Se tutti gli economisti
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confrontassero le loro teorie, non giungerebbero mai a una conclusione
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George Bernard Shaw di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 16 OTTOBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Parte il progetto del ministro dell’Economia per la “Banca del Sud”: ma la gestione sarà sotto il controllo di Scajola
Nessuno si fida di Tremonti
Berlusconi, Letta, Draghi, le banche, molti ministri: cresce la diffidenza nei suoi confronti. Bankitalia: «Lo scudo si rivelerà un aiuto all’evasione». E la Bce: «Riducete il debito» di Francesco Pacifico
ROMA Da un po’ di tempo risuona in maniera sinistra quel «Gianni (Letta, ndr) è l’unico insostituibile», che Silvio Berlusconi ripete come un mantra. Nei giorni in cui Giulio Tremonti ottiene il via libera per la sua Banca del Sud, il Pdl intravede in questa frase lo spettro del 2004. La ricollega a una lite avvenuta meno di due settimane fa fra Tremonti e Letta e ci legge una sentenza del premier: se fosse costretto a scegliere tra i due, sarebbe il ministro a doversi trovare un altro lavoro. a pagina 2
La notizia diffusa da Michael Ledeen
REPORTAGE Tutti dicevano che il futuro del mondo era ormai nelle mani del loro nuovo comune Impero. Ma, in realtà, Cina e India sono già ai ferri corti. Sui loro confini e sul controllo dell’Africa
Si rincorrono ovunque le voci sulla morte di Khamenei. L’Iran smentisce
PARLA REVIGLIO, IL SUO EX MAESTRO
«Giulio, non star fermo, riforma le pensioni» Il maestro valuta l’allievo. Franco Reviglio, per così dire, accetta di dare i voti a Giulio Tremonti. E non sono tutte rose e fiori. «Perché almeno la riforma delle pensioni poteva farla perché in economia una cosa è basilare: coprire le spese». Ma poi, dopo la stoccata, arrivano anche le affettuosità e i complimenti; per l’intraprendenza giovanile e per le passioni di oggi. (f.p.) a pagina 3
Cindia, un’illusione già finita
Fitto mistero sulla Guida. Mentre il mondo si chiede cosa succederà all’Iran di Vincenzo Faccioli Pintozzi La voce lanciata da Michael Ledeen alcuni giorni fa ha fatto il giro del mondo, e ieri era presente su tutti i network internazionali. Che sia morto o no, Ali Khamenei ha scatenato reazioni contrastanti fra di loro. Teheran nega, mentre la dissidenza esulta.
alle pagine 12 e 13
Un vertice a due per la riforma
È polemica sulla presunta rivelazione del quotidiano: soldi ai talebani
Kabul, il giallo delle mazzette L’Italia querela il Times, ma il caso esplode anche in Francia
a pagina 14 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
Berlusconi e Fini, prove di tregua sulla giustizia di Franco Insardà
di Luisa Arezzo
ROMA. Mazzette ai talebani afgani in cambio di un po’ di tranquillità. Questa è l’accusa che il Times di Londra ha lanciato ieri in prima pagina contro gli 007 italiani e - evidentemente - l’Italia. Immediata la risposta del ministro della Difesa La Russa che, minacciando querela al quotidiano britannico, lo accusa intanto di pubblicare «spazzatura». E la Nato dice: «Mai pagate tangenti».
a pagina 8
Parla il generale Del Vecchio, ex comandante Isaf in Afghanistan
«Nessuno offenda i nostri soldati» politica di aiuto nei confronti della popolazione». Non serve pagare mazzette per costruire scuole in santa pace: «Io non giustifico il versamento di somme ai talebani. Escludo che questo sia avvenuto, se è successo è stato al di fuori delle competenze militari».
trovare una via d’uscita dai processi. Dopo la bocciatura del lodo Alfano, qualunque soluzione va bene, quindi si è perso il conto dei summit convocati a ogni ora con consiglieri-avvocati e alleati per mettere a punto una strategia. Per una soluzione che passi, questa volta senza ostacoli, e faccia dormire sonni tranquilli al Cavaliere. E ieri è arrivato l’incontro che forse potrà risolvere davvero la questione: quello con Gianfranco Fini.
a pagina 15
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di Nicola Accardo
ROMA. Mauro Del vecchio, il generale che della missione Nato in Afghanistan (tra il 2005 e il 2006) è stato comandante ed oggi è senatore del Pd, bolla come «assurde» le accuse del Times: «Il quotidiano fa confusione tra un’azione che non facciamo mai, ovvero pagare i talebani, e una I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
205 •
ROMA. L’idea fissa è di
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Conti in rosso/1. Il fuoco di sbarramento contro “Supergiulio” non si limita più a Bankitalia: ormai è un fronte trasversale
Coalizione anti-Tremonti
Berlusconi, Letta, Draghi, le grandi banche e molti ministri: ancora una volta il titolare dell’Economia suscita critiche e diffidenza di Francesco Pacifico
ROMA. Da un po’ di tempo risuona in maniera sinistra quel «Gianni (Letta, ndr) è l’unico insostituibile», che Silvio Berlusconi ripete come un mantra. Nei giorni in cui Giulio Tremonti ottiene il via libera per la sua Banca del Sud, il corpaccio del Popolo della Libertà – parlamentari, senatori e mandarini, non certo campioni di attivismo politico, ma imbattibili nel comprendere passioni e gusti del capo – intravede in questa frase lo spettro del 2004.
to, il ministro ne avrebbe chiesto conto al gran visir di Palazzo Chigi. Ma invece delle scuse, si è sentito replicare che la battaglia contro il mondo del credito non fa certamente bene alla salute dell’esecutivo. Tremonti non ha mai gradito che da Letta facciano anticamera quegli imprenditori – in testa la vecchia Confindustria – e quei banchieri con i quali non ha legato. Ma giocare con i TreBond è stato considerato un affronto che neppure Berlusconi
Tutto è iniziato con una lite con il potente sottosegretario: tutti sanno che se il premier fosse costretto a scegliere fra i due, abbandonerebbe il ministro. Proprio come accadde già nel 2004 La ricollega a una lite avvenuta meno di due settimane fa tra Giulio Tremonti e Gianni Letta. Ci legge una sentenza inappellabile del premier: se fosse costretto a scegliere tra i due, allora sarebbe il ministro a doversi trovare un altro lavoro.
Sui giornali si fa un gran parlare del dibattito a porte chiuse all’Aspen, quindi a casa di Tremonti, sul dopo Berlusconi, e di una maldestra segreteria che non si è accorta di aver inserito tra gli invitati anche il premier… Senza contare che la notizia l’ha data proprio il Giornale del fratello del premier. Ma in Transantlatico come nei sempre più desolati uffici di via dell’Umiltà ci s’interroga anche sull’ennesima lite tra il ministro e il sottosegretario più potenti del governo. I due, pare, non hanno fatto pace. Con il responsabile del Tesoro andato su tutte le furie dopo aver scoperto che Letta ha incontrato in segreto il presidente dell’Abi, Corrado Faissola. Il quale si sarebbe lamentato dei ripetuti attacchi del ministro. Rilanciati con più virulenza dopo che, rottamati Tre-bond, Corrado Bazoli e Alessandro Profumo avevano riconosciuto l’onore delle armi a via XX Settembre e proposto un patto di non belligeranza. Faissola per giunta avrebbe anche chiesto a Letta di intercedere su Berlusconi per ottenere uno sgravio sulle sofferenze in bilancio, che invece Tremonti ha legato ai bond governativi. Apriti cielo, quando l’ha sapu-
è riuscito a placare. Da qui l’analisi dei parlamentari che vedono nel «Gianni è l’unico insostituibile» la sentenza del premier. Da qui la frase «Tremonti non si sogni certo di fare il Giuliano Amato della situazione», attribuita al parlamentare Giorgio Stracquadanio, ma subito smentita dall’interessato. Per non parlare di quel «gran visir dei viscidoni» rivolto da Roberto Calderoli a Letta proprio nei giorni dello scontro tra ministro e sottosegretario. A quanto si sa, i rapporti tra Berlusconi e Tremonti sono peggiorati quando il premier ha scoperto che in Abruzzo soltanto i residenti avrebbero ottenuto risarcimenti per le case distrutte dal sisma.Tanto da essere costretto a promettere una circolare di Palazzo Chigi per sbloccare qualche centesimo.
Più in generale all’uomo di Arcore non piace questa corsa alla sua successione che vedrebbe proprio il tributarista di Pavia molto attivo. Soprattutto a tessere rapporti con ambienti troppo insofferenti verso il berlusconismo: il Vaticano, i soci del Corriere, il mondo delle partite Iva, i sindacati, compre-
Il governo vara il nuovo istituto con il no di Fitto
Banca del Sud, un’idea sua, ma gestita da Scajola ROMA. La panacea di tutti i mali italiani si chiama Banca del Sud. L’ha inventata il superministro Tremonti chiamato a dirimere le polemiche interne alla maggioranza sul riequilibrio degli interventi tra Nord e Sud (si ricorderà la martellante campagna di Raffaele Lombardo e Gianfranco Micciché sul Sud abbandonato) e il governo l’ha licenziata ufficialmente ieri dopo un po’ di maretta interna. Tanto che il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, sarà il coordinatore del parallelo “piano Sud”, nel cui ambito rientra appunto anche la Banca del Sud. Infatti, il ddl di istituzione della moderna Cassa del Mezzogiorno è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri, dopo un ampio dibattito che ha visto coinvolti diversi ministri. Due, in particolare, hanno espresso le loro forti perplessità: Raffaele Fitto e Stefania Prestigiacomo (meridionali doc, ma non necessariamente sulla stessa lunghezza d’onda degli intemperanti Lombardo e Micciché), che hanno sottolineato come a loro parere ci sia una mancanza di impostazione strategica. E allora Berlusconi a quel punto ha avuto buon gioco a proporre un’altra scatola cinese (che sicuramente costerà qualcosa agli italiani in termini di apparati e uffici) chiamata Piano per il Sud coordinato, appunto, da Claudio Scajola. Insomma, la Banca del Sud ha un guardiano. Ma non è bastato, perché alla fine, il ddl sulla Banca ha avuto sì il via libera, ma il ministro Fitto ha mantenuto le sue perplessità e non ha firmare il provvedimento come proponente. Ma che cos’è, esattamente, la Banca del Sud? Difficile dirlo, per ora. Di sicuro, dovrebbe fornire prestiti alle imprese meridionali «a condizioni più vantaggiose di quelle di mercato», ha promesso il ministro Tremonti. Che naturalmente non ha saputo trattenersi dal piacere di chiosare che non era poi così difficile raggiungere questo obiettivo, data la conclamata esosità della nostre banche. Altra certezza è che all’interno della Cassa del Mezzogiorno del Duemila avranno un ruolo di rilievo le Poste gestite da Massimo Sarmi. Come? Ancora non si sa: «È un ruolo da definire, stiamo studiando, ma un ruolo molto importante» ha spiegato Tremonti. «Un ruolo complementare o sussidiario al servizio della banca. Dobbiamo studiare un modo ma abbiamo grande fiducia nel management delle Poste». Insomma, le vecchie Poste italiane fanno l’ultimo passo e da società di servizi di comunicazione si trasformano definitivamente in una banca privata di Stato: almeno Tremonti potrà finalmente comandare presso un qualche istituto di credito, dicono i maligni. Ad ogni modo, a definitivo suggello della storica iniziativa, il superministro ha spiegato: «Non sarà un carrozzone». Il Sud esulta.
so il nemico Epifani. Per non parlare delle cancelliere di mezzo mondo, impressionate dal lavoro di Tremonti sui legal standard e che potrebbero spianargli la strada dell’Ecofin. Non aiutano il rapporto i troppi no pronunciati da Tremonti alla richieste di spesa: Berlusconi perde consenso e perde tempo ad ascoltare le lamentele dei suoi ministri. Comunque è difficile misurare il loro feeling. Se è certo è che il premier ha ancora addosso le cicatrici per il divorzio del 2004 – pare rimpianga non aver tagliato le tasse come gli consigliava il ministro – l’altro ogni giorno scopre nuovi nemici. Chi semina vento raccoglie tempesta. Eppure soltanto un anno fa Corrado Passera ringraziava Tremonti per aver permesso l’operazione Alitalia e il Pd inseriva nella sua biblioteca la Paura e nella speranza. Finché c’è la crisi Tremonti è in una botte di ferro. L’emergenza dei conti gli permette di respingere ogni assalto alla diligenza. La bassa inflazione gli consente di congelare del debito pubblico, mentre la liquidità immessa in massa dalle banche centrali fa sì che i Btp italiani siano appetibili come o più i Bund tedeschi. Eppoi c’è l’atavica difficoltà di questo governo a fare le riforme, che fa apparire meno grave il no all’innalzamento dell’età pensionistica. L’altra sera, e ospite del cenacolo di Marco Antonellis, il parlamentare pdl Renato Farina faceva sapere che sarà difficile chiudere sulla giustizia perché «la Lega non crede ci siano le condizioni per il ritorno dell’immunità». Ma i problemi sono dietro l’angolo. Con i nemici che stanno affilando le unghie per prepararsi quando a fine anno arriveranno i soldi dello scudo fiscale. Se ci sarà qualche euro in più rispetto al previsto, a quanto già impegnato per statali e precari della scuola, si potrà parlare di politiche espansive. Finanche di politica fiscale, magari con una sforbiciata alle tasse delle tredicesime che piace a Raffaele Bonanni. Da quanto se ne sa, il ministro proverà a fare quadrato. Ben sapendo che è più facile respingere le richieste di spesa dei colleghi con l’avallo di Bruxelles perennemente allarmata per i conti italiani. Oppure che avere dalla sua le fondazioni
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L’analisi dell’ex responsabile delle Finanze negli anni di Tangentopoli
«Servono grandi riforme. Giulio, inizia dalle pensioni» Franco Reviglio promuove con riserva il suo ex allievo: «Stavolta si è scordato che doveva colpire la spesa» ROMA. «Dare qualcosa in più contro la crisi? dell’età media, porteranno correttivi. Ma in-
Giulio Tremonti è sempre più nell’occhio del ciclone: ieri il governo ha approvato la “sua” Banca del Sud, ma l’ha posta sotto il controllo di Claudio Scajola. A destra, Franco Reviglio bancarie, interessate a un ampliamento delle attività della Cassa depositi e prestiti, rende meno scontato lo scontro con il mondo del credito. Ma i nemici Tremonti pare vederli in casa. Inteso come governo e maggioranza. Neppure due settimane fa il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, e il segretario della Cgil sono usciti allo scoperto e reso pubblica la loro alleanza strategica in un dibattito sulla congiuntura. E l’obiettivo è un fuoco incrociato per riportare a via Veneto le risorse anti crisi che Tremonti ha fatto spostare a Palazzo Chigi. A quest’asse guardano le Regioni, stanche di aspettare dal Cipe lo sblocco dei loro piani attuativi e dei Fas. Ma se Scajola è da tempo un suo antagonista naturale, Tremonti ogni giorno che passa si accorge che maggiori pressioni gli arrivano dal fronte meridionale del Pdl. Più che il pacchetto Banca del Mezzogiorno e Agenzia per il Sud in quell’area si attendono soldi veri. Quale sia la forza dell’ala sud del centrodestra Tremonti l’ha capito al Consiglio dei ministri di una settimana fa. Prima il barese Raffaele Fitto e poi la si-
racusana Stefania Prestigiacomo hanno attaccato e fatto slittare il progetto della Banca che gli sta tanto a cuore. E in via XX settembre avrebbero letto nel livore del ministro degli Affari quello dell’intera classe politica meridionale, nell’attivismo della Prestigiacomo quello di Lombardo e Micciché. Non è un caso quindi che Berlusconi abbia portato l’istituto sotto l’egida di Palazzo Chigi.
La stessa Prestigiacomo è uscita allo scoperto e ha annunciato che i 3 miliardi di euro necessari al suo piano straordinario per le emergenza idrogeologica è fermo «per problemi con il ministro dell’Economia». Ma tranelli potrebbero arrivare anche dal Parlamento, che non ha gradito la blindatura del Tesoro della Finanziaria. Fabrizio Cicchitto prima ha guidato la campagna per creare a Palazzo Chigi un’agenzia leggera per il Mezzogiorno, quindi ha accolto l’invito di tagliare le tasse come chiesto dalla Marcegaglia. La presidente degli industriali che sul problema del credit crunch è ormai diventata la coscienza critica del ministro.
Ma come si fa. A me sembra che il ministro si sia mosso bene su una frontiera molto calda». Poi, come si confà a quei maestri che non devono mai mostrarsi compiacenti con i loro migliori allievi, l’economista Franco Reviglio un neo in Giulio Tremonti lo trova: «Va fatto qualcosa per la spesa». Ma lo dice con affetto l’ex ministro delle Finanze. Anche perché il rapporto tra i due è di lunga data. «Quel giovane docente mi fu mandato dal suo vero maestro, il professor Micheli, quando gli chiesi un esperto tributario per il ministero delle Finanze. Era il 1979». Con Tremonti non tutti sono così generosi. Non mi unisco al crucifigge generale. A chi lo critica rispondo che è difficile muoversi oggi, tra la necessità di esseri prudenti e quella di avviare azioni strutturali. C’è una strategia? La sua strategia è quella di evitare che il Paese cada nel baratro. E lo fa tenendo al centro quel milione e mezzo di persone che, come ha spiegato il governatore, sono senza protezioni. Tremonti il keynesiano. Le sembra poco parlare di povertà o di rilancio attraverso le grandi opere? Soprattutto se si ha la possibilità di finanziarle con garanzie europee, che non vanno a incidere sulla spesa per gli investimenti. Sarebbe un bel colpo recuperare un punto o un punto e mezzo di Pil. Eppoi c’è il ruolo della Cdp. Guarderei al progetto con meno sufficienza. Il suo maestro Francesco Forte ha bocciato la Banca del Sud. Avrà successo se si finanzierà con risorse di mercato. E aiutarà il via libera della Ue agli incentivi che vuole dare Tremonti. Eppoi questa non è una banca: sono stato il ministro che ha eliminato la Cassa del Mezzogiorno, ma non avrei nulla da ridire se quest’istituto riuscisse a diventare l’agenzia di coordinamento che ci manca. Una nuova Imi? Magari, fu uno strumento molto efficiente. Ma il senso di questo provvedimento è, come per i project bond, finanziare gli investimenti uscendo dai vincoli del patto di stabilità. E senza appesantire il moloch del debito. Tremonti promosso a pieni voti? Il suo merito è stato dare priorità alle situazioni di maggiore disagio sociale o concedere agevolazioni alle piccole imprese. Si poteva fare di più per la crisi? Non credo che si potesse fare di più. E non direi che non si è fatto nulla. Giulio ha lavorato bene. Anche se… Anche se? Un piccolo appunto c’è: non si sono fatte riforme per mettere sotto controllo la spesa pubblica, cominciando dalle pensioni. Certo, dal 2015 ci saranno vincoli che, collegati all’aumento
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tanto oggi spendiamo quattro punti di Pil in più rispetto ai nostri partner europei. E che si potrebbero usare per gli ammortizzatori. Il governo dice che non serve. Serve, ma è complessa perché 21 milioni di assegni al mese sono pur sempre 21 milioni. Come ha ricordato l’altro ieri in un bellissimo discorso il governatore Draghi, la riforma è una condizione indispensabile per migliorare la qualità della spesa, per incentivare fiscalmente il lavoro e ridurre il debito pubblico. Altrimenti non risolveremo i problemi di disavanzo e fabbisogno. Aumentano i nemici del suo allievo. Preferisco non intervenire sui presunti giochi di accerchiamento che leggo sui giornali. Mi sono imposto soltanto di commentare la sua attività politica, ma non mi scandalizza neppure che l’opposizione attacchi il ministro dell’Economia. Lo attaccano anche i colleghi di governo. Che dire, spero che si incassi molto con lo scudo. I ministri di spesa chiedono sempre di più del dovuto. Lo so bene io che ho guidato le Finanze nel 1992, quando c’era la grande crisi. Tutti chiedevano soldi, ma noi abbiamo tagliato, fatto una manovra da 90 miliardi di lire. La Marcegaglia ha bocciato la Finanziaria. La presidente di Confindustria fa il suo mestiere. Che è soprattutto quello di avere una riduzione fiscale sul costo del lavoro. Al suo posto farei lo stesso. Ma ci sono i vincoli generali di finanza pubblica da considerare con i quali fare i conti. Per questo tutte le richieste al ministro ricevono identica risposta. I Tremonti bond sono stati un fallimento. La differenza tra i Tremonti bond e le altre emissioni è di qualche decimale. Il problema che erano accompagnati da una serie di vincoli, di azioni di moral suasion come i controlli dei prefetti, che alle banche sicuramente non piacciono. Soltanto questo? Siamo vicini al rinnovo dei vertici di tanti istituti: credo che i banchieri temessero lo zampino della politica in questo processo. Per concludere… Per concludere Giulio è molto intelligente, già da giovane dimostrava la capacità di capire l’essenza dei problemi. E dalle sue esperienze ha saputo trarre una amplissima competenza economico-finaziaria. Il deficit sta nel carattere. Quando era giovane, era molto irruento e impetuoso, spesso al limite dell’arroganza. Mi creda, è riuscito a frenare questo suo difetto. Se tutti i politici avessero fatto il suo percorso, l’Italia sarebbe migliore. (f.p.)
