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he di cronac

La pace non è assenza di guerra: è una virtù, una disposizione alla fiducia e alla giustizia

Benedict Spinoza

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 3 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dopo il ritiro di Abdullah, si stringe sempre di più il cerchio intorno a Washington per una scelta che non è più rinviabile

Karzai sicuro, Obama incerto Nonostante i brogli, la commissione elettorale afgana conferma il presidente. La Casa Bianca invece è a un bivio: o aumenta di molto le truppe o la guerra è persa

L’ALLARME

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Non c’è alternativa: più soldati o addio Kabul di Mario Arpino Per la Nato, l’Afghanistan è una sfida: è l’operazione militare più ampia e più lunga nella sua storia e ha creato un enorme numero di crepe tra i Paesi membri. a pagina 2

L’ANALISI

«Non facciamo l’errore di Breznev e Omar» di Pierre Chiartano Non si può importare un governo a un Paese che si è sempre fondato sul concetto di primus inter pares. Parla Giandomenico Picco, grande negoziatore Onu. a pagina 3

Oramai è ufficiale. Nonostante i numerosissimi brogli, Hamid Karzai è il nuovo presidente dell’Afghanistan. Lo ha dichiarato ieri la Commissione elettorale indipendente, che ha preso atto del ritiro dall’ipotesi di ballottaggio di Abdullah Abdullah. L’ex ministro degli Esteri, braccio destro del Leone del Panshir, ha fatto trasparire tutta la sua amarezza: «Lascio perché, con queste persone, è impossibile vincere». E, mentre l’area continua a bruciare di attentati sanguiosi, l’Occidente e l’Onu si sono affrettati a congratularsi per il nuovo traguardo del “sindaco di Kabul”, come lo chiamano i talebani. Gli Stati Uniti hanno dichiarato, con una nota dell’ambasciata: «Ci congratuliamo con il presidente Karzai per la sua vittoria in questa elezione storica e continueremo a lavorare con lui, con la sua nuova amministrazione, con il popolo afghano e con i nostri partner nella comunità internazionale per sostenere il progresso dell’Afghanistan sulla via delle riforme istituzionali, della sicurezza e della prosperità». Tutto questo mentre, nella vicina Rawalpindi (città pakistana, in un’area in cui i confini sembrano essere spariti), un kamikaze si faceva esplodere lasciando a terra almeno 36 persone. L’ennesimo bagno di sangue.

L’unità nazionale in pericolo: l’intervento conclusivo del Presidente emerito al convegno di Liberal

La nostra Casa sta vacillando «Siamo conviventi sempre più rissosi, sordi alle ragioni dell’altro. E non vediamo le crepe che compromettono la stabilità dell’edificio» di Carlo Azeglio Ciampi esidero innanzitutto ringraziare la Fondazione Liberal e l’onorevole Adornato dell’invito a concludere queste due giornate dedicate al confronto sul

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a pagina 2

tema dell’identità nazionale. In verità quando Adornato mi sottopose la sua proposta esitai ad accoglierla, e per più di una ragione. a pagina 12

Personale, qualità, riassetto degli atenei

Parla il presidente della provincia di Trento, co-fondatore del movimento di Rutelli

Riforma dell’università: tre nodi che la Gelmini deve ancora sciogliere

Un nuovo partito con l’Udc Dellai: «È urgente per superare la paralisi di destra e sinistra» di Errico Novi

di Luisa Ribolzi

re oltre il bipolarismo. Lorenzo Dellai ne è convinto e non fa alcuna fatica a condividere l’appello rivoltogli da Savino Pezzotta con l’articolo pubblicato sabato scorso su liberal. «È possibile superare la trappola in cui il sistema attuale ci ha portati», dice, «ed è possibile farlo costruendo un unico grande partito insieme con l’Udc». Non sarà un lavoro semplice, né un’opera di breve durata, spiega il presidente della Provincia di Trento.

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segue a pagina 4

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Oltre il bipolarismo: l’analisi del politologo Paolo Pombeni

ROMA. Certo che si può anda-

na legge di riforma nasce, generalmente, per risolvere dei problemi: proverò a formulare qualche considerazione sulla legge di riforma dell’università proposta dal ministro Gelmini e approvata dal governo, a partire da tre ordini di problemi: il personale, la valutazione e il miglioramento della qualità e il riassetto organizzativo.

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

«Ora il Grande Centro può vincere la sua scommessa» di Riccardo Paradisi addio di Francesco Rutelli al Partito democratico apre potenzialmente scenari nuovi per la politica italiana. Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha commentato con favore la svolta di Rutelli: «Accolgo positivamente la notizia. Si può realizzare un percorso

L’ 217 •

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• CHIUSO

comune. C’è anche la possibilità di raddoppiare i consensi. È il minimo, sennò sarebbe un insuccesso». Insomma per l’Udc Rutelli sta facendo un lavoro positivo che va nella stessa direzione della costruzione di un nuovo centro. a pagina 5

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 3 novembre 2009

Analisi. Tutti gli studi indicano che gli uomini impiegati in Afghanistan sono troppo pochi per la missione che devono svolgere

Più truppe o addio Kabul Il processo elettorale si è concluso in una maniera tutt’altro che chiara E la Nato, con l’Isaf, inizia a domandarsi cosa farà il Paese da grande di Mario Arpino er la Nato, l’Afghanistan è una sfida strategica non solo perché è l’operazione militare più ampia e di maggior durata nella storia dell’Alleanza, ma anche per le crepe e le dissonanze che il dispiegamento dell’Isaf ha prodotto - o meglio, ha messo in luce - tra i Paesi membri. Differenze che riguardano sia questioni politico-dottrinali, ovvero quale debba essere l’approccio della missione nei confronti della violenza sul territorio, sia questioni pratiche, relative a quale e quanto debba essere il contributo militare dei membri in questa prima - e sperabilmente ultima - operazione iniziata otto anni or sono nello spirito dell’articolo 5. È ovvio come il numero di soldati necessario sia funzione dell’evoluzione della strategia in atto e della risposta che talebani, al Qaida e gli altri gruppi estremisti - ormai è invalso l’uso di chiamarli tutti insurgents - sono in grado di porre in atto, adattando di volta in volta le proprie tattiche.

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In otto anni le varianti sono state diverse, e in epoca Bush si è passati da un’iniziale «rovesciare il regime dei talebani e impedire santuari sicuri ad al Qaeda» con un minimo di truppe sul terreno per evitare il disastro dei russi (2001), al programma più impegnativo di favorire, inviando più truppe, «lo sviluppo di una forma di governo stabile e democratica, sostenuta in seguito da forze armate e di polizia afgane bene addestrate» (2006), per scendere, verso la fine del mandato (2008) alla più modesta opzione di «favorire un processo di riconciliazione, cercando di separare dagli estremisti i talebani moderati». Ognuna di queste strategie, ovviamente, richiede un diverso livello di truppe sul terreno e - può sembrare un paradosso quelle meno bellicose richiedono un livello di presenza molto superiore. È proprio a quest’ultima versione della dottrina di Bush che si aggancia, continuando-

La Commissione elettorale lo proclama, le Nazioni Unite si congratulano

Ormai è ufficiale: nonostante i brogli, Karzai è il presidente legittimo di Vincenzo Faccioli Pintozzi lla fine, è sembrata a tutti la soluzione migliore. Il calore con cui gli organismi internazionali i governi occidentali si sono congratulati ieri per la ri-elezione del presidente afghano uscente Hamid Karzai dimostra che quello previsto era un ballottaggio che non voleva nessuno. Mentre l’Afpak continua a esplodere, e a Rawalpindi l’ennesimo attentato uccide 36 persone. Karzai, dopo il gran rifiuto dello sfidante Abdullah Abdullah a partecipare a una competizione truccata, è stato proclamato vincitore delle elezioni del 20 agosto. A farlo sapere è stata la commissione elettorale afghana. Karzai è stato dunque dichiarato capo di Stato eletto: «Dichiariamo Hamid Karzai, che ha conseguito la maggioranza dei voti nel primo turno, ed è l’unico candidato nel secondo turno, presidente eletto dell’Afghanistan» sono state infatti le parole del presidente della commissione elettorale indipendente, Azizullah Ludin. L’ex ministro degli Esteri Abdullah aveva ritirato la sua candidatura contestando che il voto non sarebbe stato trasparente. Nei giorni scorsi, inoltre, aveva chiesto la sostituzione dei vertici della commissione, accusata di aver lasciato correre su decine di migliaia di brogli che avevano falsificato la elezioni, tanto da spingere la fazione di Karzai a dichiararsi vincitrice senza la necessità di ricorrere al balMa lottaggio. tutto questo non ha frenato gli entusiasmi dell’Occidente, che con realismo vedeva nel ballottaggio i pericoli di un bagno di sangue. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, arrivato in visita a Kabul, si è congratulato con Hamid Karzai per la sua rielezione. Il Segretario generale, nel paese asiatico per portare la

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propria “solidarietà” dopo l’attentato della scorsa settimana in una foresteria dell’Onu, ha infatti accolto positivamente la decisione della commissione elettorale sul ballottaggio: oltre a compiacersi con Karzai ha annunciato inoltre che incontrerà sia lui sia il suo ex rivale. Il Segretario generale aveva sottolineato nei giorni scorsi che il secondo turno era «l’elezione più difficile mai sostenuta dalle Nazioni Unite», tuttavia aveva anche assicurato il pieno sostegno dell’Onu a qualsiasi decisione presa dalle autorità afgane. Stessa linea per il premier britannico Gordon Brown, che ha telefonato ad Hamid Karzai per congratularsi con lui per la vittoria alle elezioni presidenziali afghane. «Hanno discusso di come sia importante che il presidente si muova velocemente per definire un programma che unificante per il futuro dell’Afghanistan», ha dichiarato un portavoce di Downing Street.

E non potevano mancare le congratulazioni del governo statunitense, quello ovviamente più interessato all’esito elettorale. «Ci congratuliamo con il presidente Karzai per la sua vittoria in questa elezione storica - è scritto nella nota dell’ambasciata Usa - e continueremo a lavorare con lui, con la sua nuova amministrazione, con il popolo afghano e con i nostri partner nella comunità internazionale per sostenere il progresso dell’Afghanistan sulla via delle riforme istituzionali, della sicurezza e della prosperità». Gli Stati Uniti non sono però ingiusti: «Ci congratuliamo anche con il dottor Abdullah e con tutti gli altri candidati per i loro sforzi diretti a rafforzare il futuro di democrazia dell’Afganistan». Nel frattempo, la stabilità dell’area è sempre più a rischio: almeno 36 persone sono morte e altre 30 sono rimaste ferite nella potente esplosione che ha colpito la città pakistana di Rawalpindi, nei pressi di un albergo. L’attentato è stato provocato da un kamikaze in moto, che si è fatto esplodere in prossimità di una fila di persone che erano in attesa di ritirare il loro stipendio nel parcheggio dell’hotel Shalimar. «Abbiamo trovato brandelli di un vestito bruciato dall’esplosivo e frammenti del corpo del kamikaze», ha detto un responsabile della polizia. L’albergo è stato teatro il mese scorso del sequestro di dieci persone sfociato poi in un sanguinoso conflitto a fuoco che fece 23 vittime. Mentre l’Occidente si congratula.

la e perfezionandola, quella di Barack Obama, che a fine marzo 2009 annunciava una “nuova” strategia regionale, comprendente anche il Pakistan. Di veramente nuovo, in realtà, non c’è quasi niente. La principale differenza consiste nel fatto che, mentre per Bush l’Afghanistan sarebbe dovuto diventare uno Stato democratico “moderato”, secondo la strategia Af-Pak di Obama è sufficiente che l’Afghanistan abbia «…un governo legittimo, capace e affidabile, in grado di esercitare una certa sicurezza interna con un limitato supporto internazionale”» Di importare la democrazia, il democratico Obama non ne parla nemmeno.

In effetti, la sua strategia riflette quella utilizzata da Petraeus in Iraq, gli attacchi mirati dei drones nelle aree tribali a cavallo della linea Durand erano pre-esistenti e McChrystal, nel rapporto consegnato a fine settembre al ministro Gates, altro non faceva che prenderne atto e trarne le conseguenze. Non aveva, però, considerato le incongruenze della politica. La sua richiesta di inviare altri 44mila uomini, oltre i 4.000 marines già inviati nell’Helmand e i 17mila promessi da Obama, caldeggiata anche dai generali del Pentagono, veniva accolta con freddezza sia dal ministro che dalla Casa Bianca. Di ulteriori uomini da parte della componente Nato, neanche parlarne. La questione del ballottaggio a Kabul, il gran rifiuto di Abdallah Abdallah, la dichiarazione della Clinton che il ballottaggio sarà considerato valido anche con un solo concorrente non sono certo eventi che hanno favorito la stabilità, complicando alquanto anche le decisioni tecnicomilitari sul numero di effettivi da autorizzare. Ciò detto, è venuto il momento di fare un po’ di conti sui numeri necessari - solo sotto il profilo tecnico, ovviamente - per attuare con possibilità di successo la strategia di Obama. In uno studio recente del Nato Defence College, si può trovare una comparazione tra ciò che è stato fatto in Iraq per applicare il “metodo Petraeus”- parte integrante di questa strategia - e ciò che, considerando i livelli di forze oggi stimabili, sarebbe possibile fare in Afghanistan. Secondo gli esperti di controguerriglia (tali ormai sono le operazioni in atto) esiste una regola empirica che, per conseguire il successo, prevede un rapporto di 20 a 1000 tra forze di sicurezza e popolazione. Regola discussa e da discutere fin che si vuole, ma utile per chiarire le idee offrendo al lettore la valutazione di una dimensione quantitativa concreta. In base a questi cal-


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Il parere di Giandomenico Picco, nostro ex “uomo all’Onu”

«Non facciamo l’errore di Breznev e Omar» Rischiamo anche noi, come sovietici e talebani, di fallire per non tener conto delle tribù di Pierre Chiartano l ballottaggio delle elezioni afghane, previsto per sabato prossimo, sarà annullato dopo la decisione di Abdullah Abdullah di ritirarsi. A dimostrazione che la situazione in quel Paese sfugge alla comprensione, se si seguono i canoni tradizionali della diplomazia e delle trattative politiche. Almeno come siamo abituati noi in Occidente. La monarchia afghana è nata nel 1747, ricorda a liberal un esperto come Giandomenico Picco, grande negoziatore internazionale – già inviato dell’Onu. Si è sempre fondata su di un concetto di primus inter pares, riferito alla figura del monarca e dei capi tribù che legittimavano il suo potere. Da allora il Paese, pur avendo perso qualche pezzo di territorio, è ancora lì. Analizzare la storia di un Paese può aiutare a comprenderlo meglio. «Il progetto comune elaborato dai sovietici e poi anche dai talebani è stato quello di voler creare, naturalmente con finalità diverse, uno Stato centralizzato» spiega Picco.

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Hamid Karzai e, sotto, l’ex sfidante Abdullah. A destra, Picco. Nella pagina a fianco Ban Ki-moon coli, la stabilizzazione dell’Iraq (che ha una popolazione di 27,5 milioni di abitanti) avrebbe richiesto all’incirca 550mila soldati e poliziotti. Nella realtà, le forze della coalizione dopo il “surge”erano meno di 170mila uomini, teoricamente affiancati da 440mila elementi dell’esercito e della polizia irachena, tutti addestrati dagli Alleati.

Vanno sommati ai circa 92mila “figli dell’Iraq”, forze irregolari tribali o ex saddamiste che, secondo il Dipartimento di Stato, hanno contribuito direttamente all’eliminazione dell’83 per cento delle forze qaediste, di quelle estremiste e delle bande autonome. Facendo le somme si raggiunge il numero di 701mila elementi. Come si vede, anche con un taglio del 20 per cento, il rapporto tra forze di sicurezza e popolazione probabilmente eccede il rapporto di 20 a 1000. E l’Iraq, come si è visto in questi giorni, sembra tutt’altro che pacificato. Veniamo ora all’Afghanistan. Con una popolazione che supera i 32 milioni, la stessa formula richiederebbe la disponibilità di almeno 640mila uomini dell’esercito e poliziotti. Anche se entro il 2011 - e ne siamo lontani - si raggiungesse la quota pia-

Hanno fallito entrambi. Inoltre i talebani non sono un partito coeso e rappresentato in modo uniforme, «con una catena di comando definita e un manifesto politico», come suggeriva dalle colonne del Washington Post qualche tempo fa, il principe Turki al-Faisal, già capo dell’intelligence saudita e poi diventato ambasciatore negli Usa. Ricordiamo che era lui a guidare i servizi dei Saud quando nasceva il fenomeno Bin laden, considerato, per un certo periodo, una specie di «Robin Hood» dalle masse islamiche. Riguardo Karzai e l’atteggiamento della Casa Bianca nei suoi confronti, Turki afferma che converrebbe sostenerlo, costringendolo a epurare certi personaggi scomodi dal suo governo. Sarebbe stato possibile defenestrarlo, se ci fosse stata un’opposizione che «non c’è», spiega il principe saudita. Il presidente afghano uscente, Hamid Karzai, è stato infatti proclamato vincitore delle elezioni del 20 agosto. La Commissione ha così ribaltato quanto indicato in precedenza, ovvero che la legge afghana obbligava allo svolgimento di un secondo turno non essendo contemplata l’eventualità del ritiro di un candidato dopo i termini previsti per una eventuale rinuncia. Karzai, rimasto così unico candidato in lizza, si era detto ieri fiducioso in un ballottaggio, ma disposto ad

nificata di 216mila fra soldati e poliziotti afgani addestrati, sommando i 68mila americani autorizzati e i 33mila non-americani della coalizione, si raggiungerebbe un totale di 317mila uomini, meno di metà del necessario. Aggiungendo i 44mila – ancora non concessi – richiesti da McChrystal, si raggiungerebbe il numero di 361mila, che, secondo la formula di cui sopra, sono ancora oltre il 45 per cento meno del necessario.

E l’Afghanistan, per estensione, concentrazione della popolazione, morfologia e caratteristiche etnicosociologiche non assomiglia affatto all’Iraq. Che dire? È un po’ difficile pensare che Stati Uniti, Nato, forze di sicurezza afgane e contributo dei “volonterosi”possa raggiungere questi numeri. C’è solo da sperare che la regola empirica degli esperti di counter-insurgency sia sbagliata, o, almeno, ammetta delle eccezioni.

accettare qualsiasi decisione di un’autorità competente, sottolineando però che il governo non è tenuto a rispettare quanto stabilito dalla Commissione. Ora servirebbe capire quanto sia necessario allargare il tavolo sul cosiddetto Afpak. L’esperienza di Picco ci aiuta. È l’India che potrebbe giocare un ruolo chiave nella stabilizzazione «temo che l’impegno del Pakistan per l’Afghanistan non sia realizzabile, senza un aiuto indiano verso Islamabad» afferma il grande negoziatore. E infatti nel comune sentire dei pakistani è quello il fronte dove combattere le battaglie più importanti, verso oriente. Inizialmente l’incarico dell’inviato speciale di Obama nell’area, Richard Holbrooke, doveva esse quello di responsabile del subcontinente: Afghanistan, Pakistan e India. Poi Dehli fece sapere che non gradiva l’accorpamento e, almeno ufficialmente, ci fu una separazione di incarichi. Dicono i bene informati che Holbrooke viaggi spesso verso l’India. La stessa nascita dei movimenti talebani, allevati con la collaborazione dell’Isi, l’intelligence di Islamabad, sarebbe legata anche a una funzione anti-indiana. Cina, Russia, India, Iran e Arabia Saudita potrebbero giocare un ruolo determinante per la stabilizzazione della regione. Dove Islamabad starebbe misurando il fiato e la volontà di Washington di restare il perno della sicurezza nell’Asia centrale. E Pechino che con la sua politica economica ed energetica, di fatto, avrebbe già cambiato gli equilibri della regione.

