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L’illusione è la gramigna più

tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari Antonio Gramsci

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 4 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Incredibile sentenza: il governo annuncia la sua opposizione. Proteste dalla Cei e da tutto il mondo politico italiano

L’Europa abolisce Gesù Cristo Strasburgo accoglie il ricorso di una italo-finlandese: «Il crocefisso in aula viola la libertà religiosa». Ecco come si può,in nome dei diritti umani,affossare proprio i valori che li hanno creati IL COSTITUZIONALISTA BALDASSARRE

«Ma quello della Corte è un abuso di potere» di Franco Insardà II presidente emerito della Corte costituzionale, Antonio Baldassarre, esprime un giudizio negativo sulla sentenza di Strasburgo: «La Corte non ha competenza sui diritti fondamentali delle persone, come la libertà religiosa». a pagina 2

di Francesco De Felice La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, accogliendo il ricorso presentato da una donna finlandese cittadina italiana, ha stabilito che la presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche italiane costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione alla «libertà di religione degli alunni». Durissime proteste della Cei e del mondo politico italiano.

PARADOSSI DEL PDL Giustizia, leadership, concezione della politica e delle riforme: le anticipazioni del “Berlusconi pensiero” fatte da Vespa e quelle del nuovo volume di Fini dimostrano che il presidente della Camera e il premier la pensano, quasi su tutto, in maniera diametralmente opposta. Possono continuare a stare insieme?

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IL FILOSOFO GIOVANNI REALE

IL CELEBRE ARTICOLO DELL’88

«La nostra civiltà si sta suicidando»

Su quella croce ci siamo tutti noi

di Riccardo Paradisi

di Natalia Ginzburg

Non possiamo non essere cristiani, dice Giovanni Reale. E come la mettiamo con chi, di essere cristiano non vuole proprio saperne? «La mettiamo così: che se tu vuoi farla finita con la tua tradizione, con la religione dei tuoi padri, sei liberissimo di farlo, ma non hai nessun diritto sulla mia». a pagina 4

Dicono che il crocefisso deve essere tolto dalle aule di scuola. Il nostro è uno Stato laico che non ha il diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocefisso. Però a me dispiace che il crocifisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Se fossi un insegnante, mi opporrei. a pagina 5

Due libri, due partiti

Durissima la risposta degli integralisti: «Marionetta di Washington»

Karzai non convince i talebani Il presidente vuole trattare con i “fratelli” terroristi di Vincenzo Faccioli Pintozzi

alle pagine 8 e 9

Levi-Strauss, l’uomo che scoprì l’antropologia Nelle abitudini delle tribù tropicali trovò l’origine della nostra società politica di Osvaldo Baldacci • pagina 20

Un appello per la pace, certo. Era quello che tutti si aspettavano dal primo intervento pubblico del secondo mandato Karzai. E il leader pashtun, proclamato due giorni fa (per la seconda volta) presidente dell’Afghanistan non ha deluso le aspettative. Ha parlato di «unità nazionale» e di processo di pace, tendendo il proprio ramoscello d’ulivo ai «fratelli» e chiedendo loro di tornare nel Paese. Soltanto che non si riferiva, come avrebbe dovuto, allo sfidante Abdullah Abdullah e alla diaspora afgana all’estero. Si riferiva ai talebani. Nonostante l’ex ministro degli Esteri (e bracseg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

cio destro del defunto leone del Panshir) si sia ritirato dal ballottaggio – i brogli e le violenze lo hanno convinto a un gesto estremo – non è a lui che Karzai ha ritenuto giusto rivolgersi. E dunque, «i fratelli talebani depongano le armi e partecipino al processo di pace nel Paese». Karzai ha chiesto ai talebani espatriati dall’Afghanistan di tornare e ha confermato l’intenzione di coinvolgere nella nuova amministrazione funzionari provenienti da ogni parte del Paese. Il tentativo «è quello di portare la pace in tutto il Paese».

• ANNO XIV •

a pagina 14 NUMERO

218 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

La settimana difficile di Giulio (e se vincesse?) Dopo gli attacchi, la maggioranza decide sul serio cosa fare della Finanziaria di Francesco Pacifico • pagina 7 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Intolleranze. È bufera per una scandalosa sentenza della Corte europea che ignora i valori e la cultura del nostro Paese

Gesù abolito per decreto Strasburgo accoglie il ricorso di una italo-finlandese: «Il crocefisso viola la libertà religiosa». Il governo si opporrà alla decisione di Francesco De Felice

ROMA. Dopo aver mandato al macero le sue radici cristiane, l’Europa lancia una battaglia contro il crocefisso. La Corte europea dei diritti umani ha sancito che la sua esposizione nelle classi offende, viola la libertà di coscienza, discrimina i bambini di diversa confessione religiosa. Il ricorso era stato presentato da una cittadina italiana di origine finlandese, residente ad Abano Terme, Soile Lautsi, che nel 2002 aveva chiesto all’istituto statale “Vittorino da Feltre”, frequentato dai suoi due figli, di togliere il crocefisso dalle aule perché la presenza dello stesso costituiva una violazione del principio di laicità dello Stato. A nulla, tuttavia, erano serviti i reclami e i ricorsi davanti ai tribunali italiani. La reazione del governo italiano a questa decisione non si è fatta attendere e il ministro degli Esteri, Franco Frattini ha dichiarato: «Faremo ricorso. L’identità cristiana è la radice dell’Europa. La Corte ha dato un colpo mortale alla possibilità che l’Unione europea cresca e non sia solo un’Europa dei mercati». Frattini ha messo in evidenza come la sentenza vada criticata «anche per le implicazioni che potrà avere nel momento in cui stiamo cercando la vicinanza tra le religioni». Per il ministro in questo modo «si dà una picconata alla religione cristiana» e in questo modo si crea «un pessimo precedente anche per le altre religioni». Il giudice Nicola Lettieri, rappresentante del governo italiano presso la Corte Europea, ha già annunciato che il ricorso si baserà essenzialmente su due. Primo: il crocefisso è un simbolo religioso, «ma con una portata umanistica legata all’etica e alla tradizione nazionale». Secondo, lo Stato italiano non «è laico, ma concordatario», cioè «si toglie alcune prerogative per darle a una religione dominante». Il ricorso, ha spiegato il dottor Lettiera, sarà presentato a un mini-tribunale di cinque giudici, i quali poi decideranno

l’ammissibilità alla Grande Chambre. La Conferenza episcopale italiana ha sottolineato «l’amarezza e le non poche perplessità» che suscita questa sentenza, soprattutto per il «sopravvento di una visione parziale e ideologica». Secondo i vescovi italiani «si rischia di separare artificiosamente l’identità nazionale dalle sue matrici spirituali e culturali, mentre, citando le parole di papa Benedetto XVI, “non è certo espressione di laicità, ma

sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche».

Un coro di proteste e accuse si è levato da tutto il mondo politico. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini ha dichiarato: «La presenza del crocefisso in classe non significa adesione al Cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione. La storia d’Italia passa anche attraverso simboli, cancellando i quali si cancella una parte di noi stessi». Per il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi la decisione della Corte europea «è un duro colpo alla coabitazione europea. La croce non è un simbolo solo per i credenti, è il simbolo del sacrificio

Antonio Baldassarre, presidente emerito della Consulta

«Si tratta di un evidente abuso di potere» di Franco Insardà

ROMA. Il Tar del Veneto aveva respinto il ricorso della signora Sofia Lautsi e lo stesso aveva fatto il Consiglio di Stato sostenendo che «il crocefisso è il simbolo della storia e della cultura italiana e di conseguenza dell’identità del Paese, ed è il simbolo dei principi di eguaglianza, libertà e tolleranza e del secolarismo dello Stato». La decisione della Corte di Strasburgo, però, è andata in direzione opposta. Ma il presidente emerito della Corte costituzionale, Antonio Baldassarre, esprime un giudizio negativo: «Occorre fare due rilievi. Il primo è che la Corte di giustiza europea non ha competenza sui diritti fondamentali delle persone, tra cui rientra la libertà religiosa». Secondo il giurista la nostra Corte costituzionale «ha affermato costantemente che l’Unione europea ha competenza su molte materie, ma non sui principi supremi sanciti dalla Costituzione, tra questi proprio la libertà della persona umana, sui quali lo Stato italiano mantiene la piena sovranità». La nostra Consulta, dice ancora a liberal Baldassarre, «ha ragionato come la Corte tedesca ritenendo che a livello europeo non ci sia la stessa garanzia dei diritti fondamentali come a livello nazionale. In più di un’occasione ha ribadito e mantenuto queste prerogative». L’ex presidente della Consulta si sofferma anche sull’altro aspetto, quello della libertà religiosa, che «è una delle manifestazioni della cultura di un Paese. Tant’è vero che anche l’ora di religione cattolica è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con la famosa sentenza che ha sancito il principio di laicità come principio supremo della Costituzione.Tra l’altro, come stabilito dal concordato del 1983, è considerata una manifestazione della cultura prevalente del nostro Paese». Secondo Baldassarre questi due motivi sono sufficienti per ritenere che la Corte europea dei diritti dell’uomo «non ha alcuna voce in capitolo in questa materia, che spetta all’Italia e alla nostra Costituzione e quindi il governo fa bene a proporre ricorso». La pensa diversamente il suo collega Annibale Marini. Con la premessa di voler leggere le motivazioni della sentenza, ritiene però che la Corte europea dei diritti dell’uomo, sia «legittimata a esprimersi e a sanzionare le violazioni dei diritti fondamentali. Altrimenti la sua esistenza sarebbe puramente morale e non giuridica. A livello teorico è stato prospettato che i diritti fondamentali siano tutelati esclusivamente dalle Costituzioni dei singoli Stati. E che ci siano limiti alle applicazioni della sentenze della Corte europea ai singoli ordinamenti. Ma le tante pronunce europee che hanno sanzionato l’Italia dimostrano proprio il contrario». Intanto Antonio Baldassarre, accanto a un parere giuridico, offre anche un giudizio meramente politico: «Se l’Europa ritiene di dover impostare il proprio futuro sulla lotta tra laici e cattolici siamo messi davvero male». Tanto da concludere «è una battaglia di retroguardia».

per la promozione umana che viene riconosciuto anche per i non credenti». Il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha sottolineato che siamo in presenza di un Europa che si allontana «da quell’idea che De Gasperi, Adenauer e Schuman hanno posto a fondamento del progetto unitario del nostro continente. Di questo passo il fallimento è inevitabile». Ancora più duro è stato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini che «la scelta della Corte Europea di bocciare la presenza del crocefisso nelle scuole è la prima conseguenza della pavidità dei governanti europei, che si sono rifiutati di menzionare le radici cristiane nella Costituzione Comunque Europea. nessun crocifisso nelle aule scolastiche ha mai violato la nostra libertà religiosa, né la crescita e la libera professione delle fedi religiose. Quel simbolo è un patrimonio civile di tutti gli italiani, perché è il segno dell’identità cristiana dell’Italia e anche dell’Europa».