Da giovane, era irruento e impetuoso. Forse sembrerà strano, ma nel tempo è riuscito a mitigare quel suo caratteraccio
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Conti in rosso/2. Le prospettive dell’economia restano appese a un filo. E con l’arrivo di mezzo milione di nuovi disoccupati
L’affondo di Bankitalia
«La crisi è finita grazie ai risparmi, ma ora la famiglia non basta più. E poi lo scudo fiscale favorirà l’evasione». Tremonti: «Falso» di Alessandro D’Amato
ROMA. È la giornata dei numeri, delle polemiche e del tutti contro tutti. Tutto comincia con Bankitalia che dice: la recessione sta finendo, ma sulla solidità della ripresa c’è molta incertezza. Ed è allarme occupazione e conti pubblici. Senza contare che lo scudo fiscale corre il serio rischio di dare un sostegno all’evasione. Apriti cielo! Ricomincia la guerra tra Draghi e Tremonti? Non è mai finita, in realtà. E nello scontro si inserisce anche l’Unione Europea che ha chiesto ai Paesi che hanno problemi di deficit fuori controllo (naturalmente noi siamo tra questo) di fare interventi dell’1% del Pil per rimettere in sesto i propri conti. Non solo: gli incentivi alle auto non servono, dice ancora la Ue. Insomma: è il giorno della grande confusione di numeri e opinioni. Ripartiamo daI bollettino economico della Banca d’Italia e dall’audizione del direttore generale Fabrizio Saccomanni nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Perché è da qui che partono una serie di allarmi sulla congiuntura economica italiana e mondiale.
«La recessione si è arrestata e si sta ora profilando una ripresa, in larga parte grazie al sostegno delle politiche economiche espansive adottate nei principali Paesi», scrivono gli economisti di via Nazionale, ma «rimane molto elevata l’incertezza sulla solidità della ripresa: vi è il rischio che con il venir meno degli stimoli fiscali e monetari, e una volta esaurito il ciclo di ricostituzione delle scorte, la domanda privata possa tornare a ristagnare, frenata in molte economie da una disoccupazione elevata e crescente e dalla limitata disponibilità di credito e dall’esigenza delle famiglie di risanare i propri bilanci». Dal Bollettino emerge anche una timida ripresa dei consumi, anche se si sottolinea che in ogni caso i segnali per il terzo trimestre restano incerti. Nel secondo trimestre, in ogni caso, finalmente «si è interrotto il calo della spesa delle famiglie, che ha segnato un aumento dello 0,3% sul periodo precedente (-1,8 su quello corrispondente del 2008). Il risultato riflette soprattutto il netto rialzo degli acquisti di beni durevoli (4,0 per cento sul
Nel bollettino mensile, la Banca europea mette l’Italia nel mirino
La Bce ci chiede di rientrare dal deficit «Serve un aggiustamento dell’1% del Pil» ROMA. Gli interventi di riequilibrio dei conti pubblici nell’Eurozona «andrebbero intensificati nel 2011 e dovranno superare in misura significativa» lo 0,5% del Pil su base annua. E nei Paesi che presentano un rapporto deficit/Pil elevato l’aggiustamento strutturale «dovrebbe raggiungere almeno l’1% del Pil». La raccomandazione si trova nell’ultimo bollettino della Banca Centrale Europea, e a fischiare dovrebbero essere anche le orecchie italiane. Sempre secondo Francoforte le misure strutturali definite dai Paesi dell’Eurozona «dovrebbero concentrarsi sul lato della spesa».
Insomma, la Bce sta, per ora sommessamente ma a breve – c’è da scommetterci - con voce molto più grossa, sta chiedendo a quei paesi che hanno sforato dai parametri di Maastricht di prepararsi a tagliare abbastanza voci di bilancio per ricominciare a rientrare nella “normalità”. Con tutto ciò che implica una decisione del genere dal punto di vista politico. Soprattutto per quei paesi, come l’Italia, che finora hanno dimostrato una certa refrattarietà ad ascoltare questo tipo di richiamo. E infatti Jean-Claude Trichet, il presidente della Bce, intervenendo proprio ieri a un convegno, ha detto che «non sono solo le banche centrali ad avere bisogno di una strategia di uscita credibile dalle misure straordinarie decise per contrastare la crisi finanziaria e la recessione: anche i Governi ne devono avere una». La risposta data dai governi è stata cruciale per evitare il collasso globale, ma, ha aggiunto Trichet, «comporta costi significativi. Il volume del debito e i deficit di bilancio in diversi Paesi dell’Eurozona hanno raggiunto livelli preoccupanti ed è per questo che aumenta l’urgenza di strategie di uscita ambiziose e realistiche e di consolidamento fiscale». D’altro canto, l’economia dell’eurozona sta continuando a
stabilizzarsi e dovrebbe segnare una ripresa graduale e discontinua, ma permangono notevoli incertezze. L’area dell’euro dovrebbe beneficiare della ripresa delle esportazioni, dei significativi interventi di stimolo macroeconomico in atto e delle misure adottate per ripristinare il funzionamento del sistema finanziario. Inoltre, dopo i forti contributi negativi della prima metà del 2009, il ciclo delle scorte dovrebbe incidere positivamente sulla crescita del Pil in termini reali nella seconda metà dell’anno. Nel complesso, Francoforte prevede però che la ripresa resti piuttosto discontinua: nel breve periodo spiega la Bce - sarà favorita da alcuni fattori di carattere temporaneo, ma a medio termine risentira’ probabilmente del processo di correzione dei bilanci in atto nei settori finanziario e non finanziario dell’economia, sia all’interno che all’esterno dell’area euro.
Il Consiglio direttivo ritiene che tali prospettive restino soggette a rischi sostanzialmente bilanciati. Per quanto riguarda i rischi al rialzo, gli effetti derivanti dalle vaste misure di stimolo macroeconomico messo in atto e dagli altri interventi di politica economica potrebbero essere più pronunciati di quanto anticipato. Inoltre, il clima di fiducia potrebbe migliorare più rapidamente, il peggioramento delle condizioni nel mercato del lavoro potrebbe essere meno marcato rispetto alle attese precedenti e la domanda esterna potrebbe risultare più vigorosa del previsto. Quanto ai rischi al ribasso, persistono timori concernenti interazioni negative più intense o prolungate fra l’economia reale e il settore finanziario, nuovi rincari del petrolio e delle altre materie prime, maggiori spinte protezionistiche e la possibilità di una correzione disordinata degli squilibri internazionali. Sull fronte del lavoro, l’Italia ha registrato un aumento relativamente contenuto della disoccupazione nonostante la contrazione del Pil alquanto pronunciata. Incrementi della disoccupazione moderati rispetto all’andamento del Pil si sono registrati anche in Germania e nei Paesi Bassi. Per contro - prosegue Francoforte - altri paesi hanno fatto segnare un incremento della disoccupazione decisamente sproporzionato rispetto alla media di Eurolandia, come Spagna e Irlanda. Aumenti della disoccupazione consistenti rispetto al calo del Pil anche in Francia e Cipro. (a.d’a.)
periodo precedente), tornati a crescere per la prima volta dall’estate del 2007 sulla spinta delle agevolazioni alla rottamazione degli autoveicoli».
Quanto allo stato dei conti pubblici, «è in notevole peggioramento, risentendo soprattutto della dinamica particolarmente negativa delle entrate». Sulle prospettiva, si evidenzia, «pesa l’incertezza ancora elevata riguardo ai tempi e all’intensità della ripresa ciclica». Gli economisti di Via Nazionale fanno riferimento, in particolare, all’andamento del gettito fiscale. Nei primi nove mesi del 2009 il gettito tributario erariale si è ridotto del 3,2%, nonostante la forte crescita di alcune imposte sostitutive straordinarie. Citando poi i dati contenuti nell’ultima Relazione previsionale e programmatica, il Bollettino ricorda che l’obiettivo per l’indebitamento netto è fissato al 5% del Pil, pari al valore tendenziale, e che «il suo conseguimento prevede, in base al quadro analitico a legislazione vigente, una ripresa del gettito tributario, una forte decelerazione della spesa primaria corrente e una netta flessione degli investimenti pubblici». nche se le stime si fondano su dati ancora incompleti, secondo gli economisti di Via Nazionale, «nella media del primo semestre il reddito disponibile reale delle famiglie consumatrici avrebbe subito una flessione dell’ordine dell’1 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008, inferiore a quella della spesa». Ma è l’occupazione a preoccupare: «In base ai dati della Rilevazione sulle forze di lavoro - dice il Bollettino -, nel secondo trimestre del 2009, al netto dei fattori stagionali, il numero di occupati residenti in Italia è diminuito dello 0,3% rispetto al periodo precedente (-58.000 persone), un ritmo in linea con quello registrato a partire dalla seconda metà dello scorso anno. Rispetto allo stesso trimestre del 2008 la diminuzione dell’occupazione è stata di 378.000 unità (1,6 per cento), come risultato di una riduzione più forte del numero di occupati di nazionalità italiana (-562.000) e di un aumento dell’occupazione straniera (184.000)». Ma, fanno sapere gli economisti, quest’ultimo dato riflette esclusivamente il recepimento nei dati anagrafici della crescita della popolazione straniera residente (aumentata di 307 mila unità) e potrebbe riguardare pertanto lavoratori di fatto già in attività. Secondo le stime di contabilità nazionale, che hanno potuto incorporare solo parzialmente le informazioni della rilevazione sulle forze di lavoro, la diminuzione dell’occupazione nel secondo trimestre sarebbe stata pari allo 0,9%. La perdita è risultata di oltre mezzo milione di occupati rispetto a un anno prima, escludendo dal computo l’effetto delle iscrizioni all’anagrafe di lavoratori immigrati. Ed è stata di circa 300.000 unità
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I fondi che verranno dai patteggiamenti diventano “risorse”
L’Italia (non) diventa un paradiso fiscale La Corte dei Conti attacca la legge sul rientro dei capitali: dove finisce la lotta all’evasione? di Gianfranco Polillo ullio Lazzaro, Presidente della Corte dei conti, nella sua audizione a Palazzo Madama, ha avuto facile gioco nel mettere sotto accusa le posizioni del Governo. Non convincono – ha detto – le proiezioni sulla possibile crescita del Pil. È sbagliato comprimere la spesa per investimenti, che sono il sale della possibile ripresa. Non è pensabile una riduzione della pressione fiscale, specie se generalizzata, viste le precarie condizioni delle pubbliche finanze. Parole sagge, ma anche – se è consentito – scontate. Su quel tasso di crescita, per il 2011 e seguenti, pari al 2 per cento, indicato nei documenti della Ragioneria generale, era facile sparare. Si tratta di una cifra messa quasi “per memoria”, come si legge a volte, nei capitoli di bilancio. Se fossimo stati in Giulio Tremonti avremmo preso le valutazioni del Fmi – le uniche disponibili fino al 2014 che indicano una proiezione più realistica: da un minimo dello 0,2 per cento per il 2012, ad un massimo dell’1,9 per cento al 2014. Non avranno forse un maggiore fondamento scientifico, ma sono state, comunque, elaborate secondo standard metodologici di tipo internazionale. Per il resto, invece, è addirittura inutile soffermarci. Sarà la dura realtà dei prossimi mesi ad imporci le scelte necessarie.
T
vendere. Ai disertori che, per decenni, hanno depauperato l’Italia si può concedere il ravvedimento; non certo l’onore delle armi. Da un punto di vista pratico, tutto è molto più complicato. È come la lotta all’evasione: tutti ne parlano, ma i successi reali si contano sulle punte delle dita. Quando un fenomeno assume una dimensione di massa, cessa di essere un problema d’ordine pubblico. Diventa, invece, un problema di carattere politico, culturale ed istituzionale, oltre che di semplice economia. Per le esportazioni di capitale valgono le stesse considerazioni. Sul passato è più facile recriminare che intervenire. Per il futuro, invece, occorre chiudere i varchi e consentire un’ultima via di patteggiamento. Una sorta di amnistia – anche se il termine non ci piace – che dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, rendere le due fasi della lotta ai paradisi fiscali ed all’esportazione di capitali complementari e non alternativi, come invece predica la Corte.
Secondo il presidente Tullio Lazzaro, non convincono le previsioni del governo sulla possibile crescita del Pil del Paese. Ma forse si tratta di una critica troppo scontata
Mario Draghi e Bankitalia hanno analizzato i conti del governo e hanno trovato molti punti oscuri. Imputato numero uno: Tremonti. Sotto, Matteoli. A destra, il presidente della Corte dei Conti Tullio Lazzaro
la flessione dei lavoratori comunemente definiti come precari, in maggioranza giovani.
se». Anche perché «risentendo dell’andamento sfavorevole della congiuntura, le entrate - spiega il direttore generale - si ridurranno in termini Nell’audizione sulla Finanziaria nominali (-1,4%) per la prima volta delle commissioni Bilancio di Came- negli ultimi cinquanta anni». E sullo ra e Senato Saccomanni ha invece scudo non tarda ad arrivare la rispolanciato l’allarme sulle conseguenze sta del ministro dell’Economia Giulio dello scudo fiscale: Tremonti: «Il rimpa«Può avere effetti trio di capitali non è negativi sugli inpiù un problema socentivi dei contrilo italiano. Con vari buenti a pagare le nomi, viene applicaimposte in futuro». to in tutti i Paesi. Se E chiede interventi c’è una ragione di ROMA. Ieri l’altro l’aveva in funzione anticriallarme, e lo esclupromesso Berlusconi, ieri lo si a favore di famido, resta curioso che ha certificato il ministro Alglie e imprese: «È ci sia una comunantero Matteoli: i lavori per la necessaria la defiza di pensiero tra costruzione del Ponte sullo nizione immel’etica legale e gli inStretto di Messina diata di interteressi dei banchieri inizieranno il 23 venti struttusvizzeri, con rispetto dicembre. O, merali che assiparlando. Il rilievo glio, inzieranno curino nel mepuò avere o non aveconcretamente endio termine il re ragione. Secondo tro il 2010 e si concontenimento me è discutibile che cluderanno entro il della spesa e abbia ragione. Se c’è 2016: il 23 dicemdel debito un rischio sull’andabre ci sarà un spot pubblico», mento dei corsi futu(in diretta tv su Porta a porta?) nel quale il mantenendo «nelri, lo devono gestire premier darà formale e spetl’immediato il sotutti i Paesi che tacolare inizio ai lavori. stegno alle famiadottano misure di glie e alle imprerimpatrio».
Ponte sullo Stretto finito entro il 2016
Più insidiosa, invece, la critica sui meccanismi contabili previsti per lo scudo fiscale. Dice la Corte: la lotta ai paradisi fiscali e lo scudo si «ispirano al tentativo di incidere su un medesimo fenomeno... segnato da un rapporto di alternatività». Linguaggio particolarmente oscuro. Sembrerebbe di capire che l’uno escluda l’altro. Vale a dire che bisogna fare la lotta ai Paesi che favoriscono l’esportazione illegale, ma non premiare il rientro dei capitali che sono già fuggiti. Da un punto di vista etico la Corte ha ragione da
La quale insiste su un altro cavallo di battaglia. I proventi – afferma sempre Lazzaro – incerti ed indefiniti non possono essere utilizzati per finanziare nuove spese. Osservazione ovviamente condivisibile. Ma non è questa l’intenzione del Ministro dell’economia. Quelle risorse saranno, infatti, assegnate solo dopo il relativo accertamento. Naturalmente si tratterà di vigilare affinchè il conto del dare e dell’avere sia, alla fine, in pareggio. Ma non sembrano essere questi i pericoli effettivi. A Giulio Tremonti semmai si rimprovera il contrario: quello di tener la borsa talmente stretta da strangolare la possibile ripresa, della cui fragilità si è tutti consapevoli. Ben venga quindi l’ulteriore invito al rigore, ma a condizione che sia questo l’intento reale e non un altro falso bersaglio dentro una situazione politica sempre più confusa.
diario
pagina 6 • 16 ottobre 2009
Al vertice. Incontro tra il premier e il presidente della Camera dopo i dubbi sul pm eletto o dipendente del governo
Berlusconi cerca un alleato: Fini La riforma della giustizia è la principale preoccupazione del Cavaliere di Franco Insardà
ROMA. L’idea fissa è di trovare una via d’uscita dai processi. Dopo la bocciatura del lodo Alfano si è perso il conto dei summit convocati a ogni ora con consiglieriavvocati e alleati per mettere a punto una strategia. Per una soluzione che passi, questa volta senza ostacoli, e faccia dormire sonni tranquilli al Cavaliere. L’ultimo incontro Silvio Berlusconi lo avuto ieri, prima della partenza per Sofia, con il presidente della Camera, Gianfranco Fini, al quale hanno partecipato anche il deputato-avvocato del Pdl, Nicolò Ghedini, il presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Quaranta minuti di faccia a faccia che è servito ai cofondatori del Pdl a confrontarsi sui principali temi in agenda. Ma l’argomento principale, ovviamente, è stato proprio la giustizia e la riforma del sistema giudiziario. Un incontro previsto per la prossima settimana, anticipato per le turbolenze del presidente della Camera e dei suoi fedelissimi. Il premier ha tranquillizzato Fini che non è in discussione l’ipotesi di sottoporre i Pm al potere esecutivo. Proprio su questo punto il presidente della Camera, dai padiglioni della Fiera del libro di Francoforte, aveva evidenziato che una cosa è la separazione delle carriere, un’altra la possibilità di rendere i pubblici ministeri dipendenti da poteri diversi da quello giudiziario. Ipotesi esclusa dallo stesso Gianfranco Fini. Berlusconi, invece, si appella al popolo, vuole una riforma presidenziale che lo legittimi e non fa mistero di voler sfidare la magistratura. Stando alla bozza sulla riforme istituzionale che circola tra i vertici del Pdl si pensa alla fine del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei deputati, all’elezione diretta del premier e alla revisione del sistema di composizione della Consulta. Per l’alta Corte so prevede la riduzione dei componenti da 15 a 10, escludendo il potere di nomina ai togati.
e inefficienza nel quale, da oltre 50 anni, continuano a navigare sia il processo penale che quello civile”. Nel suo intervento il ministro della Giustizia sottolinea l’importanza della riforma del processo civile e aggiunge anche che «si attende in media 960 giorni per la sentenza di primo grado e altri 1.500 per quella di appello, mentre il fardello dell’arretrato ammonta a oltre 5.400.000 procedimenti pendenti, con un trend di crescita apparentemente inarrestabile. Il processo penale - continua - viaggia con un bagaglio di processi pendenti che ammontano a oltre 3.600.000, per il primo grado si attendono in media 420 giorni, mentre in appello se ne aspettano altri 73 per ottenere giustizia». Sull’urgenza della riforma della giustizia il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, qualche giorno fa è stato ancora più esplicito: «Bisogna essere falchi in questo momento, dobbiamo essere più cattivi».
È sulla riforma della magistratura che si appuntano tutte le attenzioni di Silvio Berlusconi. Si tratta di un passaggio “fondamentale” così come lo è quello della nuova legge sulle intercettazioni che attende dal Senato l’ok definitivo. Nel mirino soprattutto il processo penale, la separazione delle carriere e il Consiglio superiore della magistratura. Di questo ha parlato mercoledì sera anche con il guardasigilli Alfano e con Umberto Bossi a cena, assieme a Tremonti, Ghedini e Calderoli, che al termine dell’incontro ha assicurato: «Come con Fini, c’è stata grande sintonia tra Bossi e Berlusconi su tutte le maggiori tematiche: siamo uniti, il fatto che i leader tornino a vedersi conta moltissimo». Ma l’argomento giustizia, dopo lo strappo istituzionale per il lodo Alfano, diventa sempre più complicato da portare avanti.
Anche perché sulla giustizia il Cavaliere deve fare i conti, sia con i desiderata finiani di pensare a una rifor-
ma condivisa con l’opposizione, sia con i no di Bossi alla reintroduzione dell’immunità. Per non parlare della volontà del Carroccio di far scegliere i Pm dal popolo. L’impressione che si ha è che ognuno degli alleati tenti di alzare il tiro per ottenere qualcosa per la sua parte. Dagli incontri che Berlusconi ha avuto con Bossi a cena mercoledì e ieri con Fini si sta delineando anche il qua-
spuntarla il ministro avellinese Gianfranco Rotondi. Il suo nome è uscito nelle ultime ore: un democristiano doc, a detta dei suoi sostenitori, in grado «pacificare il Pdl in Campania».