Credo che l’impegno profuso da Islamabad per il proprio vicino non sia realizzabile senza un aiuto da New Delhi

L’Afghanistan potrebbe essere meno ingovernabile di quanto appaia, se assecondato da modelli politici in sintonia con tradizione e genius loci. E dove la volontà, non solo dichiarata, degli Usa può fare molto per far capire a Islamabad e Dehli che il problema del Kashmir va affrontato, a Karzai e Zardari che è venuto il tempo di metter mano a una definizione dei confini fra i due Stati, rimasti ancorati alla vecchia linea Durand. Per il problema oppio – l’Afghanistan ne è il più grande produttore al mondo – Turki suggerisce ciò che fece Washington con la Turchia negli anni Sessanta. Comprò direttamente tutta la produzione, permettendo che si impiantassero coltivazioni alternative. «Da allora dalla Turchia non arriva più eroina».


politica

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Progetti. «La nostra cultura non è quella del predellino», dice il presidente della Provincia di Trento, «ci tocca ricostruire, come accadde a De Gasperi»

«Sì, un Grande Centro» Dellai: «Con l’Udc possiamo costruire un nuovo partito per dare le risposte che destra e sinistra non sanno offrire» di Errico Novi segue dalla prima In gioco non è tanto la possibilità di un riposizionamento tattico, ma «l’offerta di una nuova visione del futuro», realizzata a partire «dall’idea del bene comune, principio che negli ultimi anni ha smesso di essere di moda». Comincia dunque a definirsi in modo più chiaro il percorso che l’inventore della Margherita (Dellai è stato il primo a utilizzare questo simbolo, nel 1998) ha avviato la settimana scorsa, con la presentazione del “Manifesto per il cambiamento e il buongoverno”. Una strada condivisa con Francesco Rutelli, sulla quale molti sono disposti ad affacciarsi, innanzitutto altri nove sottoscrittori del documento, ma che nemmeno può essere considerata, ancora, il prodromo di una nuova formazione politica. A quella, d’altronde, il presidente della Provincia di Trento vorrebbe arrivare insieme con l’Unione di centro, e per farlo è disposto a darsi tempi che difficilmente potranno essere rapidi: «La nostra non è la cultura del predellino», è la sua rivendicazione, a cui si accompagna un richiamo significativo: «Come Alcide De Gasperi, anche noi oggi abbiamo davanti un mondo da ricostruire: è quello crollato con la fine del compromesso tra benessere e coesione sociale, sul quale si sono rette per decenni le democrazie occidentali». Nell’orizzonte di un democratico trentino si tratta di un riferimento eveidentemente indispensabile. È davvero finito il tempo del bipolarismo, presidente? Il grande valore che secondo me va sdoganato è il principio della democrazia dell’alternanza: dovrebbe essere lo strumento attraverso il quale i cittadini possono esprimere un’alternativa per il ricambio e per evitare la stagnazione, ma alla fine è stato interpretato in una logica tendenzialmente bipartitica che oggi mostra la propria fragilità: il sistema oggi è evidentemente incapace di

evocare un’idea di futuro del Paese. È un giudizio che si fa strada in modo non impetuoso, nell’opinione pubblica, ma progressivo.Ed è a partire da questo punto di vista che mi sento di dare una risposta positiva alla domanda iniziale. Si apre la strada di una politica nuova, è possibile superare la trappola di questa deriva bipartitica. Il suo “Manifesto” dunque guarda in questa direzione. Sì, e lo sforzo maggiore credo debba essere destinato a far passare un concetto: la politica nuova non consiste nel ritorno alla palude, a un sistema cioè in cui non c’è nessun principio di responsabilità. Credo lo si debba dire perché l’accusa che ci può essere rivolta è appunto quella di voler tornare al tutti con tutti, che poi magari trasfigura nel tutti contro tutti. Dica lei di che si tratta, lo dica

Il nostro percorso è destinato a incontrarsi con la Costituente. Regionali? Niente fretta, ma se in qualche territorio riusciamo a costruire un’intesa sarebbe un ottimo inizio

in positivo.Si tratta di costruire un’alternativa politica concepita per il bene del Paese, per un’idea di futuro e non contro gli altri. Perché si possano creare le condizioni di un percorso simile, naturalmente, si deve ancora lavorare tanto. Nell’appello che Savino Pezzotta le ha rivolto sabato scorso dalle colonne di liberal si invoca un approccio non semplicemente “riformista” ma “riformatore”, in grado cioè di affrontare e sciogliere i grandi nodi di sistema, dalla riforma previdenziale al generale superamento delle chiusure corporative. Primo: l’invito che rivolge Pezzotta è quello che rivolgo a mia volta. Abbiamo davanti

scenari nuovi che poco hanno a che fare con semplici misure tattiche, con un nuovo bilanciamento di classi dirigenti in un senso o nell’altro. Secondo? Pezzotta ha ragione anche rispetto all’idea concreta del grande impegno riformatore che ci si deve assumere. È qualcosa di non tanto lontano dall’idea ricostruttiva di cui scriveva Alcide De Gasperi a cavallo tra la fine del fascismo e la nascita della Repubblica. Anche a noi tocca ricostruire dalle fondamenta un principio di vita politica, sociale economica. Anche se non abbiamo una guerra alle spalle. Anche se non c’è stata una guerra, certo, perché comunque abbiamo alle nostre spalle appunto il crollo di quel grande compromesso tra benessere e coesione sociale sul quale

si sono rette per decenni le democrazie europee. Ci sono grandi rischi: magari per avere più benessere c’è chi sarebbe disponibile ad accettare meno coesione; o chi, per avere più sicurezza è disposto a rinunciare a una quota di democrazia. Come si vede qui non si tratta di arrovellarsi dietro congetture tattiche, ma di darsi una previsione strategica comune. Pdl e Pd non sono in grado dunque di affrontare sfide simili? Offrono risposte non adeguate: la sinistra non sembra aver capito fino in fondo gli effetti della crisi, la nuova depropone stra un’illusoria protezione ma non sa dare gli stimoli per venirne fuori, dalla crisi. È a partire da questa constatazione che abbiamo presentato la settimana scorsa un manifesto per una proposta democratica, popolare, liberale, che credo sia destinata a incontrarsi con il percorso della Costituente di centro. Incontrarsi come? Seguendo due percorsi

che portino a un unico nuovo grande partito. Spero che si realizzi l’intenzione dell’Udc di andare oltre se stessa, dichiarata prima a Todi e poi a Chianciano. Così insieme potremo dar vita a una a una formazione in grado di raccogliere tutti coloro che si riconoscono in una certa idea della politica. Ma c’è nel Paese la richiesta di una politica di questo tipo, che sia fondata sulla ricerca del bene comune? O la contrapposizione estrema degli ultimi anni l’ha spenta? Capisco il timore: per anni si è proposta l’idea di una politica concepita come sondaggio e non come costruzione dal basso, abbiamo assistito a una drammatica semplificazione. E allora proprio perché le cose sono andate così il progetto di cui parlo ha futuro solo se siamo consapevoli che la strategia a cui dobbiamo dare vita non si esaurisce in una settimana. Il nostro d’altronde è un approccio non compatibile con la cultura del predellino, abbiamo bisogno di gradualità. Non si tratta di fare annunci attraverso ni media. Posso aggiungere una cosa? Dica pure. Se si passa dal livello delle classi dirigenti e ci si affaccia nella vita quotidiana delle persone ci si rende conto che non solo c’è un grande bisogno, ma anche un’aspettativa forte per


politica

3 novembre 2009 • pagina 5

L’analisi del politologo Paolo Pombeni sulla nuova alleanza tra il leader centrista e Rutelli

«La scommessa di Casini ora può riuscire davvero»

Il bipolarismo non ha prodotto ancora nulla sul terreno delle riforme. Uno stallo politico che paralizza Pd e Pdl. E che fa crescere Lega e Idv di Riccardo Paradisi addio di Francesco Rutelli al Partito democratico apre potenzialmente scenari nuovi per la politica italiana. Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha commentato con favore la svolta di Rutelli: «Accolgo positivamente la notizia. Si può realizzare un percorso comune. C’è anche la possibilità di raddoppiare i consensi. È il minimo, sennò sarebbe un insuccesso». Insomma per l’Udc Rutelli sta facendo un lavoro positivo che va nella stessa direzione della costruzione di un nuovo centro. Che possa essere anche luogo d’attrazione per un centrosinistra che sta lavorando all’idea di ampie alleanze per la costruzione di un’alternativa di governo. Una prospettiva che sarà evidentemente il tema forte dell’incontro di mercoledì prossimo tra Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, il segretario del partito Lorenzo Cesa e il segretario del Pd Pierluigi Bersani. Una prospettiva comunque ancora problematica viste le questioni irrisolte ancora sul terreno.

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Sopra, Savino Pezzotta. A sinistra, Lorenzo Dellai. A destra, Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli

una politica nuova: parlo appunto di una politica capace di ripristinare il senso delle istituzioni, di rimettere al centro il bene comune, di riproporre un’idea di futuro intesa come visione di lungo periodo. Forse c’è molto disincanto. Diciamo pure diffidenza. Certo, gli ultimi anni hanno fatto in modo che un’idea simile della politica assumesse più il carattere di un miraggio. Eppure la gente se lo aspetta, e qui non discutiamo di un Centro che va a contrattare con un partito e poi con l’altro, ma di una cosa solida. A proposito: le Regionali potrebbero fornire un’anteprima di questa nuova formazione di Centro che lei ha in mente? Dobbiamo fare i conti con una situazione oggettiva, quella dell’Udc che ha realizzato negli anni una serie di alleanze, anche a macchia di leopardo, ma che nei singoli territori sono consolidate. Dall’altra parte c’è l’esigenza di non penalizzare il progetto con tentativi estemporanei. Però credo che in singole realtà o regioni alcune intese sarebbero possibili. L’importante è ricordarsi della lezione di Moro: la politica non consente salti.

A partire dal rapporto che il centro intende avere nelle prossime regionali con le aree politiche alla sinistra del Pd. «L’Udc è del tutto alternativa a Nichi Vendola», aveva detto Cesa a proposito delle prossime elezioni pugliesi. Una diffidenza quella dell’Udc verso la sinistra radicale che fa dire al governatore della Puglia che c’è bisogno di uscire «da un’idea della politica che è fatta di gioco di veti, una specie di ping pong, di reciproche e paralizzanti interdizioni. Io non pongo veti, ma non intendo subire veti». Ma non c’è solo la sinistra radicale; ci sono anche le dichiarazioni di Rosy Bindi di domenica scorsa rilasciate a Lucia Annunziata durante la trasmissione Mezz’ora. Il futuro presidente del Pd dice che a Rutelli non sarà consentito di rappresentare i moderati, i cattolici e i ceti produttivi, categorie che secondo la Bindi sono all’interno del Pd per restarci. Insomma non propriamente un segnale di disponibilità nei confronti di un discorso di ampie alleanze tra centrosinistra e area moderata. Tuttavia dopo il convegno di liberal di venerdì e sabato scorso sull’idea di Italia e le prospettive di una nuova alleanza di centro per il Paese, convegno cui ha partecipato anche Rutelli, le cose sono in movimento. C’è chi parla anche di nervosismo in casa berlusconiana dove temendo uno scivolamento al centro del presidente della Camera Gianfranco Fini si starebbe lavorando al recupero de La Destra di Storace, formazione per cui si prevede un rientro a breve nella coalizione di centrodestra. Operazione che servirebbe evidentemente per coprire a destra il Popolo

Quella della Bindi è una scomunica che lascia il tempo che trova. Chi rappresenterà Rutelli e quanto consenso si porterà dietro dipenderà da lui, dalle idee che porterà in dote al nuovo centro

delle Libertà ”contro le derive centriste” dell’ex leader di Alleanza nazionale. Indiscrezioni. Per quanto riguarda le analisi sul destino del centro si possono fare ancora solo delle ipotesi. Ma molto dipenderà dalla dote – dice il politologo bolognese Paolo Pombeni – che porterà Francesco Rutelli. Dote non tanto elettorale quanto politico-culturale e programmatica. «La grande scommessa che sta davanti all’idea del centro è la creazione di un’identità, di una cultura politica di governo alternativa. Se il centro si candida solo ad essere uno spazio politico tra la destra e la sinistra per creare problemi a Pd e Pdl non ha un grande senso. Il problema fondamentale della politica italiana è sottrarsi a questa prospettiva topografica, di puro posizionamento delle sue classi dirigenti e arrivare sul terreno delle proposte con le idee chiare. Ora, per la verità nell’Udc c’è una tradizione politica e un certo radicamento territoriale, ci sono le idee e una tenuta dimostrata in questi mesi di opposizione condotta nel merito dei problemi. Il problema è costituito dalle forze nuove che vogliono convergere al centro e che devono fare uno sforzo per portare un’identità. A partire da Rutelli: che dice di essere uscito dal Pd perché non voleva diventare socialdemocratico. Un argomentazione oggettivamente debole. Perchè il problema non è cosa non vuole essere Rutelli ma cosa vuole diventare». Il chi rappresenta chi della Bindi però è malposto secondo il politologo: «È una scomunica che lascia il tempo che trova. Chi rappresenterà Rutelli e quanto consenso si porterà dietro dipenderà da lui, dalle idee e dalle energie che porterà in dote. Certo se avesse già con sè tutto questo seguito farebbe però un partito per conto suo».

E comunque spazi politici per una nuova formazione di centro per Pombeni ci sono: «La nostra storia recente ha dimostrato che una pura riorganizzazione del sistema su due grandi soggetti politici non sta in piedi, non risolve la trazione centrifuga che esercitano sul sistema le ali estreme. Peraltro all’interno del centrodestra e del centrosinistra ci sono identità in conflitto che faticano a fare sintesi. Quando le polarità diventano molte uno spazio al centro diventa non solo possibile ma anche necessario. Ora sembra che in termini di governabilità non ci siano grandi alternativi fuori dal blocco berlusconiano. Il problema è che questa situazione così cristalizata non sta producendo un terreno di riforme. Il centrodestra è bloccato su questioni personali del premier e dal condizionamento della Lega. Una paralisi di fronte alla quale il Pd non appare un’alternativa credibile».


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diario

Manovre pericolose. Inizia domani la discussione a Palazzo Madama, previsti circa 500 emendamenti

Il nodo Irap stringe la Finanziaria Tremonti difende le sue scelte, ma c’è chi spinge per reperire risorse ROMA. La Finanziaria è arrivata al Senato e a creare non poca inquietudine in Giulio Tremonti ci sono oltre 550 emendamenti e la volontà di ampi settori della maggioranza di rottamare il rigore del ministro. Mario Baldassarri, l’autore della controfinanziaria da 38 miliardi di euro rende onore al “nemico”: «Giulio Tremonti di più non poteva fare”. Ma questa considerazione non lo esime dal rilanciare le sue proposte. Il clima di confusione ricorda quello del 2004. Ma la differenza c’è. Nonostante qualche pensierino sia stato fatto, questa volta nessuno crede realisticamente di far saltare Giulio Tremonti dalla poltrona di via XX settembre. La Finanziaria dovrebbe vedere il via libera di Palazzo Madama tra la fine di questa settimana o l’inizio della prossima. Ma più che l’ennesimo ricorso alla fiducia per frenare tanti emendamenti Tremonti guarda già con timore al passaggio a Montecitorio e ai tranelli di Gianfranco Fini. Il presidente della Camera, nell’ordine, ha frenato le ambizioni del ministro di diventare vicepremier, gli ha messo alle calcagna il presidente della commissione di Bilancio Baldassarri con le sue proposte di tagliare Irap e Irpef, e ha congelato per tutta questa settimana i lavori alla Camera per mancanza di copertura finanziaria dei provvedimenti in discussione. Con il testo che ritorna a Montecitorio Fini potrebbe coronare la sua strategia: allungare i tempi di lettura e di approvazione, per arrivare a dicembre quando saranno più chiari gli introiti dello scudo fiscale. Perché con 5 o 6 miliardi di euro difficilmente Tremonti potrà negare che ci sono le risorse per un taglio delle tasse. Questa è la voce che da qualche giorno gira in Transatlantico. Non a caso il il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, fa notare che «il Parlamento vive una crisi drammatica dovuta all’indisponibilità del governo rispetto a una politica di cooperazione e collaborazione reale». Sostenendo che la sospensione dei lavori sia «un campanello d’allarme in ordine alla necessità di riportare il Par-

di Franco Insardà

Parla Gian Luca Galletti, responsabile dipartimento economico Udc

«Nel 2010 niente soldi per le famiglie» di Francesco Capozza

ROMA. «La Finanziaria del governo e del ministro Tremonti è il massimo sforzo possibile». Lo ha dichiarato ieri il presidente della commissione Bilancio del Senato, Mario Baldassarri, alla trasmissione radiofonica della Rai 60 Minuti in vista della discussione che inizierà domani a palazzo Madama. «Secondo me - ha detto Baldassarri - la proposta del governo e di Tremonti è il massimo sforzo possibile, ma questo non significa che non faremo una serie di interventi incentrati su impresa e famiglie». Quando si parla di aiuti alle famiglie liberal non può che approfondire la questione, in questo caso ascoltando il parere di Gian Luca Galletti, deputato e responsabile della politica economica dell’Unione di centro. Ritiene, come afferma Baldassarri, che il governo e nello specifico Tremonti, abbiano fatto il massimo sforzo possibile? Sorrido pensando alle decine di emendamenti alla Finanziaria presentate dal senatore Baldassarri. Dove sono finiti? A parte questo, credo che assolutamente no, il governo e Tremonti potevano fare molto di più. Non ci stupiamo comunque, lo avevamo detto da tempo che il titolare dell’Economia ha manifestato troppa paura e poco slancio verso quelle grandi riforme che servono al paese. Su tutte quelle delle pensioni, della pubblica ammini-

strazione, degli enti pubblici locali. Senza mettere mano a questi punti fondamentali, non capiamo come si possano immaginare fondi per imprese e famiglie. Baldassarri ha anche detto che «sull’impresa ci siamo concentrati sull’Irap, che ha naturalmente un gettito di 38 miliardi di euro, di cui 14 sono della Pubblica amministrazione e, come primo passo verso l’eliminazione, abbiamo progettato di trasformare i fondi perduti in credito di imposta». Che ne pensa? Noi siamo d’accordo con l’abolizione dell’Irap, solo ci domandiamo dove e come il governo pensa di trovare i 38 miliardi necessari. Se si pensa di farlo con i cosiddetti tagli lineari, sarebbe come se la toppa fosse inutile rispetto al buco cui rimediare. Questi sono i primi segnali di un ridimensionamento ancora una volta a scapito delle famiglie? Purtroppo sì. Fino ad ora sono proprio le famiglie ad averne fatto le spese e se da un lato nel 2009 hanno potuto giovare di qualche piccolissimo incentivo, una miseria a dire il vero, nel 2010 è bene che si sappia che se questa rimane la Finanziaria, in essa non c’è alcuna copertura per bonus o quant’altro vada in favore delle famiglie. Mancano le risorse e il governo non ha spiegato né come, né se intende davvero trovarle.

lamento al centro della vita delle istituzioni del Paese». E domani a Palazzo Madama si entra nel vivo della Finanziaria 2010. Il nodo chiaramente resta il taglio dell’Irap. Il governo potrebbe rinviare un eventuale riforma alla Camera per prendere tempo e quietare gli animi della maggioranza, ma visto l’attivismo dei senatori del Pdl Tremonti potrebbe uscirsene soltanto con la promessa di intervenire sull’Irap appena le condizioni delle finanze pubbliche lo permetteranno. Una promessa che per qualcuno è un primo, anche se implicito, riconoscimento di collegialità nelle scelte dell’economia. Come ha ricordato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri: «Il nostro punto programmatico principale è la riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Anche questa Finanziaria darà delle risposte nel suo percorso tra Senato e Camera. A Palazzo Madama abbiamo posto alcune questioni che attengono anche l’Irap. Ci stiamo confrontando in maniera costruttiva con il ministro dell’Economia, alla luce delle decisioni recentemente prese dal Pdl con la costituzione di un comitato della politica economica, e sono certo che arriveremo a conclusioni positive».

Va da se che ogni tatticismo non reggerà di fronte ai fondi dello dello scudo fiscale. E lo stesso Gasparri ha ribadito che bisognerà tenere conto di queste «entrate e delle altre risorse a disposizione, alcune utilizzabili per operazioni una tantum, altre per interventi di carattere strutturale. Daremo risposte e proseguiremo nell’attuazione del programma del centrodestra che gli italiani hanno dimostrato di apprezzare e di sostenere con crescente consenso». Ma sui soldi dello scudo ci sono già serie ipoteche, perché dovrebbero essere destinati in buona parte per l’aumento agli statali, sui quali vigila soprattutto Raffaele Bonanni, mentre un’altra quota dovrebbe andare ai precari della scuola e finanziare la social card. E le imprese e la famiglia? Se non ci saranno colpi di mano bisognerà aspettare tempi migliori.


diario

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La ragazza: «Gravi mancanze sia sotto il profilo umano sia delle cure»

Ieri l’appello di Fazio: «Non andate in ospedale»

Caso Cucchi, la sorella: «La colpa? Dell’ospedale»

Influenza A: morte altre due donne a Napoli

ROMA. «Quando ho visto mio

ROMA. «Ci raccomandiamo alla popolazione: non andate al Pronto Soccorso, ma chiamate il medico e andate all’ospedale solo in presenza di sintomi giudicati gravi dal medico. Altrimenti si rischia di intasare il sistema». È questo il nuovo appello che il viceministro alla Salute, Ferrucio Fazio, ha lanciato ieri spiegando che «l’influenza A fa vittime perché è una influenza», ma ribadendo altresì «che è lieve, fa poche vittime, e ha dei sintomi leggeri». L’appello è arrivato poche ore dopo la notizia di altre due vittime dell’influenza A: due donne sono decedute a Napoli in meno di 24 ore l’una dall’altra, mentre una bimba si trova in gravi condizioni a Lecco. A Na-

figlio durante l’udienza in tribunale, è entrato in aula con il viso gonfio e con dei segni neri sotto gli occhi. Era circondato dai carabinieri e io ho avuto modo di salutarlo solo al’inizio e alla fine ed era evidente che aveva già qualcosa, ma niente a che vedere con quello che abbiamo visto al momento della morte in obitorio». È quanto ha dichiarato Giovanni Cucchi, il padre di Stefano, intervistato ieri a Mattino Cinque insieme a sua figlia Ilaria.