Ma non è la prima volta che il crocefisso in classe finisce al centro di polemiche. Il presidente dell’Unione musulmani d’Italia, Adel Smith presentò nel 2003 ricorso al Tribunale dell’Aquila contro l’istituto comprensivo “Navelli” per far rimuovere il crocifisso esposto nelle aule, a partire dalla scuola materna ed elementare di Ofena, frequentata dai suoi figli. Il ricorso venne accolto, ma dopo la contestazione dell’Avvocatura generale dello Stato il Tribunale dell’Aquila sospese l’ordine di rimozione per difetto di giurisdizione del Tribunale ordinario. «La questione spetta al Tar», dichiararono i


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Casini: «Colpa della pavidità dei governanti europei»

La Cei attacca: «Scelta ideologica» Unanime condanna del mondo politico: Strasburgo stravolge l’identità europea di Francesco Capozza

magistrati abruzzesi. E così la cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi, presentò ricorso nel 2003 al Tar del Veneto per chiedere che dalle aule della scuola venga tolto il simbolo religioso. A febbraio 2004, la polemica arrivò anche a Bagno di Ripoli, in provincia di Firenze, dove il crocifisso è bandito dalle scuole da 30 anni. Forza Italia e Udc presentarono in Consiglio comunale un ordine del giorno che proponeva l’acquisto di crocefissi e ritratti del Presidente della Repubblica nelle scuole pubbliche elementari e medie, ma non se ne fece nulla. Nel dicembre 2004, a voler togliere il crocifisso dal muro fu un insegnante dell’istituto per geometri “Giovanni Cena” di Ivrea. In questo caso il Consiglio d’istituto decise che il simbolo religioso tornasse in classe, purché le classi ne facciano richiesta. Nel 2005 la questione investì anche i seggi elettorali. L’avvocato Dario Visconti, legale del presidente dell’Unione musulmani d’Italia avanzò una richiesta al Tribunale de L’Aquila, affinché «in occasione delle

dentità cristiana dell’Italia e dell’Europa». Paola Binetti (Pd): «Spero che la sentenza sia semplicemente orientativa, che si collochi, cioè, nel rispetto delle credenze religiose», mentre il ministro Andrea Ronchi (titolare delle politiche comunitarie, quindi diplomaticamente in prima linea su questo caso) si schiera apertamente « con chi si sente offeso da una sentenza astratta e fintamente democratica e che offende i sentimenti dei popoli europei nati dal cristianesimo». Raffaele Carcano, segretario nazionale dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti afferma con candore: «questo è un grande giorno per la laicità italiana. Siamo dovuti ricorrere all’Europa per avere ragione, ma finalmente la laicità dello Stato italiano trova conferma».

Alrtro voce dissonante è quella di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista che esprime «un plauso per la sentenza: uno Stato laico deve rispettare le diverse religioni, ma non identificarsi con nessuna». Vincenzo Vita (Pd), vice presidente della commissione Cultura del Senato: «La sentenza non delegittima la religione cattolica, ma la riconsegna a una spiritualità che non ha bisogno di simboli esibiti in luoghi non adibiti al culto». «Il governo italiano reagisca con la massima durezza», ha dichiarato il sindaco di Roma, Gianni Alemanno (Pdl). Massimo Donadi, capogruppo di Italia dei valori alla Camera: «La sentenza di Strasburgo non è una buona risposta alla domanda di laicità dello Stato, che pure è legittima e condivisibile». Debora Serracchiani, europarlamentare e segretaria del Pd del Friuli: «Una sentenza formalmente corretta e condivisibile, ma la tradizione culturale dalla Chiesa si intreccia con la storia del nostro Paese e richiede un approccio più complesso e una maggiore profondità di coinvolgimento». Infine, Adel Smith, presidente dell’Unione musulmani d’Italia: «I sostenitori del crocefisso in aula dovevano aspettarselo: in uno Stato che si definisce laico non si possono opprimere tutte le altre confessioni esibendo un simbolo di una determinata confessione».

Duro anche Bersani: «Un’antica tradizione come quella del crocefisso non può davvero essere offensiva per nessuno»

elezioni regionali e per tutte quelle future» il giudice ordinasse ai Prefetti di rimuovere i simboli religiosi, e quindi, di fatto, il crocefisso, da tutti i seggi in Italia.

Durante il referendum sulla fecondazione assistita, il giudice riminese Luigi Tosti, assieme alla moglie, si rifiutò di votare perché nel seggio non gli veniva consentito di esporre, accanto al crocefisso , anche la menorah ebraica. La battaglia del giudice era iniziata quando Tosti incrociò le braccia rifiutandosi di tenere le udienze nelle aule in cui era esposto solo il crocefisso e non anche altri simboli religiosi. Il tribunale dell’Aquila condannò Tosti a sette mesi di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per un anno, accusato di omissione di atti di ufficio per essersi rifiutato di celebrare i processi nel tribunale di Camerino. Ma la Cassazione nel 2009 annullò la condanna perché “il fatto non sussiste”. La Corte europea ha riaperto un capitolo che alimenta il dibattito e le polemiche.

ROMA. Il governo italiano ha annunciato il ricorso contro la decisione di Strasburgo, che ha provocato le prime, durissime reazioni. Soprattutto nel centrodestra e tra i cattolici. A partire dal ministro Gelmini che parla di «tradizioni italiane offese». In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza della Corte di Strasburgo, il ministro dell’Istruzione ha affermato sbigottita: «La presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo ma è un simbolo della nostra tradizione. La storia d’Italia passa anche attraverso simboli, cancellando i quali si cancella una parte di noi stessi». Poi l’affondo a Strasburgo: «Nessuno, nemmeno qualche corte europea ideologizzata, riuscirà a cancellare la nostra identità. La nostra Costituzione riconosce, giustamente, un valore particolare alla religione cattolica». Sulla stessa linea il commento di un altro membro del governo, il ministro per le Politiche agricole Luca Zaia: «Non posso che schierarmi con tutti coloro, credenti e non, religiosi e non, cristiani e non, che si sentono offesi da una sentenza astratta e fintamente democratica». Per Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera e presidente dell’Udc, si tratta di «una sentenza aberrante da respingere con fermezza. L’Italia ha una sua cultura, una sua tradizione e una sua storia». Duro anche il segretario del Pd Bersani: «Penso che in questo delicato campo il buon senso finisce per essere vittima del diritto: un’antica tradizione come quella del crocefisso non può essere offensiva per nessuno».

La Corte per la difesa dei diritti umani di Strasburgo ha accolto un ricorso che chiedeva di riconoscere il crocefisso nelle aule come uno strumento che limita la libertà religiosa dei bambini e dei loro genitori

È cauta, invece, la reazione del Vaticano: «Credo che ci voglia una riflessione, prima di commentare», ha detto padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede. Più esplicito, invece, il parere della Conferenza episcopale italiana per la quale la sentenza di Strasburgo è «ideologica» e nega l’identità culturale europea. Per Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di centro, «questa sentenza è la conseguenza della pavidità dei governanti europei, che si sono rifiutati di menzionare le radici cristiane nella Costituzione europea. È il segno dell’i-


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Multiculturalismi. Giovanni Reale contro la sentenza di Strasburgo: «Esprime un animus profondamente antireligioso»

«È la croce della libertà»

Non è un’imposizione confessionale, ma un’icona su cui riposano i valori e le radici della società occidentale. Che rischiamo di perdere di Riccardo Paradisi no spettro s’aggira per l’Europa a turbare i sonni della ragione illuminista, che genera laicità radicali e relativismo multiculturalista. L’Europa che paradossalmente ora mette d’accordo una cittadina italiana di origini finlandesi, talmente laica da chiedere e ottenere dal tribunale dell’Ue una sentenza per rimuovere i crocifissi nelle scuole, e un integralista musulmano come Adel Smith, che anni fa, per motivi diversi, manifestava la stessa pretesa. Questo spettro a quanto pare è il cristianesimo, il crocifisso è il pericolo, il simbolo che minaccia e opprime, il punto su cui convergono le ansie dei libertari e degli integralisti che vivono in Italia e in Europa.

U

È nota la posizione della Francia dove nelle scuole sono vietati i simboli religiosi in nome di una laicità repubblicana che non sembra aver risolto i problemi dei conflitti interreligiosi. Anche il governo spagnolo sta mettendo a punto un disegno di legge sulla libertà religiosa. Tra i provvedimenti previsti la rimozione dalle aule della scuola pubblica dei simboli religiosi che non abbiano «valore storico o artistico». La normativa, bontà sua non toccherà, i presepi, già banditi però da molte scuole elementari italiane, perché possono offendere bambini di altre religioni da quella cristiana. I presepi! Giovani Reale, il principale studioso italiano di filosofia antica, allarga le braccia di fronte a

questa offensiva contro la tradizione cristiana e i suoi simboli, ma esprime anche molta preoccupazione per questo acuirsi del sentimento antireligioso che trova sponda in istituzioni europee. «La richiesta di togliere il crocifisso deriva da una presunzione fatale – secondo Reale – da un’idea di onnipotenza culturale. Un atto di superbia assoluta, una cosa spaventosa, fatta in nome di tanti nobili parole: la scienza, il progresso, il pluralismo. Ma quale pluralismo? Quale libertà? Quella di un individuo o di un gruppo di pressione di offendere la storia, la tradizione millenaria, il senso comune dei popoli? Se vi dà noia il crocifisso non guardatelo. Ma se vi posate lo sguardo cercate di capire che quello non è solo

un simbolo religioso, è anche il simbolo di una cultura di libertà, di autentica libertà. Senza quel simbolo, senza Cristo, la storia europea sarebbe stata un’altra, e così le sue istituzioni, la sua cultura avrebbero preso direzioni diverse».

Non possiamo non essere cristiani insomma secondo Reale. E come la mettiamo con chi, di essere cristiano, anche solo crocianamente, non vuole proprio saperne? «La mettiamo co-

sì – risponde Reale – che se tu vuoi farla finita con la tua tradizione, con la religione dei tuoi padri, sei liberissimo di farlo, ma non hai nessun diritto di voler terminare anche la mia. Se invece il tuo intento è oscurare i simboli della mia tradizione perché provieni da una tradizione e da una religione diversa sono costretto a ricordarti che in questo Paese, in questo Continente, tu sei un ospite al quale niente e nessu-

forze principali secondo Reale, individuate, da Papa Ratzinger come i pericoli principali per la nostra civiltà: il nichilismo e il relativismo. «Per un nichilista nulla ha davvero valore, perché niente esiste. Sicché un simbolo forte come il crocifisso va bandito in quanto è la negazione vivente di questa posizione. Per un relativista niente ha valore perché tutto si equivale. Questi atteggiamenti stanno minando tutto. L’Europa è minacciata dalle stesse culture che ha partorito. A un giovanissimo musulmano di seconda

Stiamo rinunciando alla nostra identità. E la stiamo perdendo, lasciando il campo a nichilismo e integralismo

no pone dei limiti alla libertà d’espressione religiosa e pertanto sei tenuto a rispettare la mia tradizione, i suoi costumi, i suoi simboli religiosi. Che sono parte sostanziale di questo Paese e di questo Continente in cui tu hai deciso di venire». Agiscono in questa offensiva contro il crocifisso due

generazione inglese – racconta Reale – è stato domandato perché mentre il padre era ormai un musulmano perfettamente integrato nella cultura e negli usi inglesi lui era tornato a volgersi verso l’integralismo religioso. “Perché i miei coetanei inglesi – è stata la risposta – pensano solo alla birra e alle donne. Non hanno nessun valore in cui credere”. Ecco, noi stiamo rinunciando alla nostra identità. E per questo la stiamo perdendo, lasciando il campo al nichilismo o all’integralismo». Ma l’identità cristiana è un’identità aperta: la croce, prima di essere un simbolo religioso, è un simbolo di libertà: «Cristo ha detto: ”Il mio potere

non è di questo mondo”. Ha proposto il suo messaggio con l’amore, con il sacrificio e il dolore. Il paradiso cristiano non cresce all’ombra delle spade, ma della persuasione, della fraternità: “Ama il prossimo tuo come te stesso” e “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Non c’è nessun messaggio che sia al tempo stesso più intimamente liberale e più antitotalitario di questo».

Togliere il crocifisso, pretenedere di bandirlo significa forse, inconsciamente, voler sradicare questa filosofia. «Magari per imporre il simbolo di un muro vuoto, l’effigie della religione della laicità di Stato o del relativismo culturale: che sono due ideologie assurte a religioni. Perchè la laicità imposta che cosa è se non una pseudo religione?». Una sentenza del consiglio di Stato italiano di fronte a un precedente denuncia della signora Soile Lauti, che chiedeva la rimozione del crocifisso dalla scuola media frequentata dai suoi figli, aveva stabilito che il crocifisso: «Non è solo un’immagine religiosa ma un simbolo che evoca valori laici». Il crocifisso poteva restare nelle aule scolastiche dunque non perché ”suppellettile” o un ”oggetto di culto”, ma perché «è un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti) che hanno un’origine religiosa, ma che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato».


