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Nessun piacere è un male in assoluto; alcune fonti del piacere procurano più male che bene Epicuro

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 30 OTTOBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Pil Usa risale (+3,5%) mentre da noi è ancora fermo al palo. E la Giornata del risparmio diventa un concerto di polemiche

Qualcuno mente al Paese Berlusconi insiste: «La crisi è finita». Ma Draghi dice che senza riforme non ne usciamo. Il Pdl al Senato riduce l’Irap. Ma Tremonti insiste: «Niente risorse». Chi ci prende in giro? CAMBIARE È RISPARMIARE

PARLA MARIO BALDASSARRI

Spesa-rigore: un derby privo di senso

«Ecco come smentiremo il Tesoro»

di Enrico Cisnetto

di Errico Novi

Siamo fuori dalla crisi. Ma per la ripresa servono le riforme. E per le riforme non ci sono soldi. Chi ha ragione, Berlusconi, Draghi o Tremonti? Da parte sua, la Commissione finanze del Senato vuol dare il via libera a un taglio dell’Irap con un emendamento alla finanziaria. Ma il tremontiano viceministro all’Economia Giuseppe Vegas ha ribadito che non ci sono soldi: «L’emendamento rischia una bocciatura tecnica».

a l’Irap si taglia dopo che è finita la crisi o, al contrario, serve a uscire dalla crisi? E, nel primo caso, quello sponsorizzato dal premier, perché non si interviene subito visto che il Governo ha detto e ripetuto che la crisi è finita e noi ne usciamo meglio degli altri? E, nel secondo caso, perché non si è tagliata nei mesi scorsi? Come si vede, sarà anche stato raggiunto un accordo tra Berlusconi e Tremonti, sarà pure di ferro quel patto – anche se a dubitarne sono per primi i ministri e gli esponenti politici del Pdl, e in qualche misura della Lega – ma le contraddizioni in seno all’esecutivo sulla politica economica sono ancora tutte lì, e pesano come macigni.

e perplessità del Tesoro sono legittime: il deficit non va toccato. Ma quando invece non si tocca il deficit e si propone di rimodulare la spesa e le entrate, allora queste perplessità dovrebbero non esserci». Mario Bardassarri, che da tempo viene identificato come il nemico pubblico numero uno di Giulio Tremonti, spiega a liberal come “aggirare” le paure del ministro. Non è un caso, del resto, che Baldassarri ha già trovato l’accordo con la Lega per un emendamento alla Finanziaria che dovrebbe consentire di tagliare l’Irap. «È vero, servono fondi, e il primo punto su cui intervenire è il sostegno alle imprese: nel senso che i fondi devono andare solo a quelle aziende che garantiscono di stare sul mercato».

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di Francesco Pacifico

ROMA. Il balletto continua.

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Ahmadinejad per la prima volta fa aperture concrete alla proposta Aiea

Iran, uno spiraglio sul nucleare «Siamo pronti a scambiare uranio con la Francia» di Pierre Chiartano

ROMA. Teheran ha inviato la risposta. Sul progetto del combustibile nucleare proposto e Vienna, sapremo presto quali condizioni sono state accettate dal regime sciita. Ma intanto ieri mattina, a poche ore dall’atteso incontro di Vienna, il presidente iraniano Ahmdinejad ha dato il via libera allo scambio dell’uranio con la Russia e con la Francia, come chiesto dall’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica. In un discorso tv Ahmadinejad ha detto

che «le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto a una di cooperazione e per questo possiamo collaborare». Ma ha aggiunto che l’Iran non rinuncerà assolutamente ai suoi diritti. L’Aiea ha detto che sono in corso le consultazioni del Direttore El Baradei con tutte le parti in causa «con la speranza che una accordo sulla proposta possa essere raggiunto in tempi brevi».

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

a pagina 14 I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

215 •

Il Paese discute il suo passato mentre è incerto il futuro

Un nuovo patto per rifare l’Italia Dopo 150 anni, l’unità nazionale è di nuovo a rischio. Ed è grave anche la crisi dello Stato

di Ferdinando Adornato e a più di un anno dal una giustizia fondata sulla no2011, centocinquantesi- biltà e sulla dignità della persomo anniversario della na, quel “cuore gentile” che solo nascita dello Stato italia- può fondare le ragioni dello stare no, è già in corso un’accesa di- insieme (dell’amicizia come delscussione sul significato di tale l’amore) diventano, attraverso le ricorrenza, vuol dire che intorno loro “canzoni”, i primi tratti dialla nostra unità nazionale aleg- stintivi dell’essere italiano. Dante giano ancora grandi nodi irrisol- vuole vedere crescere il “desio”di ti. Il passato non è ancora sere- stare insieme a Guido e Lapo. Il namente passato. E il presente, loro “incantamento” è, da allora, incrocio da tutti ritenuto decisi- per noi, la misura di ogni “vita vo, chiede di chiarire, con limpi- nuova”. Dei singoli come della dezza, di cosa parliamo quando nazione. L’aspra denuncia deldiciamo Italia. Proponiamoci un l’assenza di una struttura di coparadosso: se non mando unitaria ed Il convegno di liberal con Ciampi ci fosse più lo Staefficiente (“nave 150 anni to italiano, contisanza nocchiero”) nueremmo ugualin discussione la violenta stigmaComincia oggi alle 11,00 mente a sentirci tizzazione degli a Roma l’incontro “Di cosa italiani? Io credo odi civili che corroparliamo quando diciamo proprio di sì. Perdevano le membra Italia”. Apre una relazione di Adornato (che qui ché è la nazione a della penisola, la anticipiamo) e sono previsti, contenere lo Stato, celebrazione della tra gli altri, gli interventi non viceversa. Del virtù repubblicana di Bondi, Rutelli e Riccardi. Domani chiudono Casini, resto, la nostra è come base della lemons. Fisichella e Ciampi stata, per secoli, gittimazione politiuna nazione senza Stato, unita ca, disegnano, attraverso i loro da quel comune sentire che Gio- versi, la stella polare che ha presuè Carducci ha definito “espres- parato la nostra Unità. Trasforsione letteraria”, che ha permes- mando in profezia i versi del Peso alle nostre terre di collegarsi trarca che ispirarono la pagina fiattraverso la lingua (non certo at- nale del Principe di Machiavelli: traverso i dialetti) già molto tem- Virtù contro a furore po prima di poter raggiungere Prenderà l’arme, l’unione “delle armi e dell’altar”. e fia al combatter corto; E la nostra lingua si chiama ché l’antico valore Dante e Petrarca. Sono loro i fon- nell’italici cor non è ancor morto. datori dell’Italia. L’ontologico bisegue a pagina 9 sogno di libertà, l’orizzonte di

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Ricette/1. Coro di proposte, smentite e controproposte alla Giornata del risparmio. E Napolitano avverte: nuove regole

La danza della Crisi

Berlusconi ribadisce: ne siamo fuori. Ma Draghi risponde: «Senza riforme non ne usciamo». Non possono aver ragione tutti e due... di Francesco Pacifico

ROMA. Il coniglio del cilindro di Giulio Tremonti per uscire dalla crisi è un fondo per sovvenzionare le piccole e medie imprese. Da finanziare con i soldi delle banche. Con gli stessi quattrini che, a dire del ministro, «non vengono trasferiti all’economia reale». Altro che Irap. «Perché in questa fase non conviene», ha sottolineato, «ritoccare la fiscalità se è relativo il beneficio rispetto al prodotto interno lordo». E guai a ricordargli che la Francia l’ha fatto. Lì - la replica - «hanno abolito una tassa per metterne quattro». Nel Pdl, invece, considerano un grande affare per le imprese alleggerirle di un quarto di punto di prodotto interno il totale versato per Irap. E a riprova che l’accordo di Arcore tra il premier e il ministro non è stato ancora ratificato a Roma, ecco al Senato un emendamento congiunto alla Finanziaria tra Popolo della Libertà e la Lega per un taglio del valore di quattro miliardi di euro destinato alle aziende con massimo 50 dipendenti. Tremonti, al momento, conferma che non ci sono i fondi necessari. I gruppi parlamentari del centrodestra insistono. Per capire quanto è delicata questa partita, quale ferite può aprire nella maggioranza, è sufficiente leggere le parole con le quale il viceministro Giuseppe Vegas ha bocciato l’emendamento: «Contrario a malincuore. Nel merito siamo tutti d’accordo. Il prende governo tempo per valutare. Poi in Aula si vedrà...». La commissione ha respinto l’emendamento in modo da portarlo già domani in aula.

M a q u e st o c aos non monopolizza soltanto la dialettica tra il governo e la sua maggioranza. Ieri, in un messaggio di saluto alla Giornata del risparmio dell’Acri, Silvio Berlu-

sconi ha fatto sapere che «il peggio della crisi sembra che sia alle nostre spalle e che sia iniziata, sia pure lentamente, la ripresa». E rende onore «al comportamento tenuto dal sistema bancario italiano che ha affrontato la crisi in condizioni migliori rispetto a quelle straniere». Nel suo messaggio il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, spinge l’Italia, se vuole contenere spesa e tensioni sociali, verso la «definizione di nuove regole e necessarie misure di riforma e rafforzamento delle istituzioni internazionali». Dalla stessa tribuna Mario Draghi, pur riconoscendo che «la

Nel mirino le risorse dello scudo destinate al pubblico impiego

Se gli statali pagano il taglio al balzello delle partite Iva ROMA. Raffaele Bonanni avrebbe già avvertito il governo che «non trovare i fondi per gli aumenti salariali degli statali vuol dire regalare la vittoria alle prossime elezioni della Rsu del comparto alla Cgil». Perché il taglio dell’Irap rischiano di pagarlo proprio i dipendenti del pubblico impiego, con i soldi destinati al loro contratto. La riduzione del balzello voluto da Visco, oltre a spaccare inesorabilmente il centrodestra tra le necessità del rigore e quelle dello sviluppo, rischia di far saltare i buoni rapporti tra l’esecutivo e Cisl e Uil. Un filo costruito degli anni della riforma Biagi, che nel biennio della crisi è stato il principale argine alle tensioni sociali. Al centro del contendere i 2,5 miliardi che servono allo Stato per pagare gli aumenti dei suoi oltre 4 milioni e mezzo di dipendenti nel 2010. Quelli previsti dall’accordo firmato un paio di mesi fa senza la Cgil. Soldi che al momento non ci sono, visto che in Finanziaria sono stati allocati soltanto 800 milioni per la vacatio contrattuale. Nei mesi scorsi ci ci sarebbe stato un impegno non scritto di Giulio Tremonti a impegnare una parte dei proventi dello scudo fiscale, quasi la metà, per pagare gli aumenti dei dipendenti pubblici. Adesso, con il centrodestra al completo che vuole aiutare le imprese, le priorità cambiano e soldi freschi possono essere trovati soltanto in questa partita. Da qualche giorno a questa parte Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ricordano che «prima dell’Irap bisogna intervenire sull’Irpef, sui redditi da lavoro dipendente». Le categorie hanno chiesto un tavolo a Palazzo Chigi sulla riforma. E dietro questi avvertimenti una minaccia che il governo non può permettersi: uno sciopero generale se l’anno prossimo gli statali si troveranno in più in busta paga soltanto i 7 euro della vacatio contrattuale. Dal fronte della Cisl e da quello della Uil si è fatto presente che se il primo datore di lavoro, lo Stato per l’appunto, non conferma le regole del nuovo modello contrattuale, queste non saranno applicate neppure nelle categorie private. Gianni Letta avrebbe garantito a Bonanni e Angeletti «che i soldi per gli aumenti saranno trovati». Giulio Tremonti avrebbe invece allargato le braccia: «Vediamo quello che si può fare». Ricordando che le risorse dello scudo non saranno gestiti da lui, ma finiranno in un fondo di Palazzo Chigi. In questo caos i sindacati hanno però scoperto un alleato imprevisto: il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta. Che si sta battendo come un leone perché escano fuori i 2,5 miliardi di euro necessari. Senza i quali è il primo a sapere che, fannulloni o non, la sua riforma diverrebbe carta (f.p.) straccia.

fase più acuta della crisi è superata», fa notare che «restano deboli i segnali quantitativi, soprattutto sulle componenti interne della domande». Quindi ribadisce che «l’urgenza è riprendere il cammino delle riforme, per riportare il Paese, negli anni avvenire, su ritmi di crescita economica, che sono anche il presidio della stabilità finanziaria. Dalla crisi non si esce con il protezionismo». Concetto ribaltato poco dopo da Giulio Tremonti. Per il ministro la crisi stessa è una conseguenza della globalizzazione. «Si è fermata, anche se in maniera rapsodica, non per gli in-

Il superministro replica con l’idea d’un fondo per le piccole e le medie imprese, finanziato con i soldi delle “nemiche” banche terventi statali. Ma perché si è mosso lo Stato».

Il ministro respinge il pessimismo dilagante, spiegando «che l’Europa ha sancito che il nostro debito (per la cronaca verso il 116 per cento, ndr) è in linea con quello di Germania e Francia». E sul nodo delle riforme ribadisce che non è il caso di toccare le pensioni – anche se in «prospettiva va fatta una riflessione sul rapporto fra giovani e anziani» – mentre decisivo sarà il federalismo fiscale. Perché, ha aggiunto, «l’Italia è l’unico grande paese d’Europa che non ha un meccanismo di controllo democratico della tassazione». E siccome «no taxation without representation», il federalismo fiscale «è fondamentale per introdurre nel sistema elementi di efficienza, di moralità e di legalità». Ospite del cenacolo di Marco Antonellis, il giornalista e scrittore Roberto Ippolito, e autore di Evasori, faceva notare perfettamente quando lo scudo si scontra con la logica di aiutare le piccole e medie imprese: «È l’ennesimo premio per le rendite: perché con questo provvedimento i capitali tenuti all’estero vengono tassati al 5 per cento e chiunque lavori viene colpito con aliquote più alte».


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L’uscita dalla recessione è in forse: parla l’economista Giacomo Vaciago

«Tremonti fa accademia, le aziende sono a rischio» «La cassa integrazione è solo una misura tampone, se le imprese non ripartono non si aggancia la ripresa» di Riccardo Paradisi

Alla Giornata del risparmio, il governatore di Bankitalia Draghi ha chiesto riforme per uscire dalla crisi, come il presidente Giorgio Napolitano. A destra, l’economista Giacomo Vaciago

Giulio Tremonti , quindi, guarda lontano. Invece i suoi alleati si soffermano a scadenze più vicine, a problematiche più prosaiche: il passaggio della manovra al Senato che dovrebbe avvenire la prossima settimana, i primi dati sui fondi per scudo fiscale che arriveranno tra dicembre e gennaio. Innanzitutto l’emendamento di Pdl e Lega per tagliare l’Irap, che costa 4 miliardi di euro. E che impone al governo di dedurre per tutte le aziende, piccole e grandi, il costo del lavoro di cinquanta dipendenti. Tremonti, a quanto pare, spera di frenare i possibili tranelli nel passaggio della maggioranza garantendo al fronte ex An lo sblocco dei fondi per Roma Capitale e raggranellando un centinaio di milioni per il comparto sicurezza. Eppure il taglio fiscale alle imprese diventerà centrale quando arriveranno i soldi dello scudo fiscale. Tremonti prova a blindare questo tesoretto. Fa notare ai critici che «la parte più cospicua non riguarda la sanatoria, ma il semplice rientro di capitali. Quelli che finiranno per salvare i nostri capannoni». Se non bastasse, promette al governatore Mario Draghi un chiarimento sull’obbligo di segnala-

zioni delle banche all’autorità: «Aggiusteremo con voi la circolare».

Ma la politica non nasconde le sue mire. E attraverso Gianfranco Fini manda un messaggio chiaro: «Ho detto a Berlusconi che non c’era nessuna ragione perché Tremonti diventasse vice presidente del Consiglio. La soluzione trovata mi pare del tutto soddisfacente: un organismo collegiale presieduto da Tremonti verificherà come coniugare rigore e sviluppo». Soltanto il tempo dirà se ci sarà o meno la collegialità agognata dal Pdl. Intanto Tremonti studia, con l’appoggio delle Fondazioni, «uno o più fondi di assistenza all’impresa per il rapporto debito e patrimonio». Il progetto è allo vaglio di un’apposita commissione di via XX settembre. «Avremo fra due o tre settimane un primo schema di lavoro, dovrà essere una struttura compatibile con il mercato, ci sarà la Cassa Depositi e Prestiti». A dare i soldi necessari saranno le banche. Anche perché – avverte – alla loro partecipazione è legato un adattamento del regime fiscale»: quegli ammortamenti fiscali che il settore chiede da tempo per le perdite legate alla crisi.

ROMA. Continua il braccio di ferro all’interno della maggioranza sul taglio dell’Irap. A chi come Pdl e Lega continua a proporre in Senato un primo taglio dell’imposta regionale alle imprese fino a 4 miliardi di euro il Tesoro continua a rispondere che non è possibile, che le risorse non ci sono. Come se ne esce? «Sicuramente non con i veti e i non si può fare», dice a liberal Giacomo Vaciago, ordinario di politica economica alla cattolica di Milano. Dal Tesoro professore dicono che i soldi non ci sono. Non subito almeno. Proviamo a riassumere cosa è successo in questi ultimi anni e cerchiamo di avere chiaro il quadro che abbiamo di fronte. C’è una crisi nata in finanza e diventata una recessione nel primo trimestre del 2008. Questa crisi esplode come crisi manifatturiera nell’ottobre 2008. Dopo di che la crisi finanziaria rientra. Rientra talmente che oggi c’è chi teme già la nuova bolla. La recessione è finita già nel terzo trimestre. Il Pil americano di oggi è tornato al 3,5%. Le Borse negli ultimi sei mesi sono tornate a correre. Cosa è rimastro del crack? Investimenti industriali a meno 15, export e produzione industriale a meno 20 cassa integrazione e rischio concreto di ristrutturazione licenziamenti. Il problema italiano oggi è questo. Ora abbiamo la fotografia del presente e il percorso di come siamo arrivati a questo punto, abbiamo il contesto insomma. Che fare allora professore? Fare qualcosa, governare la crisi e il Paese, rilanciare. Non limitarsi a dire non ci sono le risorse. È un anno che Confindustria lancia l’allarme per un milione di imprese. Non mi sembra che il governo abbia fatto molto. Beh sono stati garantiti gli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione sta evitando molti licenziamenti. Ma la cassa integrazione non salva le aziende, non garantisce il loro futuro. Non è che la cassa integrazione fa uscire l’industria dal rosso dei conti. Da un anno l’industria manda a dire che il governo per cui ha fatto il tifo che dovrebbe lavorare per lei e quindi per tutti. A me sembra che Tremonti non capisca questa musica, forse per dei limiti strutturali: è un uomo di terziario avanzato, non ha una sensi-

bilità per l’industria, tanto che dagli industriali non è così amato. Lei dice che si tratta di fare, ma cosa? Sarkozy in Francia fa politica industriale da due anni, ha selezionato settori per finanziarli e costruire il futuro. Non ha detto ai francesi portate indietro i soldi dalla svizzera. In Italia c’è chi propone il taglio dell’Irap. È una mossa. È uno dei possibili strumenti per ripartire. Invece il Tesoro dice no, non si può, non ci sono le risorse. Ma questa non è una risposta, è l’ammissione di un fallimento. I ”no” non sono governare. Io non ho pregiudizi, ma chi dice di no deve trovare un alternativa per far ripartire le imprese. Puoi tagliare le tasse come in Germania, puoi fare politica industriale come in Francia, ma non puoi affidarti alla divina provvidenza. Tremonti, che si paragona a Ricasoli e alla destra storica le risponderebbe che il debito pubblico italiano non consente queste soluzioni. Ma questa è la scusa per non fare niente. Nel migliore dei casi è fare accademia. Di fronte a una richiesta devi dare una risposta Il presidente della commissione Finanze, Mario Baldassarri, ha presentato nei giorni scorsi una serie di emendamenti che tra taglio dell’Irap e sconti fiscali alle famiglie vale circa 37 miliardi. Si può fare secondo lei, è una strada? È un’altra possibile alternativa. Lo stesso governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto che le riforme per ridurre la spesa e rilanciare la produttività si dovrebbero fare. Se si vuole incidere sul debito pubblico occorre far ripartire l’economia, altrimenti si stagna. La sinistra radicale chiede agevolazioni per i lavoratori più che per le imprese, il centro, pure favorevole al taglio Irap, chiede politiche per le famiglie. Qual è secondo lei la vera priorità? La priorità è sempre l’impresa. I lavoratori che pensano che se l’industria fallisce loro resteranno comunque in cassa integrazione si sbagliano. Se le industrie chiudono loro vanno a casa. Le politiche famigliari sono importantissime e in Francia per esempio Sarkozy sta facendo anche quelle ma assieme alle politiche industriali. In Italia la priorità è impedire la deindustrializzazione del Paese. Poi magari ragioniamo sulle politiche famigliari.