I fedelissimi di Berlusconi, comunque, tirano dritto. La riforma si deve fare e il ministro della Giustizia Angelino Alfano in un articolo per Panorama scrive che «l’obietti-
Quasi fatta per le Regionali: il Veneto al leghista Zaia, il Lazio alla Polverini, mentre in Campania tra Cosentino e la Carfagna spunta Rotondi dro delle candidature per le Regionali. La Lega dovrebbe aver chiuso per Luca Zaia in Veneto, mentre per il Lazio sembra fatta per il segretario dell’Ugl, Renata Polverini. Così la Campania può restare agli ex Forza Italia. La lotta è tra il potente sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, e il ministro Mara Carfagna. ma tra i due litiganti potrebbe
vo è quello di riportare in perfetto equilibrio i piatti della bilancia della giustizia, adeguando anche la Costituzione alle esigenze di efficienza e modernità di una democrazia compiuta». Secondo il ministro «si tratta di affrontare non tanto il fiume inarrestabile della polemica politica che da sempre coinvolge il sistema giudiziario, ma soprattutto il livello di arretratezza
Su posizioni diverse, invece, Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione antimafia, secondo il quale, in un’intervista rilasciata all’Espresso, «Berlusconi dovrebbe fare un gesto alto di riconciliazione generale: andare in Parlamento e riprendere il dialogo sulle riforme. Lo scontro rende difficile l’ordinaria attività di governo, figuriamoci quella straordinaria di riforma». Per Pisanu la prima riforma da fare, che può spianare la strada a intese più ampie è «la reintroduzione della immunità parlamentare, magari nella formula oggi ammessa (e mai contestata) agli eurodeputati. Ricordiamoci che per 45 anni l’immunità è riuscita a salvaguardare il delicato equilibrio tra politica e giustizia stabilito dai padri costituenti». Non manca una polemica con il “Berlusconi eletto dal popolo”, a tal proposito Pisanu precisa che «la legge elettorale prevede l’indicazione del leader del partito, non l’elezione diretta del premier». Berlusconi spinge, ma è sempre più evidente a lui e ai suoi fedelissini che per riformare la giustizia dovrà vincere soprattutto le resistenze all’interno del Pdl.
diario
16 ottobre 2009 • pagina 7
Massimo riserbo dagli inquirenti. Intanto Israfel si dichiara innocente
Ma c’è il “no” di Marino: «Non si cambiano le regole a metà partita»
Trovati ieri dei documenti di altri islamici nel covo di Game
Primarie Pd, “sì” di Bersani e Franceschini al lodo Scalfari
MILANO. Vanno avanti le inda-
ROMA. Dalle primarie del 25
gini sull’attentato di lunedì scorso alla caserma di Piazzale Perrucchetti di Milano. Sarebbero stati trovati infatti dei documenti appartenenti a persone diverse da quelle arrestate finora all’interno del covo trasformato in laboratorio nell’appartamento di Via Gulli a Milano. Gli investigatori hanno accertato che l’appartamento, dove sarebbe stato fabbricato l’ordigno, era nella disponibilità di Mohamed Game, il libico 35enne che ha fatto esplodere l’ordigno all’esterno della caserma. Massimo il riserbo degli inquirenti ma, a quanto ha appreso ieri l’agenzia di stampa Adnkronos, sarebbero un paio i documenti di altre persone trovate nell’appartamento-laboratorio. Identità sulle quali gli investigatori stanno svolgendo tutti i controlli. «Troppo presto adesso, per parlare di complici», dicono.
ottobre sarebbe potuto uscire il nuovo segretario del Pd. La proposta di Eugenio Scalfari (chi vince le primarie sia segretario anche se non supera il 50%), è stata accetata dai due candidati alla segreteria dei Democratici, Franceschini e Bersani. Ma non da Ignazio Marino. «Sono d’accordo», ha detto Franceschini, «mi fa piacere che anche Bersani abbia detto di essere d’accordo con questa proposta». «Sono stato chiamato a guidare il Pd - ha aggiunto Franceschini - in un momento di grande difficoltà, mi sono rimboccato le maniche e ho lavorato insieme agli altri e sono orgoglioso che oggi il Pd viva un momento di grande vi-
D’altro canto, si è avvalso della facoltà di non rispondere Abdel Kol, 52 anni, l’egiziano accusato di essere uno dei presunti complici di Game. L’avvocato di Kol in sede di udienza di convalida del fermo ha chiesto che il suo assistito venga scarcerato e che sia posto agli arresti domiciliari. «Non c’è il pericolo di fuga - ha spiegato il legale - il mio assistito non è nella situazione di fuggire all’estero». Gli inquirenti avevano chiesto a Kol ragione del materiale e della grossa quantità di nitrato di ammonio che è stata trovata nell’appartamento che divideva con l’attentatore. È sempre notizia di ieri che Iohamed Israfel, l’altro libico in stato di fermo perché ritenuto coinvolto nell’attentato, ha detto al gip Franco Cantù Rajnoldi di essere estraneo ai fatti, nel corso dell’udienza di convalida conclusasi ieri nel carcere di San Vittore a Milano. Lha reso noto il suo legale, Alessandro Petti, che ha chiesto al giudice la scarcerazione del suo assistito o, in subordine, una misura cautelare meno severa.
Napolitano insiste: «Il Colle è neutrale» «Il Presidente è una funzione, non una persona» di Francesco Capozza
TORINO. «Per quante tensioni e difficoltà comporti l’adempiere un simile mandato, proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali». Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervenendo a Torino ad un convegno per commemorare i cento anni della nascita di Norberto Bobbio. Napolitano torna dunque a ribadire il ruolo di neutralità del presidente della Repubblica sottolineando che ciascun Capo dello Stato che lo ha preceduto aveva una propria storia politica ma non se ne è fatto condizionare: «Così come ci sono stati presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo tal volta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quello del Capo dello Stato, potere neutro al di sopra delle parti, fuori dalla mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Occidente democratico».
pre in tutte le direzioni. Sono convinto che molti italiani al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali, lo condividano e ne avvertano la necessità». L’intervento del capo dello stato arriva ad appena 48 ore da un’altra analoga precisazione. «Già da ministro e da presidente della Camera fui uomo delle istituzioni, non di parte» aveva affermato Giorgio Napoletano appena due giorni fa, nel suo intervento alla prima conferenza dei prefetti nella scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno a Roma, rivendicando la sua neutralità istituzionale. E lo aveva fatto dopo le accuse che arrivate dal premier («Napolitano è di parte è di sinistra») e dai giornali a lui vicini. Parole, quelle del capo dello Stato, che erano risuonate come una replica, seppur senza toni polemici, a chi, come Berlusconi aveva attaccato il Colle dopo la bocciatura del lodo Alfano.
Il presidente ricorda poi la scelta fatta tredici anni fa, quando venne nominato ministro dell’Interno: «Un ruolo che ero determinato a svolgerlo come uomo delle istituzioni e non di una parte politica» ha ricordato Napolitano. «Quella strada - è il ragionamento del presidente - fu interpretata con uno spirito super partes nella direzione tracciata. Si sono poi mosse scelte istituzionali largamente condivise al di là dell’alternarsi di diversi schieramenti al governo del Paese». L’escalation di tensioni tra Colle e palazzo Chigi a seguito della bocciatura del Lodo Alfano era culminata con l’accusa rivolta da Vittorio feltri su Il Giornale di un patto tra esecutivo e Quirinale per blindare la legge. «Nessun patto» era stata la replica, «nessun accordo nascosto tra il Colle, il premier e il suo Guardasigilli per consentire il via libera al lodo Alfano». «È del tutto falsa l’affermazione che al Quirinale si siano stipulati patti su leggi la cui iniziativa, com’è noto, spetta al Governo, e tanto meno sul superamento del vaglio di costituzionalità affidato alla Consulta». C’è da credere che con l’intervento di ieri sia stata messa, nell’ottica di Napolitano, la parola fine alla querelle cui è stato trascinato dal premier.
L’omaggio torinese a Norberto Bobbio è l’occasione per tornare sulla polemica del premier dopo la bocciatura del Lodo
«L’approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia» ha proseguito Napolitano. «Tutti i miei predecessori, a cominciare nel primo settennato da Luigi Einaudi, avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletto capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere». Infine il presidente ha citato Bobbio: «Posso ripetere le sue parole di una lettera del 1992? «Ci vorrebbe un po’ di equilibrio da parte di tutti. Sono parole, se ripetute ora, destinate a lasciare il tempo che trovano? Fare, non dico l’elogio della mitezza, ma il più naturale appello al senso della misura al confronto costruttivo, al rispetto delle istituzioni ed alla considerazione dell’interesse comune, è dunque solo un dar prova di ingenuità?». Il presidente della Repubblica ha poi confermato che andrà avanti sulla strada già percorsa: «Io non desisterò dal mio appello, rivolto come sem-
talità». In caso di vittoria, «continuo il lavoro che ho appena iniziato, sennò continuerò a impegnarmi nel partito». «Lo statuto è la legge fondamentale che siamo tenuti a rispettare. Se parliamo di politica è chiaro - ha sottolineato Bersani - che per quel che riguarda me, avrei l’orientamento a sostenere chi viene segnalato come primo dall’esito delle primarie, ma non possiamo in tre metterci d’accordo per una disapplicazione dello statuto. C’è un’assemblea ed esistono i delegati».
Poi il “no” di Marino, nonostante gli inviti di Fassino e Sassoli a unirsi al via libera degli altri due candidati, riapre il caso. «Cambiare le regole delle primarie a metà partita - fa osservare - ricorda più le politiche di palazzo che quelle del Pd che vorrei. La proposta secondo cui diventerà segretario del Pd chi ha ricevuto il miglior risultato alle primarie, pur non avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, è estranea all’attuale regolamento, scritto e approvato da Franceschini e Bersani». A stretto giro, arriva la replica, via Twitter, di Franceschini: «Ignazio, ma non hai sempre detto che il popolo delle primarie è sovrano? Non si chiedono i voti il 25 per fare l’ago della bilancia dopo».
mondo
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Crisi. La voce lanciata da Michael Ledeen raccolta dai network internazionali e dai blog iraniani. La capitale in stato di allerta
L’ultimo Ayatollah Si rincorrono nel mondo le voci sulla morte di Khamenei. Teheran nega, la dissidenza esulta di Vincenzo Faccioli Pintozzi e speculazioni sui problemi di salute di Ali Khamenei «sono uno dei passatempi preferiti fra gli iraniani. Negli anni, alla Guida Suprema sono stati addebitati un cancro alla prostata; un cancro al fegato; un cancro linfatico; una dipendenza dall’oppio; una paralisi al braccio; la caduta di tutti i denti e l’incontinenza. Io non so quanto di vero ci sia in tutto questo: certo, dimostra in maniera lampante l’isteria globale che ruota intorno alla scena politica dell’Iran». Lo dice a liberal, in condizioni di anonimato, un alto funzionario diplomatico di stanza a Teheran. Che ricorda: «Michael Ledeen conosce molto bene il Paese, ma già nel 2007 aveva annunciato la morte di Khamenei. Aveva dichiarato inoltre che Saddam Hussein comprava uranio impoverito dalla Nigeria e che la Cina studiava una partnership militare con Israele. È un ottimo analista, ma la situazione interna è talmente tesa e difficile da raggiungere che a volte le voci vengono messe in circolazione con doppi o tripli scopi. Aspettiamo di vedere cosa succede». Di certo, l’isteria di cui parla la nostra fonte ha contagiato negli ultimi due giorni buona parte della stampa internazionale.
L
Ricapitolando: martedì scorso, come riportato ieri dal nostro giornale, Micheal Ledeen annuncia che la Guida Suprema della Repubblica islamica di Iran è caduto in coma. La situazione è talmente grave che, nella sua stanza, sono ammessi soltanto il dottore curante e uno dei figli. La notizia bomba viene ripresa da una serie di blog dell’opposizione iraniana, che la fanno rimbalzare all’interno del Paese: grazie a Twitter - il sistema con cui l’Onda verde ha organizzato le proteste post-elettorali - la popolazione si rincorre nel riportare voci e segnali. Da questo ha origine una slavina, che parte dal sasso lanciato da Ledeen e che si trasforma ben presto in una notizia a sé stante. Incitati probabilmente dalle voci che non accennano a diminuire, infatti, alcuni temerari sfidano la pubblica sicurezza e si riuni-
Dopo i religiosi, l’Iran potrebbe finire in mano ai militari
Attenti alle Guardie: preparano un golpe di Ali Alfoneh e voci secondo cui la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, sia morto sono iniziate a correre per i bazar di Teheran due giorni fa. I blogger iraniani parlano di una atmosfera «anormale» in città, dove sarebbe in aumento la presenza di poliziotti in borghese. Voci di questo tipo si rincorrono di volta in volta. Ovviamente, ogni indiscrezione riguardo la morte di Khamenei è, ad oggi, priva di fondamento; ma la ferocia di questi pettegolezzi riflette l’opacità di informazione riguardo la classe dirigente del Paese, e il desiderio di un pubblico che biasimi Khamenei e la sua corte per aver tradito le promesse di libertà e democrazia con cui hanno puntellato la Rivoluzione islamica del 1979. In ogni caso, vale la pena di fare una considerazione: prima o poi, le voci sulla morte di Khamenei si dimostreranno vere. Come le tasse, la morte rappresenta una delle certezze dell’umanità. Ciò che non è certo, invece, è che cosa seguirà questo decesso. Il trapasso della Guida Suprema rappresenterà infatti una scossa sismica all’interno dell’equilibrio di poteri della Repubblica islamica. Senza un successore designato, la morte di Khamenei scatenerà una lotta senza quartiere per il potere.
L
Accadranno diverse cose, quando verrà annunciato questo decesso. Ufficialmente, l’Assemblea degli Esperti (attualmente guidata dall’ex presidente Hashemi Rafsanjani) dovrà nominare la prossima Guida Suprema. Dietro le scene, tuttavia, i detentori dei maggiori poteri sulla scena – che siano o meno all’interno dell’Assemblea – faranno di tutto per ottenere potere e cercare il consenso della popolazione. Se la decisione dovesse risultare difficile, l’Assemblea potrebbe decidere di nominare un Consiglio religioso per gestire l’interregno. I Corpi delle Guardie della rivoluzione cercheranno di influenzare la decisione, sia che riguardi la nomina della Guida sia che si parli di un Consiglio. Lo scenario più radicale – ma anche sempre più probabile – prevede un colpo di mano proprio da parte delle Guardie: queste potrebbero cercare di abolire l’istituzione in sé, trasformando la Repubblica islamica in un sistema presidenziale e dando il potere supremo a Mahmoud Ahmadinejad. Che, dal canto suo, può vantare un trascorso nelle Guardie, che lo adorano. In ogni caso, il governo dell’Iran si sta rapidamente trasformando in una dittatura militare guidata da un’eclettica ideologia, composta di messianesimo sciita, nazionalismo iraniano e populismo.
Mehdi Karroubi scono in alcune piazze di Teheran per commentare la scomparsa del despota. Le Guardie della Rivoluzione (riportano ancora i siti internet indipendenti) non gradiscono e inviano battaglioni di soldati in tenuta anti-sommossa per disperdere i sediziosi.
timullah.com - che ha come scopo dichiarato quello di operare per la caduta del regime islamico in Iran - che sostiene: «La Guida Suprema è morta, e la notizia verrà annunciata in forma ufficiale domani mattina. Gli edifici governativi hanno già ricevuto l’ordine di esporre la bandiera nera per esprimere il loro lutto». Il direttore del sito, nella sezione dei commenti, risponde così a un lettore scettico: «Siamo consapevoli del fatto che, per ora, si tratta di una voce. Ma tutte le nostre fonti, assolutamente credibili, la confermano: quindi non possiamo fare altro che sperare che sia vero». Di certo, quando in una dittatura circolano indiscrezioni di questa portata, un qualcosa di vero c’è sempre. Pur nell’errore, la notizia del 2007 che voleva la morte di Khamenei in realtà preannunciava una massiccia ri-organizzazione dell’Assemblea degli Esperti, l’organismo che secondo la Costituzione iraniana è delegato a nominare il successore di Khomeini e Khamenei.
Almeno, secondo una delle voci sulla Rete. Un’altra, ad esempio, parla di agenti in borghese e «situazione molto tesa» nella capitale, ma nega le cariche dei militari. A fronte di questi segnali, si mobilita anche la stampa internazionale: Fox News, il Guardian, Haaretz, il Jerusalem Post, la Pravda e persino il pan-arabo al Arabi al Quds riportano nelle prime pagine la voce che vuole Khamenei morto. Il quotidiano russo mantiene un aplomb invidiabile, ma il fatto che il principale sostenitore del governo iraniano, la Russia di Putin, non rigetti a prescindere una notizia del genere può voler dire che del vero c’è. Qualche notizia in più viene dal sito anHosein-Ali Montazeri
mondo
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Nei mesi scorsi sono stati cambiati i vertici dei pasdaran e dei basij
Tutti i nuovi uomini (al servizio) del presidente di Antonio Picasso l silenzio induce al sospetto. In merito alle zioni unite, sarebbe stato allontanato per non ipotesi che la Guida Suprema iraniana, ali danneggiare l’immagine di un regime in coKhamenei, sia in fin di vita non è giunta stante difficoltà di fronte al mondo. Tuttavia, a nessuna smentita ufficiale da Teheran. Al ben guardare, nemmeno Naqdi riscuote una di là di quanto scrivevano i giornali ieri, alcu- fama tanto positiva in sede internazionale. ni avvenimenti di natura strettamente politica avvenuti in Iran in questi ultimi mesi, potreb- Le sanzioni del marzo 2008, infatti, lo hanbero indicarci che la salute dell’erede di Kho- no inserito nella lista dei personaggi più commeini non sia fuori discussione, come il silen- promessi con i casi di repressione violenta e zio di Teheran voglia far credere. E che soprat- con le ambizioni nucleari, in senso militare, tutto sia già in corso il passaggio dei poteri che fanno dell’Iran un Paese diplomaticamensenza che il regime possa attraversare fasi di te semi-isolato. Da sottolineare c’è però che instabilità. Facciamo un passo indietro e tor- Naqdi, al contrario di Taeb, appare agli occhi niamo ai giorni immediatamente successivi al- di Khamenei un fedele servitore della rivolule elezioni presidenziali. Da metà giugno in zione, sul quale si potrebbe scommettere nel poi, ci siamo concentrati sulle contestazioni caso questa venisse messa in discussione. sorte contro i brogli dei voti e la vittoria “impo- Il problema della Guida Suprema, infatti, e stata” di Ahmadinejad. Da qui era emersa la di suo figlio Mojtaba - ritenuto sempre più convinzione dell’esistenza di un tandem in- l’eminenza grigia di un padre anziano e mascindibile fra la Guida Suprema e il Presiden- lato - è evitare che il regime giunga a comte. Una coppia vincente, però, che non ha saputo coprire gli espliciti disaccordi su come avviare questo secondo mandato presidenziale. Ricordiamoci infatti delle difficoltà incontrate da Ahmadinejad, alla fine di agosto, per far approvare il nuovo esecutivo da parte della Majles, il Parlamento iraniano. La scelta di effetDa in alto a sinistra, in senso orario: Hossein Salami, tuare un ricambio signifivice comandante delle Guardie della Rivoluzione; cativo tra i 21 ministri inMohammed Reza Naqdi, il nuovo comandante dei Basij; caricati, due terzi dei quaMohammad Hossein-Zadeh Hejazi, nominato capo logistico li erano totalmente nuovi, dei reparti speciali delle Guardie della Rivoluzione; e l’assegnazione della guiMohammad Ali Jaafari, militare considerato fedelissimo da di ben tre dicasteri a di Ahmadinejad e ritenuto in piena ascesa tre donne avevano suscitato aperte polemiche da parte dei rappresentanti più conservatori del clero sciita e quindi i più vicini alla linea di Khamenei. Questo episodio era stato interpretato come un debole tentativo del Presidente di svincolarsi dalle imposizioni inappellabili dettate dalla Guida Suprema. Da qui un’ipotesi formulabile. Non è da escludere che Khamenei, tanto cagionevole di salu- promessi con l’Occidente per mano dello te quanto preoccupato di garantire la soprav- stesso Ahmadinejad. In una situazione di rivivenza del regime nel caso di una sua scom- schio com’è quella attuale, vale a dire di parsa, abbia deciso di effettuare una serie di plausibile irrigidimento delle sanzioni ecomanovre per impedire ulteriormente la libertà nomiche nei confronti del Paese, il Presidendi azione ad Ahmadinejad. In questo caso, fa- te iraniano potrebbe essere “comprato” dagli cendo affidamento a uomini in uniforme il cui Usa e dai suoi alleati. Ne conseguirebbe un zelo e fedeltà al regime non sono fonte di di- rallentamento dei piani in ambito nucleare, scussione. All’inizio di questo mese, per suo ma soprattutto il concetto rivoluzionario del ordine diretto, Hossein Taeb, il comandante velayat-e-faqih, definito da Khomeini come dei Basji - la forza paramilitare che dipende la rivalsa sciita e portato avanti da Khamedai Pasdaran - è stato sostituito dal Generale nei, rischierebbe di essere compromesso. Tutto questo non accadrebbe se la Guida sudi Brigata, Reza Naqdi. prema - non sappiamo se dal suo letto di La motivazione ufficiale del cambio della morte o meno - riuscisse a ingessare qualguardia è stata il diretto coinvolgimento di siasi velleità di dialogo o di riforme probaTaeb nei sanguinosi scontri post-elettorali. bilmente nutrite da un Ahmadinejad di cui L’ex comandante, sotto osservazione dalle Na- non si fida più.
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Da segnalare, inoltre, il sostanziale silenzio degli organismi diplomatici della Repubblica islamica sparsi per il mondo. L’ambasciata iraniana a Mosca, ad esempio, si rifiuta di commentare in alcun modo la notizia. L’agenzia russa Itar Tass sostiene che “fonti autorevoli” a Teheran abbiano negato il tutto, ma non fa nomi. Meno soffice l’ambasciata iraniana presso l’Armenia, secondo cui si tratta di «bugie prive di fondamento, che non hanno nulla di reale. L’ayatollah non è morto».
Una reazione condizionata, probabilmente: tutti i grandi leader autoritari del passato non sono mai “morti” veramente. C’è chi è stato prima gonfiato di formalina (Mao Zedong) e chi ha dovuto attendere dodici riunioni del Politburo prima di essere sepolto (Breznev). Il potere, quando cambia volto, deve passare diversi lifting per esprimersi al meglio e non scontentare il suo pubblico. In ogni caso, come per tutti, la morte arriverà anche per Kha-
Mir-Hossein Mousavi menei. E in quel caso la palla passa nelle mani dell’Assemblea di Esperti dell’Orientamento, composta da 86 membri religiosi eletti per otto anni a suffragio universale diretto. Sono loro che hanno il potere di eleggere e revocare il Rahbar (la Guida Suprema). Benché ufficialmente di stanza nella città-santa di Qom, l’Assemblea si riunisce a Teheran e a Mashhad: da qui potrebbe dunque partire il nuovo corso del regime iraniano, chiamato ad esprimersi al buio.