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Nel 1988 la grande scrittrice intervenne sull’eterna polemica

No, non lo togliete, è il simbolo dell’Uomo

«La croce rappresenta tutti; incarna la storia dell’umanità»: il celebre articolo di Natalia Ginzburg di Natalia Ginzburg Questo articolo di Natalia Ginzburg, che ieri è stato ricordato anche da L’Osservatore Romano, fu pubblicato da l’Unità il 25 marzo del 1988 in occasione di una delle ricorrenti polemiche sul crocifisso nelle scuole. È una delle più significative riflessioni sul valore simbolico della croce. icono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule di scuola. Il nostro è uno Stato laico che non ha il diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso. (...) Però a me dispiace che il crocifisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato. Ogni imposizione delle autorità è orrenda, per quanto riguarda il crocifisso sulle pareti. Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo. Un insegnante deve poterlo appendere, se lo vuole, e toglierlo se non vuole. Dovrebbe essere una libera scelta. Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini. Se uno solo dei bambini lo volesse, bisognerebbe dargli ascolto e ubbidire. Il crocifisso in classe non può essere altro che l’espressione di un desiderio. I desideri, quando sono innocenti, vanno rispettati.

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Nella pagina accanto il filosofo Giovanni Reale. Qui sopra Papa Wojtyla che porta la croce. A fondo pagina immagini di luoghi pubblici dove viene esposto l crocifisso Il Consiglio di Stato riteneva anche che la laicità dello Stato non è affatto intaccata dall’esposizione del crocifisso, anzi: appendere quel simbolo nelle aule, suggerisce agli scolari i valori a cui si ispira l’ordinamento costituzionale: «Il crocifisso svolgerà una funzione simbolica educativa a prescindere dalla religione professata dagli alunni».

Secondo l’organo d’appello della giustizia amministrativa, «È evidente infatti che in Italia il crocifisso esprime l’origine religiosa dei valori che connotano la civiltà italiana: tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona (...) Si tratta di valori che hanno impregnato di sè tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano». Ora la sentenza europea ribalta quella italiana: «La presenza del crocifisso potrebbe essere interpretata dagli studenti come un simbolo religioso, che avvertirebbero così di

essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione». Tutto questo «potrebbe fastidioso per i ragazzi che praticano altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose, o che sono atei». Insomma il crocifisso, il legno dove Gesù Cristo è stato inchiodato per non avere rinnegato ciò che diceva di essere, diventa un simbolo che minaccerebbe la libertà degli altri. Forse c’è qualcosa di più oscuro che lavora dietro questa sentenza. «È – dice ancora Reale – una profonda rivolta antireligiosa di questa tarda modernità. Nello specifico è la rivolta non solo contro il cristianesimo, ma contro un simbolo universale. Perché è di ogni uomo, anche del laico, dell’agnostico, dell’ateo l’esperienza del dolore e della croce. Che nessuna rimozione riuscirà a cancellare». Una rivolta contro la tradizione dunque e contro la realtà.

Il crocefisso è l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo «prima di Cristo» e «dopo Cristo». O vogliamo forse smettere di dire così? Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati. Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e

nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola. Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero.Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso d’una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.

Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente. Ha detto «ama il prossimo come te stesso». Erano parole già scritte nell’Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa. Il contrario degli stupri e dell’indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade. Si parla tanto di pace, ma che cosa dire, a proposito della pace, oltre a queste semplici parole? Sono l’esatto contrario del modo in cui oggi siamo e viviamo. Ci pensiamo sempre, trovando esattamente difficile amare noi stessi e amare il prossimo più difficile ancora, o anzi forse completamente impossibile, e tuttavia sentendo che là è la chiave di tutto. Il crocifisso queste parole non le evoca, perché siamo abituati a veder quel piccolo segno appeso, e tante volte ci sembra non altro che una parte del muro. Ma se ci viene di pensare che a dirle è stato Cristo, ci dispiace troppo che debba sparire dal muro quel piccolo segno. Cristo ha detto anche: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati». Quando e dove saranno saziati? In cielo, dicono i credenti. Gli altri invece non sanno né quando né dove, ma queste parole fanno, chissà perché, sentire la fame e la sete di giustizia più severe, più ardenti e più forti. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto, molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no. Essi sanno bene una cosa sola, che il credere e il non credere vanno e vengono come le onde del mare. Hanno le idee, in genere, piuttosto confuse e incerte. Soffrono di cose di cui nessuno soffre. Amano magari il crocifisso e non sanno perché. Amano vederlo sulla parete. Certe volte non credono a nulla. È tolleranza consentire a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri.


diario

pagina 6 • 4 novembre 2009

Polemiche. Il ministro della Giustizia in Parlamento: «Comunque, a questo punto occorre cercare la verità»

«Tutta colpa di Cucchi»

Per Alfano, la vittima firmò per non dare notizie di sé la famiglia ROMA. «Uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque ma non può privare nessuno della propria dignità, della propria salute e della propria vita. Ecco perché il governo è in prima linea nell’accertamento della verità. Ecco perché sentiamo per intero il dovere di impegnare tutte le nostre energie per accertare chi, con qualsiasi comportamento commissivo ovvero omissivo, ha determinato questo tragico quanto inaccettabile evento». È questo impegno del governo la buona notizia contenuta nella relazione che il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha fatto nell’aula del Senato sulla vicenda di Stefano Cucchi, il 31enne morto nella sezione penitenziaria dell’ospedale Pertini di Roma il 23 ottobre, una settimana esatta dopo un arresto per droga. «Non doveva morire», ha scandito il Guardasigilli a palazzo Madama ribadendo la sua volontà di fare luce sui fatti (anche la Commissione parlamentare sul Servizio sanitario nazionale ha aperto un’inchiesta). Gli elementi positivi però finiscono purtroppo qui: dopo le parole di Alfano ancora non è chiaro come e perché è morto Stefano Cucchi («arresto cardiaco» è tutt’ora la versione ufficiale), come si sia procurato i segni e le fratture che gli sfiguravano il corpo al momento della morte, perché la famiglia sia stata informata del decesso con parecchie ore di ritardo e solo attraverso il decreto del Pm che nominava un perito per l’autopsia, per quale motivo al detenuto sia stato assegnato un legale d’ufficio e non quello scel-

le si mischiano a produrre una sceneggiatura priva di spigoli in cui chi ha i lividi è sempre caduto dalle scale e non ha niente da dire sull’accaduto: il medico che visita Cucchi nel carcere di Regina Coeli riferisce, spiega Alfano, che lo stesso detenuto lamentava «un senso di nausea e di astenia» e parlava «di una caduta accidentale dalla scale». In ospedale poi il detenuto «ha mantenuto un atteggiamento scarsamente collaborativo, rifiutando la visita oculistica ed alcuni accertamenti radiografici

Il Guardasigilli ha raccontato che il ragazzo è caduto dalle scale dopo l’arresto, mentre era già in consegna alla polizia penitenziaria to da lui, come è possibile che Cucchi sia dimagrito di sei chili (dai 43 che pesava all’entrata ai 37 del suo cadavere) in una settimana di detenzione. Se ne occuperà la Procura, ovviamente.

Restano insomma dubbi, molti dubbi, ma comincia già a prendere forma – attraverso le informazioni fornite al ministro dall’ospedale e dall’Amministrazione penitenziaria – una versione “minimizzatrice” dell’episodio, una sorta di classico da B-movie carcerario, in cui violenza del sistema, omertà e codice delinquenzia-

tizie di sé ai genitori. «Voglio vederla, la firma di mio fratello», ha chiarito la sorella Ilaria, che ha seguito la relazione di Alfano dalla tribuna di palazzo Madama. «Informazioni poco credibili», dice il legale della famiglia, Fabio Anselmo: «Faccio anche fatica a capire come possa un ragazzo nella sua condizione fisica, debilitata e sofferente con una duplice frattura alla schiena, preoccuparsi di una normativa sulla privacy».

di Marco Palombi

ulteriori». Quanto alla famiglia, più volte presentatasi al Pertini per vedere il giovane e sempre respinta perché non autorizzata dal magistrato, non venne informata delle condizioni di salute del detenuto perché lui stesso «ha manifestato per iscritto la propria volontà di non autorizzare i sanitari al rilascio di notizie sul suo stato di salute ai familiari». Cucchi, dunque, dopo la caduta dalle scale, con atteggiamento «poco collaborativo» ma «sempre lucido» fino alla morte «improvvisa e inaspettata», non voleva dare no-

Chiesto il rinvio del processo sui diritti

E Berlusconi salta la prima udienza MILANO. Silvio Berlusconi chiede di rinviare l’udienza che dovrebbe riaprire i suoi processi dopo la bocciatura del Lodo Alfano perché il 16 novembre sarà impegnato al vertice mondiale sulla sicurezza alimentare che si terrà presso la sede della Fao a Roma. Annuncia, inoltre, la sua intenzione di partecipare a tutte le udienze del processo, lasciando intendere quella che sarà la sua strategia processuale per questo e per il processo in cui risponde per corruzione in atti giudiziari di David Mills. Il premier invoca il legittimo impedimento in un’istanza depositata dai suoi legali Piero Longo e Niccolo’ Ghedini nella cancelleria della I sezione penale del Tribunale di Milano, il collegio davanti al quale si svolgerà il processo in cui è imputato per frode fiscale, nell’ambito dell’indagine sui presunti fondi neri creati da Mediaset attraverso la compravendita dei diritti televisivi e cinematografici.

«All’esito della sentenza della Corte Costituzionale scrivono gli avvocati del capo del Governo - l’onorevole Silvio Berlusconi ritiene necessaria la sua partecipazione a ogni udienza dibattimentale». Nel bocciare il Lodo Alfano, la Consulta aveva invitato i giudici a tenere conto dei legittimi impedimenti degli imputati che ricoprono alte cariche istituzionali per fissare il calendario delle udienze. La Corte aveva inoltre motivato il no al Lodo anche col fatto che per le alte cariche il legittimo impedimento a comparire in un processo è già previsto dal codice di procedura penale, deve essere valutato caso per caso e non può essere automatico e generale. In apertura dell’udienza del 16 novembre, spetterà ai giudici decidere se accogliere o meno l’istanza di Longo e Ghedini, i due avvocati che, in futuro, potrebbero chiedere anch’essi il legittimo impedimento, essendo entrambi parlamentari.

Una cosa però, pur senza che sia stata detta esplicitamente, il Guardasigilli l’ha chiarita: lo stato di salute di Stefano Cucchi - l’accidentale caduta dalle scale per dire - cambia nei 35 minuti tra le 13.30 e le 14.05 del 16 ottobre, il giorno dopo l’arresto, mentre il detenuto è sotto la custodia della polizia penitenziaria. La mattina di quel venerdì Cucchi viene condotto in Tribunale per la convalida dell’arresto alle 9.20 circa: in attesa della direttissima il detenuto è parcheggiato nelle camere di sicurezza del palazzo di Giustizia e preso in consegna dalla polizia penitenziaria. Quando viene condotto in aula - circa tre ore dopo, intorno alle 12.30 prima di entrare si ferma a parlare brevemente con suo padre. Tutto normale. Durante l’udienza, poi, durata circa mezz’ora «non è stata riferita, né rilevata, nessuna anomalia, tant’è che l’autorità giudiziaria ha convalidato l’arresto» ritenendo la detenzione «compatibile con lo stato di salute dell’imputato». Alle 13.30 circa Cucchi torna nelle mani delle guardie penitenziarie e secondo i documenti approntati in quel momento è ancora tutto normale. Alle 14.05, però, cambia lo scenario: nell’ambulatorio del Tribunale il medico riscontra «lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente» mentre il detenuto lamenta pure lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori, queste ultime non verificate a causa del rifiuto dell’interessato. È allora che Cucchi, racconta il medico, se n’è uscito con «l’accidentale caduta dalle scale». Il ministro Alfano, invece, uscendo dal Senato ha voluto chiarire che in un paio di settimane il Cdm darà il via al suo “piano carceri”. Nuove strutture – per ora dal finanziamento incerto - che non rispondono alla domanda di fondo: oltre che costruire nuove prigioni, non è il caso di ripensare la prigionia?


diario

4 novembre 2009 • pagina 7

I dati della Ue dànno in leggero rialzo il nostro Pil per il 2010

La diciottesima vittima è della provincia di Salerno

Ue e Moody’s: l’economia italiana migliora

Un altro morto in Campania per la nuova influenza

BRUXELLES. Migliorano le prospettive economiche dell’Unione Europea, Italia compresa, nelle previsioni d’autunno di Bruxelles. «L’economia dell’Ue – ha detto ieri il commissario agli Affari Economici e Monetari Joaquin Almunia - sta uscendo dalla recessione. Questo è dovuto molto alle ambiziose misure intraprese dai governi, dalle banche centrali e dall’Ue che hanno non solo evitato un“meltdown” sistemico ma hanno anche fatto partire la ripresa. Proporremo all’Ecofin di confermare il 2011 come l’anno per applicare le exit strategy per tutti», ha confermato il commissario. Adesso è però essenziale, ha aggiunto Almunia, attuare «pienamente tutte le misure annunciate e completare la riforma del sistema bancario». Inoltre sulle prospettive di ripresa pesa la disoccupazione, mentre per l’Italia un grosso freno è rappresentato dal debito pubblico, ancora in crescita.