Puoi tagliare le tasse come fa la Merkel in Germania, puoi fare politica industriale come fa Sarkozy in Francia, ma non puoi sempre dire ”non si può” e affidarti solo alla provvidenza


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Ricette/2. Con i tagli alle tasse e l’intervento sui fondi alle imprese, il presidente della commissione Finanze del Senato ha rivoluzionato la manovra

«Così smentirò Tremonti»

«Nessuno vuole toccare il deficit, come teme il ministro: vogliamo solo rimodulare spese e entrate»: Baldassarri spiega la sua strategia di Errico Novi

ROMA. Lo spiraglio c’era, dunque: bastava cercarlo. Mario Baldassarri presenta sereno i suoi emendamenti «per tenere insieme rigore e sviluppo», in commissione Bilancio ottiene il sostegno di tutto il Pdl e della Lega sulla riduzione dell’Irap. Soprattutto, il presidente della commissione Finanze di Palazzo Madama, di fronte ai timori di Giulio Tremonti, fa emergere che «il confronto e il ragionamento spingono tutti a contribuire a questo duplice obiettivo, preservare i conti e favorire il sostegno all’economia». Ha già incassato un risultato: dimostrare che nel Pdl si possono aprire spazi dialettici senza dimissionare nessuno. È così. A condizione di respingere tutti insieme il partito dell’assalto alla diligenza. Cosa vuol dire esattamente? Vuol dire che se le proposte sono senza un euro in più di deficit, se sono scelte politiche su dove reperire e dove destinare le risorse senza firmare cambiali a babbo morto, si raggiungono effetti positivi. Ci vuole responsabilità e serietà, perché il resto è demagogia. Basterà la convergenza di tutta maggioranza per far arrivare fino in fondo questa riduzione dell’Irap?… Mi auguro di sì. …o le perplessità del Tesoro sono, da sole, così forti da sbarrare tutto? Le perplessità del Tesoro sono legittime e vanno condivise quando si tratta di aumentare il deficit. Quando invece non si tocca il deficit ma si propone di rimodulare la spesa e rimodulare le entrate, queste perplessità dovrebbero non esserci. La chiave di volta è: interveniamo sui WASHINGTON. Non sarà tutto metrasferimenti alle imprese. rito di Obama, certo, ma resta il Sì, trasformandoli: i finanziamenti a fondo fatto che mentre i numeri dell’economia italiana sono tutti in negativo, i «pacchetti di stimolo» varati dal governo Usa danno i primi frutti sperati e permettono all’economia a stelle e strisce di mettere a segno una crescita del 3,5% nel terzo trimestre dopo quattro trimestri in rosso. Si tratta del miglior risultato dal terzo trimestre 2007. Se questo dato sarà confermato nelle successive due letture, che il Dipartimento del Commercio divulgherà nei prossimi mesi, vorrà dire che l’economia Usa si sarà definitivamente tirata fuori dal tunnel perduto diventano credito d’imposta che della peggiore recessione dai temviene spalmato negli anni. In questo modo pi della Grande Depressione. La chiediamo alle imprese un atto di serietà, crescita economica è stata spinta perché diciamo: lo Stato vi aiuta però voi da una ripresa dei consumi e da un dimostrate di essere sul mercato. È una forrimbalzo nel settore immobiliare. I mula concepita nell’ assoluto rispetto delle consumi, che rappresentano il regole europee. 70% del Pil Usa, andando oltre le Ci faccia capire: così in pratica viene più rosee previsioni hanno regi“tagliata fuori” quella parte delle imstrato un rialzo del 3,4%, facendo prese che prende i soldi e scappa. segnare l’incremento più forte in È così. Vengono eliminati tanti finanziaoltre due anni. Il rialzo dei consumenti che nel corso degli ultimi trent’anni mi, spiega il Dipartimento del non hanno dato sviluppo e forse, anzi, hanCommercio, è, tuttavia, da attribuino dato sostegno alle organizzazioni crire soprattutto al programma di rotminali. Immaginiamo l’obiezione: così si to-

glie liquidità immediata a chi in questa fase ne ha urgente bisogno. Ma infatti abbiamo escluso gli start-up e l’imprenditoria giovanile e femminile. Sono stati messi al riparo il trasporto pubblico locale e le Ferrovie. E siccome non abbiamo ‘trasformato’ tutti, e i fondi prodotti sono circa 24 miliardi all’anno, in realtà la nostra proposta prevede che vengano convertiti in credito d’imposta solo 6 miliardi. C’è un regolamento che assegna al Tesoro la facoltà di valutare quali far restare ancora a fondo perduto tra le nuove iniziative. È una piccola rivoluzione, rispetto alla Finanziaria iniziale. Questo è un tassello di una più complessiva strategia di politica economica che abbiamo presentato con un emendamento più generale, fatta di tagli alla spesa e tagli alle tasse. Discuteremo anche questo. Non sarà impresa semplice. Non intendiamo fare tutto e subito, ma riteniamo di poter delineare subito le linee di politica economica da oggi ai prossimi anni, per affrontare la ripresa e sostenere l’occupazione. Cominciamo subito con l’Irap, dopodiché bisognerà certamente pensare alle famiglie. E su questo, presidente, avreste il sostegno dell’Udc, che da tempo chiede di introdurre il quoziente familiare. C’è appunto un altro nostro emendamento che comincia a introdurre il coefficiente familiare con le deduzioni. Anche quello totalmente coperto dai tagli di spesa. In questo secondo caso si tratterebbe di ridurre l’acquisto di beni e servizi: in che modo, per esempio? tamazione delle auto e, aggiunge il Con il taglio degli acquisti del settore sanirapporto, l’impennata del 22% neltario che sono aumentati del 50 per cento l’acquisto di beni durevoli, incluse negli ultimi 4 anni e che non hanno niente le auto, rappresenta il balzo più a che vedere con salute dei cittadini. Ci soforte dal 2001. no quattro miliardi di euro l’anno che tutti In particolare, nel settore immobinoi buttiamo perché ci costringono a teneliare si è registrato un balzo del re intere scatolette di pillole, anche se ne 23% nella costruzione di nuove caconsumiamo solo tre o quattro. se nel trimestre scorso grazie alla Come quella sul credito d’imposta, è domanda per nuove abitazioni. un’idea che sembra pensata apposta Domanda sostenuta da un credito per arginare le clientele. fiscale di 8.000 dollari per coloro Esattamente: ho detto più volte che è temche comprano casa per la prima po di scegliere tra gli interessi legittimi e volta. Al netto delle auto, produziospesso illegittimi di 100-200mila persone ne e scorte, il Pil Usa nel terzo triche navigano nei meandri e l’interesse di mestre segna una crescita 57 milioni di cittadini. dell’1.9%, conclude il rapporto. Le resistenze saranno forti: forse può La Casa Bianca ha dato il ”benveappena aiutarvi il fatto che un po’ di nuto” a queste notizie così evidenamministrazioni locali stanno per camtemente positive, ma allo stesso biare. tempo l’amministrazione Obama Queste congreghe, questi intrecci di inteha avvertito che resta molto lavoro ressi di cui lei parla sono trasversali. da fare, prima che il quadro comIl ministro dell’Economia non sembra plessivo si ripristini pienamente e uno tollerante verso degenerazioni siche la disoccupazione inizi a calamili. re sensibilmente. «I dati del pil moAbbiamo fatto più volte battaglie insieme strano che la recessione si sta calproprio su questo. mando» ha detto Obama, osserMa la ritrosia del Tesoro ha o no un vando comunque come «la strada fondamento? è ancora lunga per risollevare il Via XX Settembre si preoccupa che alla fimercato del lavoro e per una piena ne della giostra qualcosa in termini di defiripresa dell’economia». cit ci possa scappare. È su questo che bisogna offrirgli garanzie.

Obama: «Bene! Ma la strada è ancora lunga»

E il Pil Usa vola: +3,5%

Il rigore senza sviluppo diventa masochismo, ma lo sviluppo senza equilbrio è follia demagogica. Il comitato economico del Pdl? Solo in Urss di fronte ai problemi si creavano nuove agenzie…


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Non regge più il gioco «taglio dell’Irap sì, taglio dell’Irap no»

Spendere o risparmiare? Non è questo il problema L’unica vera ricetta per uscire dalla crisi è avviare un piano serio di riforme in grandi di cambiare la spesa e il rigore di Enrico Cisnetto a l’Irap si taglia dopo che è finita la crisi o, al contrario, serve a uscire dalla crisi? E, nel primo caso, quello sponsorizzato dal premier, perché non si interviene subito visto che il Governo ha detto e ripetuto che la crisi è finita e noi ne usciamo meglio degli altri? E, nel secondo caso, perché non si è tagliata nei mesi scorsi e anche ora si rinvia a data da destinarsi? Come si vede sarà anche stato raggiunto un accordo tra Berlusconi e Tremonti, sarà pure di ferro quel patto – anche se a dubitarne sono per primi i ministri e gli esponenti politici del Pdl, e in qualche misura della Lega – ma le contraddizioni in seno all’esecutivo sulla politica economica sono ancora tutte lì, e pesano come macigni sul prosieguo della legislatura. Le esternazioni di Berlusconi sull’inattualità non dico dell’eliminazione, ma pure di una parziale riduzione della tassa più odiata dagli imprenditori – uscita che mi aspetto venga severamente sanzionata dalla Confindustria, se non vuole perdere credibilità – ha confermato che nel governo e nella maggioranza si sono confrontate due linee di politica economica, e che entrambe sono sbagliate. Da un lato, infatti, il ministro dell’Economia si è fatto – giustamente – paladino della salvaguardia di conti pubblici, impedendo ai suoi colleghi e allo stesso Berlusconi di incrementare la spesa pubblica. Impegno che Tremonti si era preso con l’Europa, e rispettarlo non è cosa di poco conto, e al cospetto dei mercati finanziari, che nel pieno della crisi guardavano in modo severamente selettivo alle emissioni obbligazionarie degli Stati – tanto che il differenziale tra i rendimenti dei nostri Btp decennali e il benchmark rappresentato dagli analoghi bund tedeschi era schizzato a livelli da allarme rosso – e che anche ora giudicano eccessivo il debito italiano.

M

Il superministro Giulio Tremonti continua ad essere al centro di una battaglia sulla politica economica condotta, in primo luogo, dal suo collega di partito Mario Baldassarri in Commissione Finanze E le garanzie ci sono tutte? Su questi specifici provvedimenti non mi pare ci siano ragioni fondate di preoccupazione. Com’è che la Lega vi è venuta dietro? Nel teorema ‘meno spesa meno tasse’ c’è il codice genetico sia della Lega che del Pdl. Solo che il Carroccio sembrava più tenace nell’assecondare la prudenza di Tremonti, perciò la scelta sembra sorprendente. Io non sono sorpreso. Su quelle posizioni di difesa del ministro Tremonti rispetto al rigore finanziario io stesso sono stato sempre in prima fila, quindi non mi sorprende che la Lega sia in prima fila anche ora, nella ricerca dell’equilibrio e della contemporanea attivazione delle risorse per favorire crescita e sviluppo. E allora è Tremonti che è troppo preoccupato. Fa bene ad esserlo, la situazione dei conti pubblici italiani non è da prendere sotto gamba. Devo dire che il confronto e il ragionamento spinge tutti a contribuire a questo duplice e necessario obiettivo: rigore e sviluppo. Posso aggiungere una battuta? Ci mancherebbe. Il rigore senza sviluppo diventa masochismo, ma lo sviluppo senza rigore diventa follia demagogica. Solo per inciso: lei farà parte del comitato economico del Pdl? Sono più affascinato dai problemi e dalle proposte di soluzione dei problemi che non dagli organigrammi e dagli apparati. Era la vecchia Unione sovietica che di fronte a un problema creava un’agenzia: è una cosa molto di sinistra. Con il suo gruppo di senatori lei ha riaperto il dibattito interno al Pdl. Il contributo a mio parere più importante è che finalmente, dopo mesi di gossip, il confronto avviene nelle commissioni e nell’Aula del Senato, e riguarda temi che interessano molto di più lavoratori e cittadini. Su questo l’obiettivo è in ogni caso raggiunto.

che evitare l’aumento di deficit e debito si traduca inevitabilmente nel “non spendere”. Perché gli oppositori del ministro, interni (molti) ed esterni (pochi) al centro-destra, hanno ragione quando affermano che per fronteggiare la recessione, che peraltro si salda con la stagnazione e la perdita di competitività preesistenti alla crisi, e per agganciare la ripresa prossima ventura occorre aprire i cordoni della borsa. Salvo poi sbagliare – in modo speculare rispetto al ministro dell’Economia – nel chiedere risorse senza indicare, se non in modo generico, la copertura di spesa.

La verità, dunque, è un’altra: occorre uscire dallo schema “spesa-rigore” e affrontare il tema delle riforme strutturali. E’ di quelle che abbiamo bisogno, ed è attraverso le riforme che si possono trasformare pezzi importanti di spesa pubblica corrente e improduttiva in investimenti per lo sviluppo. Come ho già scritto su questo giornale, l’errore più grave fin qui commesso dal governo è teorizzare che con la crisi economica in atto non si può e non si deve fare alcun intervento di natura strutturale. Al contrario, sarebbe stato necessario approfittare della crisi e della condizione psicologica di paura che essa ha generato per fare quattro riforme (pensioni, sanità, semplificazione istituzionale, riduzione una tantum del debito pubblico) che oltre ad essere necessarie in sé possono produrre a regime un volume di investimenti – che io stimo possa arrivare a 200 miliardi e forse anche superarli – funzionali a trasformare il capitalismo italiano e il suo modello di sviluppo, che purtroppo negli anni scorsi non si sono adeguati, tranne l’eccezione di qualche minoranza, ai nuovi paradigmi della competizione globale. Ma il fatto che si sia perso quell’occasione non significa che occorra archiviare la pratica. Anche perché negli italiani la paura è forse passata, ma la preoccupazione resta, eccome se resta. Allora, se la diatriba interna al governo dovesse spingere palazzo Chigi a fare quello che colpevolmente non ha fatto nei mesi scorsi, sia la benvenuta. Ma se, come fa intuire la marcia indietro del premier sull’Irap, lascia le cose come stanno, o peggio mette in condizione Berlusconi di strappare a Tremonti il sì a un po’ di spesa a scopo elettorale – in vista o di elezioni politiche abbinate alle regionali, che rimane pur sempre la prima scelta del Cavaliere, o comunque per trasformare le amministrative in un referendum su se stesso – allora questo ennesimo litigio non sarà servito a nulla, se non a permettere a quel furbone di Bossi di strappare Veneto e Piemonte (o addirittura la Lombardia) al Pdl. Cosa che certo non aiuta la povera economia italiana. (www.enricocisnetto.it)

Nel governo ormai si confrontano due politiche economiche differenti: una mira al controllo dei conti, una all’apertura dei cordoni della borsa. Ma entrambe in realtà sono sbagliate

Nobile intento, dunque, quello di Tremonti, ma che sconta tre gravi difetti. Il primo è che nel riaffermare il principio del controllo della spesa – oltre a perseguirlo con qualche ruvidezza di troppo – il ministro ha finito col non distinguere, e ha detto di no anche a proposte o che avevano copertura o che pur costando qualcosa avrebbero potuto comportare vantaggi più che compensativi. Il secondo difetto consiste nel fatto che anche la difesa dei conti pubblici rischia di saltare se non c’è sviluppo. A Bruxelles si guarda non l’entità assoluta del deficit e del debito, bensì quella relativa al pil, ed è la caduta quest’anno e la non ripartenza nel 2010 e 2011 di questo che rischia di mettere l’Italia troppo fuori dai parametri europei. E questa osservazione ci porta al terzo difetto: la risposta alle pressioni di spesa non può essere semplicemente “non possumus”. Qui sta l’errore più grave di Tremonti: l’idea


diario

pagina 6 • 30 ottobre 2009

Astri nascenti. Il più pittoresco dei leader leghisti sempre più spesso è al centro di contestazioni nella maggioranza

Il Calderoli della discordia

L’iperattivismo del ministro ha fatto litigare Bossi e Berlusconi te verso i territori della Serenissima, da sempre bacino di voti per la Lega e altrettanto da sempre sottorappresentati ai vertici del partito, mentre il cuore leghista è lombardo, anzi varesotto. I “colonnelli” verdi, per capirci, non hanno intenzione di esaurire i crediti col Pdl per fare di Luca Zaia – o chi per lui – il più accreditato nella linea di successione a Umberto Bossi.

di Marco Palombi

ROMA. Una volta disse: «Se Bossi mi dice di espellermi dalla Lega, io mi espello». Il Beria di Bergamo, al secolo Roberto Calderoli, pochi giorni fa ha dovuto accettare un’imposizione minore, ma nel solco di quella sempiterna dichiarazione d’incrollabile fedeltà: Bossi glielo ha detto e lui s’è autoespulso dall’incontro tra il Senatur e Silvio Berlusconi ad Arcore di martedì.

Il dentista che in questi mesi si dedica alla semplificazione normativa è infatti riuscito laddove schiere di avversari avevano fallito: far litigare di brutto il suo capo e il presidente del Consiglio. Il Cavaliere s’è convinto, non a torto, che è stato Calderoli a “incasinare” l’affaire Tremon-

Tutto a posto alla fine - anche se attorno alle regionali ancora s’aggirano appetiti poco conciliabili - ma resta che il leggendario fiuto politico di Bossi comincia a fare cilecca: s’è fatto trascinare da un suo ministro in un vicolo cieco da cui non ha ottenuto nulla di più, in termini di candidature, di quanto il Cavaliere non gli avesse già concesso a suo tempo. Non solo, s’è pure ritrovato il partito spaccato – soprattutto gli amministratori locali strozzati dal rigido patto di stabilità interno – per l’appoggio alla politica di rigore di Tremonti. Il Senatur insomma, per la prima volta a memoria di leghista, s’è in sostanza fatto trascinare in una competizione interna al Carroccio senza una strategia chiara. Tutta

Al vertice di Arcore di martedì scorso, il premier ha preteso che il Senatùr fosse accompagnato da qualcun altro. E Umberto è arrivato con Cota ti facendo trapelare ai giornali, prima dell’incontro di sabato scorso, la richiesta di promuoverlo vicepremier, richiesta di cui – si dice – il ministro dell’Economia non era stato nemmeno avvertito preliminarmente. Il risultato è stato comunque un fatto storico: il Pdl - anche se nel modo che è concesso ad un’azienda familiare - s’è scoperto un partito autonomo dal governo e ha provato a commissariare «l’uomo che aveva previsto la crisi» (o almeno così dice lui) finendo però solo per riportare in auge quel lessico da Prima Repubblica – collegialità, cabina di regia – che dà l’orticaria, o la scarlattina, a Berlusconi. Quando poi martedì s’è trattato di discutere la pace tra il premier e il suo superministro, Calderoli ha assaggiato l’ira del capo: Bossi ha chiamato il Cavaliere per annunciargli il suo arrivo col fido bergamasco, ma il padrone di casa ha posto il veto. «Calderoli qui non viene». Il senatur ci ha pensato un po’ e poi, previo consenso dell’ospite, s’è portato dietro un altro Roberto. Cota.

la fibrillazione di questi giorni infatti nasce dal complicato gioco a incastro delle candidature alle prossime regionali. Berlusconi, a suo tempo, aveva promesso a Bossi il Veneto e il Piemonte (ma solo se avesse convinto anche gli altri): andasse così, e dando per scontata la vittoria del centrodestra nel nordest, l’asse del potere all’interno del Carroccio si sposterebbe drammaticamen-

Accordo per il capogruppo alla Camera

E Bersani sceglie Letta ROMA. Enrico Letta sarà con ogni probabilità il prossimo capogruppo del Pd alla Camera. Lo confermano fonti della nuova maggioranza interna: «Stiamo andando in quella direzione». L’area che fa riferimento all’ex sottosegretario di Romano Prodi è ancora più netta: «Per noi Enrico è un punto fermo». Tramonta presto, insomma, l’ipotesi che sulla sedia lasciata libera da Antonello Soro dopo le primarie torni a sedersi lo sconfitto Dario Franceschini. Solo l’idea aveva mandato in bestia quello che si potrebbe definire sottobosco dalemiano, che dal 25 ottobre non fa che sorridere: «Sarebbe ridicolo, inaccettabile, un pateracchio, uno sfregio agli elettori delle primarie», scandiva ieri

la Velina Rossa, foglio di rotonde simpatie ex piccì. L’arrivo di Letta, peraltro, significherebbe anche il ritorno sulla poltrona di capogruppo di una figura politica di primo piano, leader di un’importante area culturale del partito, dotato di autorevolezza rispetto ai colleghi e capacità di autonoma iniziativa politica. Al Senato, invece, la situazione è più complessa per via dei numeri: la mozione Franceschini ha più senatori e i bersaniani dovranno trovare «la mediazione possibile». Nel mirino risultano gli ex dc di rito mariniano, ma per il momento nomi sicuri non ce ne sono: potrebbe alla fine, per quella capacità che hanno le situazioni di complicarsi fino all’impossibilità di muoversi, anche restare Anna Finocchiaro, ma in molti puntano a sfilarle il posto. Tra questi, nota di colore, Nicola Latorre, il dalemiano con più anni di servizio ancora in attività.

