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he di c a n o r c
Nasciamo tutti quanti matti. Qualcuno lo rimane Samuel Beckett
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 10 OTTOBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«Sono commosso, non so se lo merito». Poi la dedica a San Suu Kyi
Il primo Nobel alla speranza Sorpresa nel mondo: ancora non ha fatto niente per la pace, ma Oslo premia Barack Obama
GUERRA ISTITUZIONALE Col suo comportamento corretto ha offerto a Berlusconi una via d’uscita dopo l’attacco alla Consulta. Ma il premier ricambia con nuovi insulti
di Vincenzo Faccioli Pintozzi nizia scherzando, il presidente americano Barack Obama, la sua mini conferenza stampa convocata per commentare il conferimento del Premio Nobel per la Pace 2009. Cita una delle due figlie, che gli ha chiesto (dopo aver saputo del Premio), se il fine settimana «sarà impegnativo». Perché, spiega subito dopo, «è anche il compleanno del nostro cane Bo. È importante avere dei bambini intorno, perché ti riporta le cose nella giusta dimensione». Ma poi cambia tono, e con solennità
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conferma di accettare la decisione della Commissione di Stoccolma «con umiltà». E aggiunge: «Per essere onesto, non credo di meritare di essere in compagnia di tante figure che hanno cambiato il mondo e che mi hanno ispirato. Lo considero una chiamata all’azione». Ma soprattutto, aggiunge con decisione, «lo considero un riconoscimento alla leadership degli Stati Uniti. Nessuno fa nulla da solo».
Meno male che Giorgio c’è alle pagine 8, 9, 10 ee 11
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L’OPINIONE DI SERGIO ROMANO
«Per ora il suo è solo un sogno»
Il successo dei Liberali e della Linke alle ultime Politiche potrebbe essere la novità in grado di restituire al Paese la sua “unità”
La nuova Germania
di Pierre Chiartano
Un saggio del grande storico: dove va la storia tedesca dopo le elezioni 2009
I componenti della commissione norvegese che ha assegnato il premio Nobel per la Pace hanno una certa visione del mondo e dei maggiori problemi politici.
di Ernst Nolte
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A VENT’ANNI DALLA CADUTA DEL MURO
Ma non era meglio darlo a Helmut Kohl? di Osvaldo Baldacci Per me il premio Nobel della Pace lo ha vinto Helmut Kohl. Ottobre 1989, Dalai Lama. Una delle ultime scelte coraggiose del comitato di parlamentari norvegesi. a pagina 4
DIARIO DELLE CONTESTAZIONI
Oslo, cent’anni di polemiche di Maurizio Stefanini Sembra leggenda, ma è storia documentata. I Nobel sono stati inventati a partire da quello della Pace, e per avere l’occasione di insignirne Bertha von Chinich. a pagina 4 seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
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olendo parlare di Stato, partiti ed elezioni senza volgere immediatamente l’attenzione ad un determinato Stato ed a specifiche elezioni, si deve avere il coraggio di semplificare, perché massima precisione ed innumerevoli dettagli sono reperibili in una gran quantità di libri, che – messi tutti assieme – formano un’enorme biblioteca. Definire cosa siano Stato e partiti, almeno in Europa, è possibile partendo da una tesi che fa riferimento ad un arco temporale di oltre mille anni. Quale che fosse l’elemento determinante la differenza tra le forme di governo medievali, forse ancora non meritevoli di essere definiti “Stato”, ed i moderni “Stati nazionali”, furono comunque due ceti o due classi ad esercitare il potere in quel periodo, ovvero la nobiltà ed il clero cristiano, nella figura dei loro maggiori rappresentanti,
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l’imperatore del Sacro Romano Impero ed il Papa della Chiesa cattolica In (“generale”). questa convivenza tra “spirituale” e “secolare” si può individuare la prima grande partizione, in seguito approfondita e straordinariamente ampliata dalla Riforma del XVI secolo. Nell’ambito dell’Islam non v’è mai stata analoga convivenza né analoga partizione in “confessioni”. I primi partiti in senso politico ed il primo parlamento nacquero in Inghilterra, con la differenziazione tra “Whigs” (liberali) e “Tories” (conservatori), ma non esistevano elezioni generali.Vero nemico di questi partiti in embrione fu l’assolutismo dei monarchi, la cui non-realizzazione o trasformazione in“costituzionalismo”rimase a lungo uno dei massimi temi della storia inglese.
IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
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Riconoscimenti/1. Il leader americano ringrazia per il «grande onore ottenuto» e commenta: «Per me è un augurio»
Un Nobel alle intenzioni Obama ammette: «Non so se lo merito» e allude a Aung San Suu Kyi. Il mondo tra sorpresa e sconcerto. Contrari i talebani, tiepidi gli iraniani di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Obama ha aggiunto che il Nobel «è stato già usato in passato per premiare un’aspirazione, piuttosto che un obiettivo raggiunto». E ha continuato riproponendo la sua visione di un mondo libero dalle armi atomiche: «Tutti hanno diritto ad avere un programma nucleare, ma tutti hanno anche il dovere di dimostrare che verrà usato per motivi pacifici». Ma i riferimenti all’Iran non finiscono qui: dopo aver ricordato che il Premio «serve a rinsaldare la cooperazione internazionale», il presidente ha sottolineato di pensare «a tutte quelle persone che scendono per strada a chiedere democrazia, incuranti delle minacce di violenze fisiche e di arresti». E il pensiero corre alle manifestazioni dell’Onda verde per le strade di Teheran. Ma Obama cita anche «una leader, che accetta la limitazione della sua libertà pur di non rinunciare alle richieste di democrazia».
Impossibile non collegare il tutto ad Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace birmana, che vive da quasi due decenni agli arresti domiciliari e continua a chiedere democrazia per il Myanmar. Il leader americano usa il gioco del non citare anche per dirimere una delle que-
stioni più controverse legate all’assegnazione del Premio, ovvero la presenza armata americana in Iraq e Afghanistan: «Sono consapevole di essere il comandante in capo di un esercito che è impegnato a chiudere una guerra [in Iraq ndr] e che è inoltre impegnato in un altro teatro, dove cerchiamo di fermare un nemico ostinato che ci ha attaccato [l’Afghanistan ndr]». Dopo aver confermato che si presenterà ad Oslo per ritirare il premio, il prossimo 5 dicembre, Obama è rientrato in casa. Ma non si è fermata la corsa alle dichiarazioni. I principali leader mondiali hanno accolto favorevolmente la notizia. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dichiarato che il Premio costituisce «uno stimolo per il presidente e per tutti noi a fare ancora di più per la pace». Per il presidente francese Nicolas Sarkozy questo premio «consacra il ritorno dell’America nel cuore di tutti i popoli. Apprendo con grande gioia della decisione del comitato riunito a Oslo di attribuirle quest’anno il Premio Nobel per la Pace» ha affermato il capo dello Stato francese in una lettera indirizzata a Obama. Il premier italiano Silvio Berlusconi ha definito a sua volta
l’attribuzione di questo premio all’inquilino della Casa Bianca «un giusto riconoscimento» del suo lavoro. Il suo «sogno di un mondo senza armi nucleari e di dialogo tra tutte le nazioni ha riacceso la speranza di un futuro di pace». Più critico il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che si è chiesto «cosa ha fatto Obama fino ad ora». Secondo il premier spagnolo José Luiz Rodriguez Zapatero questo riconoscimento ha un «valore altamente strategico, è un invito, un sostegno al presidente perché abbia successo nella ricerca della pace».
Obama - ha dichiarato invece il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon - «incarna un nuovo spirito di dialogo e di impegno personale sui più grandi problemi mondiali come il riscaldamento climatico, il disarmo nucleare e una grande varietà di minacce alla pace e alla sicurezza internazionale». Apprezzamento anche da parte del Vaticano e dal presidente afgano Hamid Karzai, tra i primi a congratularsi con il presidente Usa. Entusiasti anche altri premi Nobel per la Pace. Per Mikhail Gorbaciov, ex leader sovietico e vincitore nel 1990, quella di asse-
gnare il premio a Obama è stata «una decisione giusta»; per l’ex presidente Usa Jimmy Carter, Nobel per la Pace nel 2002, si tratta di una «dimostrazione coraggiosa del sostegno internazionale alla sua visione e al suo impegno». Unico perplesso invece l’ex presidente polacco Lech Walesa, Nobel per la Pace nel 1993, per il quale il premio a Obama è stato attribuito «troppo presto. Per ora non ha fatto che avanzare proposte». Negativa, come è ovvio, la reazione dei talebani: «Doveva essere meglio di Bush, ha fatto cose peggiori». Teheran si è limitata a esprimere l’auspicio che questo Premio spinga ora il presidente Obama a mettere fine all’ingiustizia nel mondo: «Speriamo che il Nobel lo inciti a perseguire la via che porta alla giustizia nel mondo», ha detto Ali Akbar Javanfekr, uno dei consiglieri del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. «Noi non siamo contrari e speriamo che ricevendo questo premio, cominci a intraprendere dei provvedimenti concreti in modo da porre fine all’ingiustizia nel mondo». Né da Mosca né da Pechino, invece, sono giunti commenti. A diretta domanda, il Cremlino ha risposto per ora con un «no comment» sull’eventualità di un messaggio di congratulazioni. Eppure, il Premio a Obama ha aiutato non poco i due regimi.
Gli altri candidati erano Hu Jia, Lidia Yusupova, Thich Quang Do, Piedad Cordoba
La lunga lista dei dimenticati l Premio Nobel per la pace, nell’edizione del 2009, è stato assegnato al presidente americano Barack Obama. Si tratta di un nome inatteso, tanto che persino la Casa Bianca - istituzione tradizionalmente compassata - ha commentato in un primo momento con un non ortodosso “Wow!”. Si tratta, ovviamente, di un Nobel alla speranza: oltre che alle intenzioni, Obama non ha compiuto passi avanti verso la pace. L’auspicio è che, ricevendo ad Oslo l’ambito Premio, il leader statunitense decida di dedicarlo a coloro che combattono nell’ombra per la democrazia. L’inquilino della Casa Bianca, che con ogni probabilità non legge liberal, potrebbe e dovrebbe accogliere questo invito. Che gli viene proposto affinché - accanto all’umiltà con cui
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Hu Jia e Thich Quang Do In alto: Sarkozy, Suu Kyi e Ahmadinejad. Nella pagina a fianco, Sergio Romano
ha dichiarato di volersi accostare al Nobel - si possano ottenere dei risultati di immagine anche e soprattutto per quella lunga lista di candidati che non gli sono stati preferiti. Potrebbe partire, tanto per fare un esempio, da Hu Jia: il dissidente è noto in tutto il mondo per la sua battaglia contro il regime di Pechino e per la caparbietà con cui affronta la detenzione in cui è costretto. Famoso per aver fondato un’organizzazione indipendente con lo scopo di aiutare i suoi concittadini a liberarsi dal degrado in cui versano, ha aiutato moltissimi intellettuali e giornalisti occidentali a conoscere la vera situazione della Cina.
Nel 2007 Hu Jia ha partecipato ad un dibattito in video conferenza con il Parlamento Eu-
ropeo sullo stato dei diritti civili in Cina, criticando i provvedimenti restrittivi messi in atto in preparazione delle Olimpiadi. Qualche giorno dopo è stato arrestato e quattro mesi dopo ed è stato condannato a una pena detentiva di tre anni e mezzo
Il presidente, ad Oslo, potrebbe citare per nome tutte quelle «straordinarie figure» che lo hanno ispirato per aver cercato di “minare lo Stato cinese e il suo sistema politico socialista”. La moglie e la figlia, che ha meno di due anni, sono attualmente agli arresti domiciliari. Nel dicembre del 2008 il Parlamento Europeo lo
ha insignito del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Un’altra grande figura per la comunità dissidente mondiale è Lidia Muhtarovna Yusupova: nata in Cecenia 48 anni fa, oggi guida l’ufficio legale di Memorial, l’Organizzazione non governativa che da anni denuncia le malefatte del Cremlino.
Nonostante la sistematica e brutale decimazione dei membri del suo staff, che dalla Polytkovskaya in poi vengono assassinati impunemente nel regno di Putin, la Yusupova continua a combattere fornendo aiuto legale e denaro a chi cerca di sfuggire dalla repressione del governo turco. Celebre il suo grido di dolore, in diretta radiofonica, alla notizia dell’assassinio della reporter della Novaya Gazeta. Nel 2006
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La decisione della commissione norvegese farà discutere il mondo intero
«Sì, è una scelta tutta politica. Non c’è un premio per i sogni» Lo stupore di Sergio Romano: «Barack interpreta un auspicio. Ma non ci si può basare solo sugli auspici, soprattutto non sui propri» di Pierre Chiartano ergio Romano, dopo una lunga carriera diplomatica è approdato a quella di autorevole editorialista, senza dimenticare di essere un prolifico scrittore su argomenti di politica internazionale. Con lui abbiamo voluto commentare, a caldo, la notizia del premio Nobel per la pace dato al presidente americano, Barack Obama. Cosa pensa del premio Nobel per la pace conferito al nuovo inquilino della Casa Bianca? Innanzitutto, i Nobel sono spesso stati discutibili e discussi. Perché molto di frequente abbiamo constatato che la persona che lo ha ricevuto ha contribuito alla pace in un particolare momento e in una particolare circostanza. Salvo poi dimostrarsi animato da meno pacifici intenti in altri momenti storici. Comunque il Nobel presentava sempre il vantaggio di premiare qualcuno che per la pace effettivamente si era adoperato. In questo caso debbo dire che sono piuttosto sorpreso, perché dare il premio a una persona che, certamente, ha delle intenzioni interessanti e delle strategie molto positive, ma che allo stato attuale non ha ancora potuto realizzare nulla di ciò che si era proposto, significa dare un premio alle intenzioni. Non credevo che il premio Nobel fosse un premio alle intenzioni. Forse un premio al popolo americano che ha eletto un presidente di rottura rispetto al passato? Non so quali fossero gli intendimenti della giuria che come lei sa non è una giuria svedese: è norvegese. Il Nobel per la pace non si conferisce a Stoccolma, ma ad Oslo. In Svezia i premi sono dati dalla giuria dell’Accademia delle scienze, quello per la pace viene dato da
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è sopravvissuta a due attentati. Se però Obama, chinando il capo davanti alla realpolitik e alle sue leggi, dovesse decidere di non voler attaccare Pechino o Mosca - da cui gli Usa dipendono se vogliono uscire dalla crisi finanziaria - potrebbe parlare del bonzo e dissidente vietnamita Thich Quang Do. Il leader buddista, una delle figure più amate del Vietnam contem-
poraneo, ha cercato di fermare i massacri comunisti nell’area in cui, nel 1975, sorgeva il monastero in cui studiava. Da allora è stato preso di mira dal governo, che non ha mai tollerato le sue richieste di aiuto alla comunità internazionale o le denunce contro Ho Chi Minh. Vive da 19 anni agli arresti domiciliari, che è riuscito a infrangere per stare vicino a un suo ca-
un comitato del Parlamento norvegese. Se fosse un premio al popolo americano che lo ha votato – spero di no – dovremo giungere alla conclusione che il comitato che ha premiato Barack Obama è un organo politico, che non agisce per conto dell’umanità. Avrebbe una strategia politica, perdendo gran parte della sua credibilità. Penso e spero che non sia stata questa la loro intenzione. Penso invece che sia stato un premio conferito ad una personalità promettente. Solo che i premi si dovrebbero dare alle realizzazioni e non alle promesse. Questo non potrebbe essere il segno del livello di ansia in cui vive la comunità mondiale, tra crisi economica, disastro ecologico alle porte e rischio nucleare che guarda dalla finestra? Innanzitutto non credo che si debba trasformare la decisione di un gruppo, pur qualificato, di persone di un Paese europeo e lo si debba trasformare in un sintomo, in un segnale o in una sindrome di qualcosa di più grande e di più grave. Sono uomini che decidono autonomamente. In questo caso hanno fatto una scelta su cui è quantomeno lecito interrogarsi. Ambasciatore, lei aveva mai pensato a candidati alternativi o era un problema fuori dal suo orizzonte? Non mi sono in realtà mai concentrato sul tema. Non lo fatto per la semplice ragione che i premi dati finora, sono stati tutti dei conferimenti, a mio avviso, assai discutibili. Non tutti, per carità, qualcuno di più, altri meno. Ma molto spesso avevo constatato che il premiato aveva agito per la pace solo in un dato momento, molto utile, per poi assumere
ro amico che stava morendo. E poi è tornato nella sua prigione, senza cercare di scappare.
Ma forse il Vietnam risulta poco “alla moda”: allora si potrebbe citare Piedad Cordoba Ruiz, la senatrice colombiana che spende la sua vita a mediare per gli ostaggi nelle mani delle Farc. E a criticare duramente la connivenza del gover-
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posizioni molto diverse. Questo vale anche per l’unico premio per la pace dato a un cittadino italiano. Ernesto Teodoro Moneta, nel 1907, deputato, giornalista, scrittore, democratico di quel periodo. Premiato soprattutto per la sua attività internazionale a favore della pace, aveva creato un movimento europeo per la fraternità universale, molto interessante. La stessa persona, nel 1911, era stato favorevole alla guerra Anche italo-turca. Henry Kissinger… Avrebbero voluto ritirarlo il Nobel, dopo le sue ammissioni sulle ingerenze in America Latina… Appunto, poi potremmo citare anche il terzetto Arafat, Rabin e Peres. Rabin è morto come sappiamo (ucciso da un estremista israeliano, ndr). La morte probabilmente lo ha salvato dal rischio di essere lui il combattente di un’altra guerra. Israele è in trincea da molti anni e Peres si è trovato ad essere al governo durante la guerra in Libano del 2006. In quel periodo era ministro degli Esteri. Obama è anche capo supremo delle Forze armate Usa, coinvolte su più teatri di guerra. Come pensa che reagiranno in Israele al premio? Credo che le reazioni d’Israele non saranno positive, anche se non saranno esplicitamente negative. Il premio quando viene dato alle intenzioni piuttosto che alle realizzazioni dice molto di più sui pensieri, sulle opinioni della giuria, di quanto non dica sul candidato. Queste persone hanno una certa visione del mondo e dei maggiori problemi politici e vedono in qualche maniera in Barack Obama l’uomo che potrebbe interpretare al meglio i loro desideri e i loro auspici. Ma non si danno i premi agli auspici, soprattutto non ai propri.
Queste decisioni sono spesso discutibili. Basta pensare ai casi di Kissinger, o di Perez, Rabin e Arafat
no di Uribe. Sotto accusa proprio per il suo coraggioso operato, è una grande ammiratrice del presidente Usa. Che potrebbe ricambiare la stima dedicandole il Premio Nobel, quando il 5 dicembre prossimo sarà chiamato a riceverlo. Obama potrebbe sfruttare lo straordinario palcoscenico che gli viene offerto e riportarlo al suo scoporio. Che è quello di dare voce
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a chi lavora per la pace e la democrazia. Sicuramente l’inquilino della Casa Bianca ha intenzione di lavorare duramente per un mondo migliore, ma sarebbe bello che desse voce a chi - diversamente da lui - non ne ha. A coloro che lavorano ogni giorno mettendo a rischio la vita per migliorare le cose. Sarebbe un modo eccellente (vfp) per celebrare la pace.
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Riconoscimenti/2. Storia documentata di un premio destinato a provocare discussioni. Anche a causa del budget limitato
Cent’anni di polemiche
Da Roosevelt a Wilson, da Sadat a Begin, da Marshall a Mandela: tutte le volte in cui le decisioni di Oslo sono state contestate nel mondo di Maurizio Stefanini embra leggenda, ma è storia documentata. I Nobel sono stati inventati a partire da quello della Pace, e per avere l’occasione di insignirne la contessa austriaca Bertha Kinshy von Chinich und Tettau: una bellona asburgica con gli occhi da cerbiatta e i capelli corvini, maniaca per i progetti di pace universale e arbitrato internazionale, di cui l’inventore della dinamite e filantropo si era follemente innamorato a 43 anni, dopo la morte di una mamma cui era attaccatissimo e per cui aveva rinunciato a sposarsi. Ma la signora, allora trentatreenne, gli aveva preferito un ragazzino di sette anni più giovane e suo connazionale, il conte von Suttner. Aveva continuato con lei un intenso sodalizio intellettuale, e nel 1891 le aveva scritto questa lettera: «Costituirò un premio annuale destinato all’uomo o alla donna che avrà contribuito a far instaurare la pace generale in Europa, e voi dovrete essere la prima ad averlo».
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Il più megalomane omaggio mai escogitato per una donna da uno spasimante: In effetti, dopo la morte di Nobel per mal di cuore a Sanremo per far partire il Premio ci vollero cinque anni, per la resistenza in tribunale dei dodici parenti che cercarono di far annullare il testamento appigliandosi al “manifesto stato confusionale” del vecchio zio straricco e rimbambito. E anche una volta partito sembrò spudorato dare il premio subito a Bertha, nel frattempo divenuta presidente di una Società degli amici della pace.