Khamenei, infatti, non ha mai indicato un erede per la sua posizione. Dal 4 settembre 2007, il Presidente dell’Assemblea di Esperti è l’ex presidente della Repubblica Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, considerato un riformista. Come scrive un dissidente all’estero, «la probabilità più accreditata è che dopo la morte della Guida si scateni un bagno di sangue. Ma c’è anche la possibilità che il regime imploda. Una possibilità esigua, certo, ma sperare in questi casi è lecito». Ali Akbar Hashemi Rafsanjani
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Guerre. Dopo il sì al nuovo accordo, la “solita” Fiom promette lotta dura. Puntando a patti separati
I falchi non fermano i metalmeccanici di Giuliano Cazzola ome volevasi dimostrare. La Fiom ha vinto la sua battaglia, ha recitato fino in fondo la propria parte come era scritto fin dall’inizio nel copione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Perché la realtà non è quella che appare: la Fiom non è stata discriminata dalle cattive con-
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sorelle e dalla Federmeccanica, ma ha operato lucidamente e con coerenza per autoescludersi dal negoziato e subire (sarebbe più corretto usare il verbo «cercare») un accordo separato. A questo punto verranno recitati il secondo e il terzo atto della solita commedia che si rappresenta da anni.
La Fiom promuoverà un referendum tra i lavoratori, alla fine del quale certificherà che in centinaia di migliaia si sono pronunciati con-
le suggestioni antiche) sulla base di criteri correnti. Loro sono dei «bastiancontrari» per scelta, anzi per convinzione. Pretendere che Rinaldini e Cremaschi tengano la linea di condotta che normalmente ci si aspetta da dei sindacalisti (negoziare, scioperare quel tanto che basta per stipulare accordi in nome di un sano realismo) sarebbe come stupirsi se una persona daltonica si ostina a passare con il semaforo rosso. Esaminiamo l’atteggiamento della Fiom al tavolo del negoziato.
Come previsto, Rinaldini e Cremaschi hanno usato anche questa delicata occasione per osteggiare il possibile compromesso tra Epifani e Marcegaglia tro l’accordo (nel frattempo proclamerà qualche sciopero generale contro la discriminazione di cui è stata oggetto), solleverà ogni possibile conflitto di rappresentatività, cercherà di coinvolgere altre categorie della Cgil nel suo «cupio dissolvi»; così, andando avanti per qualche mese (con un occhio al prossimo congresso confederale) fino a quando non si determinerà una nuova occasione di conflitto. Dobbiamo smetterla di giudicare i comportamenti del gruppo dirigente della Fiom (di cui sono ben note
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
È evidente che l’accordo quadro del 22 gennaio costituiva un problema di non facile soluzione. Ma i patti sindacali non sono trattati internazionali; sono sempre molto flessibili ed interpretabili. Nessuna categoria della Cgil, tuttavia, avrebbe potuto sottoscrivere una piattaforma rivendicativa o un accordo di rinnovo che risultasse essere una sconfessione esplicita della scelta di non aderire alle nuove regole. All’opposto, la medesima impossibilità valeva anche per la Cisl, la Uil e le associazioni confin-
dustriali. Nonostante questo intoppo diplomatico, gli alimentaristi hanno trovato un’intesa, senza che nessuno sia stato costretto a cospargersi il capo di cenere e a rinunciare alla propria posizione di principio. Cisl, Uil e Confindustria ne sono stati ben felici. La cosa, quindi, non è impossibile: quando si concorda un incremento salariale ritenuto adeguato – non vanno dimenticate le criticità dell’economia – ai lavoratori non interessa se i quattrini provengono dall’applicazione dell’indice Ipca o da qualche altra diavoleria.
Nel caso dei metalmeccanici, sono stati i dirigenti della Fiom a porre la questione di carattere pregiudiziale pretendendo di negoziare esplicitamente secondo i principi e i criteri del Protocollo del 1993, dal momento che loro non riconoscevano la validità e la vigenza dell’accordo del 2009. Peraltro è bene ricordare che, dopo il colloquio tra Guglielmo Epifani ed Emma Marcegaglia a Cernobbio, si era diffusa l’impressione che i due leader cercassero delle soluzioni di compromesso. Rinaldini e compagni non hanno esitato un solo momento a far volare i falchi prima che le colombe potessero depositare le loro uova.
Un libro di Fabrizio Paladini riporta l’attenzione sull’umanità del dopo-terremoto
Quindici storie dal ventre dell’Aquila articolo questa volta si è scritto da solo. In pratica, ho copiato quanto mi ha spedito la Vallecchi con il libro di Fabrizio Paladini Gli artigli dell’Aquila. «Vita, morte e miracoli dal terremoto». Un libro giusto, non solo per il racconto di Paladini che è la puntuale narrazione di un cronista, ma anche perché il ricavato della vendita del libro è destinato a borse di studio per gli studenti dell’Università dell’Aquila, affinché non lascino la città.
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«La cosa che più mi colpì la mattina del 6 aprile - scrive Paladini - fu la vita rimasta sospesa alle 3.32 della notte.Vedere le case aperte, senza più una parete, senza una finestra, senza una protezione, così che qualsiasi sguardo estraneo poteva posarsi su quella notte». Da sotto le macerie, materiali e umane, risorgono queste quindici testimonianze che Fabrizio Paladini e i fotografi Massimo Sestini e Dario Orlandi hanno raccolto. Il primo è Giulio Marinacci, guardia forestale di Villa Sant’Angelo, quella notte sta per prendere servizio, censimento di cinghiali, cervi e caprioli ad Assergi. Sarà uno dei primi a prestare soccorso. Conosce le case, chi vi abita.
Riuscirà a salvare 13 persone. Eleonora Calesini è stata l’ultima persona estratta viva dalle macerie della casa in cui viveva a L’Aquila, 42 ore dopo il terremoto, il padre è rimasto fuori tutto il tempo con la speranza di trovarla ancora viva, quasi un miracolo, purtroppo Enza, la sua compagna, non ce l’ha fatta. Antonietta Centofanti, a capo del Comitato dei familiari delle vittime della casa dello studente, sotto le macerie ha perso il nipote Davide, 19 anni, l’ultima telefonata alle 23 di quella tragica notte. Sara Perozzi, 30 anni, assistente sociale, per venti giorni ha lavorato giorno e notte e organizzato la tendopoli al campo di Collemaggio, insieme con la Croce Rossa. Paolo Paolucci nella sua Onna ha perso madre e sorella, racconta con gran-
de lucidità i primi soccorsi. Suor Mirella Del Vecchio è responsabile di una casa famiglia a San Gregorio intitolata alle Zelatrici del Sacro Cuore, tre edifici attigui. Cinquanta persone, tutti salvi, eccetto suor Anna Palombo di Paganica. Dario Pallotta fa rivivere nel suo racconto Lorenzo Sebastiani, 21 anni, pilone dell’Aquila rugby, che quella notte non andò a dormire a casa sua, ma da amici, a Pile, il corpo sarà ritrovato dopo tre giorni di scavi. Guido Liris è un giovane medico, quella notte, così come la maggior parte dei suoi colleghi e senza esitare un attimo, diviso tra l’ospedale e Pianola, il suo paese, nella tendopoli ha messo su un presidio medico. Eleonora Parroni, 37 anni, capitano dei Carabinieri e medico legale è stata a
capo di una squadra speciale del Ris per i riconoscimenti, un compito molto delicato e difficile, su 291 salme, 40 erano senza identità, sono stati identificati tutti. Fabrizio Lisi è un generale di brigata della Finanza e comandante della scuola marescialli dell’Aquila, qui alla caserma di Coppito è il padrone di casa, Nec recisa recedit, il motto delle Fiamme gialle è divenuto il motto di tutto l’Abruzzo, ci vuole altro per piegare gli abitanti di questa regione. Antonella Pasqua, rimasta vedova a 35 anni con tre figli da crescere. Il suo è il racconto di una donna coraggiosa. Giustino Parisse, il giornalista de Il Centro. Per i suoi due figli Domenico e Maria Paola non c’è stato niente da fare. Un dolore immenso. Il lavoro, la moglie Tina, l’Abruzzo: tre ragioni per andare avanti. Chiara, un fratello perso nella tragedia, una sorella di cui quasi non ne sapeva l’esistenza, una storia incredibile. Luisa Innocenzi proprietaria di un centro ippico capace di ridare un sorriso ai bambini sfollati e Dudi Coletti velista napoletano con il pallino per il cinema che a Villa Sant’Angelo ha allestito un cinema all’aperto, un Nuovo Cinema Paradiso.
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Sulla candidatura di Alessandri nella sfida a Errani, Bossi trova scarsa resistenza nell’alleato, in piena crisi d’identità
TOTOGOVERNATORI
La scalata leghista al Pdl passa per la via Emilia di Errico Novi
ROMA. Sembra niente, perché come dice il deputato del Pdl Giuliano Cazzola «l’Emilia alla Lega sarebbe un costo sopportabile, visto che difficilmente si vincerà». Eppure lo stesso Cazzola spiega che l’opzione di Bossi per la candidatura di un suo uomo a governatore «fa parte di una precisa strategia del Carroccio: correre in due regioni, una in cui si può vincere e un’altra in cui si possono consolidare le proprie posizioni». Ed è questa in effetti la ragione per cui Silvio Berlusconi e il Senatùr si accorderanno quasi certamente su un nome lumbard per la sfida a Vasco Errani (in procinto di ottenere la deroga per il terzo mandato dal Consiglio regionale): il leader padano vuole approfittare del campo di gioco in apparenza disagevole per rafforzare la Lega come partito interclassista, non legato solo ad alcune precise realtà territoriali e in grado sedurre anche l’elettorato di sinistra. Cosa che in parte gli uomini del Senatùr sono già riusciti a fare alle scorse Politiche. È così che la Lega può incrementare le proprie chances di competere ad armi pari con il Pdl, e di ambire sottrarre pro-
Berselli riunisce la segreteria regionale per tentare di rimettere in pista l’ex An Balboni. Intanto l’Udc lavora al programma e non esclude la corsa solitaria gressivamente l’egemonia al potente alleato.
Il nome che Bossi è pronto a spendere è quello del suo coordinatore regionale, e presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, Angelo Alessan-
dri. Organizzatore molto apprezzato dal capo, che gli ha affidato la carica di presidente nazionale e, soprattutto, il compito di coordinare ogni espansione extra-padana del movimento, il parlamentare di Reggio Emilia attende l’investitura con assolu-
ta tranquillità: «In Emilia-Romagna abbiamo avuto risultati straordinari: deve esserci prima l’accordo su Piemonte, Lombardia e Veneto, ma di sicuro qui il centrodestra non può schierare un nome a caso. Noi vogliamo creare una squadra forte, tra Pdl e Lega, che abbia un leader. Serve un progetto, insomma». Che il Carroccio avesse le idee chiare non c’erano dubbi. A essere attraversato da una crisi strisciante è invece proprio il Pdl emiliano-romagnolo, che domani riunirà il proprio coordinamento regionale, guidato da Filippo Berselli. Molti esponenti locali lamentano un rapporto di subordinazione sia rispetto alla Lega che all’Udc. Dice il deputato bolognese Fabio Garagnani: «Dovremmo da una parte ribadire che in materia di difesa della nostra identità e di diritto alla cittadinanza anche noi (non meno della Lega, nda) siamo da sempre contrari a politiche permissive, che fanno il gioco della sinistra e rischiano di allontanare il nostro elettorato. Dall’altra non possiamo lasciare solo all’Udc i temi etici, la tutela della famiglia e la libertà di educazione: qui gran parte dell’elettorato Pdl è di estrazione cattolica».
La legge. La Francia discute se vietarlo con autorevoli esponenti dell’islam moderato. Da noi invece...
Burqa, che figuraccia! di Pierre Chiartano n Francia vorrebbero fare sul serio per vietare burqa e niqab, il velo integrale delle donne musulmane. La scorsa settimana l’imam di al Azhar, la più importante Università sunnita egiziana, Mohammad Sayyed Tantawi, era venuto allo scoperto, quando durante una visita in classe aveva chiesto a una studentessa delle scuole medie di togliersi il velo integrale. A dimostrazione che si sta creando un clima generale favorevole a un’alleanza tra islam moderato e Paesi cui sta a cuore difendere le prerogative dello Stato laico, «ma non laicista» chioserebbero Oltretevere. Si chiama Counseil français du culte musulman e fu inaugurato da Sarkozy, quando era ministro degli Interni. È la camera di compensazione tra lo Stato laico francese e la nutrita comunità islamica. Milioni di “figli di Allah” che premono, votano e cercano la “quadra”tra madina e polis, se mai possibile. Il suo presidente Moussaoui è entrato nel dibattito sulla nuova legge in via d’approvazione. «Non è una prescrizione del Corano» ha più volte affermato, facendo eco all’imam di Al Azhar. Ma per Mous-
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saoui la legge proibizionista rischia di «stigmatizzare» un problema sentito come marginale dalla Umma islamica francese. Non è dello stesso parere il rettore della grande moschea di Parigi, Seul Dalil Boubaker: «Il velo è marginale, ma è il segno del fondamentalismo montante». Dunque entrambi d’accordo sulla marginalità del velo nei costumi musulmani, ma in conflit-
Oltralpe, lo Stato laico dialoga periodicamente con imam e il “Counseil français du culte musulman”. In Italia, si confrontano Carfagna, Santanchè e Cota to quando si tratta di appoggiare una legge che lo proibisca, almeno in certi ambiti. Abdel Moati Bayoumi, uno studioso di alAzhar, affermava: «Siamo tutti d’accordo che il niqab non è un obbligo religioso». Però «i talebani costringono le donne a indossarlo... e il fenomeno si sta diffondendo» per cui il problema deve essere affrontato e per il giureconsulto «è arrivato il tempo d’agire».
Insomma, mentre in Francia ne discutono autorevoli voci, in Italia cosa succede? Da noi se ne occupano politici come Da-
niela Santanchè, recentemente coinvolta in una piccola disavventura davanti al centro islamico a Milano. Poi c’è Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità, che pochi giorni fa si è detta «assolutamente favorevole a una legge che vieti in Italia il burqa e il niqab», definiti «simboli di sottomissione della donna e ostacolo a una vera politica di integrazione. Non in quanto simboli religiosi, come, per esempio, il velo, bensì - ha spiegato il ministro - per le storie che nascondono». Il ministro non spiega però le compatibilità costituzionali che dovrebbero garantire ogni espressione religiosa, anche nei costumi. Ma il problema è serio e anche in Francia si sono decisi solo ora, dopo molti tentennamenti a metter mano a una legge. L’esperienza egiziana però dovrebbe far riflettere sulla fattibilità, una volta varata la legge, di una sua applicazione pratica. La legge in Italia in realtà ci sarebbe. È la Reale che però non annoverava gli indumenti religiosi. Il coté leghista ha subito pensato, con il capogruppo alla Camera Roberto Cota, di aggiungere alla legge del 1975 i veli integrali. Perché «il burqa è pericoloso come i passamontagna per le Br».
Raccomandazioni che in realtà già rappresentano una radiografia preoccupante. Suggeriscono cioè l’idea di un partito dall’identità incerta, evocata anche dal vicecapogruppo del Pdl in Consiglio regionale Michele Facci: «Sulle Regionali stiamo giocando una partita debole: si dice che forse tocca alla Lega, sembra persino che non si abbia la voglia di mettersi in gioco». Sembra proprio così, e per contenere l’insofferenza dei dirigenti, domani Berselli metterà sul tavolo il nome di un ex An come alternativa ad Alessandri, il senatore Alberto Balboni. Il precipitoso tentativo di riaprire la partita sembra però destinato più a placare le rimostranze che ad avere successo. E non è un caso che di fronte a una simile subalternità del Pdl al Carroccio, il segretario emiliano dell’Udc Maria Crisina Marri già prepari il partito a una corsa solitaria: «Vedremo se ci sarà una convergenza, ma intanto noi cominciamo a lavorare sul programma con una conferenza prevista per metà novembre, così il confronto con il partito di Berlusconi avverrà su questioni concrete».
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india è il neologismo che è diventato slogan per descrivere un futuro prossimo in cui i due grandi Paesi asiatici avranno un ruolo sempre più grande nell’economia e nella politica mondiale. Ma che succederebbe se Cindia andasse invece in pezzi?
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Tra agosto e settembre la stampa indiana è stata piena di articoli allarmati sul deteriorarsi delle relazioni al confine. Il 7 settembre, in particolare, è stato denunciato che truppe cinesi erano entrate per un chilometro e mezzo in territorio indiano presso il Monte Gya, dipingendo gli ideogrammi “Cina” in cinese sulle rocce. E il 15 settembre si sono citate fonti dei servizi di New Delhi per annunciare il ferimento di due ufficiali della Polizia della Frontiera Indo-Tibetana, in un conflitto a fuoco con i cinesi nel nord del Sikkim. Entrambe le notizie sono state poi ufficialmente smentite da entrambi i governi, ma più minacciosa di ogni smentita è poi venuta il 13 ottobre la protesta ufficiale della Cina per la visita del Primo Ministro Manmohan Singh allo Stato dell’Arunachal Pradesh. Ve lo immaginate il governo di Parigi che manda una nota diplomatica perché Berlusconi è andato a Aosta, o quello di Vienna che protesta perché si è fatto vedere a Bolzano? Ma Pechino rivendica 90.000 Km\u00B2 di Himachal Pradesh, che definisce “Tibet Meridionale”, ed è inoltre furibonda perché il locale monastero di Tawang ha invitato a novembre il Dalai Lama. E il tema è talmente delicato che per dieci anni nessun Primo Ministro indiano si è recato nella zona, prima che nel gennaio del 2008 sempre Singh non ha deciso di sfidare il tabù. Il grande problema sono i confini che l’Impero Britannico impose alla Cina dall’alto della sua forza, e che dunque a Pechino considerano frutto di una prepotenza imperialista. Ma è questione di punti di vista, perché si tratta di aree abitate da minoranze etniche ben distinte dai cinesi han, e spesso anche ribelli verso di loro: dai tibetani dell’Arinachal Pradesh agli uighur dell’Aksai Chin. Nell’Arunachal Pradesh oltre che nell’Aksai Chin si combatté tra il giugno e il novembre del 1962 una dura guerra ad alta quota che provocò oltre 2000 morti e umiliò Nehru, preso di sorpresa dall’attacco indiano. L’Aksai Chin restò all’India, il prestigio dell’India come leader dei Non Allineati fu bruscamente ridimensionato, il Partito del Congresso iniziò a declinare, e probabilmente anche la vita del Padre della Patria ne fu accorciata. Dopo che nell’ottobre del 1967 un breve scontro di frontiera nel Sikkim aveva provocato una dozzina di orti, l’India si prese però una sonora rivincita nel 1971, umiliando il Pakistan alleato della Cina e privandolo del Bangladesh. La tensione tornò di nuovo al calor bianco nel 1986, quando l’Arunachal Pradesh fu elevato a Stato. L’esercito cinese mobilità, quello indiano risposa con l’Operazione Falcon, ci furono sette scontri armati, e sembrò per un attimo che le truppe di New Delhi pitessero scatenare un’offensiva in Tibet. Ma all’ultimo momento i politici si imposero ai militari, evitando uno scontro diretto tra
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I due Paesi emergenti dell’Asia sono stati ammessi al G20, sono componenti dell’ per il superamento del dollaro: eppure si tratta di un gigante dai contorni ogn
Cindia, il nuovo im
Cina e India, pur essendo considerate il nuovo motore del pianeta, sono ai ferri corti su molte questioni. Hu Jintao e Manmohan Singh, i due leader (nelle foto) hanno visioni diametralmente opposte sulla gestione delle frontiere e delle rispettive minoranze etniche
due eserciti che ormai a differenza del 1962 erano abbondantemente equipaggiati di armi nucleari.
Da allora Cina e India sono sembrate concentrarsi sull’economia, e attorno a questo nuovo ruolo si sono trovate addirittura a collaborare. Entrambi i Paesi sono stati dunque ammessi al G-20, entrambi i Paesi sono componenti dell’Asse Bric assieme a Russia e Brasile, e sia la rupia che il renminbi sono assieme a rublo e real al centro del progetto per costruire una moneta dello stesso Bric alternativa al dollaro: il progetto quattro erre, come è stato anche definito. Ma l’economia oltre creare nuove occa-
Il grande problema sono i confini che l’Impero Britannico impose alla Cina dall’alto della sua forza, e che dunque Pechino considera frutto di una prepotenza imperialista sioni di collaborazione sta creando anche tra Pechino e New Delhi nuovi fronti di tensione. E per lo meno l’opinione pubblica e i media indiani tendono a esaltare più i secondi che i pri-
mi. Ad esempio, un terreno di scontro continuo è il Wto, Organizzazione Mondiale del Commercio. In particolare, a un certo punto l’India si è accorta che il 60% del mercato dei giocattoli nazionali era in mano ai cinesi: compresi oggetti chiaramente indirizzati a essere venduti nel Subcontinente e in nessun altro posto, come i pupazzetti del dio elefante Ganesh. Spinto dall’ira dei propri commercianti e produttori, che non possono reggere ai prezzi stracciati di quella concorrenza forse calmierata dalla manodopera forzata nei laogai, il governo di New Delhi a gennaio ha imposto un embargo di sei mesi all’import di giocattoli cinesi, e Pechino ha
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’Asse Bric assieme a Russia e Brasile e le loro monete sono al centro del dibattito ni giorno più a rischio. Perché ognuno ha delle pretese sulle frontiere dell’altro
mpero è già finito? Il futuro del mondo sembra nelle mani di Cina e India, ma i due colossi sono sempre di più ai ferri corti. E non certo per ragioni ideologiche di Maurizio Stefanini
allora minacciato un ricorso al Wto per restrizioni illegali.