L’orizzonte ideale di Calderoli e dei lumbard è, dunque, uno solo: “prendiamoci il Pirellone”, inteso come il palazzo che ospita il governo regionale a Milano. Trattasi, peraltro, di idea non peregrina se è vero che gli stessi vertici del Pdl, in camera caritatis, ammettono che qualche possibilità che la partita si riapra a sfavore di Roberto Formigoni ancora c’è. Lo spazio politico, dopo il blitz andato a male del chirurgo maxillo-facciale bergamasco, è compromesso: lo stesso Berlusconi avrebbe detto seccamente che non se ne parla. A via Bellerio, però, spiegano che “quello che è chiuso si può sempre riaprire”e che tra i poteri dello Stato non c’è solo la politica. E’ un modo, assai poco sottile in verità, di alludere alla magistratura: fonti leghiste infatti, che però trovano riscontro anche a via dell’Umiltà, s’aspettano novità di rilievo dall’inchiesta sulla bonifica dell’area Santa Giulia. Meno di due settimane fa i magistrati hanno ordinato cinque arresti, compresi quelli di Giovanni Grossi, patron della società di bonifiche Sadi, e dell’assessore pavese Rosanna Gariboldi, rispettivamente amico e moglie di Giancarlo Abelli, detto il “ras del Ticino”. Deputato del Pdl e braccio destro di Sandro Bondi al partito, Abelli è il vero artefice della riforma sanitaria di Formigoni, con cui però i rapporti non sono più quelli, idilliaci, di una volta. Prova ne sia l’esilio romano del “ras”, che progetta da tempo di tornare a Milano da trionfatore. Il contrasto Formigoni-Abelli, unito a possibili sorprese giudiziarie per entrambi, danno ancora qualche speranza ai lumbard di non morire “veneti”. Aspettando gli eventi, però, anche il Piemonte è tornato in ballo: Enzo Ghigo può vincere, abbiamo i sondaggi, fa sapere il Pdl. Se non bastasse Calderoli ancora non ha trovato il modo di strappare un sorriso a Berlusconi.


diario

30 ottobre 2009 • pagina 7

Fazio: «Italia e Spagna sono i Paesi più colpiti dal virus»

Ma l’Unione petrolifera reagisce: «Accuse fantasiose»

Influenza A: altri due morti in Campania

Benzina oltre quota 1,33: proteste dei consumatori

ROMA. L’influenza A/H1N1 con-

ROMA. Prosegue la politica dei

tinua a fare vittime ed è ancora una volta la Campania a registrare i decessi. Nel capoluogo partenopeo, infatti, a distanza di un solo giorno dal medico napoletano Claudio Petrè, di 56 anni, sono morti Marcello Calì, di 50 anni e Francesco Esposito, di 64. Il primo, un detenuto proveniente dal carcere di Poggioreale era obeso e sofferente di broncocreumopatia ostruttiva cronica, mentre Esposito, pensionato, è giunto in ospedale già debilitato a causa di altre patologie. Eugenio Campanile, un medico 73enne affetto da gravi patologie respiratorie è morto invece nel primo pomeriggio di ieri. Sempre a Napoli, all’ospedale Cotugno, si fanno sempre più preoccupanti le condizioni di altri 4 pazienti affetti dall’influenza A: sarebbero infatti ricoverati con la prognosi riservata a causa di un quadro clinico molto complesso.

piccoli passi al rialzo sulla rete carburanti, con il sorpasso di quota 1,33 euro al litro sulla benzina; per il gasolio i rialzi si attestano a quota 1,168 euro al litro. Secondo i rilievi della “Staffetta”, dai mercati dei prodotti raffinati del Mediterraneo arrivano segnali di allentamento della tensione sui prezzi, sia per la benzina che per il gasolio. Non mancano le proteste delle associazioni dei consumatori. «L’andamento dei prezzi della benzina ha dell’inverosimile dichiarano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, Presidenti di Federconsumatori e Adusbef - infatti tornano ad aumentare, superando quota 1,33 euro al litro, proprio mentre il costo del pe-

Tra di loro anche una donna che ha da poco partorito con il cesareo: «Sono tutti sotto controllo», ha comunque assicurato Antonio Giordano, direttore generale dell’ospedale Cotugno. Salgono dunque a 5 le vittime del virus a Napoli: nella

Le toghe in agitazione preparano lo sciopero «Basta offese dal premier: non siamo rossi né neri» di Francesco Capozza

MILANO. «La giustizia non ha bisogno di riforme punitive contro i magistrati, che hanno l’unica colpa di aver emesso sentenze nell’esercizio delle loro funzioni». Lo ha affermato ieri il presidente dell’Anm, Luca Palamara, dal Palazzo di Giustizia di Milano dove ha partecipato all’assemblea straordinaria del sindacato delle toghe. L’Associazione Nazionale Magistrati, ha proseguito Palamara, «non dice sempre no». Il presidente del sindacato delle toghe ha ricordato infatti il giudizio positivo dato alla riforma del processo civile e alla mediazione conciliativa. La giustizia però, ha aggiunto Palamara, «ha bisogno di urgenti riforme e di quelle che interessano ai cittadini, per avere processi più veloci, sia nel civile che nel penale». Ai cronisti che gli chiedevano se l’associazione stia andando verso uno sciopero, Palamara ha risposto: «forme di protesta non sono escluse». Il presidente dell’Anm è entrato poi nell’aula magna del Palazzo di Giustizia dove si è poi svolta l’assemblea, come in tutti gli altri distretti giudiziari, in segno di protesta contro gli attacchi alla magistratura e l’annuncio di riforme ritenute «punitive» dall’Anm.

cariche dello Stato a Roma, di cui parlavano ieri diversi organi di stampa, sia «una riforma utile per la giustizia». «Non possiamo andare dietro a tutti gli annunci, bisogna vedere i testi scritti ma sono convinto che non è di queste riforme che la giustizia ha bisogno per il suo funzionamento». Palamara, nel corso del suo intervento all’assemblea dell’Anm a Milano, ha inoltre inteso esprimere solidarietà a Raimondo Mesiano, il giudice che ha deciso nella causa Lodo Mondadori e oggetto, nei giorni successivi, di un’ «inaccettabile intrusione nella vita personale».

«Non vorrei che un indumento (il riferimento è evidentemente ai calzini color turchese che il giudice indossava quando venne ripreso in un servizio televisivo, ndr) diventasse un pretesto per denigrare l’intero ordine giudiziario. Vorrei che da questa assemblea venisse un messaggio chiaro: che l’indumento del magistrato è solo la toga e che il magistrato è soggetto solo alla legge e ai principi contenuti nella Costituzione». Intanto, la Giunta milanese dell’Anm, al termine dell’assemblea straordinaria a Palazzo di Giustizia di Milano ha deciso di chiedere alla Giunta centrale del sindacato delle toghe la proclamazione di due giornate di mobilitazione dei magistrati. La Giunta milanese, attraverso un documento, ha inoltrato la richiesta di due giornate di mobilitazione alla Giunta centrale che dovrà poi decidere. I magistrati milanesi hanno specificato che nelle giornate di mobilitazione «gli uffici giudiziari saranno aperti alla società civile» per mostrare la necessità di riforme necessarie a mantenere vivo il sistema giudiziario. Sempre ieri, parlando di giustizia, il sottosegretario Paolo Bonaiuti ha sottolineato come «Berlusconi ha detto, con grande tranquillità, di essere pronto ad affrontare i processi che lo vedranno impegnato, anche se questo gli porterà via del tempo dall’attività di governo» e ha chiarito che «sul “Lodo Ghedini” siamo a livello delle chiacchiere di Repubblica, non c’è nulla di concreto”.

Bonaiuti getta acqua sul “Lodo Ghedini”: «Sono soltanto chiacchiere, ancora non c’è nulla di concreto»

notte tra il 3 ed il 4 settembre scorso, era infatti deceduto un uomo di 51 anni, residente nel quartiere di Secondigliano. Campanile è invece la decima vittima italiana del virus. Intanto, i sanitari sottolineano: il virus H1N1 è solo una concausa perché tutti i deceduti avevano un quadro clinico già compromesso. Nella notte tra mercoledì e giovedì, inoltre, a Cernusco sul Naviglio (Milano) una donna di 74 anni è morta di polmonite. È però risultata positiva anche al virus H1N1. Si tratta della prima vittima dell’influenza A in Lombardia. «L’Italia con la Spagna è il Paese col maggior numero di casi di influenza A: 380 ogni 100mila abitanti», ha fatto sapere il viceministro della Salute Ferruccio Fazio, che ha però ricordato che l’influenza A è comunque lieve.

I pm non possono essere distinti «tra rossi e neri» ha aggiunto Palamara in riferimento alle affermazioni di Silvio Berlusconi che nei giorni scorsi aveva definito i pm milanesi «comunisti». «Non siamo in guerra, né in scontro con nessuno», aggiungendo che nell’ultimo periodo «sui giornali e sulle televisioni assistiamo a una costante denigrazione della Magistratura, fino ad affermare che i tribunali sono sezioni di partito». Questa assemblea, ha proseguito Palamara, non deve essere scambiata per una manifestazione «vetero-sindacale». Noi, ha concluso il presidente dell’Amn, «diciamo no a riforme punitive contro la Magistratura», tra le quali Palamara ha citato quella sulla separazione delle carriere, quella del Csm o quella sulla revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è da dire che il presidente dell’Anm non ritiene che l’ipotesi di un trasferimento dei processi per le più alte

trolio sta scendendo.Torniamo a ribadire, quale misura inderogabile, la necessità di una decretazione d’urgenza che elimini ogni possibile impaccio burocratico che ostacola l’apertura di stazioni di rifornimento presso la grande distribuzione».

«Nonostante l’euro forte sul dollaro e il calo del petrolio i prezzi dei carburanti sono in costante aumento - dichiara Carlo Pileri, Presidente dell’Adoc - un danno enorme agli automobilisti che ogni anno spendono oltre 2.500 euro solo per i carburanti. È necessario e urgente un taglio di 10 centesimi sia delle tasse che del prezzo del prodotto industriale, per complessivi 20 centesimi, chi possiede un’auto a benzina spenderebbe in media 360 euro in meno l’anno, mentre con un’auto a gasolio si risparmierebbero 180 euro». Alle associazioni dei consumatori risponde l’Unione petrolifera, secondo cui «nel solo mese di ottobre, il prezzo della benzina è risultato inferiore di oltre 4 centesimi rispetto ad agosto con un risparmio di 2-3 euro per un rifornimento di 50 litri». «Basterebbero questi dati, oggettivi e verificabili - dichiarano i petrolieri - per smontare le nuove fantasiose accuse».


mondo

pagina 8 • 30 ottobre 2009

Summit. Si apre a Bruxelles il dibattito sulle prossime, urgenti sfide BRUXELLES. Soldi e poltrone. Come ogni buon summit che si rispetti, i leader dei Ventisette si sono trovati ieri a Bruxelles per litigare sui soliti argomenti. E sempre all’insegna delle tradizioni, potrebbero salutarsi questa sera senza aver trovato un accordo, rinviando l’onere a un altro vertice che con ogni probabilità si terrà intorno a metà novembre. I nodi da affrontare sono due: da un parte la presidenza di turno svedese chiede un accordo sugli aiuti da concedere ai Paesi in via di sviluppo (Pvs) per adeguarsi ai cambiamenti climatici, affinché l’Ue arrivi con le carte in regola al summit Onu di Copenhagen che a dicembre dovrà elaborare un nuovo accordo mondiale sul taglio delle emissioni Co2. Dall’altra si deve trovare un volto alle due nuove cariche create dal Trattato di Lisbona, il presidente stabile del Consiglio Ue e l’Alto rappresentante per la politica estera, che occuperà anche la carica di vicepresidente della Commissione europea. Secondo il premier svedese, Fredrik Reinfeldt, è importante che i Ventisette si impegnino a stanziare una quantità precisa di aiuti sul clima «perché ne abbiamo bisogno per stimolare gli altri Paesi sviluppati che rifiutano di fare la loro parte», come gli Stati Uniti. Una posizione condivisa dalla Commissione europea - che a Copenhagen parlerà a nome dei Ventisette - e dalla Gran Bretagna, che dei temi della cooperazione e dell’ambiente ne ha fatto una bandiera. «Spero che i leader europei dimostrino il loro impegno. In passato lo hanno fatto», ha affermato il capo dell’esecutivo Ue José Manuel Barroso, alludendo ai summit passati in cui i Ventisette hanno deciso di ridurre gli scarichi di gas serra del 20 per cento. I tecnici di Bruxelles hanno stimato che serviranno

Parte dal clima la disfida d’Europa A livello informale, i leader dei 27 iniziano a sondare il terreno per le nuove cariche Ue di Alvise Armellini globalmente 100 miliardi di euro da qui al 2020, di cui una forchetta compresa dai 22 ai 50 miliardi di euro dovrà provenire da fondi pubblici. I Ventisette dovrebbero fissare un contributo compreso dai 2 ai 15 miliardi di euro, ma la Germania, sostenuta dall’Italia e dalla Francia, ritiene sia prematuro fissare un’offerta prima del vertice Onu, quando anche le altre potenze mondiali saranno costrette a scoprire le carte. «Voglio che Copenhagen sia un successo. L’Ue deve esprimere le proprie idee con chiarezza. Ma è cruciale che anche gli Stati Uniti e la Cina segnalino chiaramente di essere disposte a contribuire», ha spiegato il cancelliere tedesco Angela Merkel. «Siamo pronti a mettere del denaro sul tavolo ma occorre che tutti facciano lo stesso», ha fatto eco il ministro degli Esteri Franco Frattini, che al tavolo dei Ventisette sostituisce il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi bloccato dalla scarlattina. La Gran Bretagna, invece, vuole procedere subito, indicando una cifra tra gli 8 e 10 miliardi di euro e assicurando di essere pronta a contribuire con un miliardo. L’altro ostacolo è rappresentato dalla ri-

partizione degli aiuti da stanziare tra gli Stati Ue: il fronte della “Nuova Europa”, capitanato dalla Polonia, sostiene di essere penalizzato dai meccanismi proposti dalla Commissione. Varsavia, per esempio, dovrebbe mettere sul piatto l’8 per cento se dovesse contribuire in base alle emissioni prodotte sul totale Ue, ma solo il 3 se il metro di paragone fosse

mento al clima di Paesi più ricchi, come il Brasile. Una situazione che rasenta l’assurdo». La quadratura nel cerchio risiede in una formula di compromesso che comprenda un ‘mix’dei parametri sul pil e sulle emissioni, ma fino al pomeriggio di ieri la presidenza svedese non l’aveva trovata. «Il metodo di ripartizione che ci è stato proposto è inaccettabile per noi», ha ammonito il primo ministro ungherese Gordon Bajnai, incontratosi con i colleghi di Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Romania, Lituania e Lettonia prima dell’avvio del vertice. Fonti diplomatiche “occidentali”, tuttavia, confidano nella possibilità di un compromesso, magari giocando sull’estensione della validità dei crediti ‘AAU’ oltre la scadenza del 2012 fissata dal Trattato di Kyoto. Ai Paesi dell’Est, che ne hanno molti in eccedenza, farebbe molto comodo. Per quanto riguarda le nomine, la prima giornata del Consiglio europeo è stata segnata dall’ulteriore offuscamento della stella di Tony Blair, mentre la Merkel - ritenuta la vera “kingmaker” - continua a non prendere posizione. L’ex premier britannico, già contra-

Il Partito socialista europeo “scarica” Blair e punta ad ottenere l’Alto rappresentante degli Esteri. Mentre Daul, capogruppo dei popolari, vota Juncker basato sulla quota del Pil polacco rispetto a quello comunitario. «Chiedere ai nuovi Stati membri di pagare - spiega Pawel Swieboda, direttore del think tank polacco DemosEurope - è difficile per quattro motivi: primo, hanno appena iniziato a pagare grandi somme di aiuti allo sviluppo; secondo, devono sostenere i costi del rispetto degli obiettivi sul clima per le loro economie; terzo, stanno attraversando (Polonia esclusa) una crisi economica particolarmente brutale, con enormi tagli della spesa pubblica nei Baltici; quarto, non sono ricchi e alcuni di loro (Bulgaria e Romania) finirebbero per finanziare l’adatta-

stato nella corsa alla presidenza Ue dal premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, è stato scaricato anche dai suoi compagni del Vecchio Continente, malgrado le proteste di Gordon Brown.

Il Partito socialista europeo ha espresso l’orientamento per ottenere la carica di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione», ha dichiarato lo spagnolo José Luiz Rodriguez Zapatero. Un annuncio che apre la strada alla scelta di un popolare per la guida del Consiglio Ue, visto che la distribuzione di poltrone comunitarie deve essere bilanciata tra le due principali famiglie politiche europee. Ma il capogruppo popolare all’Europarlamento, Joseph Daul, ha comunque trovato il tempo per dire ai giornalisti che Juncker, e non Blair, è «il candidato giusto» per il Ppe. In attesa della ratifica ceca del Trattato di Lisbona, che dovrebbe arrivare a inizio novembre, nei corridoi continuano a circolare i nomi dei possibili vincitori del “totonomine”: ieri apparivano in auge l’ex premier austriaco Wolfgang Schuessel, popolare, per la presidenza Ue, e il ministro degli Esteri britannico David Miliband, socialista, per l’Alto rappresentante.


150 ANNI DI UNITÀ La relazione di Ferdinando Adornato al convegno della fondazione liberal

Di cosa parliamo quando diciamo Italia Dopo centocinquanta anni è il tempo di un nuovo patto per ricostruire il senso dello Stato e l’unità della nazione di Ferdinando Adornato poeti furono i primi ad alzarsi al di sopra delle divisioni e delle discordie che dilaniavano le terre italiane in nome della superiore unità della nazione. Gli italiani si armeranno e si libereranno perché i poeti li avranno prima armati con le parole. Non fu vero, dunque, se non per retorica, il petrarchesco lamento che «’l parlar sia indarno». Fu vero invece l’intuito di Francesco De Sanctis secondo il quale “una storia della letteratura italiana non poteva che inevitabilmente essere una storia d’Italia”.

I

Ma i poeti non soltanto“sentivano”. Sapevano. I versi della Commedia, ad esempio, corrispondono alle riflessioni politiche della Monarchia, nella quale Dante affronta uno stereotipo costante della nostra storia: il confronto tra l’Impero e la Chiesa. La fine dell’impero romano aveva lasciato sul territorio un vuoto di potestas e quindi un «volgo disperso che nome non ha», dominato da incontenibili forze centrifughe e soggetto a policentriche mire espansioniste. La Chiesa invece c’è, ma con la sua sovranità, insieme spirituale e temporale, contende il primato alla sovranità civile-monarchica. Nella lotta tra questi due “poteri”, come ha osservato Benedetto Croce, c’è già tutta l’ideale storia nazionale italiana. C’è la necessità sempre invocata e mai attuata o verificatasi, di una «riforma intellettuale e morale degli italiani». Ciò che oggi noi, con espressione più moderna, chiamiamo “religione civile”: la capacità di un popolo, pur separando rigorosamente Cesare da Dio, di rivendicare il primato dei valori fondamentali della nazione sul potere dello Stato. O, ancor meglio, la definizione dello Stato come mezzo e della nazione come fine. Ciò che costituisce il cuore dell’ispirazione cristiana e di quella liberale, i due fili d’oro che guideranno

la nazione italiana al suo Risorgimento. LA NAZIONE CONTIENE LO STATO Stato e nazione: concetti di controversa attualità. Recentemente Tommaso Padoa Schioppa, in un suo fondo sul Corriere, sosteneva che, celebrando l’unità dello Stato, conveniva tener ben distinto e distante qualsiasi riferimento al concetto di nazione. È lo Stato, ricordava, che oggi dobbiamo riformare tutti insieme: ed è controproducente tirare in ballo la nazione, argomento quale troveremmo più motivi di divisione che di unità. Ragionevole. Però parziale. Come si può, infatti, discutere dello Stato, dei suoi limiti e di possibili nuovi assetti senza far riferimento ai valori di fondo cui esso deve ispirarsi? La nostra Costituzione, come del resto qualsiasi altra Costituzione, non è una invenzione ingegneristica di procedure, slegata, ove mai fosse stato possibile, dalla missione etica, culturale, sociale che la nostra comunità intendeva assegnarsi alla fine della seconda guerra mondiale. E se anche si volesse riformare solo la sua seconda parte, come si potrebbe mai farlo senza chiamare in causa principi e valori che sempre precedono la definizione di ogni assetto del potere? Un diverso, ma altrettanto sintomatico, errore è stato commesso da gran parte della cultura leghista e da certa cultura della sinistra quando, negli anni scorsi, hanno imposto il “dogma”del tramonto degli Statinazione, che risulterebbero travolti dall’incedere della globalizzazione e dall’affermarsi di poteri sovranazionali. È ormai tempo di rivedere questo scenario. Non solo perché è sempre più chiaro che protagonisti del XXI secolo, accanto agli Stati Uniti, si avviano ad essere grandi Stati-nazione come la Cina e l’India, i quali già stanno mutando il corso del mondo grazie alla forza della loro identità e della crescita economica. Ma soprattutto per un’altra ragione a noi più vicina: anche in Europa, laddove i processi di unificazione sovranazionale sono più evidenti, la questione del tramonto degli Stati-nazione non appare così scontata. segue a pagina 10

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150 ANNI DI UNITÀ Sono Dante e Petrarca i fondatori dell’Italia. Sono proprio i versi di Petrarca ad ispirare la pagina finale del “Principe” di Machiavelli. Alessandro Manzoni sarà poi il profeta di quel ceto medio che diventerà l’ossatura della nazione. E mentre il mito dello Stato diventa centralenel discorso pubblico italiano, da Crispi a Giolitti, per arrivare a Mussolini, Porta Pia diventa il simbolo dello scontro tra Chiesa e Stato

Il Vecchio Continente si trova davanti a un radicale aut-aut: o riesce a definire una sua anima storico-culturale, sintesi delle diverse identità nazionali (e in questo caso nascerà per tutti una nuova patria europea, con un solo volto politico sulla scena mondiale come era nei sogni dei Padri Fondatori) oppure è destinata a restare solo una grande area economica comune, legata da qualche fragile e contraddittoria architettura istituzionale. In altri termini: o nella storia vincerà la comune patria europea con l’emergere di un nuovo grande Statonazione, gli Stati Uniti d’Europa, oppure sarà comunque inevitabile (e conveniente) tenere viva la cornice identitaria dei diversi Stati-nazione. Credo si possa ormai riconoscere che quanto più si affermano processi di interdipendenza economica e commerciale, tanto più emerge nei popoli l’esigenza di tutelare gli insediamenti religiosi, culturali, linguistici di riferimento. E soprattutto in alcune aree d’Europa, e forse l’Italia ne è il sintomo più allarmante, l’attacco agli Stati nazionali non viene dall’alto, dal sovranazionale, ma dal basso, dalla teoria delle piccole patrie. L’unificazione europea, difficile quanto si voglia, nasce per garantire ai nostri popoli la pace, per chiudere con la tragica storia del Novecento. Il suo fallimento, viceversa, riaprirebbe un’era assai oscura. Non credo, infatti, che il “nazionalismo” delle piccole patrie sia meno insidioso di quello delle grandi che, da Sarajevo 1915 a Sarajevo 1992 ha devastato il XX secolo. Sono questi i motivi che ci convincono oggi della necessità di costruire un movimento culturale, quanto più forte possibile, che rilanci i fondamenti valoriali della nazione. Ci sentiamo legati all’appello e al monito pronunciato dal presidente Ciampi il 4 novembre del 2002.