Ma nel 1905 infine la insignirono, alla quinta edizione. Come lei, i primi insigniti furono soprattutto pionieri del Diritto Internazionale e dell’Arbitrato: a questa fauna apparteneva anche l’unico Nobel per la Pace italiano Ernesto Teodoro Moneta, insignito nel 1907. Combattente delle Cinque Giornate di Milano e della Spedizione dei Mille, direttore di quel Secolo che fu il primo grande giornale milanese prima del decollo del Corriere della Sera, e fondatore dell’Unione Lombarda per la Pace e l’arbitrato internazionale. Ma ciò non gli impedirà di fare campagna nel 1911 per la guerra di Libia e
A vent’anni dal Muro, perché non pensare a Kohl? di Osvaldo Baldacci er me il Premio Nobel per la Pace lo ha vinto Helmut Kohl. Ottobre 1989, Premio Nobel al Dalai Lama. Una delle ultime scelte coraggiose del comitato di parlamentari norvegesi. Che però non avevano capito un granché. Un mese dopo, 9 novembre 1989, cade il Muro di Berlino, e con esso frana l’impero sovietico, collassa il comunismo mondiale, tranne proprio quello cinese. Non è che a Oslo ci abbiano mai capito molto, diciamolo. Ma qualche volta hanno davvero esagerato, e il prestigio di questo riconoscimento vale sempre meno. Torniamo al calendario dei Nobel: 1990 Michail Gorbachov. Il segretario che aveva causato il crollo del sistema sovietico. Ma lo voleva davvero o la situazione gli è sfuggita di mano? Un premio quindi non a chi ha fatto cadere il Muro di Berlino, ma a chi non aveva capito cosa stava succedendo. 1991 Aung San Suu Kyi, ok, ma intanto è ancora in carcere. Poi via via altri nomi di vario genere. E per celebrare il ritorno della democrazia nell’Europa dell’Est, la riunificazione pacifica della Germania, l’integrazione continentale che garantisce pace e benessere e assorbe i tanti pericolosi attriti scaturiti dalle scorie del comunismo e le tensioni di un liberismo che diventa troppo arrogante? Forse bisogna aspettare il decennale. 1999, macché, Medici Senza Frontiere. Tanto di cappello, ma a chi ha aperto la gabbia della Cortina di Ferro? Anno dopo anno niente. Si legge qualche bel nome, qualche nome strano ma passi, qualcuno che di successi non ne ha poi inanellati tanti, qualche nome chiaramente ridicolo, prezzo pagato al politically correct, come Carter, e persino Al Gore per un film che ha vinto pure l’Oscar, tanto che differenza c’è. E non è che di recente si è avuto il coraggio di premiare dissidenti cinesi, giornalisti russi, opposizione iraniana o simili. Aspettiamo il ventennale del 1989, un periodo giusto per fare un punto della situazione. 2009, niente premio al padre dell’Europa Helmuth
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Kohl, bensì Nobel a Barack Obama, neanche un anno di presidenza, più un peso che un riconoscimento. Invece Helmut Kohl qualcosa ha fatto: ha cambiato il mondo. Forse non ci si ricorda da dove veniva la Germania nel 1989: le guerre bismarckiane, la prima guerra mondiale, il nazismo, la seconda guerra mondiale, l’occupazione internazionale, la dittatura comunista a Est. In quell’anno nel cuore dell’Europa c’erano tedeschi che non avevano mai, mai conosciuto la pace e la libertà, e che erano stati sempre educati all’odio contro qualcuno. Kohl con il suo cancellierato dal 1982 ha contribuito con saggezza e fermezza a far cadere l’impero del male che premeva ai suoi confini, senza spargere sangue. E dal 1989 al 1998 è stato la guida che ha trasformato la vittoria dell’occidente sull’oriente in una riunificazione della famiglia europea, e non nella sopraffazione dei vincitori sui vinti. Ha voluto con forza la riunificazione della Germania, sapendo di pagare prezzi pesanti per la rinuncia ai benefici egoistici dell’ovest. E con la Germania unita non ha voluto dominare l’Europa, ma ha fatto del suo Paese il ponte per accogliere nell’area della pace e della democrazia l’altra metà del continente. Scusate se è poco. D’altro canto Kohl si può consolare: sono molti i meritevoli che il premio non l’hanno ricevuto, e tutto sommato stanno bene anche così. Uno è Gandhi, tanto per citare un nome politically correct e che non crea risentimenti. Ma ce n’è un altro persino più meritevole, apertamente discriminato per ciò che rappresenta e per alcuni dei suoi valori: Giovanni Paolo II. Che tra le altre cose è proprio con Kohl padre della nuova Europa, quella rinnovata dopo il fantastico progetto iniziale di altri tre grandi cattolici: De Gasperi, Adenauer, Schumann. Neanche loro hanno vinto il Nobel. Si vede che la pace in Europa dopo secoli di massacri non vale le copertine delle riviste. Chissenefrega. Kohl forse sta meglio in loro compagnia. Tra i vincitori veri, quelli che hanno vinto nella storia.
nel 1915 per l’intervento nella Prima Guerra Mondiale.
Non fu il primo Nobel per la Pace ad aver preso le armi in mano: l’anno prima era infatti toccato a Theodore Roosevelt, che durante la Guerra Ispano-Americana si era dimesso da sottosegretario della Marina per andare a guidare la famosa carica di cavalleria della Collina di San Juan, e che nel 1903 aveva pure montato il colpo di mano con cui Panama si era separato dalla Colombia. Theodore Roosevelt fu anche il primo presidente statunitense della lista che ora è arrivata a Barack Obama: va detto non in nome di una generica “speranza”, ma perché effettivamente l’anno prima aveva condotto a buon porto la decisiva mediazione che aveva posto termine alla Guerra RussoGiapponese. Anzi, fu il primo uomo di governo tout court. Ma si può premiare per la Pace un uomo di governo che nell’adempimento del suo incarico ha dovuto compiere scelte di guerra, anche se necessarie? La Commissione per il Nobel di Oslo ritiene di sì: come dimostra appunto il Premio dato a Obama comandante di Forze Armate che stanno bombardando a tutto spiano in Afghanistan. Infatti la lista dei premiati comprende Woodrow Wilson: presidente che volle l’intervento Usa nella Grande Guerra. Austen Chamberlain e Arthur Henderson: ministri britannici nella grande Guerra. Aristide Briand: capo del governo francese durante la battaglia di Verdun. Cordell Hull: segretario di Stato Usa dell’intervento nella Seconda Guerra Mondiale. Il Generale George Catlett Marshall: segretario di Stato dell’omonimo piano, dopo essere stato il grande pianificatore dello sforzo bellico Usa nella Seconda Guerra Mondiale… E poi ci sono Sadat e Begin, anno 1978. Non solo dirigenti di Paesi in guerra, e Sadat ordinatore dell’attacco del Kippur, ma anche expericolosi cospiratori: Sadat con i nazisti, e Begin responsabile anche di spettacolari attentati anti-inglesi. Ma quale spettacolo è più mediatico, che il vedere due feroci ex-avversari che si abbracciano per aprire una nuova epoca? Si replicò infatti nel 1993 con De Klerk e Mandela: ex-dirigente di un Paese razzista e ex-leader di un gruppo praticante la lotta armata anche con metodi cruenti come il “collare di fuoco” dei “collaborazionisti”, motivo per cui ad esempio Amnesty International non lo aveva adottato come prigioniero di opinione. E poi nel 1994 con il trio Arafat-PeresRabin: Arafat noto terrorista; Rabin exbellicoso generale, e ex-ministro della Difesa ordinante di spezzare le ossa ai palestinesi. D’altra parte, sia Sadat che Rabin l’hanno poi scontata con la vita. Begin che dopo il Nobel finisce nella trappola del Libano e Arafat che “incarta”la pace rappresentano però un altro versante del proble-
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Le reazioni in Medioriente sono tutte preoccupate
«Per ora ha fatto solo bei discorsi» L’analista israeliano Efraim Inbar è duro: «La sua politica fino ad oggi è un fallimento» di Etienne Pramotton
ROMA. Il nuovo corso dell’amministrazione Usa in Medioriente ha sicuramente significato un cambiamento di tono, non di sostanza, nei rapporti con Israele. Un maggior equilibrio nei rapporti tra arabi, islamici e lo Stato ebraico, che aveva conosciuto in precedenza aperture di credito, giustificate dall’impegno di Washington per garantire la sicurezza di Gerusalemme. Diventa perciò interessante sentire il parare di u rappresentante del mondo accademico israeliano sulla decisione del comitato di Oslo. Abbiamo raggiunto telefonicamente il professor Efraim Inbar, direttore del centro BaginSadat per gli studi strategici della Bar-Ilan University, ha insegnato in numerosi atenei come la Johns Hopkins, la Georgetown, Harvard, Yale, Mit, Oxford e consulente governativo su materie legate alla sicurezza nazionale. Le sue tesi sono spesso riprese dalla stampa israeliana e internazionale. Ha risposto ad alcune domande di liberal sul conferimento del premio Nobel per la pace al presidente americano. Cosa ha fatto Obama per la pace? Dovremmo riuscire a capire la differenza tra le parole e le azioni. Obama è molto bravo nei discorsi, carichi di pathos, ma non è riusciti finora a fare alcun progresso rispetto agli obiettivi che si proposto di perseguire con la sua politica in Medioriente. Penso che ora che il presidente americano ha ricevuto il Nobel per la pace non abbia più alcun incentivo per perseguirla veramente una politica di pace. Forse il premio è stato dato alla speranza di un perseguimento della pace? Certamente (il professore ride) … al momento possiamo vedere solo quella. Non possiamo sperare in altro. Non potrebbe questo premio rendere più efficace l’azione politica di Obama in Medioriente. Mancavano i risultati in politica estera, oggi la Casa Bianca può mostrare qualcosa. Anche se solo un premio Nobel… Penso che, al di là di questo conferimento, la politica dell’attuale presidente americano in Medioriente sia al momento sostanzialmente fallimentare. Ciò che ho scritto spesso nei miei libri e che la storia del porcessi di pace tra arabi e israeliani si è fatto spesso strada indipendentemente dall’aiuto di Washington. Cito come esempio il proficuo rapporto nato tra Sadat e Begin. Allora c’era Jimmy Carter alla Casa Bianca. I colloqui decisivi che si tennero a Ginevra furono prettamente bilaterali. Neanche i russi esercitarono un’influenza determinante. Obama o qualsiasi altro presidente non è in grado di imporre la pace, in nessun posto del mondo. Sono solo le parti in conflitto che possono decidere, se vogliono la pace oppure no. Quale pensa sarà il sentimento del governo di Gerusalemme su questo Nobel? «Sono certo che arriveranno le congratulazioni al presidente Obama. Saranno delle formalità. Non vedo nessun cambiamento positivo all’orizzonte. Forse per i palestinesi. Se Obama avesse potuto metter fine al governo di Hamas a Gaza, allora il premio Nobel avrebbe avuto un senso. Così a me sembra assolutamente ridicolo… lo può scrivere.
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Se il presidente americano avesse voluto mettere fine al governo di Hamas a Gaza, allora il riconoscimento di Oslo avrebbe avuto un senso, Ma così, invece...
Dall’alto, in senso orario: Henry Kissinger, Yasser Arafat, il Dalai Lama, Menachen Begin, Anwar al-Sadat e Frederik Willem de Klerk. A destra, Efraim Inbar. Nella pagina a fronte, l’ex-Cancelliere tedesco Helmut Kohl
ma: il “post”. Kissinger che nel 1973 è premiato per un negoziato in Vietnam che poi porterà ai Boat People, e di cui poi salteranno fuori le responsabilità per il golpe in Cile (il ministro degli Esteri nord-vietnamita Lê Duc Tho, premiato con lui, rifiuterà semplicemente il premio…). Gorbaciov che manda a pezzi l’Unione Sovietica. Lech Walesa che si rivelerà un pessimo presidente polacco. È vero che il leader di Solidarnosc all’epoca del Premio apparteneva a una categoria di premiati ben diversa dagli uomini di Stato. E cioè, i detenuti di opinione di cui si sperava di ottenere la liberazione: come Carl von Ossietzky nella Germania nazista, di Albert Lutuli nel Sudafrica dell’apartheid e Aung San Suu Kyi.
A volte il “post” che diventa “ante”: come la leader maya guatemalteca Rigoberta Menchú Tum, premiata nell’anno del quinto centenario della scoperta dell’America sulla base di un’autobiografia che poi si sarebbe rivelata in gran parte taroccata. La stessa Menchú, come l’argentino Adolfo Pérez Esquivel, è poi un habitué degli appelli a favore del regime castrista, ogni volta che si scatenano ondate repressive a Cu-
ba. Ma se è per questo Walesa, Wiesel e Ramos-Horta hanno invece appoggiato le guerre preventive di Bush, e il Dalai Lama ai test atomici indiani. Dalai Lama, peraltro, che Obama ha rifiutato di ricevere proprio subito prima che il Nobel lo dessero a lui. Ma, a proposito di polemiche tra Nobel per la Pace, non si può non ricordare di quanto nel 1985 furono premiati i “Medici internazionali per la prevenzione delle guerre nucleari” e il Premio di dieci anni prima Sakharov rivelò che alcuni dei partecipanti sovietici di questa “Organizzazione così allineata con le tesi di Mosca sugli euromissili erano coinvolti fino al collo nella repressione del dissenso.
Dubbio finale, sui premi come quelli a Al Gore o a Wangari Muta Maathai: rientra nel mandato del Nobel per la Pace anche l’impegno ecologico? Non a caso la rivista New Scientist ha di recente proposto una riforma in modo da scorporare dalla Pace due nuovi premi: per l’Ecologia e per la Salute Generale (tipo quello andato a Medici senza frontiere). Ma da Oslo e Stoccolma hanno risposto che i bilanci della Fondazione Nobel sono strettamente limitati. Insomma: non c’è trippa pe’ gatto!
”
diario
pagina 6 • 10 ottobre 2009
Scadenze. Per Trichet «l’Italia uscirà più forte dalla crisi». Balzo improvviso della produzione industriale ad agosto (+7 per cento)
Sui salari lo spettro dell’inflazione
Il governo teme il crollo del potere d’acquisto con un aumento dei tassi di Francesco Pacifico
ROMA. Davanti a colleghi e studenti accorsi ad ascoltarlo alla Ca’ Foscari di Venezia, Jean-Claude Trichet ha sentenziato che l’Italia «uscirà più forte dalla crisi». Le piccole e medie imprese, quelle meno gettonate nella lotteria del credito, addirittura «usciranno con una migliore struttura dei costi e una più efficiente organizzazione dei processi produttivi». Di più il mondo della finanza tricolore – soprattutto le sue controllate – «ha mostrato buona salute». Anche perché non «ha mai indugiato negli eccessi finanziari del recente passato». Le parole del presidente della Bce non possono che essere accolte con giubilo di Palazzo Chigi. Dove si spera ancora che siano proprio aziende e banche il migliore antidoto contro lo spettro dell’inflazione. Un’ondata generata dalle mastodontiche immissioni di liquidità pubblica e non riassorbita attraverso il recupero di produttività, ma in grado di alleggerire pesantemente il potere salariale degli italiani. Di fronte a questo scenario il governo rischia di essere impotente per due motivi: intanto perché la causa scatenante, l’inflazione, è endogena; quindi perché potrebbe materializzarsi in pieno 2010, quando la ripresa non sarà più un auspicio e gli altri Paesi avranno ripreso a correre con maggiore velocità della nostra. A confermare questo timing – e a riprova dei timori del governo – ci ha pensato Renato Brunetta, ospite dell’ultima riunione del cenacolo organizzato da Marco Antonellis. Il ministro della Funzione pubblica, infatti, si è chiesto:
Quest’anno i 23 milioni di lavoratori dipendenti hanno potuto sfruttare una serie di coincidenze che difficilmente si ripeteranno. Intanto i salari sono cresciuti oltre il 4 per cento perché i rinnovi sono stati fatti quando l’inflazione sfiorava il 4 per cento, mentre quest’anno il caro vita (dato di settembre) è fermo al +0,2 per cento tendenziale. Il crollo dei prezzi del petrolio (dal picco dei 130 a 70 di oggi) in dodici
Rinnovi dei contratti meno onerosi, aumento dei prezzi del petrolio e soprattutto fibrillazioni sul caro vita: nel 2010 buste paga più magre «Che cosa succederà quando la Bce sarà costretta a rialzare i tassi d’interesse?». Trichet ha spesso lasciato intendere che l’Eurotower non intende prorogare la sua “waiting strategy” oltre necessario, che sarà proprio l’ultima coda del 2010 quella in cui tornerà a infiammarsi il caro vita. In quella data potrebbero verificarsi non poche sorprese nelle buste paga degli italiani.
mesi hanno garantito un risparmio complessivo annuo per pieni di benzina e riscaldamento tra gli 800 e i mille euro. Per non parlare del taglio – in media vicino al 30 per cento – registrato sulle rate dei mutui da quando i tassi d’interesse della Bce sono arrivati all’uno per cento. Dall’anno prossimo molti di questi fattori sono destinati a cambiare. Intanto per gli ulti-
Discussione accesa in Consiglio dei ministri
Lite sulla Banca del Sud ROMA. Non è ancora nata e già divide il governo la Banca del Sud. Il ministro Giulio Tremonti ne ha avuto sentore ieri in Consiglio dei ministri, quando ha iniziato a discutere della sua creatura. Hanno raccontato alcuni ministri che non appena il titolare del Tesoro aveva iniziato a discuterne, alcuni suoi ministri – in testa Raffaele Fitto e Stefania Prestigiacomo – avrebbero contestato che era arrivato un testo che nessuno aveva ancora avuto l’occasione di studiare. Altri ministri come Scajola e Calderoli, avrebbero invece chiesto di armonizzare la Banca del Sud al più generale Piano per il Mezzogiorno. E il dibattito sarebbero andato avanti fino allo stop imposto da Silvio Berlusconi. Per evitare ulteriori tensioni il premier avrebbe concesso a tutti i ministri di rinviare
la discussione del provvedimento e promesso di dare a ognuno la possibilità di dare il proprio contributo al Piano per il Sud. Dal Tesoro si getta acqua sul fuoco e si smentiscono forti tensioni. «Spiace deludere», si legge in una nota, «chi, sperando nelle polemiche, le inventa. Nessun blitz e conseguentemente nessuno stop. Oggi, all’inizio del Consiglio dei ministri, il ministro dell’Economia e finanze, Giulio Tremonti, ha chiesto l’avvio della discussione sulla Banca del Sud in applicazione del Decreto Legge 112 del 2008». Per il ministero di Tremonti quello di ieri è soltanto un passaggio formale prima di depositare il testo «all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi per il preconsiglio preparatorio in vista del Consiglio dei ministri di giovedì prossimo».
mi rinnovi contrattuali – anche perché decisi in base all’indice Ipca depurato dall’energia – si discute di aumenti non superiori al 2 per cento. Al netto delle speculazioni, la ripresa economica aumenterà la richiesta di materie prime (petrolio in primis) e quindi i prezzi. Se a tutto questo si aggiunge un livello di attività sicuramente lontano da quello precedente alla crisi, e che difficilmente riassorbirà l’alta liquidità in circolazione, allora non resterà che una politica restrittiva sui tassi d’interessi. Ed è un’ipotesi che si rafforza anche in America, se ieri il governatore Bernanke ha detto che il denaro allo 0,25 per cento non è un tabù. Partendo da questo ragionamento, da questa spirale che si scarica sui salari, si comprende perché Tremonti dica che dopo «il rimbalzo dell’attività nella seconda metà dell’anno e all’inizio del 2010, la portata della crescita resta incerta». E la prima parte del ragionamento viene confermata anche dai dati sulla produzione industriale che ad agosto – complice il boom dell’auto – segna un +7 per cento rispetto a luglio o il superindice dell’Ocse che nello stesso mese registra per l’Italia uno scatto tendenziale di 10,4 punti.
La politica s’interroga su come trovare risorse per ampliare il potere d’acquisto. Soldi non ce ne sono, mentre i cinque miliardi che nell’ipotesi migliore dovrebbero arrivare con lo scudo fiscale sono di fatto stati già blindati per il rinnovo del contratto degli statali (quasi 4 miliardi), per la social card e per allargare la platea degli insegnati precati a quali concedere il sussidio di disoccupazione. Una strada, in verità, ci sarebbe. Ed è legata alla scommessa della contrattazione di secondo livello: rinforzare i deboli aumenti delle intese nazionali con accordi aziendali. Non a caso il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, chiede che si sia generosi già da quest’anno nei settori in ripresa. Ma anche in questo caso ci sono non poche criticità. La contrattazione decentrata riguarda soltanto le grandi aziende. E Confindustria fa sapere che per il 2009 non c’è un solo euro da scialare.
diario
10 ottobre 2009 • pagina 7
Erano 25 i dimostranti accusati di devastazione e saccheggio
La giunta si era già dimessa: ora ci saranno le elezioni
G8 di Genova, condanne pesanti per gli scontri
Niente scioglimento Commissario a Fondi
GENOVA. Dieci condanne e quindici tra assoluzioni e prescrizioni: è quanto stabilito dai giudici della corte d’Appello di Genova nell’ambito del processo a carico di 25 dimostranti accusati di devastazione e saccheggio durante le manifestazioni del G8 del 2001 a Genova. La pena più alta, 15 anni di reclusione, è stata comminata a Francesco Puglisi, condannato in primo grado a 10 anni e 6 mesi di reclusione. Pene severe anche per Vincenzo Vecchi, condannato a 13 anni, Marina Cugnaschi a 12 anni e 3 mesi, Luca Finotti a 10 e 9 mesi e Alberto Funaro a 10 anni. Pene leggermente più lievi per Carlo Aculeo, Antonino Valguarnera e Carlo Cuccomarino, condannati ad 8 anni di reclusione e per Dario Ursino e Ines Morasca, che dovranno scontare rispettivamente 7 anni e 6 anni e 6 mesi di carcere. Pene aumentate dunque per i dieci manifestanti condannati. Gli altri giovani che si trovarono coinvolti negli scontri del 20 luglio in via Tolemaide sono invece stati assolti. Sono state emesse pene per complessivi 98 anni e 9 mesi di reclusione (108 anni in primo grado). Alle parti civili infi-
ROMA. Nonostante le «infiltrazioni mafiose», il governo non scioglie il comune di Fondi, come chiesto da più parti, ma si limita a nominare un commissario che sostituisca il sindaco dimissionario e indice nuove elezioni amministrative a marzo. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha spiegaro che «di comuni accusati di infiltrazioni mafiose ne ho sciolto 12, 4 in più rispetto al precedente esecutivo. Ma per Fondi ho preferito le elezioni. Ora il popolo potrà scegliere i nuovi amministratori». La richiesta di sciogliere il comune in provincia di Latina era sul tavolo del ministro Maroni da più di un anno. Cinquecento pagine redatte da un commissione composta dalla Prefettura
ne (Banca Carige, un privato, il Ministero della Difesa, la Presidenza del consiglio dei ministri e il Ministero degli Interni) sono stati liquidati danni per 23 mila euro.
