiche si terranno il prossimo 6 Maggio. Sette mesi per risanare l’economia e recuperare il consenso perso. Un tema che non può essere eluso, allora, è quello della corruzione a Westminster e delle riforme istituzionali. Il manifesto del Labour conterrà una nuova piccola rivoluzione: i parlamentari che dichiararono spese inesistenti saranno sottoposti ad un voto di conferma da parte del loro collegio elettorale. Ma non solo: dopo anni di discussione, Brown annuncia l’abolizione della Camera dei Lord e del principio ereditario, e l’istituzione di una nuova seconda Camera direttamente eletta. Difficile dire se l’elettorato verrà sedotto dal nuovo corso browniano. Ma Brown ha sedotto il Labour; e, di questi tempi, sembra già un piccolo successo.
EDIZIONI
In cattiva compagnia pagine 177 • euro 12
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30 settembre 2009 • pagina 17
La firma per i protocolli diplomatici il prossimo 10 ottobre
Repressa nel sangue una manifestazione dell’opposizione
Erdogan annuncia l’accordo con l’Armenia
Guinea, massacro allo stadio: oltre 150 morti
PRINCETON. Stavolta pare proprio certo: Turchia e Armenia si riavvicinano dopo quasi un secolo di ostilità e silenzio. Il 10 11 ottobre a Zurigo, grazie alla di Micheline mediazione Calmy-Rey, ministro svizzero degli Esteri, i ministri degli Esteri dei due Paesi, il turco Ahmet Davutoglu e l’armeno Eduard Balbandian, firmeranno un accordo per avviare relazioni diplomatiche. Lo ha annunciato il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan durante la sua conferenza all’università di Princeton, in occasione della sua presenza negli Stati Uniti per il G20, e dopo aver incontrato esponenti armeni della diaspora. Il Premier turco appare determinato:«Vogliamo risolvere le questioni che abbiamo davanti.Vogliamo portare a termine con successo i passi che abbiamo intrapreso con fermezza». E, riferendosi sia all’apertura verso gli armeni che verso i curdi, ha affermato con chiarezza che «in questo processo di democratizzazione tutte le questioni sono a pari livello, ma è impossibile risolverle tutte nello stesso momento, bisogna digerirle e farle digerire piano piano». Già lo scorso aprile Turchia e Armenia avevano annunciato di aver stilato due protocolli per riprendere le relazioni diploma-
CONAKRY. È pesantissimo il
Obama: «Noi a Kabul solo con la Nato» «Quella in Afghanistan non è una guerra americana» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Q
uella in Afghanistan «è una guerra che deve condurre la Nato. Non è una questione esclusivamente americana». Non usa mezzi termini il presidente americano Barack Obama, che ieri ha incontrato il segretario generale dell’Alleanza atlantica (il danese Anders Fogh Rasmussen) per chiarire quale piega prenderà la grande guerra al terrorismo. Il presidente americano, che sta decidendo sull’invio di ulteriori rinforzi in Afghanistan, ha sottolineato: «Stiamo lavorando attivamente e diligentemente con la Nato ad ogni passo» Sulla stessa linea Rasmussen, convinto che «la nostra operazione in Afghanistan non è solo una responsabilità o un onere americano, è e rimarrà un’impresa di squadra» Il capo dell’Alleanza ha anche espresso totale accordo «con l’approccio del presidente Obama: prima la strategia e dopo le risorse», aggiungendo che tutti i Ventotto membri dell’Alleanza occidentale stanno studiando il severo rapporto del generale Stanley McChrystal, il comandante delle truppe Usa-Nato, sulla guerra. Rasmussen, che da parte sua ha rassicurato il presidente americano che l’Alleanza resterà nel Paese fino a quando il lavoro non sarà finito, avrebbe però sostenuto le richieste del militare Usa. McChrystal, universalmente considerato «l’uomo giusto al posto giusto», ha chiesto altre risorse di personale e mezzi per migliorare l’addestramento dei militari locali e rafforzare le istituzioni civili. E Rasmussen è sulla stessa linea di pensiero: «Non possiamo semplicemente continuare a fare allo stesso esatto modo le cose che abbiamo fatto fino ad oggi. Le cose sono cambiate». E, per quanto riguarda la “paternità” della missione, ha aggiunto: «Non accetto da nessuno l’idea che europei e canadesi non stiano pagando il prezzo per i successi che otteniamo in Afghanistan. Perché lo stanno pagando». In un Paese che deve ancora proclamare il suo nuovo presidente, la presa di posizione degli Stati Uniti avrà senza alcun dubbio effetti nefasti. E non è escluso che proprio ieri un messaggio per il
meeting a due sia venuto da Kandahar, dove l’esplosione di una mina nascosta nel terreno ha investito un pulmino con a bordo numerosi passeggeri alla periferia di Kandahar.
Nella roccaforte talebana, capitale del sud del martoriato Paese, sono morte almeno 30 persone, tra cui 10 bimbi e 7 donne. Il bilancio è stato confermato dal ministero dell’Intero, che ha corretto quello dato inizialmente: «La mina eè stata collocata dai talebani», ha detto l’ufficio del governatore. Teatro della tragedia, avvenuta a una quarantina di chilometri da Kandahar, una strada di grande percorrenza dove il giorno prima un’identica esplosione aveva causato la morte di tre persone. La corriera, partita da Herat e diretta a Kandahar, attraversava il distretto di Maywand. Ai soccorsi hanno partecipato soldati afghani e internazionali, che hanno trasportato i feriti negli ospedali da campo militari. Nel frattempo, quasi a voler confermare il cambio di rotta suggellato ieri, il 28 settembre la Strategic airlift capability (Sac), la componente strategica di trasporto aereo della Nato, ha condotto la sua prima missione a supporto di Isaf, la missione dell’Alleanza atlantica in Afghanistan. La componente operativa, la Heavy airlift wing (Haw) di stanza alla base aerea di Papa in Ungheria, ha inviato il primo volo carico di materiali a Mazar-e Sharif (nel nord), per rifornire le truppe svedesi nell’area. L’Haw aveva già volato diverse volte, fornendo supporto in altri teatri come il Kosovo, ma si tratta della prima volta che la destinazione è l’Afghanistan. E questo rappresenta una importante pietra miliare per il programma Sac, lanciato tre anni fa per acquistare altrettanti velivoli C-17 Globemaster III, al fine di incontrare le esigenze di aviotrasporto di dodici nazioni partecipanti all’iniziativa. Forse, rappresenta anche una testa di ponte per un maggior coinvolgimento del Patto nel teatro dell’ultima grande guerra in corso. Quella di Obama infatti non è stata un’affermazione estemporanea, ma un nuovo progetto.