Il paradosso di Porta Pia Dalla Nazione senza Stato allo Stato senza Nazione ggi, giorno dell’Unità Nazionale, dobbiamo riflettere sulla evoluzione che la nostra comunità sta vivendo. Stiamo ritrovando in noi le ragioni profonde di una memoria condivisa. Gli antichi valori della nostra indipendenza nazionale si stanno ricomponendo come in un mosaico con i valori di oggi, di una collettività democratica e pacifica, orgogliosa dei propri modelli di vita, pronta a difenderli. La storia non divide più noi italiani. L’ho sentito a El Alamein, come l’ho sentito a Cefalonia, a Tambov, a Porta San Paolo. La storia non divide più noi europei. L’ho sentito stando a fianco del presidente Rau nel sacrario dei martiri di Marzabotto. Oggi sappiamo che sono più forti le cose che ci uniscono». E poi ancora nel suo ultimo messaggio di capodanno il 31 dicembre del 2005: «Quel che ho cercato di trasmettervi è l’orgoglio di essere italiani. Siamo eredi di un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra identità nazionale».

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Un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici. Esattamente quel patrimonio che nel corso dei secoli ha tenuto vivo l’anelito di una terra promessa da cercare sulla propria stessa terra. Di uno Stato da conquistare per la nazione italiana. Dobbiamo però oggi chiederci quale sortilegio ha fatto in modo che questa storia si concludesse, alla fine dell’Ottocento, con la conquista di uno Stato senza nazione. Il paradosso di Porta Pia. Simbolo della vittoria ma anche della sua parzialità. Luogo della memoria unitaria, ma anche permanente pretesto di lacerazioni. Barricata dell’anima per un vol-

go che trovò finalmente il suo nome ma, forse, non cessò di sentirsi disperso. L’eterna lotta tra Chiesa e Stato che faceva soffrire Dante, e di cui parlava Croce, si depositò in con uno scontro che lasciava aperta sia l’incompiutezza dello Stato sia quella della nazione (della quale la religione era fondamento). Liberalismo e cristianesimo, fonte primigenia della nostra identità, finirono per separarsi, come Romolo e Remo, al momento della realizzazione di un sogno che era stato comune. E se oggi ancora ci dividiamo nell’interpretazione del Risorgimento, se da più parti si chiedono riletture e revisioni anche forzate, ciò dipende forse dal fatto che, sia da parte clericale che da parte laicista, si è per troppo tempo rimasti chiusi nella gabbia mentale di Porta Pia, trascurando e negando come gli ideali del Risorgimento avessero unito cattolici e liberali. Che esso, dunque, dovesse considerarsi un loro comune, legittimo figlio. Da parte liberale ha giocato una sorta di“complesso del vincitore” che ha impedito di riconoscere che, se si era finalmente raggiunta l’unificazione politica, quella nazionale, nell’assenza o peggio nell’ostilità della comunità cattolica, era ancora lontana. Soprattutto perché essa si andava ad intrecciare con un’altra drammatica incompiutezza: quella tra Nord e Sud. Da parte clericale è arrivato l’errore opposto. Porta Pia è diventato lo specchio deformante dietro al quale nascondere che, se il potere temporale della Chiesa confliggeva con quello dello Stato, il processo risorgimentale si era viceversa nutrito in modo sostanziale dei valori del pensiero cattolico. Cosicché se oggi è giusto ricordare, attraverso la ricostruzione storica, i crimini finora taciuti compiuti contro i cristiani da parte delle truppe “italiane”, bisogna d’altra parte essere consapevoli che la vera “revisione”del Risorgimento consiste

nell’andare oltre le barricate di Porta Pia per ricostruire la natura unitaria, cattolica e liberale della nazione italiana. È questo il più grande non-detto che ancora oggi pesa sulla nostra vita pubblica e che ci impedisce di raggiungere pienamente gli obiettivi indicati da Ciampi. Nonostante siano passati 150 anni, infatti, siamo ancora tutti prigionieri di queste parziali letture della nostra storia. Entrambi bulimiche di passione nei confronti della forma-Stato ed anoressiche di attenzione, al contrario, verso la forma-nazione. Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini, Ricasoli: sono solo alcuni nomi, non certo esaustivi, del grande movimento di pensiero e di azione che chiamiamo Risorgimento. Ma sono sufficienti a rendere evidente, pure all’interno di una polifonia di analisi e di proposte, la convergenza dell’umanesimo cristiano e di quello liberale, repubblicano, democratico nell’intessere, attraverso i fili già intrecciati da Dante e da Petrarca, la trama eticopolitica della nuova patria comune. (...) La breccia di Porta Pia è stata insieme la vittoriosa conclusione del Risorgimento ma anche una significativa restrizione del suo impianto etico-politico. Ha permesso che finalmente si facesse l’Italia ma, nello scontro tra Chiesa e Stato, ha finito per smarrire quell’idea di religione civile o di “democrazia religiosa”, per stare a Mazzini, che era stata una delle anime unificanti del Risorgimento ritenendo, appunto, lo Stato solo il mero strumento di un fine più alto: il compimento della nazione. La particolare dinamica della fondazione dello Stato unitario, come una spada affilata, recise il nodo di Gordio che univa il liberalismo e il cristianesimo italiano. Tutto sarebbe di lì a poco cambiato. Il primo finì progressivamente per tradire i principii fondativi, Locke e Kant, riducen-


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dosi a diventare l’ideologia delle egoiste élite possidenti del Nord e ad assumere, via via, connotazioni anticlericali. Ciò che segnò nella storia una drammatica contraffazione italiana delle idee liberali. Il secondo fu costretto negli angusti confini del non expedit e, nonostante le folgorante intuizioni di Sturzo, dovette attraversare il deserto della dittatura, per riannodare i fili di una presenza politica all’altezza della grande storia della cultura politica cristiana. DAL RISORGIMENTO ALLA RESISTENZA Come era inevitabile, ma come non era nel pensiero dei Padri risorgimentali, il mito dello Stato, da Crispi a Giolitti, assunse l’assoluta primazia nel discorso pubblico italiano. Quello della nazione, invece, fu costretto a scorrere, emarginato, nel sottosuolo. Non c’e dunque da stupirsi se proprio esso, dopo la tragedia della Grande Guerra, venisse fatto esplodere “contro lo Stato” in nome di nuove mitologie rivoluzionarie e dietro l’apparente verità del “Risorgimento tradito”. Sarebbe cieco non rilevare che, con il fascismo, molti italiani al Sud come al Nord, sentirono per la prima volta realizzata l’unità della nazione. E non si finirà di ringraziare Renzo De Felice per i suoi studi. In ogni caso ben presto la storia impose agli italiani di accorgersi che il mito della “Grande Proletaria”, anticapitalista, antiebraica, antiamericana, negava alla radice l’umanesimo che aveva fondato lo spirito nazionale italiano, che il “nazionalismo” stava alla “nazione” come il terremoto alla terra, che infine non può esistere “nazione”laddove non esiste “libertà”. Anche dopo l’esperienza fascista, la storia italiana apparve segnata dall’eterno ritorno della mancata integrazione tra Stato e nazione. Non per nulla l’otto settembre divenne la metafora del crollo radicale di ogni regola, valore, senso di appartenenza a una medesima comunità istituzionale e morale. Non era la prima, non sarebbe stata l’ultima volta. Corsi e ricorsi storici raccontano di un Paese nel quale Regole e Valori difficilmente riescono a trovare piena conciliazione, radicandosi in un compiu-

to senso di appartenenza nazionale. E anche ciò che appare conquistato per sempre è soggetto a repentini tramonti. Ma arrivò il “decennio dell’eccezione”. Prima il tempo della Resistenza, poi quello della Ricostruzione, segnarono una vera “rottura epistemologica”con l’intera storia precedente. Ciò che suggerì ad una parte della nostra cultura politica e storiografica di battezzare la Resistenza come “Secondo Risorgimento”. Si è molto discusso della giustezza di questa definizione. A me pare abbastanza indovinata alla condizione di riconoscerne, esattamente come per il primo Risorgimento, sia le luci che le ombre. Come alla fine dell’Ottocento gli italiani in armi (anche se in questo caso con il decisivo aiuto americano) conquistarono la loro libertà ed edificarono ex-novo il loro Stato. Ma, proprio come alla fine dell’Ottocento, non riuscirono neanche allora a creare i presupposti di una nazione, di una comunità dai valori condivisi. E non fu senza significato che la Resistenza si rivelasse come un esclusivo fenomeno nordista. Già nel Cnl le divisioni ideologiche, che avrebbero poi dominato l’era della guerra fredda, cominciarono a scandire l’alfabeto della loro alterità. Tanto che la nostra Costituzione, com’è da tutti riconosciuto, fu un abilissimo, lucido e geniale compromesso tra valori e culture politiche alternative. La forza dei Padri Costituenti fu quella di condividere un grande senso dello Stato, ciò che permise loro di privilegiare sempre il dialogo allo scontro, la mediazione alla contrapposizione, la capacità di cercare soluzioni alla vanità dell’esibizione retorica. Ed è ciò che ancora oggi ci permette di guardare oggi alla Carta come a un grande modello di etica pubblica. La loro obiettiva debolezza era invece quella di rappresentare forze politiche che, una volta sottoscritte le comuni regole, si preparavano a dar voce a valori e filosofie opposte, quasi si trattasse di “due nazioni diverse”. Ancora una volta si delineava, dunque, lo scenario di uno Stato senza nazione. Con una sola, assai significativa eccezione: il senso dello Stato che i Padri Co-

stituenti indicarono con il loro lavoro, e che fu la vera grande forza della Prima Repubblica, costituiva comunque, al di là delle diversità ideologiche, uno dei valori fondanti di quello spirito della nazione italiana che Dante e Petrarca avevano cantato attraverso la ribellione ai particolarismi e agli odi civili. IL TEMPO MAGICO DELLA RICOSTRUZIONE Ci fu però un tempo nel quale l’integrazione tra Stato e nazione sembrò finalmente compiersi: il tempo della Ricostruzione. E, ciò che conforta la nostra tesi di fondo, fu il primo momento storico dall’Unità d’Italia in poi ad essere guidato dalla stretta, attiva collaborazione tra due

grandi esponenti del pensiero cristiano e di quello liberale: Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Senza dimenticare la lezione di Luigi Sturzo.Tornò a risuonare il valore del primato della persona, l’etica della responsabilità e le virtù del civismo repubblicano diventarono un dover essere, l’economia sociale di mercato fu la stella polare di un nuovo paradigma politico. Il tutto in una società nuovamente operosa, nella quale migliaia di Renzi e di Lucie costruirono, facendo leva sulla famiglia, quel sistema di piccole e medie imprese, che sarebbe stato il volano del boom degli anni Sessanta. Non che mancassero, ovviamente, disagi, disperazione, criminalità aggressive. Ma negli anni Cinquanta il pensare

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positivo si diffuse come un contagio. Ed ebbe la meglio. Lo spirito italiano, anche quando espresso con candida furbizia, sentiva che nessun ostacolo era impossibile da superare se il nostro genio, la nostra fantasia, perfino la sregolatezza della nostra arte di arrangiarsi, venivano messi al servizio della solidarietà comunitaria e sottratti al corporativismo, all’egoismo, alla diffidenza sociale. L’immaginario collettivo, ben disegnato anche dal nostro cinema, era fortemente orientato al bene comune. Non ci fu periodo della nostra storia nel quale lo spirito italiano somigliò di più a quello americano. La nazione si sentiva Stato. E lo Stato al servizio della nazione. Ma il tempo della Ricostruzione fu un lampo.

La magia di De Gasperi e Einaudi L’èra della ricostruzione fu la migliore della nostra storia ià alla fine degli anni Cinquanta maturarono avvenimenti che avrebbero cambiato il clima e il volto del Paese. Nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato si impegnò in una svolta dirigista, mostrando le stigmate di quella che sarebbe poi diventata la soffocante pervasività della politica rispetto alla società, economica e civile. D’altro canto le campane della guerra fredda già stavano suonando la morte dell’unità nazionale. Le “due nazioni”, alternative sul piano interno come su quello internazionale, cominciavano a contendersi, palmo a palmo, le roccaforti dello Stato-padrone.

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Mai però, come detto, venne meno da parte dei duellanti quel comune senso dello Stato che aveva forgiato il compromesso repubblicano. La Costituzione aveva delineato un equilibrio capace di reggere anche gli urti della storia successiva. Il Parlamento era stato infatti pensato, con preveggenza, come camera di compensazione, luogo sovrano della composizione dei conflitti. Una sorta di permanente Assemblea Costituente nella quale ciascuna forza poteva sentirsi “proprietaria”della cosa pubblica. L’esecutivo era

d’altra parte diretta espressione della volontà delle Camere e intorno, a corolla, stavano le diverse magistrature, ivi compresa la Presidenza della Repubblica, a garanzia dell’intero impianto sistemico. UNO STATO, DUE NAZIONI Si affermò così, pur nella guerra fredda, una sorta di “patriottismo costituzionale” dove però la parola-chiave era costituzione. Fuori dalla Carta, infatti, nella cultura e nella società, la parola patria e anche la parola nazione vennero lasciate in gestione alla destra (che era però fuori dal cosiddetto“arco costituzionale”) preferendo la sinistra coltivare la tragica utopia dell’internazionalismo proletario e astenendosi la cultura cristiana (e i residui di quella liberale) dal rivendicare valori, sia pur ad essa familiari, che potessero però far nascere qualsiasi sospetto su possibili “deviazioni” di destra. Persino il tricolore, manifestazioni istituzionali e ufficiali a parte, era meglio non circolasse, se non nelle piazze di destra. Come se nominare l’Italia come soggetto storico-morale significasse evocare un’entità atta a turbare il compromesso costituzionale sul quale si reggeva il sistema.

Così, dagli anni Sessanta in poi, l’Italia tornò con tutta evidenza a manifestarsi come uno Stato senza nazione. Anzi, per essere più precisi, uno Stato con “due nazioni”. Una democrazia vincolata dal dettato costituzionale, ma sostanzialmente orfana di un’identità etico-politica condivisa, perché fratturata in due distinte “comunità di valori”; separate non solo dal bipolarismo mondiale tra Usa e Urss ma anche da miti, sentimenti, letture, modelli di vita. Ciascuna riteneva di essere la “right nation” ed era pronta a combattere l’altra come “wrong”. Con una sola differenza di grande rilievo tra le due. Non potendo accedere al governo, la “nazione comunista” riteneva decisivo permeare della propria Weltanshaung cultura, editoria, informazione, università, scuole. La “nazione democristiana”, viceversa, forse allo scopo di apparire a tutti gli effetti un mondo laico, preferì contenere le agenzie culturali cristiane in recinti autoreferenziali, in una sorta di collateralismo silenzioso, imitando in questo il metodo ecclesiale; ciò che determinò una più facile espansione dell’egemonia del gramscismo e del gobettismo e, all’interno dell’area cattolica, del dossettismo. segue a pagina 12


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Arriva il “decennio dell’eccezione”, con la Resistenza e la Ricostruzione di De Gasperi ed Einaudi. Ma già negli anni Cinquanta matura la svolta dirigista che tornerà a fare dell’Italia uno “Stato senza nazione”, che si sarebbe poi invischiato in una crisi implosa con Tangentopoli e che l’inganno del bipolarismo non ha affatto risolto Il cattolicesimo liberale che pure era stato il leitmotiv della ricostruzione italiana, cedette presto il timone al cattolicesimo sociale che trovava più di una contiguità con il pensiero marxista. Un fenomeno questo che non mancherà di aver il suo peso al momento del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ma, come era già stato ampiamente dimostrato dal “pensiero italiano” che ci aveva condotto al Risorgimento, ogni Stato assume vero senso storico solo come strumento di una nazione. Nessuno Stato, viceversa, anche il migliore, può reggere a lungo senza un costante riferimento alla sua missione di nazione. Così era inevitabile che se in Italia si confrontavano due nazioni, ben presto ci si sarebbe trovati di fronte anche a due Stati. DALLA TEORIA DEL “DOPPIO STATO” A TANGENTOPOLI Non il valore dell’antifascismo (sacro in sé) ma l’ideologia che su di esso prima la doppiezza della sinistra parlamentare e poi l’arroganza di quella post-sessantottina avevano costruito, cominciò lentamente ma, inesorabilmente, a corrodere anche il patto istituzionale siglato dopo la Liberazione. Non senza efficacia la politologia l’ha appunto chiamata teoria del “doppio Stato”. Accanto, dentro e “sopra”le istituzioni della Repubblica si era formato un “potere parallelo” che, attraverso una strategia della tensione, vere e proprie stragi, reti segrete di protezione, corruzione, collusioni mafiose, insomma un complotto permanente, costituiva il reale governo del Paese. Cresciuta nelle fumose elucubrazioni della sinistra antagonista, questa teoria ha finito, lentamente, per conquistare sempre più diffusi spazi nella politica e nei media, fino a favorire una vera e propria “storiografia alternativa” che legge la storia italiana come un unico grande filo rosso che dalla “Residenza tradita” porta fino a Tangentopoli. Non a caso l’inchiesta “Mani Pulite” è diventata per molti il baluardo di una “nuova resistenza”contro il doppio Stato. Già negli Anni Settanta, il patto istituzionale che teneva comunque unite le “due nazioni”cominciò a perdere la sua forza propulsiva. Aldo Moro lo aveva intuito. Il leader dc fu uno dei po-

chi a capire che i movimenti del’68 avevano creato una rottura nel rapporto tra potere e popolo e che era arrivato il momento di aprire una nuova fase nella storia della Repubblica. Ma aveva così tanta ragione che le Br scelsero proprio lui come capro espiatorio del fantomatico “doppio stato”. La ricerca di Moro restò poi inevasa. E, ovviamente, stagione dopo stagione la crisi dello Stato, degli strumenti della sua rappresentanza e dei suoi meccanismi decisionali, si fece sempre più evidente. Eppure ogni tentativo di riformare con razionalità l’architettura del rapporto tra potere e popolo è rimasta, negli ultimi trent’anni, una pia illusione. Nonostante si siano impegnate le leadership dei principali partiti e siano state messe in campo tutte le possibili iniziative parlamentari. Infine, l’anarchia nella quale si consumò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica travolse ogni pensiero. E quindi ogni speranza. (...)

Crisi dello Stato e crisi della nazione si intrecciarono così in un convulso passaggio d’epoca che spinse l’Italia degli anni Novanta a un passo dal baratro. Sistema della rappresentanza e meccanismi della decisione azzerati, leadership politiche travolte, unità nazionale minacciata, assetto istituzionale sclerotizzato. Tutto avrebbe consigliato di ritornare sui passi della storia e di formare un nuovo clima costituente. In fondo, se Seconda repubblica doveva essere, sarebbe stato opportuno convocare una Seconda Costituente. Più di uno provò a proporlo. Ma era chiedere troppo ad un Paese sostanzialmente caduto nell’anarchia. L’INGANNO DEL BIPOLARISMO Bipolarismo. È stata questa la parola magica con la quale noi italiani abbiamo pensato di risolvere ogni problema. Come se la costruzione di contenitori simili a quelli di tutte le altre democrazie occidentali, avesse potuto sciogliere d’incanto anche ogni problema di contenuto. È

avvenuto il contrario: i nodi si sono aggrovigliati ancora di più. La crisi dello Stato non si è risolta. Nuove diverse leggi elettorali, elezione diretta di sindaci e governatori, spezzoni incompiuti e contraddittorii di federalismo, mutamenti costituzionali gestiti “a maggioranza” in modo autoreferenziale e ripetutamente bocciati, presidenzialismo virtuale. Finora niente di più. Il tutto condito da un perenne conflitto con la magistratura e dall’apertura di improvvisi squarci di guerra tra“eletti dal popolo” e alte magistrature dello Stato, che avvelena i già logorati rapporti tra le istituzioni. Intanto il Parlamento si ritrova malinconicamente abbandonato nella sua marcia verso l’irrilevanza. Dovevamo cercare un nuovo, più moderno equilibrio tra i poteri che sostituisse il patto del ’47 effettivamente desueto. Abbiamo finito per creare più acuti squilibri, smarrendo ogni rapporto di funzionalità tra esecutivo e legislativo. Dovevamo trovare la strada

per rendere più vicino al territorio l’esercizio del potere. Abbiamo finito per vivere in un clima di “secessione mentale” tra Nord e Sud che rischia di interrompere l’intero circuito di sussidiarietà del Paese. Dovevamo cercare nuove forme di rappresentanza, capaci di ricostruire il consunto rapporto tra popolo e partiti. Abbiamo finito per naufragare sempre più esplicitamente nelle oligarchie clientelari, recidendo ogni forma di controllo e di partecipazione popolare. Dovevamo cercare meccanismi di decisione più snelli e veloci. Abbiamo finito per dar vita a governi paralizzati da coalizioni multilaterali. Dovevamo cercare partiti più moderni e aperti.Abbiamo finito per rifugiarci in a meri cartelli elettorali preda di guerre per bande e di conflitti personalistici che accrescono il discredito sulla politica. Dovevamo cercare classi dirigenti più moderne, all’altezza delle sfide del XXI secolo. Abbiamo finito per rotolare in mezzo a nuove più arroganti incompetenze a volte segnate da incredibili disordini morali.