L’avvocato Laura Tartarini, che difende alcuni manifestanti accusati di devastazione e saccheggio durante gli scontri di piazza del G8 del 2001 a Genova, ha parlato di ”condanne abnormi”. parlando della sentenza della Corte d’Appello. «Non sono abituata a criticare così aspramente le sentenze - ha spiegato Tartarini - ma il fatto che nella stessa settimana siano stati assolti i vertici della polizia e condannati i manifestanti, con pene in alcuni casi comparabili al reato di omicidio, fa pensare che per giudicare i fatti di Genova i giudici abbiano usato due pesi e due misure».
La Fiom in piazza (Anche contro Epifani) Un mezzo fallimento lo sciopero dei metalmeccanici di Giuliano Cazzola nche questa volta le piazze si sono riempite di tutti i movimenti, i gruppi e il folklore che accompagnano – al pari di una mosca cocchiera – le «gloriose lotte» della Fiom. Ma le fabbriche non si sono vuotate: neppure tutte quelle delle «zone rosse» dove la Cgil è più forte e presente e può «fare male» alle imprese.
A
stante che il contesto dell’accordo quadro del 22 gennaio non sia stato condiviso dalla Cgil, hanno saputo trovare una soluzione che, nei fatti, ha consentito alle tre federazioni di gestire insieme la vertenza, riconoscendosi tutti nei contenuti comuni. Completamente diverso è stato l’atteggiamento della Fiom che ha voluto, da subito, esasperare i toni del confronto sindacale d’autunno, dopo che Guglielmo Epifani ed Emma Marcegaglia avevano cercato, nell’incontro in occasione del seminario dello Studio Ambrosetti, di smussare le asprezze di un dibattito irto di punte polemiche.
A decretare il fallimento dello sciopero dei metalmeccanici della Cgil ci ha pensato anche la crisi. Le maestranze di molte aziende, che hanno richiesto la cassa integrazione, si saranno sicuramente poste un problema: è il caso di scioperare con questi «chiari di luna» la cui luce fio- La mossa di Gianni Rinaldini (la proclamazioca determina più oscurità che luce? E i dipen- ne di uno sciopero preventivo contro un accordo denti di quelle delle imprese che ancora lavora- separato più voluto che temuto) aveva una precino (pur avendo ridotto l’attività) si saranno sicu- sa finalità, tutta interna alle logiche congressuali ramente interrogati se vale la pena di subire un della Cgil e rivolta ad impedire una normalizzataglio di otto ore di retribuzione, creando pro- zione dei rapporti con le strutture della Cisl e delblemi alla produzione, solo per fare gli interessi la Uil, attraverso la ricerca di tutte le mediazioni di un gruppo dirigente politicizzato, bastian con- possibili. Ha avuto forse un senso politico che la trario per principio. La linea di condotta della delegazione della Fiom al tavolo delle trattative Fiom non è la regola nel campo delle relazioni abbia preteso di negoziare secondo le regole del industriali, ma l’eccezione. Ormai la «terribile protocollo del 1993, quando la sua impostazione era stata superata coppia» Rinandidall’accordo del ni-Cremaschi ha 2009 ? Il medesimo scelto l’autoesclusione come impoproblema di prinstazione strategicipio l’aveva anche ca. Sono loro a la federazione decercare e a provogli alimentaristi care gli accordi ROMA. Oltre 150.000 studenti sono scesi in della Cgil, i quali, separati, fin dalla piazza in tutta Italia al fianco dei lavoratori meperò, hanno sapupredisposizione talmeccanici della Fiom Cgil. I cortei sono stati to trovare una sodelle piattaforme oltre 60 in tutta Italia: i dati sono stati diffusi luzione adeguata dall’Unione degli studenti. Sono scesi in piazza rivendicative. Nocon i partner delle più di 20.000 studenti e studentesse a Napoli, nostante le diffialtre confederazio20.000 a Milano, 15.000 a Torino, 10.000 a Rocoltà le relazioni ni, i quali non hansindacali non soma, 15.000 a Bari, 10.000 a Firenze, 15.000 a Cano sicuramente no interrotte in tania. «Gli studenti – si dice in una nota - hanpreteso abiure e rimolte categorie. no protestato contro i tagli alla scuola previsti nunce da nessuno. Sono tuttora predai provvedimenti del ministro Gelmini e hanEcco perché il no avanzato proposte concrete per migliorare valenti i carnet gruppo dirigente da subito il nostro sistema di istruzione. Chieformulati unitadella Fiom ha torto diamo una legge quadro nazionale per il diritto riamente e le cone lavora contro gli allo studio, la copertura finanziaria dei corsi di clusioni comuni interessi dei lavorecupero e la modifica del riordino degli istitudei rinnovi conratori prima ancotrattuali. Gli aliti superiori. ra che contro quelmentaristi, nonoli del Paese.
Ricomincia l’Onda degli studenti
di Messina e da rappresentanti delle forze dell’ordine. Nero su bianco contiguità con la mafia; assunzioni sospette; speculazioni edilizie; scambi di voti; i soldi della ’ndrangheta reinvestiti in cantieri e negozi. Ma ogni decisione è rimasta sospesa dal Cdm fino a pochi giorni fa quando la maggioranza di centrodestra in Comune ha rassegnato le dimissioni. «Colpa delle pressioni politiche e mediatiche», spiegò il sindaco Luigi Parisella del Pdl.
Nominato il commissario, oggi è arrivata la scelta del governo a lungo rinviata perché, come spiegò Silvio Berlusconi in occasione delle dimissioni del sindaco, «alcuni ministri erano contrari», e perché «nessun politico di Fondi ha ricevuto mai avvisi di garanzia». Molte le dure proteste contro la decisione di ieri, in base alla quale i consiglieri dimissionari potranno riprensentarsi alle prossime elezioni ed essere rieletti. «Limitarsi al commissariamento è stato un escamotage per lasciarli ricandidare», dicono dalla Cgil. E Walter Veltroni è più duro: «Il consiglio dei ministri si arrende di fronte all’intreccio mafia e politica». «Una Caporetto dello Stato di diritto», ha detto Marco Minniti, responsabile sicurezza del Pd.
politica
pagina 8 • 10 ottobre 2009
Scontro istituzionale. Il Cavaliere allude alla faziosità del capo dello Stato e minaccia una dura riforma della giustizia
L’agitato e il gentiluomo
Berlusconi prima tende la mano poi attacca di nuovo. E Napolitano decide di non incontrarlo ai funerali delle vittime di Messina di Errico Novi Roma.E meno male che le ipocrisie sono bandite. Prima Silvio Berlusconi completa la delegittimazione del Quirinale («io sono di centrodestra e Napolitano è stato un protagonista della sinistra, non si deve offendere») e chiede appunto di smetterla «con le ipocrisie» perché «non si può fingere di essere super partes». Poi fa un cenno alla vera offensiva che ha in mente: una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario che comincerà «dal processo penale», con l’obiettivo di «abbreviare i tempi della giustizia» e che però non mancherà di stringere il presidente della Repubblica tra due fuochi ingovernabili, il governo vendicatore da un parte e la magistratura irredenta dal-
l’altro. Quindi alcuni dei suoi fedelissimi entrano nel dettaglio dell’imminente repulisti: «Rivedremo ruoli e funzioni della Consulta», minaccia Maurizio Gasparri, acclarato ormai che l’Alta Corte «è di parte»; e per Fabrizio Cicchitto «è indispensabile che prenda corpo in Parlamento un’incisiva riforma della giustizia fondata su separazione delle carriere, riorganizzazione del Csm e su un nuovo modo di formazione della Corte costituzionale».Tutto però dovrebbe avvenire in un contesto, come dire, di armonia istituzionale, secondo il premier e la sua maggioranza. «Con Napolitano avremo una coabitazione che immagino leale», assicura Berlusconi. «Non considero Napolitano un nemico del premier, non fa parte del disegno in atto contro Berlusconi», è il messaggio distensivo inviato sempre da Cicchitto attraverso un’intervista a Libero, «passato l’attrito del primo momento sono sicuro che verranno ristabiliti rapporti positivi: lo scontro tra istituzioni non conviene a nessuno».
Ma se i presupposti sono questi, se si pensa di ricostruire «rapporti positivi» con l’ennesima allusione alla faziosità del Colle o agitando lo spettro di
Il Quirinale ha brillato per la sua correttezza nel caso-Lodo
E invece il premier dovrebbe ringraziarlo di Giancristiano Desiderio e non ci fosse, Giorgio Napolitano andrebbe inventato. Ma siccome c’è possiamo anche dire “meno male che Giorgio c’è”. Ha dimostrato, fatti alla mano, di essere la persona giusta al posto giusto. Paziente, scrupoloso, moderato, uomo di buon senso e buone abitudini. Silvio Berlusconi dice“non dobbiamo essere ipocriti, io sono di destra e lui è di sinistra, ognuno ha la sua storia, non c’è nessuno super partes”. Ma proprio questo è il punto: Napolitano non è al di sopra delle parti - espressione che non significa nulla - ma difende al meglio quella che è la “sua”parte: i buoni rapporti tra le istituzioni che nel loro insieme sono quello strano ente che chiamiamo Stato. Non crediamo di esagerare se diciamo che il presidente della Repubblica nel suo ultimo lavoro - l’incontro al Quirinale con Fini e Schifani - ha difeso Berlusconi dallo stesso Berlusconi.
S
La reazione del capo del governo alla sentenza della Corte costituzionale è stato uno sproposito istituzionale e politico. L’attacco che ha fatto sia alla Corte sia al Colle insieme con la traduzione della sua“elezione diretta”a palazzo Chigi in un’azione plebiscitaria e bonapartista dimostra come ormai il “confondatore”del Pdl non pensi più a instradare quel che resta del bipolarismo sulla via di una compiuta e razionale riforma delle istituzioni, quanto a fare un uso populista della sua vittoria e della egemonia della sua leadership del centrodestra. Detto in modo diretto: il premier non è il leader ma il monarca del Pdl. La maggioranza di governo è prigioniera del suo premier e Berlusconi, che ne è consapevole, estremizza la sua leadership fino a farla coincidere con il corpo elettorale e fino a sentirsi esso stesso “nomos basileus”ossia“legge sovrana”. Non è la nascita di un regime autoritario - come si ripete a sinistra - ma una forma di impazzimento e arbitrio delle istituzioni. Il presidente Napolitano, incontrando i presidenti di Camera e Senato, ha posto subito un freno a questa tendenza cesarista o mania napoleonica che ormai per Berlusconi è un abito morale e per il centrodestra uno stregamento della facoltà intellettiva. In questa stagione di confusione e arbitrii, Napolitano ha come bussola la Costituzione. La sua fedeltà alla Carta costituzionale è una garanzia per tutti: non perché la nostra Costituzione sia il meglio del meglio, ma perché evita comunque il peggio del peggio. Napolitano, con la sua storia politica e anche in ragione della sua esperienza di uomo di parte, sta dimostrando di essere un moderato, nel senso più vero della parola, ossia modera le intemperanze del premier che, del resto, rispondono a un preciso calcolo di Berlusconi: tenere sempre e comunque aperta la strada delle elezioni anticipate e imboccarla appena sarà possibile. La canzoncina berlusconiana va proprio capovolta: meno male che Giorgio c’è perché, come purtroppo dimostrano i fatti, Berlusconi tende sono a riprodurre la sua democrazia carismatica o plebiscitaria che è la caricatura di quella democrazia dell’alternanza che una volta intravedemmo.
sconvolgimenti nella giustizia, il minimo che possa accadere è che Napolitano rinunci a partecipare ai funerali solenni di Messina pur di non trovarsi il Cavaliere a fianco. Arriva intorno alle 12 e 30 infatti il comunicato con cui il capo dello Stato annuncia di aver chiesto «al presidente del Senato Renato Schifani di rappresentarlo» alla cerimonia funebre, essendo lui «impedito a parteciparvi di persona». Nessun problema di salute, riferiscono dal Quirinale: è dunque una scelta precisa. E chi conosce Giorgio Napolitano sa bene che se si è rassegnato a rinnovare il cordoglio ai familiari delle vittime per interposta persona, e in una circostanza che vede colpito ancora una volta il suo Sud, deve avere una ragione grave, molto grave. Sarebbe riduttivo dire che il presidente della Repubblica è adirato con Berlusconi: è infuriato, perché si è reso perfettamente conto che il capo del governo lo ha usato come finto bersaglio, ha
sparato contro di lui per assegnare una sorta di giustificazione preventiva ai futuri attacchi contro la magistratura. E, al limite, anche ai rifiuti che il Quirinale opporrebbe di fronte a qualche altra leggina escogitata da Niccolò Ghedini per accorciare i tempi di prescrizione.
È tutta una catena di mosse in anticipo, quella che il presidente del Consiglio ha adottato e ha in mente di adottare. Lo stesso conflitto con la magistratura, inevitabile quando arriveranno i disegni di legge costituzionali su Csm e separazione delle carriere, servirà a far apparire eventuali condanne ai processi di Milano come rappresaglie di un sistema giudiziario
politica
10 ottobre 2009 • pagina 9
La Lega assiste in silenzio alla sfida per preparare l’affondo
Bossi dà appuntamento alla nuova giustizia di Valentina Sisti
ROMA. Umberto Bossi non ha aspettato il lodo Alfano per mettersi l’elmetto: l’ha messo preventivamente, promettendo di trascinare il popolo in piazza in caso di bocciatura. Caduta in bassa fortuna la linea Letta della prudenza istituzionale, il governo si riposiziona ancor più decisamente sull’asse Berlusconi-Bossi. E la traduzione in termini politici, per il rinnovato asse Pdl-Lega potrebbe essere: io do a te il federalismo e qualche importante candidatura alle Regionali, tu dai a me l’appoggio sulla riforma della Giustizia.
colpito al cuore. Quello che Napolitano non sopporta è appunto di essere stato usato come un pretesto, aggredito in nome di una strategia che mira ad altro, e dunque platealmente accusato da chi, come Berlusconi, conosce in realtà la sua correttezza. Oltretutto dietro le accuse scomposte rivolte dal premier al Quirinale già mercoledì sera, sembrerebbe esserci in realtà anche un implicito anatema per Gianni Letta. È stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio nonché gran tessitore delle diplomazie berlusconiane, infatti, a incontrare per ultimo Napolitano prima della sentenza sul Lodo. È proprio al suo braccio
ma della pubblica amministrazione. Il ministro che gli siede a fianco, Renato Brunetta, assiste compiaciuto allo show, che peraltro segue di poche ore analoghe dichiarazioni rilasciate dal premier al Tg5. Nessun imbarazzo finché Berlusconi si autoproclama «il maggior perseguitato dalla magistratura di tutta la storia di tutte le epoche del mondo» e «il miglior premier di sempre». Ma un sussulto coglie Brunetta quando il capo del governo inciampa in un lapsus da parodia: «Ho speso 200 milioni di euro per pagare consulenti e giudici». Giudici? «Avvocati», corregge il ministro della Funzione pubblica. «Sì, avvocati…»,
Il Cavaliere contro il Corriere: «È un foglio di sinistra». Poi inciampa in un lapsus: «Ho speso 200 milioni per pagare i giudici». Il pg di Milano: «Condannate Mills in appello, lo ha corrotto Silvio» destro in realtà che il capo del governo imputa di aver creato false aspettative rispetto al comportamento della Consulta e alla capacità d’influenza dello stesso presidente della Repubblica. Risvolto che, se possibile, può solo accrescere il disappunto di Napolitano: si vede ridicolizzato pubblicamente, e vede maltrattata la dignità dell’istituzione che rappresenta, per una sorta di vendetta indispettita – oltre che per future utilità – nei confronti del mediatore Letta.
Come se non bastasse, Berlusconi si scaglia anche contro il Corriere della sera, diventato secondo lui «da giornale della buona borghesia, un foglio di sinistra: ci dispiace, sentiamo la mancanza del vecchio Corriere», dice il Cavaliere nella conferenza stampa sulla rifor-
sorride Berlusconi. In un clima del genere serve a poco l’auspicio di Schifani affinché si superi «questo momento di frizione tra le istituzioni». Napolitano non può far altro che difendere il suo dignitoso silenzio, di fronte a una situazione destinata al limite a complicarsi: ieri il procuratore generale di Milano ha chiesto la conferma in appello della condanna a 4 anni e 6 mesi per Mills, giacché l’avvocato inglese «fu corrotto da Silvio Berlusconi». Pier Ferdinando Casini invita il premier a bere «una bella dose di camomilla», ma ci pensano i leghisti a tenere sveglio il suo furore: «La Corte costituzionale è un carrozzone, va abolita», sentenzia dalle colonne della Padania Luciano Dussin. Che conseguenze possa trarne il presidente della Repubblica è facile immaginarlo.
Nessun patto c’è ancora. Andare a parlare a Berlusconi ora di qualcosa che non riguardi le sue personali disavventure sarebbe fuori luogo e Bossi lo sa. C’è da credere quindi a Roberto Calderoli quando dice che «sul Veneto non è stata fatta ancora nessuna scelta», ma è chiaro che lo tsunami della Consulta riavvicina i due leader che erano già sull’orlo di decidere una corsa separata di Pdl e Lega in Veneto. Insomma, non sarà rottura.Tocca a Roberto Cota sintetizzare: «Le Regioni che andranno alla Lega saranno decise da Bossi e Berlusconi. E noi – assicura – faremo l’accordo non per avere un pezzo di potere ma perché crediamo nel progetto politico del federalismo». Gli scenari possibili sono due. Il primo: Berlusconi cede all’amico Umberto una candidatura vincente (Veneto), una probabile (Piemonte), e una perdente (Toscana o Emilia Romagna). L’altro scenario prevede invece la rinuncia al Veneto della Lega in cambio di un nuovo ministero che potrebbe essere la Sanità (al ministro Luca Zaia o alla sottosegretaria Francesca Martini). E Cota sa che – nell’uno e nell’altro caso – a lui potrebbe toccare correre in Piemonte. Sull’Udc il veto della Lega resta, e si estende persino alla Lombardia, dove la candidatura Formigoni appare blindata. «Non sono problemi nostri – taglia corto il segretario regionale dell’Udc Luigi Baruffi – noi diamo un giudizio molto positivo su Formigoni e sulla sua giunta. Il veto su di noi è un problema del Pdl e di Formigoni. Per quanto ci riguarda – avverte – siamo anche pronti a correre da soli». Ma al di là delle sfide in diretta a Pier Ferdinando Casini, a Porta a Porta, al Pdl non conviene la rottura su tutta la linea con l’Udc, ed è ben difficile che la Lega riesca ad ottenerla. Il Carroccio però sa che ora sulla giustizia Berlusconi è deciso a misurare la lealtà di tutti. «Auspichiamo che un confronto con l’opposizione sia ancora possibile e un atteggiamento responsabile da parte loro, ma purtroppo sin qui hanno dimostrato il contrario», premette Carolina Lussana, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. «Quindi andremo avanti con la riforma della
giustizia al più presto. Non una riforma contro la magistratura ma per una maggiore efficienza, serietà e garanzia per i cittadini. Siamo d’accordo sia sulla separazione delle carriere di giudici e pm, sia per riordinare il Csm. E – aggiunge – occorre parlare seriamente di responsabilità civile e penale dei magistrati. Una riforma costituzionale che renda la magistratura meno soggetta alle correnti, introducendo nel Csm un numero maggiore di componenti esterni». Dunque: la Lega è pronta a fare sponda a gran parte delle riforme che il ministro Angelino Alfano preannuncia sul Corriere della Sera: «Separazione degli ordini» fra giudici e pm e riforma del Csm, innanzitutto. Alfano parla anche di immunità parlamentare, ma sa che la cosa può essere realizzata solo in accordo col Pd, dal quale – però – arriva solo l’adesione di Marco Follini. Gli altri (a partire da Anna Finocchiaro) respingono l’ipotesi al mittente ben sapendo che aderire sarebbe un clamoroso regalo ad Antonio Di Pietro. Ma per la Lega il problema è anche parlare con chi. Con Alfano? Che su un’eventuale riforma della Consulta risponde di no, perché «qualsiasi cosa dicessimo oggi sarebbe tacciabile di un collegamento con la sentenza». O con Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, che sostengono il contrario? Il capogruppo alla Camera parla, infatti, oltre che di «separazione delle carriere» e «riforma del Csm», anche di «riforma del modo di formazione della Corte Costituzionale». E altrettanto fa Gasparri: «Bisognerebbe rivedere ruoli e funzioni della Corte Costituzionale la cui composizione politica non la rende super partes». Prudentemente la Lussana non entra nel merito. E responsabilmente Alfano, che a Rimini ha stabilito un ”gentlemen agreement”con Nicola Mancino. centra il vero problema: per fare le riforme costituzionali bisogna coinvolgere l’opposizione se si vuole raggiungere la maggioranza dei due terzi.