Un altro recente episodio che ha accresciuto i sospetti dell’opinione pubblica indiana è stato a fine settembre il crollo di una ciminiera in un impianto per la lavorazione dell’alluminio che la cinese Shandong Electric Power Construction Corporation stava fabbricando a Korba, nello Stato del Chhattisgarh. Il disastro, che ha provocato 45 morti, è stato in teoria provocato dalle piogge torrenziali di natura inusitata che hanno sconvolto l’India, ma l fatto che subito dopo ben 89 ingegneri cinesi si siano resi immediatamente uccel di bosco non ha particolarmente rasserenato il clima. D’altra parte loro hanno spiegato che i locali volevano linciare tutti, e pur confermando che non sono imputati ma semplici persone infornate dei fatti il governo indiano ha però emanato l’ordine draconiano di fermare
Il nuovo fronte dello scontro è l’Africa dove entrambi stanno cercando di aprire nuovi mercati. La Nigeria è invasa da medicine dichiarate indiane ma che in realtà sono cinesi tutti i cinesi che cercassero di lasciare il Paese: rimandando a dopo il controllo se si trattasse degli ingegneri di Korba. Il tutto spiega abbastanza del grado di fiducia tra i due popoli. Nel cahier de doléances c’è poi la concorrenza sempre più feroce che India e Cina si stanno facendo in Africa. Dopo varie tensioni per la comune corsa a mercati e materie prime, lo scorso giugno le autorità della Nigeria hanno denunciato l’arrivo sul
mercato di prodotti anti-malarici e farmaci generici sulla cui etichetta era dichiarata la provenienza dall’India, mentre in realtà erano prodotti in Cina. «Non si tratta si un incidente isolato», ha sbottato New Delhi. «Non ci sono ragioni per credere che non ci siano altri Paesi africani che abbiano ricevuto consegne simili». Da cui una “forte protesta” al ministero del commercio estero cinese. «Non solo rovinano la nostra immagine e si appropriano di una nostra porzione di mercato, ma erodono anche la distinzione tra medicinali generici e contraffatti per cui abbiamo condotto una campagna all’Organizzazione mondiale della sanità e all’Organizzazione mondiale per il commercio», ha spiegato l’Alto Commissario indiano in Nigeria Mahesh Sachdev.
Continuano inoltre i sospetti per lo storico asse tra Cina e Pakistan. L’India vede dunque con sospetto le cre-
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scenti voci di un coinvolgimento della Cina in Afghanistan per alleviare i problemi americani, ma la Cina soffre a sua volta per il fatto che l’esercito pakistano è ora rivolto contro i Taleban, e lancia dunque libero quello indiano di meglio sorvegliare le frontiere: l’esercito, e ancor di più l’aviazione. Da ottobre vari squadroni hanno iniziato a spostarsi verso il Nord-Est, nell’Assam e nel Bengala Occidentale. Ma se il Pakistan è meno minaccioso in compenso la Cina è sempre più una protettrice della giunta militare al potere a Myanmar, che le ha concesso quelle Isole Coco da cui nel Mare delle Andamane la marina cinese minaccia il Subcontinente da vicino. In Malaysia la Cina è poi pompata dal ruolo della minoranza han, volano dello sviluppo economico locale. In Nepal dai recenti successi dei partiti maoisti filo-cinesi ai danni del tradizionalmente filo-indiano Congresso E nello Sri Lanka dagli storici sospetti verso un possibile espansionismo indiano. Con il che, è però descritto una specie di laccio da cui l’India si sente sempre più strangolata. Non bisogna infine dimenticare l’ideologia. L’India, dopotutto, è orgogliosa di essere la democrazia più popolosa del mondo, e guarda dall’alto in basso il dispotico comunismo cinese, che a sua volta considera i riti del parlamentarismo borghese in stile Westminster con condiscendenza a un tempo confuciana e leninista.
Qualcosa che lega Cina e India, però, c’è. La New Economy. La Cina, infatti, è il gigante mondiale dell’hardware: 40.000 aziende, tutte concentrate nella parte sudorientale del paese, che esportano circa il 66% del totale dei pezzi prodotti: un giro d’affari pari a 250 miliardi di Yuan, circa 23 miliardi di euro. Ma l’India, a partire soprattutto dalla grande dalla Silicon Valley di Bangalore ma non solo, è invece il gigante mondiale del software: un incremento annuo del 35% ed esportazioni pari a quasi 14 miliardi di euro. Tutti e due i giganti asiatici investono nel settore in modo massiccio: l’1,1% del Pil per la Cina, e lo 0,7% per l’India. Ed entrambi reinvestono nelle Nuove Tecnologie khonw-how atavici. I cinesi, in particolare, quell’antica vocazione manifatturiera che li portò a anticipare tutte le invenzioni occidentali. E gli indiani quell’eccellenza matematica che li portò a inventare quei numeri poi impropriamente definiti arabi, oltre a quella più recente competenza dell’inglese che li ha portati a dominare anche nelle forme più radicali di outsourcing: perfino quello dei ragazzini americani che si fanno fare per telefono o Internet i compiti. Insomma, il modo in cui Pechino e New Delhi sono condannate ad andare d’accordo per rifornirci di personal computer e un po’ l’altro risvolto del modo in cui Pechino e Washington sono costrette ad andare d’accordo perché se crolla il dollaro anche le riserve valutarie che la Cina ha accumulato andrebbero in fumo, e se la Cina non compra i bond Usa anche il sistema finanziario americano affonderebbe. È un equilibrio a tre forse ancora più delicato di quello del terrore atomico che per tanto tempo tenne sospesi americani e sovietici. Ma per ora funziona e va avanti.
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Afghanistan. L’accusa è che sarebbero stati dati dei soldi ai talebani. A Herat muore in un drammatico incidente un nostro militare
Il giallo delle mazzette L’Italia querela il Times per calunnia, ma il caso intanto esplode in Francia di Luisa Arezzo azzette ai talebani afgani in cambio di un po’ di tranquillità. Questa è l’accusa che il Times di Londra ha lanciato ieri in prima pagina contro gli 007 italiani e - evidentemente l’Italia. Mazzette che, indirettamente, avrebbero provocato delle vittime al contingente francese che, non avvisato della prassi, una volta subentrato al contingente italiano al presidio di Surobi, 65 chilometri a est di Kabul, avrebbe sottovalutato la pericolosità dell’area cadendo così vittima di un attentato costato la vita a dieci soldati e il ferimento di 21 commilitoni. Una delle peggiori stragi subite dalla Francia. Immediate le reazioni di tutti gli attori sul campo: con il governo italiano pronto a querelare il quotidiano britannico e il ministro della Difesa La Russa che bolla la notizia come «spazzatura» e « offensiva per i nostri morti e per i nostri militari»; con la Nato - parole del suo portavoce, James Appathurai - trincerata
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dietro un «no comment» e un generico: «Non ci risulta il pagamento di tangenti da parte di uno stato impegnato in Isaf»; con l’opposizione socialista francese che ha chiesto al ministro della Difesa Hervé Morin di far luce sulla vicenda e sulla mancata comunicazione al “passaggio di consegne” fra
Per Palazzo Chigi non solo nessuna tangente è mai stata autorizzata, ma solo un anno fa, a Surobi, è rimnasto ucciso il sottotenente Francesco Pezzulo. Solidarietà agli italiani è arrivata da Kabul contingente francese e italiano; con la gola profonda afgana, in questo caso un alto ufficiale dell’esercito protetto dall’anonimato, pronto a giurare che «molti paesi della Nato impegnati in Afghanistan, fra cui l’Italia, ma fatta eccezione per Gran Bretagna e Stati Uniti (che agli elders taleban, è cosa nota, passano il viagra.., ndr) pagano regolarmente mazzette ai capi talebani in maniera re-
la Nato di stanza lì». Ad Herat, lo ricordiamo, c’è il quartier generale di Isaf Rc-West sotto comando italiano.
Mentre il giallo si aggroviglia, il governo Berlusconi non perde tempo. E precisa immediatamente in una nota della Presidenza del Consiglio di «non aver mai autorizzato né consentito alcuna forma di pagamento di somme di danaro in favore di
membri dell’insorgenza di matrice talebana in Afghanistan, né ha cognizione di simili iniziative attuate dal precedente governo». Nella nota «si esclude altresì che l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma abbia, all’inizio del mese di giugno 2008, inoltrato al governo italiano un formale reclamo da parte del suo Paese in relazione ad ipotetici pagamenti in favore dell’insorgenza talebana». A ri-
«Fosse anche vero, gli inglesi non possono certo scagliare la prima pietra»
l britannico Times, tanto per cambiare, lancia un po’ di letame sull’Italia, sostenendo che i nostri servizi segreti e persino i singoli comandanti militari pagano (pagavano) regolarmente i comandanti talebani per assicurarsi una “non belligeranza” almeno in ambito locale. Aggiunge, perfidamente, che l’attacco/massacro contro i militari francesi avvenuto nel distretto di Surobi nell’agosto 2008 si sarebbe potuto evitare se avessimo informato i francesi, che avevano rilevato i nostri reparti in quel settore, delle nostre abitudini. I francesi non sapevano, non hanno pagato… e sono stati attaccati. Secondo il Times una fonte Nato avrebbe aggiunto che i pagamenti si possono anche fare, ma bisogna avvisare gli alleati, se no sono guai. Il quotidiano britannico aggiunge anche che quando la cosa è venuta a conoscenza degli americani, ci sono state indignate proteste, scalate a livello diplomatico fino a coinvolgere l’ambasciatore Usa a Roma. Dettaglio “tecnico”: gli Usa vennero a sapere di questi affari sporchi italiani perché intercettavano le telefonate dei servizi/comandi italiani. L’intera storia sarebbe confermata da numerosi e autorevoli fonti, militari e non. Naturalmente da Roma smentiscono indignati, sostengono che gli Usa non hanno affatto criticato il comportamento italiano, è vero il contrario. Anzi, il ministro La Russa addirittura minaccia un’azione legale verso il Times.Tralasciando questo aspetto di folclore nazionale, è il caso di approfondire la vicenda. Innanzitutto, che sia prassi italiana trattare con criminali e terroristi sem-
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golare e diffusa». Di più: «Posso certamente confermare - ha continuato la fonte - che siamo a conoscenza del fatto che gli italiani pagassero l’opposizione (armata, ndr) a Surobi per non essere attaccati. Abbiamo anche informazioni su accordi simili nella provincia di Herat da parte delle forze italiane del-
questa o quella di tribù, di questo o quel capo, per convincerli a defezionare, per ottenere informazioni, per continuare a garantirsene la lealtà. Si può “pagare” con infrastrutture, con armi, con protezione, con cibo…quale che sia la moneta e gli scopi, il principio è sempre quello. Anzi, è sempre il solito da quando esistono i conflitti. Forse che i Romani non compravano questo o quel capo barbaro oppure non ne ottenevano la neutralità pagando? Forse che i pirati somali non ricevano troppe mazzette e poche mazzate un po’da tutti? Se è vero che abbiamo pagato “così fan tutti” e non da ieri. Sì, ripeto, dà fastidio sapere che i nostri soldati combattono e rischiano la pelle e intanto alcuni dei loro nemici sono pagati dai servizi, ma la guerra è una cosa schifosa. L’importante è non fare finta di scandalizzarsi. Ad esempio, la Gran Bretagna, molto pragmaticamente, sostiene da anni che per uscire dal pasticcio afgano bisogna convincere almeno parte della guerriglia a non spararci più addosso e, se non proprio a passare dalla nostra parte, almeno adottare un atteggiamento neutrale. Si è anche arrivati all’idea di promettere armi e protezione a quei gruppi che abbandonino la guerriglia, formando forze di autoprotezione locali, che ovviamente verrebbero impiegate contro gli avversari del capo o del signore della guerra. E questo non è pagare i nemici affinché diventino meno nemici o amici? Perché, in Somalia gli americani non lo hanno fatto? E in mille altre occasioni? Questa è la realtà. E il Times dovrebbe conoscerla. Per concludere, due piccoli rilievi: ov-
È solo una “pruderie”da James Bond di Stranamore bra accertato. In questi giorni si sta addirittura discutendo se lo stato abbia o meno intavolato una trattativa con la mafia. Ma restando alla dimensione internazionale, è dai tempi delle prime missioni all’estero che si sussurra di come gli Italiani pagassero profumatamente per evitare attacchi contro i nostri soldati. Il fenomeno sarebbe cominciato con la prima missione in Libano, per poi proseguire in Somalia e così via. Così come regolarmente si sostiene che i servizi siano intervenuti pagando per ottenere la liberazione di ostaggi catturati da terroristi, criminali o, in ultimo, dai pirati. Le cronache giornalistiche regolarmente sollevano il dubbio. Nessuno potrà provarlo, mentre le immancabili smentite non dissipano l’incertezza.
Però anche se questa abitudine non mi piace, non è certo infrequente. Tutti trattano, tutti pagano, in un modo o nell’altro. Persino Israele, per ottenere il rilascio dei propri soldati prigionieri, tratta e accetta rapporti di scambio incredibilmente vantaggiosi per le organizzazioni terroristiche di turno. Figuriamoci dunque gli altri. Anche le “vergini” americane e britanniche pagano, quando serve, e anche quando non serve. E in Afghanistan (come in Iraq) i pagamenti diretti e indiretti sono la regola, per ottenere la benevolenza di
prova di ciò, e questa è decisamente una prova significativa, «è sufficiente ricordare che soltanto nella prima metà dell’anno 2008 i contingenti italiani schierati in Afghanistan hanno subito numerosi attacchi e, specificamente nell’area del distretto di Surobi, il 13 febbraio 2008, nel corso di uno di questi è rimasto ucciso il sottotenente Francesco Pezzulo». Il giallo, evidentemente, è ben lungi dal-
mondo l’essere risolto e terrà banco anche nei prossimi giorni. Ciò che stupisce, è che è passata comsotto silenzio pletamente l’informazione principe scagliata dal Times: i nostri comandi sono intercettati. Già, perché il giornale britannico dice di aver ascoltato le registrazioni di colloqui avvenuti fra i presunti “colpevoli”e captate da fonti intelligence americane. Dunque, a leggere fra le righe, ci sono azioni di spionaggio ai danni degli alleati italiani in teatro. E forse, vien da pensare, non solo dirette a loro. Ma questo, a quanto sembra, non fa notizia.
Militari italiani in servizio in Afghanistan; a lato, Rosario Ponziano, vittima di un tragico incidente a Herat mentre stava su un blindato Lince. A destra, il generale Del Vecchio e sotto la copertina del ”Times”
Intanto anche da Kabul arriva una difesa dell’operato degli italiani: «Non è possibile. Non è vero» ha commentato Fawzia Koofi, vice presidente della Wolesi Jirga, la camera bassa del Parlamento afghano. «In Afghanistan - ha affermato la Koofi - circolano molte accuse tra le forze Nato, con i paesi che puntano il dito uno contro l’altro. Solitamente si tratta di accuse prive di fondamento». In un momento delicato per il Paese che deve ancora conoscere i risultati definitivi delle elezioni presidenziali del 20 agosto, secondo la vice presidente della Wolesi Jirga, «non è il caso che all’interno della comunitá internazionale si inizi con un meccanismo di accuse di questo tenore». Ieri intanto, è arrivata anche la notizia di un drammatico incidente in cui ha perso la vita Rosario Ponziano, 25enne del Quarto reggimento alpini paracadutisti. Il Lince sul quale viaggiava, si è ribaltato lungo la strada che porta da Herat a Shindad, in una semplice attività operativa. È la ventiduesima vittima italiana.
viamente chi paga non lo dice, non dovrebbe dirlo a nessuno, certo magari dovrebbe mettere a fattor comune con gli alleati le proprie attività. Chiedete ai comandanti militari e ai nostri servizi come e su che basi avviene lo scambio e la condivisione delle informazioni intelligence e se mai si rivela quali siano e come si svolgano i rapporti (segreti) con questo e quel“nemico”. Dai, nella patria di James Bond non dovrebbe essere difficile farsi un’idea di come va il mondo. La seconda considerazione è prettamente tecnica: fa molto piacere sapere che i servizi americani, civili e militari, effettuano azioni di spionaggio ai danni dei partner militari in teatro. Solo italiani? Al Times questo sembra essere una cosa “normale” e la base sulla quale debbano funzionare le operazioni alleate intelligence in teatro? Noi, che non ci scandalizziamo, diamo per scontato che questo avvenga. Sempre. Ovunque. Non solo in Afghanistan. E proprio per questo ci permettiamo un suggerimento ai “nostri”: ma la vogliamo piantare di usare i telefonini e i sistemi di comunicazione non criptati o poco criptati? Siamo un Paese che vive di intercettazioni telefoniche e dove tutti finiscono nei guai perché usano telefoni non protetti (anche durante i vertici internazionali, per il sollazzo di chi si legge immediatamente le trascrizioni…dei millantati colloqui con Erdogan). Beh svegliamoci un pochino o almeno rendiamo un po più difficile ai nemici ascoltare quel che diciamo. Ai nemici? No, dovevo dire… agli amici.
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Parla il generale Del Vecchio, ex comandante Isaf
«Nessuno offenda i nostri soldati» di Nicola Accardo ormalmente un comandante non può comunicare a un altro comandante che sono stati pagati i talebani, ma qualora questo avvenisse l’informazione passerebbe comunque». È una pratica consueta, secondo l’ex ambasciatore in Pakistan ed ex inviato speciale del Governo in Afghanistan, Enrico De Maio, quella di versare mazzette agli afghani per garantire maggiore sicurezza al contingente. «Ne va dell’incolumità dei soldati - spiega - sono dei ragazzi che rischiano la vita e vanno protetti». De Maio non opera in Afghanistan dal 2004 e non è al corrente di alcun passaggio di denaro tra i nostri servizi segreti e i talebani della regione di Saroubi, ma dopo averci passato otto anni conosce «molto bene l’Afghanistan e gli afgani, che hanno molti pregi, ma tre le cui virtù non vi è certamente l’onestà». Quindi i talebani di soldi ne ricevono eccome: «Presumo di sì. Solo che si tratta di operazioni segrete e nascoste e come tali rimangono. Di certo, so che in qualche modo i soldati italiani in quel caso hanno avvisato i francesi. Basterebbe una dichiarazione da Parigi: “Gli italiani ci hanno fornito tutte le informazioni necessarie prima dell’avvicendamento a Saroubi”. Si metterebbero tutti a tacere e il caso sarebbe chiuso». A Parigi il portavoce del ministero della Difesa ha detto qualcosa di simile - «siamo informati di tutto quello che succede nella regione di Kabul, turchi italiani e francesi si passano le informazioni quotidianamente» - però non ha fatto riferimento al passaggio di consegne a Saroubi, forse proprio per evitare che l’accordo tacito sulla legge delle mazzette si leggesse tra le righe.
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Se un ambasciatore in pensione parla di soldi ai talebani, lo stesso non può fare un generale d’esercito, che della missione della Nato in Afghanistan (tra il 2005 e il 2006) è stato il comandante: il senatore del Pd Mauro Del Vecchio bolla come «assurde» le accuse del Times e respinge ogni sospetto: «Il Times fa confusione tra un’azione che non facciamo mai, ovvero pagare i talebani, e una politica di aiuto e di aperture nei confronti della popolazione che altri stentano a comprendere». Non serve pagare le mazzette per costruire ponti e scuole in santa pace: «Io non giustifico il versamento di somme ai talebani per garantire l’incolumità dei soldati. Escludo che questo sia mai avvenuto, se è successo è stato al di fuori delle competenze militari». La mancanza di coordinamento e comunicazione tra gli eserciti, messa all’indice nel suo rapporto alla Casa Bianca dal generale McCrystal - che guarda caso occupa le funzioni che erano di Del Vecchio - secondo il senatore del Pd non può essere all’origine di una tragedia come quella dell’agosto del 2008, quando i soldati francesi vennero accerchiati
e trucidati dai talebani: «Sono accuse che non stanno né in cielo né in terra, stiamo parlando di avvicendamenti tra contingenti militari, c’è un passaggio di informazione totale che avviene con largo anticipo, c’è un attenzione verso qualsiasi dettaglio». Proprio i dettagli, secondo l’ambasciatore De Maio, in una missione difficile come quella in Afghanistan sono da lasciare da parte: «Credo che ci voglia più elasticità, nessuno vuole sapere i dettagli, si tratta della costruzione di importanti infrastrutture e i nostri soldati rischiano la vita, il risultato finale conta più di tutto». Il problema di coordinamento tra bulgari, danesi, albanesi, come tra italiani, francesi e tedeschi resta però un ostacolo: «È notorio, in Afghanistan ognuno si fa i fatti propri, ogni esercito ha il suo ristorante, il suo picco-
lo mondo, è un problema di fondo e lo dice anche Rasmussen». Su una cosa sono d’accordo il generale e l’ambasciatore: gli italiani con la popolazione ci sanno fare davvero. «Più di americani e inglesi percepiti come arroganti, più dei francesi visti come antipatici - spiega De Maio - gli italiani sono simpatici per natura e vengono accettati più facilmente». Un modello di comportamento per gli altri: «Anche Obama ha raccomandato nella nuova strategia maggiore presenza nel territorio e maggiore vicinanza alla popolazione, che sono le nostre linee di sviluppo», aggiunge Del Vecchio. La popolazione, altro punto di divergenza tra un ambasciatore e un generale d’esercito: «Va ben distinta dai talebani - sottolinea Del Vecchio - soffre e riceve con speranza il nostro aiuto, mentre i talebani si oppongono e vengono combattuti». De Maio non la pensa così: «Noi occidentali abbiamo semplificato troppo il problema parlando solo dei talebani. La gente afgana non ama gli stranieri e per questo è in rivolta» E si torna alle accuse del Times: «Le mazzette le prendono i talebani, soprattutto quelli meno intransigenti, ma non solo».