L’unità nazionale torna ad essere a rischio L’èra del bipolarismo e della “guerra civile virtuale”: la Lega è ormai un pericolo a se lo Stato piange, lo spirito nazionale certo non sorride. Il 1989 aveva cancellato lo spartito sul quale le “due nazioni” avevano ispirato la musica dell’intero dopoguerra. Il comunismo era crollato. Grazie a Reagan, grazie a Wojtyla, grazie alla miseria di un’utopia impossibile. Il mondo libero aveva vinto. In Italia questo metteva in discussione anche il ruolo della“nazione vittoriosa”e la sua identità che, per troppo tempo, si era modellata solo “in negativo”, come baluardo verso il Partito Comunista. Bisognava modificare schemi di gioco e giocatori. Forse poteva essere l’occasione perché, finalmente, esaurita la missione di uno Stato diviso in “due nazioni”, cominciasse una storia nuova nella quale tornare a sentirsi una sola comunità “d’arme, di lingua, d’altar”. E proprio questo molti italiani speravano potesse essere l’esito del nuovo tornante storico segnato dal “bipolarismo”. Ma, ancora una volta, è avvenuto il contrario.

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L’era del bipolarismo si è rivelata l’era del ritorno dei particolarismi personali, degli odii civili e delle lotte intestine come da tempo non si vedeva. L’Italia della Seconda Repubblica è tornata ad essere, davvero, una “nave sanza nocchiero in gran tempesta”. Nonostante la nascita di Alleanza nazionale avesse determinato la piena legittimazione dell’unica frangia politica rimasta fuori dal patto costituzionale rendendo quindi totalmente “compiuta” la democrazia italiana; nonostante persino un presidente della Camera di sinistra come Luciano Violante si fosse reso protagonista di parole di pacificazione nei confronti dei “ragazzi di Salò”; nonostante tutto questo, i primi quindici anni della Seconda Repubblica sono stati segnati dall’incredibile ritorno dell’antinomia fascismo-comunismo. Non nelle sedi della ricerca storica: ma nell’arena delle campagne elettorali! Gli anni del bipolarismo sono stati anni di “guerra

civile virtuale”. Economia, media, politica, giustizia: ogni avvenimento è stato triturato dentro una logica binaria antagonista. Berlusconiani e antiberlusconiani si sono combattuti a tutto campo, ciascuno rigettando sull’altro l’infamia della demonizzazione, ciascuno rivendicando per sé l’esclusiva della pacificazione. Eserciti scomposti e volgari hanno trasformato l’Italia in una sorta di Beirut dell’anima. Volevamo anticipare il futuro. La bipolare macchina del tempo ci ha ricondotto invece al medioevo. Lo spirito nazionale italiano, mentre il mondo intorno chiedeva il coraggio di “nuove visioni”è stato costretto ad avvitarsi in un rollback, nelle gabbie mentali di un “passato” che non sapeva “passare”. Persino l’ostilità verso il tricolore, per altri versi ampiamente superata anche grazie a Ciampi, è riemersa come motivo di contrasto politico. Non più da parte della sinistra in nome dell’internazio-

nalismo, ma dalla Lega in nome delle piccole patrie. Un tempo per superare le frontiere, oggi per formarne di più ristrette, in ogni caso l’intimidazione contro il simbolo della patria torna a delegittimare la nostra unità. Come se non bastasse il derby Berlusconi sì, Berlusconi no, la Lega tenta di riproporre lo schema delle “due nazioni” anche in chiave geografica: la nazione del Nord contro quella del Sud. Il modello politico, culturale, linguistico proposto dal Carroccio muove le contestazioni all’”essere meridionale” coinvolgendo antropologia, psicologia, modelli di vita. Esattamente come avveniva ai tempi di Peppone e Don Camillo. Solo che allora esisteva un patto istituzionale a tenere insieme quei due popoli. Oggi se passasse la divisione tra nazione del Nord e nazione del Sud, ciò avverrebbe in un quadro di disgregazione istituzionale tale da rendere inevitabile il passaggio dalla “secessione mentale”alla “secessione reale”. Centocinquanta


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anni dopo, l’unità d’Italia è a rischio. Non solo l’Unità. Ma anche l’identità. La Lega inocula infatti, in tutto il discorso pubblico, il veleno del corporativismo, dell’egoismo, dell’utilitarismo: sono questi i concetti dominanti del suo impianto politico. Quale che sia la fede religiosa professata dai leghisti, la loro ideolo-

gia si colloca su un versante antagonista all’ispirazione cristiana e liberale che ha segnato il formarsi dell’Italia come nazione. Si tratta di una sorta di “socialismo della terra e del sangue” che detesta, e spesso irride, ogni sorta di umanesimo. I Padri del nostro pensiero risorgimentale, da Cattaneo a Mazzini, sognavano un’Italia aperta, generosa, una nazione democratica europea. La Lega sogna piccole patrie autosufficienti e usa il progetto federalista come grimaldello per rompere ciò che è unito, non per unire ciò che è diviso. L’autarchia localistica contro il cosmopolitismo democratico: ecco la vera sfida lanciata all’identità italiana. Si tratta di un’ipoteca sul futuro. Il XXI secolo, infatti, non consente agli italiani alcuna chiusura né “interna”, né“esterna”. L’Italia non può diventare un Paese in guerra contro “tutti i Sud del mondo”. Non solo perché i suoi valori nazionali, e quelli europei, glielo impediscono, ma anche perché lungo questa strada essa incontrerà solo declino, irrilevanza, povertà. La globalizzazione non si può arrestare, né si può esorcizzare. La si può solo governare. E per ciò che riguarda i fenomeni migratori non c’è dubbio che l’unica saggia governance è quella di favorire un’immigrazione di qualità che faccia fare un salto in avanti alla intelligenza della nostra produzione e della nostra ricerca. Non è saggio invece considerarla un reato, con il risultato di impaurire l’immigrazione di qualità e doversela vedere solo con i disperati che non hanno niente da perdere. Dovremmo piuttosto prendere atto che il modello americano è l’unico “melting pot”riuscito nel mondo.

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Il compito della nostra generazione Un nuovo “partito” della nazione e del senso dello Stato a forza delle regole di uno Stato giusto, unita ai valori irrinunciabili della nazione: questo il cocktail vincente di una “società aperta” che non mette in alternativa sicurezza e integrazione. Questa dovrebbe essere anche la filosofia di una nuova cittadinanza italiana. La Lega, dunque, non minaccia solo il nostro passato, ma anche il nostro futuro.

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Finora, come detto, solo la presidenza Ciampi è riuscita nell’impresa di tenere accesa, contro ogni regressione politica e civile della Seconda Repubblica, la fiaccola del senso dello Stato e dell’unità nazionale. E conforta vedere che Giorgio Napolitano si stia incamminando, a volte incompreso, lungo la stessa strada. Ma il Quirinale, anche volendo, nulla può fare contro il cattivo bipolarismo che consente a un partito che vuole rompere l’unità d’Italia e distruggerne l’identità, di stare al governo persino detenendone il “coalition power”. Perciò, se non si vuole fare solo esercizi retorici, la più grande vera iniziativa per celebrare l’unità d’Italia sarebbe quello di trovare la via per evitare che un partito antistatale e antinazionale con meno del 10% dei voti, comandi la politica italiana. UNO STATO E UNA NAZIONE DA RICOSTRUIRE Vorrei sperare che queste analisi risultino viziate da un eccesso di pessimismo. Ma purtroppo non si può negare che quel che abbiamo sotto gli occhi è un Paese nel quale sia Stato che Nazione sembrano ormai solo roboanti concetti, non più fattive realtà. Per secoli siamo stati una Nazione senza Stato, per lunghi decenni uno Stato senza Nazione. Ora sembra che stiamo facendo di tutto per rinunciare a entrambi. Tutti concordiamo sul fatto che gli italiani si trovino davanti alla necessità di un “doppio movimento”: ridisegnare la loro architettura istituzionale e, nel contempo, decifrare i valori capaci di rilegittimare il loro patto di conviven-

za. Una gigantesca opera di ricostruzione istituzionale, politica, culturale, morale. Un’opera da far tremare le vene dei polsi di qualsiasi classe dirigente si accinga a compierla. Ma il punto è: c’è oggi una tale classe dirigente? Le coordinate lungo le quali muoversi ci sono: le fornisce la nostra stessa storia. Esse sono rintracciabili nelle nostre biblioteche. Vivono nella memoria degli archivi come in quella dell’esperienza popolare. A meno di non essere ormai totalmente soggiogati da talkshow, sondaggi e gossip i nostri padri ci hanno messo in condizione di sapere di cosa parliamo quando diciamo Italia. Parliamo di una nazione fondata sul primato della persona. Sulla sua nobiltà (quel “cuore gentile” solo dal quale nascono amicizia e amore) e sulla sua insopprimibile libertà e dignità. Parliamo di una comunità che si è voluta fondare in contrasto con i partigiani della faziosità e dell’odio civile, e di uno Stato che si è voluto costruire contro ogni particolarismo campanilistico e contro ogni dispotismo personale. Parliamo di un popolo operoso di famiglie, nel quale il cristianesimo si è modellato tanto su Benedetto, creando le condizioni del libero mercato e del capitalismo, quanto su Francesco, generando il carisma della solidarietà e del volontariato. Parliamo di una storia che, da Roma al Risorgimento, ha sempre pensato il mondo come suo palcoscenico e l’Europa come sua seconda patria. Parliamo di una cultura che ha informato di sé la civiltà occidentale e mediterranea sempre in modo aperto, generoso, cosmopolita. Parliamo però anche di una comunità volubile, fragile, capace di contraddire se stessa con grande facilità. Una comunità camaleontica, capace di adattare la sua morfologia al paesaggio nel quale si trova a vivere. Abituato, com’è stato costretto dalla storia, a dover sopravvivere sotto gioghi stranieri, lo spirito italiano ha mantenuto come sua speciale abi-

lità la mimesi, sorella di una istintiva diffidenza verso il potere. Perciò in Italia dare l’”esempio” è da sempre ritenuto assai importante. Perché il nostro popolo si adatta al paesaggio. Perciò in Italia si è sempre dovuto combattere “per l’Italia”. Perciò da noi, da Dante a Manzoni, da Gramsci a Croce, le riflessioni sulle attitudini delle “classi dirigenti”hanno sempre avuto grande rilevanza. Così è ancora oggi, perché purtroppo non sembra di intraveder all’orizzonte classi dirigenti capaci di risollevare l’Italia, come Stato e come Nazione. Scriveva Giacomo Leopardi: «Il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora in gran parte nel recuperare il perduto». Una considerazione che si adatta alla perfezione alla nostra attualità, Perché davanti a noi c’è un nuovo risorgimento cui dar vita. Ma per realizzarlo occorre innanzitutto recuperare ciò che abbiamo perduto. Ecco allora il compito della nostra generazione, 150 anni dopo l’Unità: creare una classe dirigente che sappia riannodare nelle proprie mani il grande filo rosso della storia d’Italia. Il filo che, al di là dei punti di partenza, unisce Gioberti, Mazzini, De Gasperi, Einaudi, Sturzo, La Malfa, Ciampi intorno a una grande priorità: saper mettere il senso dello Stato e l’amore per l’unità nazionale sopra ogni altra cosa, anche sopra le proprie idee. E’il filo dell’umanesimo cristiano e liberale, vera colonna sonora della nostra Unità. Proprio come accadde nel corso del Risorgimento, l’Italia di oggi avrebbe bisogno che tutte le correnti politiche che si riconoscono in questa storia, a qualsiasi titolo esse siano attive nel cattivo bipolarismo di oggi, si unissero in un grande patto. Lo si chiami come si vuole: alleanza, coalizione, partito. Importante è concordare sui due grandi, difficili, obiettivi da raggiungere: la ricostruzione dello Stato, la rinascita della Nazione.


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Diplomazia. Ahmadinejad (in tv) dà l’ok alla cooperazione sul processo atomico. Consegnata ieri la risposta all’agenzia Onu

Nucleare, un passo avanti L’Aiea: «Tutto l’uranio subito fuori dall’Iran» Teheran: «Uscita graduale». Ma c’è un baratto di Pierre Chiartano eheran ha inviato la risposta. Sul progetto del combustibile nucleare proposto e Vienna, sapremo presto quali condizioni sono state accettate dal regime sciita. Ieri mattina, a poche ore dall’atteso incontro di Vienna, il presidente iraniano, Mahmoud Ahmdinejad, ha dato il via libera allo scambio dell’uranio. In un discorso trasmesso in tv, Ahmadinejad ha detto che, «le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto a una di cooperazione (…) per questo possiamo collaborare» anche se ha aggiunto che l’Iran non rinuncerà assolutamente ai suoi diritti.

T

In un comunicato l’Aiea ha reso noto che sono in corso le consultazioni del Direttore generale Mohamed ElBaradei con tutte le parti in causa «con la speranza che una accordo sulla proposta possa essere

raggiunto in tempi brevi». L’Aiea non ha fornito alcun dettaglio sul contenuto della risposta iraniana, che dovrebbe tuttavia contenere alcune proposte di modifica della bozza di accordo di Vienna, pur accettandone le linee guida. In particolare, secondo alcune anticipazioni Teheran non sarebbe disposta a privarsi dell’intera quantità di uranio da arricchire – circa l’80 per cento del totale - in un’unica soluzione, ma preferirebbe che le operazioni di arricchimento all’estero si svolgessero gradual-

mente; inoltre, per ciascuna spedizione all’estero l’Iran vorrebbe ottenere una quantità analoga di uranio già arricchito da poter utilizzare nel reattore sperimentale di Teheran. L’accordo di Vienna era già stato accettato nella sua forma provvisoria da Stati Uniti, Francia e Russia. Tuttavia mercoledì il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense James Jones aveva avvertito che Washington è pronta a rispondere se Teheran non rispetterà gli impegni internazionali aggiungendo che l’obbiettivo è che «l’Iran sospenda i propri programmi nucleari». L’accordo di per sé risolverebbe il problema per circa una anno non di più. Il regime degli ayatollah non avrebbe materiale fissile per un

David Albright dell’Institute for Science and International Security: «È un accordo che farebbe guadagnare ai negoziatori un anno di tempo, per cercare nel frattempo una soluzione definitiva» eventuale programma militare solo per quel periodo. Ma come faceva notare, pochi giorni fa, David Albright al Council on foreign relations «è un accordo che farebbe guadagnare ai negoziatori un anno di tempo per allentare la tensione su Teheran e trovare lo spazio per un even-

tuale accordo quadro». Albright è presidente dell’Institute for Science and International Security e sa che è bene non farsi troppe illusioni, ma rimane pragmatico, perchè questo accordo bloccehrebbe il cronometro nucleare non solo per l?occidente ma anche per l’I-

Ricevendo il nuovo ambasciatore persiano, Benedetto XVI sottolinea la spiritualità del Paese

E il Papa prega: «Cooperate» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

CITTÀ

DEL VATICANO. Il mondo intero «deve sperare e sostenere una nuova fase di apertura e collaborazione, che proviene da eminenti tradizioni spirituali. In questo senso, l’Iran può giocare un ruolo importante». È il senso del messaggio che Benedetto XVI ha rivolto al nuovo ambasciatore dell’Iran presso la Santa Sede, Ali Akbar Naseri, ricevuto nella mattinata di ieri per la presentazione delle credenziali. La «profonda sensibilità religiosa» degli iraniani è motivo di speranza per una «crescente apertura e una collaborazione fiduciosa con la comunità internazionale» e la fede nell’unico Dio «incita a lavorare insieme per la promozione dei valori umani fondamentali», i principali dei quali sono la libertà religiosa e la libertà di coscienza. Sono i concetti centrali del discorso, che il Papa ha voluto - sembra - far coincidere con una

delle fasi più tese della negoziazione internazionale sul nucleare di Teheran. Il tema della cooperazione internazionale è stato affrontato da Benedetto XVI a partire dall’evocazione delle eminenti tradizioni spirituali degli iraniani e dalla speranza di apertura e collaborazione che da ciò proviene: «Oggi tutti dobbiamo sperare e sostenere una una nuova fase di cooperazione internazionale, fondata più solidamente su principi umanitari e sull’aiuto concreto a coloro che soffrono, meno dipendente da freddi calcoli di scambi e di benefici tecnici ed economici».

«La fede nell’unico Dio - ha aggiunto poi il Papa – deve avvicinare tutti i credenti e spingerli a lavorare insieme per la difesa e la promozione dei valori umani fondamentali.Tra i diritti universali, un posto fonda-


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Per ciascuna spedizione all’estero il regime sciita vorrebbe ottenere una quantità analoga di uranio già arricchito da poter utilizzare nel reattore sperimentale di Teheran ni di ordine generale sulla società secolarizzata, il nuovo ambasciatore della Repubblica islamica d’Iran presso la Santa Sede, Ali Akbar Naseri, non ha perso l’occasione della presentazione al Papa delle lettere credenziali per denunciare la discriminazione di cui il suo paese è vittima, a suo dire, sul delicato dossier nucleare.

ran. Visto che la paura maggiore è sempre stata quella che i mullah venissero al tavolo negoziale solo per regioni tattiche. Dialogare e contemporaneaneamente proseguire col programma atomico. «Intanto si porterebbe fuori dall’Iran quel materiale che è una potenziale minaccia. Solo per un anno, ma potrebbe essere sufficiente per riprendere il dialogo» sottolinea l’esperto americano per cui l’accordo è importante per guadagnare tempo. E infatti è proprio sulla proposta

di portare fuori dal Paese 1.200 chili di uranio in un colpo solo che Teheran nicchia.

Stando a quanto riportato ieri dal quotidiano iraniano, Juan, la delegazione iraniana proporrà due modifiche sostanziali alla bozza che prevede l’arricchimento all’estero dell’80 per cento del uranio iraniano: spedire all’estero il proprio uranio «gradualmente, e non in un’unica soluzione», come prevede la bozza dell’Aiea del 21 ottobre scorso; la seconda chiederebbe

mentale occupano la libertà religiosa e la libertà di coscienza, perché esse sono la fonte delle altre libertà. Oggetto di una reale collaborazione debbono essere anche gli altri diritti che nascono dalla dignità delle persone e dei popoli, in particolare la promozione e la protezione della vita, giustizia e solidarietà».

D’altro canto, ha proseguito, «come ho spesso avuto occasione di sottolineare, lo stabilimento di relazioni cordiali fra i credenti delle diverse religioni è una necessità urgente del nostro tempo, per costruire un mondo più umano e più conforme al progetto di Dio sulla creazione». In tale prospettiva, il Papa ha espresso il proprio sostegno agli incontri tra gli organismi del Vaticano e dell’Iran che «contribuendo a cercare insieme ciò che è giusto e vero, permettono a tutti di progredire nella conoscenza reciproca e di cooperare nella riflessine sulle grandi questioni che toccano la vita dell’umanità». La presenza dei cattolici in Iran, ove sono «dai primi secoli del cristianesimo», è stato l’argomento conclusivo del quale Benedetto XVI ha parlato al diplomatico iraniano: «È una comunità realmente iraniana [smentendo così le voci secondo cui i cattolici non siano fedeli ai Paesi in cui vivono ndrA].

l’introduzione di uno «scambio simultaneo»; ovvero ricevere in contropartita del proprio combustibile una certa quantità di uranio già arricchito per essere utilizzato da un impianto vicino a Teheran. Intanto Ahmadinejad ha dato il via a una campagna diplomatica in grande stile per sostenere le posizioni di Teheran. E non è stata persa neanche l’occasione della presentazione delle credenziali in vaticano del nuovo ambasciatore iraniano. Tra citazioni di un poeta mistico iraniano e considerazio-

«La Repubblica islamica dell’Iran, appoggiando fermamente le posizioni sul bando totale degli armamenti atomici a livello mondiale, in particolare nella cruciale regione del Medio Oriente – ha detto il rappresentante di Ahmadinejad – da corso alle proprie pacifiche attività nucleari, come membro del Trattato di non proliferazione nucleare, sotto la sorveglianza dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e nel pieno rispetto delle norme internazionali. Suscita stupore e viva protesta una politica basata su due pesi e due misure di certi governi, in base a cui da un lato le pacifiche attività nucleari dell’Iran vengono ostacolate e boicottate, mentre da un altro lato alcuni paesi nuclearizzati che in nessun modo ottemperano alle norme in-

ternazionali vengono sostenuti pienamente». Nessuna menzione, nel discorso al Papa, dei disordini scoppiati in Iran dopo le elezioni, alla repressione e ai processi ai rappresentanti dell’opposizione. La Santa Sede con le parole di Benedetto XVI ha risposto che sarà «sempre pronta a lavorare in armonia con coloro che servono la causa della pace e che promuovono la dignità di cui il Creatore ha dotato ogni essere umano. Oggi dobbiamo tutti sperare e sostenere una nuova fase di cooperazione internazionale, più solidamente fondata sui principi umanitari e sull’aiuto effettivo a coloro che soffrono, meno dipendente - ha sottolineato il Papa senza espliciti riferimenti al dossier nucleare - da freddi calcoli di scambio e di benefici tecnici e economici». Nel frattempo ieri è terminata la visita degli ispettori dell’Aiea presso l’impianto nucleare iraniano di Qom, rimasto segreto fino allo scorso mese. Teheran ha svelato l’esistenza di questo impianto il 21 settembre, in una lettera inviata all’Aiea. I Paesi occidentali ritengono che l’Iran abbia deciso di rivelare il suo segreto solo perchè ormai scoperto dai servizi segreti americani.