Il vero fronte aperto è ancora quello per la divisione delle Regioni del Nord, dal Veneto al Piemonte
Su un’altra riforma, in realtà, il Pdl può procedere con legge ordinaria, quella del processo penale. C’è chi dice che il ”ministro ombra”del Pdl Niccolò Ghedini starebbe già studiando modifiche che ampliano il ruolo della difesa, e accelerano la prescrizione, allo scopo di preservare il premier da ripercussioni per la riapertura, a Milano, dei processi Mills e sui diritti Mediaset. In realtà, spiega un’autorevole fonte governativa, la riapertura con un nuovo collegio del processo Mills e i tempi lunghi che si prevedono renderebbero praticabile la via della prescrizione già con le leggi attuali, evitando l’ennesimo attacco sull’adozione di leggi ad personam. Nel frattempo il premier avrebbe tutta la possibilità di proseguire senza freni sulla politica dell’elmetto. A meno che, dal responso delle prossime regionali...
politica
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Addii. Per lo storico esponente repubblicano il problema non è solo economico, ma di politica generale
«La rivoluzione è fallita»
«Questo governo doveva fare le riforme, ma nemmeno ha cominciato»: Giorgio La Malfa spiega perché il Cavaliere ha esaurito la spinta propulsiva
di Riccardo Paradisi
ROMA. L’addio a Berlusconi di Giorgio La Malfa è un segnale da non sottovalutare. Per l’esperienza di La Malfa e per le motivazioni con cui il presidente del Partito repubblicano ha spiegato la sua scelta in una lettera aperta pubblicata la scorsa settimana sul Corriere della Sera. Sono soprattutto questioni di politica economica quelle che hanno convinto La Malfa a sfiduciare il governo; in particolare le mancate liberalizzazioni e una pressione fiscale che in questi anni non è mai scesa. Era del resto questa l’offerta programmatica che i repubblicani avevano sottoscritto con questa maggioranza, su questa linea La Malfa si era schierato con la coalizione di forze guidata da Silvio Berlusconi.
«C’era nel programma del centrodestra un percorso di liberalizzazioni e sgravi fiscali che non è stato avviato – dice a liberal La Malfa. Non abbiamo visto né l’una né l’altra cosa. È grave, anche perché l’Italia non ha davanti a sé un tempo indeterminato per fare una politica economica più sana. Nella lettera che io scrissi a Berlusconi il 4 settembre scorso lasciavo un margine, chiedevo delle risposte, che non sono arrivate». Mentre il tempo passa. «Quando l’Europa busserà alle porte dell’Italia pretendendo una disciplina dei conti che cosa risponderemo? E che dire delle tasse che non scendono? L’ecomomia italiana continua a registrare un peggioramento progressivo. Sono 15 anni che abbiamo una produttività stagnante. Invece di porsi questi problemi, di avvertirli come priorità da affrontare e risolvere ci consoliamo dicendo che siamo messi meno peggio degli altri. Però gli altri si muovono».
La Germania per esempio. «La grande coalizione pur pagando un prezzo politico molto caro ha portato l’età di pensionamento a 67 anni. Ebbene quando ci saranno le condizioni per ripartire la Germania potrà farlo con alle spalle una riforma decisiva fatta, e avrà da essa una spinta molto forte». Tremonti sostiene che non sia questo il momento buono per mettere mano nel vespaio della riforma pensionistica. «Conosco la tesi. Ma si potrebbe replicare che se quando le condizioni sono buone non vale la pena fare la riforma mentre quando sono cattive è pericoloso farla la morale è che la riforma del nostro welfare non si farà mai. E poi scusi, ma è inutile vantare questa larga maggioranza se poi la si usa solo per insultare il presidente della Repubblica. Per cosa utilizziamo questo vasto consenso popolare? Per entrare in una guerra inutile e logorante, per tutti, contro le istituzioni italiane?»
stanza una navigazione a vista, perché c’è un premier che ha rinunciato a dare una linea e rimettere l’Italia nel cammino di sviluppo. Si figuri io considero Tremonti un buon ministro dell’ortodossia finanziaria». Berlusconi sostiene che i condizionamenti e gli impedimenti gli verrebbero dai poteri forti Ma chi sono i poteri forti? «Ma i poteri forti non ci sono più e quelli che sono rimasti sono dalle parte di Berlusconi. È vero, Agnelli e Pirelli non amavano Berlusconi ma oggi dove sono gli Agnelli e i Pirelli? Ma scusi sa, l’attuale presidente della Fiat
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questi poteri forti avrebbero bloccato? Mica è stata avviata la riforma dei previdenza, tagliata la spesa pubblica, messi in cantiere grandi programmi di investimento, affrontati i nodi della scuole e dell’università. Poi certo, se al centro della scena irrompe il lodo Alfano tutto questo passa in secondo in piano». La radice di questo immobilismo secondo La Malfa è nella più generale crisi della politica. «La politica, quella figlia di una tradizione culturale, non abita più in Italia da almeno vent’anni. Insomma noi abbiamo avuto fino ad ora governi tecnocratici: Ciampi, governatore della banca d’Italia, Dini direttore generale della Banca d’Italia, l’ex presidente dell’Iri Prodi e ora il presidente di Mediaset Berlusconi. Qualcuno indica come nuova risorsa della Repubblica Luca Cordero di Montezemolo, il presidente della Fiat. Intanto non abbiamo fatto né la riforma costituzionale né una riforma della politica e abbiamo continuato a indebolire i partiti. In questo vuoto l’Italia affonda per assenza di politica.
È inutile vantare questa larga maggioranza se poi la si usa per insultare il presidente della Repubblica invece che per fare ciò che è necessario al Paese
La Malfa pone obiezioni sulla politica economica del governo, ma tiene a precisare che il
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Montezemolo non ha detto che spera che la legislatura arrivi fino in fondo? La stessa cosa non se l’è augurata Emma Marcegaglia? E Passera non ha aiutato il Cavaliere a risolvere il problema dell’Alitalia? E poi Mediobanca, e la maggioranza degli azionisti del Corriere della Sera che votano per Berlusconi». Beh, ci sono altre banche che non sono proprio berlusconiane. «Altre banche? Perché non hanno sottoscritto i Tremontibond? O perché Profumo ha le sue opinioni? La realtà è che le banche non sono un contropotere rispetto a Berlusconi. Mi sembra che questa dei poteri forti sia insomma una scusa. Ma insomma dove sono le riforme politiche e economiche che
La politica, quella figlia di una tradizione culturale, non abita più in Italia da almeno vent’anni. Berlusconi è l’esito di questo lungo processo di svuotamento problema non è Tremonti, il problema è Berlusconi «La balla che ci sarebbe il presidente del Consiglio vittima di una linea subita, non voluta è appunto una balla. Il ministro del tesoro esegue una politica e non è colpa sua se questa politica è in so-
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Noi che veniamo da una lunga tradizione liberale e democratica che abbiamo una cultura forte alle spalle sappiamo misurare qual’è il vuoto politico di oggi». I laici della Prima repubblica, avrebbero dovuto dare una cultura politica al berlusconismo, evidentemente non ci sono riusciti. «Evidentemente no. Ed è per questo che io scendo qui». Ed ora? «Ora è il momento di riflettere e guardarsi intorno. Di porsi nella stessa prospettiva in cui sta il partito liberale tedesco, che forte di una sua identità sceglie di volta in volta il suo alleato. Gli interlocutori migliori per un liberale laico e democratico oggi sono sicuramente al centro. Dove una tradizione e una cultura politica ci sono ancora».
politica
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Le ripercussioni di un conflitto che neppure il capo dello Stato può frenare ROMA. Lo strappo istituzionale non soltanto c’è stato, ma non sembra essersi sanato. E non sono bastate l’opera dei presidenti di Camera e Senato in visita sul Colle e il piccolissimo passo indietro di Silvio Berlusconi. Una situazione che si è tinta di giallo quando Napolitano ha comunicato che oggi, ai funerali solenni delle vittime di Messina, si farà rappresentare dalla seconda carica dello Stato, Renato Schifani. Per Stefano Folli, editorialista del Sole24ore lo scontro istituzionale tra il Quirinale e Palazzo Chigi è lontano dal rientrare. Che cosa sta accadendo? Penso che il presidente della Repubblica sia molto offeso, ma non per questo sta alimentando lo scontro. Dal punto di vista istituzionale il suo è stato un comportamento corretto e sobrio. Non ha replicato dopo i violentissimi attacchi, senza precedenti, ricevuti da Berlusconi. E sul piano personale? Credo che il presidente sia offeso. E non fa nulla per nasconderlo. La sua assenza a Messina potrebbe essere una coincidenza, ma che sia molto risentito è sicuro. A chi giova questo scontro? A nessuno. Questi conflitti sono gravi non solo e non tanto sul piano dei rapporti istituzionali, quanto su quello personale. Gli effetti? Non siamo un Paese in grado di reggere uno scontro istituzionale di questo tipo, ma la cosa riguarda ogni nazione. In Gran Bretagna sarebbe impensabile, ad esempio, un conflitto tra il primo ministro e la regina entrassero in conflitto. E per gestire un Paese com-
«È guerra istituzionale. Ora riforme impossibili» Stefano Folli: «Il Colle è irritato e la maggioranza è in preda all’agitazione: la stabilità è a rischio» di Franco Insardà plesso come l’Italia è necessaria anche sintonia personale tra i vari corpi dello Stato. La lealtà tra le istituzioni è una cosa molto seria, mentre si ha l’impressione che Berlusconi la interpreti come un rapporto tra uomini di affari che devono discutere di una questione privata. Dovrebbe prendere lezioni da Napolitano. Napolitano voleva evitare qualsiasi situazione che potesse provocare conseguenze politiche gravi. E come in altri passaggi delicati si è adoperato per aiutare il governo. Per questo l’attacco di Berlusconi è gratuito e incomprensibile. C’è una strategia? Non riesco a intravederla. L’unica spiegazione potrebbe essere quella di andare a elezioni anticipate. È un’ipotesi percorribile?
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una perdita di freni inibitori. Ma se non c’è una ratio la cosa è ancora più grave. Anche perché le ferite, soprattutto sul piano personale, rimangono. Bewrlusconi non vede ostacoli «al programma di
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La Lega sembra non aver voglia di avventure e Bossi si è detto non interessato a elezioni anticipate e si rende conto che per fare le riforme occorre un clima diverso
Casini ha tenuto una posizione politica molto equilibrata e corretta. Non c’è dubbio che l’Udc si rivolge a quell’Italia moderata, che in questo momento è disorientata Non mi sembra, anche perché buona parte della maggioranza non seguirebbe il Cavaliere. E se non fossero le urne l’obiettivo del premier? Sarà stato uno scatto di nervi,
losa una simile deriva. Ma siccome è un uomo molto sicuro di se, cerca di tenere il punto. E le riforme? Ci troviamo di fronte a un premier molto indebolito dalla vicenda del lodo Alfano e le rifor-
è un uomo solo, ma il suo popolo è con lui? Soltanto un’opinione pubblica molto militante, tifosa può apprezzare queste performance. Ma i moderati, che sono la gran parte dell’Italia e che hanno rappresentato la forza di Berlusconi, assistono a queste vicende con un certo disorientamento. La forza del centrodestra consiste nell’interpretare una grande anima moderata del Paese, se si radicalizza perde questa caratteristica. A proposito di posizioni radicali come giudica quella defilata della Lega, dopo le minacce di Bossi? Il Senatùr è un uomo capace di certe affermazioni, però bisogna distinguere tra forma e sostanza. La Lega, in questo caso, sembra non aver voglia di avventure e di sostenere Berlusconi in questo clima. Bossi ha dichiarato che la Lega non è interessata a elezioni anticipate e si rende conto che per fare le riforme occorre un clima diverso. In questo scenario, e per rispondere alle istanze dei moderati, quale ruolo può avere l’Udc? Casini ha tenuto una posizione molto equilibrata e corretta dal punto di vista politico. Non c’è dubbio che l’Udc si rivolge all’Italia moderata, mentre Berlusconi intercetta il consenso dell’Italia più radicale. Questa, a mio modo di vedere, è una posizione pericolosa. Commentando la sentenza sul lodo Alfano e le reazioni del premier ha scritto che è difficile essere ottimisti? Le macerie ci sono e ci possono essere delle conseguenze poco positive sull’equilibrio istituzionale.
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riforme». Credo che si sia pentito di aver attaccato in questo modo il Quirinale. Dopo le prime ore si sarà reso conto del danno fatto, comprende quanto sia perico-
me che questa maggioranza ha fatto con fatica in un anno e mezzo non si capisce perché dovrebbero diventare prive di ostacoli. Mentre quelle in cantiere sono ancora più difficili da realizzare, visto che in non pochi casi implicano delicati rapporti con apparati dello Stato, come quella indispensabile della magistratura. Si riuscirà a farla? Proprio in quest’ottica sarebbe stato necessario un rapporto di sintonia con il Quirinale. Pretendere di fare la riforma della giustizia in un clima del genere è qualcosa di molto complicato. Bisogna essere realisti, rendersi conto che il premier si è indebolito e la prima cosa da fare è quella di ricostruire un clima di maggiore cooperazione tra le istituzioni. Berlusconi a questo punto
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segue dalla prima Nella Francia dell’Illuminismo che aveva reso “libertà ed uguaglianza”rivendicazioni dominanti, si impose - poco dopo gli inizi ancora del tutto “costituzionali” del 1789 - una radicalizzazione che condannò a morte le classi fino ad allora al potere, ovvero la nobiltà ed il clero. L’ala radicale del giacobinismo trasformò in dato politico ciò che in tutti i tempi fu realtà potenziale, cioè la rivolta delle “classi inferiori”contro determinati aspetti del governo delle due classi dominanti o piuttosto contro questo dominio in quanto tale. I giacobini radicali guidati da Robespierre, intenti ad eliminare perfino i campanili perché ritenuti elemento di disuguaglianza, considerarono la vittoria a portata di mano, ma quando nel 1815 l’Europa dei nobili e cristiani sconfisse il più importante figlio e contemporaneamente nemico della rivoluzione giacobina, fu evidente che perfino in Francia nobiltà e clero non erano stati sconfitti del tutto e che al posto dell’assolutismo degli ultimi re, vi fu poi per molti anni l’assolutismo più marcato del “primo impero”di Napoleone Bonaparte.
Nacque così l’Europa della “restaurazione”, già divenuta l’Europa dei Parlamenti, dei partiti e delle elezioni politiche nazionali in Francia ed in Inghilterra, che – secondo la logica del predominante partito liberale - attuava il “progresso” e dunque anche “l’emancipazione“ di ceti fino ad allora svantaggiati, ovviamente anche delle confessioni svantaggiate come i cattolici in Inghilterra o gli ebrei in Germania. I liberali radicali, che già si definivano “democratici”, considerarono questo processo la via verso un’unificazione cosmopolita dell’umanità, in cui convivere in armonia e pace perenne, come una grande famiglia, lasciandosi alle spalle gli “stati nazionali”(che in realtà, in Francia e Inghilterra avevano appena superato la primissima fase di sviluppo). Nacque così in Europa il “sistema liberale”, nel quale realtà storiche, orientate al passato, al presente o ad un futuro immaginario, erano in conflitto tra loro: i conservatori, non di rado organizzati in partiti o orientamenti clericali, i liberali moderati e radicali, ed infine i socialisti quali portavoce della maggioranza, del popolo trascurato e “sfruttato”. Tutto sommato si trattava di una sistema stabile e flessibile ma anche fragile, capace di conquistare il mondo e di qualificarne ampie parti. La Rivoluzione europea del 1848 non fu un fallimento totale, come non fallì del tutto la Rivoluzione francese, ma conservò in se i germogli di un’ulteriore emancipazione e l’ampliamento del diritto di voto. Non in ultimo dimostrò la forza del pensiero nazionalista, il quale aveva quasi portato alla disfatta la monarchia sopranazionale degli Asburgo. Ed era inequivocabilmente parte di quella“emancipazione”tanto propugnata da coloro che ambivano ad abolire anche le nazioni. In questo sistema abbondavano elementi di conflitto, paradossi e reciproche intersecazioni di posizioni precedentemente contrapposte, ma il cammino verso la creazione di nuove nazioni e verso il diritto generale di voto appariva inarrestabile anche alla maggior parte dei conservatori. Realtà più significativa fu poi la creazione “ritardata”degli Stati nazionali in Europa Centrale, nell’Italia di Cavour e nella Germania di Bismarck. Quest’ultima aveva una costituzione politica molto progressista con diritto di voto per un parlamento nazionale, mentre con l’occupazione di Roma e dello Stato della Chiesa, nonché
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Non solo i problemi della quotidianità, ma anche le “grandi questioni” del p andranno affrontati tenendo conto della tradizione comunista ancora esisten
La nuova Germ
Considerare le elezioni politiche tedesche del 2009 co di politica contemporanea è sbagliato: il successo dei L potrebbe essere la novità capace di restiture al Paes di Ernst Nolte sotto la guida dell’antimarxista Adolf Hitler, diede vita ad un equilibrio ideologico e politico contrapposto all’Unione Sovietica comunista, comportando la probabilità, anzi la quasi certezza che una “guerra civile ideologica europea” tra i due regimi assolutamente antitetici eppure simili, cioè fascismo e bolscevismo, scatenasse poi una “guerra civile mondiale” del tutto reale, contraddistinta anche da vecchi concetti e scontri nazionali. Tutti sanno che questa guerra ebbe inizio con l’attacco della Germania alla Polonia, voluto da un gruppo di politici della Repubblica di Weimar per la riconquista di territori persi; ben presto divenne lotta per il proprio “spazio vitale”, lotta per la sottomissione e l’allontanamento dei vinti. Ma il conflitto che stava espandendosi in tutta l’Europa, mutò in guerra mondiale ideologica solo nel momento in cui, il 22 giugno, la Germania di Hitler sferrò il suo colpo o “attacco preventivo” contro l’Unione Sovietica, e “l’Inghilterra imperialista”e gli Stati Uniti“capitalisti”di conseguenza si allearono con l’Unione Sovietica.
con l’esilio dei “neri” dalla vita politica, l’Italia sembrava aver risolto il suo annoso problema della smisurata rilevanza della Chiesa. Non meno importante fu il fatto che proprio in Germania, e prima della fine del XIX secolo, il “marxismo” si impose nel “movimento operaio”, un movimento in continua crescita, che faceva riferimento alle tendenze egualitarie dell’Illuminismo, attingendo sempre più all’enorme repertorio della passione “anticapitalista”, in termini tali da collegare questa semplice idea ad una dottrina estremamente complessa sullo sviluppo economico.