Incontro a Copenhagen con il segretario generale Rasmussen: «Prima decidiamo le strategie e poi le risorse»
tiche, riaprire la frontiera e fissare una serie di misure graduali per migliorare i rapporti, i documenti, però, dovranno poi essere ratificati dai parlamenti nazionali prima di entrare in vigore. E tutto ciò incontra ancora forti opposizioni interne, da entrambe le parti. Si sta ancora trovando un accordo per la dolente questione del Nagorno Karabakh, la regione a maggioranza armena in territorio azero teatro di una sanguinosa guerra negli anni Novanta e a causa della quale la Turchia chiuse le frontiere nel 1993 in solidarietà con l’Azerbaijan, il Paese musulmano suo alleato, che stava combattendo contro i ribelli separatisti armeni.
bilancio delle vittime nei disordini in Guinea. Secondo l’opposizione sono state uccise 128 persone, ma stando alle informazioni diffuse da una Ong sono stati contati 157 cadaveri e più di 1.200 feriti. La leader dell’opposizione, Sydia Toure, ha denunciato che almeno 128 persone sono morte durante la manifestazione non autorizzata di lunedì a Conakry per contestare la candidatura del capo della giunta militare, il capitano Moussa Dads Camara, alle presidenziali di gennaio. Secondo Thierno Maadjou Sow, a capo dell’Organizzazione per i diritti umani in Guinea, i morti sono 157 e i feriti 1.253. La Francia intanto ha deciso di in-
terrompere la cooperazione militare con la Guinea e di rivedere la politica di aiuti. Il presidente Nicolas Sarkozy ha chiesto nel summit di domani sia affrontata anche l’adozione di «misure aggiuntive». La notte è trascorsa nella calma anche se ancora ieri sera era possibile udire sporadici colpi di arma da fuoco. Secondo l’agenzia di stampa Misna, che cita Isabelle Bourges, a Conakry per la Croce rossa, quando nella capitale guineana sono le prime ore del mattino si cominciano a tirare i primi bilanci delle violenze seguite ieri a una manifestazione non autorizzata per chiedere elezioni libere e il ritorno ai civili del governo, da oltre 25 anni in mano ai militari. «Gli ospedali sono al limite delle loro possibilità» ha aggiunto Bourges «non è ancora chiaro se durante la notte l’esercito abbia presidiato le strade o effettuato arresti, la gente sembra traumatizzata, la città appare come sospesa, c’è poco traffico e in pochi si avventurano fuori casa». Fonti giornalistiche locali riferiscono che l’esercito ha arrestato diverse persone, tra cui esponenti dell’opposizione e della società civile che si trovano ora a Camp Alpha Yaya Diallo, la più grande base militare di Conakry.
cultura
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Polemiche. Al termine delle celebrazioni per il centenario del futurismo, resta aperta una lacuna grave nella divulgazione del primo Novecento
Il caso Ardengo Soffici La cultura «ufficiale» si è dimenticata di riabilitare l’artista che introdusse le avanguardie in Italia di Furio Terra Abrami ella letteratura italiana del secolo scorso c’è un caso ancora aperto: un caso che non riguarda solo il mondo della scrittura, ma anche quello figurativo e, in un certo senso, pure quello storico: Ardengo Soffici. Ciò che lo configura come tale è che l’opera di Soffici appare assolutamente trascurata, quando non veramente rimossa, nonostante l’importanza della sua statura artistica. È una situazione singolare che attrae per la freschezza dell’argomento e per lo spazio di riscoperta che concede a chi s’inoltra nella sua esplorazione.
N
Non si può ignorare l’importanza della sua opera, oppure liquidarne la personalità secondo lo stereotipo di un ottuso e becero fascista come in certi casi ancora accade. Mi chiedo come sia possibile che la sua immagine non goda dei riconoscimenti che merita nonostante siano sotto gli occhi di tutti i legami d’amicizia e di stima artistica e letteraria che Ardengo Soffici strinse con le figure più prestigiose delle Avanguardie storiche internazionali. Naturalmente, so bene come l’attività di Soffici sia riportata in qualsiasi manuale o antologia del Novecento: la segnalazione della sua presenza appare ovvia e inevitabile anche a chi storce la bocca davanti a essa e la preferisce considerare irrilevante. So che sono rintracciabili studi, anche importanti, a lui dedicati. Ma tutto questo è avvenuto in un ambiente ristretto: in un ambito fuori dal quale la sua immagine torna a essere considerata poco significativa quando non impresentabile. Quello che qui preme di mettere in rilievo è come a livello di diffusione Ardengo Soffici sia stato dimenticato: come, ancora oggi, la sua figura non riesca a entrare in un patrimonio comune di larga conoscenza, a prescindere dalle discutibili, e in certi casi sciagurate, scelte politiche in cui s’impegnò. È un fatto questo che appariva già strano e ingiusto una ventina/trentina di anni fa… ma oggi… con lo sdoganamento di tutte le figure culturalmente prestigiose che si era-
no compromesse con il regime fascista… appare francamente incomprensibile. Se si pensa a Marinetti (oggi tanto, e forse troppo, di moda) o a Gentile, tanto per citare i casi più celebri, diventa impossibile non sorprendersi della sorte toccata a Soffici.
Mi sono recato dunque a Poggio a Caiano dove ha sede l’associazione culturale “Ardengo Soffici” che coltiva una poco nota, ma meritoria, opera di memoria. Grazie a Luigi Corsetti, prezioso e generoso presidente dell’associazione, ho po-
Scoperto l’impegno a Parigi, tornò nella sua Toscana, da dove aderì con entusiamo al fascismo. Che però poi lo deluse tuto trovare ampie conferme a queste mie affermazioni. Qui, di fronte alle testimonianze dirette della sua attività, la domanda si è imposta da sola: cosa ha impedito, oltre alla causa d’origine politica, qualsiasi operazione di recupero? Probabilmente col tempo è subentrata quella pigrizia mentale, quell’ottusità schematica che sempre impedisce di andare ad alterare giudizi dati per acquisiti. Vi potrebbe essere poi anche un motivo molto più semplice ma non per questo meno efficace: la sostanziale irreperibilità dei suoi scritti. È un fatto che la sua opera è veramente difficile
da trovare. È forse l’unica rimasta, tra quelle della sua importanza, ad essere priva dell’attenzione di una collana come quella dei Meridiani. E invece: pittore, scrittore d’arte, poeta, narratore, frammentista, polemista, divulgatore, memorialista, Ardengo Soffici ci ha lasciato prove tali del suo talento che, pur tra inevitabili cadute di tono e di risultati, ancora oggi non fanno rimpiangere il tempo che gli si dedica.