«Quando mio figlio è stato ricoverato in ospedale Bertini - prosegue - noi ci siamo precipitati e quando abbiamo chiesto quando potevamo parlare con i medici per sapere le condizioni di Stefano, il piantone ci ha detto di tornare lunedi’dalle 12-00 alle 14.00 perché prima non avremmo trovato nessun medico. Dopo aver passato la domenica con comprensibile angoscia lunedi’ci siamo presentati e una sovrintendente ci ha detto che per parlare con i medici serviva un permesso da Regina Coeli e che quindi saremmo dovuti tornare domani, ma che le condizioni di Stefano erano “tranquille”». «A mezzogiorno del giorno successivo ha raccontato la madre - ci hanno chiamato i carabinieri per dirci che nostro figlio era morto». La sorella di Stefano parla della morte del fratello come un caso di malasanità: «Ritengo che ci sia una colpa gravissima da parte dei medici perché mio fratello era in una struttura medica quindi, al di là del fatto che loro stanno dichiarando, e cioè che Stefano rifiutava di curarsi e di alimentarsi, comunque si trovava in una struttura medica e non è possibile che sia morto disidratato. In questa vicenda sono stati violati tutti i diritti fondamentali dell’essere umano, a partire dal diritto a difendersi, perché mio fratello aveva chiesto il nostro legale di famiglia e invece si è trovato in tribunale l’avvocato di ufficio, fino al diritto del malato di essere assistito dai propri cari in punto di morte».

La riforma della giustizia e l’equivoco costituente Perché (anche questa volta) nessuno cambierà la Carta di Marco Palombi

ROMA. C’è un equivoco che s’aggira nella politica italiana. Metaforicamente si potrebbe dire un avanzo della crostata di casa Letta che nel giugno del 1997 aprì la strada alla stagione della Bicamerale. Non si parla di Dalemoni (copyright Gianpaolo Pansa), il disegno non è a quel livello di chiarezza, ma più correttamente d’un senso di diffusa attesa “costituente” seguito alla vittoria di Pierluigi Bersani alle primarie del Pd. Lo stesso Silvio Berlusconi ieri ha aperto a modo suo: «Se Bersani deciderà di cambiare registro e, invece di demonizzarmi, di concorrere alle riforme importanti per il futuro dell’Italia, il più contento sarò io».Anche il Guardasigilli Angelino Alfano, che in questi mesi ha il ruolo scomodissimo di front man berlusconiano nella battaglia con le toghe, ha mandato messaggi via Canale 5: «Non so se c’è la possibilità di un’intesa con l’opposizione. Noi non la rifiutiamo, anzi la ricerchiamo perché le riforme se sono votate da una maggioranza ampia sono destinate a durare in più nel tempo», ma «tra la paralisi perché l’opposizione non vuole la riforma e quanto proposto agli elettori noi sceglieremo non di restare fermi ma di procedere con le riforme». Gli stessi “diplomatici” dell’opposizione, come pure le fondazioni d’ogni ordine e grado, continuano a tracciare mappe per l’Eldorado. Ed è proprio qui che s’innesta l’equivoco, che poi più in generale è il “comma 22” della Seconda Repubblica: non c’è accordo possibile che non preveda la soluzione preliminare dei problemi legali del presidente del Consiglio. Il Pd, però, non si può permettere - pena lo sfacelo elettorale - di chiudere un occhio sulle leggine salvapremier allo studio degli esperti del Pdl.

ai poteri del premier su cui c’è già stato un voto bipartisan nel 2006. Nome del testo?

Bozza Violante. In sostanza significa Senato delle Regioni, riduzione dei parlamentari, potere di revoca dei ministri per il presidente del Consiglio e corsia preferenziale alla Camera per i ddl governativi. In cambio il Pd – come da prima richiesta di Bersani all’indomani delle primarie – vuole la modifica della legge elettorale (l’orizzonte è il Mattarellum più che il sistema tedesco). Solo dopo, ha dettoViolante al Foglio pochi giorni fa, si potrà procedere ad una riforma della giustizia non punitiva per i magistrati, magari anche cambiando il Csm e sottraendogli la funzione disciplinare. Conti senza l’oste, come si vede, anzi con l’oste sbagliato visto che non è Gianfranco Fini a dirigere il ristorante della maggioranza. Silvio Berlusconi, l’oste in carica, non ha infatti alcun interesse a farsi bloccare i per lui necessari interventi sull’ordinamento processuale da un clima di placida condivisione riformista. Una vera riforma della giustizia tanto per intenderci, almeno nella forma hard annunciata dal ministro (che lo stesso annuncio, peraltro, lo fece già oltre un anno fa), non è alla viste: ad oggi non c’è un testo condiviso nemmeno nel Pdl. Si pensi solo alla questione dei Pm più o meno controllati dall’esecutivo, soluzione assai ben vista a palazzo Grazioli e assai meno negli uffici della presidenza della Camera. Il testo intorno a cui ci si continua a muovere, per di più, è la cosiddetta “bozza Boato”, un altro pezzo avanzato dalla crostata preparata dalla signora Letta dodici anni orsono. Piccoli cambiamenti da inserire in un ddl ad hoc, invece, vanno prendendo corpo in questi giorni in cui il Cavaliere è ossessionato da una eventuale condanna di primo grado nel processo Mills (si aspetteranno, per tararli al centesimo, le motivazioni della sentenza d’appello contro l’avvocato inglese): il taglio ai tempi di prescrizione già a suo tempo accorciati dalla Cirielli - è in particolare il risultato che il premier vuole e deve portare a casa entro gennaio-febbraio. Se ce la fa, e riesce quindi a disinnescare la grana Mills, allora inizierà un’altra legislatura: se sarà “costituente” o solo la grande vendetta contro le toghe dipende da quello che succederà nei prossimi mesi.

Berlusconi e Alfano offrono dialogo, i finiani trattano con il Pd, ma il processo Mills è un ostacolo troppo alto per tutti

La politica italiana, in ogni caso, fa finta che questa contraddizione non esista e allegramente s’organizza con i soliti conversari segreti, i messaggi in codice, le alleanze destinate a morire al primo vento. I finiani ad esempio, anche utilizzando la sponda di autorevoli personalità del campo opposto come Luciano Violante, sostengono che si debba procedere ad uno «spacchettamento delle riforme» per dar vita a quella «legislatura costituente» invocata anche dal capo dello Stato. Tradotto: si cominci mettendo mano alla struttura istituzionale e

poli in tutto sono otto le vittime del virus H1N1 (su un totale di 14 vittime in Italia). Dopo la 72enne morta ieri al Caldarelli, ieri mattina una donna di 42 anni è deceduta all’ospedale Cotugno. La 72enne che è deceduta ieri al Caldarelli, era affetta da problemi cardiaci con complicanze respiratorie. Ma solo oggi si è avuto il risultato delle analisi sul virus H1N1. A spiegarlo è Franco Paradiso, direttore medico di presidio del Cardarelli, all’agenzia Adnkronos: «È morta per una crisi respiratoria. Abbiamo inviato al Cotugno i campioni e abbiamo avuto la conferma della positività alla nuova influenza».

E sempre a Napoli si attendono i risultati dell’autopsia compiuta su Emiliana, la bimba di 11 anni di Pompei, morta sabato. L’apertura di un fascicolo d’inchiesta a carico di ignoti da parte della procura sul caso della bambina deceduta al Santobono di Napoli e risultata positiva al test rapido per il contagio da virus H1N1 è un «atto dovuto» per «dissipare ogni dubbio», ha chiarito il capo dell’ufficio inquirente partenopeo Giandomenico Lepore. I risultati dell’autopsia serviranno a stabilire se vi siano ipotesi di reato.


politica

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Università. La legge approvata dal governo Berlusconi è un passo avanti, ma ancora non risolve i problemi più urgenti

Tre nodi per un ministro Personale, qualità e riassetto degli atenei: ecco i punti che la Gelmini deve rivedere di Luisa Ribolzi na legge di riforma nasce, generalmente, per risolvere dei problemi: proverò a formulare qualche considerazione sulla legge di riforma dell’università proposta dal ministro Gelmini e approvata nei giorni scorsi dal governo, a partire da tre ordini di problemi che vedo come centrali nell’istruzione superiore del nostro Paese. Una premessa non irrilevante: il ministro ha dichiarato che «la riforma sarà legge nei primi mesi del prossimo anno, fra febbraio

U

definitivo. Sperando che questo non accada di nuovo, dividerò le mie osservazioni in tre punti: il personale, la valutazione e il miglioramento della qualità e il riassetto organizzativo.

1. Il personale. Il disegno di legge Gelmini dedica alla docenza 5 dei suoi 15 articoli, quelli del Titolo Terzo. Secondo i dati ufficiali del ministero, nel 2008 erano presenti in università 62.768 docenti, suddivisi in 18.929 ordinari, 18.256 associati e 25.583 ricercatori. Ora, una

Tra i limiti più evidenti, un palese eccesso di regolamentazione che scoraggia le strutture e che tende a trasformarle in organizzazioni esclusivamente burocratiche o “buromeritocratiche” e marzo. Poi ci vorranno sei mesi per i decreti legislativi (e si arriva a settembre, ndr): entro un anno sarà applicata» (presumibilmente dall’anno accademico 2011/2012). Non vorrei che questa dichiarazione fosse una di quelle che gli psiwishful cologi chiamano thinking, che consiste nel dare per certo l’accadimento di qualcosa che si desidera: ma poiché già molte volte mi è accaduto di commentare una riforma che poi non si è fatta, applicherei una certa cautela nel considerare questo primo importante passo come quello

struttura che dovrebbe essere gerarchica e meritocratica ha normalmente una forma piramidale, mentre qui siamo di fronte a una sorta di tronco di cono. Questo si spiega esaminando i tassi di accrescimento nell’ultimo decennio: tra il 1997 e il 2008 il personale è complessivamente cresciuto del 27,6%, ma gli ordinari del 41,2%, gli associati del 16,9% e i ricercatori del 27,6%. Questo significa che il reclutamento nell’università è stato finalizzato prevalentemente agli avanzamenti di carriera, e a rinforzare gli “strati alti” della docenza, penaliz-

zando i ricercatori, la cui età media è cresciuta ancora raggiungendo i 45,2 anni, e soprattutto gli associati, la cui quota sul totale è passata dal 31,8% al 29,1%. Chi lavora in università sa bene, inoltre, che i nuovi docenti non sempre sono stati promossi o reclutati in relazione agli effettivi bisogni delle facoltà: su questo non ha pesato solo il corporativismo dei docenti, che tendono a riprodursi al di là della loro utilità reale, ma anche la rigidità del sistema, che in presenza di due radicali riforme dei corsi (note fra gli addetti come la “509” e la “270”) non hanno previsto meccanismi di riequilibrio dei docenti, che risultavano in sovrannumero per certi settori, e insufficienti per altri. Infine, il meccanismo del rientro dei cervelli ha funzionato solo in misura ridotta, in parte perché le condizioni di lavoro per i ricercatori di valore restano comunque migliori all’estero, e questo può compensare la minore qualità del cibo e del clima, e in parte - direi soprattutto - perché, come ho letto in un’intervista rilasciata a un quotidiano da un ricercatore eccellente che lavora nel Texas, l’università italiana considera i ricercatori che rientrano come cellule estranee, e cerca di espellerli. Per quanto riguarda le modalità di reclutamento, l’art.9 prevede l’istituzione di un’abilitazione scientifica nazionale, di durata quadriennale, per l’accesso al ruolo di docente di pri-

ma e seconda fascia. Ai più vecchi questo ricorda pericolosamente il concetto di libera docenza (abolita nel 1970), ma non è grave. Grave è piuttosto la riflessione che il dettaglio sul periodo di indizione delle procedure (annuali) richiama precedenti e altrettanto perentorie affermazioni, risoltesi poi in un nulla di fatto. L’assegnazione dei compiti di selezione ai soli docenti ordinari pare una bella prova dell’intento di far diminuire il potere dei baroni: a meno che non si tratti di uno scaltro trucco per sottrarre loro il governo dell’università, visto che per alcuni settori dovranno passare tutto il loro tempo nelle commissioni di concorso, sia per le abilitazioni, sia per la selezione pubblica che in ciascun Ateneo consente l’effettiva entrata in servizio dei candidati in possesso di abilitazione. L’articolo su reclutamento e progressione di carriera è il più lungo del decreto e così dettagliato da prevedere ogni possibile situazione tranne forse quella che si presentino due gemelli siamesi uno abilitato e uno no. Sto scherzando, naturalmente, ma devo confessare che sono d’accordo con chi afferma che in Italia non esiste nessun sistema di selezione che non possa essere strumentalizzato, e quindi tanto varrebbe lasciare alle università l’onere di individuare i docenti di cui hanno bisogno. Se scelgono in base a criteri nepotistici, saranno punite sia dal mercato, che non iscriverà più studenti, sia dallo Stato, che non pagherà i docenti le cui prestazioni sono al di sotto di certi standard. Resta da vedere la situazione dei giovani

ricercatori, che rappresenta a mio avviso uno degli aspetti più positivi dell’intero disegno (sugli aspetti finanziari non esprimo nessun parere, perché non mi sento competente a farlo). La novità più interessante è la scomparsa del ricercatore a tempo indeterminato, sostituito da un ricercatore a tempo con compiti «di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti». Al termine dei sei anni di contratto i ricercatori possono restare in università solo se conseguono l’abilitazione ad associato: e questo è stato considerato da molti come un fatto negativo. Io lo ritengo invece positivo: un ricercatore-tipo ha alle spalle la laurea magistrale (5 anni), il dottorato (3 anni) e verosimilmente 2 o 3 anni di assegno di ricerca, oltre a 6 anni come ricercatore a tempo determinato: se, giunto all’età di circa 35 anni (19+16) e dopo 8 anni come ricercatore non è in grado di conseguire l’abilitazione, forse è meglio che cambi mestiere. Se si tratta di non buttarlo in mezzo a una strada, ricordo che quando divenni ricercatore io era possibile entrare di ruolo nella scuola secondaria superiore. Si tratta di piccoli numeri, poche centinaia ogni anno, forse meno, per cui non dovrebbe esserci un problema di quantità. Il problema è naturalmente quello di capire che ne sarà dei 25.582 ricercatori oggi in servizio: è reale il rischio che restino precari a vita, o peggio oggetto di una sanatoria indiscriminata, per cui bisognerà capire meglio che cosa il ministero pensa di fare. Per tutto il personale, in sintesi, dovrebbe esserci un av-


politica

Il rientro dei cervelli ha funzionato solo in parte: le condizioni di lavoro per i ricercatori restano migliori all’estero e l’università italiana li considera ancora come cellule estranee, e cerca di espellerli vicinamento alla condizione del resto del mondo, in cui l’obiettivo primario non è il posto fisso, ma la possibilità per i migliori, e anche solo per i buoni, di contrattare con gli atenei la loro posizione: quando negli anni Ottanta fu abolita la tenure, il posto fisso, gli accademici inglesi si ribellarono, ma di fatto oggi la mobilità è altissima, e nasce dagli sforzi congiunti degli accademici per migliorare la propria posizione, e delle università di accaparrarsi docenti di valore come carta da spendere per attirare studenti e finanziamenti.

2. La valutazione e il miglioramento della qualità. Il problema fondamentale non solo dell’istruzione superiore, ma della formazione in generale, è la sua qualità: parrebbe ovvio che non è tanto importante produrre più laureati in assoluto, quanto produrre più laureati preparati. L’introduzione della laurea triennale ha sicuramente portato a una crescita del numero assoluto di laureati, che in soli 6 anni (dal 2001 al 2006) è passato da 171.806 a 301.376, con un aumento del

75,4%. Dal 2007, siamo in presenza di un piccolo calo: per la precisione, le lauree triennali continuano a crescere, come anche le lauree a ciclo unico e le lauree specialistiche. Sono in netto calo le lauree del vecchio ordinamento, che nel 2008 erano ancora più di 40mila, di cui circa 6mila dei corsi del vecchio ordinamento per insegnanti della scuola materna e primaria: il che significa che sono ancora iscritti all’università circa 35.000 fuori corso da almeno 6 anni. Cito questi numeri per dire che il problema quantitativo è forse risolto, ma sarebbe un errore considerare i 171.413 laureati triennali come equivalenti ai 170.532 laureati “lunghi” del vecchio ordinamento, tanto è vero che un po’ più del 60% dei “triennali” decide di iscriversi a una laurea specialistica, o magistrale come si chiama adesso. Ma accanto al problema di valutare gli apprendimenti degli studenti, il sistema si trova a dover valutare la qualità della formazione offerta, e può farlo in due modi: o controllando gli esiti, o controllando le risorse. La scelta italiana, in controtendenza rispetto alla maggior parte dei sistemi europei, è sempre e fortissimamente la prima: si accumula il maggior numero possibile di dettagliate prescrizioni immaginando che sia non solo necessario, ma sufficiente per un ateneo o un corso di laurea adeguarsi ai requisiti formali richiesti, per raggiungere esiti positivi. Così non è: il possesso di determinati requisiti è semmai una precondizione su cui devono innestarsi procedure assai più complesse.

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A dire il vero, il sistema universitario italiano da questo punto di vista ha fatto qualche passo avanti, con l’istituzione dell’ANVUR, approvata nel 2009, che fonde la valutazione della ricerca e quella della didattica, che però non parte sotto i migliori auspici se lo stesso ministro, nel giugno scorso, la considerava «una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità, destinata a controllare anche i più piccoli meccanismi e procedure, caricata di eccessivi compiti che non potrebbe svolgere se non in tempi molto lunghi. Non è ciò di cui abbiamo bisogno». E tuttavia la direzione è quella dell’agenzia il più indipendente possibile, in cui sono fondamentali sia la qualità dei valutatori, punto controverso per non dire dolente, sia la qualità degli indicatori, sia infine la definizione di che cosa valutare: le “classifiche” delle università, per popolari che siano, sono imprecise, perché si possono confrontare fra loro solo unità più ridotte ed omogenee, come i corsi di laurea, i dipartimenti o i singoli insegnamenti. Infine, la valutazione dei docenti, cu cui potremmo dire con Dante «le leggi son, ma chi pon mano ad esse?», dal momento che ognuno che viva o abbia vissuto in università ben sa che i controlli sono scarsi o inesistenti, e i colleghi neghittosi possono neghittare impunemente. Anche qui l’eccesso di dettaglio è di scarsa utilità: fissare un orario di lavoro di 1.500 ore, di cui 350 di didattica, non significa nulla: chi lo controllerà? Verrà magari fissato uno standard per cui ogni ora di lezione ne comporta, che so, otto di preparazione? Pare più ragionevole fissare dei compiti inderogabili che la facoltà assegna ai docenti, e in mancanza dei quali può sanzionarli per inadempienza: ma dalle pagine del decreto l’autonomia universitaria viene drasticamente ridimensionata, riproponendo l’immagine così comune nella nostra nazione di un cittadino perennemente minorenne (o forse minorato?). Tuttavia l’introduzione dell’idea che il merito possa o debba essere un criterio per assegnare le risorse è certamente un’idea positiva, che richiederà criteri rigorosi di definizione ed applicazione, a meno di non lasciarli agli atenei, su di una minimale linea comune: tra l’altro mi pare che la sola esistenza di questi meccanismi abbia già introdotto nelle università una certa abitudine all’autovalutazione.

3. La razionalizzazione organizzativa. Dell’atomizzazione del sistema hanno già parlato in molti, e forse non è il caso di riprendere i dettagli: il moltiplicarsi degli atenei (nello scorso anno accademico erano 84 fra pubblici, 65 più tre Politecnici, e privati, 16), l’eccesso di sedi e mini-sedi sorte su basi campa-

nilistiche, senza adeguate garanzie di qualità dell’insegnamento, il proliferare degli atenei telematici, dove siamo arrivati buoni ultimi ma stiamo recuperando velocemente il tempo perduto, visto che esistono attualmente 11 atenei telematici con circa 18.000 iscritti, e infine l’esorbitante numero di corsi di laurea triennale e specialistica sono noti a molti. Da questo punto di vista la riforma ha affrontato coraggiosamente il problema, senza nascondersi dietro un dito, ma parlando di «federazione e fusione» di atenei, razionalizzazione dell’offerta formativa e conseguente disattivazione di corsi e sedi universitarie, così come previsto dalla legge n. 43 del 2005. Anche la normativa relativa alla gestione, all’articolazione interna e agli organi degli atenei muove in direzione di una sorta di professionalizzazione da molto tempo auspicata: non è più il tempo, come dicevano gli inglesi, in cui gli atenei si gestivano con «un professore di buona volontà e un ragazzo a metà tempo». Il rischio, da questo punto di vista, oltre ad un’inevitabile ma salutare impopolarità, è che si pensi che, avviati a soluzione i problemi organizzativi, il più sia fatto, mentre è solo un primo passo. Come sempre, quando si scrive, si possono prendere in considerazione solo alcuni aspetti e si tende a sottolineare i limiti più che i pregi, limiti che a mio avviso stanno in un eccesso di regolamentazione che scoraggia gli Atenei e tende a trasformarli in organizzazioni esclusivamente burocratiche, o forse “buromeritocratiche”, in cui il “buro” prevale sul “merito”, mentre gli aspetti positivi stanno nella semplificazione, nel tentativo di riordinare, di stroncare gli abusi, di valorizzare i migliori, studenti e docenti, eliminando gli automatismi e riducendo le disequità. Adesso si tratta di passare alla pratica, magari cercando di ridurre i tempi e senza dimenticare che le università sono organizzazioni complesse e ambigue, i cui fini sono talvolta conflittuali, gestite da una categoria di persone, gli “accademici”il cui prestigio è molto minore di un tempo, per cui sono scoraggiati, polemici, gelosi della loro autonomia ma spesso incapaci di far fronte al cambiamento. Non sono valutazioni mie, ma di Anthony Halsey nel suo Decline of donnish dominion del 1995, in cui conclude però che è sempre colpito «dalla dedizione e dall’entusiasmo di molti docenti nei confronti della loro tradizione e dei loro studenti» e ricorda che le università potranno conservare il meglio della loro esperienza e del loro ruolo se la gente se ne interesserà e comincerà a sentirle cosa propria altrettanto che dei professori. Se il dibattito in corso avrà avuto anche solo questo risultato, sarà già un esito ottimo.


panorama

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Democratici. Occorre trasformare la logica delle componenti in dialettica tra sensibilità culturali differenti

Gli errori che Bersani non deve ripetere di Antonio Funiciello uscita di Rutelli dal Partito democratico innesca una dinamica politico-culturale che influenzerà la vita futura del partito. Quando negli anni scorsi il Pd ha preso forma nei pensieri di uomini come Salvati e Parisi, tutto era fuorché quel compromesso storico bonsai additato dai suoi detrattori nel momento in cui, con Veltroni, il Partito democratico prendeva vita. A partire dalla crisi in corso della socialdemocrazia (più volte denunciata proprio da Rutelli), il progetto originario del Pd puntava a creare un partito collocato in uno spazio culturale nuovo, entro il quale lasciare evolvere le culture di riferimento. È evidente che lo sviluppo odierno di quel progetto motiva

L’

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

politicamente le contestazioni di fondo di Rutelli. Oggi nel Partito democratico si muovono, abbastanza disordinatamente, profili culturali differenti come forze centrifughe che nessuno prova a mettere a regime. La responsabilità maggiore di questo caos è di Walter Veltroni, che ha predicato più

gnate dalle mozioni congressuali, che per quanto lo statuto pretenda restino in piedi allo scopo di comporre proporzionalmente gli organismi direttivi, sono troppo eterogenee per resistere nel tempo. L’area culturale che ha mostrato maggiore forza all’ultimo congresso è senza dubbio quella

La responsabilità del caos del Pd è di Veltroni: ha predicato più di altri un anti-correntismo ideologico, salvo essere vittima delle stesse correnti di altri un anti-correntismo ideologico, salvo poi essere vittima del movimentismo interno delle correnti.