Aveva per elemento centrale una speranza paradossale ed utopica: la travolgente trasformazione “borghese”, con le sue continue innovazioni, il suo estendersi a tutto il mondo, la sua spersonalizzazione dei rapporti e la sua fondamentale estraniazione dell’uomo dalla natura e dal prossimo, avrebbe portato, attraverso una “rivoluzione mondiale”da essa stessa provocata, all’esatto contrario, ovvero alla convivenza a misura d’uomo di individui non più soggetti alla “ripartizione coercitiva”del lavoro, ma in armonia nell’ambito di un’umanità planetaria. All’alba del ventesimo secolo non furono solo i “proletari” a considerare questa forma di socialismo “l’onda travolgente del futuro”. L’altra grande realtà che segnò la Storia fu lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914 e l’inaspettata auto-identificazione, di quasi tutti i partiti socialisti, con gli Stati nazionali in lotta, atteggiamento che i marxisti purosangue considerarono del tutto antistorico e grave tradimento. Parimenti inaspettata e antistorica fu considerata anche la vittoria e la totale presa del potere del bolscevismo ampiamente diverso dal marxismo - in seguito alla “Rivoluzione d’ottobre” nel 1917 in Russia. Il bolscevismo fu considerato“movimento irregolare”, dimostratosi incapace - intervenendo dall’esterno - di avviare negli “Stati industrializzati”l’agognata rivoluzione mondiale. Era più che probabile che a contrapposizione del suo postulato di “annientamento delle classi” nascesse una resistenza militante, e già nel 1922 un tale movimento di resistenza antibolscevica giunse al potere sotto la guida di Benito Mussolini, che prima della guerra era stato alla guida del braccio più radicale del movimento marxista-socialista italiano. Al partito irregolare di annientamento sociale del marxismo-leninismo internazionale si contrappose dunque il partito di annientamento del “nazionalfascismo”, anch’esso derivante
I primi partiti in senso stretto e il primo parlamento nacquero in Inghilterra, con la differenziazione tra Whigs e Tories, ma il vero nemico di questi “embrioni” fu l’assolutismo dei monarchi dal socialismo radicale, ma parimenti anche dal nazionalismo militante. A partire dal 1924 creò il secondo regime monopartitico in Europa. Non devo qui ricordare ciò che tutti sappiamo: il partito fascista italiano, inizialmente ritenuto insignificante, affiancato nel 1933 dal regime similare ma molto più radicale del nazionalsocialismo tedesco
Pochi considerano il fatto che si trattò di una guerra “paradossale”, perché le due potenze anglosassoni seguivano ancora, e con grande disinvoltura, il pensiero “razzista”, considerando “il dominio del mondo da parte della Rosa Bianca”dato di fatto assolutamente inconfutabile, risultando così più vicini a Hitler che a Stalin.A prendere la decisione furono i liberal di sinistra intorno a Roosevelt e i difensori dell’Impero Britannico intorno a Churchill. Considerando il rifiuto più assoluto dell’emancipazione dei territori sottomessi e dell’universalismo planetario da parte di Hitler – in un tutt’uno con la dichiarazione di colpevolezza“degli ebrei”, – la vittoria della “coalizione democratica mondiale” racchiudeva in se un significato intrinseco ed una notevole forza di convinzione, anche se non la si poteva certo definire una vittoria del sistema liberale e della “democrazia occidentale”. La Germania di Hitler condusse dunque per la seconda volta una guerra contro
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Indubbiamente sarebbe fuori luogo definire questo nuovo partito“comunista”; basta paragonare le poco concilianti pretese di annientamento nei discorsi dei deputati al Reichstag del periodo di Weimar con i discorsi degli attuali leader della sinistra, per rendersi conto della differenza che intercorre tra i deputati di allora ed i rappresentanti, quasi “borghesi”, della sinistra attuale. Comunque è indubbio che in futuro non solo i problemi della quotidianità politica, ma anche le “grandi questioni” del passato tedesco ed europeo, andranno affrontati considerando anche la tradizione comunista ancora esistente nel partito di sinistra. Solo nel momento in cui questo nuovo partito affronterà il proprio passato, non solo semplicemente rimuovendolo, si potrà risolvere il quesito se il semi-totalitarismo intellettuale di
passato (anche europeo), nte nel partito di sinistra
mania
ome mera vicenda Liberali e della Linke se la sua “unità” quasi tutto il mondo, sia a difesa della sua realtà reazionaria, come sostenevano i marxisti, sia allo scopo di ribaltare qualsivoglia ordine ragionato, come sostenevano i progressisti. Nel dopoguerra si potevano considerare progressisti anche i partiti cristiano-conservatori appena creati, come la Cdu in Germania e la Dc in Italia. Il marxismo conquistò potere politico negli stati dell’Europa orientale, non solo attraverso l’Unione Sovietica; in quanto movimento intellettuale trionfò anche nel mondo spirituale di Francia ed Italia, la cui opinione pubblica, ivi comprese le università, era decisamente influenzata, anche se non dominata, dai marxisti. Soltanto nella Germania totalmente sconfitta le cose andarono diversamente, in quanto l’Unione Sovietica, potenza occupante, impose con mano pesante le proprie rivendicazioni di riparazione materiale, appropriandosi dei territori della Germania centrale. Si appropriò inoltre di tutti i territori della Germania orientale, da Königsberg a Breslavia, trasferendoli poi a Polonia e Cecoslovacchia, a riparazione dei danni causati dal Terzo Reich e dalla sua politica (sociale) di annientamento – ivi compresa la cacciata di oltre dieci milioni di tedeschi. Per tutti i tedeschi che vivevano all’ovest o che vi avevano trovato rifugio, il“comunismo”era dunque nemico naturale ed odiato. Nel corso del lento consolidamento dei due nuovi Stati, la“Repubblica Federale di Germania”a Ovest e la“Repubblica Democratica Tedesca” a Est, una assumeva i tratti di una “democrazia occidentale” e l’altra diventava sempre più un regime totalitario; ad ovest il partito comunista, dichiaratosi nemico del “sistema pluralista”, fu per così dire trasferito all’estero, affinché le elezioni politiche si svolgessero tra partiti che, - volendo continuare ad esistere pur definendosi fortemente orientati a sinistra o nuovo partito “verde” con l’aspirazione di tutelare l’ambiente contro le disastrose ripercussioni di un pericoloso“turbocapitalismo”, - dovevano comunque avere un atteggiamento quantomeno estremamente critico nei confronti della Rdt, la quale considerava sempre più ovvia la sua superiorità.
Dopo la riunificazione nel 1990, attuata nonostante l’opposizione potenzialmente travolgente degli alleati europei solo perché considerata parte del processo di liberalizzazione dell’Europa dell’est, l’ex partito di Stato della Rdt, la Ses (Sozialistische Einheitspartei Deutschland: Partito unico socialista tedesco) era ormai fuori gioco, anche se non fu disciolto come a suo tempo la Nsdap, il Partito di
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Nella pagina a fianco, dall’alto: Otto von Bismarck; Adolf Hitler; Helmut Kohl. Qui sopra: Oskar Lafontaine. Sotto: Angela Merkel
Il bolscevismo venne considerato “movimento irregolare”, dimostrandosi incapace - intervenendo dall’esterno - di avviare negli Stati industrializzati la rivoluzione mondiale Stato del Terzo Reich. Le prime elezioni politiche nella Germania riunificata, il 14 ottobre del 1990, furono ancora elezioni “occidentali” del tutto identiche al passato, con l’esclusione quasi totale, indubbiamente per volontà degli elettori, dei comunisti, che ora bisognava definire piut-
tosto “socialisti di sinistra tendenzialmente militanti”. Perfino la vittoriosa coalizione “giallo-nera”tra i cristiano-democratici (in verità molto“socialdemocratizzati”) ed i liberali della Fdp, risultato delle elezioni del 27 settembre 2009, è da considerare “tedesco-occidentale”, pur essendo la rieletta Cancelliera nata e vissuta nella Rdt fino al 1989. Ma la novità, l’elemento considerato a lungo inverosimile e che dovrebbe restituire alla Germania futura i tratti inequivocabili di “unità”, è stato il successo elettorale del nuovo partito “die Linke”(“la Sinistra”), del quale fanno parte alcuni ex membri della Sed; questo successo è stato ottenuto grazie all’impegno dell’ex leader del Partito Socialdemocratico Tedesco, Oskar Lafontaine, che è riuscito a conquistare anche molti voti della Germania ovest.
ineguagliata e assoluta “unicità” (e non solo “incomparabilità”) dell’Olocausto rimarrà affermazione definitiva, oppure se riuscirà ad imporsi l’idea ormai molto diffusa del “nazismo interiore” nel comportamento di tutto l’occidente nella sua accezione ad oggi. Non sarà proprio il suo atteggiamento concreto a decretare l’eventuale ritorno di un “populismo di destra”, anch’esso profondamente mutato? Inoltre questo partito deve ancora dare il proprio contributo a questioni del tutto nuove: come interpretare l’esistenza di un sistema politicamente comunista ed economicamente capitalista o con economia di mercato, nella nazione attualmente più densamente popolata, la Repubblica Popolare Cinese? L’intensità e la perfezione delle impressionanti manifestazioni di massa, con le pur evidenti differenze, non richiama forse alla memoria il nazionalsocialismo tedesco? Non si dovrebbe forse analizzare ed affrontare “criticamente” il XX secolo e l’inizio del XXI, in modo da superarne l’immagine in bianco e nero? Considerare le elezioni politiche tedesche del 2009 una mera vicenda di politica contemporanea, a mio avviso è dimostrazione di erronea comprensione. (Traduzione: C. Galatzer)
mondo
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Turchia. Ankara rivendica il suo ruolo di potenza regionale, capace di tessere rapporti con Russia e Iran, Israele e Stati Uniti
«In Europa per comandare» Parla il ministro degli Esteri, Davutoglu, che lancia un messaggio all’Occidente... di Alvise Armellini
BRUXELLES. Alla vigilia del rapporto annuale della Commissione europea, in cui non mancano le critiche sui ritardi del processo di riforme interne, il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu si è presentato a Bruxelles rivendicando il ruolo di potenza regionale del suo Paese, capace di tessere rapporti con Russia e Iran così come con Israele e Stati Uniti. E per lanciare un messaggio ad un’Europa sempre più turcoscettica: con la sua integrazione l’Unione europea potrebbe compiere il salto di qualità, acquistando finalmente la credibilità necessaria per affrontare le grandi questioni internazionali. «Non appena la Turchia sarà entrata nell’Ue, l’Ue diventerà la più importante potenza mondiale per risolvere tutti questi problemi», assicura Davutoglu, riferendosi al conflitto mediorientale, alle tensioni nel Caucaso e al nodo Afghanistan-Pakistan. Di fronte ad una platea ristretta di giornalisti europei, a cui Liberal ha partecipato venerdì scorso, il “Kissinger turco” ha spiegato che Ankara sta lavorando per portare in dote ai Ventisette la stabilizzazione del Caucaso e si offre come “honest broker” per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente e riavvicinare l’Iran all’Occidente. Ma sulla partita nucleare il ministro ha lanciato un avvertimento: bisogna lasciare spazio alla diplomazia, appena ripresa con l’incontro a Ginevra tra il “5+1” e i rappresentanti di Teheran, lasciando da parte le minacce di nuove sanzioni. La spina nel fianco resta la questione cipriota, che potrebbe portare ad un nuovo intoppo nella marcia di avvicinamento verso Bruxelles. Il 14 ottobre la Commissione pubblicherà il rapporto annuale sui progressi della Turchia verso l’Ue, e una delle questioni all’ordine del giorno è il rispetto della libertà di stampa, alla luce della multa miliardaria per evasione fiscale inflitta al gruppo Dogan, proprietario di quotidiani critici nei confronti del governo Erdogan. Come risponde a queste preoccupazioni? Non è un problema di trattamento dei media, ovvero di libertà di espressione, ma di pagamento delle tasse, cioè di tutela dello Stato di diritto. La libertà di stampa è un principio sacro, ma il
gruppo Dogan non è soltanto un gruppo editoriale. E l’anno scorso ha già patteggiato un’ammenda per evasione fiscale. Inoltre questa inchiesta non è un caso isolato: ce ne sono molti altre che riguardano altre aziende. Infine la vertenza non è ancora conclusa, e il gruppo Dogan può rivolgersi a un Tribunale per contestarla, visto che la Turchia è uno Stato di diritto. Per noi è una questione tecnica e non politica, e speriamo che rimanga tale. A dicembre i leader dell’Ue dovranno verificare il rispetto del cosiddetto “Protocollo di Ankara”, che vi obbliga ad aprire i vostri porti e aeroporti alla Repubblica di Cipro. Vi adeguerete, sapendo che altrimenti rischiate un ulteriore congelamento dei negoziati di adesione? Purtroppo molti pensano che l’unico problema è l’apertura dei por-
2006, l’ultima volta che l’Ue affrontò il nodo del ‘Protocollo di Ankara’: allora si parlò dell’apertura provvisoria di un porto turco in cambio dell’apertura del porto turco-cipriota di Famagosta... Negli ultimi sette anni la Turchia è stata l’unica a compiere dei gesti di riconciliazione. Se nel frattempo avessimo visto solo un gesto di risposta da parte dei greco-ciprioti nei confronti della Turchia adesso saremmo più disponibili. Ma ora abbiamo perso la fiducia: chi ci garantisce che ad un passo da parte nostra ne seguirà uno da parte dei greco-ciprioti? Il fatto è che i turcociprioti sono considerati una specie sub-umana, a cui è negato il diritto di viaggiare e alla cultura, mentre i greco-ciprioti sono una specie super-umana a cui è consentito dire di ’no’ senza essere mai puniti. Quando arriverà il momento in cui l’Ue dirà basta: o ac-
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Il vero problema con la Ue è la Repubblica di Cipro, ammessa senza aver risolto i propri problemi territoriali e di vicinato, violando palesemente uno dei basilari principi del processo di adesione ti. Il vero problema è la Repubblica di Cipro, ammessa nell’Ue senza aver risolto i propri problemi territoriali e di vicinato, violando uno dei chiari principi del processo di adesione. Nessuno dovrebbe dimenticare quanto è successo nel 2004 (quando i greco-ciprioti entrarono in Europa pur avendo bocciato il piano di riunificazione Annan, lasciando al palo i turco-ciprioti che lo avevano accettato, ndr). Nessuno può pretendere che l’unico problema sono i porti: se nel 2004 i greco-ciprioti avessero detto “sì”, oggi non esisterebbe. Le promesse non sono state rispettate. E gli obblighi dell’Ue nei confronti dei turco-ciprioti sono importanti almeno tanto quanto quelli della Turchia nei confronti dei greco-ciprioti: erano stati promessi aiuti economici e la fine del loro isolamento commerciale, ma tutto è rimasto bloccato. Quindi per noi è impossibile riconoscere i greco-ciprioti senza risolvere la questione cipriota. Tuttavia, una strada per disinnescare la “bomba cipriota” forse c’è. Per esempio, la proposta di compromesso che avevate ventilato nel
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cettate questo piano di pace o dovete smettere di bloccare gli interessi strategici dell’Ue? In ogni caso, sono ottimista. Perché in Europa ci sono molte persone che hanno capito molto meglio chi vuole davvero la pace e chi no. Lei si dichiara ottimista sulla ripresa dei negoziati tra l’Iran e le potenze occidentali, allude alla possibilità di coinvolgere Teheran negli sforzi di stabilizzazione in Afghanistan e Pakistan, dove presto si recherà in visita il suo primo ministro Recep Tayyip Erdogan, e ricorda l’importanza delle risorse iraniani per i progetti europei sulla sicurezza energetica, a partire dal gasdotto Nabucco. Ma la recente scoperta di nuovo sito di arricchimento dell’uranio a Qom ha riacceso le tensioni con Israele. Qual è il suo giudizio sulla pericolosità del regime degli Ayatollah ? Siamo fiduciosi, siamo più ottimisti di prima, anche se avremmo preferito che l’incontro con il ‘5+1’ fosse avvenuto prima dell’Assemblea generale dell’Onu. Ma Tehe-
ran ha preferito aspettare. Ci stiamo impegnando molto nell’appianare le tensioni tra Iran e Occidente non solo perché l’Iran è un nostro vicino, ma anche per via della questione energetica: abbiamo bisogno che l’Iran torni sul mercato dell’energia. E ci stiamo impegnando a fondo affinché non si arrivi a nuove sanzioni: prima di tutto perché non funzionano – come dimostra l’esempio di quelle contro l’Iraq di Saddam Hussein negli anni ’90. Ma anche perché non vogliamo che il gas iraniano finisca in Cina invece che nel gasdotto Nabucco. Ma quali sono le ‘linee rosse’ della Turchia sul nucleare iraniano? Noi difendiamo alcuni principi. Primo, il diritto d’accesso alla tecnologia nucleare pacifica, che deve essere accessibile a tutti i Paesi e non monopolio solo di alcuni. Se c’è un progetto pacifico, in coordinamento con l’Aiea, non c’è motivo di impedire all’Iran di svilupparlo. Secondo, la Turchia non vuole alcun sistema di armi nucleari nella sua regione, né in Iran, né in Israele, né in Siria, né in Egitto, né in alcun altro Paese. Vogliamo un Medio Oriente senza armi nucleari. Noi non le vogliamo, e gli iraniani dicono non volerle nem-
meno loro. Come verificarlo? C’é un’organizzazione atta a questo, l’Aiea, lasciamo che lavori. Terzo, dovremmo prediligere sempre la diplomazia e non le sanzioni, perché queste puniscono non solo il Paese interessato, ma anche i suoi vicini. La Turchia, per esempio, é stato il Paese maggiormente colpito dalle sanzioni contro l’Iraq. Lei insiste molto sul profilo internazionale della Turchia, sottolineando il contributo determinante del suo Paese alle mediazioni svolte dall’Ue per mettere fine alla guerra di Gaza nel dicembre scorso, l’impegno nei negoziati indiretti tra Siria e Israele, gli sforzi di rappacificazione con l’Armenia, il ruolo di pontiere con l’Iran, e la fitta rete di rapporti con il mondo arabo, asiatico e africano. State costruendo una vostra sfera autonoma di influenza internazionale? No, noi non vogliamo costruire alcuna alternativa all’Unione europea: abbiamo un grande potenziale di sinergie tra la nostra politica estera e quella dell’Ue. Ma se non c’è coordinamento o se l’Ue ignora gli interessi della Turchia, questo potenziale andrà sprecato. Al momento collaboriamo bene sul Me-
mondo
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Il rapporto della Commissione evidenzia le lacune sul fronte dei diritti
Ma per entrare nella Ue ora servono le riforme L
e lamentele contro le posizioni turcoscettiche di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel non bastano: per guadagnarsi l’ingresso nell’Unione europea, la Turchia deve darsi una mossa con le riforme interne. È quanto segnala la Commissione europea nel rapporto annuale che sarà pubblicato il 14 ottobre a Bruxelles, in cui vengono evidenziate le numerose lacune da parte di Ankara sul fronte dei diritti.
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Abbiamo bisogno che Teheran torni sul mercato dell’energia. E ci impegniamo a fondo affinché non si arrivi a nuove sanzioni: non funzionano e non vogliamo che il gas iraniano finisca in Cina dio Oriente e sui Balcani, dobbiamo farlo anche su altri fronti. Tuttavia, non temete di perdere la vostra autonomia in politica estera entrando nell’Unione? Dall’interno dell’Europa, per esempio, difficilmente avreste potuto congratularvi con Ahmadinejad come avete fatto dopo la sua vittoria contestata alle elezioni di giugno... Quando faremo parte dell’Unione non ci limiteremo ad applicare passivamente le sue decisioni, ma faremo parte del processo decisionale. E non credo che saremo costretti a seguire quello che gli altri Paesi decideranno per noi: i meccanismi di democrazia interna dell’Ue funzionano molto bene, e intendiamo sfruttarli. Per esempio, avremo un ruolo di primo piano sul Medio Oriente, perché é la zona che conosciamo meglio. E non pensi soltanto alle congratulazioni che abbiamo mandato ad Ahmadinejad, ma anche alla mediazione tra Siria e Israele: è un esempio di quanto di buono la Turchia può portare all’Unione europea. Saremo al centro dell’Ue: Ankara rimarrà ad Est, ma la Turchia sarà a Bruxelles. All’ultimo summit della Nato, la Turchia aveva espresso forti riserve sulla nomina del danese Anders Fogh Rasmussen a Segretario generale, evocando la questione delle vignette su Maometto non censurate dalla Danimarca e la mancata chiusura da parte del governo di Copenhagen dell’emittente Roj tv, da voi accusata di es-
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sere legata ai terroristi curdi del Pkk. Ora che Rasmussen è in sella da un paio di mesi, i vostri dubbi sono stati dissipati? E avete ottenuto quello che volevate dalla Danimarca? Non avevamo nulla di personale contro la Danimarca o contro Rasmussen, che è un amico personale del nostro primo ministro. I nostri dubbi erano legati a questioni di metodo e di merito. Di metodo, perché la Nato è un organizzazione basata sul consenso come l’Ue, e quindi tutti i Paesi dovrebbero essere consultati prima di prendere una decisione. E noi non eravamo stati consultati correttamente, nonostante la Turchia sia uno dei più grandi Paesi della Nato e sia stata un alleato fedele durante i lunghi anni della Guerra Fredda. Di merito, perché malgrado Rasmussen a noi piaccia, l’80-90% delle missioni Nato si svolge in territori musulmani, e l’aspetto psicologico delle operazioni è importante almeno quanto quello militare. Quindi è necessario sviluppare buoni canali di comunicazione per evitare i malumori legati alla ‘crisi delle vignette’ in Paesi come l’Afghanistan. Eravamo perfino stati contattati da un grande Paese musulmano – non voglio dire quale – per cercare un altro candidato. Per questo abbiamo avviato delle consultazioni e concordato alcuni passi dopo la nomina di Rasmussen, che lui ha svolto diligentemente. Ora non ci sono problemi, lui è il nostro Segretario generale. E per quanto riguarda la Danimarca, ora sono più cooperativi.
Non solo: il documento strategico sui Paesi dell’allargamento - di cui Liberal ha ottenuto una bozza - rammenta al Paese della Mezzaluna quanto sia “essenziale” normalizzare i rapporti con Cipro, avvelenati dalla divisione trentennale tra la parte greca e quella turca. Al tempo stesso, il governo islamico moderato di Recep Tayyip Erdogan viene lodato per i primi tentativi di apertura nei confronti della minoranze, con l’avvio di trasmissioni in lingua curda sulla tv di Stato, per essere riuscito a svolgere elezioni locali “libere e corrette”, per aver cominciato a mettere sotto controllo l’establishment militare (autore in passato di numerosi colpi di Stato) e per aver spacchettato la responsabilità dei negoziati Ue dal ministero degli Esteri, affidandoli all’ex consigliere del premier Egemen Bagis. Tuttavia, avverte Bruxelles, «il ritmo delle riforme deve incrementare notevolmente. Restano delle preoccupazioni su una serie di settori, inclusa la libertà di espressione, la libertà di stampa, la libertà religiosa, il controllo civile sui militari, i diritti delle donne e le pari opportunità». E proprio mentre all’Europarlamento tengono banco le polemiche sul pluralismo dei media in Italia e nel resto d’Europa, la Commissione cita – in un allegato – la multa di 3,3 miliardi di dollari per evasione fiscale che rischia di far fallire il gruppo Dogan, editore di giornali invisi al governo. «Le pesanti multe imposte dalle autorità per le entrate – nota Bruxelles - compromettono potenzialmente la sostenibilità del gruppo e quindi nella pratica colpiscono la libertà di stampa». Del caso – che secondo alcuni osservatori ricorda il trattamento riservato da Vladimir Putin al magnate del petrolio Mikhail Khodorkovsky, deprivato della sua Yukos e spedito in carcere in Siberia dopo aver finanziato i partiti d’opposizione - se ne è occupata anche l’Osce, denun-
ciando «un provvedimento allarmante e senza precedenti che potrebbe ridurre significativamente il pluralismo dei media in Turchia».