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Pechino. Avevano partecipato a disordini nel Xinjiang. Dati anche tre ergastoli tribunali cinesi continuano a comminare sentenze capitali nei confronti degli autori dei disordini che nel luglio scorso provocarono la morte di quasi duecento persone in scontri interetnici nella regione occidentale dello Xinjiang. Ieri, altre tre persone sono state condannate a morte dalla Corte popolare intermedia di Urumqi, capoluogo della provincia a maggioranza musulmana della Cina occidentale. Salgono così a nove i condannati alla pena capitale dalla fine dell’estate. A luglio, gli Uiguri (la minoranza musulmana autoctona) scesero in piazza protestare per contro la politica repressiva del governo di Pechino. Le manifestazioni degenerarono in scontri con la polizia e con la maggioranza cinese Han concentrata nella città di Urumqi. Diversi membri di etnia cinese furono linciati per le strade della capitale da alcuni gruppi di Uiguri armati di pietre e bastoni. Nei giorni successivi, gli Han organizzarono spedizioni punitive contro gli Uiguri dei sobborghi della capitale regionale. Quelli del luglio scorso sono stati gli scontri più violenti tra le due etnie nell’ultimo decennio. Il tribunale di Urumqi ha condannato a morte tre persone e altri tre imputati hanno ricevuto la stessa condanna, con pena sospesa per due anni, una sentenza che in Cina generalmente viene commutata in ergastolo. I condannati appartengono tutti alla minoranza musulmana, ad eccezione di Han Junbo, un cinese di etnia Han, accusato di aver ucciso per vendetta, a colpi di spranga, un Uiguro, durante i raid di ritorsione. Una delle vittime, per evitare di essere ucciso a sprangate, si è lanciato nel vuoto, riportando gravi ferite. Liu è stato condannato a dieci anni di carcere. I membri della minoranza musulmana condannati a morte sono stati dichiarati colpevoli dell’omicidio di due persone, pestate a morte dalla folla, durante gli scontri del 5 luglio scorso.
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Il tribunale ha emesso in totale 14 sentenze di condanna, di cui tre ergastoli per violenza, devastazione, saccheggio e at-
Cina, altri sei uiguri condannati a morte I tribunali di Hu Jintao non cessano di comminare sentenze capitali di Massimo Ciullo
Dilxat Raxit, un attivista del World Uyghur Congress, sostiene che agli imputati non è stato garantito il diritto di difesa al processo tacchi alla proprietà privata. Un portavoce del governo regionale dello Xinjiang, Hou Hanmin, ha confermato che anche in questo caso tutti i condannati appartengono alla minoranza uigura, tranne uno. La decisione di condannare a morte velocemente anche un membro della maggioranza Han vuole essere un segnale da parte delle autorità cinesi di voler procedere equamente contro chiunque si sia reso responsabile di violenze determinate dall’odio razziale. Un segnale che però viene interpretato in maniera diversa dagli esponenti delle organizzazioni della resistenza Uigura all’estero. Dilxat Raxit, un attivista per i diritti degli Uiguri e portavoce in Germania del World Uyghur Congress, ha condannato le sentenze. Raxit sostiene di aver appreso da
fonti locali nello Xinjiang che agli imputati non è stato garantito il diritto di difesa. Nessuno dei condannati ha potuto scegliere un legale di fiducia e ai difensori d’ufficio sono stati concessi solo dieci minuti prima dell’inizio del processo per parlare con gli imputati. «La Cina non ha un sistema giudiziario indipendente» ha detto il portavoce uiguro. «Le condanne di ieri per i fatti del 5 luglio hanno uno scopo politico e una natura simbolica» ha aggiunto Raxit. La raffica di condanne a morte di questa settimana mette in evidenza la determinazione delle autorità cinesi di scoraggiare altri moti di protesta. Lunedì, lo stesso tribunale di Urumqi aveva condannato altri sei Uiguri alla sentenza capitale. Si tratta delle prime decisioni dei giudici cinesi nei confronti delle per-
sone arrestate durante e dopo i tragici fatti di sangue. La rivolta di luglio è stata provocata dalla protesta di alcuni giovani appartenenti alla comunità musulmana che erano scesi in piazza per chiedere indagini più approfondite in merito all’omicidio di alcuni emigranti Uiguri, avvenuta in una fabbrica di giocattoli nel sud della Cina, dopo una rissa con dei colleghi cinesi di etnia Han. Il governo di Pechino ha accusato i gruppi di attivisti Uiguri in esilio di aver fomentato la rivolta per rivendicare maggiori diritti a favore della minoranza musulmana. Le autorità cinesi però, non hanno presentato alcuna prova del presunto ruolo negli scontri degli esuli e tutti le organizzazioni della diaspora Uigura hanno smentito qualsiasi coinvolgimento diretto o incitamento alle violenze.
Il governo cinese sta cercando faticosamente di ristabilire un clima di serenità. Una sfida quasi impossibile,
a giudicare dall’ intolleranza che domina le relazioni tra Han e Uiguri. La minoranza musulmana, dedita in prevalenza all’agricoltura, considera gli Han, che provengono perlopiù dalla Cina centrale, alla stregua di colonizzatori arrivati nello Xinjiang (o nel Turkestan, come preferiscono gli Uiguri) per depredarlo delle sue ricchezze. Gli Uiguri vivono quasi ai margini delle principali città della regione, in baraccopoli o case popolari fatiscenti. I loro bambini non possono frequentare le scuole a causa dell’impegno nei campi e difficilmente i giovani Uiguri riescono a conseguire un diploma o una laurea. In questo modo, la disparità sociale con gli Han diventa più profonda. La maggioranza cinese occupa i principali posti di potere e domina qualsiasi attività economica nella regione. Quindi, all’intolleranza etnica si associa anche un’esplosiva situazione sociale che a Pechino stanno cercando di disinnescare, proponendo sussidi e possibilità di lavoro ai contadini Uiguri. Un’iniziativa che però non è stata molto gradita dalla maggioranza Han che vive nello Xinjian. Molti dei suoi membri temono che esplosioni di violenza come quelle del luglio scorso possano ripetersi nuovamente e non apprezzano la linea del “bastone e della carota”, sposata in questi ultimi tempi dai dirigenti locali del Partito comunista. I media locali hanno contribuito a gettare benzina sul fuoco, pubblicando le foto di uomini e donne cinesi, uccisi a bastonate dai manifestanti e abbandonati in strada per ore, prima dell’arrivo della polizia. All’inizio di settembre i cinesi Han di Urumqi hanno indetto una serie di manifestazioni per chiedere pene esemplari nei confronti degli arrestati per le violenze di luglio. Durante i vari cortei per le strade della capitale sono stati urlati slogan anche contro Wang Lequan, il capo del Partito Comunista nello Xinjiang. Alcuni dimostranti che chiedevano le dimissioni del potente boss locale sono rimasti uccisi in circostanze misteriose.
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E intanto Obama firma pacchetto di aiuti per 7,5 miliardi di dollari
Solo pochi giorni fa sostituito il numero due dell’azienda
Attentati in Pakistan, decine di morti
Venticinquesimo suicidio a France Telecom, sindacati in guerra
PESHAWAR. Polizia e forze di sicurezza sotto attacco in Pakistan: 39 i morti tra cui alcuni bambini. A Khoat, nel nord-ovest del Paese, un kamikaze si è fatto esplodere a bordo di un’autobomba nei pressi di un posto di blocco: undici le vittime, tra cui alcuni scolari e tre poliziotti. A Lahore, nel nord-est, i terroristi hanno attaccato una scuola di polizia, un centro di addestramento delle forze speciali e gli uffici del controspionaggio; il bilancio è di 21 morti, tra cui 9 agenti e almeno quattro terroristi. Le forze di sicurezza pachistane, ha detto il capo della polizia di Lahore, Pervez Rathor, «controllano ora appieno» la situazione. Il commando di assalitori era composto da più di 20 persone, tra cui almeno tre donne. Bedian, alle porte di Lahore, è stato l’ultimo fronte ad essere risolto dalle forze di sicurezza. Un imprecisato numero di feriti è stato trasportato in un vicino ospedale, dove è ricoverato anche un terrorista. A Manawan un commando è entrato nell’accademia di polizia lanciando granate, mentre due assalitori facevano esplodere le cariche di dinamite che avevano addosso.Terroristi e agenti hanno ingaggiato un conflitto a fuoco durato un paio d’ore. L’offensiva terrorista si è trasferita da Lahore e Kohat a Peshawar, dove l’esplosione di un ordigno nella residenza del go-
PARIGI. Venticinquesimo sui-
Rinnovato (nella noia) il Consiglio di sicurezza Prima volta della Bosnia, Libano per il mondo arabo di Pierre Chiartano on c’è stata alcuna sorpresa dell’ultimo minuto nell’aula dell’Assemblea Generale dell’Onu. Come da previsioni tutti e cinque i candidati anticipati alla vigilia sono stati eletti nel Consiglio di Sicurezza. I nuovi membri non permanenti sono: Bosnia, Libano, Brasile, Nigeria e Gabon, che erano di fatto gli unici nomi avanzati nei giorni scorsi. È la prima volta dal 2004 che l’elezione non vede nessuna battaglia tra i candidati a livello regionale per accaparrarsi uno dei posti nel massimo organo decisionale del Palazzo di Vetro. L’Assemblea si è riunita alle 16 ora italiana. Non erano previste soprese al momento del voto, come infatti è avvenuto. Per la Bosnia si tratta di un esordio assoluto in seno al Consiglio, mentre il Libano ne fece parte l’ultima volta nel 1953. Sino ad ora a rappresentare il mondo arabo, e l’Africa, c’era la Libia, il cui mandato si conclude con il 31 dicembre. Il Paese di Inácio Luis Lula da Silva - che per la prima volta sarà rappresentato a New York da una donna, Maria Luiza Viotti - coglierà senza dubbio l’occasione per rilanciare la sua visione di riforma dell’organismo multilaterale. Cercando di trasformare in permanente il seggio che dal 2010 - per la decima volta nella sua storia occuperà in maniera transitoria. Ambizione che si fonda sul disegno di apertura del CdS ad altri tre “inamovibili”: Germania, Giappone e India. Intanto proprio da Berlino continuano ad arrivare voci legate a una possibile rinuncia della Germania al seggio permanente. «È ovviamente troppo presto per parlare di reazioni, seguiremo gli sviluppi di questa posizione». Il portavoce della Farnesina, Maurizio Massari ha commentato così, rispondendo alle domande dei giornalisti, le indiscrezioni di stampa secondo cui il futuro governo tedesco avrebbe intenzione di accantonare la richiesta di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a favore di un seggio dell’Unione Europea. «Per il momento ci sono solo delle anticipazioni apparse sulla stampa di cui noi prendiamo nota» ha precisato Massari nel briefing settimanale con la stampa, ricordando che «i nego-
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ziati tra i partiti della coalizione sono ancora in fase di finalizzazione, per cui noi attendiamo l’esito di questo processo». «Una volta che sarà ben chiarita la posizione del governo tedesco ha proseguito il portavoce - si dovranno seguire gli sviluppi. Seguiamo con attenzione questo processo, è ben noto che l’idea di un seggio europeo corrisponde alla visione italiana, espressa in diverse occasioni, per dare all’Europa quella credibilità di attore globale che senza una voce unica anche nel Consiglio di Sicurezza sarebbe difficile avere». Intanto non si spengono le polemiche sul rapporto sulla guerra di Gaza, la cosiddetta operazione Piombo fuso (Cast lead). Un documento che accusa i metodi usati dall’esercito israeliano,Tsahal e dalla resistenza islamica di Hamas.
L’adozione da parte del Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu del rapporto Goldstone sul conflitto a Gaza dello scorso inverno sarà «una ricompensa per il terrorismo». Lo ha detto ieri l’ambasciatore israeliano presso il Consiglio, Aharon Leshno Yaar, nel corso di una sessione speciale dedicata al documento, redatto da una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone. ll suo lavoro d’inchiesta che ha dato il nome al rapporto, accusa l’esercito israeliano e i militanti palestinesi di Hamas di aver perpetrato crimini di guerra, durante le tre settimane di conflitto nella Striscia. Il rapporto raccomanda inoltre, che nel caso in cui Israele e Hamas non riuscissero a svolgere indagini attendibili entro sei mesi, dovranno essere sottoposte al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aia. E inoltre che, il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituisca un gruppo indipendente di esperti per monitorare e comunicare eventuali indagini intraprese da Israele in merito alle accuse. Anche il segretario generale Ban Ki-moon aveva chiesto qualche girno fa a israeliani e palestinesi di aprire «indagini credibili» sulle accuse contenute nel rapporto Goldstone.
I nuovi membri non permanenti sono: Bosnia, Libano, Brasile, Nigeria e Gabon. Ovvero gli unici che erano stati proposti
vernatore della Provincia della Frontiera Nordorientale ha provocato vittime. Secondo l’emittente Dawn Tv un ragazzino è rimasto ucciso e nove persone ferite lungo la strada che porta a Kohat, vicino al quartiere di Gulshan Rehman Colony, dove vivono funzionari dell’amministrazione provinciale.Gli attacchi compiuti dai talebani pachistani, affiliati ad al Qaeda, avvengono quasi quotidianamente da 11 giorni. Il ministro dell’Interno, Rehman Malik, ieri ha detto che gli islamisti sono ormai impegnati in una ”guerriglia” vera e propria. Il Movimento dei Talebani del Pakistan (Ttp) ha rivendicato la maggior parte degli attentati che hanno provocato più di 2.250 morti nel Paese dal luglio 2007.
cidio di un dipendente della France Telecom in Francia in quasi due anni. Ieri mattina un ingegnere di 48 anni, a casa per ragioni di salute, si è impiccato nella sua abitazione a Lannion (Cotes d’Armor). Lo ha riferito una fonte della compagnia telefonica transalpina. L’uomo, impiegato presso il centro R et D di Lannion, sposato e padre difamiglia «da un mese era in malattia su consiglio del medico del lavoro», ha riferito una fonte di France Telecom, precisando che l’amministratore delegato della società,Didier Lombard, «profondamento colpito», si è recato ”immediatamente” sul posto. Si tratta del 25mo suici-
dio nel gruppo dal febbraio 2008 e del secondo a Lannion. Un altro tecnico del centro di ricerche si è suicidato la notte del 29-30 agosto scorso, senza lasciare un messaggio di spiegazione del gesto. I sindacati di France Telecom hanno lanciato un appello al personale ad «agire in tutti i modi e in particolare organizzando assemblee generali» il 20 ottobre, giorno della prossima seduta di negoziati sullo stress da lavoro, sottolineando che il personale dipendente «è sempre in pericolo». Poco più di una settmana fa sindacati e sinistra francesi avevano chiesto (e ottenuto) la testa di Louis-Pierre Wenes, 60 anni, numero due di France Telecom, definito il ”cost killer” perché responsabile della riduzione dei costi dell’azienda e indicato come il “manager del terrore” che aveva scatenato la catena di suicidi. Al suo posto, era stata nominata Stephane Richard, ex capo di gabinetto del ministro Lagarde. Il venticinquesimo suicidio arriva dopo pochi giorni da quello del cinquantunenne Jean-Paul Rouanet che si era buttato da un ponte poco dopo essere stato trasferito nel call center dell’azienda. A France Telecom, il piano di mobilità è stato sospeso fino alla fine dell’anno.
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Storia. Si intitola “Sospetto e silenzio”, il nuovo saggio di Orlando Figes che racconta la vita quotidiana dell’ex Urss
Sopravvivere a Stalin I gulag e la miseria, la diffidenza e i veleni: i racconti segreti del regime di Pier Mario Fasanotti oloro che conoscono bene i russi dicono che sono gente riservatissima e conformista. Non è assolutamente da escludere che questo tratto caratteriale sia stato rafforzato dalla dittatura staliniana. Lo storico russo Mihail Gefter argutamente annota che «il potere reale e il retaggio durevole del regime di quel periodo non risiedono nelle strutture statali, e nemmeno nel culto del capo, ma nello stalinismo insinuatosi dentro ognuno di noi». In altre parole un esempio, unico e terribile, di come la politica che evita e mette al bando la distinzione tra vita privata e vita pubblica può cambiare comportamenti e mentalità.
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stituita da «sussurratori» di un tipo e dell’altro.
Stalin assunse il controllo della direzione del partito nel 1928 e lo mantenne fino alla sua morte, nel 1953. Si calcola che circa 25 milioni di cittadini subirono la repressione del governo sovietico. Quei 25 milioni rappresentavano nel 1941 più o meno un ottavo della popolazione (era di circa 200 milioni). Ma le cifre non comprendono le vittime della carestia e della guerra. Chi usciva – se usciva –
na. Aveva otto anni quando venne confinata, assieme alla madre e a due fratelli minori, nella regione siberiana dell’Altaj. Durante la collettivizzazione del suo villaggio, nella Russia settentrionale, suo padre fu arrestato e spedito per tre anni in campi di detenzione in quanto kulak, ossia contadino ricco. L’intera famiglia si disgregò: i fratelli di Antonina fuggirono, altri parenti non tornarono mai più dal gulag. Anche dopo la liberazione, nel 1934, Antonina conservò sulla pelle il marchio infamante di kulak, che equivaleva a «nemica di classe». Un giorno l’insegnante la punì dicendole di fronte all’intera classe che «la sua razza» era quella dei «nemici del popolo, i maledetti kulak». E urlò:«Di certo avete meritato la deportazione, e spero che qui vi sterminino tutti!». L’unica salvezza possibile era quella di imparare a tacere. Portandosi con sé, per tutta la vita, il senso della paura, s’impegnò accanitamente negli studi ed entrò addirittura nel Komsomol, l’Unione della gioventù comunista. Antonina voleva essere accettata. Ma fece altro: nascose le proprie origini e si procurò dei documenti falsi per poter accedere alla facoltà di Medicina. Lavorò per 40 anni all’Istituto di Fisiologia di Leningrado e non parlò mai della sua famiglia, per proteggere la quale si iscrisse persino al Partito.
La maggior parte degli operai viveva in camerate annesse alle fabbriche, e le donne facevano salti mortali per crescere i figli
Si è scritto molto sui gulag, sul tentacolare Kgb, sulle spie, sul controllo della popolazione, sulla propaganda martellante e penetrante. Molto poco sulla vita privata dei “sudditi” del regime. Anche perché le fonti trovate sono prevalentemente orali, vista la paura di ogni russo a tenere in casa un diario, che era poi la prima cosa che sequestravano e usavano come capo d’accusa negli pseudo-tribunali del popolo. A raccontare il lato intimo, familiare e psicologico dei russi ci ha pensato uno storico inglese, Orlando Figes, di cui Mondadori ha tradotto il suo ponderoso Sospetto e silenzio (580 pagine, 38 euro). L’autore racconta di un paese «addestrato a parlare sottovoce». Non è un caso che la lingua russa abbia due parole per definire chi parla a voce bassa: una indica «chi sussurra per paura di essere udito» (sepcuscij) e un’altra «chi fa l’informatore o parla alle spalle del prossimo» (septun). È, questa, una distinzione che trae origine dal lessico degli anni di Stalin, quando l’intera società sovietica era co-
dal gulag, faceva fatica a rientrare nel nucleo familiare: dopo tanti anni di internamento i legami erano sovente spezzati o comunque diventati labili. Non c’era una vita normale da poter riprendere. Drammaticamente singolare è la vicenda di Antonina Golovi-
Non solo: mai parlò con i suoi due mariti di ciò che era capitato a lei stessa e ai suoi familiari. Salvo poi scoprire per caso che Georgij, il primo marito, era nipote di un ammiraglio zarista giustiziato dai bolscevichi. Fino a quel momento non seppe di aver convissuto con un uomo che, come lei, aveva trascorso l’infanzia nei campi di lavoro. La stessa cosa capitò col secon-
do marito, l’estone Boris, proveniente da una famiglia di «nemici del popolo». Sia con il primo sia con il secondo coniuge, Antonina si confidò dopo 40 anni, all’incirca nel 1995. E solo allora rivelò alla figlia che suo nonno era un kulak, fedele ai valori cristiani. Di doppie vite come quella della signora Golovina ce ne furono centinaia di migliaia, anzi milioni. Ai bambini era insegnato a tenere la lingua a freno, a non parlare
con nessuno della propria famiglia e a non giudicare o criticare quel che vedevano fuori casa. Racconta la figlia di un funzionario bolscevico: «C’erano certe regole sull’ascoltare e parlare che noi bambini dovevamo imparare». Un’altra donna: «Venivamo educati a tenere la bocca chiusa….mamma mi diceva che chiunque poteva essere un informatore…temevamo i nostri vicini, e soprattutto la polizia…ancora oggi se vedo
cultura Nella foto grande, alti dirigenti salutano Iosif Stalin, segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. A sinistra alcune immagini dell’epoca, che celebrano il leader di origine georgiana (a destra nella foto) Salito al potere nel 1928, lo detenne fino alla morte, avvenuta nel 1953 in seguito a un colpo apoplettico
un poliziotto comincio a tremare di paura».