SALERNO. Un altro morto in Campania per l’Influenza A, il 18esimo in Italia. Si tratta di un musicista di 37 anni, Ferdinando Lettieri, che aveva patologie pregresse, morto nella Rianimazione dell’Ospedale di Salerno. L’uomo era residente ad Altavilla Silentina. Lettieri suonava la tromba e viveva con la madre e uno dei suoi sei fratelli ad Altavilla Silentina. Due anni fa era stato sottoposto a un trapianto di reni. La febbre, con temperature elevate, lo aveva colpito nel week end scorso, ed era stato ricoverato nel reparto di Nefrologia dell’ospedale di Salerno. Ieri l’altro il peggioramento delle condizioni generali e il trasferimento in Rianimazione, con respirazio-

A questo proposito, la Commissione Europea ha leggermente migliorato le stime sul Pil dell’Italia per il 2009, portandole da -5% a -4,7%. Nelle previsioni d’autunno, inoltre, per il 2010 l’Italia conoscerà una leggera ripresa con un +0,7% del Pil, che, a politiche invariate, dovrebbe consolidar-

E la cabina di regia finì commissariata Tremonti esclude dall’organismo tutti i ministri di spesa di Francesco Pacifico

ROMA. Certe giornate vanno consegnate agli annali. Ieri mattinata Giulio Tremonti si è visto riconoscere dai rigoristi di Moody’s «l’abilità di invertire la dinamica negativa del debito». Nel pomeriggio il suo principale oppositore, Gianfranco Fini, gli ha garantito un passaggio tutto sommato morbido della Finanziaria alla Camera, se il ministro si mostrerà sensibile alle richieste di spesa della maggioranza ed eviterà blitz come quello sul processo tributario.

Infondo poca cosa rispetto a quanto dovrebbe accadere domani all’ufficio di presidenza del PdL, quando il consesso delibererà la composizione della neonata cabina di regia sull’economia. Bene, l’organismo che doveva commissariare il ministro sarà formato dallo stesso titolare di via XX settembre, dal suo braccio destro in Parlamento Marco Milanese, dai capigruppi Cicchitto e Gasparri, dai triumviri del partito Bondi, La Russa e Verdini. Nessuno spazio per i “colleghi complottisti” Scajola, Fitto o Prestigiacomo, per i colleghi che da mesi chiedono soldi per le riforme e si sentono rispondere sempre e solo no. Sembra passato un secolo da quando Berlusconi gridava dalle stanze di Arcore: «Giulio pensa di dettare legge in casa mia» e faceva intendere un remake del 2004. Invece non sono trascorsi nemmeno dieci giorni e Tremonti è saldamente al suo posto. «Forse perché», spiega uno dei senatori che ha provato a rottamare il rigore del Tesoro a colpi di emendamenti, «all’interno della maggioranza non ci sono le condizioni per forzare Berlusconi e spingerlo a licenziare il suo ministro. D’altro canto, lo stesso Tremonti non può permettersi di passare di fronte all’opinione come un novello Padoa-Schioppa». Il presente quindi sembra sorridere al tributarista pavese. Ma lo stesso non si può dire per il futuro: a breve ci sono i soldi dello scudo fiscale da blindare, nel medio e lungo termine c’è una crisi che la Ue vede più rosea del pre-

visto ma che potrebbe presentare pericolose sorprese in termini occupazionali. Così né il Pdl né il ministro possono fare a meno l’uno dell’altro. E proprio questo senso di debolezza costringe le parti a stringere compromessi. Un compromesso come quello raggiunto con il famoso comitato per la politica economica del Pdl che – racconta un parlamentare molto caustico – «serve al ministro per diffondere il verbo nel partito e al partito per dimostrare di riuscire a farsi ascoltare dal ministro». Oppure il compromesso per il passaggio della manovra al Senato. Che sembrava un ostacolo insormontabile con la controfinanziaria di Mario Baldassarri e le sue proposte di abbassare l’Irap e l’Irpef, di introdurre il quoziente familiare e la cedolare secca sugli affitti. A quanto pare il ministro dell’Economia avrebbe disinnescato la cosa sbloccando i fondi per Roma Capitale ((347 milioni di euro per legge triennale e 500 per arginare il buco lasciato da Veltroni) e promettendo un ordine del giorno nel quale il governo riconosce la necessità di tagliare l’Irap e si impegna ad affrontare il problema della copertura alla Camera. Eppure proprio a Montecitorio potrebbero saltare tutti gli equilibri: da un lato c’è Berlusconi che senza una misura di sviluppo farebbe fatica a chiudere altri fronti come la giustizia o i rapporti con le Regioni; dall’altro si avvicina la scadenza dello scudo fiscale. Nota il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino: «Penso che alla Camera potrebbero riaprirsi importanti spazi per il taglio dell’Irap. Anche perché nel Pdl tagliare le tasse è un imperativo condiviso da tutti. L’importante è trovare la copertura la spesa necessaria».

Verso un’intesa sull’Irap: in cambio di un taglio risicato, soldi al fondo per le Pmi e alla Banca del Mezzogiorno

si nel 2011 con un +1,4%: «Nel 2010 e nel 2011 l’attività economica dovrebbe riprendersi gradualmente - dice il commento ai dati. Tuttavia l’economia italiana paga debolezze di vecchia data: dalla scarsa produttività, al basso potenziale di crescita, al peso dell’elevatissimo debito pubblico. La ripresa nei prossimi due anni sarà guidata sopratutto dai consumi privati e dalle esportazioni». Moderatamente ottimista sulle prospettive dell’economia italiana anche l’agenzia Moody’s, che ha confermato il rating sull’Italia a AA2: il deterioramento dei debito pubblico è considerato infatti «compatibile con la capacità di aggiustamento dei conti pubblici».

Su questo versante si stanno esercitando da giorni i funzionari del Tesoro. E tanto basta per rafforzare la tesi che vorrebbe un intervento diretto alla Camera di Berlusconi per un taglio risicato dell’Irap, con Tremonti che darebbe il suo assenso in cambio di un pacchetto di misure su temi a lui molte cari: su tutti il fondo per le Pmi e la Banca del Sud.

ne assistita. Lettieri è morto nel corso della notte: al momento sono 18 le vittime accertate in Italia del virus A, nove solo in Campania.

Negativo ai test, invece, il bambino deceduto all’ospedale romano Villa San Pietro. «Nessun allarmismo», è l’appello del sottosegretario Paolo Bonaiuti. E anche il viceministro alla Salute Ferruccio Fazio ieri ha lanciato un nuovo, ennesimo messaggio tranquillizzante: «I morti – ha spiegato - ci sono da noi, ma ci sono molti di più in altri Paesi: 44 in Francia, 177 in Inghilterra e molti ancora in Spagna. Da noi ci sono morti in percentuali minori di altri Paesi». Sempre secondo Fazio «le categorie a rischio andrebbero vaccinate al più presto possibile» soprattutto coloro che sono «affetti da patologie gravi perché muore chi sviluppa una polmonite interstiziale. Fino ad ora solo due persone che non presentavano malattie gravi sono decedute. Su queste stiamo facendo accertamenti». Un chiarimento con le Regioni sui vaccini è previsto domani in Conferenza Stato-Regioni. Intanto, l’Aduc lancia l’allarme: attenzione ai falsi prodotti che pretendono di diagnosticare, prevenire, mitigare, trattare o curare il virus H1N1.


politica

pagina 8 • 4 novembre 2009

Paradossi. Tutte le incongruenze nel nuovo volume di Bruno Vespa e in un saggio del presidente della Camera

Due libri, due partiti Giustizia, leadership, riforme: Berlusconi e Fini non vanno d’accordo nemmeno in libreria di Errico Novi

ROMA. A Bruno Vespa non riesce l’impresa più ardua: ricomporre le divisioni che il suo libro inevitabilmente registra. Consegna alle agenzie la parte in cui Donne di cuori, che sarà in vendita dopodomani, raccoglie le considerazioni di Gianfranco Fini. Tra le altre, anche quella in cui il presidente della Camera pone una condizione al riconoscimento della leadership berlusconiana: «Se la intendiamo come la intendono quasi tutti i vocabolari politici non c’è nessuna discussione» ma, dice Fini, «se la si intende come monarchia assoluta, allora no. E talvolta accade che Berlusconi confonda la leadership con la monarchia assoluta». Nello stesso comunicato Vespa tiene a rilevare come la conversazione con la Terza carica dello Stato debba essere considerata poco più che una memoria del passato, giacché è avvenuta «prima del chiarimento di fine ottobre sugli organi di partito» tra lo stesso Fini e Berlusconi. Serve a poco. A testimoniare che il Pdl è fondato sull’accordo di due figure ormai difficilmente compatibili, concorrono non solo le parole di Fini sul “regime interno” ma anche quelle registrate da Vespa nel colloquio con il premier sul Pd che «deve cambiare registro se vuole le riforme». E soprattutto, a completare il quadro scomposto del partito di maggioranza si aggiunge un altro libro, scritto proprio dal presidente della Camera e in uscita oggi: Il Futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989. Il passaggio più importante riguarda appunto le riforme: l’Italia è in mezzo al guado, ricorda Fini all’immaginaria platea dei giovani nati nell’anno della caduta del Muro, e per uscirne serve «una grande stagione costituente: il cambiamento delle regole riguarda tutti, non solo una parte». Mentre «una riforma a colpi di maggioranza serve solo a sancire la divisione del Paese». Sancita è di sicuro la diversa visione che Berlusconi e Fini danno della legislatura. Due libri, due partiti. Diversi nello spirito, nella concezione del rapporto con l’avversario. An-

che nella scelta dell’editore, ovvio: le spigolose affermazioni del Cavaliere sono affidate a un libro che Bruno Vespa pubblica con la Mondadori, il “manifesto” del co-fondatore esce con Rizzoli. E in mezzo ci sono le prese di posizione dei “colonnelli”, gli stessi di cui Fini parla con Vespa: non si dice geloso di quelli che un tempo stavano con lui in An e ora si riconosco prevalentemente nel presidente del Consiglio, «meno male che c’è stata una certa

suoi di un’elezione «dal basso» dei coordinatori regionali, finora nominati da Berlusconi.

Non funziona più il partito monarchico, ammesso che il presidente della Camera abbia ragione nell’intravederne i contorni, seppure a intermittenza. Non funziona più, e la sensazione generale è di un premier che fa sempre più fatica a tenere tutto insieme. Si batte perché al principio dell’agenda politica sia inserito appunto l’interven-

Mentre il Cavaliere continua a prefigurare novità costituzionali a colpi di maggioranza, la Terza carica dello Stato invoca «una nuova stagione costituente» perché «le regole riguardano tutti» scomposizione del rapporto 70 a 30 tra Forza Italia e Alleanza nazionale», osserva. E d’altronde anche se la struttura del Pdl nei suoi livelli superiori sembra egemonizzata dai berlusconiani (lo stesso triumviro proveniente da via della Scrofa, Ignazio La Russa, svolge più un ruolo di mediazione che di rappresentanza postaennina), i ragionamenti di Fini sulla democrazia interna cominciano a farsi strada, o quanto meno ad essere corroborati dai fatti. Come leggere diversamente la vicenda del Pdl Sicilia? Tutto ruota in quel caso attorno alla richiesta avanzata da Micciché e dai

to sulla giustizia. Ma per ottenere il nulla osta dagli alleati, cioè dalla Lega e dallo stesso Fini, deve firmare concessioni impegnative. Al Carroccio garantisce da una parte la doppia candidatura forte al Nord per le Regionali (Veneto e Piemonte), dall’altra un minimo di apertura sulle riforme non solo all’Udc ma soprattutto al Pd, che a differenza di Pier Ferdinando Casini è collaborativo sul federalismo ed è dunque sponsorizzato da Bossi come interlocutore anche per le altre partite istituzionali. Nello stesso tempo il presidente del Consiglio è costretto a lasciare aperto più di uno spiraglio alla componente

finiana del Pdl (che esiste e conta decine di parlamentari tra Camera e Senato, anche se in proposito l’interessato si schernisce con Vespa): va avanti infatti il lavoro per rimodulare la legge sulla cittadinanza agli immigrati, con variazioni sul testo di Fabio Granata e Andrea Sarubbi che lo renderebbero più digeribile per la maggioranza.