S ul l a q u e st i on e c i p riot a, Bruxelles riconosce che la Turchia «ha continuato a sostenere pubblicamente i negoziati in corso sotto gli auspici dell’Onu» per la riunificazione dell’isola, ma aggiunge che «non c’è stato alcun progresso verso la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica di Cipro». Il Paese della Mezzaluna è sotto accusa per non aver aperto i propri porti ai greco-ciprioti, in violazione del cosiddetto “Protocollo di Ankara” che sancisce l’unione doganale con tutti i membri dell’Ue. «È essenziale che la Turchia rispetti l’obbligo di applicare in pieno e indiscriminatamente il Protocollo e compia dei progressi verso la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica di Cipro». Ma Ankara nicchia, sostenendo che fino a quando non verrà messa fine all’isolamento dei turco-ciprioti – esclusi dall’Ue nel 2004 dopo il fallimento del piano di riunificazione Onu, bocciato dai greco-ciprioti – non cederà di un millimetro. Il nodo sarà affrontato dal Consiglio europeo di dicembre, quando i leader dei Ventisette dovranno decidere se punire la Turchia bloccando altri capitoli dei negoziati di adesione, oltre agli otto già congelati nel 2006. La matassa potrebbe sbrogliarsi se nel frattempo greco-ciprioti e turco-ciprioti trovassero un accordo di riunificazione, ma al momento i negoziati arrancano.
Erdogan può consolarsi con gli apprezzamenti per il via libera alla costruzione del Nabucco
Per il resto, Erdogan può consolarsi con gli apprezzamenti espressi dalla Commissione per il via libera turco alla costruzione del gasdotto Nabucco, per le iniziative intraprese «per stabilizzare il Caucaso meridionale, il Medio Oriente e altre regioni» e per «i significativi sforzi diplomatici intrapresi per normalizzare i rapporti con l’Armenia», che dovrebbero sfociare nella firma di un protocollo di pace il 10 ottobre a Zurigo. Secondo la Commissione, infatti, la Turchia è ormai un Paese che «svolge un ruolo cruciale per la sicurezza regionale, gli approvvigionamenti energetici la promozione del dialogo tra civiltà». (a.a.)
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Jihad. Oltre 50 morti dopo un attacco al bazar rivendicato dai talebani attentato a Peshawar, nel Pakistan settentrionale - 50 morti nel momento in cui andiamo in stampa conclude una delle settimane più violente per il “Paese dei puri” in questi ultimi mesi. L’insorgenza talebana è tornata a farsi sentire oltre i confini afgani e sta coinvolgendo nuovamente le regioni del Pakistan già cadute vittima di spargimenti di sangue. È il caso di Peshawar, cuore commerciale e culturale della Provincia della frontiera nord-occidentale (Nwfp), ma anche della capitale Islamabad, dove lunedì scorso un altro attacco suicida ha provocato 5 morti tra i diplomatici delle Nazioni Unite. Sempre ieri, un gruppo di insorti ha attaccato un convoglio di sei camion che trasportavano carburante e altre risorse in direzione dell’Afghanistan e destinate alle truppe Isaf. L’episodio è forse ancora più grave dell’attentato a Peshawar, in quanto conferma la pericolosità del Pakistan come via di transito per raggiungere i soldati della Nato e di Isaf. Inoltre dovrebbe suggerire i politici e gli alti gradi militari l’urgenza di trovare un’alternativa. Al di là della cronaca, sembra che anche per il Pakistan valga quella domanda provocatoria che molti osservatori si stanno ponendo in merito alla guerra in Afghanistan. Contro chi combattiamo? Fermo restando che quello del talebano - a otto anni dall’inizio di Enduring Freedom - è un concetto che ha subito diverse e numerose evoluzioni, gli autori di questa catena di violenze costituiscono una realtà talmente frammentata che spiazza i comandi operativi e i decisori politici.
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Ammesso inoltre che dell’Afghanistan si abbia, in linea teorica, una conoscenza della panoramica avversaria (talebani propriamente detti e votati al jihad, signori della guerra, narcotrafficanti, eccetera), chi sono invece quelli che in Pakistan noi indichiamo con lo stesso termine così sintetico? Sappiamo che molti mujaheddin si spostano in Pakistan dal vicino Afghanistan, approfittando delle frontiere difficili da controllare e comunque non riconosciute dalle tribù locali. È noto inoltre come anche dalla Valle di Swat, gli attentatori - quindi guerriglieri locali - riescano a mimetizzarsi con la massa nelle zone di massima concentrazione delle persone. Non a caso l’esplosione di ieri è avvenuta presso il mercato più importante di Peshawar, il Khyber Bazar. Questo significa che i talebani afgani e quelli pakistani fanno parte di una fazione omogenea, che opera
Pakistan nel caos: strage a Peshawar Il jihad asiatico sembra sempre meno inquadrabile, ma continua a uccidere di Antonio Picasso
In otto anni di conflitto, non si possono più separare gli estremisti islamici dai militanti “politici”. Mentre le forze armate brancolano sulla linea di un unico piano strategico prestabilito? Sulla base dei dati raccolti sul territorio da chi opera in loco e sulle ipotesi formulate dagli analisti nel corso di questi anni, si è giunti alla conclusione che il movimento talebano afgano presenta stretti legami con soggetti stranieri. Da questi giungerebbero risorse in termini di armi, denaro e soprattutto addestramento. Il fenomeno però può essere a doppio senso. Vale a dire anche i talebani attivi in Pakistan potrebbero avere alle spalle qualcuno interessato a destabilizzare ulteriormente il Paese. Strategie simili e noci-
ve possono giungere da ogni parte dell’Asia centrale, come del Medio Oriente.
In questo senso, gli spazi lasciati aperti da Islamabad per una qualsiasi infiltrazione nemica sono palesi. L’inoperosità della sua classe politica è sì un problema strutturale, che il passaggio da Musharraf a Zardari - con un relativo riavvio dei motori democratici - sembra non aver risolto. Tuttavia, non si può nemmeno attribuire tutte le colpe al governo federale. Spesso si è anche criticata la drammatica disorganizzazione delle Forze Armate nazionali; agenzia di in-
telligence compresa (Isi), accusata di corruzione e collusione con il jihadismo. Ma, anche in questo caso, forse con una generalizzazione si rischia di esagerare. Da due anni ormai, l’esercito pakistano combatte gli insorti interni nell’area vicino a Peshawar, nello Swat e nel Waziristan del sud. E i risultati, nel lungo periodo non possono essere nemmeno sottostimati. L’uccisione di Beitullah Mehsud, all’inizio di agosto, da parte di un drone statunitense, nasceva dalle capacità di localizzazione proprie dell’esercito locale. Volendo essere ancora più aggiornati, vanno ricordati gli scontri che in queste ultime settimane hanno lasciato sul terreno decine di talebani, portando il conto dei nemici uccisi a 2150 negli ultimi sei mesi. Mercoledì, infine, lo Sta-
to Maggiore pakistano ha annunciato la morte del comandante Nisar, alias Ghazi, un leader locale sulla cui testa pendeva una taglia di 115mila dollari. L’operazione è stata effettuata unicamente dai pakistani, senza l’appoggio dell’aviazione Usa. Elementi, tutti questi, che ci impediscono di parlare di un bilancio completamente negativo. Da qui gli attriti fra gli alti vertici in uniforme pakistani e il Pentagono. La legge Kerry-Lugar, approvata ancora mercoledì dal Congresso di Washington e che prevede lo stanziamento di 1,5 miliardi di dollari all’anno in aiuti per il Pakistan, ha provocato una serie di pesanti critiche. Islamabad considera se stessa la soluzione del problema per quanto sta succedendo in Afghanistan.
Di conseguenza pretende maggiori attenzioni e soprattutto più sostegno concreto dagli alleati. Recentemente il Capo di Stato Maggiore pakistano, il generale Ashfaq Pervez Kayani, ha avuto un burrascoso confronto con il suo parigrado Usa, Stanley McChrystal - a capo delle truppe in Afghanistan - e ha definito la legge «insultante e inaccettabile» per il suo Paese. A questo punto sarebbe meglio dire che il Pakistan si sta impegnando, ma potrebbe fare di più. Del resto gli ostacoli che cerca di affrontare non sono irrilevanti. Ricordiamoci, infatti, che se a Kabul il presidente Karzai cerca di gestire le rivalità tribali, etniche e religiose che sono una caratteristica del suo Paese, altrettanto devono fare le istituzioni di Islamabad dall’altra parte della frontiera. Contemporaneamente a Washington, le incomprensioni interne all’Amministrazione Obama non giovano a nessuno. Dalla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale dell’altro giorno sono emerse visioni d’insieme differenti. Nell’ottica globale di Obama, c’è l’impegno di intensificare la campagna contro al Qaeda, inteso come “soggetto debole”nel duopolio con i talebani. Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, e il capo del Pentagono, Robert Gates, sono invece contrari che l’asse si sia effettivamente indebolita. Di asciutta e militaresca concretezza è la domanda di McChrystal di mandare altri 40mila uomini in Afghanistan, oltre ai 65mila già presenti. Una richiesta orfana dell’ok presidenziale ormai da troppe settimane. Tutto questo presuppone che del Pakistan in senso stretto a Washington non se ne sia parlato. Confermando ancora una volta la scorretta separazione dell’“AfPak problem” in due sfere di criticità non connesse.
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Algerino fermato in Francia insieme al fratello. Nel mirino i laboratori
È il primo del continente africano approvato dalla World Bank
Cern, arrestato un ingegnere: progettava un attentato
L’Uganda lancia un piano contro le emissioni
PARIGI. Un ingegnere che lavo-
KAMPALA. L’Uganda è il primo
ra in un laboratorio per la ricerca nucleare del Cern a Ginevra è stato arrestato a Vienna, nel sudest della Francia, insieme al fratello, perchè sospettato di terrorismo. L’uomo, secondo la polizia, avrebbe avuto contatti con Al Qaeda. I due fratelli sono infatti stati arrestati dopo la scoperta di un loro scambio di mail proprio con alcuni membri di Al Qaeda. L’ingegnere, un algerino, sarebbe vicino all’Aqim l’ala nordafricana di Al Qaeda e, secondo le accuse avrebbe indicato all’organizzazione terroristica alcuni possibili obiettivi per futuri attentati, tra i quali, probabilmente, lo stesso Cern. I due fratelli, di 25 e 32 anni, sono stati fermati dalla polizia presso il loro domicilio. Gli inquirenti hanno inoltre effettuato delle perquisizioni nell’abitazione sequestrando due computer portatili, tre hardware e alcune chiavette Usb. I due uomini sono sospettati di essere stati in contatto via internet con membri di Al Qaeda del Maghreb islamico (Aqim), succeduto nel 2007 al gruppo salafista algerino Gspc. L’Aqim, è particolarmente attivo nei Paesi del Maghreb, ma anche in Mauritania e in Mali. Gli inquirenti hanno effettuato perquisizioni e hanno portato via due computer portatili, tre
Paese africano ad intraprendere un progetto di rimboschimento finalizzato alla riduzione delle emissioni di Co2 nel quadro del Clean Development Mechanism previsto dal Protocollo di Kyoto. Il progetto (Nile Basin Reforestation Project) è uno degli otto mediante rimboschimento finora approvati in tutto il mondo (sette dei quali nel 2009) e prevede la piantagione di 2.137 ettari nell’area della Riserva forestale di Rwoho, che in anni recenti è stata soggetta a forte degrado per disboscamento ed erosione. Il progetto posizionerà l’Uganda ai primi posti al mondo per la riduzione netta di emissioni di Co2 in atmosfera, ed è
Mosca alle urne rievocando l’Urss Domani si rinnova la Duma con metodi di voto “sovietici” di Massimo Ciullo omani i moscoviti saranno chiamati alle urne per il rinnovo della Duma cittadina. Anche se la campagna elettorale è stata combattuta aspramente dai diversi partiti dell’opposizione, tutti si aspettano l’ennesimo trionfo di Russia Unita, la formazione creata dall’ex-presidente (attuale primo ministro) Vladimir Putin. Oltre al partito del premier, per i 35 seggi dell’assemblea cittadina concorrono i comunisti del Kprf, i liberaldemocratici (Ldpr), i nazionalisti di Giusta Causa, Nostra Russia e Patrioti per la Russia, e i moderati di Yabloko. La commissione elettorale, con una decisione molto discutibile, ha deciso di escludere dalla competizione elettorale “Solidarnost”, la neonata alleanza tra Boris Nemtsov, altro acerrimo avversario di Putin, e Gary Kasparov. L’impressione più diffusa tra i cittadini di Mosca chiamati a scegliere la nuova Assemblea è che il loro voto sia del tutto ininfluente.Tutti i gruppi dell’opposizione hanno denunciato l’oscuramento dei loro spazi elettorali da parte di Russia Unita, sia su radio e televisione che sui giornali e sui cartelloni pubMolti blicitari. hanno parlato di un ritorno al passato per queste elezioni cittadine, che ai più anziani hanno ricordato “i bei tempi” dell’Unione sovietica. Questa volta, però, le denunce dell’opposizione liberale sono arrivate in un clima avvelenato dalla contrapposizione tra i loro leader e il sindaco di MoscaYury Luzhkov, sindaco della capitale dal 1992, vicepresidente e co-fondatore di Russia Unita. A fine settembre aveva annunciato che avrebbe denunciato Leonid Grozman per diffamazione, dopo che il leader di “Giusta Causa”, aveva accusato il sindaco per il livello di corruzione delle principali istituzioni moscovite. Luzhkov ha già un procedimento in corso contro Nemstsov, colpevole di aver pubblicato un dettagliato rapporto sui presunti legami tra il successo economico di sua moglie Elena Baturina e la sua carica di primo cittadino. Se le affermazioni contenute nel dossier pubblicato dal leader di Solidarnost siano vere o meno (Sergei Mitrokhin, segretario di Yabloko, ha detto al Moskow Times che si tratta di
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un «misto di verità e mezze verità») spetterà ai giudici accertarlo, ma è opinione diffusa e consolidata negli ambianti moscoviti che il repentino arricchimento della coppia Luzhkov-Baturina sia scaturita da affari molto sospetti. Bisogna anche dire che la cosa non disturba il sonno della maggioranza dei moscoviti.Tutti considerano l’attuale sindaco il padre-padrone della città e sanno bene che qualsiasi maggioranza venga eletta alla Duma potrà poco o niente contro il potere dell’amico fraterno di Vladimir Putin.
Ciò contribuisce ad alimentare il senso di inutilità delle elezioni di domani che, se non possono essere considerate una farsa, saranno comunque irrilevanti per gli equilibri di potere nella capitale russa. Secondo un sondaggio pubblicato da un istituto di ricerca indipendente, il Levada Center, il 62 per cento dei moscoviti crede che la competizione elettorale sia solo «un’imitazione di una lotta». Stranamente però, Luzhkov è considerato il male minore anche tra i partiti di opposizione. «Lui è meglio di alcuni altri goha vernatori», detto il vice presidente del Comitato Centrale del Partito Comunista, Ivan Melnikov, al quotidiano Nezavisimaya Gazeta, anche se poi si è lasciato sfuggire che Luzhkov ha portato la città in un vicolo cieco. Lo stesso Mitrokhin di Yabloko ha detto al Moscow Times che il suo partito non vuole la caduta dell’attuale primo cittadino, perché «si corre il rischio che ne arrivi un altro nominato dal Cremlino che non è mai stato eletto e che non potrà fare nulla per Mosca se il Cremlino non lo vorrà». La popolarità di Luzhkov è calata drasticamente negli ultimi mesi. Sempre secondo i dati di Levada, nel periodo tra settembre ad ottobre di quest’anno, solo il 36 per cento dei moscoviti aveva una “buona” impressione di sindaco, rispetto al 41 del mese di marzo e dell’ormai irraggiungibile 65 del mese di aprile del 2001. Dagli stessi dati però emerge anche l’aumento degli indifferenti, (42) e solo il 18 dei contrari.
Molti partiti si presentano all’elettorato ma non trovano spazio sui media. E alcuni ricordano «i bei vecchi tempi»
hard disk e varie chiavette usb. L’Aqmi ha raccolto nel 2007 l’eredità del Gspc algerino (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento). È il maggiore dei due fratelli l’oggetto dei sospetti più gravi, ma non sembrerebbe essere mai passato ai fatti. Sempre secondo le fonti, aveva delle “attrazioni” verso il mondo dell’estremismo ma «non sembra aver commesso atti materiali di preparazione» di attentati. Fra i vari scambi via internet all’attenzione degli inquirenti, con persone note perché vicine all’Aqmi, sarebbero state ritrovate anche delle liste di potenziali obiettivi stilate dall’ingegnere. Nel mirino c’erano, forse, i laboratori svizzeri.
il primo di numerosi progetti di Cdm che le Nazioni Unite hanno in programma di registrare a loro carico, con il supporto tecnico della Banca Mondiale. Come contropartita del rimboschimento, la Banca Mondiale verserà il corrispettivo dei crediti per il carbonio assorbito dalle nuove piante (un tipo di pino caraibico già sperimentato in zona e diverse varietà autoctone) all’Autorità forestale ugandese e alle comunità locali. Queste ultime, peraltro, trarranno notevoli benefici anche dalla gestione delle piantagioni, a cominciare dai circa 700 nuovi posti di lavoro previsti per il progetto. Secondo la Banca Mondiale, il progetto può essere considerato un esempio di gestione forestale sostenibile, in un Paese che ha pochissime piantagioni di legname. Le foreste naturali sono invece ancora estese, ma stanno subendo una forte pressione sia per la produzione di legno da esportare, sia per la crescente domanda di energia nel Paese, che è ancora prevalentemente soddisfatta con la biomassa naturale. La silvicoltura e l’agricoltura in Africa sono settori con grandi potenzialità per i progetti sulla riduzione di carbonio in atmosfera e per l’agenda sui cambiamenti climatici.
cultura
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Ritratti. Sceneggiatore, scrittore, regista e pittore. A vent’anni dalla sua scomparsa, Zavattini si conferma una delle figure più significative del ’900
Ieri, oggi, Cesare
II sogno di filmare la vita in presa diretta, i capolavori e gli inediti: chi era il papà del neorealismo di Orio Caldiron l sogno del “cinema che non c’è” ha indotto Cesare Zavattini a scrivere centinaia di soggetti. Le disillusioni degli sciuscià a cavallo. Il padre e il figlio alla ricerca della bicicletta rubata. L’innocenza dei baraccati per i quali buongiorno vuol dire buongiorno. La tristezza insostenibile del pensionato in crisi. La madre e la figlia coinvolte nelle bugie del cinema. Il muratore e la moglie che si costruiscono la casa con le proprie mani fanno parte ormai della nostra memoria collettiva. Ma accanto ai soggetti diventati film, sono moltissimi quelli rimasti nel cassetto. I “divertimenti” stravaganti e paradossali dell’anteguerra, con o senza cavallo a dondolo. Le peripezie dell’operaio, attore per un giorno. Il viaggio attraverso l’Italia che entusiasma De Sica e Rossellini. L’impietosa anatomia di un piccolo mito divistico. I sopralluoghi per raccontare la vita disperata di Vincent Van Gogh e del fratello Théo. E tanti altri ancora, compresi quelli inventati nelle varie trasferte straniere.
I
viene sin dai tempi dell’esperienza giornalistica, della stagione esaltante e irripetibile della Gazzetta di Parma, in cui si avvertono gli echi delle avanguardie storiche, soprattutto del postfuturismo, e gli umori popolari della civiltà contadina. La conversione risale a La febbre dell’oro, Il monello, Luci della città di Charlie Chaplin. Il riferimento a Charlot, colto nella radicale provocazione dello sguardo sul mondo che ne fa all’epoca la più amata icona della modernità, è fondamentale in tutto il periodo in cui il giovane Zavattini prende in giro
Charlot somiglia sempre di più a Totò e gli spunti del cinema statunitense s’intrecciano con gli umori del varietà italiano.
Il decennio successivo è un periodo di iperattività. Conclusa la fase dell’apprendistato, Zavattini è ormai sceneggiatore a tempo pieno, forse il più originale in un momento di tensione del cinema italiano in cui già si annuncia il profondo mutamento destinato a esplodere nel dopoguerra. Il viaggio nei mondi possibili, in cui si inseguono e si sovrappongono il quotidiano e l’eccezionale, è al fondo della sua attività dai grandi film della seconda metà degli anni Quaranta ai temerari proget-
«Secondo me il cinema deve raccontare ciò che sta accadendo. Il tempo è maturo per buttare via i copioni e pedinare gli uomini»
Scrittore, giornalista, sceneggiatore, pittore, Cesare Zavattini – nato nel 1902 a Luzzara, Reggio Emilia, e morto il 13 ottobre 1989 a Roma nella sua casa di via Sant’Angela Merici – è una delle figure più significative del secolo scorso. A lui si devono libri (Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo, Straparole, Non libro più disco, Stricarm’in d’na parola, La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini) e film memorabili (I bambini ci guardano, Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D.), sui quali ci sarebbe molto da dire. Nel ricordarlo oggi a vent’anni dalla scomparsa, viene da pensare soprattutto al suo rapporto travagliato con il cinema, che va al di là della più che collaudata collaborazione con De Sica, alle numerose iniziative di controinformazione, alle centinaia di soggetti rimasti irrealizzati. La scoperta del cinema av-
gli aspetti più ambigui dell’americanismo, assunto come modello delle contraddizioni della nuova società di massa. I riferimenti al cinema si moltiplicano nelle finte corrispondenze che all’inizio degli anni ’30 pubblica con vari pseudonimi su Cinema Illustrazione: una trasferta nei luoghi deputati dell’immaginario hollywoodiano, che è insieme l’incarnazione del sogno del cinema in cui il soggettista cerca se stesso. Sono molti i soggetti, tra il comico e l’umoristico, in cui
ti-bilancio dell’ultimo periodo, vertiginosi scandagli nelle profondità dell’io dove l’intero universo è racchiuso un istante di vita. Spicca tra i soggetti inediti Tu, Maggiorani, l’operaio della Breda che dopo una cinquantina di provini insoddisfacenti era stato scelto come protagonista di Ladri di biciclette. La prima idea di Italia mia, uno dei progetti più importanti, risale alla primavera 1951, mentre sta ancora lavorando alla sceneggiatura di Umberto D., che di lì a poco De Sica comin-
Nella foto grande, Cesare Zavattini (Luzzara, 20 settembre 1902 – Roma, 13 ottobre 1989) è stato uno sceneggiatore, giornalista, commediografo, narratore, poeta e pittore italiano. In basso, a sinistra, un celebre fotogramma di “Miracolo a Milano”, film di Vittorio De Sica tratto da “Totò il buono”. A destra, la locandina di “Sciuscià”
cerà a realizzare: è quella di fare «un film senza copione, ma che si crei di volta in volta per mezzo dei nostri orecchi e dei nostri occhi, a contatto diretto con la realtà». Se si riduce lo spazio tra la vita e lo spettacolo, ci si accorge che «la vita ha già in sé un suo poetico moto e una sua meravigliosa energia»: si sente «il grido
della realtà». Il programma del nuovo cinema non potrebbe essere più esplicito: «Verrà il momento in cui andremo a vedere cosa fa un uomo nelle sue più minute azioni quotidiane con lo stesso interesse che una volta ponevamo nell’andare a vedere i drammi greci. Secondo me, il cinema deve raccontare ciò che sta accadendo. La macchina da presa è fatta per guardare davanti a sé. Il tempo è maturo per buttare via i copioni e pedinare gli uomini».