Nato nel 1879 da una famiglia sufficientemente benestante delle campagne fiorentine, Ardengo Soffici si trasferì in città dopo un rovescio finanziario della famiglia a cui il padre non sopravvisse. Dopo un’intensa ma disordinata formazione, insoddisfatto dell’ambiente che lo circondava e insofferente del provincialismo culturale allora dominante in Italia, partì alla volta di Parigi nel 1900. Ha inizio così il periodo più importante della sua vita. Per quanti mutamenti potranno successivamente intervenire, quegli anni passati nella capitale francese fino al 1907 costituiranno il patrimonio culturale che l’accompagnerà per il resto della vita. Qui, in una vita condotta tra stenti, grandi amori e straordinarie esperienze culturali, visse la sua Bohème d’artista anarchico e d’avanguardia. Qui conobbe i più importanti personaggi della scena culturale europea e strinse forte e sincera amicizia con i più importanti di essi: Picasso, Apollinaire, Max Jacob, Bracque… Qui, infine, partecipa con le proprie opere alle più interessanti esposizioni artistiche di quel momento tanto significativo per la cultura moderna. Dunque, è dal cuore dell’ambiente culturale più avanzato d’Europa che acquisisce gli strumenti fondamentali per compiere quell’opera di divulgazione e di modernizzazione della vita culturale italiana, che, comunque si vogliano considerare le sue opere, resta il merito principale della sua azione: «Io sono uno spalancatore di finestre» (Atelier). Nel 1907 fa ritorno a Firenze stabilendosi
definitivamente
Due opere di Ardengo Soffici e, a sinistra, un suo ritratto da giovane e, nella pagina a fianco, un’immagine in vecchiaia. La cultura italiana sembra aver dimenticato la sua lezione, soprattutto in funzione della sua capacità di divulgare le novità delle avanguardie europee: dal cubismo al surrealismo
cultura ro lirismo che, mescolato al dato immediato, trova nella scrittura frammentistica la soluzione più adeguata. Nasce dunque nel ’14 Arlecchino, libro che rappresenta esemplarmente l’esito formale di quella generazione: la ricerca di una più profonda autenticità da ritrovare nelle accensioni fugaci e negli squarci lirici. Nel frattempo nel’13 ha fondato Lacerba, rivista d’ispirazione futurista che dirige con Papini, partecipando anche qui da protagonista al più noto movimento d’avanguardia italiano. È dalla raccolta delle pagine del diario tenu-
nei suoi dintorni: in quella Poggio a Caiano da dove, a parte ricorrenti ritorni a Parigi, non si muoverà più innestando la sua avventura artistica nell’amatissima campagna toscana. Traduce e promulga le opere di Cechov. Inizia la collaborazione alla Voce di Prezzolini partecipando da protagonista al dibattito pubblico che la rivista promuove. Spiega e fa conoscere l’Impressionismo e il post-Impressionismo con articoli dal tono vivace e godibilissimo . Introduce con un’esemplare chiarezza espositiva, frutto di un’esperienza vissuta dall’interno, la conoscenza di figure come Degas, Renoir, Cezanne, Gauguin e Van Gogh. Nel 1909 richiama l’attenzione del pubblico sul caso artistico di Medardo Rosso: nello stesso anno esce quell’Ignoto toscano che è la prima delle ricorrenti trasfi-
gurazioni sul piano creativo della sua esperienza biografica e intellettuale. Realizza nel ’10, la prima mostra italiana dedicata al movimento francese, mentre nell’11 pubblica un volume monografico, Arthur Rimbaud, in cui fa conoscere, primo in Italia, la straordinaria figura del poeta francese. L’impatto rivoluzionario dell’arte moderna trova in lui il più attrezzato corifeo quando presenta, sempre sulle pagine della Voce, i risultati delle ricerche di Picasso e Braque, con gli articoli sul cubismo. Ancora nel ‘11 pubblica Lemmonio Boreo: abortito progetto romanzesco dal poco riuscito esito artistico (e dall’invero non gradevole aspetto civile).
Dopo l’emblematico fallimento nel romanzo, mette a fuoco la sua creatività in un pu-
to su questa rivista che nasce uno dei suoi libri più belli, quel Giornale di bordo del ’15 che per freschezza d’esposizione, per rapidità di tocco e felicità espressiva farà di Soffici il più tipico esponente di tutta una stagione culturale. Ancora nel ’15 esce Bis&zf+18 Simultaneità e chimismi lirici uno dei più singolari esempi di poesia avanguardistica. Se pure non sempre riuscita e originale nei singoli esiti artistici, questa raccolta contiene però alcune delle pagine più felici e trascinanti di tutta la lirica novecentesca. Sempre in quel frenetico anno d’anteguerra raccoglie gli scritti d’arte e di letteratura: Cubismo e Futurismo; Scoperte e massacri; Statue e fantocci; Primi principi di un’estetica futurista, resteranno le pagine di più felice divulgazione di quella temperie culturale che è all’origine del moderno.
Poi esplode la guerra che dopo averlo trovato tra i suoi più accesi sostenitori, agirà su di lui compiendo una trasformazione radicale dell’uomo e dell’artista. «Sono uscito dalla guerra un altro uomo» dirà a proposito della sua esperienza. La memorialistica che produrrà a tal proposito sarà tale da potere essere messa accanto ad altre pagine coeve che interpreteranno la guerra sotto l’aspetto lealistico. Penso, per la capacità d’osservazione, al-
30 settembre 2009 • pagina 19
lo Junger delle Tempeste d’acciaio ma con un più caldo senso d’umanità; oppure alla Mano mozza di Blaise Cendrars per quel colore picaresco dell’avventura vitale che però s’incontra nel toscano con il senso della misura tipico della sua terra. Solo le sue future prese di posizioni politiche possono aver impedito una giusta ricezione di questi testi. Ricezione che altrimenti, sgombra da pregiudiziali, avrebbe dovuto riconoscere in Kobilek soprattutto, ma anche nella Giostra dei sensi ne La ritirata del Friuli e nelle pagine di Errore di coincidenza, una delle testimonianze letterariamente più riuscite dell’esperienza bellica. Qui termina la parte più eroica della sua avventura artistica e con essa anche la ricerca di nuovi territori da esplorare. D’ora in avanti si attesterà, sia in pittura che nella scrittura, su una di posizione conciliazione dell’eredità classica con una modernità impostata sulle conquiste dell’Impressionismo. Inserendosi a pieno diritto nel movimento del ritorno all’ordine, le sue forze saranno d’ora in avanti tutte dirette a realizzare quell’equilibrio.
La parabola comincia la sua parte discendente. La sua insipienza politica («...di politica non capisce nulla …» diceva Prezzolini) e anche una rara dote di lealtà e coerenza verso le proprie scelte e i propri ideali, gli fece credere d’avere trovato nel fascismo e, in Mus-
I suoi testi sono veramente difficili da trovare: tra gli autori della sua importanza, è l’unico rimasto fuori dai prestigiosi Meridiani solini in particolare, non solo un movimento capace di rialzare le sorti del paese, ma anche lo strumento ideale per realizzare il suo programma artistico e civile. La sua entusiastica adesione del primo momento andò inevitabilmente scemando fino a raggiungere la delusione e infine il distacco. Rifugiatosi definitivamente a Poggio a Caiano intorno al ‘24, da lì non si mosse più, attendendo con continuità alla sua multiforme attività artistica nella salda e serena
convinzione di una strada da percorrere. Ma la sua produzione risentì dell’equilibrio raggiunto, e anche se singoli esiti felici sono certo presenti sia negli scritti che nei dipinti, l’evoluzione s’interruppe e la sua posizione non aveva più nulla di nuovo da dire. Passata la seconda bufera bellica che lo vide pagare di persona, con fierezza e onestà, la fedeltà a un regime (ma soprattutto a un ideale italiano) che pure tanto lo aveva deluso, Soffici apparve sopravvivere come un episodio sul cui presente si poteva sorvolare.
Chiuso e auto-rinchiusosi in un ghetto culturale che tanto danno avrebbe poi portato alla sua immagine, lo scrittore teneva in serbo però quella zampata da vecchio leone che è l’Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo. Agile e fresca rievocazione dei suoi primi quarant’anni di vita, questo libro ci dona una testimonianza che è tra le più godibili di una stagione irrepetibile per la cultura europea. Morì nel 1964 vicino a Forte dei Marmi dove possedeva una casa di villeggiatura. Se la superficialità fu forse il suo difetto, il suo indubitabile pregio fu il respiro internazionale che introdusse nel dibattito italiano sposandolo a un senso della natura inconfondibile: «…e si senta per sempre quest’onda melodiosa di azzurro sulla mia testa, quegli strappi di luce sulle montagne lontane, fra i rami nudi dei pioppi. Questo profondo e limpido mistero sulle cose». I suoi contemporanei dissero che «…Soffici non è né un’opera né un genere: è un dono. Una cosa fluida; un colore schietto… il piacere di una frase sola, buttata là e che si regge di per sé, trasparente, limpida… è uno per cui le parole non solo esistono; ma vivono: sono una gioia e un desiderio, che si esprime tutto, con la felice sobrietà dei classici…» (Renato Serra). Le generazioni venute dopo riconobbero che «Ventunenne nel 1900, egli è il pioniere della novità del nuovo secolo, s’inserisce per primo nel giro attivo della scoperta» ( Alessandro Parronchi). A noi che riteniamo giusto e piacevole tornare a leggerlo per ridargli il posto che merita, piace riportare una considerazione su se stesso che stese dopo uno scampato pericolo in guerra. Questa frase ci sembra indicativa, nella sua ingenuità, dell’immediatezza che caratterizzava sia l’autore che l’uomo: «…M’indugio a immaginare il mondo senza di me… Certo mi pare che il suo valore sarebbe notevolmente diminuito dalla mia assenza. Mi sembra che sarebbe venuto a mancare come una forza di slancio ideale, una luce poetica, un sorriso di gioventù; una testimonianza d’amore umano e divino».