È stato proprio il Cavaliere a legittimare queste concessioni sulla cittadinanza, guarda caso sempre attraverso una delle tante battute registrate da Vespa in Donne di cuori. Si dà il caso che l’operosità diplomatica di Fabrizio Cicchitto e altri, alla

Camera, finirà assai probabilmente per provocare il dissenso della Lega: è qui che la leadership di Berlusconi, paradossalmente, rischia di mostrare una fragilità: nel rapporto con il Carroccio messo a dura prova dal sempre più impegnativo lavoro di mediazione con certe avanguardie moderate della maggioranza. Tutto ruota immancabilmente attorno alla giustizia, e agli ostacoli che Niccolò Ghedini e la sua Consulta Giustizia del partito incontrano per tenere insieme riforme ampie dell’ordinamento e norme sui processi. Ancora nell’intervista a Vespa, il premier ricorda d’altra parte che «ogni capitolo

Il Pdl teme le barricate dell’opposizione, anche il relatore Abrignani ipotizza di rinviare tutto a dopo il voto

Fumata nera sull’abolizione della par condicio ROMA. Sono incerti i primi passi della legge che dovrebbe “cancellare” la par condicio. A lavorarci è Ignazio Abrignani, deputato del Pdl alla prima legislatura e responsabile del dipartimento elettorale di via dell’Umiltà. Ieri ha visto i suoi capigruppo, Fabrizio Cicchitto e Italo Bocchino: nessuna particolare obiezione – neanche dal vicepresidente ex An – sullo scarno articolato che resuscita gli spot a pagamento e introduce la ripartizione delle tribune televisive in base ai voti, con salvaguardia dei diritti delle minoranze. La difficoltà però è nel forte ostruzionismo che già si annuncia da parte delle opposizioni: soprattutto ddel Pd,

che ieri con Marina Sereni ha chiesto di discuterne dopo le Regionali, e dell’Italia dei valori, che con Di Pietro ha paragonato il provvedimento all’olio di ricino. «Il gruppo valuterà i tempi e i modi in cui far calendarizzare la proposta, perché per renderla operativa per le prossime elezioni occorre che venga approvata prima del 20 febbraio», dice lo stesso Albrignani, «altrimenti rischiamo solo di far perdere tempo al Parlamento: la questione va studiata bene per capire gli spazi che ci sono in commissione e in aula sia alla Camera sia al Senato e sappiamo che sarà osteggiata dall’op(e.n.) posizione».


politica

4 novembre 2009 • pagina 9

Castiglione e Nania al lavoro per nominare nuovi coordinatori provinciali

Cadono le prime teste del Pdl-Sicilia di Alfonso Lo Sardo

PALERMO. C’era una volta il Pdl in Sicilia, oggi invece c’è il Pdl-Sicilia. Sembra un gioco di parole, tra il serio e il faceto e invece trattasi di una vera e propria scissione che si consuma dopo aver preso forma e sostanza nei mesi passati. Gianfranco Miccichè e company hanno preso coraggio e hanno dato vita a un nuovo gruppo all’Assemblea regionale siciliana, dopo aver fatto la stessa cosa in diversi enti locali tra cui il comune e la provincia di Palermo. Lo scontro tra le due anime di quella che fu Forza Italia, ossia quella istituzionale del tandem Schifani-Alfano da una parte e quella di Miccichè-Dell’Utri dall’atra, giunge così al suo momento finale e in ballo non vi è soltanto la supremazia nel partito, ma anche il futuro del governo regionale Lombardo.

del programma è stato liberamente sottoscritto da tutti coloro che lo sostengono: questo vale per la giustizia come, ad esempio, per il federalismo». Nell’anticipazione di Donne di cuori diffusa ieri, il conduttore di Porta a porta fa dire a Berlusconi che ci sarà la «separazione tra avvocati dell’accusa e magistratura giudicante», cioè la separazione delle carriere, con relativa modifica del siste-

più distesi, dedicati a Gianfranco Fini, e soprattutto dall’incedere celebrativo e liberatorio che il presidente della Camera esibisce nel suo libro. Il Futuro della Libertà concede digressioni pacificatorie persino verso il ’68. E quando proprio Fini vuol rivendicare l’appartenenza al campo dei conservatori, lo fa non solo con Popper e Dahrendorf, ma persino con l’esaltazione dei paninari degli anni

Oggi esce “Il Futuro della libertà”, scritto dall’ex leader di An. Che a sua volta, nell’intervista al conduttore di “Porta a porta”, imputa al presidente del Consiglio un’idea «monarchica» della leadership ma elettorale del Csm.

Anche più significativi sono probabilmente i passaggi che si riferiscono alla tempesta mediatica dei mesi scorsi – e involontariamente a quella più recente che ha travolto Piero Marrazzo – in cui il premier dice a Vespa che «nessuno dispone di ‘armi di ricatto’ nei miei confronti» e che «la risposta vale per oggi come per il passato: quando nei miei confronti sono state avanzate richieste che nel giudizio mio e dei miei legali apparivano ricattatorie, mi sono rivolto immediatamente rivolto all’attività giudiziaria». Al di là del potenziale rivelatore, c’è un tono che distingue i paragrafi “berlusconiani” di Donne di cuori da quelli, assai

Ottanta, «ingiustamente bistrattati» anche se contribuirono «a picconare il muro di Berlino». Una sorta di “sincretismo pop” caro a finiani del Secolo d’Italia come Luciano Lanna, messo in scena mentre Berlusconi è affaccendato in tutt’altre questioni. Come quella sul processo per i diritti Mediaset, in vista del quale i legali del Cavaliere hanno già notificato la richiesta di legittimo impedimento. E come quelle affidate al Guardasigilli Angelino Alfano, che due giorni fa mentre le agenzie diffondevano le condizioni del premier per il dialogo sulla giustizia, avvertiva: «Sulla riforma possiamo procedere anche da soli». L’esatto contrario di quello che il costituente Gianfranco Fini propone.

È infatti il governatore il vero ispiratore e promotore di questa faida interna al Pdl, nonché sponsor di tutte le scissioni che stanno interessando, bene o male, tutti i partiti siciliani, da quelli del Pd, dove l’asse Cracolici-Lumia, stampella del governatore nei momenti di difficoltà, è stato messo in discussione da quello che è uscito vincente dalle primarie di Lupo e Mattarella, alla scissione che interessa Alleanza nazionale, un partito che non è riuscito a preservare l’unità, se è vero come è vero che è stato Gianfranco Fini - nonostante le sue smentite - a benedire da Roma la nascita del Pdl-Sicilia, in barba al volere dei suoi colonnelli Gasparri, La Russa e Matteoli. A mantenere compatto il proprio schieramento, il partito dell’Udc, estromesso dal governo della regione nonostante il consenso dei siciliani. E così accade che il quadro politico siciliano si presenti in modo confuso, con la disciplina di partito che non esiste più e con il trionfo del trasversalismo e delle correnti. I ribelli di Miccichè, non potendo dar vita al partito del Sud, ripiegano così sul Pdl-Sicilia, e i due coordinatori regionali del Pdl ufficiale, Giuseppe Castiglione e Domenico Nania, non ci stanno e assicurano che è in corso la nomina di nuovi coordinatori provinciali, in sostituzione di quelli dei cosiddetti ribelli, e per far ciò hanno più volte tirato in ballo l’ortodossia e richiesto l’intervento dei coordinatori nazionali La Russa, Bondi e Verdini, che in una nota congiunta hanno invano invitato i promotori del Pdl-Sicilia a soprassedere dall’iniziativa, dal momento che simbolo e nome relativi al Popolo della libertà sono nell’esclusiva disponibilità del partito. Ma dall’altra parte la risposta è stata picche. Quali possono essere, quindi, le conseguenze politiche? Il governo Lombardo è allo

stremo, paralizzato nella sua azione politica, perché incapace di ottenere la maggioranza in aula e l’immobilismo dell’attività legislativa ne è una naturale conseguenza. La spesa comunitaria regionale è bloccata, il settore delle opere pubbliche è al palo e gli agricoltori siciliani si sono già presentati più volte sotto le finestre del governatore Lombardo per denunciare l’abbandono del comparto da parte di palazzo d’Orleans. Il tasso di disoccupazione in Sicilia è al 15,6%, il doppio di quello nazionale, manca una politica delle infrastrutture e un piano di sviluppo. La maggioranza politica, Lombardo non ce l’ha più e oggi l’unica alternativa credibile e che non risponda a esigenze di trasformismo, rebus sic stantibus, è il ritorno alle urne. Silvio Berlusconi, preso dai suoi problemi, non sembra interessarsi al caso Sicilia e nel suo partito, si sa, l’ultima parola è la sua. Peccato che non l’abbia ancora pronunciata. Gianfranco Fini apre le ostilità con una guerra di posizione contro Berlusconi per la leadership nel Pdl e lo fa iniziando dalla Sicilia, che non è di certo l’ultima piazza, in un momento abbastanza delicato per il governo nazionale e per il premier stesso, circondato da mille problemi e alle prese con gli equilibrismi di un governo che non riesce a rispondere agli ultimatum della Lega. Fanno sorridere, inoltre, oltre che risultare offensive per l’intelligenza, le dichiarazioni di Marcello Dell’Utri, che si smarca dall’operazione del pupillo Miccichè, dicendo che ha fatto tutto lui e che non ne era a conoscenza.

Nel pieno della paralisi regionale, a mantenere compatto il proprio schieramento, è il partito dell’Udc

Ebbene, in Sicilia tutti sanno che Miccichè non solo è una creatura di Dell’Utri, ma che non esiste alcuna sua mossa politica che egli possa porre in essere senza la sua autorizzazione. La realtà del quadro politico siciliano oggi premia il trasformismo e la lotta tra le correnti, l’arrivismo di chi si venderà a uno schieramento piuttosto che a un atro, perché tutti si sentiranno determinanti per far oscillare il pendolo da una o dall’altra parte. Saverio Romano, segretario Udc Sicilia, rinunciando alle poltrone del Lombardo-bis lo aveva detto e in tempi non sospetti: «Lombardo promuove il mercato delle vacche e il suo obiettivo è rompere i partiti e governare con parti di essi, in una logica da capopartito piuttosto che da presidente di tutti i siciliani». Oggi le cose stanno così: è paralisi alla regione Sicilia e il cittadino fatica a capire e ad accettare che in un momento di grave crisi economica e sociale, il Palazzo si diverta a creare nuovi gruppi e a governare in spregio alla sua volontà elettorale.


panorama

pagina 10 • 4 novembre 2009

Strategie. L’ad di Fiat e Chrysler oggi spiegherà agli americani quale sarà il loro futuro tricolore

La grande maratona di Marchionne di Vincenzo Bacarani opo la maratona di New York di pochi giorni fa, arriva la maratona di Auburn Hills, piccola città del Michigan (Usa) di 21 mila abitanti, sede del quartier generale della Chrysler. A correrla, ma solo verbalmente, ci sarà però un solo atleta: Sergio Marchionne, amministratore delegato Fiat che per sei ore illustrerà a giornalisti, esperti di mercato e addetti al settore che cosa sarà e che cosa potrà diventare il marchio americano, ora targato Fiat, negli anni a venire. E si tratterà di una vera e propria maratona oratoria.