Il film non si fa ma diventa il libro fotografico Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini, pubblicato nel ’55 da Einaudi. L’incontro fra lo sguardo assoluto, profondo, fuori dal tempo del grande fotografo americano e la scrittura eventica del maestro italiano delineano una sorta di Spoon River padana, in cui il
cultura Nel 1963 I misteri di Roma, il film-inchiesta ideato, coordinato e supervisionato da Zavattini con la regia di quindici giovani autori, ribadisce le inespresse potenzialità dell’utopia neorealista, mentre nell’ambito dei film irrealizzati ha un posto di
rilievo La cavia, dedicato a Maurizio Arena, già in declino dopo il successo della serie dei Poveri ma belli. Si riallaccia alla carica polemica dei soggetti degli anni Cinquanta come Tu, Maggiorani e Bellissima, in cui il tema dell’attore preso dalla strada e dei concorsi per volti nuovi innesca il processo al cinema, alle sue illusioni mistificanti, ma riprende anche la struttura dell’indagine in progress che era stata al centro dell’esperienza neorealista e del progetto mancato di Italia mia. Il congedo dalle lusinghe dell’affabulazione, il rifiuto dell’immaginazione romanzesca si saldano all’adozione delle procedure dell’inchiesta, assunta nella dimensione più impietosa. La crudeltà, mai gratuita, innesca un illuminante processo di osservazione e di studio, deciso a andare fino in fondo. L’esplici-
fervore creativo si salda allo spessore antropologico. Nelle prime trasferte straniere fioriscono moltissimi progetti, rimasti spesso sulla carta. Sfuma il film su Van Gogh a cui ha lavorato intensamente a partire dai sopralluoghi di qualche anno prima: «Io ammiro Van Gogh, o meglio lo venero, i suoi quadri sono i primi insieme a quelli di Gauguin che mi hanno dato un pugno sullo stomaco risvegliandomi dal letargo». Il viaggio attraverso la Spagna, «seimila chilometri per vedere prima di scrivere», è all’origine del progetto Cinco historias de Espãna, avviato con Ricardo Muñoz Suay e Luis García Berlanga nell’estate 1954. All’anno successivo risale il viaggio in Messico, chiamato dal produttore Manuel Barbachano Ponce, in cui nascono Mexico mio e El año meravilloso. Se il primo è un viaggio dentro il paese latino-americano che rimanda al modello di Italia mia, il secondo rievoca l’espropriazione delle compagnie petrolifere degli anni ’30 vista come l’avvio dell’epopea nazionale. Invitato
dall’Istituto cubano dell’Arte e dell’Industria cinematografica, Zavattini è all’Havana dal dicembre 1959 al febbraio 1960, in cui ritrova il clima appassionato del neorealismo.
Nel corso di lunghe e quotidiane riunioni di lavoro con i giovani cineasti vengono abbozzati quasi una ventina di soggetti, spesso di sorprendente originalità. Ma il soggiorno cubano s’interrompe bruscamente: «Fra gli errori più gravi nella mia vita da cineasta metto sempre l’aver interrotto la mia permanenza a Cuba per tornare a Roma a sceneggiare La ciociara, rispettando l’impegno contrattuale con Ponti e con De Sica. Credo di aver contribuito a fare un buon film, ma quale differenza di destino se avessi avuto la forza, la coerenza di concludere il seminario con Revolución a Cuba di cui avrei dovuto essere il regista!».
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ta “scientificità” dell’impresa – individuabile nella stessa iniziale oscillazione del titolo tra La cavia, che rimanda all’esperimento in diretta, in corpore vili, e A carte scoperte, che richiama l’esigenza di mettere subito in chiaro le regole – consiste nel porre al centro dell’esperimento lo stesso protagonista con nome e cognome, chiamato ad essere la cavia di un esercizio giocato a carte scoperte, il punto di riferimento di un’indagine condotta sulla sua pelle senza infingimenti narrativi e indulgenze spettacolari. Se Caterina Rigoglioso è se stessa nella ricostruzione della sconcertante drammaticità dell’abbandono del figlio nell’intenso episodio di L’amore in città (1953), Maurizio Arena si offre nel nuovo progetto come il soggetto-oggetto di una ricognizione a tutto campo, che riguarda la sua vita, il suo modo di essere e di comportarsi, la sua esperienza di attore e di uomo, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi rapporti con le donne.
Il senso di pietas implicito in Storia di Caterina si capovolge nella dimensione negativa dell’antieroe. Quello che suscita l’interesse del cineasta al momento del primo incontro con l’attore è la mancanza di tratti positivi, la possibilità di vedere in Maurizio Arena, come nello specchio capovolto di una rappresentazione senza residui, la biografia esemplare di un italia-
no dominato dai miti del successo, dei soldi e del sesso. Sin dalla prima traccia del progetto l’intuizione di fondo è che l’attore romano non sia un’incarnazione qualsiasi, una delle tante possibili, delle diffuse mitologie della società di massa, ma ne rappresenti piuttosto un’esemplificazione eccessiva, abnorme, estrema. Il progetto si organizza intorno all’autopsia di un attore senza talento, di un uomo in vendita che si rapporta agli altri e al mondo attraverso il modello della coazione a ripetere. Nell’ossessivo riproporsi delle prestazioni, nel rituale delle performance, soprattutto sessuali, il soggetto-oggetto dell’indagine trova la sua misura di realizzazione nello stesso momento in cui si riconosce come figura rappresentativa di una società corrotta e corruttrice, di una società del benessere in cui non sembra esserci posto per altri valori. La veritàaaa (1982) – realizzato a ottant’anni come soggettista, sceneggiatore, regista e interprete – resta il suo primo e ultimo film da cineasta totale. Summa della riflessione poetico-politica, della sua appassionata tensione morale, il film è anche la riproposta dell’utopia dell’antispettacolo con il gioco pirotecnico di sberleffi e trasgressioni di spiazzamenti e ammiccamenti che fanno parte integrante di un autore aperto sino all’intemperanza e insieme fedele alle sue ragioni di fondo.
Sulla stessa lunghezza d’onda si muove L’ultima cena, il progetto irrealizzato più importante dell’ultimo periodo, che tira le fila di idee e spunti di oltre quarant’anni. Numerosi temi sono confluiti in La veritàaaa, ma il soggetto conserva la vivacità dell’incompiuto, dell’opera aperta, del processo ancora in fieri. La struttura del racconto è incentrata sulla cena e sulla discussione a più voci, in cui si ripropongono le grandi domande sull’uomo e sul mondo. La dinamica della rappresentazione si allarga sino a coinvolgere l’intero paese. La scommessa più alta è il raffronto con l’ultima cena di Gesù: lo stimolo del grande esempio moltiplica le domande e le risposte, le apparizioni e i gesti in un clima di misteriosa sospensione. Sorta di ideale riepilogo dell’inchiesta sull’uomo che, dopo i grandi viaggi italiani e le fertili trasferte straniere, gli sembra il compito più urgente di chi voglia misurarsi con i battiti più segreti della propria coscienza. Il soggetto ci appare oggi come lo sproloquiante testamento di Cesare Zavattini. L’ultima cena tra amici nel paese-mondo di Luzzara diventa scandalosa ricerca della verità, mentre la notte padana si popola di lampi e di fantasmi. Se l’avesse realizzato, l’avrebbe proiettato sul cielo, in modo che fosse visibile nello stesso istante in ogni parte della terra.
cultura
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Libri. Nel volume “I cattolici. Chi sono e che fine faranno” di Henri Tincq, l’identikit mondiale dei fedeli e del loro futuro
Vedi alla voce “Cristiani” di Maurizio Schoepflin n tempi di ecologismo dominante, leggendo il titolo del recente volume di Henri Tincq, I cattolici. Chi sono e che fine faranno (San Paolo) non si può fare a meno di associare i fedeli della Chiesa di Roma a una qualche razza in via di estinzione.
I
Insomma, i seguaci di Cristo e di Papa Benedetto XVI sembrerebbero assomigliare ai panda, creature di cui, fra poco tempo, si saranno perse le trac-
ce e che i bambini potranno forse ammirare in qualche riserva ove saranno stati confinati, protetti e tristemente innocui. In realtà le cose non stanno in questi termini. Innanzitutto, perché il primo dato che Tincq ricorda è quello relativo alla consistenza numerica dei cattolici, i quali, essendo oltre un miliardo, non rappresentano la maggioranza dell’umanità, ma una minoranza assai qualificata certamente sì. Quanto alla loro estinzione, è da tempo che se ne parla, ma non pare proprio che essa sia imminente, anche se da più parti la si auspica come la panacea di tutti i mali (per informazioni al riguardo, rivolgersi, tra gli altri, a Maurizio Ferraris o a Piergiorgio Odifreddi). Si deve dunque affermare che il cattolicesimo scoppia di salute? No di certo! Sarebbe un’inutile e infondata manifestazione di trionfalismo: lo stesso Papa ha ripetutamente raccomandato alla Chiesa un
salutare bagno di umiltà che le permetta di vedere le sue ombre e la sua sporcizia, in modo da intraprendere un’opportuna opera di pulizia e di illuminazione che la renda davvero simile all’evangelica lampada da porre sul lucerniere per rischiarare le tenebre del mondo. Che i cattolici, comunque, siano ben lungi dalla marginalità o, addirittura, dalla scomparsa lo testimoniano, paradossalmente, proprio l’insistenza e l’asprezza delle critiche e degli attacchi
peccati e le accuse del mondo, e tuttavia la fede in Cristo non è morta e la Chiesa ha scritto pagine sublimi nella storia dell’umanità. I credenti sono convinti che ciò dipenda dal fatto che è il Signore in prima persona a guidare il suo gregge, il quale, forte di questo aiuto incrollabile, procede avanti nonostante sbandamenti, conflitti, defezioni e peccati di ogni genere. Negli otto capitoli del libro, Tincq, per ventitre anni vaticanista del quotidiano Le Monde, traccia
smo e sostanziale moderazione, anche se l’autore non minimizza quelli che considera i gravi errori compiuti dalla Chiesa lungo i due millenni della sua storia. Giunto al termine della sua fatica, Tincq indica cinque linee di riflessione e di approfondimento per la cattolicità del terzo millennio. La pri-
grado di rispondere alla domanda di senso che proviene dall’umanità contemporanea; infine vi è il grande tema dell’inculturazione: secondo l’autore, proprio l’universalità della Chiesa cattolica richiede una grande capacità di adattamento alle diverse culture e civiltà. Al di là delle singole que-
a cui vengono costantemente sottoposti, come si farebbe con un’erbaccia che non si lascia sradicare in nessun modo. Per quanto possa apparire sorprendente, questa situazione non è nuova; anzi, è stato così sin dalle origini: i cristiani si sono sempre trovati stretti tra i loro
un identikit dell’universo cattolico. Dapprima, egli parla dell’autorità della Chiesa, visto che il cattolicesimo è caratterizzato proprio dal ruolo decisivo del Pontefice e della gerarchia; poi presenta alcune fra le tappe più rilevanti e discusse della storia della Chiesa e quindi torna su alcune componenti del potere ecclesiastico, come il collegio cardinalizio e la curia romana. Due capitoli sono dedicati rispettivamente alle questioni dottrinali e a quelle morali (tra queste, inevitabilmente, ampio risalto è dato alle problematiche relative all’etica sessuale). Tincq si sofferma poi sul tema assai delicato dei riti e della devozione e conclude il libro con una descrizione delle varie tendenze presenti nella Chiesa (tradizionalisti, innovatori ecc.) e con una disamina della situazione del cattolicesimo nelle diverse parti del mondo. Le analisi svolte nel volume appaiono improntate a reali-
L’autore francese, per 23 anni vaticanista di “Le Monde”, ci spiega perché i seguaci della Chiesa sono nient’affatto una specie in via di estinzione
stioni trattate e delle varie indicazioni offerte dall’autore, il libro di Tincq un risultato assai significativo lo ottiene: quello di far riflettere il lettore sulla misteriosa presenza della Chiesa nella storia e nel mondo.
Sopra, Henri Tincq e, in alto a destra, la copertina del suo libro “I Cattolici. Chi sono e che fine faranno”. In alto, Benedetto XVI
ma riguarda le responsabilità da attribuire alle Chiese locali, che Tincq vorrebbe venissero aumentate; la seconda attiene all’ecumenismo, che da operazione di vertice dovrebbe tramutarsi in un’esigenza di base; la terza concerne il dialogo interreligioso, che l’autore, assai realisticamente, considera difficile, soprattutto con l’islam; il quarto ambito è quello dell’etica: a questo proposito,Tincq afferma che i cattolici devono mantenere fermi i loro principi e, nello stesso tempo, essere in
In ultima analisi - e il volume lo conferma - non è possibile avvicinarsi alla Chiesa senza far ricorso alla feconda categoria del mistero; un mistero che, fin dagli albori del cristianesimo, suscita ammirazione e stupore, come attesta la celebre Lettera a Diogneto, un documento del secondo secolo che descrive i seguaci di Cristo nei termini seguenti: «Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Amano tutti e tutti li perseguitano. Non sono conosciuti, eppure sono condannati. Sono ingiuriati e benedicono. Li si disprezza, ma nel disprezzo trovano la gloria».
spettacoli
era una volta un principe New Romantic, un dandy dai capelli dorati e cotonati che il pop inglese anni Ottanta aveva scelto come erede al trono di David Bowie e di Bryan Ferry. Dimenticatelo: oggi del giovane David Alan Batt resta solo il nome d’arte, David Sylvian. Un Aramis cinquantunenne col pizzetto e i capelli imbiancati spioventi sulle spalle, un moschettiere spavaldo e coraggioso che osa pubblicare un disco come Manafon: ostico, spartano, monastico, votato a un’idea di minimalismo sperimentale che nell’ambito della forma canzone non ha eguali. «Moderna musica da camera», è la sua definizione preferita, progetto originale e avanguardistico di commistione tra parole e suoni che asseconda al tempo stesso il rigore della scrittura formale e il gusto per l’improvvisazione. La new wave estetizzante dei Japan, con cui diventò personaggio da copertina e da classifiche tra fine anni Settanta e primi Ottanta, è una polaroid sbiadita e irriconoscibile. Ma lo sono anche Forbidden Colours, meravigliosa ballata pianistica e autunnale composta a quattro mani con Ryuichi Sakamoto per il film Furyo di Nagisa Oshima (e Bowie protagonista, ricordate?). O i primi dischi solisti cucinati secondo una raffinata ricetta fusion che mescolava ingredienti pop, jazz, funk, rock e ambient music con pizzichi di filosofia orientale e di poesia haiku giapponese (Brilliant Trees, 1984, resta un capolavoro). Tutto dimenticato, l’inglese del Kent che oggi vive da semieremita in Massachusetts, ci ha tirato una riga sopra.
C’
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A fianco, un’immagine di David Alan Batt, nome d’arte: David Sylvian. Del dandy dai capelli dorati e cotonati che il pop anni Ottanta ricorda, rimane ben poco: il suo nuovo album, “Manafon”, rompe del tutto con gli schemi del passato proponendo un’idea di minimalismo sperimentale
archi e campionatori assemblati nell’arco di tre anni in un progetto multiculturale che ha inglobato Estremo Oriente, Mitteleuropa e Inghilterra, Tokyo, Vienna e Londra, arruolando un piccolo esercito di musicisti orientali e occidentali fuori schema come Otomo Yoshilde, Keith Rowe, Evan Parker, John Tilbury i Polwechsel e Christian Fennesz, maghetto austriaco della neo-elettronica. «In un certo senso ho abusato della loro disponibilità, costringendoli a minimizzare il loro contributo, a improvvisare rispettando un canovaccio. Sono stati importantissimi, senza musicisti in sintonia un progetto così non avrebbe mai potuto concretizzarsi».
Sylvian sa di non essersi mai spinto così oltre. Ne è talmente consapevole da cantarlo nel brano che apre il disco, Small Metal Gods. «Come compositore, come autore di testi e come cantante sono entrato in un territorio nuovo. L’intero processo di scrittura, stavolta, è stato un lavoro di scavo. Un’esplorazione dell’anima e della psiche, un viaggio verso aree del cuore, della mente e dell’intelletto che non avevo mai visitato in passato». La voce è protagonista ma distante, algida eppure fisicamente presente: «Come nel teatro da camera, l’attore sta al centro della scena e crea un rapporto di intimità con il pubblico. Anche qui contano le sfumature, i piccoli gesti, le minime variazioni di luce sul palco». Nessuna concessione al facile ascolto. Niente batteria, niente “gabbie” ritmiche. «Il ritmo è un’arma fin troppo seducente. Ti risucchia e ti facilita il compito togliendoti ogni responsabilità di concentrazione e d’attenzione. Alcuni brani di Manafon hanno una pulsazione, più che un ritmo. Il pizzicato sugli strumenti a corda o il pianoforte di per sé hanno già una qualità percussiva» spiega David, misrando come sempre le parole. Il critico Riccardo Bertoncelli lo paragona a un personaggio beckettiano, «per come cerca il distacco e non la partecipazione». Ma lui, che qui canta sempre in terza persona ispirandosi a suggestioni letterarie e alla vita di R.S. Thomas (Manafon è un villaggio gallese in cui il poeta inglese visse a lungo), sostiene di essere stato raramente altrettanto sincero e autobiografico. «Raccontare in prima persona è sempre imbarazzante, per tutti. Assumendo le sembianze di qualcun altro mi sento più libero di esprimere i miei sentimenti». Con Sylvian è così: niente è come prima, niente è come appare.
Musica. Rompe con gli schemi del passato il nuovo album «Manafon»
Il passato, giura, non torna più. «Le reunion dei gruppi rock mi mettono tristezza, mi sembrano tutt’altro che sincere. L’essenza di una rock band è definita da un tempo e da un luogo preciso. A meno che si tratti dei Rolling Stones o degli Who, che sono sempre rimasti fedeli a se stessi. Dieci o vent’anni dopo le persone sono diverse e nulla può più essere come prima». I Japan sono liquidati, non a caso quando diciotto anni fa tornò a suonare con i tre vecchi compagni Sylvian impose un nome diverso, Rain Tree Crow. Oggi è appena più indulgente nei confronti della sua prima produzione solista. «Diciamo che comprendo l’essere umano che ha inciso un disco come Brilliant Trees, la radice filosofica è la stessa anche se nel frattempo sono maturato. Mentre non riconosco il ragazzino che
Dal futuro ritorna il “mago Sylvian” di Alfredo Marziano cantava nei Japan. Anche se Ghosts, nel 1981, è stato un punto di svolta, il momento in cui ho capito che volevo intraprendere un sentiero autoanalitico». Ma poi ammette di non guardarsi mai indietro, e di non riascoltare quel che ha fatto «perché, come ha detto qualcuno, verrei sopraffatto dall’imbarazzo e dal senso di frustrazione. Una volta ho sen-
iniziato sei anni fa con Blemish: il suo commiato dalla casa discografica Virgin che lo aveva allevato, il suo addio (definitivo?) alla canzone tradizionalmente intesa. Il nuovo album sfiora i confini dello spoken word, parole sussurrate in libertà che scorrono su tappeti sdrucciolevoli di suoni, ronzii e borbottii, tra blitz estemporanei di sax e pianoforti,
«Moderna musica da camera» è la sua definizione per il disco, progetto originale e avanguardistico di commistione tra parole e suoni che asseconda al tempo stesso il rigore della scrittura formale e il gusto per l’improvvisazione tito il chitarrista Steve Tibbett dire che con il suo ultimo disco aveva ottenuto ciò che voleva. Dev’essere un’esperienza terrorizzante, che ti lascia un grande vuoto dentro. Io mi sento piuttosto come Woody Allen, quando dice che le sue opere non vengono mai come le aveva concepite nella sua testa». Manafon, dunque, è solo la tappa di un percorso
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da ”Le Figaro” del 09/10/2009
Mon amour, quanto costi? on ho mai avuto intenzione di dimettermi» ha assicurato il ministro del, Cultura francese, durante l’intervista di TF1. C’è stato però il riconoscimento di aver commesso «un errore non un crimine» circa la sua abitudine di pagare prestazioni sessuali a uomini, durante i suoi viaggi in Asia.