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cultura
Libri. Il nuovo romanzo dello scrittore americano: un’altra riflessione sulla morte, dopo “Everyman” ed “Exit Ghost”
L’indignazione secondo Roth di Antonio Funiciello La tenacia di Philip Roth si è misurata nel tempo con la capacità di far fare al sogno americano (in cui pure lo scrittore continua a credere) i conti con le sue miserie. Nessun altro narratore statunitense è stato così assiduo nell’interrogare il suo Paese sul senso delle sue sempre rinnovate ambizioni di crescita. E il fatto che Roth non le biasimi affatto, non fa che complicare le cose osa sta cercando Philp Roth, negli anni della sua vecchiaia, ostinandosi ad avere a che fare con la letteratura? Se si mette da parte per un attimo la costanza degli esiti esemplari della sua prosa (sospensione di giudizio in sé e per sé assurda), questa è la domanda che tocca rivolgersi dopo aver letto Indignazione (Einaudi). Due anni fa, con il suo commiato all’alter ego Nathan Zuckerman in Exit Ghost, Roth ha forse esplicitato a partire dal titolo quanto va cercando nell’ultima fase della sua vita. Un modo di uscire di scena e una riflessione, l’ultima e la più ambiziosa, sul senso stesso dell’uscire di scena. Everyman, capolavoro del 2006, era in fondo stato un tentativo d’interrogazione sulla dicibilità letteraria della morte. La morte di un uomo qualunque, così “qualunque” da non chiamarlo mai per nome per tutte e 124 le pagine della sua storia. L’uscita di scena di un uomo qualunque a partire dal momento della sua tumulazione nello spoglio cimitero di Elizabeth, in New Jersey, che non poco ricordava il seppellimento di Humboldt, nelle pagine conclusive dello straordinario romanzo di Saul Bellow (Il dono di Humboldt), l’amato maestro di Roth.
C
Indignazione è un tentativo, se è possibile, ancora più complesso di fare i conti con la morte. Perché mentre lo Zuckerman di Exit Ghost e il pubblicitario di Everyman erano due vecchi per cui l’uscita di scena (attesa dal primo e improvvisa per il secondo) è qualcosa nei confronti del quale doversi attrezzare e sperimentare, il protagonista di Indignazione, Marcus Messner, ghermito dalla morte per il bavero della sua divisa militare negli scontri della guerra di Corea, ha soltanto 19 anni. Figlio di un oppressivo macellaio kosher di Newark, convinto che il figlio abbia i giorni contati a causa dei mille pericoli della vita, Marcus si trasferisce dall’università vicino casa al Winesburg College in Ohio. Obiettivo: essere il migliore studente del suo anno per evitare di fini-
re in Corea (siamo nel 1951) come soldato semplice, facendosi ammazzare dai nord-coreani. Obiettivo che viene mancato a causa dell’indignazione di Marcus Messner nei confronti del conformismo borghese dell’America d’inizio anni Cinquanta, che nel suo college impone tra l’altro di partecipare a settimanali funzioni religiose.
Casualmente Marcus viene a sapere da un amico che può pagare qualcuno perché ci vada al suo posto. Scoperto, finisce morto ammazzato in Corea. Il libro consta della narrazione dei ricordi del morente Marcus Messner, tenuto
scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati».
Il realismo di Roth svela in questo romanzo il suo darwinismo. Nel gioco impazzito dell’evoluzione, quelle discrete variazioni che favoriscono la sopravvivenza di alcuni membri della razza umana, piuttosto che altri, avvengono casualmente. Roth finisce per non essere un naturalista perché la sostanza della sua prosa sta nella coscienza tragica che pervade, viviseziona e spesso disprezza il suo darwinismo. Il realismo rothiano non si era mai mostrato tanto
Il realismo rothiano non si era mai mostrato tanto scabro ed essenziale come in questa opera. La vecchia rabbia dell’autore diventa “indignazione” nei confronti di una giovane vita infelice nelle ultime ore di vita in stato di semicoscienza dalla morfina. Roth costruisce il romanzo sulla scia di questo flusso ordinato di memorie che riportano accadimenti concatenati dal caso e condotti banalmente verso la morte del protagonista. Marcus è convinto che la sua fiera formazione umanistica (con la stella polare Bertrand Russell a fare da guida) lo difenderà dagli agguati delle vita e dalle idiosincrasie dell’apprensivo padre. Come il Moses Herzog dell’omonimo romanzo di Bellow, che non comprende come la sua robusta educazione liberale non gli sia di nessun aiuto nel districarsi coi guai d’ogni giorno, così è il povero Marcus Messner. Il paragone non è improprio. Messner, come Herzog, si sente pronto ad affrontare ogni cosa perché forte di quanto i libri gli stanno dando negli anni densi del suo apprendistato. Certo il suo sbigottimento nei confronti del modo inatteso in cui la vita gli sconvolge i piani non è comico come quello di Herzog e conduce al più tragico degli epiloghi. Eppure non manca neppure di un certo umorismo. A Messner, come a Herzog, sfugge «il terribile, incomprensibile modo in cui le
scabro ed essenziale come in questo libro, in cui la vecchia rabbia di Roth si veste di indignazione nei confronti di una giovane vita così incolpevolmente infelice, facendo il paio con quella del protagonista del romanzo. Intanto, più il contesto storico è sullo sfondo definito, più sembra contare meno. La tenacia di Roth si è misurata nel tempo con la ca-
pacità di far fare al sogno americano (in cui pure lo scrittore continua a credere) i conti con le sue miserie. Nessun altro narratore statunitense è stato così assiduo nell’interrogare il suo Paese sul senso delle sue sempre rinnovate ambizioni di crescita. E il fatto che Roth non le biasimi affatto, ma anzi se ne senta uno dei massimi interpreti spirituali, non fa che complicare le cose. Per quanto il sogno resti tale, la morte è dietro l’angolo pronta ad inghiottire tutto nel vuoto insensato della sua gola.