Bersani farà del bene al Pd se interverrà nel suo seno per trasformare il circolo vizioso del caos correntista del Nazareno nel circolo virtuoso di una vera dialettica culturale interna, che preceda la sintesi dell’offerta politica che si consegna al paese. Il materiale intellettuale, oggi allo stato caotico, con cui provare a lavorare è facilmente distinguibile. Non si tratta, però, di far riferimento solo alle aree dise-

socialdemocratica di Massimo D’Alema. Sul solco rivendicato dell’esperienza del Pci, la corrente dalemiana che esprime oggi il segretario ha un profilo culturale robusto, in riferimento al movimento socialista internazionale. La corrente più forte che sosteneva Franceschini è, d’altro canto, quella popolare di Marini e Fioroni, e il cattolicesimo democratico resta un orientamento culturale decisivo nella creazione di un Partito democratico ampio e fusionista. Ci sono poi declinazioni “personali” delle due macro aree, come il cattolicesimo democrati-

co di Enrico Letta più avvertito sui temi economici e il prodismo di Rosy Bindi, come anche la declinazione socialdemocratica incarnata da Fassino, che però è stata ridimensionata dall’esito congressuale. Più distante si collocano quei liberaldemocratici che non seguiranno Rutelli, continuando a dare battaglia nel Pd e il piccolo e anarchico universo veltroniano, in cerca di un’evoluzione politica propriamente detta, dopo il trauma dell’abbandono dell’ex segretario.

Il tema dell’identità irrisolta dei democratici deve molto al particolarismo dei diversi orientamenti culturali che la animano. Perpetuare la funzione di compromesso politico tra ex comunisti e cattolici non porterebbe domani il Pd da nessuna parte, ammesso e non concesso che in passato abbia portato qualcuno da qualche parte. Provare a far vivere il Partito democratico alla luce del sole di una dialettica tra sensibilità culturali differenti, sarebbe una novità intelligente e di certo più proficua dell’attuale caos.

La grande rimonta in casa con il Milan e la vittoria fuori casa con la Juventus

Con Mazzari il Napoli ritrova se stesso isogna dare a Mazzari ciò che è di Mazzari (ma anche al presidente De Laurentiis): la resurrezione del Napoli. Era una squadra ormai bollita, ma il nuovo allenatore è riuscito a fare il miracolo di San Gennaro. Dieci punti nelle ultime quattro partite: praticamente una media da scudetto. Ma soprattutto la grande rimonta in casa con il Milan e la rimonta e la vittoria fuori casa con la Juventus. Il “ciuccio” è diventato un cavallo e galoppa che è una meraviglia. Fino all’ultimo minuto. Proprio qui è il punto.

B

Il Napoli di Mazzari vince all’ultimo minuto e pareggia a tempo scaduto dimostrando di avere recuperato una qualità che è essenziale nel calcio e nella vita: crederci sempre. Così, sul modello platonico della “zona Cesarini”, per esaltare le virtù di tenacia e convinzione della “vita nova” del Napoli si è cominciato a parlare di “zona Mazzari”. Ma, pur riconoscendo i meriti dell’allenatore azzurro, si può avanzare l’idea di un’altra definizione: “zona Denis” perché spesso i bei film si ricordano per l’attore o l’attrice, non per il regista. Rivera segnò il 4 a 3 finale contro la Germania, ma chi sedeva in pan-

china? L’urlo di Tardelli nella finale del 1982 si ricorderà senz’altro di più della pipa di Bearzot.

La “zona Denis” è la nuova “zona Cesarini” perché la fiducia che Denis ha in sé e nella squadra e il colpo finale che giunge per ultimo e mette a posto ogni cosa sono il significato che solitamente si dà al gol del 90°. Oltre a questo senso ci sono, però, altri due significati della “zona Cesarini” che vale la pena ricordare per due motivi: perché fu lo stesso Renato Cesarini a evidenziarli in un suo articolo e, secondo, perché arricchiscono ancor più di senso la nuova “zona Denis”. Nel libro Aristotele spiegato con Totti riporto l’articolo che il fuoriclasse italo-argentino pubblicò nel 1949 sul “Calcio illustrato” e che Luca Pagliari

ha messo al centro del suo libro intitolato proprio Zona Cesarini. Il gol da cui tutto nacque fu segnato il 13 dicembre 1931 allo stadio Filadelfia, a Torino, nella partita Italia-Ungheria. Era piovuto, il terreno era pesante, dirigeva lo svizzero Mercet. Si era sul 2 a 2 e mancavano pochi secondi allo scadere: «Avevo addosso il terzino Kocsis. Passai la palla alla mia ala Costantino e Faele la portò un po’ avanti, al limite dell’area, e titubò. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e Faele schizzò lontano; fintai evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Io guardai a sinistra, da dove arrivava a grandi falcate Mumo. Accennai un pas-

saggio all’ala, il guardiano magiaro abboccò e si sbilanciò sulla destra, preparandosi a parare l’eventuale tiro di Orsi. Allora io tirai assai forte, per conto mio, a sinistra del portiere, il quale, bravissimo, fece ancora in tempo a gettarsi in tuffo dalla parte giusta, ma giunse troppo tardi». Gol e fischio finale del signor Mercet. Era la “zona Cesarini”.

Il significato principale della “zona” è quello che i Greci chiamano kairòs e che Protagora, ottimo centravanti, definiva «la potenza del momento opportuno». Ogni giocatore (ogni uomo) deve trovare in sé la regola della sua azione e cogliere il momento giusto per compierla. A volte il kairòs è anche fortuna ma, come sapeva Machiavelli, la fortuna è femmina ed è amante dei giovani e dei temperamenti che non lasciano nulla di intentato. Ma la “buona occasione” implica la responsabilità perché il buon giocatore rischia e mette in gioco se stesso. Renato Cesarini addirittura tolse la palla al suo compagno. E se non avesse segnato? La certezza non c’è mai, altrimenti non ci sarebbe gioco. Ciò che conta veramente, come dice German Denis, è crederci e aver fiducia in sé.


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Cattolici-Anglicani. Anche in futuro, potranno essere ordinati uomini coniugati con l’autorizzazione della Santa Sede

Sacerdoti sposati: si deciderà “caso per caso” di Luigi Accattoli on è ancora pubblicata la Costituzione apostolica con cui il Papa accoglie nella Chiesa Cattolica gruppi di anglicani, ma ora sappiamo che in essa c’è una precisa novità riguardo al celibato dei preti: vi si dice che non solo in questo momento di passaggio, ma anche in futuro in quelle comunità potranno essere ordinati uomini sposati con autorizzazione “caso per caso” da parte della Santa Sede. L’abbiamo appreso sabato da una “chiarificazione” del portavoce vaticano nella quale sono riportati – a correzione di voci giornalistiche – due paragrafi di quella Costituzione, che fu annunciata a Roma e a Londra il 20 ottobre.

ammettere al sacerdozio uomini sposati anglicani non ancora ordinati al momento del passaggio al cattolicesimo costituiva una novità, sia pur piccola e temporanea. Ma nei due paragrafi pubblicati sabato c’è un altro elemento nuovo, assai più impegnativo, riguardante quella possibilità per il futuro, cioè a tempo indeterminato: non più con riferimento a chi era prete o “seminarista” al momento del passaggio. La chiarificazione vaticana è suonata come una smentita a quanto aveva scritto il collega Andrea Tornielli de Il Giornale, che invece ha il meri-

N

Fino a sabato si era capito che i sacerdoti anglicani sposati che passeranno al cattolicesimo da soli o con le loro comunità, entrando a far parte di “ordinariati personali” che ora si costituiranno, potranno essere ammessi al sacerdozio cattolico e “riordinati” in esso, ma in futuro anche questi “ordinariati”dovranno attenersi alla regola del celibato. Si era capito inoltre che a questa regola ge-

Dalla Costituzione apostolica con cui il Papa accoglie i diaconi della Chiesa di Londra, c’è una novità interessante sul celibato dei preti nerale si sarebbe avuta una qualche eccezione con il passare del tempo, quando cioè fossero arrivati all’ordinazione i “seminaristi” anglicani già sposati che ora passano al cattolicesimo. Per loro – era stato detto dal cardinale Levada nella conferenza stampa del 20 ottobre – si deciderà “caso per caso”. Già questa possibilità di

to di aver posto l’interrogativo provocando la giusta risposta.

Per “chiarire” sono stati anticipati due paragrafi dell’articolo VI della Costituzione. Il primo afferma che «quanti hanno servito come diaconi, sacerdoti o vescovi anglicani e che possiedono i requisiti stabiliti dal diritto (…) possono essere accettati

dall’ordinario come candidati agli ordini sacri nella Chiesa cattolica». Se sono «ministri sposati» saranno accettati con le spose e i figli, mentre i «non sposati» dovranno «osservare la norma del celibato». Il secondo paragrafo guarda al futuro ed è qui che viene formulata la novità più importante: «L’ordinario – cioè il vescovo o il prete che avrà giurisdizione su ognuno degli “ordinariati personali” – di norma (pro regula) ammetterà all’ordine presbiterale solo uomini celibi. Può anche chiedere al Romano Pontefice l’ammissione di uomini sposati al presbiterato caso per caso, secondo criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede». Poniamo che in uno di questi “ordinariati” ci si venga a trovare – un giorno – in penuria di preti. Mancando “aspiranti” celibi, l’ordinario potrà chiedere al Papa l’autorizzazione a ordinare degli sposati. Qui è la novità: nella previsione di questa possibilità. In teoria essa è aperta già oggi a ogni vescovo della Chiesa cattolica, essendo ben chiaro che il Papa può “derogare” dalle leggi canoniche. Ma in pratica se un vescovo azzardasse una tale richiesta – e immagino che sarà pure ca-

pitato – gli verrebbe risposto d’ufficio che tale deroga non è prevista. Per gli ordinariati anglicano-cattolici invece ora viene prevista. Loveda dice che quella previsione è fatta «in via puramente ipotetica». Facciamo dunque un’ipotesi su quanto potrebbe capitare tra dieci anni in una diocesi cattolica della Gran Bretagna dove vi fosse un buon numero di appartenenti a uno dei nascenti “ordinariati”. Sia la diocesi sia l’ordinariato hanno penuria di preti. Avendo l’ordinariato già ottenuto l’ordinazione di“uomini sposati” che cosa impedirà che quell’esperienza – poniamo positiva – apra la via a un’analoga possibilità nella diocesi cattolica? Il giovane Ratzinger nel saggio Fede e futuro (Queriniana, Brescia 1971, p. 115) aveva previsto che un giorno si sarebbe arrivati – per necessità e restando vigente la norma del celibato – all’ordinazione di “cristiani maturi”(viri probati) già sposati. Forse è per questa via degli ordinariati venuti dall’anglicanesimo che la Chiesa di Roma scioglierà domani il nodo del celibato ecclesiastico che già oggi segna profondamente le sue carni. www.luigiaccattoli.it

Aiuti di stato. Gli incentivi pubblici italiani nel mirino della Ue. Domani il piano per Chrysler

Fiat: bene le vendite, male gli incentivi di Francesco Pacifico

ROMA. Le immatricolazioni a ottobre segnano una crescita a due cifre (+15,05 per cento, pari a 60mila vetture in più). Il mercato torna a scommettere (+2,95 per cento) sul titolo sperando nello spin off dell’auto. Domani, con il piano per rilanciare Chrysler, il mondo saluterà un gruppo con attività in quattro diversi continenti. Per Sergio Marchionne e la Fiat questo autunno sarebbe a dir poco speciale se non ci fosse un’incognita sul loro futuro: i nuovi incentivi alla rottamazione. Gli aiuti, ai quali il Lingotto lega la sua produzione in Italia, saranno riproposti anche nel 2010. I problemi però sono il quantum e la modalità.

a Roma. Il piano di sconti messo a punto da via Veneto per il 2009 premiava soprattutto i veicoli di taglia piccola e poco inquinanti tanto che per un’utilitaria bifuel arrivava a concedere oltre 4 mila euro. Con le sue Panda e le Grande Punto è la Fiat la regina di questa fascia di mercato, a fare gioco forza incetta dei fondi. A fare la voce grossa sono soprattutto i tede-

A ottobre le immatricolazioni crescono del 15,05 per cento. Vertice a fine mese tra Marchionne, Berlusconi e i sindacati sulla produzione in Italia

Come ha spesso ricordato il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, gli incentivi tendono autofinanziarsi generando immatricolazioni, quindi Iva. Ma se è impossibile trovare i soldi per tagliare l’Irap, non meno lo mettere in bilancio i due miliardi di euro allocati quest’anno. Anche perché, come lamentano dal Tesoro, non si possono coprire gli incentivi con un surplus di Iva al momento soltanto virtuale. Eppure poca cosa rispetto alle pressioni che stanno arrivando da Bruxelles

schi: temono che l’Italia consolidi un precedente pericoloso per tutto il Vecchio continente, hanno un’industria nazionale specializzata nella gamma alta, vogliono che non diventi un monopolio del Lingotto un mercato in crescita (ha oltre 4 milioni di Euro zero) come il nostro. Nota Eros Panicali, leader auto della Uilm: «È chiaro che prima o poi si dovrà uscire dalla logica degli incentivi, ma adesso come si fa?». Intanto domani Marchionne illustrerà alla comunità finanziaria il piano per rilanciare la Chrysler. Una roadmap lunga cinque anni per fondere in cinque anni i marchi della pic-

cola di Detroit con quelli di Fiat Group, Iveco e Cnh, e per restituire 8,2 miliardi ai contribuenti Usa.

Da quel che si sa, al centro di questa c’è il lancio di nuovi modelli ecologici a marchio Chrysler negli Usa utilizzando motori e tecnologia MultiAir Fiat. Su identiche piattaforme poi dovrebbero essere costruite Oltreoceano berline per la casa di Detroit e per l’Alfa Romeo. E se sarà quello di Jeep l’unico marchio tra quelli americani con distribuzione internazionale, la Bertone dovrebbe occuparsi dei Suv e delle ammiraglie, che mancano nella gamma del Lingotto. Ma in questo piano i sindacati si aspettano di capire cosa ne sarà degli stabilimenti italiani di Fiat. Attualmente i quattro modelli più venduti, e che sono soggetti a incentivi, sono costruiti in Polonia (500 e Panda), a Melfi (la Grande Punto) e da poco a Termini Imerese (la Y bifuel). Tra domani e in un incontro a Palazzo Chigi con Berlusconi che si terrà a fine mese, Marchionne potrebbe annunciare di riportare in casa (forse a Pomigliano) uno dei modelli che si costruisce in Polonia. Ma in cambio chiederà maggiori flessibilità. E la cosa già basta per allarmare le tute blu.


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il paginone

Pubblichiamo l’intervento conclusivo del Presidente emerito della Repub quando diciamo Italia”. Dallo smarrimento dopo l’armistizio dell’8 settembre 19

Che cosa si

Milioni di uomini e d politiche, trovano volontà di servire la

esidero innanzitutto ringraziare la Fondazione Liberal e l’onorevole Adornato dell’invito a concludere queste due giornate dedicate al confronto sul tema dell’identità nazionale. In verità quando Adornato mi sottopose la sua proposta esitai ad accoglierla, e per più di una ragione, la principale essendo che alla mia età, la partecipazione ai convegni costituisce impegno non leggero. In subordine, poiché non sono uno storico, né un politologo, consideravo auspicabile che il tema trattato, per la sua rilevanza e dopo l’ampia discussione sviluppatasi l’estate scorsa con il contributo di studiosi di vaglia, restasse nell’ambito del confronto scientifico. Infine, la mia posizione di presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia mi suggerisce l’opportunità di astenermi dal partecipare a iniziative a quell’evento in qualche modo ricollegabili.

A vincere l’iniziale resistenza ha indubbiamente contribuito, oltre alla garbata e affettuosa insistenza di Ferdinando Adornato, la formulazione del titolo del convegno. Se parafrasare Carver non è per caso, mi sono detto, siffatta cifra “minimalista” dà diritto di cittadinanza anche a chi si considera solo un testimone che attinge alla propria storia personale per esemplificare e in tal modo risponde alla domanda sottesa al titolo del convegno. Ecco allora che dare conto della mia idea di nazione, che per me fa tutt’uno con l’orgoglio di essere italiano, con il sentimento di appartenenza a un sistema di valori che affonda in primis nella lingua e nella cultura, significa inevitabilmente risalire indietro nel tempo; riandare a quel periodo della vita in cui cominciano a prendere forma convinzioni e idee. In breve, si tratta di ripensare quella fase dell’esistenza in cui intensa e appassionata è la ricerca di ideali di vita; meglio ancora, degli ideali per la

Sono gli anni in cui in buona misura si decide con quale atteggiamento si affronteranno e si opereranno le scelte importanti che si sarà chiamati a compiere; quale sarà la bussola che fornirà l’orientamento nei passaggi difficili della vita, privata e pubblica. È questa convinzione, soprattutto, a portarmi qui oggi a “raccontare” la mia idea di nazione; di come essa abbia preso forma nella ragione e nel cuore. Un racconto indirizzato idealmente ai giovani. Ad essi, infatti, ho scelto di dedicare la più gran parte del mio tempo. Considero un dovere il dialogo tra generazioni: ai giovani passiamo il testimone,

D

vita. Quale che sia stata l’esperienza di ciascuno, tutti concordiamo nel considerare fondamentali quegli anni formativi: per lo sviluppo della personalità, per gli indirizzi da seguire nel prosieguo dell’esistenza.

Era come se dal profondo del proprio essere ciascuno ricevesse una spinta poderosa verso un’unica direzione: ridare agli italiani la libertà e l’onore. Erano secoli di storia e civiltà che chiamavano alla mobilitazione dello spirito di ciascuno


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bblica, Carlo Azeglio Ciampi, al convegno promosso dalla Fondazione liberal, “Di che cosa parliamo 943 alla decisione di seguire quella «volontà di riscatto» che accomunò la grande maggioranza dei cittadini

ignifica Nazione

di donne, divisi dalle loro convinzioni o un denominatore comune nella a Patria a cui sentono di appartenere di Carlo Azeglio Ciampi perché proseguano in quanto di buono abbiamo fatto; perché riprendano quanto abbiamo lasciato di incompiuto; perché correggano gli errori commessi. Noi adulti sentiamo la responsabilità del concorrere al processo di formazione delle coscienze dei giovani; la avvertiamo con acuta intensità nel tempo presente. Tempo di smarrimento, di incertezza diffusa: incertezza che oscura l’orizzonte economico e con esso le prospettive del futuro; incertezza che investe la gerarchia dei valori, sovente sovvertendola, con il rischio di produrre una crisi ben più grave di quella economica, una crisi morale dagli esiti imprevedibili per la potenzialità disgregatrice che reca in sé.

Appartengo alla generazione nata alla fine della prima guerra mondiale; cresciuta nel clima opprimente del fascismo e da questo trascinata, insieme con tutto il popolo italiano, in una nuova tragica avventura bellica, con un epilogo più funesto della stessa disfatta militare: la ferocia di un’occupazione nemica e l’atrocità di una guerra fratricida. Anche allora, e in misura incommensurabilmente più drammatica, ci trovammo a vivere una realtà di smarrimento e di confusione morale. La mancanza di ogni riferimento istituzio-

nale che ci colse all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre - ho avuto occasione di ricordarlo recentemente - fu una realtà durissima che «nell’animo di un giovane poteva accelerare il processo di maturazione della coscienza, rinsaldandone la fibra morale; oppure, al contrario, gettare quell’animo in uno stato di confusa disperazione e, privo di riferimenti morali, renderlo cinico e spregiudicato».