La Santa Sede confida che le autorità iraniane sapranno rinforzare e garantire ai cristiani la libertà di professare la loro fede e assicurare alla comunità cattolica le condizioni essenziale per la sua esistenza, in particolare la possibilità di avere personale religioso sufficiente e facilitazioni per lo spostamento per assicurare il servizio religioso ai fedeli». Interessante anche il

di potenze prevaricatrici, il flagello della droga, l’uso strumentale della religione, del ruolo santo della donna, e di mezzi di diffusione culturale, quali le antenne paraboliche e internet nella propagazione dell’immoralità e nella manipolazione della cultura hanno posto l’umanità in una situazione desolante e costituiscono una vera sfida per la sua stessa dignità spirituale».

Per il pontefice, il mondo intero «deve sostenere una nuova fase di apertura e collaborazione, che proviene dalle eminenti tradizioni spirituali»

Invocando una sorta di Santa Alleanza fra i due Stati, il diplomatico ha aggiunto: «La Repubblica Islamica dell’Iran, in forza della legittimità religiosa e dell’adesione popolare di cui gode, è vincolata ai principi della democrazia: dopo ben trenta anni di governo, nonostante i numerosi complotti, ha potuto ascrivere a suo titolo d’onore, in occasione delle recenti elezioni presidenziali, un’epica partecipazione popolare pari all’85 per cento degli aventi diritto al voto». Senza però minimamente accennare alle sanguinose repressioni seguite alle proteste post-consultazione. Si tratta, in un certo senso, di un trucco diplomatico: cercare di accreditare, durante un discorso ufficiale, una versione distorta e propagandistica della verità. Ma va comunque sottolineato l’ottimo risultato di un rapporto teso ma che il Vaticano è costretto a tenere,ì.

discorso di presentazione del nuovo plenipotenziario, che ha detto al Pontefice: « Al giorno d’oggi l’imperialismo dell’informazione, lo sfruttamento economico di sistemi prevaricatori attraverso l’occupazione e l’ingerenza nelle questioni interne di vari Paesi, l’oppressione dei popoli, il diritto di veto - riconosciuto, senza alcun fondamento logico, giuridico e religioso, a grandi potenze - il terrorismo, in particolare il terrorismo di matrice purtroppo religiosa, alimentato dai complotti


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Libano. A quattro mesi dalle elezioni non nasce il nuovo esecutivo più di quattro mesi dalle elezioni, l’impasse politica libanese non sembra accennare ad una svolta. Il premier incaricato Hariri, dopo aver fallito la prima volta nel tentativo di formare un nuovo governo di unità nazionale, ha ricevuto un nuovo incarico dal presidente della Repubblica Suleiman, ma anche la strada di questo secondo tentativo si presenta in salita. Hariri, uno dei leader della coalizione del 14 marzo uscita vincitrice dalle elezioni dello scorso giugno, si sta scontrando con la realtà di un quadro politico estremamente frastagliato. Un quadro che, rispetto alla contrapposizione consolidatasi negli ultimi anni tra il blocco filooccidentale del 14 marzo e quello filo-siriano dell’8 marzo - presenta nuovi elementi di complicazione. Primo tra tutti, le divisioni in seno alla comunità cristiana che si presenta oggi più che mai polarizzata su due fronti contrapposti: quello del generale Aoun, da una parte, e quello formatto dall’alleanza tra le Forze Libanesi di Samir Gegea ed il tradizionale mondo falangista di Amin Gemayel, dall’altra. Il generale Aoun, schieratosi apertamente a fianco della Siria dopo essersi sentito tradito dall’Occidente nella corsa alla successione dell’ex presidente Emile Lahoud, ha irrigidito le sue posizioni e da mesi rifiuta di entrare nel governo di unità nazionale. Il generale, forte della buona affermazione elettorale che gli ha portato in dote 27 deputati su 128, chiede in particolare che il suo partito ottenga sei ministeri, comprese le Telecomunicazioni, dei 30 che dovrebbero comporre il prossimo esecutivo spingendo, proprio per il posto di ministro delle Telecomunicazioni, la candidatura del genero Jibran Bassil. Finora Hariri ha sempre rifiutato le pressanti richieste del generale e questo ha portato di fatto alla mancata formazione del governo di unità nazionale data l’indisponibilità di Hezbollah ed Amal ad entrare in una compagine senza il loro alleato cristiano. Le tensioni che attraversano il mondo cristiano libanese, peraltro non più influente come una volta visto i cambia-

A

I giochi pericolosi di Hariri e Suleiman Il vuoto di potere e le tensioni politiche e religiose riportano il Paese vicino al collasso di Pietro Batacchi

Il generale Aoun, schieratosi apertamente con la Siria, ha irrigidito le sue posizioni e rifiuta di entrare nel governo di unità nazionale menti demografici avvenuti negli ultimi anni a favore delle componenti musulmano sciite e sunnite, sono state accentuate anche dall’attivismo che sembra aver colpito ultimamente il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, il punto di riferimento della comunità cristiano-libanese, che in diverse occasioni è intervenuto pubblicamente per perorare la causa di un governo senza l’8 marzo. Il patriarca ha giustificato i suoi interventi chiamando in causa, come da prassi consolidata, la matrigna influenza di una Siria desiderosa di non veder pregiudicato il peso e l’influenza politica dei suoi clienti libanesi, a cominciare da Hezbollah.

In realtà uno dei pochi aspetti positivi della crisi politica libanese è l’atteggiamento di Hezbollah, ispirato alla massima prudenza e ad un sano pragmatismo. Del resto il movimento guidato da Hassan Nasrallah ha tutto l’interesse a che la crisi si ricomponga e che la situazione in Libano non precipiti, per evitare attenzioni dall’esterno che potrebbero pregiudicare il rafforzamento del proprio potere, seguito alla fine della guerra con Israele del 2006 ed agli scontri di piazza con le componenti della coalizione del 14 marzo nel maggio 2008. Per questo, Hezbollah ha mantenuto durante tutta la crisi un basso profilo preferendo

lasciare la ribalta al generale Aoun. E che le carte sul tavolo libanese siano ormai abbondantemente sparigliate, lo dimostra anche il fatto che uno dei più accaniti esponenti antisiriani del 14 marzo, il leader druso Walid Jumblatt, stia scivolando sempre più verso posizioni di mediazione tra i due schieramenti richiamando la necessità per il Libano di aprire una nuova stagione di rapporti con la Siria. Tutti questi fattori inducono a pensare che, questa volta, la a schizofrenia della politica libanese dipenda da cause endogene più che dalle classiche dinamiche regionali. Lo scenario internazionale sembrerebbe infatti oggi più che mai incline ad una ricomposizione a Beirut. Lo scorso 7 e 8 ottobre, il re saudita Abdullah si è recato in visita a Damasco per la prima volta dal suo avvento al trono nel 2005.

Il vertice con il presidente siriano Assad aveva all’ordine del giorno molti temi, a cominciare dal Libano, e, pur non ottenendo risultati concreti, sembra aver portato un po’ di sereno nel clima tra i due paesi, pessimo da quando nel febbraio 2005 l’ex premier libanese Hariri è rimasto vittima di un attentato del quale è stata accusata la leadership siriana. In particolare, una positiva convergenza si è registrata proprio sul dossier libanese ed entrambi i leader hanno esortato i capi politici libanesi a trovare una soluzione che porti alla formazione di un governo di unità In nazionale. questo contesto non va dimenticato neanche il forte impegno in Libano di paesi europei, e mediterranei, come Italia, Francia e Spagna, dopo che per anni il paese era stato soggetto all’influenza americana. Questi paesi, a partire del 2006, soprattutto a fronte del contemporaneo impegno americano in Iraq ed Afghanistan, hanno assunto un ruolo sempre più rilevante per la stabilizzazione del paese. Prima con l’operazione Leonte, guidata dall’Italia, che ha posto di fatto fine allo stato di guerra tra Libano ed Israele, e poi con la rinnovata missione Unifil. C’era, e c’è, di mezzo la stabilità del paese, certamente, ma anche l’opportunità per i tre paesi europei di capitalizzare politicamente con Washington la grande autonomia fin qui goduta. Le condizioni esterne allora sembrerebbero esserci, visto che nessuno degli attori maggiormente influenti nell’ambito delle vicende interne libanesi, ha interesse che l’impasse si protragga nel tempo. Anche perché in queste condizioni c’è sempre il rischio che un incidente o un errore di calcolo porti alla deflagrazione e faccia precipitare il paese nel baratro della guerra civile o con Israele. Gli ultimi episodi che hanno visto il lancio di razzi contro Israele, infatti, se non contrastati, potrebbero costituire dei pericolosi detonatori per una situazione precaria e da troppo tempo appesa ai fili sottili della logica settaria e personalistica.


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30 ottobre 2009 • pagina 17

Le delegazioni del presidente eletto e del “golpista” riunite

All’attenzione degli Stati la missione in Afghanistan

Honduras, Zelaya vicino a tornare al governo

Il Consiglio di Sicurezza riunito ieri d’emergenza

TEGUCIGALPA. Le delegazioni

NEW YORK. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito d’emergenza nella serata di ieri per decidere in merito alla missione in Afghanistan. Il Consiglio ha fermamente condannato l’attentato che è costato la vita all’inizio di due giorni fa a undici persone, tra cui cinque dipendenti delle Nazioni Unite, a Kabul. I membri del Consiglio hanno condannato l’attentato «nei termini più forti» e hanno reiterato il loro fermo sostegno al ruolo giocato dal personale dell’Onu in Afghanistan. I quindici membri hanno notato «con una grande preoccupazione che i talebani hanno rivendicato la responsabilità dell’attentato» e «fermamente condannato i tentativi, in parti-

del governo de facto e del presidente eletto dell’Honduras sono nuovamente riunite per un nuovo tentativo di dialogo. Un incontro che si svolge sotto gli auspici del sottosegretario di Stato Usa per l’America Latina,Thomas Shannon in un albergo della capitale Tegucigalpa. Le distanze tra le parti rimangono intatte sempre sullo stesso punto: il rientro di Zelaya alla guida del Paese. I fedelissimi del presidente eletto chiedono che a pronunciarsi sul suo reintegro sia il Congresso, mentre gli uomini di Micheletti hanno a lungo spinto perché fosse vincolante il pronunciamento della Corte Suprema, l’organo che ha avallato l’allontanamento di Zelaya dal paese, lo scorso 28 luglio. L’ultima proposta di mediazione, tutta da percorrere, prevede che sia il Congresso a decidere, ma sentito il parere dell’alto tribunale. Nel frattempo si avvicinano i tempi della chiamata alle urne, prevista per il 29 novembre: la scadenza che gli uomini del governo de facto indicano come risolutiva per sanare la crisi istituzionale che si è venuta a creare. Impasse la cui soluzione è «molto più vicina di quanto si creda», ha detto il rappresentante dell’Osa (Or-

La Pelosi “svela” la riforma sanitaria Circa 100 miliardi di dollari di spesa in più per il Tesoro di Osvaldo Baldacci e ne parla da tanto tempo e se ne parla molto. Ma solo ieri è stata finalmente davvero presentata. È la riforma sanitaria proposta dai Democratici statunitensi, quella fortemente voluta da Obama e per la quale il neopresidente sta pagando lo scotto del più grande calo di consensi mai avvenuto in pochi mesi. Ieri la presidente della Camera, Nancy Pelosi, ha presentato il testo che sarà sottoposto al voto dei deputati già la settimana prossima nella speranza di chiudere la questione entro l’11 novembre, e ripassare la palla al Senato. Nancy Pelosi ha scelto lo scenario più solenne possibile per presentare la versione finale del testo: ha radunato i democratici davanti al Campidoglio di Washington, che ospita il Parlamento americano, sulle stesse scale dove Barack Obama ha giurato da presidente lo scorso gennaio. Con la riforma la copertura sanitaria sarebbe estesa ad altri 36 milioni di americani entro il 2013 e la percentuale di cittadini assicurati salirebbe così al 96%, due punti in più di quella prevista nella bozza all’esame del Senato. Il testo voluto da Obama ha diverse modifiche rispetto alle bozze che già erano al Congresso da tempo. La formula scelta alla Camera prevede un ruolo maggiore dello Stato rispetto al testo in discussione al Senato e di conseguenza alza il costo complessivo della riforma di circa 85 miliardi di dollari in dieci anni. La bozza approvata dalla Commissione Finanze del Senato costava circa 829 miliardi di dollari fino al 2019, mentre il nuovo progetto arriva a 894 miliardi, con un tentativo di contenimento rispetto ai mille inizialmente stimati. A far salire i costi complessivi della riforma rispetto al Senato è anche uno dei punti determinanti del testo, l’espansione del Medicaid, il sistema sanitario pubblico per poveri, che comunque sarebbe a sua volta meno caro della politica di contribuzione alle assicurazioni private, politica che comunque sarà usata per integrare le assicurazioni fornite dai datori di lavoro alla middle class . La possibilità di essere assistiti da Medicaid sale fino quasi al 150% del livello federale di povertà per tutti gli adulti, un incremento maggio-

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re a quanto preventivato in precedenza.Vi rientrano cioè tutti coloro che guadagnano fino a 16.200 dollari l’anno, rispetto ai 14.400 del testo del Senato. Gran parte dell’incremento di spesa deriva però dalla formula scelta alla Camera per la cosiddetta “public option”, la creazione di una compagnia assicurativa pubblica che competa sul mercato per costringere le società private ad abbattere i costi delle polizze. È il punto più controverso e contestato della riforma.

Pelosi ha iniziato le trattative all’interno dei democratici sin da giugno e nelle ultime due settimane ha presentato tre diverse versioni della riforma, tutte contenenti l’opzione pubblica, osteggiate dai repubblicani che accusano la Casa Bianca di mettere in discussione le basi del libero mercato. Ovviamente sul fronte opposto, quello statalista, la Pelosi e la sinistra democratica, i liberal. Però la speaker della Camera per portare in discussione il testo e cercare i voti necessari a farlo approvare sembra però aver accettato un comche promesso prevede la possibilità per i medici di concordare l’ammontare dei rimborsi pubblici e delle proprie parcelle direttamente con il governo anziché fissare le tariffe in base a quelle del Medicaid, il sistema che risale agli anni sessanta per tutelare la salute degli indigenti. Nella versione uscita dalla trattativa interna ai democratici salgono i costi dei rimborsi che lo Stato dovrà assicurare a medici ed ospedali per le prestazioni sanitarie. Ma questo potrebbe non essere sufficiente a raggiungere la maggioranza. I Repubblicani, quasi tutti, restano fermamente all’opposizione. I Democratici moderati incassano queste modifiche, e seppur ieri schierati alle spalle della Pelosi, non danno nulla per scontato. I liberal dal canto loro in aula potrebbero tornare all’assalto con proposte più intransigenti. Inoltre anche la bozza della Pelosi non risolve alcuni dei nodi controversi della riforma, forse marginali rispetto all’impianto generale, ma non rispetto a qualche voto: l’aborto e l’immigrazione.

Con la manovra la copertura assicurativa sarebbe estesa ad altri 36 milioni di americani entro e non oltre il 2013

ganizzazione degli Stati americani) Victor Rico al quotidiano colombiano El Tiempo. Rico, tra gli uomini presenti a Tegucigalpa e impegnati nel processo di dialogo, dice che le distanze tra le parti sul punto contestato «non sono molte» e «non sono sostanziali». «Non faccio pronostici - ha spiegato Rico - perché se poi non si realizzano si parla di fallimento. Però ho ragionevoli aspettative che si possa risolvere la questione ancora pendente». Rimangono tuttavia i dubbi per un incontro che pare essere osteggiato dagli Stati Uniti, che dopo un’iniziale interesse hanno lasciato al loro destino i due politici honduregni.

colare dei talebani, per far deragliare il processo elettorale e destabilizzare l’Afghanistan» ha sottolinato la presidenza del Consiglio in una dichiarazione alla stampa. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che ha affermato che le Nazioni Unite non si lasceranno intimidire da quest’atto «increscioso e brutale», e il suo rappresentante speciale per l’Afghanistan Kai Eide hanno detto che la missione d’assistenza delle nazioni Unite in Afghanistan esaminerà, alla luce dell’attentato, se è necessario prendere nuove misure di sicurezza per proteggere tutto il personale dell’Onu e rafforzare la sicurezza degli edifici non soltanto a Kabul ma anche in altre zone dove la situazione è pericolosa. L’e-mail inviata con urgenza a tutti gli uffici Onu, con cui si convocava la riunione di ieri sera, chiede a tutte le agenzie di «riesaminare le liste del personale essenziale e meno essenziale». Potrebbe essere un primo passo per una gestione diversa delle assunzioni all’interno delle Nazioni Unite: sono molto forti, infatti, i sospetti che gli infiltrati qaedisti nell’organizzazione siano riusciti a fare più di un proselita fra il personale in servizio. Una situazione che rischia di degenerare in altri attentati.


cultura

pagina 18 • 30 ottobre 2009

Il caso. Piccioni ci dimostra come Bernhard sbagli ad attribuire all’assegnazione dei riconoscimenti solo un valore economico

Quello che i soldi non dicono Fortichiari, Capriolo, Del Giudice, tre esempi di qualità letteraria incoronata dalle giurie di Leone Piccioni Diversamente da quello che sostiene Thomas Bernhard, il quale (ne parliamo nell’articolo della pagina a fianco) riconosce ai premi letterari esclusivamente un valore economico, esiste una scuola di pensiero che individua nell’indicazione della giuria che presceglie il vincitore, un valore culturale, una spinta alla diffusione di un’opera meritevole. Di questa idea è Leone Piccioni, che per i premi letterari italiani si è molto speso. A dimostrazione di ciò, pubblichiamo tre sue motivazioni critiche relative a due vincitori e a un secondo classificato di tre premi recentemente assegnati: il Basilicata, il Certaldo, il Rapallo. Premio Basilicata 25 ottobre 2009 Valentina Fortichiari vincitore Stiamo per entrare a far parte di una grande vacanza estiva, sul mare di Francia, con la grande scrittrice francese Colette in un’ampia cerchia di amici, letterati e poeti. Stiamo per assistere a delle memorabili lezioni di nuoto. Lezioni di nuoto è il romanzo edito da Guanda di Valentina Fortichiari, ambientato nell’estate del 1920, e che ha come base lo strano rapporto di amore e di tenerezza tra Colette 47 anni e Bertrand 16 anni, suo figliastro concepito da un ex marito di Colette con la nuova moglie. Valentina Fortichiari è assai nota nel campo letterario per la sua attività editoriale e specialmente per alcuni suoi saggi critici tra i quali citiamo per importanza quello su Morselli. Morselli che fu rifiutato come scrittore dalle grandi case editrici e da suoi grandi amici che erano anche direttori editoriali, rivive attraverso le edizioni di Adelphi, e con grande merito per gli scritti di Valentina Fortichiari. Lezioni di nuoto è un’opera prima, ma è raccontata con tale eleganza e insieme con tanta drammaticità, capacità d’incanto, capacità di commozione

che si presenta con una prova di grande maturità: una prova di cui - sono certo - si parlerà in questa stagione letteraria. Questa volta noi siamo i primi a indicare il valore di quest’opera. Il nostro Premio è fissato nel calendario letterario alla fine della stagione e noi abbiamo sempre preso in considerazione libri già premiati da altri concorsi ma tali da meritare una ultima indicazione positiva. Questa volta - ripeto siamo i primi. Molto approfondito psicologicamente il carattere di Colette che passa da un atteggiamento all’altro: serena e poi ombrosa, ingenua e poi nevrotica, pura e poi passionale, generosa, ma anche ritratta talvolta in se stessa. Le vacanze si svolgono con

Tra i tanti memorabili episodi c’è quello di una gita di Colette e di Bertrand a Mont Saint-Michel, per contemplare fra tenerezza e amoreggiamenti il mare che via via ricopre la spiaggia e lascia il monte come un’isola che fa sognare. Dolcemente e acutamente sono narrate le lezioni di nuoto che Colette, che ha molta confidenza con il mare, impartisce al giovane Bertrand, il quale a poco a poco impara ad avere anche lui questa splendida confidenza con l’acqua, e si scopre che Valentina Fortichiari ha scritto un manuale sul nuoto intitolato Nuotare tutti subito e bene editore Tea, e che è stata anche campionessa di nuoto. Partono gli ospiti, rimane Colette con Hélène e i ragazzi. Per un banale incidente la casa è distrutta da un incendio. Questa fiamma viene a concludere il ciclo delle vacanze e pare cancellare d’un colpo tutto quello che è precedentemente accaduto di bene e di male, di felicità e di malinconia. La vacanza così movimentata, così avvincente finisce purtroppo anche per noi: ci resta un luminoso ricordo e un’emozione così forte che sono certo il segno di una grande capacità di Valentina Fortichiari.