Se i paragoni tra gli ultimi libri di Roth e l’opera del suo maestro Saul Bellow sono più che fondati, quando fino a qualche anno fa era difficile trovarne di interessanti, lo scrittore di Brick City (la ”città del mattone”, come è soprannominata la natìa Newark) resta originalissimo per approccio narrativo. L’aggressività della sua prosa è ancora tale, anche oggi che Roth si mostra più guardingo nel darle sfogo. Mentre Messner ricorda le vicissitudini che lo hanno portato incosciente su un letto d’ospedale - e non sa se è ancora vivo o è già morto, se è in paradiso o all’inferno o se è davvero in qualche posto o in nessun luogo - non si smarrisce. La sua memoria è vorace e non dà mai occasione alla sua narrazione di prendere il sopravvento sulla voce narrante, tratto distintivo in Roth. Eppure questo flusso di ricordi, questo pugnace movimento a rebours, è assunto nel romanzo a partire dalla sua fine, dalla morte del suo protagonista. Quell’aggressività tipica di Roth, che nel suo ininterrotto slancio vitale ha in fondo cercato soltanto di negare la possibilità della sua fine, in questo libro nasce proprio da essa. Sembra ammettere in conclusione: non è finita, finché non è finita; ma quando è finita, è finita veramente.
spettacoli Max Cavallo non suggeriva cosa fare, ti faceva credere di esserne tu l’artefice. Segno questo di modestia e nobiltà d’animo. Era davvero una persona con un animo nobile e discreto
andate sul sito e imdb.com e provate a digitare il titolo del film di Pier Paolo Pasolini Il vangelo secondo Matteo, del 1964, e poi cliccate su “filming locations”, il formidabile motore di ricerca vi elencherà una lunghissima lista di luoghi utilizzati dal regista bolognese per le riprese. In cima troverete “Apulia, Italy”. Quell’Apulia, ovviamente, sta per Puglia. E come indicazione è decisamente vaga. D’altra parte non è ragionevolmente ipotizzabile che ogni località sia descritta nel dettaglio. A questa mancanza in particolare possiamo però rimediare noi. Il luogo dell’Apulia è una cittadina vicina a Taranto, Massafra. È esattamente lì che furono ambientate alcune delle scene più suggestive del capolavoro di Pasolini. Ed è lì che nei giorni scorsi si è svolto un festival, un piccolo festival, dedicato ad una persona a noi molto cara, Max Cavallo.
S
Max era, ma è più giusto dire è, perché Max rimarrà sempre con noi, Max, dicevamo, era un videomaker. Parola questa, piuttosto brutta, con la quale si indicano in maniera piuttosto generica coloro i quali usano suoni e immagini e parole per realizzare opere visive. In realtà Max è decisamente qualcosa di più. E noi lo abbiamo capito in due circostanze: quando lo abbiamo incontrato per la prima volta, e quando ne abbiamo sentito parlare da suo fratello Mino e dal suo amico carissimo Massimo. La prima volta fu in un piccolo scantinato, sede operativa di uno dei tanti piccoli service che realizzano produzioni televisive per tv di vario genere. La prima cosa che ci colpì fu la sua silenziosa operatività, tipica di chi sa fare il proprio lavoro e lo apprezza in ogni suo momento, come se fosse un dono. Max stava montando una puntata di una trasmissione di cinema, sua grande passione. Ora, se c’è una cosa che si impara lavorando a stretto contatto con un tecnico dell’immagine, è che nove volte su dieci lui ne sa più di voi, che magari avete aspirazioni ultraterrene alla Kubrick ma poca dimestichezza sul come realizzarle. Max non faceva eccezione, con una piccola differenza. Lui non suggeriva cosa fare, ti faceva credere di esserne tu l’artefice. Segno questo di modestia e nobiltà d’animo. Max era davvero una persona con un animo nobile, discreto quando gli altri sono al massimo scorbutici, e gentile, in
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Cinema. A Massafra, in provincia di Taranto, la kermesse dedicata a Max Cavallo
Il fascino discreto dei piccoli Festival di Alessandro Boschi luogo di chi riesce sotto sforzo ad essere appena cortese. Quando Max se ne è andato, nel gennaio scorso, noi non potevamo dire di conoscerlo così bene come avremmo voluto, ma senz’altro, oggi, possiamo dire di avere avuto il privilegio e di essere stati suoi amici sebbene per un periodo così breve.
Ma certe amicizie non si interrompono, proseguono anche quando una persona non c’è più. Gli amici e i parenti di Max hanno infatti deciso di creare una fondazione intitola a lui e, in pochissimo tempo, hanno realizzato un bellissimo festival che porta il suo nome, il “Max Fest”. L’estate è un periodo in cui si svolgono centinaia di festival, quasi tutti inutili, che nella stragrande maggioranza dei casi servono a certi personaggi che vivono nel sottobosco del cinema a premiarsi gli uni con gli altri in una ridicola (se non fosse anche costosa) esibizione di cinematografari molto distanti da qualsiasi talento. Ora,
Teatro della manifestazione, la cittadina in cui furono girate alcune delle scene più suggestive del “Vangelo”di Pasolini voi capite che in questa estate ricca di gossip trovare invece una manifestazione piccola, persino minuscola, ma con un grande cuore pulsante, è stata davvero un sorpresa piacevole.
Il “Max Fest” ha anche uno scopo, uno scopo nobile, che è quello di aiutare quei giovani che per realizzare i propri sogni sono costretti ad abbandonare il proprio paese e avventurarsi nel “gomitolo di strade” delle città. Ma tutto ciò porta spesso ad allontanarsi in maniera eccessiva dalle proprie origini, dalle proprie radici. In una parola dai propri affetti. Per questo gli or-
ganizzatori, con una trovata davvero geniale, hanno pensato di proiettare durante le serate del festival il film di Carlo Mazzacurati, La giusta distanza.
La giusta distanza è davvero ciò che oggi manca a tanti, troppi giovani, della provincia ma non solo. La giusta distanza dovrebbe essere quella che pur allontanandoti dal nido ti consente di mantenere sempre vivi quelli che resteranno, sempre, i rapporti più importanti della tua vita. Solo così, a nostro modo di vedere, potrebbe essere possibile e realizzabile un crescita che non sia sradicamento ma integrazione e sviluppo. Max lavorava a Roma, ma le sue radici pugliesi erano ben salde. È questa la seconda circostanza alla quale ci riferivamo sopra. Quando Massimo e Mino sono saliti, piuttosto esitanti e commossi, sul palco allestito in uno dei tanti bellissimi scenari di Massafra per annunciare che alla serata avrebbero partecipato Lucia Baldini e Valentina Lodovini, rispettivamente fotografa di scena a protagonista del film di Carlo Mazzacurati, si capiva che grazie al cielo non erano dei professionisti. Che facevano quella cosa perché davvero spinti dall’amore e dal ricordo di Max. Sono questi i dettagli che fanno la differenza, e che hanno fatto del “Max Fest” una bellissima realtà, alla quale auguriamo lunga vita. Fare le cose col cuore è una cosa sempre più rara. Come rara è la sopravvivenza di queste piccole realtà culturali, sempre più indebolite da tv e modelli deteriori. Dei guasti della tv è persino superfluo parlare. Per quello che riguarda i modelli deteriori e sufficiente vedere quali sono e quali stanno diventando i maître à penser della nostra epoca. Sempre grazie alla tv, è ovvio. Noi crediamo che manifestazioni come quella di Massafra vadano salvaguardate come il panda, perché sono davvero una risorsa importante, perche rappresentano una preservazione culturale sana, distante anni luce da quella becera volgare e violenta che attraversa il nostro Paese partendo dal nord. Ricordate quando tanti anni fa (ma non così tanti a pensarci bene) nacquero le prime emittenti televisive private regionali o in certi casi ancora più piccole? Si diceva che sarebbero servite a custodire il patrimonio culturale delle regioni e di certe realtà in via di estinzione. Poi però, queste tv più piccole si misero a scimmiottare miseramente la tv “più grande”. Ed è per questo che, se non stiamo attenti, non ci libereremo più di nani e ballerine.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”International Herald Tribune” del 29/09/2009
Mosca e Tblisi, pari e patta di Ellen Barry ari e patta tra Georgia e Mosca? Dopo una lunga indagine gli investigatori della Ue non avrebbero condiviso le ragioni di Tblisi, usate per giustificare l’attacco militare in Ossezia del sud. Scatenato nell’agosto del 2008, e che provocò un breve conflitto con le truppe russe. Secondo alcune indiscrezione trapelate sul rapporto finale, la natura «difensiva» dell’attacco georgiano non avrebbe convinto i valutatori europei. Ma il documento finale sarebbe molto equilibrato, secondo quanto riferito da una fonte che ha chiesto di restare anonima.