Per quanto riguarda il sistema di vita, pubblica e privata, la grande svolta cominciò all’inizio degli anni Trenta quando l’apparato sovietico rivalutò l’idea della felicità – sempre secondo i canoni comunisti – e permise di coniugare consumismo e socialismo. Era certamente un’inversione a U rispetto all’etica del sacrificio a tutti i costi, della dedizione umiliante verso il regime, dell’odio verso qualsiasi manifestazione borghese, dal gusto per l’estetica e il decoro, all’ambizione di possedere «qualche gallina» che non fosse «statale» (parole pronunciate da Stalin nel 1935). Il segnale forte lo diede il piano economico quinquennale, quello più vistoso lo fornì la riedificazione di Mosca che nei programmi doveva diventare la nuova Mecca del socialismo mondiale, con cinque milioni di abitanti. Opere faraoniche a detrimento di interi quartieri medievali o settecenteschi distrutti dalle ruspe per far posto a strade da utilizzare per le parate, a palazzi governativi. Si pensò addirittura di abbattere la cattedrale di San Basilio per consentire a quelli delle parate di sfilare di fronte al Mausoleo in formazione unica, senza interruzioni. Mosca voleva diventare capitale imperiale, come lo era stata Pietroburgo all’epoca degli zar.
Fiore all’occhiello la metropolitana, arredata come se fosse un palazzo zarista. Gli scavi cominciarono nel 1932, con 75mila persone impegnate tra ingegneri e operai, molti dei quali provenivano dalle campagne e dai gulag. Ben 250mila detenuti furono utilizzati per la costruzione del canale di collegamento tra la Moscova e il Volga. Migliaia di uomini morirono di fatica e i loro corpi furono sepolti nelle fondamenta del canale. La città monumentale si ergeva grazie agli schiavi. Nel frattempo si assistette a un cambio nella classe dirigenziale: la vecchia classe dirigenziale tecnica non era considerata affidabile politicamente (nel 1928 solo il 2 per cento degli ingegneri era iscritto al partito).
Si formò dunque una nuova borghesia alla quale si concedevano privilegi economici (dacia, negozi pieni di articoli, arredo gratis, auto ecc.) in cambio di assoluta fedeltà. Tutti verso la nuova felicità socialista? No: gli archivi di stato sono pieni di lettere e petizioni scritte da operai e contadini indignati per le difficoltà provocate dal piano quinquennale. Quello russo non era un popolo ancora rassegna-
to: dappertutto c’erano insurrezioni e scioperi. In molte città, le scritte antisovietiche erano quasi altrettanto numerose di quelle propagandistiche. Nelle zone rurali la protesta si manifestava con gli stornelli (castuski). Nel ’32 un dirigente industriale scrisse: «Ma dove siamo arrivati? Qui non si respira più. Quei bastardi, più inca-
paci sono, più sparlano dei compagni. Certo, l’epurazione del vostro partito non è affare mio, ma penso che il suo effetto sarà quello di eliminare le poche persone perbene che rimangono». Stalin affrontò con mano dura l’opposizione in-
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terna. Arresti, deportazioni, fucilazioni. Nel libro La rivoluzione tradita, Trockij notò l’esistenza di un’enorme «piramide amministrativa» composta da 5-6 milioni di burocrati, da cui discendeva il potere di Stalin. Ma il dittatore si vantava del nuovo benessere: aumentò la produzione dei beni di consumo, milioni di bambini cresciuti in quell’epoca ricordano d’aver ricevuto il primo paio di scarpe. La propaganda faceva sapere che nei magazzini Eliseev si potevano trovare 38 tipi di salsicce, tre formaggi (Camembert, brie e Limburger), 200 tipi di dolci e paste, «addirittura 50 tipi di pane». Nel ’34 Stalin dichiarava: «Il socialismo non significa povertà e privazioni, ma l’eliminazione della povertà e privazioni e l’organizzazione di una vita e di una cultura ricche per tutti i membri della società». E nel ’35: «Compagni, la vita è diventata migliore, la vita è diventata più gioiosa, e quando c’è gioia si lavora bene». Anche se molte persone faticavano ad avere una pagnotta di pane, si aprivano molte scuole di danza, profumerie. L’homo sovieticus doveva vestirsi bene, la donna doveva profumare.
Giro di vite, e forte, sui “valori” familiari tradizionali. Basta con la libertà sessuale e il libertinaggio, le leggi sul divorzio divennero più restrittive, omosessualità e aborto furono dichiarati illegali. Il buon socialista, secondo Stalin doveva essere monogamo e attaccato alla famiglia. Viva, insomma, quel focolare borghese che all’inizio della Rivoluzione d’ottobre si voleva demolire come residuo di una società aristocratica o capitalista. Una società che produceva ricordi felici? Ma quando mai! C’erano i privilegiati, poi c’era la maggioranza. Nel 1930 a Mosca lo spazio medio abitativo a disposizione di una persona era di soli 5,5 metri quadri, che il decennio seguente scesero a 4. Nel ’35 nella città di Magnitogorsk una famiglia operaia viveva in un appartamentino che concedeva 3,2 metri quadrati pro capite. La maggior parte degli operai, inoltre, viveva in camerate annesse alle fabbriche, dove le famiglie conducevano un’esistenza “da separati”, oppure in dormitori dove l’unica forma di riservatezza era una tenda intorno al tavolaccio su cui dormire. Rare le docce, i
bambini dovevano fare lunghe code per avere acqua. Sempre Trockij accusò il regime di aver tradito lo spirito originario della Rivoluzione socialista che doveva prevedere la liberazione delle donne dalla schiavitù.Tra il ’23 e il ’34 le mogli dedicavano ai lavori domestici il triplo del tempo rispetto ai mariti, nel ’36 il quintuplo. Per le donne non era sostanzialmente cambiato nulla: molte ore passate in fabbrica e poi ad accudire i figli, a pulire la casa, a restare sole tra le mura domestiche, mentre i mariti si dedicavano ad attività politiche e culturali. Scriveva Trockij: «Disunione e distruzione delle famiglie sovietiche…il marito, membro del partito, ha acquisito nuovi gusti, mentre la moglie, oppressa dalla famiglia, è rimasta al suo vecchio livello…è un capitolo, questo, molto drammatico del libro della società sovietica. Il cammino di due generazioni della burocrazia sovietica è segnato dalle tragedie di donne rimaste indietro e abbandonate. Lo stesso fatto si osserva oggi nella giovane generazione. Si troverà senza dubbio più grossolanità e più crudezza nelle sfere superiori della burocrazia, dove i “parvenus”poco colti, che considerano che tutto è loro permesso, costituiscono un’elevata percentuale. Gli archivi e le memorie riveleranno un giorno veri crimini commessi contro le loro vecchie spose e contro le donne in generale dai predicatori della morale familiare e delle “gioie” obbligatorie della maternità, intoccabili dal punto di vista della giustizia». Parole che rimasero per molto tempo nella testa di un oppositore anomalo. Sappiamo che fine abbia fatto.
Aria cattiva anche nell’intellighenzia sovietica. Un tirapiedi di Stalin, Aleksandr Fadeev, alcolizzato, ricoprì la carica di direttore dell’Unione degli scrittori. Nel ’54 fu destituito. Soffriva da tempo di depressione, il peggio arrivò con lo shock per la morte del dittatore rosso. A un amico confidò di essere «in bancarotta come scrittore» e di rinunciare a terminare l’ultimo suo romanzo che doveva narrare della lotta del partito contro il sabotaggio industriale, insomma un pastone da realismo socialista. Dopo il ’53 Fadeev iniziò una sua personale “redenzione” battendosi per la liberazione e la riabilitazione di colleghi condannati ai lavori forzati. Voleva che il controllo ideologico si allentasse. Di lui dissero: «Uno stalinista irrecuperabile». Nel ’56 si sparò un colpo in testa. Questo l’ultimo suo scritto: «Non vedo nessuna possibilità di continuare a vivere, perché la causa dell’arte (sovietica), cui ho dedicato la mia vita, è stata distrutta dalla direzione arrogante e ignorante del partito. I nostri migliori autori sono stati sterminati o sono morti prima del tempo per la criminale connivenza di quanti erano al potere…».
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spettacoli
Red carpet. Ecco cosa vedremo al Festival di Roma, che ieri ha aperto i battenti con la proiezione di “Triage” di Danis Tanovic
Tutto il cinema minuto per minuto di Pietro Salvatori
ROMA. L’ottobrata romana è sempre in-
cattolico Solidarnosc. Argomenti più leggeri in serata, quando verrà presentato il lungometraggio di Stefania Sandrelli, che dirigerà la figlia Amanda, Alessio Boni e Alessandro Haber in una storia vera ambientata ai tempi dell’impero di Carlo V, Christine Cristina. Ancora cinema italiano martedì. Il brillante Luca Lucini porterà infatti al Festival il suo nuovo film, Oggi sposi.
decifrabile. Sole, nuvole, pioggia, caldo, freddo. Il tempo offre una girandola di cambiamenti repentini di temperatura che spiazzano i turisti della mezza stagione e gli abitanti di città in cerca dell’ultimo week-end fuori porta. Unici a non dover subire i capricci del tempo sono i cinefili, risucchiati nella rassicurante, calda comodità delle sale dell’Auditorium Parco della Musica (anche se, per una decina di giorni, la musica lascerà decisamente posto al cinema...) dove da ieri al 23 ottobre si terrà la quarta edizione del Festival Internazionale del Film.
Si è cominciato alla grande, ieri sera, con il quarto film di Danis Tanovic, bosniaco, vincitore nel 2002 dell’Oscar per il Miglior Film Straniero con No Man’s Land. Triage, questo il titolo, è la storia di due fotoreporter di guerra, e della splendida moglie di uno dei due. Il triangolo è composto da Colin Farrell, Christopher Lee e Paz Vega. Proprio l’affascinante attrice spagnola è stata al fianco del regista sul red carpet per la presentazione ufficiale al pubblico italiano ed europeo. Nel frattempo il pomeriggio Richard Gere è stato al seguito di Hachiko - a dog story, riadattamento americano di una amicizia speciale tra un cane di razza ed il suo padrone, evento cruciale di una giornata riempita anche da un sentito omaggio al compianto Heath Ledger, attraverso i materiali grezzi del suo studio da regista. Oggi toccherà a James Ivory presentare il proprio lavoro, The city of your final destination, una saga familiare con al centro Anthony Hopkins e Laura Linney. E sempre oggi si sfideranno Gabriele Muccino e Giuseppe Tornatore in un brain storming sul proprio lavoro di registi, presentando l’uno le scene preferite della cinematografia dell’altro. La giornata di domani appare costruita appositamente per prestarsi al gossip. Jason Reitman presenterà Up in the air, storia di Ryan, manager distaccato e cinico ai limiti della cattiveria, che si trastulla maniacalmente con obiettivi pittoreschi quali quello di diventare recordman nell’accumulazione dei punti delle millemiglia. Cosa ci sarà di tanto interessante per paparazzi e riviste di costume? Semplicemente che a dare volto e charme a Ryan sarà George Clooney, atteso in passerella con la sua nuova (effimera?) fiamma italiana, Elisabetta Canalis. La pre-
Il Festival del cinema di Roma si è aperto ieri con la proiezione del film “Triage” (in alto la locandina) del regista Tanovic (qui sopra). In basso a sinistra, Richard Gere e la locandina di “Hachiko- dog story”, e a destra, George Clooney e la locandina di “Up in the air”
Oggi toccherà a James Ivory presentare il proprio lavoro, “The city of your final destination”. Mentre domani sarà la volta di George Clooney, protagonista di “Up in the air” di Jason Reitman miata coppia darà sicuramente motivo di parlare ampiamente di sé.
Si passa a domenica, giornata nella quale si va dall’impegno civile con La siciliana ribelle, dolente pellicola di Marco Amenta che racconta la storia vera di Rita, diciassettenne siciliana che denuncia la propria famiglia affiliata ad un clan mafioso, allo svago di Astroboy, lungometraggio tratto dalla mitica serie di uno dei padri dell’animazione giapponese, Osamu Tezuka, che disegna il proprio piccolo eroe fantascientifico ispirandosi al Pinocchio di Collodi. Le voci italiane sono quellle di Silvio Muccino, Carolina Crescentini e del Trio Medusa. Il divertimento per chi avrà la pazienza di aspettarli lungo il red carpet è assicurato. Ancora pillole di grande cinema in serata: si potrà scegliere tra Rupi del Vino, documentario poetico del grande maestro del
cinema italiano, Ermanno Olmi, e Il concerto, storia vera di un grande concertista nella Mosca comunista declassato a custode di un teatro per essersi rifiutato di licenziare i musicisti ebrei della propria compagnia. Il regista è il rumeno Radu Mihailenau, vecchia conoscenza del pubblico italiano per il brillante e commovente Train de vie. Noi non ce lo faremo sfuggire per nulla al mondo. Ancora di comunismo si parla lunedì prossimo nel primo pomeriggio.
A trattarne questa volta è il polacco Rafal Wieczynski attraverso Popieluszko, pellicola che racconta la drammatica storia del prete Georg Popieluszko, incarcerato, torturato ed ucciso dalle autorità polacche per aver appoggiato ai suoi albori il sindacato
Si riforma la coppia vincente con Luca Argentero, affiancati per l’occasione da Carolina Crescentini e Michele Placido, in una commedia sul mondo dei precari che il programma ufficiale definisce «ad alto tasso di star». Ma martedì sarà anche il momento del celebre scrittore Paulo Coelho, uno dei tanti eventi che nascono e crescono nella preziosa sordina della sezione “Extra - L’altro cinema”, invitato da Mario Sesti a presentare una pellicola tutta da vedere ispirata al suo romanzo La strega di Portobello. Aria di smobilitazione mercoledì per un Festival che, fatte salve le cerimonie di premiazione, si chiuderà effettivamente giovedì 22. L’unico acuto annunciato della giornata sarà Vision, storia vera di una religiosa “ribelle” che ha portato innumerevoli cambiamenti nella regola del proprio ordine, firmato dalla tedesca Margarethe von Trotta. I fuochi d’artificio sono riservati all’ultima giornata. Il pubblico adolescenziale sarà infatti calamitato nel pomeriggio in sala Sinopoli per la proiezione di alcune sequenze di New Moon, il nuovo attesissimo capitolo della saga di Twilight, e dall’incontro con i giovanissimi attori del cast, vere e proprie star del pubblico under 18. Per un pubblico più attempato, ma non troppo, la sera riserva la chicca della proiezione in anteprima di A serious man, nuovo film dei fratelli Cohen. Certo, senza essersi lasciati sfuggire
qualche ora prima l’incontro con la leggendaria Meryl Streep, al seguito di Julia&Julia, la commedia che caratterizzerà, insieme ai verdetti delle giurie, la giornata di chiusura. Allora, mettetevi comodi e sistematevi sulle poltrone. Non rimane che farsi sorprendere dal buio in sala. Lo spettacolo (sembra) assicurato.
spettacoli n ennesimo scavo alla radice della tradizione del rock americano, attualissimo, moderno, ottima produzione, grande stile. Gli storici Corvi Neri stanno quasi per spegnere le venti candeline di ruspante attività musicale. E festeggiano con l’uscita del nuovo album Before the frost, un disco contenente un codice che permette di scaricare altre 9 track alle 11 inserite, Until the freeze, quasi come premio per i fan che da anni dimsotrano il loro affetto alla band. Un’idea estremamente originale. Venti chicche rock nate dall’esperienza di una band formidabile, dalla passione, e da un atteggiamento creativo e originale, pur nel riecheggiare alcuni intramontabili classici come i Beatles, i Jethro Tull, i Crosby Stills Nash & Young. Perché Before the frostUntil the freeze contiene l’eco di queste band che non hanno mai smesso di far sognare e costituire la fonte di ispirazione per i più grandi musicisti di tutto il mondo.
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portamento decisamente dance. una jam da sei minuti che pochi possono permettersi. Liberi, creativi, irriverenti, ritrovati, i Black Crowes sono tutti in questo pezzo: un basso martellante e ossessivo, un leggero wah wah in sottofondo, timpani a puntellare ed è... disco music. Un colpo di testa, composto forse in una serata dai troppi giri di whisky, un brano che riecheggia le spaparanzate danzerecce rollinstoniane o alla Rod Stewart. Ma sicuramente un track originale, diversa dagli altri.
U
Non si tratta di un disco live. Bensì di un disco registrato dal vivo in studio, di fronte ad uno sparuto numero di fortunati, che in maniera discreta applaudono alla fine di alcuni brani. Entrambi i dischi infatti sono stati registrati durante una serie di cinque sessioni live notturne presso i Levon Helm Studios di Woodstock (lo studio del batterista di The Band), New york, sotto l’attenta regia del produttore Paul Stacey. Il materiale è ovviamente inedito e sposa la variegata anima del gruppo, ovvero quell’essenza sonora che unisce benevolmente il calore della soul music in un contesto hard-boogie e con quel flow tipicamente southern-rock. Lo spirito del gruppo è cangiante, all’elettricità ed al groove spesso si accosta una dimensione più acustica ed emozionale. Until The Freeze è invece una collezione di nove brani, otto originali ed una bella rivisitazione di So Many Times di Stephen Stills. I cari Black Crowes ne hanno avuti di problemi, litigi e momenti di minore ispirazione artistica. Ma forse proprio quei momenti li hanno obbligati a riflettere e a ripartire. E lo hanno fatto con questo nuovo disco, dove hanno ispirato spore di magia rock, hanno provato e riprovato, composto e suonato. Durante cinque sabati sera consecutivi hanno inciso questi 20 brani davanti a un pubblico raccolto di soli fan. Per un risultato caldo, emozionante, disinvolto, affatto scontato. Prodotto da Paul Stacey, il doppio album coglie i Black Crowes al completo (Chris Robinson, voce; Rich Robinson, chitarre; il batterista originario Steve Gorman; Sven Pipien, basso;
Musica. Il doppio album dei Black Crowes “Before the frost-Until the freeze”
Venti candeline per i Corvi Neri di Valentina Gerace
La band festeggia la propria carriera con l’uscita di 11 inediti, più altre 9 tracce, nel solco della migliore tradizione rock americana Luther Dickinson, chitarra; Adam MacDougall, tastiere) con un piccolo aiuto da parte del polistrumentista Larry Campbell. Un lavoro notevole, godibile e divertentissimo.
Un disco di ballate, un paio bellissime (su tutte la conclusiva Fork in the river). Oltre all’astuto riadattamento di riff storici (ad esempio in A Train Makes a Lonely Sound si può risentire In Need dei Grandfunk Railroad), alla volontà di omaggiare con gran classe So
Many Times di Stills e all’influenza beatlesiana qua e là, i Corvi Neri questa volta hanno copiato pure loro stessi, riecheggiando alcuni fraseggi di successo del passato e, sulla base del ragionamento quivi rappresentato, si sono ulteriormente migliorati. Interamente registrato dal vivo, questo ultimo doppio è sapientemente strutturato: il sipario si apre con Good morning Captain, marchio di fabbrica di casa Robinson. L’adrenalina aumenta attraverso l’improvvisazione centrale di Been a long time. L’atmosfera si fa sognante cavalcando Appalosa. Garden gate è un country fatto e finito, proprio di quelli in cui ti aspetti che parta la quadriglia e che da qualche parte spunti anche un gruppo di cow-
boy con tanto di cappellacci e stivali. Evidenti gli echi beatlesiani in Shady grove e nella ballata Lady in avenue A. Fascinazioni hippie-indiane con tanto di sitar nell’iniziale Aimless peacock. Ma resta sempre vivo lo spirito rock fino all’undicesima track, per poi procedere in una dimenzione più folk e decisamente più country nelle tracce del secondo disco.
I Crowes non si annoiano di certo. Tentano pure l’azzardo, ovviamente divertendosi. Con una I ain’t hiding, un brano dal
In questa pagina, alcune immagini dei Black Crowes, storica rock band di Atlanta che torna alla ribalta con il nuovo doppio album “Before the frost-Until the freeze”
Si concedono digressioni ispirate come una What is home profumata di CSN & Y, come l’impasto tra bretagna e oriente di Aimless Peacock, come i Beatles versante MC Cartney di And the band played on. Il tutto con la flemmatica irriverenza di chi non ha più nulla da perdere, né da dimostrare. Insomma, tutto ciò che ci si aspetta da una band storica come la loro. Un team di musicisti sempre in forma, che hanno sempre qualcosa da dire e lo fanno nel migliore dei modi. La line-up della band è immutata rispetto ai precedenti due lavori Warpaint e Warpaint Live e comprende oltre ai due fratelli Robinson, indiscussi leader del lotto, il bassista Sven Pipien, il batterista Steve Gorman, il chitarrista Luther Dickinson ed il tastierista Adam MacDougal. Un pezzo dopo l’altro i fratelli Rich e Chris si fanno riconoscere, col solito piglio tra il torrido e lo strascicato, cavando calore e ruvidezza dal petto, stomaco e cuore, ciondolando tra black e southern come se tra le strade percorribili fosse davvero la più accogliente, non la più breve né la più veloce. Un disco compassato insomma, molto d’atmosfera. Ed eccellente perché i ragazzi di Atlanta, superata la secca creativa ed emotiva che li aveva minati all’inizio del decennio, suonano compatti come mai avevano fatto in passato. È vero che gran parte del loro pregio, come per le migliori formazioni di roots rock americano, è il filo del rasoio sul quale la loro musica pretende di stare in equilibrio, è l’entropia, è quel pugno di millimetri che ti separano dalla perdita di controllo ma che rendono tutto molto eccitante. Ebbene, tutto ciò non è andato perduto. Ma oggi l’armonia di gruppo rende quel caos molto più creativo e, unita all’esperienza di chi proprio quest’anno gira intorno alla boa dei vent’anni di carriera, conduce al secondo motivo: i Black Crowes sono così rilassati che il loro spettro musicale si è esteso notevolmente.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”The Guardian” del 15/10/2009
Rischio estinzione di Allegra Stratton l partito laburista sta per affrontare una delle peggiori crisi della sua storia. C’è una «forte» possibilità che possa restare lontano dal governo per un’intera generazione, a meno che non riesca a spiegare chiaramente qual è la sua linea e visione politica a chi dovrebbe votarlo.