D

Forte degli ultimi positivi risultati di mercato che – soprattutto grazie agli incentivi – hanno visto l’azienda del Lingotto guadagnare oltre un 15 per cento in più di vetture immatricolate rispetto allo stesso periodo del-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

l’anno scorso (e a settembre c’era già stato un risveglio con un più 6 per cento), oggi Marchionne spiegherà agli americani quali saranno le strategie di mercato e quali saranno i modelli Chrysler da salvare e quelli da gettare via. Dirà anche quali saranno le vetture Fiat, Alfa e Lancia che verran-

di incentivati e di un riequilibrio di bilancio nel giro di due anni. Periodo non molto breve, anche perché ci sono da restituire oltre 8 miliardi di dollari di aiuti pubblici elargiti dal governo Obama e in America i prestiti dello Stato – cioè dei contribuenti - devono essere restituiti, anche se qualcuno

Sarà una conferenza di sei ore per illustrare i piani industriali, le vetture nuove e quelle italiane che saranno ritoccate per il mercato Usa no inserite nel circuito di mercato statunitense. Si dà quasi per certo che sarà la Cinquecento a fare da testa d’ariete con il modello Abarth che verrà prodotto in Messico e che verrà commercializzato negli States nel 2011. Nell’anno successivo (cioè il 2012) dovrebbero debuttare sul mercato americano alcuni modelli Alfa e Lancia (si parla della Musa). Sul fronte della produzione made in Usa, verrà privilegiato il marchio Jeep mentre alcuni modelli Chrysler adotteranno tecnologia Fiat. Sempre secondo indiscrezioni, per il marchio statunitense si parla di 23 mila eso-

dà per scontato che né Chrysler, né General Motors (tra tutte e due hanno ottenuto 13 miliardi di dollari in prestito) riusciranno a onorare il debito nei tempi previsti.

Anche per l’Italia è prevista la presentazione del piano industriale Fiat. L’incontro tra Marchionne, sindacati e governo si terrà tra domani e il 26 novembre, ma molto probabilmente a metà mese. «Stiamo aspettando notizie ufficiali sulla data - dice a liberal Bruno Vitali, segretario Fim-Cisl responsabile del settore auto – Siamo stanchi di sentirci dire che in

Polonia in un solo stabilimento vengono prodotte 600 mila auto, quante da noi che abbiamo cinque stabilimenti. Bisogna pensare che oggi la sfida mondiale si gioca sull’aggiornamento tecnologico e aspettiamo chiarimenti e notizie su quest’aspetto». Si parla poi insistentemente di un ritorno di produzione della Panda dalla Polonia in Italia (e specificatamente a Pomigliano d’Arco) e tuttavia continua la cassa integrazione. E proprio ieri gli ex operai dell’Alfa di Arese hanno bloccato l’autostrada MilanoVarese all’altezza dello svincolo di Arese per protestare contro il trasferimento di operai dello stabilimento milanese finiti in cassa integrazione al Lingotto a Torino. «Siamo in un periodo di evoluzione – dice Roberto Di Maulo, segretario generale del sindacato autonomo Fismic – aspettiamo gli eventi. Di certo non possiamo andare avanti a forza di incentivi indiscriminati. All’estero li stanno togliendo. Se continuiamo a tenerli, rischiamo di ritrovarci nella situazione del 2001 quando le case straniere stravendevano in Italia grazie agli incentivi che avevamo solo noi».

La fiction di Alberto Sironi non è bella, ma almeno le ha suonate al Grande Fratello

GF10: colpito e affondato (da Pinocchio) ldo Grasso ha stroncato l’ultima versione televisiva di Pinocchio. Ha scritto che hanno sbagliato tutto: attori, sceneggiatura, novità. Forse ha ragione. Ma c’è un buon motivo per fare l’elogio del Pinocchio di Alberto Sironi: ha battuto il Grande Fratello. Ah, che grande soddisfazione. E, a pensarci bene, chi se non Pinocchio poteva combinare questo bello scherzetto? Sarà come dice Grasso ossia che il Pinocchio di Comencini era un’altra cosa, che il Pinocchio di Benigni era più godibile. Ma tutto ciò riguarda la critica televisiva.

A

Noi qui vogliamo solo esprimere uno sfogo: finalmente c’è qualcuno che gliele suona a quelli del Grande Fratello. Per capirci: Alessia Marcuzzi era una ragazza simpatica, ma da quando si è messa a condurre il GF - chi scrive bene del Grande Fratello scrive così: GF - è diventata antipatica. La sua pretesa di prendere sul serio le cavolate che succedono nella Casa - scrivo con la maiuscola per trasmettere l’enfasi che la conduttrice mette sulla parola - è qualcosa che ha a che fare con la psicanalisi (oltre che con il contratto e la carriera, si capisce). Per questo motivo vorrei dire a Grasso: va

be’, il Pinocchio di Sironi non sarà una grande cosa, non è neanche lontanamente paragonabile al Pinocchio di Comencini e Mastro Geppetto in quelle condizioni ci fa davvero male al cuore, ma se anche un Pinocchio ridotto così ha battuto quella schifezza del Grande Fratello, caro allora, Grasso, non è già questo un validissimo motivo per congratularsi con Sironi e perfino con la Littizzetto? «Da sempre», dice Grasso, «i grandi lettori di Pinocchio raccomandano: bisogna leggere Le avventure di Pinocchio senza lasciarsi traviare da pedagogisti, sociologi e psicoanalisti. Il libro di Collodi va preso per quello che è: un raffinata e divertita replica in parodia di alcuni celebri episodi della grande letteratura, da un lato, e una spietata descrizione dell’uomo, dall’altro, colto

nello stato di disagio più elementare: fame, cattiveria, sofferenza. Perché allora cedere a tentazioni metalinguistiche (inserire lo scrittore Carlo Collodi all’interno della storia) e, peggio ancora, piegarsi al sociologismo d’accatto, allo psicologismo da rotocalco del padre che impara a conoscersi come padre? Ma per favore, Geppetto è un’invenzione unica e prodigiosa e, in quanto tale, va tutelata». Sacrosanto, professor Grasso. Al diavolo i pedagogisti e anche gli strutturalisti, quelli che ti vogliono dimostrare che Pinocchio va letto così e colì perché i livelli di lettura sono molteplici. Ma andate al diavolo e fatemi leggere come mi pare e piace e non toglietemi il piacere di leggere il libro di Collodi a mio figlio e ai miei nipoti così e semplicemente così. Ma che dire di

quelli che ti vogliono spiegare come va visto il Grande Fratello? Che dire di quelli che ti vogliono far notare le implicazioni sociali del Grande Fratello? Che dire di quelli che ti dicono che la trasmissione di Canale5 ha cambiato il costume italiano? Tutte stupidaggini. Imbecillità. Inintelligenza (si può scrivere? Il pc mi dice che la parola è sbagliata, ma anche il pc è un po’ fesso).

Il Grande Fratello è un delitto contro la vita dello spirito (ma anche della carne). Ragion per cui esultiamo e leggiamo questi dati: Grande Fratello battuto da Pinocchio. La fiction di Raiuno, pur calando negli ascolti, ha ottenuto il 26,39% di share con 7.484.000 spettatori, mentre il reality di Canale 5 ha raggiunto il 24,78%, con 5.535.000 persone. Lunedì è stata trasmessa la seconda puntata di Pinocchio: la prima, trasmessa domenica sera, aveva avuto 7.723.000 spettatori (31,79%). L’esordio del Grande Fratello 10, lunedì scorso, aveva raggiunto il 30.87% di share (6.047.000 persone). Speriamo che a ognuno di questi signori cresca il naso di Pinocchio per aver mentito a se stessi: anche a loro, infatti, in fondo al cuore, il GF fa schifo.


panorama

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Conti in rosso. Lo “stimolo” di Stato ha prodotto qualche segnale positivo negli Usa. E molte incertezze a Wall Street

Quando i governi crollano in Borsa di Carlo Lottieri opo una settimana (la scorsa) piuttosto negativa, con la borsa italiana che ha perso più del 4%, anche l’inizio di novembre non è dei migliori. E pare proprio che la crescita dei corsi azionari avutasi da marzo 2009 ad oggi sia finita. Come rileva anche il nuovo numero di Barron’s, molto dipende dalla politica statunitense. Nel Senato, in particolare, è forte l’inquietudine su cosa potrà succedere al mercato della casa quando il programma di finanziamenti e agevolazioni fiscali avrà esaurito la sua azione. Simile schema in Europa, dove il settore automobilistico ha vissuto un quarto d’ora di serenità grazie agli incentivi pubblici, ma è evidente che prima o poi bisognerà tornare alle logiche di mercato. Con questo non si vuol sostenere che necessariamente le borse siano destinate a scoppiare a breve (i manager interpellati da Barron’s restano sostanzialmente rialzisti), ma certo la situazione resta difficile.

D

Ogni volta che la borsa scende, a finire sul banco degli im-

I titoli tornano in ribasso dopo mesi di euforia. La responsabilità è anche di Washington e di un interventismo che fa temere nuove bolle putati è il mercato. La responsabilità è addebitata agli speculatori e a un’economia “fuori controllo” che non risponde alle decisioni dei politici. L’analisi però fa sorridere, perché quando si osservano più da vicino le cose è facile vedere come gli speculatori faranno anche la loro parte, ma molto su-

periore – per ragioni evidenti – è il ruolo perturbatore dei governi. Una cosa riesce sempre più chiara: e cioè che gli stimoli di Stato hanno il fiato corto e che di “exit strategy”, per ora, non si parla.

Solo qualche giorno fa la stessa Casa Bianca ha ammes-

so che l’insieme delle iniziative di spesa predisposte dall’amministrazione ha creato solo 640 mila posti. Poiché il costo complessivo degli stimoli è di 787 miliardi di dollari, ciò significa che fino ad oggi ogni posto è costato un milione di dollari, che impiegati altrove avrebbero – con ogni probabilità – dato frutti migliori. Si può sperare che nei mesi a venire quella semina produca altro raccolto, ma anche le aspettative più rosee (3,5 milioni di posti) non sembrano giustificare un investimento tanto massiccio. Soprattutto, bisognerebbe cominciare a comprendere quanto sia perturbante l’azione dei governi. È significativo che ormai gli analisti parlino apertamente di nuove bolle, quale conseguenza della debolezza del dollaro e dell’espansione monetaria. È questa, ad esempio, la tesi di Daniel Roubini, che punta il punto molto più su chi crea questo sistema di incentivi che non con chi, come ogni operatore finanziario, in tale quadro si muove e da questa situazione punta a trarre benefici. Poi è chiaro che scelte politiche espansive e redistributive come quelle che con particolare in-

tensità hanno dominato l’economia occidentale negli ultimi due anni sono anche il risultato di pressioni lobbystiche. Le grandi banche e aziende cospirano per avere un quadro legale che faciliti la loro iniziativa e permetta di fare soldi agevolmente. Ma allora non è proprio il “greedy capitalist” che va messo sotto processo, ma semmai quel formidabile anfibio – a metà tra politica ed affari – che domina le grandi capitali.

Gli autentici speculatori di mercato che comprano a poco nella speranza di vendere a molto possono al più fare profitti alle spalle del “parco buoi”, quando riescono a muovere quantità ingenti di risorse e trascinano su e giù chi farebbe bene a mettere i propri soldi sotto il materasso. Ma non sono loro all’origine delle maggiori turbolenze. Dietro ai guai borsistici, non c’è insomma la mano invisibile di Adam Smith, ma invece la mano assai ben visibile della politica: quel concentrato di interessi, populismo e volontà di dominio che già ha prodotto la Grande Depressione e che ora rischia di cronicizzare la crisi attuale.

Internet & Politica. Decolla il magazine online dell’Unione di Centro del Lazio

Cominciamo a leggere “Il bene comune” di Ruggiero Capone

ROMA. «Contro la tentazione, sempre più diffusa, di considerare la politica un fardello di cui liberarsi presto, e in una giungla di dossier, di video, di foto rubate, di registrazioni devastanti, di pedinamenti che sta sommergendo ciò che resta del dibattito pubblico, nasce Il Bene Comune», con queste parole Luciano Ciocchetti (parlamentare dell’Udc e segretario della formazione nel Lazio) tiene a battesimo il suo giornale online. Nei fatti l’Udc del Lazio parte lancia in resta, disposta a non fare sconti ad alcuna formazione politica.

nelle maggiori televisioni non s’è fatto altro che parlare di transessuali, dimenticando che la gente comune ha altri problemi. All’uomo della strada preme più sapere che verranno dimezzati i tempi dei ricoveri o delle analisi nella sanità pubblica, piuttosto che conoscere la vita dei trans e dei loro clienti vip».