P
Se è stata la Georgia a sparare il primo colpo, la Russia dal canto suo avrebbe scatenato e sfruttato le condizioni che hanno portato alla guerra con Tblisi. Negli anni precedenti il conflitto, Mosca non ha fatto che incoraggiare i movimenti separatisti in Abkhazia e Ossezia del sud – in pieno territorio georgiano – addestrando le loro forze paramilitari e distribuendo passaporti russi. L’inchiesta dell’Unione Europea è fino ad ora, la più autorevole sulla vicenda. La guerra dell’agosto 2008, ha coinvolto e messo a dura prova le relazioni tra Russia e Occidente dai tempi della guerra fredda. Mosca e Tblisi hanno entrambe sostenuto di essersi difese. Incoraggiate da questo sentimento, entrambe hanno cercato di esercitare pressioni internazionali, in modo da far condannare l’avversario. Gli investigatori hanno gelosamente custodito – indiscrezioni a parte – il contenuto della relazione, che sarà resa nota, mercoledì, a Bruxelles in occasione del consiglio dei ministri Ue e poi resa pubblica. Accusando entrambe le parte difficilmente il rapporto risolverà la diatriba sollevata a livello internazionale. Molti Paesi hanno già preso posizione sulle en-
clave russe in Georgia, che solo Mosca, il Nicaragua e il Venezuela hanno riconosciuto come Stati sovrani. Sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno accusato il Cremlino di aver cambiato i confini della Georgia con la forza. E di aver violato l’accordo in sei punti, proposto dalla Francia e siglato da Mosca, per il cessate-il-fuoco, che prevedeva il ritiro delle truppe russe oltre i confini anteguerra. Ma l’indagine permette di rivelare chi abbia veramente acceso le polveri. Il presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, aveva detto di non aver avuto scelta, se non quella di ordinare il bombardamento di Tskhinvali, la capitale dell’Ossezia del Sud. Spiegando, più o meno, che era necessario per fermare gli attacchi contro i villaggi georgiani, portare la regione sotto controllo e per respingere un invasione russa già in corso.
La Georgia ha anche pubblicato le intercettazioni telefoniche dalle guardie di confine ossete, per dimostrare la presenza di un reggimento blindato russo in Ossezia del Sud, per tutto il giorno precedente l’attacco georgiano a Tskhinvali. Il Cremlino ha affermato di aver invaso la Georgia per proteggere i cittadini russi, sulla base della documentazione che Mosca aveva sulla presenza di cittadini con passaporto russo nella enclave separatista. Afferma anche che è stata costretta a fermare un genocidio, l’invocazione di un principio di estrema gravità nel diritto internazionale. I russi volevano anche difendere la presenza dei propri peacekee-
per, legittimamente presenti nella regione. E questo sembra un appiglio legale più solido per Mosca. Comunque è difficile poi comprendere come, secondo queste finalità, i militari di Mosca abbiamo invaso la regione centrale del Paese, con l’utilizzo di bombardamenti. Guidata da un diplomatico svizzero, ambasciatore Heidi Tagliavini, l’indagine, conosciuta come Independent international FactFinding mission sul conflitto in Georgia, è stata avviato nel mese di dicembre. I Paesi dell’Europa orientale, sostenevano che la politica della Russia in Georgia incarnasse delle pericolose tendenze espansionistiche.
In Europa occidentale erano più scettici su Saakashvili, che aveva trasformato, la riconquista del controllo su Abkhazia e Ossezia del Sud, in un obiettivo politico della sua presidenza. A Mosca il pareggio non piace, non solo, ma si aspettava che venisse tirata in ballo anche l’Ucraina come sponsor di Tblisi.
L’IMMAGINE
Crisi economica e retribuzione dei calciatori: una vera e propria assurdità Gli alti compensi dei calciatori della massima serie ritengo meritino qualche riflessione. Di recente, a un noto calciatore è stato rinnovato il contratto per cinque anni con un compenso netto di cinque milioni di euro all’anno, pari a diecimiliardi delle vecchie lire. Oltre 13.000 euro al giorno,senza contare premi di partita o sponsorizzazioni: una cifra che molti diplomati e laureati non riescono a guadagnare nemmeno in un anno. A me sembra eccessiva ed è un’assurdità se posta in relazione alle modeste retribuzioni e alla precarietà di molti ricercatori scientifici, che sono stati costretti a lasciare il Paese, dando vita alla cosiddetta “fuga dei cervelli”. Prima di chiedersi se le alte retribuzioni siano determinate dalle leggi del mercato, c’è da chiedersi se le società calcistiche ricevono contributi dagli enti pubblici. Se sì, il problema è moralmente non corretto. E infatti si verificherebbe l’impiego di parte di tributi e tasse per impinguare un mercato che pratica alte retribuzioni in contrasto con la recessione economica.
Luigi Celebre
DOPO CHIANCIANO RIMBOCCHIAMOCI LE MANICHE È un vecchio trucco. Quando si è a corto di argomenti unica via d’uscita rimane quella di intorpidire le acque, insultando gli avversari, usando un linguaggio molto colorito e creando nuovi problemi. È quello che purtroppo avviene nella vita politica italiana, il che mentre mostra un decadimento di valori che allontana sempre più i cittadini dal palazzo. Quanto questo gioco al massacro potrà dare frutti positivi a chi lo pratica non siamo in grado di pronosticarlo, anche se si notano evidenti segni di rigetto negli elettori per cui potrebbe dare risultati opposti a quelli desiderati. È diventata ormai risibile la continua attribuzione di tutte le col-
pe ai comunisti, ai quali si addebitano tutti i mali passati, presenti e futuri. Tale atteggiamento ci ricorda l’aneddoto relativo a un vecchio don Giovanni che attribuiva la sua incapacità alla sua partner. Non si può tirare la corda all’infinito, rinviando la soluzione dei problemi e mettendo altra carne al fuoco per non far pensare ai precedenti impegni non risolti. Dall’altra però l’opposizione non può attendere l’implosione della maggioranza e limitarsi a tallonarla, lasciandole sempre la scelta dei problemi. La minoranza deve essere propositiva, deve indicare le priorità, le soluzioni, influenzare il calendario dei lavori e costringere il governo a seguirla. La minoranza deve tornare ad essere presente nel
La rana coccinella Non fatevi ingannare dalle dimensioni: è una rana della specie Minyobates ophistomelas che se ne sta sulla punta di un dito. Fa parte della famiglia delle Dendrobatidae, i coloratissimi anfibi sudamericani che se disturbati, secernono una potente tossina, usata anticamente dagli indios per avvelenare la punta delle frecce. Tra le specie più temute del gruppo, la rana dorata
Paese,riaprire le sezione dei circoli e dei partiti a dibattiti permanenti. Vi è una grossa fascia di elettorato di opinione che oscilla tra l’astensionismo e il giustizialismo. Occorre una mobilitazione delle coscienze, recuperando gli astensionisti perché si può e si deve vincere. Una simile battaglia può determinare nuovi equilibri all’interno dei singoli partiti. È un rischio che bisogna correre
per il rafforzamento della democrazia. Questa è la chiave di lettura del coraggioso messaggio di Chianciano. Rimbocchiamoci le maniche e buon lavoro.