I
Gordon Brown è stato messo sull’avviso da un gruppo di esperti del partito, composto da eminenze grigie e decani laburisti. Malcom Wicks, l’inviato speciale del premier in materia d’energia ha presentato la richiesta per «una chiara visione progressista», così come il gruppo formato da dieci ex membri di governo, tra i quali anche il ministro degli Interni, Charles Clarke, che hanno scritto un documento con la loro ricetta per «Il futuro del Labour». Il pamphlet è stato scritto da l’ex Lord Cancelliere Lord Falconer, dal parlamentare Hugh Bayley della città di York, dall’ex concorrente per il ruolo di preseidente della camera dei Comuni Parmjit Dhanda, dall’ex-deputato laburista Calum MacDonald, dall’ex Ministro per l’Europa, Denis MacShane, dall’ex ministro delle donne di Meg Munn; dal parlamentare Nick Palmer, dall’ex ministro del governo locale Nick Raynsford, nonché da Wicks e Clarke. La serie di saggi mira a rivitalizzare un partito che è considerato come «intellettualmente esaurito». Le proposte sono state lanciate alle 11 di questa mattina (ieri, ndr) nella sala delle conferenze al numero 13 di Westminster, mentre il primo ministro iniziava un altro tour regionale. L’intervento di Wicks chiede un rifinanziamento della Northern Rock, mentre Bayley, ex professore di politica sanitaria, chiama il partito per una vera riforma del sistema di assistenza primaria. Lord Fal-
coner usa il suo saggio per aderire alla campagna per i nuovi poteri, per recuperare un elettorato scontento, un’iniziativa in grado di sbarazzare il campo dai parlamentari meno popolari del Labour. Palmer chiede invece che il ruolo della Marina e della Raf vengano ripensati. Almeno la metà del gruppo, nei loro interventi, a un certo punto ha chiesto pubblicamente al primo ministro di farsi da parte. Ma il tono sobrio del pamphlet riflette uno stato d’animo più cauto che si respira Westminster, meno consono a un tentativo di scalzare Brown dalla poltrona a giugno. Alcuni coinvolti in questa sfida credono che il treno sia ormai passato, altri pensano invece che sia troppo presto per trarre delle conclusioni e la maggior parte riconosce che, per una nuova spinta, sarà ancora necessario il coinvolgimento di alcuni membri del gabinetto di governo. Pur ammettendo che alla congresso del Labour si siano visti chiaramente i membri del governo compatti sostenere Brown. Uno dei cosiddetti «ribelli» ha detto al Guardian: «La rivoluzione non ha funzionato, ora è il momento per un colpo di palazzo». «Sette mesi circa prima delle elezioni politiche nazionali, non è il periodo migliore per certe operazioni. C’è un malessere generale» è ciò che pensano alcuni ex ministri del gruppo della fronda al premier. «Certo, agli elettori è molto meno chiaro ciò che rappresentiamo, rispetto al 1945, alle elezioni di metà anni Sessanta, o a quelle del 1997. Ciò è vero probabilmente solo in parte, perché una identità chiara è più fa-
cile da definire quando si sta all’opposizione rispetto a quando si hanno responsabilità di governo» sempre l’analisi dei frondisti. «In assenza di una chiara agenda progressista, molte persone ritengono che le iniziative economiche di matrice populista offerte dai conservatori siano meritevoli di essere messe alla prova – e questo potenzialmente aprirà la prospettiva, a una Gran Bretagna malata di sonnambulismo, per un’altra generazione di governo thatcheriano».
La percezione diffusa è che il partito sia a corto di stimoli, è intellettualmente esaurito. Nonostante gli sforzi del primo ministro per mettere in chiaro la direzione di governo e una valanga di annunci politici al congresso del partito. In combinazione con il generale malcontento verso la politica, «la prospettiva di una vittoria elettorale dei Tory è quindi forte», ed probabile che restino a lungo alla guida del Paese.
L’IMMAGINE
I napoletani maledicono l’arrivo della tassa sulla spazzatura: come dar loro torto? Non riverbera come si dovrebbe, la sommatoria delle maledizioni che si odono nelle case dei napoletani, una volta aperta la busta fatidica della tassa sulla spazzatura. La prima cosa è pensare all’errore, poi si cerca di approfondire e si scopre che non c’è difformità. Molti scrivono a Berlusconi, ma non è lui che trama tali orditi nefasti per le tasche nostre, ma il benemerito comune di Napoli. Ci balena così il sospetto che la pulizia fatta dal governo dei covoni di “munnezza”, spesso sparsi per la via come fiori, sia costata parecchio; ma spunta anche l’ipotesi che la confusione nelle istituzioni, nel tentativo di far dimettere il premier, si alimenti anche dei mugugni partenopei, mentre chi veramente si dovrebbe dimettere per il fallimento procurato, dorme sogni tranquilli... L’algoritmo per calcolare la tassa sulla spazzatura lo vorrei allora conoscere, perché sarà talmente sproporzionato alla realtà da creare soluzioni altamente approssimative.
Gennaro Napoli
PRECISAZIONE L’articolo a firma di Gabriella Mecucci relativo al convegno “Omaggio a Renzo Foa, protagonista della sinistra storica e del tempo del revisionismo”, apparso su liberal di mercoledì 14 ottobre, per un errore redazionale in prima pagina è stato titolato “Metti un pomeriggio, sul lago, a parlare di Renzo Foa”. Si precisa che Bettona, il comune umbro che ha ospitato il convegno, non è sul lago e pertanto ci scusiamo con i lettori e con gli organizzatori promotori dell’iniziativa.
LA STERZATA POSITIVA Il significativo aumento dell’età pensionabile, è a mio modesto parere una necessità della società moderna che, oltretutto, essendo altamente alienante, dovrebbe for-
nire i mezzi per essere “validi”fino alla più tarda età. Nel contempo occorre osservare che, per acquisire una pensione, il lavoratore deve aspettare che si completi tutto il suo corso lavorativo, mentre i parlamentari la ricevono già dopo un anno del loro esercizio. Da un certo punto di vista, sarebbe opinabile che uno stipendio sia proporzionale alla bontà del lavoro svolto, ma siamo certi che ciò si possa applicare ai nostri politici? Quanti lavoratori di settori tartassati come il metalmeccanico sono in balia di una riforma sulle pensioni inesistente, di leggi ombra su scivoli, prepensionamenti, post pensionamenti ovvero consulenze, esuberi vari e dimissioni incentivate, senza un indirizzo chiaro? Credo che Draghi stia positivamente analizzando il problema. E visto che l’in-
Solo per i tuoi occhi Ad appena 6 mesi di vita questo cucciolo di grizzly - orso bruno americano (Ursus arctos) è già alle prese con i problemi di vista. Come molti esemplari della sua specie infatti, è piuttosto “cecato”, ma vanta un olfatto sopraffino, grazie al quale riesce ad avvertire la presenza di cibo anche a 3 chilometri di distanza. Individuato il bottino, non gli resta che agguantarlo
terlocutore istituzionale è cambiato, adesso ha la possibilità di dare una sterzata positiva.
Bruna Rosso
FURGONI DELL’ORRORE STRAPIENI DI RANDAGI Migliaia di animali ogni anno spariscono nel nulla, destinati per lo più a diventare cavie da laboratorio, utilizzati per ogni sorta
di esperimento. Per arginare il fenomeno ci vorrebbe l’applicazione della legge quadro 281/91 (art. 4), che impone ai sindaci di spendere una parte delle entrate statali che arrivano alle regioni, per effettuare le sterilizzazioni; e ancora la microcippatura dei cani e la registrazione all’anagrafe canina, pratica questa che da noi viene quasi completamente ignorata
e, in caso di inadempienza, sanzioni per i responsabili. In merito al ddl già esistente, che identifica come reato solo l’importazione di cuccioli dall’Est Europa, ma che non prende minimamente in considerazione tutto il traffico di randagi in uscita dall’Italia, bisogna che la legge preveda misure più severe in materia.
Domenico S.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Corrispondere con lei mi ringiovanisce
IL CANDIDATO ALLA PRESIDENZA DELLA REGIONE PUGLIA In campo avverso la situazione non volge al meglio. Il presidente in carica è sicuro di potercela fare: l’avversario non ha il suo impatto emotivo popolare. Da questo lato, infatti, non conta valutare se la gestione della Regione sia stata efficace o meno (tralasciamo se regolare). Di tutto si parla tranne che di valutare quello che si è fatto e i risultati raggiunti nella gestione (di questo si tratta) della macchina regionale. La Sanità (tutto bene?) lo sviluppo economico (tutto bene?), le grandi aziende regionali (tutto bene?). Le responsabilità, beninteso, politiche non contano. Il presidente uscente è sempre il presidente uscente. La scorsa volta ci furono delle primarie e per qualcuno non si comprende perché l’esperimento, semmai con qualche comitato di garanzia in più, non debba ripetersi. Ma il Pd è distratto e ha deciso, stranamente, di fare i congressi a pochi mesi dal voto regionale. Cioè prima ci scontriamo e dissanguiamo e poi affrontiamo l’avversario. Anche su questo fronte tutta tace.
Roma, 27 dicembre 1976 Carissimo Simenon, è una gioia riconoscere in mezzo alla posta la sua busta dalle giuste proporzioni e sopra l’indirizzo e il mio nome con i caratteri eleganti della macchina da scrivere. Corrispondere per lettera con lei è un fatto nuovo che mi ringiovanisce, ritrovo l’entusiasmo, le fiduciose attese e una voglia di chiacchierare e confidarmi. Per l’amabilità e la generosità con cui lei mi scrive, il rapporto è così stimolante e naturale che mi sembra strano non incontrarla all’improvviso per strada o al caffè o al ristorante così come si incontrano gli amici che si conoscono da sempre, i colleghi che hanno fatto la stessa trafila, lavorando nelle stesse redazioni di giornali, scrivendo insieme soggetti e sceneggiature per il cinema e passando le ultime ore della notte accompagnandosi vicendevolmente a casa fino all’alba, chiacchierando. Sono stato a Zurigo e sono stato tentato di venirla a trovare; mi sono limitato a mandarle un salutino dal palazzetto dove ha la sede editoriale il nostro amico Keel, che poco prima, rosso in viso di soddisfazione, mi aveva mostrato le prove di stampa per la copertina dei primi sei Simenon, che pubblicherà entro l’anno. Federico Fellini a Georges Simenon
ACCADDE OGGI
IL MINISTRO E TRENITALIA RISPONDONO Nella mia qualità di Difensore del cittadino, avevo indirizzato al ministro dei Trasporti Altero Matteoli una lettera, con cui sottolineavo, che gli erano pervenute più segnalazioni, relative al disagio, pressoché giornaliero, degli utenti, soprattutto lavoratori, ma anche studenti, della tratta ferroviaria che collega Cuneo a Torino. Le doglianze riguardavano le carrozze insufficienti e sporche, i ritardi, talune porte, anche dei servizi igienici, chiuse. Richiamavo anche un intervento del consigliere regionale Pier Francesco Toselli sull’argomento e chiedevo una verifica della situazione attraverso i tecnici a ciò destinati. Il ministro Matteoli, attraverso il capo della segreteria Emilio Brogi, si attivava segnalando le doglianze al presidente di Trenitalia dott. Marco Zanichelli, il quale ha fornito una risposta con la quale illustra le rilevazioni dei servizi informativi della circolazione. Dette rilevazioni evidenziavano, secondo il presidente di Trenitalia, come nel primo semestre dell’anno in corso, il livello di puntualità registrato sulla linea Torino-Cuneo è stato dell’88%, nel senso che i ritardi sono stati generalmente contenuti in pochi minuti, nonostante le forti precipitazioni nevose dei primi due mesi dell’anno. Il dottor Zanichelli evidenziava che nello stesso periodo la percentuale dei posti occupati risultava pari al 40% di quelli disponibili. Per quanto riguarda la pulizia, relativamente alla quale i motivi delle doglianze non vengono negati, le Ferrovie hanno bandito, su tutto il territorio nazio-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
16 ottobre 1986
Reinhold Messner raggiunge la vetta del Lhotse (Nepal) e diventa il primo uomo ad aver scalato tutte le quattordici vette che superano gli 8000 metri 1987 Un uragano si abbatte sulle coste dell’Inghilterra meridionale 1992 Rigoberta Menchú, leader indigena guatemalteca, ottiene il Premio Nobel per la Pace 1993 Forti esplosioni di origine vulcanica a Stromboli 1995 A Washington si svolge la marcia del milione di uomini 1998 L’ex dittatore cileno Augusto Pinochet è arrestato a Londra 2000 Il giornalista di Radio Radicale, Antonio Russo, viene ritrovato morto vicino Tbilisi (Georgia) 2001 Durante l’invasione dell’Afghanistan, aerei da guerra statunitensi bombardano per errore un campo della Croce rossa internazionale a Kabul 2002 Ad Alessandria d’Egitto viene inaugurata la Bibliotheca Alexandrina, a ricordo della mitica biblioteca anticamente distrutta
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
nale, le gare d’appalto per l’affidamento del servizio di pulizia, basate su capitolati rigorosi che assicurano «tra l’altro, prestazione e qualità erogate facili da verificare e da sanzionare in caso di risultati inadeguati». Vorrei commentare la dichiarazione del presidente di Trenitalia, facendogli sapere che mi sono pervenute altre segnalazioni anche fotografiche che mi auguro possano essere superate dagli impegni assunti dalle Ferrovie: in queste settimane ho compiuto alcuni rilievi che confermano il disagio pregresso, particolarmente per i treni di certe fasce orarie. Ci attendiamo che la situazione possa migliorare.
Raffaele Costa
MODULI FUTURI Il modulo che la destra dovrebbe sfruttare, perché vi è più vicina nel pensiero, è la necessità di affrontare la politica e l’economia con un senso ritrovato e opportunamente variato della spiritualità, che imponga le sue scelte anteponendole alle necessità materiali, che ci portiamo certe volte indietro come zavorra. Non è un discorso religioso bensì un modo differente per approcciare fatti, che, riletti con una prospettiva diifferente che una scelta di spirito può creare, possono portare almeno a gratificazioni più ineccepibili, contro l’anarchia parlamentare, contro le polemiche fini a se stesse, contro i falsi moralismi. Molte decisioni giudiziarie della magistratura ne trarrebbero sicuramente beneficio.
Molti vorrebbero un altro ex magistrato: Emiliano. Ora è solo un battuta ma perché qualche politico non decide di iniziare a vestire la toga? Tanto per invertire la tendenza. Non scherziamo, Emiliano è il sindaco della città più importante della Puglia ed è stato appena eletto. Anche qui, possibile che questa Regione non sia capace di esprimere qualcos’altro ? Invero, scalpita nel centrosinistra un cavallo di razza, capace di essere in grado di ampliare veramente la coalizione….ma anche questa è un’altra storia: di buonsenso. Ignazio Lagrotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A
APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 OGGI, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Unione di Centro, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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PAGINAVENTIQUATTRO
Cucina. Massimo Ferrari esporta a San Paolo i piatti caserecci, preparati durante una sorta di rappresentazione teatrale
La Ciociaria conquista il di Lucia Colafranceschi l marchio Ciociaria come garanzia di cucina genuina ha avuto un altro riconoscimento nel mondo. Non sono stati solo gli studi di Marketing di McDonalds a capire che dare l’appellativo di “ciociaro” al suo nuovo panino avrebbe assicurato i propri clienti in fatto di genuinità ed utilizzo di rodotti caserecci; non è solo la moglie di Obama a servirsi di preziosi consigli ciociari circa gli ortaggi della Casa Bianca.
I
Questa volta l’invito a portare sulla scena internazionale la cucina casereccia ciociara viene da colui che è risultato il migliore ristoratore italiano in Brasile nonché tra i 24 eccellenti rappresentanti della cucina italiana nel mondo. Massimo Ferrari, 66 anni, di padre calabrese, già proprietario del celebre ristorante “Massimo”a San Paolo, ha intenzione di ospitare una rosa di maestri artigiani ciociari nel suo teatro della gastronomia italiana, il “Felice e Maria”, inaugurato lo scorso 16 settembre a San Paolo in Brasile. Ma in cosa consiste il progetto di un teatro della gastronomia italiana in Brasile? Si potrebbe definirlo come un sogno che il noto cuoco italiano ha in serbo sin da bambino, da quando, «sacerdote del lavoro», preferiva una stanza e un bagno al piano superiore del suo ristorante“Massimo”, per dedicarsi completamente al servizio, alla cura e alla delizia dei suoi clienti. L’uomo “do sorriso mais largo da cidade”ha deciso questa volta di fare un regalo più grande, non solo ai suoi affezionati clienti e amici, ma anche e soprattutto alla sua Italia e al Brasile. “Encantar il cliente”, è il suo motto di vita, perché chi entra nel “Felice e Maria”si tuffa con tutti i sensi in una Italia sublimata dai colori di vicoli e botteghe, gustando la cucina di una volta, quella che tutti riconoscono come la preziosissima “cucina della nonna”. Questo è il grande salto in avanti che Massimo Ferrari ha compiuto nel panorama della cucina italiana all’estero. Basta con i soliti piatti messi sulla tavola dalla maggior parte dei ristoranti italiani nel mondo: pizza, spaghetti alla bolognese, carbonara, lasagne e parmigiana. Far scoprire agli amanti del cibo italiano in Brasile l’impareggiabile varietà della cucina regionale italiana, quella casereccia che, di nascosto,
tra le mura domestiche, nelle prime ore del mattino, lontano dal frastuono delle città e dagli sguardi indiscreti della gente, ancora oggi viene preparata dalle mani esperte di nonne e massaie nei tanti paesini dell’Italia. Non sono i grandi chef sperimentatori e decoratori dei piatti, ma i sapori di antiche ricette regionali che in questo grande teatro-rosticceria, il “Felice e Maria” appunto, verranno preparati dal vivo proprio dalle massaie e dagli “artigiani” del cibo che da tutta Italia verranno selezionati da Massimo Ferrari per portare il loro contributo di“sapienza culinaria”e di colore in questo spettacolo permanente di cucina italiana. La preparazione dura da più di un anno, perché Massimo Ferrari, che ha una
go da cidade”, ha scelto due panettieri di Donnici, Antonio Perri e Pietro Spadafora, per insegnare ai cuochi del “Felice e Maria” a fare il pane casereccio. Entro la fine dell’anno sarà la volta della Ciociaria con Lelio Colungi di Giuliano di Roma (in provincia di Frosinone), artigiano selezionato da Massimo Ferrari per la sua espressività e manualità nella preparazione dei primi piatti. Ma come è stato possibile scovare tra i vicoli di Giuliano di Roma, nel forno di via Cavour 2, un fornaio con la passione per la cucina? In occasione del suo ultimo viaggio in Italia, durante le vacanze di Natale, Massimo Ferrari ha incontrato Riccardo Abet, che insieme al regista ligure Eros Achiardi, stava realizzando un
BRASILE grande reputazione da difendere, ama la perfezione e desidera profondamente stupire i tanti che lo fermano per le strade di Rio e San Paolo, in attesa di essere nuovamente suoi ospiti. Per far questo l’uomo dal sorriso e bretelle e i suoi 115 chili, portati egregiamente, ha messo insieme i migliori professionisti sia italiani, come lo chef toscano Sergio Lorenzi, suo braccio destro,
I diversi cibi verranno cotti dal vivo, cioè di fronte ai clienti, dalle massaie e dai maestri “artigiani del gusto” che verranno selezionati da tutta Italia, direttamente dal ristoratore che brasiliani come lo scenografo Renato Scripilliti, siciliano d’origine, che nello scenario del “Felice e Maria”ha ricreato alcuni scorci dei borghi italiani tra cui la piazzetta di Nemi. Massimo Ferrari, per ora, ha voluto cominciare dalla Calabria per omaggiare suo padre Felice Ferrari, cittadino di Paola, che insieme alla madre Maria danno il nome alla rosticceria. Dopo una ricerca compiuta attraverso i suoi viaggi in Italia e la collaborazione con la società True Blue Italy di Riccardo Abet & C., l’uomo “do sorriso mais lar-
documentario sui personaggi e luoghi della Valle dell’Amaseno dal titolo “Ciociaria: un pianeta a parte”, poi vincitore del “Peppone d’oro”al Festival di Brescello. Su commissione dell’ideatore del primo teatro della gastronomia in Brasile, i due artisti hanno prodotto un documentario sulla astronomia ciociara con lo scopo di presentare a Massimo Ferrari in Brasile i volti e la manualità delle massaie ciociare, gli artigiani del pane e i mastri casari della zona d’origine della mozzarella di bufala campana.
È così che grazie alla disponibilità di questa gente di Ciociaria e alla spigliatezza dimostrata davanti alla telecamera, i volti della signora Panici, di Bertina, la fornaia di Amaseno, della signora Maura, di Lelio Colungi, di Gino Pagliei e di Biagio Coccia di Giuliano di Roma, sono arrivati in Brasile offrendo al signor Ferrari quell’immagine d’autenticità che tanto ricercava. Mentre Lelio Colungi, in lista d’attesa per la prossima partenza, prepara il suo menù con gli immancabili “maccaruni cugli feri”, il regista Eros Achiardi è nel “Felice e Maria”a San Paolo per filmare le ricette dello chef toscano Sergio Lorenzi e assistere Massimo Ferrari nel suo ambizioso ed esclusivo progetto.