«Io parlo con la gente e non credo che i dibattiti televisivi soddisfino il pubblico -

Il giornale sarà «uno strumento interclassista vicino alla gente» che non si riconosce nelle notizie diffuse oggi dai media tradizionali

«Lavoriamo per il bene comune», spiega Luciano Ciocchetti, che ha presentato la sua creatura editoriale ieri alla Camera dei Deputati. «Non è un giornale in rete che s’omologherà a ciò che si legge in genere - spiega Roberto Rao (capogruppo Udc in commissione di vigilanza Rai) - l’idea di Ciocchetti è farne uno strumento interclassista vicino alla gente comune, operai, artigiani, docenti, casalinghe. A chi non si riconosce, e non nutre interesse, verso gran parte delle notizie sotto i riflettori di televisioni e carta stampata. In questi giorni, per esempio,

sostiene Ciocchetti - oltre la casa del Grande Fratello e Porta a Porta ci sono i problemi dell’intera Italia. Sono un moderato, intendo chetare gli animi, certo che la lotta di classe abbia solo prodotto fenomeni degenerativi, eversivi. Per prevenire il malcontento i partiti devono tornare tra l’elettorato, ascoltando le esigenze dei lavoratori e non dei delegati dei poteri forti. Credo nessuna delle grandi città italiane abbia in questi ultimi vent’anni guardato ai bisogni della maggior parte della popolazione -

continua Ciocchetti - Invece chi le ha governate ha preferito dare ascolto a costruttori, banchieri e gestori d’utenze e servizi energetici e telefonici. Gli ultimi piani regolatori ed ammodernamenti tecnologici sono avvenuti a dispetto della qualità della vita delle fasce medie e basse: il bene comune non è stato il motore che ha spinto i più recenti esempi di politica amministrativa». La presentazione del giornale web è stata anche occasione per lanciare messaggi politici. «Per quanto riguarda le scelte politiche - ha detto Ciocchetti - l’Udc è il partito che ha come linea il bene comune, e lo ha dimostrato ponendo la grande questione morale della sanità. Vogliamo fare del tema della sanità nel Lazio uno snodo decisivo in vista delle prossime elezioni regionali. Domanderemo a Pd e Pdl se vorranno continuare ad occuparsi di più della lottizzazione partitica che dei malati. Proporrò sul mio giornale la campagna di riduzione del numero di Asl romane - chiosa il segretario Udc del Lazio di accorpamento delle aziende ospedaliere e potenziamento dei presidi territoriali».


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n tempi di polemiche sul posto fisso, sulla crisi economica che sembra non finire mai e sui disoccupati che aumentano, si potrebbe definire un libro in controtendenza. Ma non fuori dalla realtà. Perché, è vero, l’Italia è anche fatta di «eleganza, di leggerezza, di lusso educato, di tradizione, di cultura, di amicizia e di sorrisi». Di gente che vive in grandi città o in piccoli luoghi, che sceglie i medesimi valori e conosce privilegi e doveri. A queste persone è dedicato Italian Touch, un volume di quasi quattrocento pagine con l’aspetto elegante e ricercato del catalogo d’arte (non a caso è editato da Skira) e l’andamento di un Who is Who molto particolare. Se l’ormai famoso dizionario delle persone più importanti del mondo, nato in Gran Bretagna, è uno strumento indispensabile per muoversi tra i nomi che contano nel nostro pianeta, Italian Touch voluto da Diego della Valle, l’imprenditore marchigiano che ha inventato le Tod’s ed è riuscito a costruire un impero, è una galleria «di tutti quegli italiani che di solito non appaiono, ma esistono e fanno, che diffondono la visione di un Paese autentico, non sognato ma da sogno».Troppo ottimista? Donatella Sartorio, autrice dei testi di questo volume che vive attorno alle splendide fotografie di Paolo Leone, risponde di no: «quella che ho visto è un Italia sorprendentemente sincera, reale, non fatua, mai noiosa né banale. Quel luogo della qualità che rende il fare italiano così unico e famoso». Donatella Sartorio, in compagnia del «goloso e geniale» fotografo catanese, del suo saggio assistente e di un autista svizzero «buongustaio che conosce ogni indirizzo», ha compiuto un viaggio in Italia da nord a sud, da costa a costa, per incontrare e raccontare più di cento personaggi. Una lunga galleria di «imprenditori illuminati, di aristocratici spiritosi, di dinamici bocconiani e di biondissime infante».

I

Il viaggio comincia a Milano, passa per Portofino, la Toscana, Roma, Napoli, Positano, Capri, la Puglia, la Sicilia, le Marche, il Veneto, Cortina e si conclude di nuovo a Milano, mostrando i protagonisti nelle loro case, in luoghi spesso straordinari e spesso sconosciuti, con le loro famiglie, i loro cani, le loro terre, i loro quadri, il loro vino, il loro impegno. A rappresentare l’Italian way of living sono oltre cento personaggi: dalla famiglia Gilardini a Cecilia Romani Adami, da Giorgio Schoen ad Alberto e Lucio Tasca d’Almerita, da Lupo Bracci a Laura de Santillana, da Anselmo Guerrieri Gonzaga a Lamberto ed Eleonara Frescobaldi. In questa galleria c’è anche Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli che ha avuto una parte speciale nel viaggio. Lo incontriamo in un’osteria di piazza della Moretta, nel centro storico di Roma, davanti a un piatto di fettuccine. «Era tanto che volevo farmi fare una foto con mia figlia Iacobella. Il caso ha voluto che fosse per un libro. Poi è capitato tutto il resto. Con una naturalezza che, per certi versi, è rara. E che appartiene ai tanti amici che ora, sfogliando le pagine di Italian Touch, rivedo con il piacere di sempre. Scorro con le dita le numerose immagini, mi soffermo sulle case. In quasi tutte ho vissuto attimi, momenti, periodi che sono pezzi della mia storia. Oddio, ho un’età. E parecchi ricordi, il che da qualche tempo, per fortuna, mi fa più tenerezza che paura. Io per mestiere faccio l’enologo, il vino buono con il tempo migliora, è capitato anche a me, ho fatto pace con qualche amico, ho ritrovato la serenità con la mia ex moglie (Noemi è l’unica che, per estrema riservatezza, nonostante ripetute richieste, non ha voluto

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In un libro-catalogo voluto da Diego della Valle una galleria non sognato ma da sogno. Un vademecum dell’eccellenza e dell’ele

Una bella Italia i “Italian Touch”: un viaggio da nord a sud per raccontare più di cento personaggi con le foto di Paolo Leone e i testi di Donatella Sartorio di Rossella Fabiani posare per questo libro). Già, in qualche modo, ho chiamato qualcuno a partecipare a questa avventura, ne è seguito un passaparola che piano piano ha coinvolto tanti. Che bizzarro giro d’Italia abbiamo fatto, ragazzi. Ammettiamolo, nessuno di noi ha corso, non è la nostra cifra, piuttosto abbiamo passeggiato. E quattro passi ce li siamo fatti anche nella memoria. Ho rivisto i prati dei giardini della mia infanzia dove poi si sono rotolati i miei figli e i figli dei miei amici. E i figli dei figli. E per ora, almeno, ci siamo fermati a questa terza generazione di ragazzi, sani, forti, con ideali grandi che li legano alla tradizione, ma con lo sguardo di chi con passione, si apre al mondo. Beh, l’abbiamo fatto anche noi e continuiamo a farlo. Penso, nel caso, a Vincenzo Caracciolo d’Aquara Meoli, napoletano coltissimo e alla mano. Nella sua casa avita sono transitati Pirandello, Eduardo de Filippo e Roberto Rossellini. Lui lo sa e non se ne è mai fatto un vanto. Credo che la vedono così anche Andrea e Paola Rittatore. Qualcuno dice “gente bene”. Io preferisco dire gente per bene. E Cino Zucchi? Architetto, professore universitario, è uno dei maestri italiani. Lui

ripete spesso che è meglio fare un buon lavoro, nel segno dell’artigianalità che distingue il made in Italy, che un bel lavoro. Chissà se il piccolo Giacomo seguirà le sue orme, certo lui lo lascerà sempre libero di scegliere. E di sbagliare. Invece, se penso a Giovanni Borromeo, vent’anni scarsi, mi viene da sorridere, tutti, invece di chiedergli se è nipote di San Carlo Borromeo, gli domandono se è parente di Beatrice Borromeo, il personaggio della tv. Meno male che poi ci sono i libri. “Ma sì”, anche questo che abbiamo fatto insieme, “con il savoir faire che vi distingue”, mi ha detto qualcuno. Io devo avere ag-

Un volume di quasi quattrocento pagine con l’aspetto elegante e ricercato del catalogo d’arte (non a caso è editato da Skira) e l’andamento di un ”Who is who” molto particolare

grottato le sopracciglia: preferisco il saper fare. E, qualche volta, il saperci fare. Questione di Italian Touch».

Nel libro, Gelasio Gaetani, 54 anni, è fotografato con la figlia Iacobella, 25, nella tenuta dell’Olmaia, in Toscana, dove sta preparando il suo terzo libro sul vino italiano, «un mondo antico, contadino, che si è trasformato in eleganza e poi in business, come il made in Italy della moda che ormai ha un valore enorme: due mondi sofisticati che potrebbero muoversi bene insieme». La sua passione per il vino è nata nella tenuta di famiglia, ad Argiano nella zona di Montalcino, che oggi è di proprietà della contessa Naomi Marone Cinzano, la sua ex moglie, madre di Iacobella e di Cristoforo. I quattro amici di cui ci ha parlato sono Vincenzo Caracciolo d’Acquara Meoli, 56 anni, che ha anche una scuderia dove coltiva la sua passione per l’equitazione americana: il suo è uno dei pochi allevamenti di Quarter Horses del Sud Italia; Andrea Rittatore Vonwiller, 56 anni, commercialista a Milano che, con la moglie Paola e le figlie Lavinia e Isabella, è fotografato nella casa che possiede nel golf club di Borgogno, vi-

Al centro Gelasio Gaetani e la figlia Iacobella. Dall’alto in senso orario: Giorgio Vincenzo Caracciolo d’Aquara Meoli, Lamberto ed Eleonora Frescobaldi con i figli,


il paginone

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di persone, che di solito non appaiono, diffondono la visione di un Paese autentico, eganza italiana. «Un bizzarro giro tra la gente, i luoghi e la memoria», dice Gelasio Gaetani

in punta di piedi prima, naturalmente, è quella dedicata alle splendide fotografie a tutta pagina – ogni personaggio è raccontato in un testo che ne riferisce doti, curiosità, storia, interessi, lavoro. Così, soltanto per fare qualche esempio, scopriamo che Giorgio Schoen, 62 anni, figlio della celebre creatrice di moda Mila Schoen, anche lui impegnato per trent’anni nella moda, è un grande amante degli sport di velocità e ha scoperto una nuova attività. Ha rilevato la tenuta di Colle Manora, a Quargnento, nel Monferrato,

Una parte speciale nella storia l’ha avuta il conte d’Aragona che in un’osteria romana, davanti a un piatto di fettuccine, racconta come è nata questa avventura «con una naturalezza rara»

cino Novara; Cino Zucchi, 54 anni, invece, è ritratto col figlo Giacomo, di 10 anni, in un angolo della sua casa che si affaccia sul golfo del Tigullio, sopra Portofino; Giovanni Borromeo, 19 anni, infine, studia alla

Bocconi ed è fotografato con il cugino Luca Baldeschi, anche lui di 19 anni, nella casa di Milano. Ma non ci sono soltanto loro. L’elenco è lungo e, proprio come in un Who is Who, nella seconda parte del libro – la

è si è trasformato in un dinamico vigneron – tra i vini che produce c’è anche il Rosso Barchetta, dal nome della Ferrari più famosa degli Anni Cinquanta – affidandosi alla conoscenza e alla professionalità della sua compagna, Marina Orlandi Contucci Ponno. In occasione dei Gran Premi di Formula 1, Giogio apre la sua casa agli amici e organizza gare di motocross.