Esiste ancora una scuola di pensiero che individua nell’indicazione dei “giudici” una spinta alla diffusione di un’opera meritevole

grande vivacità: si intrecciano tanti pensieri, tante storie di personaggi diversi, tanto affetto e tanta delusione. Tra i personaggi fa spicco quello della segretaria di Colette, Hélène, ansiosa di incontrare un vero amore che dia senso alla sua vita con un carattere diametralmente opposto a quello di Colette.

Premio Boccaccio Certaldo 12 settembre 2009 Daniele Del Giudice vincitore Daniele Del Giudice si presentò all’ammirazione della critica e dei lettori già con la sua opera prima dell’83 Lo stadio Wimbledon (tutti i suoi libri sono stati stampati da Einaudi). Nell’85 seguì Atlante occidentale e poi, dopo una prima lunga pausa, ecco il bellissimo Staccando l’ombra da terra del ’94 fino a Mania del ’97. Orizzonte mobile ci ha dato l’occasione, in questa edizione del Premio Boccaccio, di assegnare un premio all’unanimità. Un grande libro di avventure che ci porta nell’Antardide con un viaggio iniziato a Santiago del Cile nel 1990. Orizzonte mobile da quei ricordi del viaggio del ’90 arriva oggi fino a noi

dopo quasi vent’anni di splendida maturazione con tante ricerche, tante letture, tanta analisi. Il montaggio del libro è dovuto a mano sapientissima: ci sono otto capitoli che riportano le impressioni e le descrizioni di Del Giudice alternati da sette altri capitoli tratti da antichi viaggi nell’Antardide delle spedizioni Gerlache del 1882 e Bova del 1898. Ci si muove dal Ponte Arenas alla Terra del Fuoco. In una nota finale Del Giudice ci racconta delle sempre più organizzate e sofisticate spedizioni con nuovi strumenti scientifici a disposizione e con intenti strategici e di prestigio nazionale per osservazioni di carattere climatico e faunistico e con «interesse antropologico per la popolazione indigena sempre più scarsa e con gli immigrati sempre più numerosi». Grande libro di avventure - s’è detto - con la limpidezza di scrittura inconfondibile dello stile di Del Giudice, e uniformità stilistica nelle trascrizioni dei resoconti di viaggio precedenti. Prosa cristallina piena di riflessi davanti al mutare delle latitudini, degli orizzonti, delle ore, delle diverse stagioni dell’anno, pur sempre a contatto questa volta con un paese di ghiaccio. La sua scrittura di ghiaccio si riflette. Tanti episodi: navi, ad esempio,

che circondate e attanagliate dai ghiacci devono sostare anche nove mesi aspettando il disgelo, con racconti su esplorazioni, su incontri, sulla vita di bordo, spesso faccia a faccia con la morte. Si legge incalzati dagli avvenimenti, dalle tempeste, dalle bonacce, pur all’interno di questa spessa drammaticità con una visione complessivamente serena. Più coinvolgente di un romanzo, più affascinante, più commosso. All’ultima pagina duole che il viaggio anche per noi, proprio per noi, sia finito. Conferma di uno scrittore che in questi anni abbiamo amato e che ringraziamo per Orizzonte mobile. Premio Rapallo 20 giugno 2009 Paola Capriolo II classificata Paola Capriolo ci è venuta incontro, govanissima, nel 1988


cultura

30 ottobre 2009 • pagina 19

Il suo pur divertente libretto convince solo a metà

Thomas Bernhard? Un simpatico ingrato Si può davvero sputare con villania sul “Premio” dove si è finora mangiato? di Gabriella Mecucci e portano soldi i premi possono essere anche sopportabili. Ma il loro valore è solo quello. Il resto è disvalore. È questa la “filosofia”di un divertente libretto di Thomas Bernhard, scrittore austriaco, dal titolo I miei premi (Adelphi). Il delizioso pamphlet è autobiografico e l’autore racconta senza peli sulla penna quante ne ha viste ogni volta che è andato a ritirare un qualche riconoscimento letterario. Bernhard comincia con uno brutto scherzo organizzato da lui e dalla zia al premio Grillparzer. Arrivarono nel salone delle feste e si accorsero che a nessuno importava nulla di loro. Era tutto un rincorrersi di politici, industrialotti e organizzatori che cercavano di mettersi bene in vista al tavolo della presidenza. Zia e nipote decisero di non partecipare a questa sciocca passerella in cui la più attiva e la più ridicola era la ministra per la Ricerca Scientifica. Intanto, fra salamelecchi e qualche spinta per aggiudicarsi la poltroncina più in vista, tutti avevano ormai preso posto. Non restava che iniziare la premiazione. Peccato che in quella confusione si fosse perso il premiato e cioè Thomas Bernhard.

S

con La grande Eulalia, un libro che richiamò subito su di lei l’attenzione della critica e del pubblico dei lettori. Ci ha dato poi, via via, altri romanzi dei quali certamente il nostro Premio non si è disinteressato. Ora, vent’anni dopo quell’inizio, torna con un romanzo certamente tra i suoi più belli Il pianista muto (Bompiani Editore). La narrazione parte da un fatto di cronaca. Fu ritrovato in una spiaggia deserta un giovane con un vestito da sera, vestito da concerto, che non parlava. Non che fosse muto di nascita ma non parlava. Nadine, la giovane donna di colore che lo ha trovato e che a poco a poco si innamora di lui malgrado i grandi silenzi, lo fa ricoverare in una clinica nella quale lavora come infermiera. L’unica cosa che si ottiene dal giovane ritrovato sulla spiaggia è il disegno di un pianoforte. Si tratta dunque di un pianista? In una sala della clinica c’è un piano, il ragazzo viene condotto davanti alla tastiera e comincia a suonare magnificamnete, con molta gente che lo ascolta muta e commossa: ecco Mozart, Chopin, Beethoven, Frank Schubert. Questo incontro musicale si ripete quasi ogni sera e avvolge il romanzo con una concertazione finisssima e

A destra, lo scrittore Thomas Bernhard. Sopra e nella pagina a fianco, le copertine di: “Lezioni di nuoto” (di Valentina Fortichiari); “Il pianista muto” (di Paola Capriolo); “Orizzonte mobile” (di Daniele Del Giudice). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

commovente: Paola Capriolo, oltre che scrittrice ed esperta di letteratura tedesca, si dimostra una finissima musicologa. Il romanzo si svolge intorno ad alcuni personaggi, a Nadine soprattutto ma anche alla bellissima figura di Rosenthal, un vecchio ebreo sfuggito ai campi di concentramennto nazisti. E Rosenthal durante il concerto del pianista muto si commuove e piamge. Molto belle le pagine della morte di Rosenthal e sull’amore di Nadine che viene poi mandata via dalla clinica, perché ha tentato di far uscire il pianista per portarlo in un luogo di gente vera, sperando in qualche suo mutamento. Ma non c’è mutamento. Nadine se ne va e il pianista muto riesce ad allontanarsi. «A piedi nudi nella luce del sole nascente attraversa la spiaggia dirigendosi verso il mare e quando l’ha raggiunto comincia a camminare lungo la battigia». Una straordinaria concertazione - si è detto - il cupo silenzio e il fragore lancinante della musica, e ancora il silenzio, il dolore di un amore inascoltato, il dolore a piene mani diffuso nel mondo, la tragedia dei campi di sterminio e ancora la musica e il silenzio in un tessuto di grande drammaticità.

naro. Bernhard l’aveva scoperto quando era stato ricoverato all’ospedale. Malato gravemente ai polmoni conduceva una vita fra la casa della zia e il nosocomio. Fu allora che cominciò a sognare di possedere una casa.

Ma uno scrittore è quasi sempre squattrinato e allora è costretto a venir meno ai propri principi antipremi e ad accettarne uno dietro l’altro: il premio Brema, il premio nazionale per la letteratura, il premio letterario della Camera federale del Commercio e via snocciolando. La casa costa cara e Bernhard non solo accetta di partecipare a tante “repellenti”cerimonie, ma si va a comprare il vestito nuovo, prepara il discorso di ringraziamento e tutto il resto che può servire. E poi c’è anche la voglia di una fiammante Triumph Herald. E allora si sdoppia: con una mano prende soldi con l’altra scrive improperi contro chi glieli dà. Plateale incoerenza giustificata con un cinico: «Se qualcuno offre del denaro vuol dire che ne ha ed è giusto alleggerirlo». Alla fine del libro il fastidio per il caravan serraglio del premio letterario è molto forte. Ma serpeggia anche un po’di diffidenza verso chi ne parla tanto male pur approfittandone. L’essere più colti e saper scrivere, non autorizza nessuno a fare cose che giudica “repellenti” sputando con villania sul piatto dove si è mangiato. Ma in fondo quello di Bernhard è anche un atto di amore verso questo tipo di riconoscimenti e soprattutto verso la scrittura. Li vorrebbe migliori e s’indigna quando alcuni boriosi ignorantoni, dotati di ricco portafoglio o di un po’ di potere politico, calpestano con la loro indifferenza i letterati magari gridando: «Ma dove si è cacciato il nostro scrittorello?». Il libretto convincente solo a metà viene riscattato da alcuni splendidi discorsi di Bernhard quando gli consegnano i premi. Il più bello è quello pronunciato dopo aver ricevuto il premio Georg Buchner. Quella è poesia vera.

Va detto però che il suo è anche un atto di amore soprattutto verso la scrittura...

Il nostro autore e la zia si erano seduti comodamente in sala e non fu facile scorgerli. Alla fine qualcuno li trovò. Spinsero il premiato verso il palco invitandolo a sedere. Iniziò la cerimonia: lunghi discorsi noiosi e poi l’esecuzioni musicali dell’orchestra.Tutti si mettevano in mostra, nessuno continuava a curarsi del premiato. Insomma, sin dal primo premio, ci si squaderna davanti la saga dell’ignoranza e dell’opportunismo, della tirchieria e dell’insipienza. Il Grillparzer è uno dei premi raccontati, non il peggiore. Dopo il Theodor Csokor, Thomas sbotta: «Disprezzavo coloro che distribuivano premi, ma non respingevo in maniera tassativa quei premi. Odiavo le cerimonie ma facevo la mia parte, odiavo coloro che distribuivano premi, ma accettavo i loro soldi». E qui abbiamo toccato il punto: il da-


spettacoli

pagina 20 • 30 ottobre 2009

Libri. In un volume di Matt Mason, l’essenza pura dell’anarchia musicale sembra offrire una soluzione globale alla recessione

Se il capitalismo diventa punk di Angelo Capasso

l protagonismo dell’economia, in tutti i settori di vita, è diventato ormai l’ossessione dell’epoca che stiamo vivendo. La musica può essere in grado di proporre modelli economici? Forse sì, ma che ad esserlo sia proprio il Punk, essenza pura dell’anarchia, sembrerebbe un vero paradosso. Eppure, in questo nuovo libro di Matt Mason (d.j., scrittore, produttore musicale e televisivo) si trovano molti indizi concreti su una possibile via punk al capitalismo come risposta alla crisi del capitalismo stesso.

I

I grandi paradossi sociali, culturali ed economici prodotti dal capitalismo globale ci furono segnalati nel 2000 dal libro/pamphlet di Naomi Klein No logo. Il libro della giornalista canadese si presentava allora come una prima denuncia circostanziata nei confronti delle politiche selvagge di alcune grandi major internazionali. Quel libro apriva al nuovo millennio questioni ormai di scottante attualità: la questione del marketing applicato universalmente ad ogni attività produttiva, dal vendita dello yogurt a quella delle auto di lusso; i flussi economici finanziari senza regole; l’ingigantirsi delle politiche di “branding” e la massificazione globale del gusto. Naomi Klein affermava che nei vent’anni che sono seguiti agli anni ottanta, il capitalismo ha conosciuto una profonda trasformazione: se in una prima fase gli interessi delle grandi multinazionali si era concentrato sulla produzione di merci, in una seconda fase la produzione è divenuta marginale, quasi trascurabile, e, con lo scopo di crearsi delle grandi fette di monopolio, il denaro e le strategie industriali si sono rivolte verso la creazione di marchi forti (il branding) associando ad essi una di valori immateriali ed ideali. In una frase: il marchio è diventato il prodotto. Di conseguenza, le ingenti risorse monetarie necessarie alla costruzione del marchio (quelle di Nike, Reebok, Adidas, Disney, per intenderci) hanno sottratto risorse economiche alla produzione, che, divenuta di interesse secondario, è stata dislocata o meglio “delocalizzata” nei paesi del Terzo mondo, dove le grandi imprese hanno potuto agire impunemente sulla forza lavoro con metodi non sempre traspa-

L’autore ci racconta le culture giovanili degli ultimi trent’anni e la loro originale forma di resistenza all’omologazione

Qui sopra, il logo dei Sex Pistols; a destra, la band; in alto, Matt Mason e il libro “Punk Capitalismo”

renti. Può essere il Punk l’alternativa a questo sistema economico? Ovviamente no. È curioso però rilevare come ciò che abbiamo considerato “senza futuro” (“no future” era lo slogan del punk stesso), se non nelle acconciature, nella moda, nella musica, oggi sia considerato alle origini di una cultura giovanile che ha fatto del riuso “non autorizzato” delle immagini e della musica preesistenti la propria cifra stilistica. Oltre ad essere la cultura delle chitarre scordate e delle voci stonate, il punk ha sfondato il muro delle organizzazioni economiche proponendo una nuova onda di cultura libera, senza argini, focalizzata soltanto sull’espressione individuale. Ed è questo, che Matt Mason considera alla base delle attuali forme di pirateria di massa. Al punk, con lo stesso metodo anarchico, si sono susseguiti l’hip hop, i rave, i graffitisti e poi l’industria dei vicome deogame, espressione di una nuova anarchia tecnologica diffusa dall’accesso universale ad internet. L’hip hop ha seguito il punk, perché come questo ha fatto un uso “non autorizzato” di linee melodiche a suo tempo rese famose da James Brown e da tutti i grandi artisti del funk. Tutte le icone più importanti della pop culture a vario titolo sono stati coinvolti in questo processo di riuso: dai

Ramones a Andy Warhol, da Madonna a Pharrell e 50 Cent. In modo appassionato, Matt Mason ci racconta le culture giovanili degli ultimi trent’anni e la loro originale forma di resistenza all’omologazione e come questo processo di resistenza e creatività abbia guidato il processo di innovazione e cambiato il modo in cui il mondo la-

vora e funziona, offrendoci una diversa prospettiva della pirateria, vista prosaicamente come un altro modo di fare economia. In verità, questa regola alternativa ha già i suoi frutti nel successo ottenuto dal grande padre del punk, oggi manager industriale di musica, Malcolm Mclaren, e da sua moglie, Vivienne Westwood, che ispirò l’abbigliamento dell’intero mo-

vimento punk che allora sbeffeggiava la regina Elisabetta ed oggi è la regina dell’industria della moda. Ma la questione sollevata dal punk resta però del tutto attuale: cosa fare quindi della pirateria se questa diviene l’unico modo per rimettere in discussione la grande informazione ufficiale? Dobbiamo reprimerla, costi quel che costi, o diversamente cercare di capire perché sempre più si diffondono modalità di pirateria digitale? E poi: è veramente un problema o potrebbe rappresentare una soluzione? La competizione aperta, libera, diffusa, così come la impone la tecnologia della rete, potrebbe proporsi come un modello nuovo e vincente modello di economia e solletica interessi internazionali molto consistenti.

Il libro di Matt Mason (in edizione originale si intitola Pirate’s Dilemma) in effetti sta avendo un grande successo. E’ stato tradotto in oltre dieci paesi (l’edizione inglese è stata pubblicata da Penguin), ed è stato premiato come “Best Pirate 2008” da BusinessWeek. A dieci anni di distanza dal libro della Klein, questo libro ha comunque il pregio indiscutibile di propugnare una linea diversa, rispetto al panorama dell’universo dei media: non è a favore dell’hackerismo come forma di rivolta nei confronti del mondo del capitale; riconosce nella pirateria culturale intesa come libertà totale di espressione - un modo per produrre una critica radicale, sana, nei confronti del capitalismo per modificarlo in corso d’opera e renderlo più umano.


spettacoli

30 ottobre 2009 • pagina 21

A fianco e in basso, due immagini dell’artista italiano Neffa. A sinistra, la copertina del suo nuovo album, “Sognando contromano”

he il mondo in cui viviamo vada al contrario è un dato di fatto. Basta sfogliare i giornali per rendersi conto di quanto la realtà superi spesso persino le fantasie più sfrenate. In un contesto del genere a continuare credere nei propri sogni diventa difficile. Si tratta di non farsopraffare si dalla realtà circostante che spesso ci inchioda a terra e ci di impedisce prendere il volo. Questo il senso del titolo, un po’marzulliano, del nuovo album di Giovanni Pellino, in arte Neffa: Sognando contromano. Nel suo nuovo disco di inediti, pubblicato dalla Sony Music il 29 giugno a tre anni di distanza da Alla fine della notte, il cantante di origine salernitana ma trapiantato a Bologna, racconta la tenacia e la costanza che mette ogni giorno nel continuare a coltivare i suoi sogni che sono poi le sue speranze, prima fra tutte quella nell’amore.

C

Ingenuo? Naïf? Probabile. Ma Neffa con la sua musica intende proprio riportarci un po’allo stupore che provavamo da bambini quando bastava una bella canzone per trasmetterci allegria e positività. Chi l’ha detto, insomma, che per “diventare grandi” si debba per forza perdere completamente la propria innocenza e diventare cinici e spietati? Basta, forse, tornare ad approcciare la vita con semplicità e a vivere fino in fondo i propri sentimenti senza paura di dire “per sempre” come nel testo della prima traccia dell’album Distante. Ma non è tutto rose e fiori nel mondo di Giovanni. Anzi. Lontano dal tuo sole, il primo singolo estratto dal disco, racconta proprio lo spaesamento di chi non sa che direzione prendere ma ha anche la speranza che presto tornerà a splendere il sole nonostante «il cielo sembri chiuso». E lo stesso concetto è ribadito in Qualcosa di più il cui testo recita «ogni destino dovrà compiersi prima o poi». È un Neffa decisamente più maturo quello che intravediamo tra le parole delle undici tracce di questo suo nuovo lavoro. Un cantautore capace di esprimere la passione fisica come in Solo così ma anche la bellezza della condivisione della quotidianità tra due persone che si amano come in La mia stella, pezzo in cui Neffa canta «Lo so che non c’è tem-

Musica. Dopo tre anni, il grande ritorno sulle scene con un nuovo album

Sognando contromano Oltre al danno... Neffa di Matteo Poddi

Un disco che rappresenta un atto di resa alla vita e all’amore. Un inno alla gioia di vivere, nonostante tutto e tutti

tile combattere contro i propri sentimenti. L’unica cosa da fare è lasciarsi andare e viverli come ci suggerisce Nessuno, il secondo singolo uscito il 2 ottobre e ancora in heavy rotation nelle radio, nella convinzione che «C’è una sola direzione per uscire da qui ed è arrendersi incondizionatamente all’amore e dire di sì».

po da perdere e che siamo programmati per correre ma la sera io ti stringo e tu spegni la tv e ogni giorno io ti amo un po’ di più». Semplice, persino banale eppure così vero. Minimalismo è la parola d’ordine.

Un disco che vuole essere, dunque, un atto di resa alla vita e all’amore, una celebrazione della gioia di vivere nonostante tutto e tutti. Il minimalismo dei testi

E così in “Satellite” i classici cinque minuti in più da trascorrere nel letto dopo la sveglia diventano un momento prezioso da condividere con il partner prima di farsi travolgere dal solito tram tram. Inu-

trova il suo corrispettivo anche nell’accompagnamento musicale che è sempre semplice e lineare. Chitarra, pianoforte, voce. Non molto di più. Atmosfere oniriche e vagamente hippy come quelle di Bellissima si alternano a brani dal gusto retrò come In un sogno che strizza l’occhio alla musica degli anni Cinquanta. All’arpeggio malinconico di Giorni d’estate fa da contrappunto, invece, il suono di un carillon

che mette subito nostalgia e rievoca sogni infantili. Al soul è affidata, infine, la chiusura dell’album che spetta all’unico brano scritto inglese: The hill. Dopo gli esordi come batterista in vari gruppi hardcore punk della scena underground bolognese e la svolta hip hop degli anni Novanta, ora Neffa sembra aver finalmente trovato la sua dimensione. E il suo stile è ormai inconfondibile. Neffa, infatti, appare “contromano” anche nel contesto musicale italiano dove tutti fanno a gara, per imporsi sul mercato, a imitare per primi l’ultima moda che spopola negli States. Neffa, invece, si è saputo reinventare costruendosi un’identità ben definita. Lungi dall’imitare i cantanti americani Giovanni si richiama alla tradizione melodica italiana ma non si limita a riproporla semplicemente ma si sforza di renderla attuale. Basti pensare a brani come La mia signorina e Le ore piccole. Così il passaggio dal rap alla canzone neomelodica italiana non è stato brusco ma graduale. E bisogna ammettere che ci vuole anche una buona dose di coraggio per rimettersi in discussione e ripartire da zero specie dopo aver raggiunto il successo che nel caso di Neffa è arrivato nel 1994 con l’album SxM prodotto dal cantante insieme a Deda e Dj Gruff con lo pseudonimo di Sangue Misto.