L. C.
L’IMPEGNO SUI RINNOVI I pubblici dipendenti hanno diritto al rinnovo dei contratti. E il governo ha espresso il suo impegno non appena sarà chiaro il quadro
dell’assetto contrattuale e delle regole applicabili ai rinnovi. Il disegno di legge finanziaria ha provveduto, intanto, a finanziare l’eventuale vacanza contrattuale. A quei dirigenti del sindacato che protestano, bisogna chiedere se in Italia ci siano dei lavoratori più garantiti e tutelati di quei dipendenti pubblici che sembrano essere in cima ai loro pensieri.
Giuliano C.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Questa nostra intesa segreta Roma, 22 luglio 1979 Caro Simenon, da tempo sentivo il bisogno di parlare un po’ con lei ma il timore, anzi la certezza, che l’avrei soltanto annoiata o immalinconita con i soliti immusoniti sfoghi sul film che sto facendo e relative bambinesche lamentazioni mi trattenevano dal farlo, e rinviavo aspettando un momento di umore più rasserenato per scriverle. Ed ecco che, inattesa e quindi ancora più gradita, mi arriva con prodigiosa tempestività la sua letterina. È già la terza volta che accade, temo proprio, mio caro amico, che lei mi stia viziando e che questa misteriosa sincronicità rischi di diventare una necessità indispensabile, non potrò più farne a meno, già mi vedo nell’atto di sollecitarla se appena appena questi festosi appuntamenti accennassero a diradarsi. Ma questo non succederà mai, perché da quello che lei mi dice nella sua ultima lettera mi sono accorto con uno stupore emozionato e un po’ intimidito che anche se non mi scrive le capita a volte di pensare a me, al mio lavoro, e ai film che sto facendo. Questa sua delicata rivelazione di un pensiero così assiduo nei miei confronti mi ha fatto felice, mi ha appagato, e mi ha reso sicuro di una nostra intesa segreta. Federico Fellini a Georges Simenon
ACCADDE OGGI
LE POSTE NON LAVORANO POI COSÌ MALE Avendo ricevuto numerose segnalazioni e richieste di intervento da parte di utenti delle Poste a causa di ritardi nella consegna di lettere e giornali, in qualità di difensore del cittadino del Pdl ho disposto due iniziative destinate a una verifica dell’attività svolta dalle Poste per quanto riguarda la consegna delle lettere. Si è così dato luogo all’invio di 100 lettere così distribuite: 30 in partenza da Mondovì il 29 luglio alle ore 9,00 con destinatari residenti nei comuni piemontesi e liguri; 70 in partenza da Mondovì il 24 agosto alle ore 9,00 con destinatari residenti nei comuni di tutta Italia. A costoro è stato richiesto di comunicare all’ufficio del difensore la data precisa dell’arrivo delle lettere: lo hanno fatto in 74 su 100. Questo l’esito dell’iniziativa: 38 arrivate il giorno dopo; 19 arrivate due giorni dopo; 6 arrivate tre giorni dopo; 1 arrivata quattro giorni dopo; 2 arrivate sette giorni dopo; 1 arrivata otto giorni dopo; 2 arrivate nove giorni dopo; 5 arrivate con data incerta. Nel complesso possiamo dire che dalla nostra micro-indagine (il campione, ce ne rendiamo conto, è esiguo), le Poste non ne escono male. In pratica il 55 per cento delle lettere - di cui si conosce la data certa di arrivo - è giunto a destinazione il giorno successivo alla spedizione ed il 27 per cento nei due giorni; quindi l’ 82
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
30 settembre 1982 Debutta negli Usa la popolare serie televisiva Cheers 1989 Viene sciolta la Federazione tra Senegal e Gambia denominata Senegambia viene sciolta 1990 Il presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide viene costretto alle dimissioni 1992 Giuliano Amato presenta la manovra finanziaria per il 2003 per un totale di 93000 miliardi di lire, per rientrare nei parametri di Mastricht 1990 Inaugurazione Salerno Irno 1991 Kin Endate, astronomo giapponese scopre l’asteroide 6020 Miyamoto 1994 Omicidio di Nicholas Green 1997 La Origin systems inc. rilascia “Ultima Online”, il primo vero Mmorpg, aprendo le porte ad un nuovo genere di videogioco 1998 Chiude Expo ’98, esposizione internazionale di Lisbona aperta il 22 maggio, dal tema: Oceani: un’eredità per il futuro 2002 Primo trapianto di fegato in Italia su un paziente di 49 anni sieropositivo
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
per cento, ovvero 4/5 dell’intero invio, è stato recapitato in tempi ragionevoli (ciò senza entrare nel discorso relativo al regolamento contrattuale). Il 10 per cento della corrispondenza giunta entro il terzo ed il quarto giorno è forse spiegabile se si considera il periodo di organico ridotto a causa del periodo di ferie. Meno bene per la restante parte, che è giunta a destinazione in tempi eccessivi. Nulla invece ci è dato sapere per certo delle 26 lettere per le quali non siamo stati richiamati; è possibile che siano arrivate così come no. Lo stesso dicasi delle 5 giunte in assenza da casa dei destinatari, quindi forse puntuali o forse no.
Raffaele Costa
ASPETTANDO BAARIA Questi per Bagheria sono giorni di festa e si tratta di una festa corale, collettiva. Non è solo la celebrazione di Giuseppe Tornatore e del suo ultimo film ma è la festa di tutti i bagheresi. Per Bagheria queste giornate rappresentano un’occasione preziosa di promozione del territorio, un’opportunità unica per far conoscere la nostra città al di fuori dei confini regionali. L’entusiasmo che ha accompagnato l’anteprima nazionale del film Baaria non deve esaurirsi bensì deve caratterizzare anche l’impegno futuro delle istituzioni nei confronti del nostro territorio.