Fu nel turbine di quegli eventi che Nazione, Patria, Libertà - valori sui quali era incardinata la mia formazione, propiziata da un ambiente familiare saldamente legato agli ideali del Risorgimento e altrettanto ai principi del cattolicesimo liberale, più compiutamente maturata negli anni cruciali degli studi alla “Normale” - cessarono di essere astratti, seppur nobili ideali, per divenire concrete realtà che imponevano, mi imponevano, scelte drammatiche. Vestivo la divisa di ufficiale dell’esercito italiano l’8 settembre del 1943; per una serie di circostanze, quel giorno mi colse lontano dal mio reparto. Solo. Nella solitudine della mia coscienza, pressato dall’urgenza di dare risposta all’interrogativo “che fare”, mi trovai a tu per tu con me stesso. Mi trovai a dover “verificare”il significato che

Nelle foto in alto, da sinistra, Carlo Azeglio Ciampi rispettivamente: negli anni Ottanta con la moglie Franca; all’inizio degli anni Novanta, da governatore della Banca d’Italia; durante il primo governo Prodi (1996); dopo l’elezione al Quirinale (1999); in un incontro con Papa Benedetto XVI (2008)

ordinario non era, nessuno pensava di prenotare per sé un posto da eroe; né ci si interrogava sul significato di Patria e di Nazione. La Nazione e la Patria si “vivevano” in quelle scelte, in quei gesti, in quei comportamenti. Era come se dal profondo del proprio essere ciascuno ricevesse una spinta poderosa verso un’unica direzione: ridare all’Italia e agli Italiani la libertà e l’onore. Erano secoli di storia, di cultura, di civiltà che chiamavano alla mobilitazione dello spirito, poiché «Gli italiani non si rassegnarono a scomparire nell’ora più oscura e funesta della loro storia» perché «un popolo non muore, una nazione non si estingue, una civiltà luminosa non può sprofondare nella notte»: una speranza e insieme una certezza che alimentavano, ancorché inespresso, un diffuso sentimento popolare. Era una certezza - resa manifesta in quei termini - per Concetto Marchesi; non dissimile da quella dichiarata, sull’opposto versante ideologico, da De Gasperi quando osservava che... «Curvi sotto il peso del loro destino, gli Italiani levano la fronte in cui risplende la nobiltà antica».

La mia decisione, come del resto quella di moltissimi altri italiani, rispose a una istanza morale. Ritrovare la nostra dignità di uomini, di cittadini; restituire così dignità alla Patria. Questa volontà di riscatto accomunò milioni di Italiani: quelli che salirono in montagna imbracciando il fucile, come quelli che continuando a vivere una quotidianità sempre più difficile dettero aiuto, riparo, assistenza a chi per ragioni anagrafiche, di razza, di fede politica era costretto a nascondersi; così come i militari che per onorare la divisa che indossavano continuarono a combattere nell’esercito italiano, consapevoli che quella fedeltà avrebbe richiesto loro un tributo altissimo. Nel vivere quei giorni, nel compiere quei gesti, nell’assumere quei comportamenti con la naturalezza con cui si affronta l’ordinario, in un tempo che

Milioni di uomini e di donne divisi da convinzioni politiche antitetiche, portatori di visioni dello Stato e della società profondamente diverse trovarono un denominatore comune nella volontà di servire quella Patria dei cui destini si sentivano egualmente responsabili: tutti sentivano di appartenervi. Il lavoro al quale tutti attendevano era la salvezza della Casa comune; il luogo che custodiva il patrimonio della comunità che l’abitava e di quelle che l’avevano abitata in passato. Oggi siamo noi ad abitare questa Casa. Conviventi sempre più rissosi, sordi alla ragioni dell’altro; troppo impegnati in una sorta di contesa permanente non ci avvediamo delle crepe che alla lunga compromettono la stabilità dell’edificio. Lo spirito di condivisione quotidianamente invocato e con pari frequenza ignorato è come il refrain di una canzone di cui si sono dimenticate le strofe, cosicché non se ne capisce più il senso. Il senso sta in uno spirito autentico, praticato, di civilis concordia, per consolidare le fondamenta della Casa, per darle quella stabilità e quella sicurezza che la rendano accogliente, vivibile per chi la abita.

in quel preciso momento della storia e della mia vita assumevano espressioni come Patria e Nazione. Certo, quelle ore convulse non potevano lasciarmi il tempo di ”ripassare” la lezione di Croce, di De Ruggiero, di Chabod, di Omodeo, di Calogero. Erano stati i Maestri della mia educazione civile, nel loro pensiero, nel loro esempio si radicavano le mie convinzioni più profonde. Il loro insegnamento illuminò la mia decisione.

Oggi abitiamo in questa casa.Conviventi sempre più rissosi,sordi alle ragioni dell’altro; troppo impegnati in una sorta di contesa permanente non ci avvediamo delle crepe che compromettono la stabilità dell’edificio


mondo

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Russia. Erano il fiore all’occhiello di Stalin: 460 città costruite “intorno” a un’unica fabbrica. Oggi sono tutte fallite

Il crollo di Togliattigrad Milioni di persone sono sul lastrico, senza gas e luce. E Putin stanzia 10 miliardi di rubli di Leon Aron aumento a livello mondiale dei prezzi del petrolio ha risparmiato alla Russia una depressione ad ampia scala, tuttavia i dati sull’andamento dell’economia nel secondo trimestre rilasciate a fine estate non mostrano alcuna ripresa dalla crisi: con un Pil ad un tasso del 10.9 per cento, è il più aspro declino mai registrato. Storicamente, l’autunno rappresenta un periodo di problemi e rivoluzioni per la Russia, quando milioni di persone rientrano nelle loro case dalle dacie per affrontare la vita di tutti i giorni - e nell’autunno 2009 la vita significa continui crolli di produzione, una crescente disoccupazione e un profondo impoverimento.Tutto questo è destinato a tradursi in serie sfide politiche per il Cremlino. Queste tre calamità convergono in una sola area economica, sociale e politica: le 460 città industriali del paese, o “monocittà”, come vengono chiamate oggi in Russia. Figlie dell’industrializzazione stalinista, le città industriali furono costruite attorno ad un singolo stabilimento o fabbrica (da qui la definizione ufficiale di “monocittà”), spesso come prigioni di lavoro sorte nel mezzo del nulla e con una totale mancanza di considerazione per la crescita urbana a lungo termine e la geografia economica, per non parlare dei bisogni degli operai e delle loro famiglie. Oltre ad essere l’unico datore di lavoro, l’impresa della città aziendale, (gradobrazuiushchee predpriia-

L’

tie) è responsabile della fornitura di tutti i servizi sociali e amenità, dall’assistenza sanitaria e istruzione al riscaldamento, all’acqua e all’elettricità.

Con popolazioni che variano da 5mila a 700mila abitanti, le città industriali sembrano congelate tra gli anni Trenta e Cinquanta. Nei proficui anni tra il 2000 e il 2008 sono state ignorate. Come è stato - benché più virtualmente che di fatto - per tutta l’economia russa, le monocittà non sono state toccate dalla“modernizzazione” di Putin, nonostante la battente propaganda

indennità di disoccupazione variano da 850 rubli a 4900 rubli (dai 18 ai 100 )¤ al mese, a seconda dell’ultimo stipendio del lavoratore. (Per coloro che abitano nelle rigide zone dell’estremo est, o dell’estremo nord, e in alcune zone della Siberia, l’importo arriva al doppio di questi importi). In confronto, la media ufficiale di “livello minimo di sostentamento” (prozhitochnyi minimum) di un lavoratore adulto in Russia è di 5086 rubli (106 )¤ . Tuttavia, quasi i due terzi dei disoccupati non sono a conoscenza di queste indennità e non si registrano. Per capirci: mentre la

Con un’economia ferma agli anni della guerra fredda, delle infrastrutture fatiscenti e una classe lavoratrice immobile e poco preparata, le “monocittà” sono il vero incubo del Cremlino ufficiale che prometteva di “portare l’industria nel XXI secolo” rendendola “innovativa e scientifica”. Molti di questi impianti sono stati tra i primi a soffrire del calo del rendimento industriale nella seconda metà dell’anno scorso, quando la produzione è crollata di circa il 20 per cento, un calo mai visto nell’Unione Sovietica o nella Russia post-sovietica dal 194-42, gli anni dell’assalto nazista. Di conseguenza, le imprese hanno cominciato a licenziare operai o mandarli in congedo, tagliando gli stipendi, rimandando i pagamenti o non pagandoli per mesi. Per la maggior parte dei lavoratori russi, le

stima di disoccupati in Russia è di 6,5 milioni (circa il 10 per cento della forza lavoro), solo 2,1 milioni si sono registrati. E nessuno dalle città industria di cui stiamo parlando. Il che priva i cittadini di una benché minima fonte alternativa di sostegno. Allo stesso tempo, nemmeno le amministrazioni locali di molte regioni riescono ad offrire aiuto, essendo state prosciugate da un’altra riforma di centralizzazione dell’era Putin che ha ridestinato il 70 per cento dei redditi a Mosca. Di conseguenza, già ad aprile di quest’anno gli alimentari di alcune città hanno smesso di fare credito ai clienti che non pagava-

Leon Aron, storico della Russia moderna e voce critica dell’ideologia putinista Leon Aron è oggi considerato uno dei massimi storici della Russia moderna e contemporanea. Arrivato in America a 24 anni come rifugiato politico, si è laureato alla Columbia University e oggi insegna alla Georgetown University. Ha scritto due libri, il primo è una biografia di Boris Eltzin (“Yeltsin: a revolutionary life”), il secondo è un trattato che copre tutti gli anni dalla caduta del muro in poi (“Russia’s revolution”). Direttore del dipartimento di studi russi dell’American Enterprise Foundation, è anche un collaboratore del programma della Cbs “60 Minutes”.

no da mesi. Secondo alcune testimonianze, la gente mangia bucce di patate e passa giornate a frugare nelle foreste alla ricerca di radici e bacche da mangiare o da vendere per un’inezia.

La città industriale di Pikalevo (20milaabitanti), vicino San Pietroburgo, è caduta in disgrazia sei mesi fa dopo la chiusura dell’industria di cemento. «Stiamo mangiando erba», ha dichiarato un abitante a un giornalista lo scorso giugno. «È una vergogna». E già, perché l’azienda che forniva alla città riscaldamento e acqua calda, pagati dall’industria di cemento, ha dovuto chiudere i rifornimenti per mancato pagamento. Senza alcuna prospettiva di lavoro e senza alcun tipo di assistenza, questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Gli abitanti di Pikalevo hanno occupato l’ufficio del sindaco senza ottenere alcun risultato, optando, a quel punto, per bloccare un tratto importante dell’autostrada. Il gesto ebbe l’effetto desiderato: qualche giorno dopo Putin arrivò in elicottero a Pikalevo. Seguendo un modello di gestione della crisi tipica della Russia antica (quando i “buoni” zar gettavano fuori i “cattivi” boiardi dalle mura del Cremlino

per essere lacerati, arto per arto, dalla plebe ribelle al di sotto), ma aggiornata al XXI secolo con tanto di telecamere nazionali che assistono alla scena, Putin ha fortemente rimproverato le amministrazioni locali, i direttori degli stabilimenti, e il proprietario del blocco centrale, ed ex re dell’alluminio e un tempo l’uomo più ricco della Russia, Oleg Deripaska, il cui conglomerato Basic Element adesso ha un debito di 30 miliardi di dollari. Con la fermezza che lo contraddistingue Putin ha ordinato a tutti quelli che si erano riuniti di firmare un appello per riaprire lo stabilimento. «Non ti ho visto firmare!» ha urlato Putin a Deripaska sulla televisione nazionale. «Vieni qui e firma!» («E riporta indietro la penna!» gli ha detto dopo. «A Deripaska le cose vanno così male che cerca di rubare una penna?», notò sarcasticamente poi un osservatore.) Naturalmente né Deripaska n[ l’amministrazione locale saranno in grado di mantenere aperta a lungo un’impresa in bancarotta. Il denaro dovrà arrivare da Mosca. Quindi, l’unico effetto duraturo dell’intervento di Putin sarà probabilmente l’aver incoraggiato più proteste con la speranza di un’elemosina federale.


mondo

3 novembre 2009 • pagina 15 Operai al lavoro nelle fabbriche delle città industriali. In basso: le ciminiere di Magnitogorsk, ex cuore d’acciaio della Russia. Su otto impianti ne hanno già chiusi quattro. Pikalevo, caduta in disgrazia dopo la chiusura dell’industria cementifera e Zlatoust, dove è stata mandata a casa l’80 percento della forza lavoro. A piè di pagina destra: Leon Aron. A fianco, il cartello di Togliattigrad

Molte altre “monocittà” sono in condizioni disperate. Tra le maggiori troviamo Togliattigrad, Magnitogorsk e Zlatoust. Togliattigrad. Popolazione: 700 mila abitanti, Russia centrorientale, regione di Samara, 900 chilometri a sud est di Mosca. L’impresa: AvtoVAZ, la più grande azienda automobilista russa. La causa della crisi: la linea di produzione si è fermata ad agosto 2009. Nel settembre 2009 si è adottata la settimana lavorativa a ventiquattro ore ed è previsto che duri almeno fino alla fine di febbraio 2010. Lo stipendio medio mensile è stato dimezzato a 11 mila rubi (230 )¤ . Quando l’azienda ha annunciato 5mila licenziamenti a settembre, il sindacato Yedinstvo (che significa “unità”) ha risposto con una protesta di massa. Una settimana dopo, AvtoVAZ ha cambiato quella cifra in 27.600 licenziamenti, quasi il 30 per cento della sua forza lavoro, riducendo anche le indennità di pensione. Magnitogorsk. Popolazione: 500 mila abitanti; Urali meridionali, regione di Chelyabinsk; 1.400 chilometri a sud est di Mosca. L’impresa: l’industria metallurgica di Magnitogorsk. La causa della crisi: quattro degli otto fonditori di acciaio sono stati chiusi nella seconda metà del 2008 e i lavoratori messi in licenza indefinita. Il reddito medio di un impiegato all’inizio di quest’anno era al di sotto dei 16 mila rubli (335 )¤ e da allor a, gli stipendi nell’industria metallurgica sono scesi di un ulteriore 20%. Zlatoust. Popolazione: 188 mila abitanti; Urali meridionali, regione di Chelyabinsk; 5.600 chilometri a sud est di Mosca. L’impresa: le produzioni metallurgiche di Zlatoust. La causa della crisi: per colpa del calo della domanda, la produzione di leghe di acciaio nell’impianto è diminuita dell’80% da ottobre 2008. La settimana lavorativa presso la fabbrica è stata tagliata a metà e lo stipendio medio ridotto a 7.800 rubli (163).

Sebbene non tutte le città russe siano città industriali, le “monocittà” sono tutt’altro che insignificanti: un quarto della popolazione urbana russa, 25 milioni di persone, ci vive, producendo fino al 40 per cento del Pil del paese. In verità queste città sono sempre più il riflesso della tendenza nazionale di perdita e destituzione del lavoro. Per quest’anno, la Banca Mondiale prevede che il numero di persone al di sotto del livello di povertà crescerà da 7.5 milioni a 24.6 milioni, ovvero al 17 per cento della popolazione. Un altro 21 per cento, quasi 30 milioni di persone, guadagnano meno del 50 per cento oltre la soglia di po-

La gente mangia bucce di patate e passa le giornate a frugare nelle foreste cercando radici e bacche da vendere

vertà e sono considerati dalla Banca Mondiale “vulnerabili”. Insieme le due categorie rappresentano quasi quattro russi su dieci. Inoltre, secondo la Federazione dei Sindacati Indipendenti, fino a 400 mila russi potrebbero diventare disoccupati nei prossimi tre mesi, con la Banca Mondiale che prevede che la disoccupazione raggiungerà il 13 per cento entro la fine dell’anno. Il Cremlino fino ad ora è stato aiutato dal ferreo controllo della censura sulla televisione nazio-

nale. Solo le manifestazioni a Pikalevo sono state coperte a livello nazionale. Su tutte le altre nemmeno un fotogramma. Mosca inoltre ha pagato alcuni stipendi arretrati ai residenti e ha usato la polizia per prendere severe misure contro i manifestanti. Tuttavia, è ovviamente possibile - e l’Iran insegna al riguardo - che la deliberata negligenza dei media sulla crescente disperazione nelle città industriali, un giorno scateni un’ondata di proteste su tutto il territorio nazionale.

C’è poi un’altra considerazione da fare: le economie sempre più obsolete delle “monocittà”, le loro infrastrutture in via di sgretolamento e le loro forze lavoro largamente immobili - incapaci di cercare occupazione altrove a causa della mancanza di abitazioni accessibili - simboleggiano l’attuale situazione della Russia in un senso più ampio e problematico. Quindi, la decisione presa dal governo a metà agosto di stanziare 10 miliardi di rubli per assistere duecento delle «quasi quattrocento” monocittà sull’orlo dell’esplosione» è troppo poco e sicuramente arriva troppo tardi. Intossicata dal boom economico del petrolio, la Russia di Putin ha malamente dispensato i suoi introiti, provocando un vero shock democratico. Impedendo un genuino autogoverno locale, l’entrata in vigore degli ammortizzatori sociali e un’opposione politica responsabile, a cui si somma la totale mancanza di libera informazione, ha di fatto cristallizzato la crisi senza farla apparire al grande pubblico. Con la rigida centralizzazione politica del Cremlino e con i segnali di risposta sociale ampiamente oscurati e nascosti, il pericolo di un incidente più grande nei prossimi sei-otto mesi è un’eventualità sempre più prossima. E le città industria rappresentano forse l’esempio più profondo e vicino.


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quadrante Proposte. L’anniversario dell’assalto all’ambasciata Usa è il giorno giusto

a classe politica internazionale è così dalla ipnotizzata questione nucleare che ha totalmente perso di vista la sofferenza della popolazione iraniana, la rete del terrore che emana Teheran è persino il destino di quegli americani che si trovano al momento nelle mani dei mullah. Quand’è stata l’ultima volta in cui avete sentito parlare dei tre americani chiusi in prigione in Iran. Prima di dimenticarli, si tratta di Shane Bauer (27 anni), Sarah Shourd (30 anni) e Joshua Fattal (27 anni): sono stati arrestati lo scorso luglio quando, secondo gli iraniani, attraversavano in maniera illegale il confine con l’Iraq. Eppure, lo scorso agosto, il Telegraph di Londra presentava una versione molto differente: «Non si tratta di americani che cercavano di entrare in Iran, dice un leader tribale del posto, ma di un gruppo individuato e catturato in territorio iracheno da un gruppo proveniente dall’Iran. Totalmente ignorando la sovranità nazionale di Baghdad. Noi questo lo sappiamo, e pensiamo voglia dire che Teheran intenda avere ostaggi Usa in questo periodo così delicato». Come sappiamo, la Repubblica islamica ama prendere ostaggi e tenerli da parte per un uso futuro. I tre del confine non sono gli unici ostaggi presi dagli iraniani negli ultimi anni.

L

C’è il caso di Robert Levinson, ex agente dell’Fbi scomparso dall’isola di Kish nel marzo del 2007: Teheran nega di saperne qualcosa. E poi lo sfortunato Kian Tajbakhsh, prima impiegato in uno dei gruppi di Gorge Soros, che è stato condannato a quindici anni di galera per la sua presunta partecipazione alle manifestazioni scatenate dall’Onda verde dopo le ultime presidenziali. Nel frattempo tre iraniani – di cui due di alto livello – sono scappati dal Paese. Uno, Shahram Amiri, è un fisico nucleare che ha lavorato nel sito segreto di “Ferdo”, vicino a Qom: lo stesso che negli ultimi due mesi ha catalizzato l’attenzione pubblica. Questi è sparito dall’Arabia Saudita lo scorso maggio. Il secondo, generale Ali Reza Asgari, è un ex vice ministro della Difesa ai vertici delle Guardie rivoluzionarie, che ha contribuito alla nascita di Hezbollah. di lui non si sa più nulla dal febbraio 2007, quando è scomparso senza lasciare tracce da un hotel di Istanbul. Il terzo, si-

Facciamo cadere il regime dei mullah Il 4 novembre tutto l’Iran scende in piazza Questa volta si profila uno scontro decisivo di Michael Ledeen

gnor Ardebili, sembra essere un trafficante di armi scomparso dalla Georgia la scorsa estate. Mi è stato detto che gli iraniani hanno comunicato al governo Usa che i tre rapiti saranno rilasciati solo se i “secondi tre” torneranno a casa. Ma Washington può fare questa cosa, data l’impossibile premessa che voglia farlo? Io non credo.