Nel 1996 è stato poi il turno del singolo Aspettando il sole che ha ottenuto il disco d’oro anticipando l’album Neffa & i Messaggeri della Dopa. Il rischio, in questi casi, è sempre quello di alienarsi le simpatie di un certo pubblico, che può sentirsi tradito dall’artista, e nel contempo di essere accolto con diffidenza dalla critica e dalla restante parte del pubblico. Per Neffa si è trattato comunque di una scelta ponderata determinata dall’esigenza di prendere un’altra direzione e di esplorare quei nuovi mondi musicali ai quali alludeva il titolo dell’album I molteplici mondi di Giovanni, il cantante Neffa uscito nel 2003. Una scelta che si è rivelata senza dubbio vincente. D’altronde si può dire, parafrasando Confucio, che solo gli stupidi non cambiano mai idea.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Figaro” del 29/10/2009

”Sputtanamento”alla francese lo scandalo del momento in Francia, sta togliendo attenzione anche al processo contro l‘ex premier de Villepin. È l’Angola-gate una brutta storia di traffico d’armi, tangenti e corruzione. Finito nelle maglie della giustizia anche il potente ex ministro Jaques Pasqua, al governo ai tempi di Chirac, che viene chiamato in causa per prendersi la sua parte di responsabilità. Pasqua aveva cercato anche di far eliminare il segreto militare, per meglio articolare la linea difensiva. Le Figaro ha imbastito una intervista abbastanza diretta, di quelle che in Italia si leggono raramente, soprattutto fatte a potenti o non più tali. Curata da Laurence de Charette et Bruno Jeudy. Martedì, si è aperta l’udienza finale, dopo le richieste del pubblico ministero, finita con un elenco di condanne.

È

Tra i colpiti: il figlio dell’ex presidente Mitterrand, Jean-Christophe, l’ex ministro dell’Interno Charles Pasqua e due trafficanti. La vicenda prende le mosse dalla vendita illegale di armi ex-sovietiche all’Angola, negli anni Novanta, durante la guerra civile. Nonostante l’embargo Onu e grazie al pagamento di tangenti a leader politici angolani e francesi. «Lei martedì non era presente in aula. Ha avuto paura di poter essere arrestato in udienza» spara in mezzo ai denti il giornalista del quotidiano francese, vicino comunque alle posizioni del centrodestra francese. «Non ho paura della prigione. Le ricordo chi sono io e che l’immunità parlamentare non esiste. Nessuno sapeva cosa il giudice avrebbe detto. I miei avvocati, che mi hanno consigliato di andare, erano piuttosto ottimisti» risponde l’ex ministro sfoggiando sicurezza. Chiaramente Pasqua definisce «ridicola» la

sentenza che lo ha condannato, almeno in primo grado. Intanto il governo sta prendendo in considerazione la richiesta di revoca del segreto militare, che permetterebbe a Pasqua di aver una carta in più in appello. «Nel caso di Angolagate, molti documenti sono stati classificati come segreti, la difesa, e il giudice non potevano accedervi. Ora, con questi documenti, si dimostrerà che tutti erano a conoscenza della vendita di armi all’Angola» sottolinea il politico condannato. E dopo affonda la stoccata con una chiamata in correo. «Il presidente della Repubblica, il primo Ministro, il ministro delle Finanze e il ministro della Difesa. Tutti e quattro erano necessariamente a conoscenza dei fatti». E poi Pasqua esce dalle accuse generica e fa nomi e date. «È successo nel quadro del mandato di François Mitterrand 19931995, allora sotto la presidenza di Chirac 19951998. Inoltre, i due primi ministri, come Édouard Balladur e Alain Juppé» sarebbero a conoscenza dei traffici con l’Angola. Ma Édouard Balladur ancora, mercoledì, rivendicava «di non disporre di informazioni» sul traffico di armi. «Balladur può dire ciò che vuole.

Purtroppo per lui, è stato presentato alla Corte un documento, dove risulta che il suo capo di gabinetto gli aveva consegnato una nota sull’argomento. Mr. Balladur ha una cattiva memoria, può succedere» la secca risposta dell’anziano politico. Poi sull’argomento della corruzione tira fuori una storia veramente eclatante. «Il giudice non è stato pienamente informato. L’abolizione

del segreto militare confermarà che Arcadi Gaydamak (il trafficante d’armi d’origine israeliana, ndr) era un agente del Csd. Il presidente lo sapeva. In tali circostanze, l’Order of Merit, che è stato consegnato a Gaydamak per il lavoro svolto in Bosnia assume un pieno significato: non c’è stata alcuna corruzione. Mi auguro che Chirac si prenda le sue responsabilità. E riconosca che ha accettato di decorare il signor Gaydamak».

L’accusa afferma che fu Pasqua, dietro compenso, a premere per l’onoreficienza. Infine emerge un elemento che lo accomuna alla vicenda de Villepen, quella dei falsi dossier commissionati per rovinare la corsa all’Eliseo di Nicolas Sarkozy. Nel Duemila, Pasqua annuncia la sua candidatura per la presidenza contro Jacques Chirac, e lì cominciano i guai giudiziari per l’ottantaduenne allora ministro. «Sì. Io non credo alle coincidenze. Da quel momento, sono state prese tutta una serie di azioni per invischiarmi nell’Angolagate e altre questioni». Come a dire che in Francia la politica si combatte senza esclusioni di colpi e di armi.

L’IMMAGINE

Perché dimenticare che la democrazia è una forma di governo a base popolare? Nel canale satellitare della Rai dedicato alla storia, ho avuto l’occasione di ascoltare un discorso di Benito Mussolini del 1939, molto critico nei confronti della democrazia. Mi ha colpito il passaggio sul fatto che tale sistema politico favorisca le lobby e gli interessi personali, che portano agli scandali locali. È stato scritto inoltre che di tutto l’entourage di allora, il duce sia stato l’unico che non si è arricchito, lasciando alla sua ombrosa corte militare di governo, l’onere di accaparrarsi i facili introiti. In sintesi, la democrazia non è differente da altri sistemi politici per ciò che attiene al facile guadagno di chi regge le sorti dello Stato. Nei sistemi moderni, tra l’altro, si è fatto uno strano uso della democrazia, vestendo il centro, dando il nome al partito della sinistra italiana, e posizionandosi nella bocca di chiunque voglia criticare altri sistemi. Quale democrazia, se proprio i fondamenti del termine la enunciano come «forma di governo a base popolare»?

Adamo

SICILIA E CALABRIA ESCLUSE DAL GIRO D’ITALIA Quella del 2010 sarà la nona partenza dall’estero per il Giro d’Italia; la prima tappa, infatti, scatterà l’8 maggio da Amsterdam, nota città delle biciclette. Ancora una volta si sottolineerà il concetto di internazionalità di questo storico tour, seguito da milioni di appassionati. Peccato, però, che non siano previste tappe attraverso importanti regioni del Sud come la Calabria e la Sicilia. Si parte dall’Olanda - ovviamente per interessi economici degli organizzatori - e questo potrebbe anche andar bene l’importante, però, è individuare un percorso selettivo che interessi tutta la penisola, compreso il Sud, dove la passione per il Giro è verace e dove l’affluenza di pubblico è massiccia. Non dimentichiamoci che il Giro è nostro e tale deve restare, senza distinzioni

regionali. L’unità di un Paese si costruisce anche attraverso uno sport così universalmente amato.

Domenico S.

PIÙ CHE DEMOCRISTIANO RUTELLI È UN RADICALE Rutelli più che democristiano, ruota la sua tradizione circolare, e si ricorda di essere stato radicale, in un momento che peraltro segnava l’inimicizia con una sinistra, che aveva ostacolato anche molti referendum. Bersani evidentemente riporta l’ago magnetico del Pd su posizioni oltranziste, che non sono mai piaciute né ai moderati né a quel ramo cattolico e referendario sul quale negli ultimi temi si è appoggiato lo stesso Rutelli. Caratterizzare una formazione politica che dal suo inizio ha brancolato nelle nebbie è un bene, ma la situazione può allontanare ancora di più i due poli della

Strike da brividi! «Tira la palla prima che si sciolga!» il tifo è alle stelle e questo piccolo giocatore ha già la pelle d’oca. Sarà perché stringe tra le mani una palla da bowling ghiacciata? Nella particolare gara di bowling che si è svolta a Tokyo infatti, pista e birilli erano di ghiaccio e la palla scivolava via senza problemi. E fare strike era un vero gioco da ragazzi

politica italiana e dare spazio ad un centro redivivo.

Bruna Rosso

RESTRIZIONE DELLA LIBERTÀ Gli spazi di libertà si restringono. La libertà dell’automobilista trova vari limiti, fra cui: giorni di stop alla circolazione; zone a traffico limi-

tato; insufficienza della rete viaria; code; sensi unici; scarsità di parcheggi; usura del manto stradale e buche. La sinistrosità è elevata, anche per carenza e pericolosità stradale. Oltre alla ztl in centro, sono state istituite a Padova zone a traffico limitato, sotto pena di sanzione. Risulta ristretta la libertà dalla de-

linquenza: i reati sono diffusi. Nonostante lo sfollamento per l’indulto, le carceri sono colme di detenuti: gli stranieri rappresentano il 37% della popolazione carceraria in Italia. Molti cittadini evitano di uscire nelle ore serali, per l’estesa illegalità e insicurezza.

G. N.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Quei ricordi di questo nostro sublime amore Jeri non ebbi la tua lettera alla solita ora, l’aspettavo con il cuore palpitante, avevo proprio bisogno di sentire da te, da te stessa che stai ora benissimo, che sei calma, che attendi serenamente il santo giorno di novembre in cui ci riabbracceremo. Ho mandato il servo alla posta precipitosamente stamani appena mi son levato, ero certo di avere una gioia, ero certo che la tua lirica sarebbe stata più splendida di questo sole che mi splende sul capo, che mi avrebbe compensato di tutta la profonda tristezza di jeri, di tutte le smanie di stanotte. E l’ho avuta, ed ho cominciato a leggerla avidamente, e mi sentivo, non so, una commozione, uno struggimento dentro, un bisogno di piangere, di piangere d’amore a quei tuoi ricordi così sovrumanamente evocati, a quei ricordi di questo nostro sublime sublime sublime amore. Ho riprovato quei tremiti indicibili di allora, quei fremiti che mi scorrevano per tutte le ossa appena ti toccavo la mano, appena tu non sdegnavi il mio sguardo e mi mostravi il tuo sorriso di fata. Oh, quella terribile sera! Mi rammento di tutto anch’io. Uscii dalla tua casa con la testa in fiamme, avevo un caldo, un ardore come di febbre; il babbo venne con me, parlammo pochissimo e mi premevo il tuo mazzolino sul cuore, o mia adorata! Gabriele d’Annunzio a Lalla (Giselda Zucconi)

ACCADDE OGGI

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Il tribunale di Venezia ha condannato il vicesindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini a non poter più parlare in pubblico per almeno tre anni e una multa di 4000 euro. Nel 2008, durante un comizio del suo partito, la Leganord, avrebbe istigato al razzismo parlando contro l’apertura di moschee islamiche in Italia. Gli avvocati del leader leghista hanno annunciato ricorso in appello. Il vicesindaco leghista dice abitualmente cose orribili in materia, per cui è stato condannato e noi, che editiamo sul nostro sito anche un canale di informazione per i diritti dei cittadini immigrati, siamo sempre in prima fila nel farlo notare e criticarlo. Il nostro modo di offrire e fare informazione si basa sulla libertà di espressione e di pensiero, quella nostra e quella degli altri nostri interlocutori, privati e istituzionali. Libertà senza la quale non si potrebbe parlare di informazione, ma solo di ricerca di condizionamento e manipolazione del pensiero attraverso le notizie e la proprietà delle loro fonti. Quando e se un Gentilini qualunque commettesse atti per impedire la libertà di qualcun altro, tipo un’ordinanza comunale per non far sedere gli extracomunitari sulle panchine di una città o altre amenità del genere, siamo in prima fila nel denunciarlo e nel chiedere l’intervento della magistratura. Ma quando il Gentilini di turno parla ed esprime le proprie opinioni, anche se in modo rude e rozzo, noi siamo in prima fila nel difendere il suo diritto a pensare, parlare e comunicare: il con-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

30 ottobre 1965 Guerra del Vietnam: i Marines statunitensi respingono un intenso attacco di truppe Viet Cong, uccidendo 56 guerriglieri 1968 Prima del film Il leone d’inverno, con Katharine Hepburn 1970 Il Vietnam viene colpito dal peggior monsone, che provoca gravi inondazioni, uccidendo 293 persone, lasciando 200.000 senzatetto e fermando la Guerra del Vietnam 1972 Il presidente Richard Nixon,approva una legge per incrementare le spese per la sicurezza sociale di 3,5 miliardi di dollari 1974 Muhammad Ali batte per ko George Foreman a Kinshasa, Zaire, riconquistando la corona di campione del mondo dei pesi massimi 1975 Il principe Juan Carlos diventa re di Spagna, dopo che il dittatore Francisco Franco ammette di essere troppo malato per governare 1977 Il giocatore del Perugia Renato Curi muore durante una partita contro la Juventus

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

cetto e la pratica di istigazione a commettere un reato è quanto di più fumoso, impreciso, soggettivo, pericoloso e sbagliato ci possa essere nei nostri codici. La libertà e la certezza del diritto passano anche dal dover convivere col diverso e il presumibile disgusto che talvolta il diverso ci provoca. Per questo solidarizziamo con Giancarlo Gentilini e auspichiamo che i suoi difensori, in virtù non tanto di quanto blande fossero le sue affermazioni per cui è stato condannato, ma del suo diritto a pensarle ed esprimerle, trovi giustizia nella successiva fase di giudizio. La fondamentale battaglia per abolire tutti i limiti alla libertà di opinione e di espressione che sono ancora presenti nei nostri codici, passa anche attraverso momenti come questo.

Vincenzo Donvito

SOLO NEVE AL SOLE Spero che le questioni sulle parole di Tremonti si dileguino come neve al sole: abbiamo bisogno del lavoro del ministro, che è stato sempre professionalmente e culturalmente elevato. La destra di governo riuscirà sicuramente a compattarsi anche perché il ministro dell’Economia ha avuto solo la sfortuna di proteggere il posto fisso nel momento in cui il premier inneggiava ad andare avanti con le riforme, anche senza l’opposizione. In realtà le due cose si possono coniugare se si migliora la legge del welfare e se Confindustria riesce a fungere da intermediario con le banche.

QUELLA LEGGE HA DIRITTO DI CITTADINANZA Se si fanno rispettare i confini, poi si deve integrare l’immigrazione legale. I processi migratori rappresentano un problema irrisolto per tutte le grandi democrazie europee. Sia i meccanismi di protezione dall’immigrazione clandestina, spesso organizzata e sfruttata da bande criminali, sia quelli d’integrazione dell’immigrazione legale appaiono ancora indefiniti e controversi, anche in Paesi nei quali questo fenomeno si è realizzato assai precocemente. È quindi del tutto ovvio che anche in Italia, l’ultima arrivata a doversi confrontare con fenomeni di immigrazione massicci, si apra una ricerca di soluzioni che anima un confronto politico serrato e talora esasperato. Al di là delle esagerazioni propagandistiche, si tratta di realizzare un’effettiva separazione tra l’immigrazione illegale e criminale, e l’altra, in modo da ridurre l’area grigia intermedia, la cui estensione tuttora considerevole rende difficile adottare misure di effettiva integrazione dei lavoratori immigrati e di effettiva espulsione di chi rappresenta un pericolo per la convivenza civile e la legalità. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, autore della prima legge che è intervenuto con severità contro l’immigrazione clandestina, ora sottolinea, non contraddittoriamente, una visione dell’immigrazione legale diversa da quella della Lega Nord, che la considera un fenomeno transitorio. Gli immigrati destinati a radicarsi nel nostro Paese, a mettere famiglia qui, a convivere con le leggi e le istituzioni italiane saranno comunque qualche milione. A essi va riconosciuto l’apporto che danno all’economia e il diritto a una convivenza e a un’accoglienza, che riflettano il carattere inclusivo delle istituzioni democratiche e l’indole più profonda del popolo italiano. Questo si potrà fare tanto meglio e tanto prima se l’azione di respingimento dell’immigrazione clandestina e criminale avrà successo, in modo da superare le preoccupazioni e le paure che esistono e che non sono affatto razzistiche. È giusto comandare in casa propria, ma l’Italia è anche la casa di tanti lavoratori immigrati e onesti, che sono i primi a non voler essere confusi con clandestini e criminali. G. Gonfalone C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L SI R A C U S A

APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 OGGI E DOMANI, ORE 11, ROMA PALAZZO WEDEKIND - PIAZZA COLONNA “Di cosa parliamo quando diciamo Italia”. Intervengono: Ferdinando Adornato, Pier Ferdinando Casini, Rino Fisichella, Carlo Azeglio Ciampi. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Gennaro Napoli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Degrado. La Procura diffonde un agghiacciante filmato sull’esecuzione di un uomo a Napoli

L’orrore quotidiano della di Francesco Lo Dico on sono neanche le sedici al rione Sanità di Napoli. È una calda giornata di maggio, e all’Antica Caffetteria di via Vergini sfilano donne con la borsa a tracolla, famiglie a caccia di gelati, e tipi corpulenti che spremono soldi e imprecazioni dal rullio impazzito delle slot-machine. Poi, per pochi istanti, il silenzio. Pochi attimi in cui il mondo sembra fermarsi, lasciando agli orli tondi della pensilina che svolazzano al vento, il compito di segnalare

N

un falso allarme.Tutto infatti torna a scorrere. C’è un uomo che raccoglie il suo banchetto lercio dal marciapiede, e c’è un padre che issa il figlio sulle spalle. C’è una signora che fila dritto e il barista che torna a scaldare le tazzine del caffè. Ma in quell’undici maggio, in quel pomeriggio come tanti fatto di gente che entra ed esce dall’Antica Caffetteria di via Vergini, c’è un uomo riverso con la faccia inzuppata nel suo sangue. Cinquantratré anni, camorrista accusato dell’o-

chiali in testa e l’aria di chi potrebbe attaccare bottone da un momento all’altro con una qualunque esclamazione meteorologica seguita da uno sbuffo. Non lo fa, invece, perché d’improvviso sembra assalito dalla fretta. Dà un’occhiata furtiva al suo vistoso orologio da polso. Poi passa davanti a Terracino e sparisce. Intanto nel bar c’è il solito tran tran: un cliente che paga, un altro che pigia i tasti della slot. In mezzo alla sala c’è un uomo tarchiato. Ha un cap-

CAMORRA Nel video (dal quale sono tratte le immagini di questa pagina) si vede un “tranquillo” killer in azione, testimonianza di una città ormai abituata alla violenza micidio di uno dei boss Moccia, Mariano Bacio Terracino era anche un abile svaligiatore di caveau. Dopo aver fato di tutto per rendersi invisibile in vita, la sorte beffarda lo vuole impalpabile anche da morto. Resta di lui un lungo piano sequenza di quattro minuti, quelli compresi tra le 15.45 e le 15.49. La telecamera all’esterno, che ha filmato l’omicidio, mostra un’esecuzione squallida e anonima, senza crescendo di rulli e cut nervosi. Solo la strada, il vento, e l’oscena fissità della morte in diretta.

La scena vede Terracino davanti la caffetteria. Pantaloni beige, camicia bianca, è poggiato dinanzi a una macchinetta mangiasoldi, di quelle che piacciono ai bambini.Tiene nella destra una sigaretta da cui aspira qualche pigra boccata. È l’ultima, ma non può saperlo. Così come non sa che l’uomo alla sua sinistra, a meno di due metri da lui, sta per dare il segnale che lo spedirà all’altro mondo. È il palo. Anche lui in camicia e maniche arrotolate, segaligno, gli oc-

pellino da baseball nero che gli copre parte della faccia, un bomber verdastro e le scarpe da tennis bianche che fuoriescono dai jeans. Sembra intento a scegliere un gelato dal distributore, ma ciò che gli interessa è la fuori, dove un uomo segaligno ha appena guardato il suo orologio ed è fuggito via sfiorando Terracino. Lui, l’uomo con il cappellino, infila le mani in tasca e si avvia verso l’uscita. A destra, in piedi, c’è Terracino che fuma. L’uomo dal cappellino allunga appena il braccio destro verso di lui. Ha in mano una pistola. La canna sfiora la nuca di Terracino. Fa fuoco. Terracino cade sulle ginocchia e stringe il pugno. Ancora fuoco. Terracino rimbalza con la schiena in avanti. La mano para il viso in un ultimo riflesso di sopravvivenza. L’uomo col cappellino si curva su Terracino. Ancora fuoco, l’ultima volta. La zazzera grigia di Terracino, è ormai attaccata al marciapiede. Il suo braccio, quello da dov’era partito l’ultimo riflesso che tentava di proteggere il volto dalla caduta, sembra ormai solo una goffa cornice che tenta di nascondere il sangue tra il grigio del marciapiede e il bianco della camicia.Terracino, ladro di caveau, ci teneva a restare invisibile. E pudico, sembra esserci riuscito anche stavolta. Sono pochi istanti di silenzio e di vuoto. Sventolano gli orli della pensilina e poi torna la vita per il rione. Gente che beve, gente che guarda, gente che paga. All’Antica Caffetteria di via Vergini è tutto come sempre. È un pomeriggio di maggio, e Mariano Bacio Terracino, boss, ladro, infame, è rimasto invisibile.


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