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
PRESENTATO IL PROGETTO EUROPEO “IMPARO LA LINGUA ITALIANA” Il progetto europeo “Imparo la Lingua Italiana” ha l’obiettivo di valorizzare la nostra lingua sia all’estero che in Italia. Il progetto ha un partenariato europeo di primo piano che comprende il club Amici di Salvatore Quasimodo di Roccalumera (ME), la San Giorgio editrice spa di Roma, l’associazione culturale “Coltiviamo la Pace” di Firenze , l’association Amities crillonnaises della Provenza (Francia), l’University of Strathclyde di Glasgow (UK) e l’Euro-Lingua Kozpont di Debrecen (HU). Carlo Mastroeni è il project manager del progetto, che ha sottolineato come, con il protocollo di Lisbona l’Europa si è data come obiettivo quello di far conoscere ai propri cittadini due lingue oltre quella madre. Pertanto in tale contesto i partner del progetto hanno ritenuto di incentivare la conoscenza della lingua italiana tra gli stranieri (sia europei che extracomunitari). Le finalità sono quelle di una scuola di italiano per straneri in Sicilia, nonché di supportare in Europa quanti vogliono imparare o mantenere la lingua italiana. Il professor Farrell ha evidenziato come ciò sia importante anche per far sì che i numerosi emigrati italiani (e i loro discendenti) non abbandonino l’italiano o non lo pratichino in modo inadeguato. L’avvocato Carlo Mastroeni, invece, ha spiegato che “Imparo la Lingua Italiana” nasce dalla convinzione che nonostante gli sforzi fatti dai Paesi membri dell’Ue, risultano essere trascurati o non ancora adeguatamente conosciuti da un numero significativo di adulti i benefici potenziali derivanti dalla conoscenza e dall’uso di un’altra lingua in aggiunta a quella madre. Il progetto, dice sempre Mastroeni, si propone di insegnare, attraverso una nuova metodologia, la lingua italiana a studenti stranieri tra i 18 e i 60 anni, che vogliono conoscere e imparare un’altra lingua oltre a quella madre. Punto di forza del progetto è l’alta professionalità e preparazione dello staff, che può contare su personale altamente specializzato, in grado di fornire a tutti gli studenti, sin dai primi giorni di frequenza, un apprendimento veloce e approfondito della lingua italiana, gestendo e realizzando la formazione degli stessi attraverso delle linee guida, che saranno definite subito dopo aver testato capacità e conoscenze dei singoli studenti, al fine di inserirli ad un livello di apprendimento consono alla propria preparazione di base. Il progetto si avvarrà della collaborazione di alcuni istituti di cultura italiani siti in varie capitali, primo fra tutti l’Istituto italiano di Cultura di Vienna, che con il suo direttore, Dante Marianacci, è stato tra i primi ispiratori della proposta progettuale. Carlo Mastroeni C I R C O L I LI B E R A L ME S S I N A
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PAGINAVENTIQUATTRO Reti. Nasce un nuovo sistema protetto e religiosamente compatibile con il mondo islamico
Arriva il motore di ricerca di Silvia Marchetti i Google ce n’è uno solo ma ha mille volti. Musulmano, ebreo. C’è chi cerca di plasmarlo ai propri fini, cambiandone il nome e i contenuti. Chi lo adatta ai propri valori religiosi. E così, del motore di ricerca più cliccato al mondo, che proprio in questi giorni festeggia il suo primo decennio di vita, negli ultimi tempi proliferano versioni riviste e corrette. Annacquate, un po’ ridicole ma senza dubbio molto originali, che dimostrano come Google sia ormai entrato a fare parte della vita di tutti, inclusi coloro che più lo temono. Interfaccia attraverso cui passa l’informazione globale, Google è al tempo stesso amato e odiato. Amato da chi segue e vive la libertà, da chi ha un grande bisogno di comunicare e di vivere gli eventi. Odiato da chi teme l’energia che viaggia sul web. Molti regimi tirannici, come quello iraniano ma anche quello cinese, tentano di soffocarlo (Pechino c’è riuscita costringendo Google all’autocensura).
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Ma non c’è solo la censura tout court a modificare in qualche modo la natura del network. I nemici di Google l’originale hanno inventato un altro modo per plasmare il motore di ricerca a loro piacimento pur continuando a sfruttarne le potenzialità. Ne hanno inventato delle varianti particolari che si piegano a determinati precetti religiosi o visioni del mondo. Un compromesso al ribasso che unisce la libertà d’informazione con la tirannia dei valori. Esempio lampante è l’apparizione di ImHalal, ossia il Google dei musulmani. Il nome indica un’informazione “religiosamente corretta”. Si tratta del primo motore di ricerca che segue i dettami della legge coranica. Un Google senza dubbio pilotato. La navigazione sul web è libera ma continuamente interrotta, rallentata e ostacolata. Ogni volta che l’utente esplora terreni che l’Islam considera illeciti, ossia “haram”, appare una schermata che mette in guardia. Proseguire è a rischio religioso e morale dell’internauta. Le parola “gay”, “sexy” e “bikini” sono classificate come molto haram,“birra”e maiali”più tollerate. In testa ai contenuti tabù tutti quelli legati al caso delle vignette satiriche su Maometto. Una forma di censura indiretta che fa direttamente appello alle coscienze dei seguaci. Tutto merito di filtri specializzati nella cattura degli indirizzi web proibiti, soprattutto quelli che contengono pop-up con contenuti a sfondo sessuale o islamicamente inaccettabile. A mettere a punto ImHalala ci ha pensato un giovane irano-kuwaitiano, studente di economia in Olanda (l’azienda produttrice del software è infatti olandese). E ciò che maggiormente stupisce è che dietro l’identificazione dei termini proibiti c’è la collaborazione interes-
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Google è amato da chi segue e vive la libertà, da chi ha un grande bisogno di comunicare e di vivere gli eventi e odiato da chi teme l’energia che viaggia sul web. Molti regimi tirannici, come quello iraniano ma anche quello cinese, tentano di soffocarlo sata degli imam che vengono regolarmente sondati dai gestori del network per aggiornare le parole “haram”. Ancora una volta, l’Islam sfrutta e manipola a suo piacimento le invenzioni dell’Occidente. Il portale è disponibile in 15 lingue tra cui inglese, arabo e farsi.
Sta di fatto che ImHalal è soltanto l’ultimo di una serie di tentativi di snaturare Google adattando il motore di ricerca alle norme della religione. Perché in fondo chi può fare a meno del potere incredibile di Google? Di avere il mondo nel palmo di una mano, con un click del mouse? Nessuno, nemmeno coloro che lo vorrebbero oscurare. A fare da apripista alla contraffazione del portale sono stati lo scorso giugno gli ebrei ortodossi, quando l’imprenditore israeliano Yossi Altman lanciò Koogle, la versione kosher di Google. Risultato: gli ebrei osservanti a cui i rabbini vietano di navigare in rete hanno finalmente trovato la soluzione per poter al tempo stesso vivere la multimedialità senza
commettere peccato. Koogle è ancora più severo di ImHalal. È stato settato in modo tale da non mostrare risultati o immagini che possano urtare la sensibilità di quegli ebrei molto religiosi. Tra i contenuti tabù, perfino donne in abiti succinti. Non solo: è vietato inserire o modificare dati durante il Sabbath, la festa del sabato. Chi cerca di fare acquisti online quando cade una festività religiosa vede il sistema all’improvviso bloccarsi. Ci sono dei filtri per parole chiave che oscurano, per esempio, i siti per lo shopping che vendono oggetti tabù per gli ortodossi. Elettrodomestici che nessun ebreo osservante dovrebbe avere in casa, televisore incluso.
I s osia di Google sono un po’ come quelli della Coca-Cola: si spacciano di essere una valida alternativa ma il gusto non è come quello originale. Decisamente un po’ troppo allungato con l’acqua. Come il sapore delle due cole islamiche che apparvero dopo l’11 settembre: la Zamzam Cola prodotta a Teheran e la Mecca Cola, che si prefisse di sostituire la Coca-Cola in tutto il Medio Oriente. A distanza di otto anni, la Coca inventata da Pemberton comtinua a regnare indisturbata. C’è da scommettere che lo stesso sarà per Google, quello originale. Oggi tocca agli ebrei e ai musulmani brevettare la loro versione religiosamente corretta, e domani potrebbero essere gli induisti o i buddisti. Ma una cosa è certa: il potere di Google sta proprio nel non essere “facilmente replicabile”.