Amiri, secondo me , è scappato in Francia. Non ho idea di dove sia Asgari, ma alcuni agenti della Cia mi hanno detto che non è sotto controllo americano anche se si trova in una nazione amica; da qui è stato contattato dal nostro governo, e so che ha dato informazioni preziosi. Di Ardebili non so nulla. Per quanto riguarda la storia di Amiri, poi, c’è un interessante retroscena: secondo Le Figaro, infatti, «prima di recarsi in Iran per ispezionare il sito nucleare di Ferdo, nei pressi di

Ipnotizzati dalla minaccia nucleare, i governi occidentali si sono dimenticati degli ostaggi chiusi a Teheran I fedelissimi di Ahmadinejad temono “infiltrati” alle celebrazioni

I pasdaran: «In galera chi protesta» TEHERAN. Cresce la tensione, in Iran, in vista delle manifestazioni annunciate dall’opposizione per il prossimo 4 novembre, quando cadrà il trentesimo anniversario dell’assalto dei pasdaran all’ambasciata americana. «La nazione iraniana non permetterà a qualsivoglia gruppo di imporsi e utilizzare slogan menzogneri e distorti», hanno ammonito i Guardiani della Rivoluzione, che in un comunicato invitano il popolo alla “vigilanza riguardo a complotti di agenti nemici”. Ieri era stata la polizia a minacciare la repressione. Era stato il tam-tam dei blog ha rilanciare gli appelli alla piazza dei contestatori dell’elezione del presidente, Mahmoud Ahmadinejad, e in particolare lo aveva fatto l’ex candidato presidenziale Mir Hossein Moussavi, a cui fa riferimento gran parte dell’opposizione civile che da giugno si confronta duramente con la polizia iraniana e le milizie governative basiji. Una protesta nel giorno dell’anniversario della presa dell’ambasciata, che durò 444 giorni, sarebbe insopportabile per i pasdaran e per colui che tra i pasdaran ha conquistato il vertice secolare del potere nella Repubblica Islamica. Ahmadinejad, inoltre, era tra coloro che assaltarono l’ambasciata e ne sequestrarono i dipendenti. Ma il governo teme anche altri tipi di critica.

È stato chiuso ieri, dopo poco più di tre anni di pubblicazioni, il quotidiano iraniano Sarmayeh, molto critico nei confronti delle politiche economiche del governo Ahmadinejad. «La commissione per la supervisione sui media ha revocato la licenza a Sarmayeh - si legge in una nota del ministero della Cultura e della guida islamica - a causa di ripetute violazioni». Il più importante quotidiano finanziario del Paese era stato fondato dall’ex direttore generale della borsa di Teheran, Mohammed Hossein Abdo Tabrizi. Intanto dal premio Nobel e attivista per i diritti umani Shirin Ebadi, è venuto un appello alle donne musulmane perché assumano un ruolo più importante nei loro Paesi attraverso l’istruzione e la partecipazione attiva in politica. «Le donne devono adempiere al loro ruolo nella società e non restare a casa» ha detto partecipando a un forum ad Abu Dhabi, «le donne dovrebbero essere istruite. L’istruzione è un obbligo dell’islam tanto quanto lo sono le preghiere. Perché dovremmo opporci alle regole della religione?». La Ebadi, fondatrice del Centro per la difesa dei diritti umani in Iran, era stata eletta presidente del parlamento nel 1975, ma dopo la Rivoluzione islamica il suo ruolo è stato pesantemente ridimensionato.

Qom, gli uomini dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica si sono incontrati con lo scienziato nucleare Shahram Amiri, che ha da poco lasciato il Paese. Questo incontro si è svolto a Francoforte». Mentre il regime lo cerca, il dissidente aiuta i suoi nemici. Questo è il mondo in cui viviamo. Dei soldati iraniani attraversano il confine e rapiscono tre turisti americani. Nello stesso momento, alcuni importanti esponenti della società iraniana abbandonano la repressione del regime e si uniscono all’Occidente. E Teheran reagisce proponendo un patto che, di fatto, restituisce la libertà a tre cittadini che erano liberi in cambio di un fato terribile per tre uomini che non lo erano. Ma questo è proprio il patto che potreste ricavare dalla Repubblica islamica. Se non vi piace, convincente i leader occidentali a unirsi al popolo iraniano per sconfiggere quel governo. Il prossimo, potenziale spartiacque potrebbe essere mercoledì 4 novembre, anniversario dell’assalto all’ambasciata americana a Teheran. Sarebbe una data perfetta per il crollo del regime, non credete?


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3 novembre 2009 • pagina 17

Secondo le accuse della Procura, «non poteva non sapere»

La Russia non vuole cedere sull’estradizione del killer

L’Aja, oggi Karadzic sarà presente in tribunale

Miliband visita Mosca: niente accordo sul caso Lugovoi

L’AJA. L’ex-leader dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic, era a conoscenza dei bombardamenti contro la popolazione civile di Sarajevo durante i 44 mesi di assedio. Lo ha detto il procuratore del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aia per l’ex-Jugoslavia, impegnato nel processo contro Karadzic accusato di genocidio e crimini di guerra. «L’accusato sapeva che durante i 44 mesi di assedio di Sarajevo, le sue forze bombardavano e sparavano contro i civili, creando un clima di terrore per i cittadini», ha detto il procuratore Alan Tieger al terzo giorno di udienza. «Lontano dal prevenire o punire i responsabili di questi crimini, Karadzic li incoraggiava», ha aggiunto. «I bombardamenti e gli attacchi sono stati il risultato di una struttura di comando di controllo diretta da Karadzic», ha concluso. Domani, l’ex-leader serbo parteciperà per la prima volta al processo, che finora aveva boicottato perchè “non pronto” a difendersi. Accusato di genocidio e crimini contro l’umanità per il massacro di Srebrenica e l’assedio di

MOSCA. La visita a Mosca del ministro inglese degli Esteri David Miliband, la prima di un capo della diplomazia britannica dal 2004, è servita a sciogliere un po’ del gelo nei rapporti bilaterali ma non il nodo dell’estradizione di Andrei Lugovoi, sospettato per l’avvelenamento con il polonio-210 dell’ex spia del Kgb, Aleksandr Litvinenko, nel novembre 2006 a Londra. Al termine di un colloquio che ha definito «buono e produttivo», il ministro degli Esteri russo Lavrov ha ribadito che sull’estradizione la posizione del suo governo «non cambia». Mosca, in-

Sarajevo durante la guerra in Bosnia, il 64enne Karadzic ha chiesto il rinvio del processo per potersi meglio preparare a difendersi. Ma il giudice sudcoreano O-Gon Kwon ha dichiarato che «l’udienza può proseguire anche in sua assenza», sottolineando che Karadzic ha deciso «volontariamente e senza equivoci» di non essere presente «accettandone quindi le conseguenze». Karadzic è stato catturato nel luglio 2008 a Belgrado, dopo tredici anni di latitanza. Nella giornata d’apertura del processo, si sono registrate manifestazioni di protesta da parte dei familiari delle vittime per il rinvio della prima udienza. Nel secondo giorno del suo procedimento, che lo vedeva assente, è stata liberata un’altra protagonista del conflitto balcanico, Biljana Plavsic. L’ex “dama di ferro” serbo-bosniaca ha scontato soltanto quattro anni di carcere.

«L’Europa insieme senza troppi vincoli» La preparazione di Copenhagen secondo il premier svedese di Sergio Cantone

BRUXELLES. Il vertice dei capi di Stato e di governo della settimana scorsa «è stato un successo. Un accordo politico è quello di cui avevamo bisogno per presentarci insieme a Copenhagen». È la posizione del primo ministro scedese Reinfeld, che a liberal spiega: «È ancora troppo presto per fare i nomi della nuova Europa». Dopo questo vertice, l’Ue è pronta ad assumere la leadership mondiale della lotta contro il cambio climatico? Si, è con grande orgoglio che le posso rispondere di sì. Abbiamo già dimostrato la nostra capacità di essere leader fissando gli obiettivi vincolanti più ambiziosi del mondo. Adesso dobbiamo andare a Copenhagen con un mandato più forte, comprendo anche gli sforzi finnaziari sui quail è fondamentale raggiungere un accordo. Ma ci sono misure non vincolanti, ad esempio sui soldi da dare nell’arco di tre anni ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a lottare contro il cambio climatico? Esattamente: per quanto riguarda il denaro delle “fast start initiatives”, noi facciamo riferimento a quanto previsto dalla Commissione europea, da cinque a sette miliardi, prima del 2013 e lo abbiamo messo in un regime su base volontaria perché sappiamo già che un gran numero di Stati membri stanno già preparando questo denaro. Non pensa che misure non vincolanti alla fine possano indebolire la posizione dell’Ue? Ripeto: il mandato è su cento miliardi di euro per il 2020, che era il più importante perché questo è l’appoggio di cui abbiamo bisogno per gli investimenti in misure di adattamento. Gli stanziamenti per I fondi “Fast start” sono altrettanto importanti, ma il fatto di renderli non vincolanti era una richiesta degli Stati membri meno ricchi per accettare un accordo.Volevamo un mandato pieno, questo era quello che andava fatto per averlo. Ma cosa pensa del fatto che l’Ue vada a Copenhagen senza una ripartizione degli oneri stabilita in anticipo? Questo è un altro punto: introduciamo una torta di cento miliardi di euro e diciamo di essere pronti ad assumere una buona parte dei costi, ma non sappiamo cosa siano pronti ad offrire altri Paesi sviluppati. Quindi non è possibile stabilire sin da ora una quantità: dobbiamo sapere, negoziare,

vedere le responsabilità degli altri. Dopodiché calcoleremo quale sarà la parte di oneri che spetterà all’Unione europea. Pensa che la Cina sia un Paese che riceverà denaro o che lo dovrà offrire? Vogliamo che loro facciano degli sforzi per quanto riguarda la riduzione delle emissioni. La Cina è la più grande responsabile delle emissioni di Co2 nel mondo. Non possiamo raggiungere il livello di meno due gradi centigradi senza il loro contributo. Pensiamo che loro abbiano abbastanza risorse per partecipare agli sforzi necessari. Ma certamente loro si riferiranno al processo di Kyoto per quanto riguarda il trasferimento tecnologico (dall’Occidente in Cina) sicchè facciamo rientrare anche questo aspetto nei negoziati. Crede che ci sia un margine per l’Ue per raggiungere un accordo sulla distribuzione degli oneri dopo Copenhagen? Sappiamo che il cambiamento climatico è una realtà, l’Europa è leader sulla questione da molto tempo. È pronta a rivolgersi ad altri Paesi dicendo: «Siamo pronti ad assumere una buona parte degli oneri ma ciò è condizionato, anche voi nei Paesi in via di sviluppo dovete assumere le vostre responsabilità e abbiamo bisogno di contribute da parte dei principali responsabili delle emissioni». Dopodiché, ne sono sicuro, saremo in grado di distibuire gli oneri anche in seno all’Ue. Non pensa che non trattandosi di un trattato, ma di un semplice accordo politico, possa degradare l’importanza di Copenhagen? Penso che un accordo politico sia ciò di cui abbiamo bisogno, proprio nel momento in cui il processo negoziale è più lento e che molti Paesi non hanno ancora una base legale per raggiungere un accordo internazionale vincolante. Il clima ha bisogno di una soluzione, è un accordo politico, e finché è in grado di fissare obbiettivi e finanziamenti svolgerà il suo ruolo. Pensa che il ministro degli esteri svedese Carl Bildt possa essere l’Alto rappresentate per la politica estera europea? Non abbiamo avuto il tempo di consultarci e stiamo tutti aspettando la completa ratificazione del trattato di Lisbona da parte della Repubblica Ceca. E finché la situazione non sarà totalmente chiara non si parlerà di nomi.

La Cina è la più grande inquinatrice al mondo. Non possiamo raggiungere gli scopi prefissati senza il loro contributo

fatti, giudica «del tutto irrealistica» la richiesta britannica di cambiare la Costituzione che vieta la consegna di propri cittadini per reati commessi all’estero. Lavrov ha aggiunto che «non è stata fornita una documentazione completa per motivare le accuse a Lugovoi», attualmente deputato della Duma nel gruppo liberademococratico di Vladimir Zhirinovski. Miliband ha ribattuto che ai magistrati russi sono state trasmesse «informazioni sostanziali», ma ha sottolineato l’importanza di non permettere che queste divergenze «blocchino la cooperazione bilaterale». Un decimo degli investimenti stranieri in Russia proviene dalla Gran Bretagna e tra i due Paesi ci sono forti legami economici che sono stati danneggiati dalle recenti tensioni, alimentate anche dall’asilo politico concesso da Londra ad alcuni ex oligarchi in rotta con il Cremlino. Maggiore sintonia tra Lavrov e Miliband si è registrata sui grandi temi internazionali. Sull’Afghanistan hanno espresso «il comune interesse alla regolare conclusione del processo elettorale» e la condanna dei «tentativi dei talebani di destabilizzare» il Paese. Sull’Iran, Lavrov ha ribadito l’auspicio che Teheran accetti la proposta della comunità internazionale per l’arricchimento dell’uranio in Paesi terzi.


cultura

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Mostre. Fino a dicembre a Mantova una rassegna ricca di foto inedite realizzate dal portentoso pilota italiano

Quando scatta Nuvolari Trionfi e incidenti, aneddoti e leggende. Ecco chi era l’inimitabile “figlio del vento” di Massimo Tosti ichael Schumacher e Valentino Rossi sono i due contemporanei che hanno cercato di imitarne le gesta. Sulle quattro ruote il primo, sulle due ruote il secondo. Lui, la leggenda dei motori, fu in grado di vincere tutto quel che c’era da vincere sia in auto che in moto. Nei tempi moderni soltanto John Surtees dimostrò la stessa versatilità, conquistando sette titoli mondiali in moto (fra il 1956 e il 1960) e laureandosi campione del mondo in Formula 1 nel 1964 (con la Ferrari). Potrebbe riuscirci anche Valentino Rossi se cedesse alle lusinghe di Montezemolo, decidendo – una volta conclusa la sua formidabile carriera su due ruote – a infilarsi nell’abitacolo di una Rossa. Lui, il mito, era Tazio Nuvolari. Sul suo conto sono fiorite le storie più incredibili: molte inventate di sana pianta, moltissime vere fin nei minimi dettagli. Perché egli conquistasse un posto fisso nell’Olimpo degli eroi immortali dello sport non occorreva davvero che la fantasia di giornalisti zelanti proponesse episodi non veri. La sua carriera fu talmente ricca di episodi veri, ma inverosimili, da rendere superflua qualunque appendice romanzata.

M

Cominciò a correre quando era già vecchio, sulla soglia dei trent’anni, smise quando era vecchissimo (prossimo ai sessanta); rischiò quanto nessuno prima e dopo di lui ma trovò la morte nel proprio letto, stroncato dalla tubercolosi, e anche questo contribuì a creargli intorno un alone di invulnerabilità. Enzo Ferrari lo raccontò in una frase: «Sognava di arrivare a pari merito con la morte». E partecipò al suo funerale: un’attenzione che non riservò a nessun altro dei suoi piloti. Un altro costruttore di grande esperienza, il tedesco Porsche, disse di lui: «È il più grande pilota del passato, del presente e dell’avvenire». Al grande campione la sua città ha dedicato una mostra, Quando scatta Nuvolari - storie, velocità, passioni (Mantova, Fruttiere di Pa-

lazzo Te, fino al 18 dicembre prossimo). «Il titolo – spiegano gli organizzatori – va inteso sia in senso automobilistico, con la potenza dell’imprendibile campione, sia in senso fotografico». Perché – ed è questa la sorpresa principale – nelle Fruttiere sono esposte 315 immagini scattate da Nuvolari, grande appassionato dell’obiettivo, un’arte nella quale rivela un talento innegabile. Un percorso della mostra è dedicato al pilota (con foto, automobili, trofei

vinti), l’altro (Lo sguardo di Tazio) al fotografo. Nuvolari (al volante, ma anche in sella) aveva anche un coraggio da leone. Al punto da alimentare leggende inimitabili. Sfidava il destino in ogni gara, come la volta in cui continuò a correre senza volante (dopo averlo platealmente lanciato ai meccanici esterrefatti), o senza una ruota, o ingessato come una mummia (a causa di un incidente patito nei giorni precedenti), tanto da essere portato di peso al circuito. O come quando coprì parecchi chilometri in una Mille Miglia a fari spenti, per non farsi vedere dal pilota che lo precedeva, O, ancora, come quando in un’altra Mille Miglia (l’ultima) perse per strada il cofano, e poi un parafango, e poi un sedile, prima di arrendersi all’ennesi-

mo guasto. Quali furono i suoi segreti? La completezza e la modernità nella guida. «La sua tecnica – spiegò una volta Ferrari – era insuperabile. Entrava nelle curve schiacciando il piede a tavoletta, puntando il muso verso il margine interno: la macchina faceva un gran balzo e si ritrovava allineata sulla strada». Fu l’unico a tenere testa a Ferrari, con ripicche e affronti che nessun altro pilota avrebbe osato. Giunse perfino a immaginare che la Scuderia Ferrari (quella d’anteguerra) divenisse Nuvolari-Ferrari. Tradì l’uomo di Maranello passando ad altre squadre, ma Ferrari ebbe sempre una macchina per lui.

Un giornale scrisse che Nuvolari aveva bisogno di «dimostrare a se stesso che non vi era quasi niente di cui non fosse capace». Lo dimostrò vincendo ogni genere di corse, dai Gran Premi alle sfide su strada alle gare di lunga durata, spesso in condizioni proibitive, al volante di vetture largamente inferiori a quelle dei rivali. Prima di dedicarsi alle automobili aveva dimostrato la sua superiorità anche come pilota motociclistico, e quando era ormai sulla soglia dei sessant’anni fu ancora capace di accumulare trentasei minuti di vantaggio nella Mille Miglia del 1948 prima di essere costretto al ritiro dal cedimento del telaio della sua Ferrari. Il suo temperamento era assolutamente

straordinario, il suo sprezzo del pericolo proverbiale. I suoi biografi attribuivano queste doti a un episodio dell’infanzia. All’età di cinque anni Tazio era stato scalciato da un cavallo nella fattoria della sua famiglia. Il padre, Arturo, come reazione all’accaduto, lanciò una moneta d’oro sotto il ventre del cavallo, sfidando il figlioletto a raccoglierla: «Se la vuoi, prendila!». Tazio la prese. Cinquant’anni dopo fu lui stesso a sostenere: «Da quel giorno non ho mai avuto paura, né di me stesso né della stessa paura». Si guadagnò, per questo, una serie di soprannomi, Gabriele D’Annunzio coniò per lui quello di mantovano volante. Era per tutti Nivola; ma dicevano di lui anche che era il «figlio del Diavolo», con il quale aveva certamente sottoscritto un patto. Provò persino a cimentarsi con gli aerei, ma la sua carriera di aviatore finì prematuramen-

te quando il suo monoplano Blériot precipitò su un fienile e prese fuoco. La guerra lo distolse dalla sua passione e Tazio dette inizio alla sua carriera di pilota motociclistico quando aveva quasi trent’anni, era già sposato e padre di un bambino. Il suo stile di guida divenne molto presto famoso. Usava i muri per aiutare il mezzo a sterzare rallentando, sfregandovi contro. In pochissimo tempo la sua tecnica di guida diventò straordinaria: fu l’inventore delle curve in derapata sulle quattro ruote; aveva una tecnica molto simile a quella di uno sciatore: accelerava al massimo in curva sfruttando le asperità del terreno per dirigere la vettura.

Tazio divenne un personaggio, sia per il modo spericolato con il quale interpretava le corse, sia per il suo abbigliamento decisamente stravagante. Correva indossando una giacca impermeabile senza maniche color canarino, un maglione con


cultura

imbottiture ai gomiti, pantaloni alla zuava con rinforzi in cuoio alle ginocchia, fasciature di cuoio militare grigio-verde, una cartucciera nella quale sistemava una riserva di candele e una catena di trasmissione (non si sa mai!) avvolta intorno al collo. Nel 1927 si decise a compiere il gran salto verso le quattro ruote. Vendette alcuni terreni di famiglia e, con alcuni amici aprì una scuderia di Bugatti Tipo 35 per sfidare le Alfa Romeo, dominatrici, in quell’epoca, dei circuiti. Il più facoltoso fra i soci del team era Achille Varzi, già rivale di Nivola sulle moto. Varzi era un pilota di ghiaccio, Nuvolari (neanche a dirlo, viste le sue frequentazioni infernali) era un uomo di fuoco. I loro duelli facevano impazzire gli appassionati, ma la Bugatti Tipo 35 non era più in grado di competere con le Alfa Romeo (alle quali, peraltro, sia Varzi sia Nusi volari convertirono presto). Nella Coppa del Montenero a Livorno, nel luglio del 1929, Nuvolari scatenò l’entusiasmo dei tifosi dando battaglia al solito Varzi e giungendo secondo

Nella foto grande, il pilota lombardo Tazio Nuvolari, mentre realizza uno dei suoi scatti in mostra a Mantova, sua città natale, fino a dicembre. Qui sopra altre due fotografie da lui realizzate. A sinistra il “Nivola”, soprannome tra i più affettuosi, sorridente dopo un trionfo

con appena due minuti di distacco pur correndo ingessato a causa di un incidente di cui era rimasto vittima una settimana prima e pur disponendo di una vettura mostruosamente inferiore, come prestazioni, a quella del rivale. Due gare di Nuvolari sono rimaste assolutamente epiche. La prima fu il Gran Premio di Monaco del 1933 dove l’Alfa P3 di Nuvolari e la Bugatti 51 di Varzi si diedero battaglia per tre ore e mezzo in una sequenza ininterrotta di sorpassi. All’ultimo giro il motore di Nivola prese fuoco a causa della rottura di un condotto dell’olio. Mentre i commissari di gara tentavano di domare l’incendio, Nuvolari si preoccupava unicamente di spingere la sua vettura per tagliare il traguardo. La seconda corsa indimenticabile si svolse al Nurburgring nel 1935. Con un’Alfa Romeo Tipo B, tecnicamente superata, della scuderia Ferrari, il mantovano affrontò gli squadroni della Mercedes e dell’Auto Union, in casa loro. La sua vettura disponeva di circa 200 CV in meno rispetto alle “frecce d’argento”. Nei primi giri la gara fu dominata dalla Mercedes di Caracciola e dall’Auto Union di Rosemeyer, ma Nuvolari rimontava inesorabilmente. Al decimo giro, il rifornimento di carburante fu un calvario per Nuvolari: la

pompa del box si ruppe e Nuvolari perse più di un minuto, per ripartire all’inseguimento dal sesto posto. All’ultimo giro era risalito in seconda posizione dietro la Mercedes di Von Brauchitsch, cui scoppiò una gomma a pochi chilometri dal traguardo, consentendo a Tazio di volare verso la vittoria. I trionfi sportivi si accompagnavano regolarmente ai dolori familiari. Nel 1936 mentre navigava alla volta dell’America dove avrebbe partecipato alla Coppa Vanderbilt, gli giunse la notizia della morte del suo primogenito Giorgio, colpito da una pericardite aggravata dal tifo. Fu un colpo terribile, anche se Nuvolari vinse ugualmente la Coppa. L’anno successivo suo padre Arturo rimase ucciso in un incidente in moto. Le Alfa, nel frattempo, non erano più competitive e Nuvolari accettò un’offerta di Ferdinand Porsche per entrare nella squadra dell’Auto Union, con la quale vinse i Gran Premi d’Italia e d’Inghilterra del 1938 e quello di Jugoslavia l’anno successivo. Tazio trascorse gli anni della guerra con la famiglia sulle montagne intorno al lago di Lugano: nel 1946 anche il suo secondogenito Alberto morì ad appena 18 anni di età. Nel dopoguerra Nuvolari tornò a correre anche se il suo fisico indistruttibile stava cedendo ai dolori e alle malattie. Gli anni spesi respirando i fumi di scarico avevano danneggiato i suoi polmoni. Prima del Grand Prix des Prisonniers del 1946 fu colpito da un collasso; ignorando il parere dei medici corse nel Gran Premio di Albi (che vinse), ma fu costretto al ritiro nel Gran Premio di Milano da una grave emorragia. Un mese dopo al volante di una Cisitalia si classificò secondo assoluto e primo di classe alla Mille Miglia. Nel 1948, costretto a correre con una maschera sul viso per proteggere i polmoni dai gas di scarico, guidava la Mille Miglia con 35 minuti di vantaggio, su una Ferrari 166, quando la rottura del telaio lo obbligò alla resa, Dopo un’ultima vittoria nella classe 1,5 litri sul circuito di Monte Pellegrino, al volante di una Cisitalia, smise di gareggiare.