«N
Quindi Frédéric Mitterand, non lasciarà l’incarico ministeriale alla Cultura. Lo ha dichiarato, giovedì, durante il telegiornale della sera di TF1, dove ha cercato di rispondere in maniera «estremamente chiara» alle accuse che gli sono state mosse. Facendo riferimento ad un capitolo controverso del suo libro (pubblicato già quattro anni fa, ndr), dove l’autore racconta dei suoi rapporti mercenari con uomini, avvenuti durante i tour in Oriente. Il ministro è sicuro di non aver fatto «alcuna apologia del turismo sessuale». «Sì, ho avuto rapporti con dei ragazzi, è noto, non lo nascondo» ha ammesso. «Ciò che sto affrontando però, è una totale ingiustizia, come se si trattasse di ragazzi minorenni» ha poi affermato.Tuttavia questi rapporti sarebbero avvenuti con persone «della mia stessa età o cinque anni più giovani di me, senza alcuna ambiguità» ha martellato, rispondendo argomento dopo argomento, Mitterand. Alla giornalista Laurence Ferrari, che gli chiedeva se avrebbe votato in Parlamento (Assemblea generale) per una legge contro il turismo sessuale, Mitterand ha risposto con tono solenne che condanna «nel modo più assoluto il turismo sessuale, che è una vergogna, così come la pedofilia, con cui non ha mai avuto niente a che fare». Il ministro della Cultura ha anche reagito con forza contro coloro che, dall’inizio della settimana,
hanno continuato a chiedere le sue dimissioni. Non comprende i motivi del risentimento di alcuni suoi detrattori. Per prima di Marine Le Pen, che lunedì scorso, durante uno show televisivo ha letto alcuni passi imbarazzanti del suo libro La Mauvaise vie. Poi ha accusato anche le file del partito socialista di alimentare le polemiche contro di lui. Sarebbe una sorta di «risentimento e di vendetta» che animerebbe la campagna contro Mitterand. «Non vorrei aggiungere l’indegnità all’ingiustizia delle dimissioni» ha commentato il ministro. Nicolas Sarkozy, che lo ha ricevuto giovedì mattina, ha espresso «la sua stima e quella del primo ministro Fillon, che ha affermato di averlo incominciato ad apprezzare, quando si occupava del partito Ump, dopo aver letto proprio il suo libro». Raccontando del proprio dolore per essere al centro di una simile polemica Frédéric Mitterand ha espresso ripetutamente tutta la sua commozione.
«Penso al mio onore, alla mia famiglia, ai miei figli, penso a mia madre, sono emozionato, sono cose importanti»sono alcuni passaggi dell’intervista davanti alle telecamere nel prime time serale, con milioni di francesi incollati allo schermo. Il ministro ha anche ricordato che il suo libro aveva raccolto delle buone recensioni dalla critica alla sua pubblicazione, e che non è completamente autobiografico. Anche se la vita che viene descritta è molto simile alla sua. Si tratta di una storia che raccon-
Ma quando finirà questa crisi economica, che ci attanaglia da almeno due anni?
ta anche «di violenza e di forza». «Ci sono delle descrizioni che sono crude, perché non si fa buona letteratura con i buoni sentimenti» spiega crecando di delimitare il confine tra fiction e realtà. «Ho fatto un errore che contrasta con l’idea di dignità umana». Mitterand ha però ammesso di aver pagato per quell’errore. Il membro del governo ha ammesso di aver reagito un po’ troppo vivacemnente all’arresto del regista Roman Polansky (accusato negli Usa di abusi sessuali ad una minore, ndr) un paio di settimane fa, ma «un ministro della Cultura non poteva che difendere un artista, non può abbandonarli».
L’IMMAGINE
Che padiglioni!
L’Ue boccia il debito italiano e inizia la discussione sulle cause della discrepanza: se rileggiamo il percorso della crisi in tutte le sue fasi, potremmo riscontrare che esso è iniziato in realtà due anni fa e non tre, perché per un anno la verità, troppo cocente, è stata celata. Poi ufficialmente si è dato inizio alle danze con il piano di intervento americano annunciato in assemblea al mondo, che ufficializzò la situazione creata dai crediti surprime. In quel momento però l’Ue espresse la chiara intenzione di trovare un piano di rientro rigoroso, ma soprattutto comune a tutti i Paesi. La cosa non andò così, perché molti Paesi preferirono trovare autonomamente le strade del rientro dalla crisi. Alla fine si sono presentati degli scollamenti, perché le Nazioni con le spalle meno solide come l’Italia non sono riuscite a trovare dei criteri rispettabili, come la storia dei Tremonti Bond insegna. Ora il ministro tuona giustamente contro le banche ma, senza minimizzare le responsabilità che queste hanno.
Saranno anche un po’ sproporzionate ma per questo fennec le orecchie da elfo sono una vera benedizione. Gli enormi padiglioni auricolari lunghi 15 centimetri, circa la metà del suo corpo, disperdono infatti il calore in eccesso permettendo alla strana volpe di sopravvivere alle torride temperature del Sahara, dove vive. Oltre a garantirgli un udito sopraffino
Bruno Russo
SCUOLE, BIDELLI E PULIZIE
VOTO UTILE E BIOPOLITICA
Siamo d’accordo con la ministra all’Istruzione, Mariastella Gelmini. I bidelli devono pulire le scuole e non si può ricorrere ad appalti esterni che aggravano il bilancio pubblico. Gli operatori scolastici, così definiti dal buonismo di turno, dovrebbero avere, essenzialmente, la funzione di vigilanti e di addetti alle pulizie. Se una finestra o un soffitto sono troppo alti come si fa a pulirli? Non si fa, si chiama l’impresa di pulizia! È questa la distorsione cui ci ha portato un’insensata contrattualità sindacale. Occorre tornare a praticare il buon senso e ridefinire il mansionario di molte categorie del pubblico impiego, altrimenti ognuno rivendicherà il proprio “particulare”.
Ho sempre sostenuto che questo bipartitismo all’italiana fosse solo una finzione. Partiti, concepiti come semplici contenitori di una molteplicità di idee incoerenti e contraddittorie fra di loro. Tanto, si diceva, sono crollate le ideologie e quel che unisce è solo il programma concreto e non i valori. Proprio in questo periodo congressuale il Pd di Firenze si spacca sulla delibera inerente l’introduzione del registro sul testamento biologico in comune. È un provvedimento privo di efficacia giuridica, essendo la materia di competenza nazionale. Inoltre, perché parlare di testamento per decisioni che riguarderebbero una persona ancora viva? Meglio la definizione di dichiarazioni anticipate di trattamento. Oltre
Primo Mastrantoni
tutto, il Pd si spaccò ancora sulla delibera per il conferimento della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro. La biopolitica non porta proprio bene al Pd! Ma non porta bene neppure all’altro “gemello siamese”, il Pdl, basti pensare alle posizioni dell’on. Benedetto Della Vedova o alla storia politica dell’on. Daniele Capezzone. Il relativismo ideale sembra essere
diventato oramai lo statuto del bipartitismo. In realtà sono le idee e i valori che fanno l’identità dei partiti ed è su questi che si deve trovare l’unità; sul resto la si può pensare diversamente. E invece si è uniti sulla riqualificazione di marciapiedi e la creazione di rotonde agli incroci stradali, mentre sul rispetto della vita umana si invoca la libertà di co-
scienza, per poter tenere unito un partito che altrimenti franerebbe. Non si ha il senso della gerarchia nei valori. La Biopolitica, ossia l’influenza dei temi bioetici e della biomedicina sulla vita politica e sociale, sarà sempre più determinante, ma i partiti del cosiddetto “voto utile” non sembrano attrezzati ad affrontarli.
Glauco Santi
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Fu allora che entrasti tutta nel mio cuore
SUSSULTI DI COSCIENZA (II PARTE) Tutto quello che, oggi, registriamo nel Paese emarginazione degli immigrati e fatti delittuosi a loro carico (statisticamente più elevati a quelli attribuiti alla platea interessata da procedimenti penali), intolleranza dei cittadini e problemi connessi alla sicurezza - è strettamente correlato all’assenza della politica. Politica che, avendo smarrito lo spirito di servizio e la prerogativa di governare il futuro, tra effervescenze pseudo-culturali e omissioni istituzionali, ha, di fatto, ignorato il “fenomeno migratorio” degenerato, poi, in “emergenza”. Emergenza che, oggi, viene gestita dalla Lega, con le esternazioni che conosciamo, con una linea politica miope, ma fruttuosa in termini di consenso, almeno nel breve periodo. Emergenza immigratoria e ricerca del consenso sono gli elementi costitutivi di quella “miscela esplosiva” che travolge le culture, ignora gli accordi internazionali, ma che trova legittimazione politica nelle popolazioni, per troppo tempo ignorate, e giustificazioni pragmatiche nelle ela-
T’ho guardata tante volte. E ho guardato la tua manina mentre scorreva sui tasti suonando Chopin. Com’eri bella quando suonando ti voltavi e sorridevi! Ma perché sorridi così? E dire che sei lontana, e che io sono qui solo che parlo con un fantasma! Dimmelo, mi vuoi bene? Mi vuoi davvero bene? Perché mi vuoi bene? M’hai sognato mai? Io scrivo, e non so nulla; pure una voce dentro di me mi dice che m’ami. Oh, se non m’amassi...Ti ricordi la prima volta che ti vidi? Eri vestita di un colore che non so come si chiama, ed io ti guardai e mi sentii non so che nel petto. E poi c’era tano sole e c’erano tanti fiori là su ’l Mugnone, e la cupola di S. Donato era così luccicante, e così azzurri i colli dietro i cipressi di Montughi! La seconda volta eri vestita di nero: eri più cara, io ti voglio vedere vestita sempre così. Fu allora che il Toto ti commosse; e fu allora che entrasti tutta nel mio cuore. Poi quella brutta sera! Avevi l’abito chiaro e gli occhi più lucidi del solito; io avevo la morte nel cuore e il capo confuso. Ti dispiacque veramente che io non potessi restare? E neanche allora, il mio sguardo ti disse nulla? Sai?, quei fiori di campo legati con quel nastrino color di rosa io li ho qui, li ho sempre qui e li guardo ogni momento e li bacio. Gabriele d’Annunzio a Giselda Zucconi
ACCADDE OGGI
PSICHIATRIA: LE INCONGRUENZE DI UNA PSEUDOSCIENZA In occasione della Giornata mondiale della salute mentale, con stand informativi in varie città italiane, il Comitato dei cittadini per i diritti umani denuncia la reale situazione che investe la salute mentale. Vogliamo porre l’attenzione sulle profonde incongruenze, sui fatti tragici che accompagnano il campo della salute mentale e sul pericoloso coinvolgimento dei bambini nei trattamenti psichiatrici. Fatti tragici di cronaca come omicidi e suicidi all’interno delle famiglie stanno attraversando l’Italia troppo frequentemente. Ciò che li accomuna è che chi li commette sono tutte persone sotto trattamento psichiatrico. Questa circostanza indurrebbe a ritenere che la loro condizione di malati mentali sia la causa dei comportamenti violenti e autolesionisti, ma le statistiche raccontano un’altra verità. Le varie associazioni psichiatriche fanno sapere che la depressione è molto più diffusa di quanto non si pensi, e che il numero di persone che ne sono colpite supera di gran lunga quelle in trattamento: eppure queste stragi familiari vengono perlopiù compiute da coloro che sono in cura. È un dato scientificamente provato che gli stessi psicofarmaci utilizzati per il trattamento della depressione possono condurre a effetti indesiderati quali violenza e suicidio. L’Fda (agenzia americana per gli alimenti e i medicinali), fin dal 2004, ha imposto alle industrie farmaceutiche di aggiungere una black box sulle confezioni di antidepressivi (un riquadro ne-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
10 ottobre 1957 Un incendio nel reattore per la produzione del plutonio di Windscale, a nord di Liverpool, produce il rilascio di materiale radioattivo, che sarà responsabile di 39 casi di morte per cancro 1964 Si apre a Tokyo la XVIII Olimpiade 1966 Simon & Garfunkel pubblicano l’album Parsley, Sage, Rosemary and Thyme 1970 I Beatles dopo un concerto sul tetto della Apple si sciolgono 1973 Il vice presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette dopo essere stato accusato di evasione fiscale 1985 Dei caccia F-14 Tomcat della Marina degli Stati Uniti intercettano un aereo egiziano che trasporta i dirottatori della Achille Lauro e lo costringono ad atterrare nella base Nato di Sigonella 1986 Un terremoto del grado 7,5 della Scala Richter colpisce San Salvador, in El Salvador, facendo circa 1500 vittime 2006 Google acquista YouTube
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ro di avvertimento), perché potevano causare pensieri suicidi. Controversie e incongruenze caratterizzano anche l’uso del metilfenidato, uno psicofarmaco utilizzato per il trattamento dell’Adhd in bambini anche piccoli. L’Istituto superiore di sanità scrive che «L’eziologia di questa sindrome non è ancora ben definita», e la stessa Aifa afferma che i farmaci a base di metilfenidato possono causare gravi rischi (cardiovascolari, cerebrovascolari, effetti sull’accrescimento corporeo, aggressività, comportamento violento, psicosi, forme maniacali, irritabilità e suicidarietà). La stessa Commissione europea, nel giugno del 2007 ha chiesto l’avvio di una procedura di deferimento al Comitato per i medicinali ad uso umano dell’Agenzia europea dei medicinali per tutti i farmaci contenenti metilfenidato, anche se poi il Chmp si è limitato a raccomandare la modifica dei foglietti illustrativi. Vien da pensare che gli addetti ai lavori conoscano i rischi legati all’uso di queste sostanze, ma che preferiscano minimizzare. Quasi giornalmente la psichiatria sbandiera la scoperta di nuove sindromi o disturbi, senza mai procedere ad appurare i fatti o confrontare i risultati dei trattamenti mentali esaminando gli effetti sulle persone. Da anni la psichiatria si pone quale risolutrice di problemi sociali: droga, istruzione, crimine. Ma se si osservano le statistiche in questi campi, si riscontra che anziché avere dei miglioramenti si hanno peggioramenti.
borazioni demografiche che confermano “l’immigrazione del nostro tempo”, di lungo periodo e di grande ampiezza, tale da non poter essere affrontata dai singoli Stati. Oggi, ci si deve far carico di recuperare il tempo perduto, rivisitando il fenomeno migratorio nella sua complessità, per riportarlo al livello fisiologico. Mario de Donatis C I R C O L I LI B E R A L BA R I
APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 16, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Unione di Centro, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO Parabole discendenti. Le nuove icone dei giovani: Evita Duarte, Carlos Gardel, Che Guevara e Maradona
Argentina, il Paese dei miti DEBOLI I di Marco Ferrari
l Paese dei miti fragili, l’Argentina. Si dice che una nazione incarni il proprio spirito negli eroi che ha generato: cosa dovrebbero pensare dei proprio paladini gli eredi degli emigranti spagnoli e italiani che forgiarono la nazione del tango? Staccatasi dalla madre spagnola nel 1816 dopo una sanguinosa lotta di indipendenza, l’Argentina ebbe fin dall’inizio una vocazione totalitaria a cominciare da Juan Manuel de Rosas, presidente dal 1829 al 1852, soprannominato “il Nerone del Sudamerica”. Il primo vero mito della nazione porteña fu però Juan Domingo Perón, el Conductor, el Líder, el Coronel del pueblo, bello come un attore di cinema, aitante come un ballerino di cumparcita.
Perón salì al potere nel momento più opportuno, il 1946, quando l’Argentina era la sesta potenza economica del pianeta, uscita dalla seconda guerra mon-
panteon nazionale. Li hanno individuati in Evita Duarte, Carlos Gardel, Ernesto Che Guevara e Diego Armando Maradona, come bene ci spiega il libro Comediantes y mártires di Juan José Sebreli, Premio Casa de América, edito da Debate. Partendo dalla citazione di Jean Cocteau, «Napoleone era un pazzo che si credeva Napoleone», lo scrittore e saggista di Buenos Aires, editorialista de La Natión, smonta pezzo per pezzo la mitologia che si è creata attorno a questi personaggi, uniti da una nascita umile o periferica, una rapida ascesa ed una forte caducità. È questa, forse, l’originalità di un modello particolare come quello argentino, frutto della migrazione europea: perché innamorarsi di personalità che, comunque, escono sconfitte dalla ribalta? Il sentimento triste che pervade il popolo argentino, così fortemente segnato dalle lagnanze musicali del tango e dai sospiri di uno strumento struggente come il bandoneón, sembra esprimersi compiutamente in Evita, Carlos, Ernesto e Diego, nelle loro vite di frontiera sospese tra eccessi e cadute, pronti sempre a tornare da dove erano partiti. Ma perché i giovani argentini hanno scelto
popolarità, bensì prima della loro ascesa. Non è un caso, sostiene Sebreli, che il caudillo venezuelano Hugo Chávez abbia deciso di erigere nella stessa piazza di Caracas i monumenti a Evita e al Che, aggrappati entrambi al desiderio di utopia, al trionfo sui ricchi e sui potenti. Gardel e Maradona incarnano invece il mito criollo adatto più al prestigio che al potere. Come per altre icone sudamericane (Pelé o Garrincha), la loro origine è vaga e incerta, a parte il Che.
Questo vale soprattutto per Gardel del quale non si conosce né la data di nascita né il luogo (Toulouse, Tacarembo, Buenos Aires?), non di sa la sua etnia originaria (spagnola, italiana, uruguaya, francese?), non si è mai fatto chiarezza sulle sue propensioni sessuali. Dunque Gardel rappresenta un po’ il prototipo dell’uomo anonimo giunto sul Rio de la Plata, chissà come e perché, che conquista la fama internazionale, tanto che oggi il luogo turistico più frequentato di Baires è il cimitero de la Chacarita, nell’elegante quartiere della Recoleta,
Nel libro “Comediantes y mártires”, Juan José Sebreli smonta pezzo pezzo la mitologia nata attorno a questi personaggi, uniti da una nascita umile o periferica, una rapida ascesa e una forte caducità diale indenne e con forte riserve auree, avendo venduto i propri prodotti sia agli Alleati che ai paesi dell’Asse. El Conductor riuscì in dieci anni a costituire una forte identità di una nazione che soffriva (e soffre tuttora) di sradicamento con gente che cercava affannosamente una nuova identità, che aveva perduto le proprie radici oppure la ragione per quale, un giorno, un antenato aveva deciso di depositare la sua anima in quell’immenso estuario della Plata. Anche Perón, deposto da un golpe, nonostante la strenua difesa dei descamisados, lasciò un ricordo di floridezza che gli consentì di tornare in patria dall’esilio nel 1973 senza però riuscire più a rimettere le cose a posto in un paese diventato oramai simbolo di instabilità politica ed economica. Ma gli argentini di oggi sono ben diversi dai nonni emigranti e cercano autentici idoli da
queste quatto icone e non altre, ad esempio San Martin, Belgrano, Borges, Soriano, Frondizi, Monzón, Fangio? Perché incarnano, secondo Sebreli, le tre passioni nazionali: tango, peronismo e calcio in un paese in cui, come spiega Jorge Luis Borges, non ci sono leggende e nessun fantasma cammina nelle strade. Tutto, dunque, nasce dall’esigenza di inventarsi una storia eroica là dove la storia non c’è e forse non è neppure troppo studiata e soprattutto dall’esigenza di non incorrere in lacerazioni e disgregazioni, come è accaduto durante la crisi dei casseroleros del 2001 che ha visto una precipitosa fuga di giovani all’estero.
Una tendenza ancora oggi fortissima, se è vero come è vero che 2 milioni di argentini vivono fuori dal Paese (più del 5% della popolazione) e un milione di giovani ha fatto regolare richiesta di passaporto italiano negli ultimi due anni. Infatti, nonostante nelle scuole si inculchi una coscienza civica nazionale, i suoi simboli, i riti e le cerimonie sono e restano assai gracili, come appunto il culto degli eroi popolari. Per Sebreli i due miti politici, Evita e il Che, non erano affatto dei politici, non avevano inclinazione politica: la prima era una attrice, il secondo un medico. Evita è arrivata alla politica stando a fianco di Perón, Guevara stando accanto a Fidel, cioè due massimi leader del continente latino-americano incontrati fortuitamente e non nel momento della loro
Tra i nuovi miti degli argentini: qui sopra, Carlos Gardel, Evita Duarte in Peròn ed Ernesto Che Guevara. A sinistra, Diego Armando Maradona dove tra le statue di Perlotti e Vergottini si erge la sua tomba, lastricata di targhe ricordo, sormontata da una statua in bronzo. Il cantante sorride, elegante, con la farfallina, il panciotto, l’abito scuro, una mano con le dita aperte dove fa bella mostra una sigaretta accesa. Gli incalliti amanti di Gardel, tra un singhiozzo e una lacrima, non fanno mancare mai al cantante di Volver una tirata di fumo per mantenerlo vivo. I quattro idoli del panteon platense hanno avuto poi la capacità di utilizzare al meglio i media del loro momento: il cinema e la radio per Gardel, la fotografia per Evita, la televisione, la fotografia e il documentario per Guevara e il glamour per il Pibe de Oro. Nessuno tra loro si è mai conosciuto, forse non si sarebbero neppure sopportati. Ma tutti hanno avuto il piacere della finzione diventando anche star cinematografiche. E che icone con Madonna nei panni di Evita e Benicio Del Toro nei panni di Guevara! Servirà all’Argentina, così mal ridotta dal punto di vista economico e finanziario, avere finalmente un tempio delle eterne divinità? Il saggista Sabreli con un pizzico di cinismo finisce col citare Bertolt Brecht: «Poveri quei popoli che hanno bisogno di eroi».