Morì l’11 agosto del 1953, stroncato dalla tubercolosi. Il sacerdote, nell’impartirgli i sacramenti, gli disse: «Viaggerai ancor più veloce attraverso i cieli». Fu sepolto nella sua tenuta di gara: casco e pantaloni blu, giubbotto giallo, con la sigla TN e una spilla d’oro a forma di tartaruga donatagli da Gabriele D’Annunzio, come «simbolo della prudenza e della lentezza». L’epitaffio più significativo per lui lo scrisse un anonimo concittadino che avendo riconosciuto Ferrari arrivato per il funerale gli disse: «Grazie di essere venuto, come quello lì non ne nasceranno più».

3 novembre 2009 • pagina 19

Dal Museo Nicolis alla mostra di Mantova

La magia della Coppa Vanderbilt el 1936 Tazio Nuvolari disputò una corsa memorabile sul circuito di Roosevelt Raceway, nello stato di New York. 300 miglia al volante di un’Alfa Romeo 12 cilindri, sbaragliando non solo gli americani ma tutti i piloti internazionali. Al traguardo, un trofeo senza precedenti: un gigantesco calice in argento massiccio, alto 70 centimetri e del peso di circa 70 chilogrammi, espressamente commissionato alla Maison Cartier dal miliardario George Vanderbilt. Le foto dell’epoca ritraggono Nuvolari letteralmente seduto all’interno della grande coppa, che brinda con una magnum di champagne. Inizia così la leggenda della “Coppa Vanderbilt”. L’anno successivo la corsa venne vinta dal pilota tedesco Bernd Rosemeyer, poi la gara non venne più disputata e della Coppa, che doveva essere aggiudicata definitivamente al pilota che avesse vinto per primo due edizioni della gara, si persero le tracce. Fino al 2006, quando Luciano Nicolis, fondatore del Museo Nicolis di Villafranca e grande collezionista di auto d’epoca, la scovò negli Stati Uniti e la riportò in Italia, restituendo al nostro paese un pezzo importante di storia dell’automobilismo e un segno tangibile del mito di Tazio Nuvolari.

N

Oggi, il Museo Nicolis riconferma la vicinanza e il forte legame con il mondo del grande pilota mantovano portando la Coppa Vanderbilt a Palazzo Te per celebrare ancora una volta, insieme a tanti appassionati, uno dei più grandi assi di tutti i tempi. La Coppa Vanderbilt, uno dei pezzi forti della esposizione, potrà essere ammirata fino al 18 dicembre prossimo, nella Mostra che si preannuncia come uno dei grandi eventi culturali della stagione. Dopo di che tornerà al Museo Nicolis di Villafranca che ne è l’affettuoso custode e l’instancabile promotore. Oltre alla Mostra di Palazzo Te, ricordiamo che Villafranca è a due passi (15 minuti di macchina) da Mantova e da Verona e che il Museo Nicolis è - oggi - uno dei più spettacolari musei italiani che ospita ben 7 collezioni con centinaia di auto d’epoca, moto, biciclette, strumenti musicali, macchine fotografiche e per scrivere, piccoli velivoli, oggetti dell’ingegno umano… Moderno, non convenzionale, divertente, il Nicolis è un contenitore di straordinarie sorprese per grandi e piccini. La Coppa Vanderbilt è uno dei gioielli più spettacolari e ammirati, ma i 4 piani del Nicolis hanno in serbo moltissime altre sorprese. Gestito con criteri imprenditoriali, diretto da Silvia Nicolis, è associato a Museimpresa (l’associazione Italiana dei Musei e archivi d’impresa promossa da Confindustria e Assolombarda); Aisa (Associazione Italiana Storia dell’Automobile); Asi (Automotoclub Storico Italiano), Confindustria Verona e a numerose organizzazioni industriali e istituzionali.


cultura

pagina 20 • 3 novembre 2009

Cinema. All’Overlook Film Festival, i documentari del regista Eros Achiardi i siete mai chiesti quale significato possa avere e soprattutto quale valore intrinseco possa racchiudere la definizione “spirito del luogo”? Noi abbiamo provato a farlo, anche perché attratti, come se ci trovassimo in un campo magnetico, ai racconti di chi ha scoperto di voler vivere la propria vita alla ricerca di quelle che potremmo ben definire subrealtà del nostro Paese.

V

Il nostro viaggio alla scoperta dello “spirito del luogo”è iniziato l’estate scorsa, in occasione dell’evento itinerante “Overlook Film Festival” promosso e organizzato dal regista ligure Eros Achiardi con la collaborazione fattiva dell’esperto Riccardo Abet, che ha celebrato quest’anno anche la sua prima edizione ciociara, in collaborazione con l’associazione “AttivArt”di Giuliano di Roma. Una rassegna di corti cinematografici, conclusasi a Finale Ligure a metà settembre, che ha visto sfidarsi a colpi di scenografie accattivanti i più abili, ma anche i più tenaci registi “in erba” di diverse città italiane. Nell’ambito della rassegna è stato

proiettato un documentario intitolato Un pianeta a parte (al quale poi ha fatto seguito il “gemello” dal titolo La mimosa e il fico d’India), prodotto dal regista Achiardi, vincitore del premio “Peppone d’oro”. Lo stesso nome “Un pianeta a parte” ha da subito solleticato la curiosità di esperti nel settore e non, ansiosi di capire che cosa si nascondesse dietro questo lavoro cinematografico. Il tutto nasce dalla volontà di staccarsi in via definitiva dalla realtà massificata e consumistica della società di oggi, dalla necessità che sorge in un certo momento della vita di scrollarsi di dosso quei piccoli e grandi problemi legati al mondo del lavoro inteso come insana competizione, come voglia di sopraffare e di

La (ri)scoperta dello spirito del luogo di Lucia Colafranceschi In questa pagina, alcune immagini delle locandine delle precedenti edizioni dell’Overlook Film Festival (in basso a sinistra e qui sotto); e la locandina del documentario proiettato alla rassegna: “Un pianeta a parte”, del regista Eros Achiardi emergere sopra tutto e tutti. Cosa spinge, a un certo punto dell’esistenza, dopo mille inutili lotte per affermare ideali che poi vengono calpestati, a uscire da questa logica e a cercare altro? La necessità di trovare un rifugio da tutto e da tutti e soprattutto la voglia di farsi abbracciare da un mondo che a tratti può sembrare anche irreale, fatto di piccole e autentiche tradizioni che si ripetono attraverso semplici e singole abitudini quotidiane. Un artigiano che lavora un cesto di vimini o realizza con le sue mani opere d’arte estrapolate da un tronco d’albero che non serve più, una massaia che fa del pane e della pasta che realizza una pietanza che racchiude secoli di vita e tradizioni tralasciate, un pastore che spende la propria vita dietro i suoi animali, li cura come fossero suoi figli, li accudisce amorevolmente fino a farli diventare la sua unica fonte di sussistenza.

Vivere insomma fuori dal mondo delle megalopoli dove si corre, dove non ci si conosce, dove non si ha tempo per pensare che la vita che ci circonda è piena di piccole realtà che costituisco-

no, nella loro unicità, un mondo a parte, un pianeta a parte.

Ecco, la volontà di farsi abbracciare da questa realtà speciale è alla base del progetto

La rassegna ha “cantato” una realtà di piccole e autentiche tradizioni che si ripetono tramite semplici abitudini quotidiane che il regista ligure ha deciso di realizzare. Lo “spirito del luogo”, questa sorta di magia che una piccola e umile realtà come quella giulianese, un centro di poco più di duemila anime, si-

tuato ai piedi del Monte Siserno, a pochi chilometri dal capoluogo di provincia Frosinone e a un passo dal mare, possiede orgogliosamente. È proprio seguendo questo filo d’Arianna caratterizzato da piccole, ma non per questo prive di un ricco e profondo significato, realtà, che al produttore è venuta fuori l’idea di prendere con sé microfono, telecamera, e, armato della giusta curiosità che occorre in situazioni simili, realizzare un documentario che rendesse pubbliche, attraverso appunto la proiezione nell’ambito di “Overlook Film Festival”, queste magiche esperienze che quotidianamente si vivono in piccoli centri come appunto Giuliano di Roma. Ma il regista Achiardi non si è limitato a filmare solo le piccole e accattivanti abitudini del popolo giulianese, ha voluto mettere a confronto, oramai pienamente catturato dallo “spirito del luogo”, come alcuni dei centri limitrofi, tra cui Villa Santo Stefano e Amaseno, un tempo buoni rivali di Giuliano di Roma, potessero differenziarsi nell’adempimento delle tradizionali mansioni lavorative.

«Non è stato un lavoro da poco - ha commentato Eros Achiardi - al termine delle riprese. Ma sono stato catturato dalla magia che semplici realtà co-

me quella di Giuliano di Roma, Villa Santo Stefano o Amaseno posseggono. Il racconto di umili, ma allo stesso tempo misteriosi, personaggi che ci hanno accompagnato nel viaggio alla scoperta delle tradizioni della comunità, e che ci hanno consentito di addentarci nello“spirito del luogo”, ha cambiato buona parte delle mie sciocche convinzioni. Tanto da indurmi ad abbandonare tutto, lavoro compreso, per dedicarmi completamente alla scoperta o riscoperta di queste magiche realtà».

Una scelta di vita insomma quella che il regista ligure ha fatto, seguendo l’amico Abet, azzardata, se vogliamo, e in contrasto con le necessità che un mondo imperniato dalla crisi lavorativa comanda, ma senza dubbio in linea con il bisogno di sollevare i piedi da terra, volare verso mete che racchiudono semplici ma preziosi consigli di vita, spesse volte molto più importanti e significativi di una pacca sopra le spalle del datore di lavoro. Un viaggio tra misteriose e antiche tradizioni che piccoli centri come Giuliano di Roma,Villa Santo Stefano o Amaseno orgogliosamente

detengono e che, attraverso le riprese di Achiardi e Abet hanno possibilità di far conoscere anche fuori confine, magari solleticando la curiosità di persone che ad oggi fanno del possesso materiale e della rincorsa disperata verso il successo, anche lavorativo, la loro unica ragione d’esistere. E, per usare le parole di Achiardi, «di chi ogni tanto sente l’impellente necessità di una boccata d’aria, sana, pura, e magica». Il viaggio verso la scoperta dello “spirito del luogo” è appena iniziato, la sana follia del cammino verso antiche tradizioni è lungo ma affascinante e i due compagni di percorso sono intenzionati a fare dei misteri nascosti la loro Beatrice dantesca.


cultura

3 novembre 2009 • pagina 21

Alcune immagini del nuovo modello della Trabant, presentato lo scorso settembre al salone dell’automobile di Francoforte, e progettato dalla Iav Automotive Engineering. Al momento sono in corso delle trattative per trovare una casa automobilistica che si impegni a produrla in serie

Miti. Il futuro (ancora incerto) del nuovo modello, presentato lo scorso settembre al salone dell’automobile di Francoforte

Di nuovo a bordo della Trabant? di Andrea D’Addio

BERLINO. A volte ritornano. No, non parliamo dell’horror di Spephen King, anche se alcuni qualche suggestione di terrore la potrebbero scorgere dato l’argomento, ma di storie, idee e prodotti dell’ex Germania Est pronti ormai a nuova vita.Tanti ex democratici orientali soffrono infatti di ostalgie, ovvero la nostalgia per tanti aspetti della vita quotidiana fino a vent’anni fa, quando il muro era eretto e dall’altra parte c’erano cugini, non fratelli. Che bello era quando c’era una sola marca di ogni cosa e si era tutti poveri assieme, almeno in apparenza. È da qui che nasce l’ostalgie. In un mondo capitalista c’è sempre qualcuno pronto a colmare un bisogno o una mancanza, il marketing nasce da qui. Ecco quindi che, per cavalcare il malinconico ricordo di chi vorrebbe tornare indietro nel tempo, si tirano fuori vecchie marche di fagioli in scatola così come si ricostruisce una macchina tale e quale alla vecchia Trabant. Identica almeno per quanto concerne la carrozzeria. Dentro è tutta diversa, ma l’importante è l’apparenza. La nuova versione dell’auto simbolo della Ddr, l’unica che il popolo potesse permettersi (l’altra auto in circolazione era la troppo cara Wartburg identificata per questo come l’auto del potere) è stata presentata a settembre al salone dell’automobile di Francoforte.

Due anni fa la Herpa, società che produce modellini, aveva proposto sempre al salone un esempio in scala 1 a 10 di quella che sarebbe potuta essere la nuova Trabant: la sfida fu colta dalla Iav Automotive Engineering che, finanziata dalla stessa Herpa, ha progettato la nuova automo-

bile affidandone la produzione del prototipo alla Indikar. Quel modello ora primo è sotto gli occhi di tutti, ma la possibilità che presto si possa vedere la Trabant nT (dove “nT”sta, per l’appunto, per new Trabant) anche al semaforo sotto casa nostra è in realtà ancora un’ipotesi. Queste sono infatti settimane di trattative per trovare una casa automobilistica che affianchi la Indikar e si impegni a produrre in serie. Si parla della Bmw, ma ciò vorrebbe dire un prezzo non certo proletario. I pareri degli addetti al settore sono però pressoché unanimi: si tratta di un progetto destinato ad avere successo. Non solo il nuovo modello è un’auto dai consumi contenuti e dal bassissimo impatto ambientale (motore elettrico e pannello solare sul tetto per alimentare i servizi di bordo), ma il solo fatto di chiamarsi Trabant

maggio 2008 si è svolto l’XI incontro internazionale dedicato all’automobile). Siti di collezionisti e di semplici appassionati contano migliaia di contatti ogni giorno offrendo tra le proprie pagine fotografie e informazioni sull’automobile nonché, in qualche caso, suggerendo le modifiche da apportare su carrozzeria e motore per poter inquinare di meno (le marmitte delle vecchie Trabant producono scarichi sette volte maggiori di quanto sia consentito oggi) o semplicemente per migliorare il piacere di una guida che non è mai stata famosa per il proprio comfort. Prodotta per la prima volta nel 1957, motore a due tempi da 600 cavalli dalla velocità massima di circa 110 Km orari e una carrozzeria lunga tre metri in Duroplast (un misto di resina e cotone), la Trabant ebbe due restyling nel corso della propria storia. Il pri-

Il nuovo modello è un’auto dai consumi contenuti e dal bassissimo impatto ambientale, e il solo fatto di chiamarsi Trabant porta in dote una potenziale clientela di numero incalcolabile porta in dote una potenziale clientela di numero incalcolabile. In questi ultimi anni infatti la Trabant è diventata un vero e proprio oggetto di culto per tante persone sparse per il mondo, (non solo quindi per gli ex cittadini dell’est Europa). Centinaia di automobilisti partecipano ogni anno dei ritrovi organizzati tanto nell’ex Ddr che che in Polonia e in Italia (dove a

mo fu nel 1964, 18 centimetri in più di lunghezza e 5 kg in meno di peso (è la versione con cui di fatto è entrata nell’immaginario comune). Il secondo restyling (la Trabant 1.1) fu realizzato all’indomani della caduta del Muro, nel 1990 e fu un grandissimo flop. Davanti alla possibilità di poter finalmente acquistare Volkswagen, Opel, Audi e qualsiasi utilitaria proveniente dall’occidente, il nuovo motore in quattro tempi del-

l’auto simbolo di un regime sconfitto non interessò quasi a nessuno, nemmeno a chi era ne aveva prenotata una da anni (tanta era la sproporzione tra le richieste di auto e la capacità produttiva degli impianti dell’Est che spesso passavano quattordici anni per la consegna della quattro ruote).

Nel 1991, le vendite prossime allo zero nonostante il prezzo bassissimo, convinsero la Sachsenring Ag a fermarne la produzione. La vita della Trabant non finì lì, anzi quelli furono proprio gli anni del successo. Almeno per ciò che riguarda l l’aspetto iconografico. Fanno ormai parte della storia le immagini della fila di automobilisti della Berlino Est che, a bordo dell’instabile trabiccolo, attraversano il muro accolti dalle pacche sul cofano dei cittadini dell’ovest, momenti perfettamente sintetizzati da Birgit Kinder. Quando nel ’90 l’artista tedesca fu chiamata a dipingere uno dei 106 murales della East Side Gallery per celebrare la riunificazione delle due Germanie, scelse come soggetto il grigio muso di una Trabant che sfonda la parete. Lo chiamò Test the rest ed è tuttora uno dei simboli della città, riprodotto in vari modi su poster, cartoline, cappelli, magliette nei negozi di souvenir. Un anno dopo la commedia Go Trabi Go, su una famiglia tedesca dell’Est in vacanza in Italia a bordo di una Trabi (nomignolo affettuoso dato dagli stessi tedeschi all’auto) strappò sorrisi in tutto il mondo alimentando l’idea di un veicolo resistente e adattabile a qualsiasi tipo di situazione, proprio come lo erano stati per circa quarant’anni i tedeschi dell’Est. Nel ’92 la band degli U2 utilizzò invece vari modelli della Trabant per caratterizzare scenograficamente i palchi del loro Zoo tour. Sono passati 17 anni da allora, venti dalla caduta del muro. Nel frattempo l’idea dell’infallibilità dell’attuale modello di capitalismo è sempre più messa in discussione e abbiamo visto la rinascita della Fiat 500 e del Maggiolino. Ragioni storiche e commerciali: ci sarà mai migliore momento ridare gas alla vecchia Trabant?


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Asharq Alawsat” del 30/10/2009

Al bazar nucleare vince Teheran di Amir Taheri no dei più amati commediografi iraniani, Arham Sadr ha scritto uno sketch su di un incontro ambientato nel bazar di Isfahan. Un turista occidentale entra in un negozio dove c’è un tappeto che piace alla moglie. Il mercante comunque non vuole vendere quel tappeto al turista. Gli offre dunque un’altra vasta gamma di tappeti, elogiandone la qualità e la fattura e disprezzando quello che voleva l’acquirente occidentale. Alla fine, il turista compra un tappeto che non voleva acquistare e che non gli piace. Mentre sorseggia un tè alla fine della lunga trattativa, l’unico pensiero è come giustificare alla moglie che non abbia preso il tappeto che tanto le piaceva. All’inizio di questo mese una scenetta simile si è ripetuta. Con protagonisti la repubblica islamica dell’Iran e il gruppo dei cosiddetti 5+1 cioè il consiglio permanente di Sicurezza Onu più la Germania. Come il turista di Sadr, il gruppo dei 5+1 è arrivato al tavolo dell’incontro con un determinato tappeto in testa. Un prodotto intessuto con la materia di ben cinque risoluzioni del consiglio di Sicurezza Onu approvate all’unanimità, di queste tre secondo il capitolo sette della carta delle Nazioni Unite. Con la richiesta che l’Iran cessasse ogni operazione di arricchimento dell’uranio. Dopo giorni di trattative il gruppo di contatto ha finito per acquistare un tappeto diverso. Giovedì, durante un discrso Mahmoud Ahmadinejad aveva fatto capire che avrebbe concesso ai 5+1 l’accordo che non volevano, a condizione che offrissero una serie di altre concessioni non meglio specificate. Il nuovo tappeto è costituito dalla vecchia offerta russa, che risale al 2004, di permettere a Teheran di continuare il processo di arricchimento del combustibile nucleare.

U

Consentendo che circa il 75 per cento del totale dell’uranio vada all’estero per subire il trattamento necessario. E successivamente che venga utilizzato in un reattore da 5 megawatt che si trova nella capitale iraniana. L’accordo è anche peggio di quello offerto nel bazar al turista descritto da Sadr. Innanzitutto quella struttura dovrà essere smantellata entro il 2010, perché in funzione dal 1965, ha completato il suo ciclo di utilizzo. Situata nel popoloso quartiere di Amirabad a Teheran, fu costruita nel 1950 dagli Stati Uniti, in quello che allora era solo un villaggio. Come per la maggiora parte dei reattori atomici la sua vita operativa è stimata intorno ai 38 anni. Gholam-Reza Aghazden ne annunciò la chiusura nel 2002, ma ci fu un accordo per continuarne l’attività fino all’ultimazione della centrale da 40 megawatt di Arak, nella parte occidentale della capitale. In Iran manca il know how per il cosiddetto decommissioning, la messa fuori servizio di una struttura nucleare, che se non attuata secondo canoni precisi potrebbe creare seri pericoli di contaminazione dell’area e della popolazione per i secoli a venire. La cosa divertente è che l’Iran ha uranio sufficiente per far funzionare Amirabad, fino alla sua chiusura nel 2010. Tra il 1967 e il 1980 gli Usa hanno fornito il combustibile nucleare per quel reattore. In quei tempi, una specie di età dell’oro, Washington non aveva avuto esitazioni a fornire uranio arricchito fino al 90 per cento, utilizzabile anche per scopi militari. Dopo il 1980 l’Iran ha cercato di avere materiale fissile dalla Francia, do-

ve lo Scià aveva investito un miliardo di dollari per la costruzione di quello che era il più grande impianto per l’arricchimento di tutta Europa. Parigi però rifiutò di continuare le forniture al nuovo regime. Teheran fece poi un accordo con l’Argentina che garantì l’uranio fino al 1993, quando ci fu l’attentato a Buenos Aires presumibilmente portato a termine da Hezbollah. Da allora il regime sciita ha acquistato senza controlli il materiale nucleare al mercato nero. Iran ammette di aver 1,5 tonnellate di uranio arricchito al quattro per cento. Tale importo, se arricchito fino al 95 per cento, potrebbero produrre 25 chilogrammi di ingredienti per una bomba atomica. L’Iran ne ha bisogno per il suo reattore a Arak? Ancora una volta, la risposta è no. Arak è un impianto di plutonio e non ha bisogno di uranio arricchito. L’Iran ha già la capacità di arricchire l’uranio a sufficienza per fare una bomba di Hiroshima ogni anno. In un commento del 23 ottobre, l’agenzia di stampa ufficiale Irna vantava: «se l’Iran vuole costruire armi nucleari, non ha alcun problema di materiale fissile».

L’IMMAGINE

Vogliamo una trasmissione di Santoro sui viados e sui loro accompagnatori vip La vicenda Marrazzo invoca la questione dei limiti di esposizione di faccende private sui quotidiani. È un po’ come dire prima la gogna e poi il verdetto. Indipendentemente se sia giusto o meno a questo punto adoperare i fatti per livellare una bilancia fatta di destra e sinistra, che poi in realtà non esiste, perché il nostro premier non ha bisogno di pesi riequilibranti, la bilancia dovrebbe essere formata dall’esigenza di privacy e da quella che scaturisce dalla portata delle inchieste giudiziarie. Ci sono molte altre cose che richiederebbero una luce totale e riguardano faccende economiche, che influenzano i mercati e le amministrazioni locali, e che concorrono a mettere in ginocchio il portafoglio degli italiani. Concordo altresì con coloro che chiedono a Santoro di fare un programma sulla vicenda Marrazzo e sulla realtà dei viados, non solo per par condicio, ma anche per mostrare agli italiani che il costume della politica è influenzato solo dai soldi, visto che una prestazione da 5000 euro nessun cittadino se la può permettere.

Bruno Russo

MAL COMUNE... Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, i tre moschettieri del Pd, una cosa in comune con Silvio Berlusconi ce l’hanno: il vezzo di tingersi i capelli.

Artemio Ruggeri - Bologna

PIÙ LEADERSHIP FEMMINILE NELLE AZIENDE In tema di pari opportunità, è giunta l’ora di passare dalle parole ai fatti. Per questo ritengo estremamente interessante la proposta di legge dell’on. Lella Golfo per il riequilibrio dell’accesso ai board delle società quotate in borsa, e mi auguro che raccolga il più ampio consenso necessario per una rapida approvazione. Numerosi studi e indagi-

ni statistiche sottolineano che, laddove le donne sono realmente coinvolte nei processi produttivi, si realizza un aumento del Pil. D’altro canto gli stessi dati Unioncamere relativi alle imprese in rosa registrano una significativa espansione, anche negli ultimi mesi. Ma questo trend positivo è frenato dalla scarsa presenza femminile ai vertici dell’economia. Non a caso, se guardiamo in Europa, il Paese che registra il maggior numero di donne nei Cda delle aziende è proprio la Norvegia, dove una legge ha imposto in via transitoria l’obbigatorietà della presenza femminile nei ruoli apicali. Non si tratta certo dello sterile discorso delle quote rosa ma della consapevolezza che non esiste reale partecipazio-

Nata con la camicia Non sarà proprio uno schianto, ma senz’altro questa lucertola “dalla testa ad angolo”, così soprannominata per la forma appuntita del capo, è più fortunata di molte altre sue simili. Nelle rigogliose foreste del Borneo dove vive infatti, procurarsi il cibo è un gioco da ragazzi. Le basta spalancare le fauci per rimediare in breve tempo piccoli insetti e invertebrati

ne né democrazia senza l’inclusione delle donne in un reale processo di crescita della società.

Barbara S.

AGEVOLAZIONI FISCALI & NON PER I DISABILI È stata pubblicata una nuova scheda pratica dell’Aduc sui disabili: agevolazioni fiscali & non, che va ad arricchire lo specifico

settore di schede pratiche diritti del disabile. A cura di Rita Sabelli, responsabile aggiornamento normativo dell’Aduc, sono state raccolte le normative in merito, citandole e rendendole facilmente fruibili grazie ad una esposizione semplice e scevra di quel burocratese, che rende difficile ciò che dovrebbe essere semplice; sono indicate le specifiche

norme e leggi con relativi link.

METTIAMO IL CASO CHE...

Aduc

Se Bersani è uno che ama il dialogo, ne saremo tutti contenti; ma è chiaro che se il premier arrivando all’ esasperazione dovesse dire che si andrà avanti per le riforme anche senza l’opposizione, risulterebbe difficile dargli torto.

BR


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sei una donatrice di vita Tu hai il grande dono di comprendere, Mary amatissima. Sei una donatrice di vita, Mary. Sei come il Grande Spirito, che soccorre l’uomo non solo per condividere la sua vita, ma per aggiungergliene. Il fatto di conoscerti è la meraviglia più grande dei miei giorni e delle mie notti, un miracolo quasi al di fuori dell’ordine naturale delle cose. Ho sempre sostenuto, con il mio Folle, che quanti ci comprendono asserviscono qualcosa in noi. Non è così con te. Il tuo capirmi è la libertà più tranquilla che io abbia mai conosciuto. Nelle ultime due ore della tua ultima visita mi hai preso il cuore tra le mani e vi hai trovato un angolo oscuro. Ma nel momento stesso in cui lo scoprivi, esso veniva cancellato per sempre, e io ero sciolto da ogni e qualsiasi catena. E ora fai l’eremita in una montagna. A me, nulla appare più incantevole che essere eremita in un luogo «pieno di bellissimi angoli nascosti». Ma ti prego, amatissima, non correre rischi. Essere eremita una volta sola non può soddisfare la tua anima affannata, e devi mantenerti sana e forte per fare l’eremita anche altre volte. Le foglie di alloro e di arbusti balsamici stanno colmando questo luogo della più incantevole fragranza. Dio ti benedica per avermele mandate. Kahlil Gibran a Mary Haskell

SOSPENDERE IL PROGETTO AUDITORIUM Il sindaco di Padova sospenda il progetto dell’auditorium, per rispetto della società civile, specie dei popolani Come ogni altra amministrazione, il Comune di Padova impiega mezzi scarsi, destinabili a usi alternativi. Deve scegliere, secondo razionali priorità. Non è prioritaria la costruzione dell’auditorium e del conservatorio nell’unica area verde rimasta lungo il Piovego, col rischio di danneggiare la Cappella degli Scrovegni. Queste opere non sono richieste da operai, lavoratori in genere, popolani, proletari, poveri, periferici: tutte persone che la giunta di sinistra-centro sostiene di difendere. Il cittadino può udire musica a casa propria, evitando ingorghi stradali. Tali opere aggiungono nuova cementificazione al centro cittadino. Accrescono il divario fra centro e frazioni. Possono servire a ristrette minoranze di privilegiati. Un sindaco forte rispetta e considera l’opinione della società civile e, in particolare, della maggioranza che non ha voce.

Franco Padova

CONFETTURE. MEGLIO QUELLE EXTRA Confetture di frutta fresca o conservata? Il consumatore che desidera un prodotto di qualità non può che scegliere quella di frutta fresca e cioè le confetture extra per due validi motivi. Il primo è relativo alla quantità di frutta contenuta nelle marmellate, che nelle confetture extra è maggiore di quella contenuta nelle semplici confetture. Il consumatore acquista quindi più

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

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3 novembre 1967 Inizia la battaglia di Dak To, 450 km a nord di Saigon: pesanti, perdite colpiscono entrambe le parti. Gli americani vinceranno per poco la battaglia 1968 Un’alluvione devasta il Piemonte, in particolare la provincia di Biella provocando 72 morti 1970 Salvador Allende diventa presidente del Cile 1973 La Nasa lancia la Mariner 10 verso Mercurio 1978 La Dominica ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1979 A Greensboro (Carolina del Nord), cinque membri del Communist Workers Party vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco durante il raduno “Morte al Klan” 1986 Scandalo Iran-Contra: la rivista libanese Ash-Shiraa riporta che gli Usa hanno venduto di nascosto armi all’Iran, allo scopo di assicurarsi il rilascio di sette ostaggi americani 1990 La LXII riunione del Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese decide la fondazione della Commissione statale per il controllo dei narcotici

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

frutta e meno zucchero. Il secondo motivo sta nel fatto che nelle confetture extra non è contenuto un conservante, l’anidride solforosa, che è invece consentito nelle confetture, perché nelle preparazione di queste ultime viene utilizzata frutta conservata con l’anidride solforosa, che può provocare allergie. Ricordiamo che il termine “marmellata” è riservato al prodotto preparato con agrumi mentre quello di “confettura” riguarda gli altri tipi di frutta.

Primo Mastrantoni

MERITI DEGLI AGRICOLTORI INADEGUATAMENTE CONSIDERATI Gli agricoltori sono fra gli operatori più meritevoli, che - con fatiche usuranti e rischiose - soddisfano i bisogni primari della collettività. Sfamano i consumatori. Curano le aree rurali (verdi) e le puliscono da malerbe, arbusti, rovi, cespugli e sterpaglie. Contrastano l’inquinamento e il dissesto idrogeologico. Impediscono o attenuano gli allagamenti, mediante l’effetto spugna dei terreni, nonché gli spurghi e le pulizie dei fossi, che agevolano lo scolo delle acque. Perciò, lo Stato e la società devono rispettare e compensare tali attività, prioritarie e indispensabili al consorzio civile. Al contrario, i coltivatori sono i moderni “schiavi”, sottoremunerati, sfruttati e inadeguatamente considerati. Molte gestioni agricole sono non redditizie, fra alti costi dei fattori produttivi e bassi prezzi dei prodotti, soggetti a impari competizione internazionale.

Gianfranco Nìbale

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

RICOSTRUIRE IL TESSUTO SOCIALE PARTENDO DALLE FONDAMENTA Corruzione, concussione, rapporti con la criminalità organizzata, interessi privati in atti pubblici, abuso d’ufficio, omissione d’atti d’ufficio, uso di sostanze stupefacenti, rapporti contigui con il mondo della prostituzione. Potremmo continuare nell’elencazione dei mali che da tempo stanno scuotendo il mondo del potere e dei rappresentanti del popolo. Strano Paese il nostro, dove tutto o quasi viene tollerato, accettato,condiviso. Ma cosa realmente stia accadendo nella opulenta società occidentale sembra difficile saperlo, forse. O forse stiamo assistendo a quello che è sempre successo tra intrighi di potere e costumi consuetudinari profanati,chissà. Certo è che a tutto questo bisognerebbe mettere un argine, un argine dato dall’oggettività della socialità. Se tutti lo fanno lo faccio anche io, tanto è un costume comune, tranne che non vengo beccato in flagranza. Non è necessario ritrovare né un sano moralismo né una morale perduta, bensì semplicemente il senso della misura dell’uso del buon senso comune, in modo peculiare quando si hanno rappresentanze istituzionali, anche se errare è umano. È dunque indispensabile costruire argini nuovi per una nuova classe dirigente; ma da dove iniziare se i vizi sono diffusi ad ogni livello e stato sociale e ogni età anagrafica? Forse ci vorrebbe uno Stato etico? Forse ci vorrebbero regole più ferree, con i giusti contrappesi sociali per costruire un nuovo mondo fatto di valori, e non di valori-contanti. È una sfida difficile o forse impossibile, se si guarda all’antica Grecia e ai valori e alle regole dell’antichità, allora bisognerebbe cambiare o dilatare le nostre regole, quelle ferree della società post-industriale e dell’illuminismo cattolico. O forse, è necessario dare alle stesse il giusto valore che con il passare del tempo hanno perso. Sta di fatto, che osservare dieci regole del “buonsenso” e base stessa della cultura occidentale date dal cattolicesimo non è un male, anzi penso che ne trarremmo giovamento sociale. L’importante è non eccedere né nel lassismo né nell’eccessivo conformismo. I tempi mutano, la scienza si evolve, le religioni si rincorrono, la voglia di spiritualità sembra essere tanta, ma le identità culturali traballano, ed è oggi più che mai necessario rafforzarle nel rispetto delle varie religioni, ma senza essere arrendevoli o peggio rinunciatari. È necessario ripartire dalle radici identitarie naturali senza snaturare le normalità e normalizzare le eccezioni, avremmo una società anomala e disastrosamente paradossale. Ogni periodo storico ha una sua pregnanza culturale, il nostro sembra essere un periodo storico ricco di ombre ma privo di sostanze. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I

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PAGINAVENTIQUATTRO Il personaggio. Viaggio nella tumultuosa vita di Alda Merini, scomparsa a Milano dopo una feroce malattia

L’ultimo verso di una poetessa EXTRA-ORDINARIA di Pier Mario Fasanotti un meccanismo che scatta in modo naturale: immediatamente dopo il lutto, non ci si pone la domanda che a mio avviso è e sarà fondamentale per valutare bene la poesia di Alda Merini: è stata più personaggio o più artista? C’è sempre il rischio, a causa dell’emozione e dell’attrazione verso gli emarginati psichici, di esaltare - di questa donna strana, generosa, irruente ma anche così intelligente da mascherare bene la sua furbizia - «la calda umanità», l’irruente voglia di vita che le faceva frantumare, con una divertente ma anche patetica disinvoltura, gli steccati che separano il decoroso e a volte ammuffito vivere borghese e la terra ignota della follia che tutto consente e imprime a noi spettatori fuori delle gabbie manicomiali l’idea - tutta da avvalorare - che chi ha subito elettroshok, camicie di forza, soluzioni di Pentotal, e umilianti ferite anche nelle zone più serene e“ordinate”del cervello, abbia il privilegio di accedere direttamente nei meandri dell’inconscio, in

È

quel grumo scuro da cui ricavare sfacciate verità e alternanti lirismi. Alda Merini, aggredita da un tumore osseo, ha fumato una sigaretta dietro l’altra anche in ospedale.Tre le cose cui non rinunciava: il fumo, il rossetto vermiglio, il disordine e la sporcizia del suo piccolo appartamento milanese, sui Navigli. E lei sbraitava spesso, e lanciava petizioni, perché ciò che vedeva alla finestra, o sentiva, era l’odierno volgare di gente che trascina i piedi ma non cammina veramente, che ride e urla e spacca bottiglie di birra, ma che ignora del tutto il significato primordiale di quei gesti e la disperazione che ci sta dietro. Lei s’indignava per quelle caricature esistenziali. La “movida” dei Navigli stravolgevano i canali milanesi d’un tempo, incastonati in un’architettura assai modesta, nebbiosi, sporchi ma così indulgenti verso la piccola gente, luogo di umanità semplice e spontanea. Dopo i “barboni”- lei ne amò uno, la sera gli faceva il bagno nella vasca di casa sua - c’è stata l’invasione dei“fighetti”. Sta qui la decadenza di Milano. E lei l’aveva intuito.

Alda se n’è andata dalla vita, che ha sempre considerato come “privilegio”, parlando senza soste, come aveva sempre fatto: «La gioventù ti lascia, la mamma muore, la mamma muore, la mamma muore». Di fronte a lei le quattro figlie. Ha definitivamente chinato il capo la poetessa che, ridendo, un giorno esclamò:

Del “monstrum”si tende ad accettare tutto. E lei era il connubio del sacro e della follia. Alda Merini non ha mai smesso di guardare il mondo, mai ha abbassato i suoi occhi profondi, liquidi, talvolta inquietanti. Non ha mai cessato di ingoiare tutto quello che la circondava. Forse stava male a tavola, ma la sua fame, metaforicamente parlando, le consentiva di riempire il suo “colon”di versi, di spunti, di immagini folgoranti. Logorroica anche nella sua produzione cartacea (chissà quanti inediti spunteranno dalla sua casa-caos-sporcizia), aveva la stramberia di dettare versi al telefono. Un torrente in piena, che spesso non teneva conto della mediazione culturale, del filtro mental-sentimentale che permette a un poeta di essere poeta e non un cantastorie con la fortuna di azzeccare qualche volta un verso sublime. Ne è prova l’inedito dedicato a Mike Bongiorno: composizione banale, appunto frettoloso («Non dimenticheremo mai i tuoi errori, le tue gaffes»), ma contenente una intuizione autenticamente lirica: «Malato di tormenti imprecisi». La poesia di Alda va su e giù, dissipatrice com’era con le parole oltreché con la sua stessa esistenza. Iniziò giovanissima a scrivere versi. Come Arthur Rimbaud, ma a differenza del francese non smise, salvo che durante i quasi vent’anni di internamento psichico. In clinica ci entrò a 34 anni, dopo una depressione post-partum. I suoi primi versi, di ragazzetta che aveva studiato poco o nulla, attirarono la curiosità di Pier Paolo Pasolini. Fuori delle mura di lamenti e costrizioni ebbe vari amori, tra cui Giorgio Manganelli, cui rimproverava, anche con le sberle, la timidezza, e Salvatore Quasimodo. Confidò nel 1994:«Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita, e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».

Iniziò a scrivere giovanissima, come Arthur Rimbaud. Ma a differenza del francese non smise, salvo che durante i quasi vent’anni di internamento psichico. In clinica ci entrò a 34 anni, dopo una depressione post-partum «Ho il colon ustionato di versi». Un modo di vezzeggiare il tono popolare, e con una certa vanteria, di porsi in competizione con le contraffazioni borghesi del vivere, con le “buone maniere”, con la stessa educazione, pure quella più elementare. Ed è singolare che oggi, a rimpiangerla e a elogiarla, siano anche quei suoi colleghi che si sono tenuti a rigorosa distanza dal facile e sincero comunicare con il pubblico, dai versi spontanei e magari sgangherati, costantemente protesi verso un non sempre giustificato empireo poetico. Se Alda fosse su una nuvoletta - come noi raccontiamo ai nostri bambini - scoppierebbe in una delle sue risate fragorose, e magari direbbe: come siete stronzi, come siete alla fine tutti uguali voi che vi scorticate la pelle per un premietto in più, per uno straccio di recensione. Genuina, dirompente, istrionica. Ma anche addestrata regista della sua stramberia. Sapeva bene come“far notizia”. Come quando si denudò il seno per una rivista, in anni in cui di solito una donna ha lo sconfinato pudore per le tracce più intime della sua vecchiaia. Chi poteva, o voleva, criticarla rimase zitto. Forse perché quella esibizione mediatica che inconsciamente aspirava a una provocatoria oscenità risultava l’emblema della follia.

Incurante delle convenzioni, oppure astuta esternatrice allevata dalle comparsate in tv, si permetteva di gridare frasi che di solito si odono nei gironi degli ospedali psichiatrici: «Io voglio un uomo, ho bisogno di un uomo». Quale sia la matrice, l’esclamazione (che ricorda Amarcord di Fellini: lo zio strambo che s’arrampica sull’albero) è pregna di vitalità nuda, mai contraffatta da impalcature pseudo-intellettuali o, peggio, dalla mondanità che vuole stupire per avere un tornaconto di carriera. Libro dopo libro, dopo essere stata sottratta dall’oblio dalla studiosa Maria Corti, la Merini ha saputo fondere il furore carnale, una certa religiosità, l’ansia di esprimere ad alta voce, l’attenzione prepotente verso i dettagli della quotidianità. Einaudi pubblicherà a breve Il carnevale della croce: sarà occasione per riflettere con pacatezza critica sull’opera della Merini. Dario Fo la propose per il premio Nobel, oroglioso di esserle accanto nella tradizione artistica lombarda. Ma Alda non ha avuto traduzioni e, si sa, gli accademici di Stoccolma sono sostanzialmente pigri.


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