E ancora. Lupo Bracci, avvocato sessantenne, fotografato nel suo palazzo di Fano, fa il pendolare con Roma per seguire i suoi

o Schoen, Cecilia Romani Adami, Anselmo Guerrieri Gonzaga e la moglie Ilaria Tronchetti Provera, Lucio Tasca d’Almerita, Lupo Bracci, Luca Baldeschi e Giovanni Borromeo, Andrea e Paola Rittatore con le figlie e Stefano Bini con la figlia Gentucca.

molteplici compiti, tra i quali c’è quello di vicepresidente nazionale dell’Associazione dimore storiche italiane. Una passione e un impegno che l’hanno portato a realizzare un libro che illustra la storia della nobiltà marchigiana attraverso i ritratti di famiglia dal Cinquecento a oggi. La famiglia Gilardini – Guccio, la moglie Benedetta Reiser, i figli Ilaria e Gregorio – vive in Veneto: a Trecenta, nel basso Polesine, dove Guccio Gilardini dopo un periodo passato negli Stati Uniti è tornato nella casa di famiglia che ha riconvertito in un resort,“La Bisa”, con scuderie e maneggio. Fabio Cirillo Farrusi, invece, è il classico bel ragazzo del Sud. Moro, elegante, sottile, 36 anni e una faccia da schiaffi – ma soltanto all’apparenza – si occupa con il fratello Andrea e con la madre della masseria San Leonardo, nella campagna di Cerignola, anche queste trasformata in un resort di grande charme a 80 chilometri da Bari. Angela Chitis fino a 25 anni ha vissuto tra Milano, Roma e Londra: adesso che ne ha 43 è sposata e ha due figlie – Rebecca e Nina – e abita in una villa di Posillipo affacciata sul Golfo dal cui terrazzo si ammira il Vesuvio. Con il marito, Luca Rivelli, si occupa d’arte. E la galleria di personaggi di Italian Touch continua. Gianfilippo e Rita Del Bono sono padre e figlia. Lui, 70 anni, è imprenditore agricolo e trascorre molto tempo nella campagna di Parma. Lei, 30 anni, ha intrapreso una promettente carriera di PR e vive nel palazzo di Porta Venezia, a Milano, dove è stata fotografata con il padre. Poi c’è Valentina Ricciardelli, 36 anni, capelli rossi e lentiggini, due figli, che è la nipote di Bernardo Bertolucci. Per lui ha danzato in una scena di Io ballo da sola insieme al protagonista Ignazio Oliva, ma di professione è una fashion editor assolutamente non modaiola che nel libro appare fotografata con i suoi due bambini: Pietro di 7 anni e Maddalena di 4 anni. La cavalcata tra i personaggi noti e meno noti di Italian Touch potrebbe continuare ancora. Ma il piacere di questo libro è scoprirlo da soli.


mondo

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Alleanze. Invece di rivolgersi ad Abdullah, il leader pashtun cerca l’appoggio dei nemici. Che lo definiscono «marionetta»

Governo di unità talebana Karzai chiede ai “fratelli” integralisti di rientrare in Afghanistan e fare pace di Vincenzo Faccioli Pintozzi n appello per la pace, certo. Era quello che tutti si aspettavano dal primo intervento pubblico del secondo mandato Karzai. E il leader pashtun, proclamato due giorni fa (per la seconda volta) presidente dell’Afghanistan non ha deluso le aspettative. Ha parlato di «unità nazionale» e di processo di pace, tendendo il proprio ramoscello d’ulivo ai «fratelli» e chiedendo loro di tornare nel Paese. Soltanto che non si riferiva, come avrebbe dovuto, allo sfidante Abdullah Abdullah e alla diaspora afgana all’estero. Si riferiva ai talebani. Nonostante l’ex ministro degli Esteri (e braccio destro del defunto leone del Panshir) si sia ritirato dal ballottaggio – i brogli e le violenze lo hanno convinto a un gesto estremo – non è a lui che Karzai ha ritenuto giusto rivolgersi. E dunque, «i fratelli talebani depongano le armi e

U

partecipino al processo di pace nel Paese». Karzai ha chiesto ai talebani espatriati dall’Afghanistan di tornare e ha confermato l’intenzione di coinvolgere nella nuova amministrazione funzionari provenienti da ogni parte del Paese. Il tentativo «è quello di portare la pace

strazione di Kabul ritiene che i principali leader ribelli si siano rifugiati nel vicino Pakistan. Karzai ha proposto varie volte al mullah Omar, il capo supremo dei talebani, e agli altri responsabili dei combattenti islamici di unirsi al processo politico, garantendo la loro incolu-

Secondo gli studiosi del Corano, l’esito del secondo turno delle elezioni ha dimostrato «che le decisioni riguardanti l’Afghanistan sono prese a Washington e annunciate a Kabul» in tutto il Paese. Chiediamo ai nostri fratelli talebani di tornare in Afghanistan in questo ambito, e su questo chiediamo l’assistenza e la cooperazione della comunità. La pace sarà possibile quando tutti gli afgani saranno uniti e parleranno con una sola voce, lavorando insieme per un governo di unità che rappresenti tutti». L’ammini-

mità anche al cospetto delle forze internazionali, ma i suoi appelli non sono mai stati presi in considerazione dai leader degli studenti del Corano. Il neo presidente ha detto inoltre che intende «sradicare la corruzione e affrontare tutti i problemi esistenti. L’Afghanistan è stato infestato dalla corruzione, il nostro governo è stato in-

festato dalla corruzione. Impiegheremo tutti i mezzi necessari per sradicare questa sporcizia. Dobbiamo essere capaci di dimostrare alla nazione afgana e al mondo che gli afgani sono sinceri nei loro sforzi e vogliono raggiungere dei risultati».

Le intenzioni sono senza ombra di dubbio nobili, ma non

menzionano il fatto che la corruzione sia stata quanto meno tollerata dallo stesso Karzai e che la sua politica di contenimento nei confronti dei «fratelli talebani» abbia più volte assunto contorni omertosi. Ma i duri e puri dell’islam, gli studiosi del Corano, non hanno neanche preso in considerazione l’esca gettata da Kabul. «Non dia-

I 40mila uomini richiesti dai generali sono ancora fermi. Le due anime dell’amministrazione ai ferri corti

Usa, lo scontro è fra Biden e McChrystal di Antonio Picasso n Afghanistan, chiuso il capitolo delle elezioni presidenziali, resta aperto quello relativo a un eventuale aumento di truppe da parte degli Stati Uniti. Sono note in questo senso le richieste del comandante in capo Usa, il generale Stanley McChrystal, il quale ha detto a chiare lettere e più volte che gli servono almeno altri 40mila uomini, se si vuole contenere l’insorgenza talebana e cominciare a pacificare il Paese. Tuttavia Washington - pur non nascondendo l’impazienza nel cambiare le sorti del conflitto - sembra essere molto scettica nell’avvallare questo ulteriore dispiegamento di truppe. Il caso è quello in cui la mens politica pretende dal braccio operativo la realizzazione di un obiettivo che sta al di sopra delle risorse messe a disposizione dal primo per il secondo. Le ragioni di questa distonia sono essenzialmente politiche. Da un punto di vista interno, la coincidenza con le elezioni nelle grandi città e l’inizio del secondo anno del suo mandato non permette al Presidente Obama di esporsi eccessivamente in favore di una guerra che non trova sbocchi risolutivi. L’elettorato, soprattutto quello più progressista, è molto sensibile a questi argomenti e potrebbe far man-

I

care il suo voto ai candidati democratici. Mentre, in ambito afgano, gli Usa desidererebbero un maggiore impegno delle forze di sicurezza di Kabul, soprattutto ora che Karzai è stato confermato Presidente e che quindi potrebbe cominciare a muoversi in autonomia. Inoltre, da una recente analisi dell’American Enterprise Institute, emerge un’altra spiegazione, palesemente più tecnica. Da una parte Joe Biden, il vice Presidente di Obama, che potremmo considerare il primo fra i contrari ad aumentare le forze in campo, sarebbe convinto della necessità di recuperare il controllo delle aree rurali. Dall’altra McChrystal sosterrebbe l’idea di dover rinforzare la difesa dei centri urbani, nonché il recupero di quelli attualmente nelle mani dei guerriglieri. In linea teorica, non si tratterebbe di posizioni diametralmente opposte. Al contrario, una potrebbe essere in supporto dell’altra.Partiamo infatti dal presupposto che a McChrystal è stato dato l’ordine di definire una surge in Afghanistan sull’esempio di quella realizzata in Iraq da Petraeus.

Il vice presidente è convinto della necessità di recuperare il controllo delle aree rurali. McChrystal sostiene invece la difesa dei centri urbani e il recupero di quelli nelle mani dei guerriglieri

Dal punto di vista operativo, i 40mila uomini richiesti sarebbero impiegati sia nella difesa dei centri urbani sia, per forza di cose, nel controllo delle aree extra-cittadine. Nello specifico, Kandahar, Helmand e Paktika costituirebbero i primi tre obiettivi di una top ten di aree da controllare, definite in concertazione tra il Pentagono e McChrystal. Le ragioni di questa scelta sono singole


mondo decisione del genere». E non poteva prevedersi una reazione diversa. Karzai è chiamato dai talebani «il sindaco di Kabul», un modo come un altro per dire che non ha alcuna autorità nella nazione.

mo alcun valore all’offerta di pace di Karzai, perché sappiamo che sono parole prive di senso - ha detto Yousuf Ahmadi, portavoce degli insorti -. Non è una novità che Karzai faccia dichiarazioni del genere: l’ha detto diverse volte, è una marionetta e il suo governo è un governo di marionette. Non ha l’autorità per prendere una

E le sue posizioni così a favore dell’etnia pashtun, correlate da una vasta gamma di malversazioni di diverso tipo, lo hanno reso indigeribile ai guerriglieri. Pesa inoltre il risultato del processo elettorale: «L’annullamento del secondo turno delle elezioni ha dimostrato che le decisioni riguardanti l’Afghanistan sono prese a Washington e Londra prima di essere annunciate a Kabul». E questo era un comunicato di due giorni fa. Ma ieri, i talebani hanno ribadito l’accusa: «Quello che è sorprendente è che due settimane fa si litigava sul fatto che il presidente marionetta Karzai fosse coinvolto in brogli elettorali, ma ora che è stato eletto sulla base di quegli stessi brogli, Washington e Londra hanno espresso le loro congratulazioni». Come dire, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Eppure, e pesa dirlo, la legittimità di Karzai appare in questo preciso momento politico ai suoi minimi storici. Non ha l’appoggio della popolazione, che forse lo avrebbe anche ri-eletto ma a cui non è stata data voce, e non ha la fedeltà dei suoi uomini. Quale futuro si può immaginare per l’Afghanistan, se il suo presidente si appella a un governo che, lungi dall’essere di unità nazionale, appare di unità talebana?

e specifiche. Kandahar è l’epicentro dell’insorgenza talebana. Helmand svolge lo stesso ruolo per quanto riguarda il narcotraffico. Paktika è a sua volta strategica se si vuole controllare l’autostrada Kabul-Kandahar. Il piano dimostra, sulla carta, come gli Usa abbiano una visione di ampio respiro del fronte di guerra, sulla base di obiettivi mirati. Peraltro è evidente che il contrasto fra il “target città”e quello delle aree rurali verrebbe automaticamente colmato. Nel momento in cui si decide di uscire dal fortino per confrontarsi con l’insorgenza talebana nell’epicentro della sua attività, le truppe verrebbero per forza di cose impegnate nelle strade urbane quanto nei sentieri di montagna.

Va inoltre detto che la realizzazione di questo piano sarebbe motivata anche dalla necessità di alleggerire l’impegno di alcuni degli alleati Nato più in difficoltà. Gli Usa infatti intendono affiancare maggiormente Canada, Danimarca e Regno Unito, le cui truppe sono bersaglio quotidiano di attacchi nelle loro rispettive aree di competenza. Il disaccordo tra la Casa Bianca e il comando a Kabul resta però di tipo numerico. Secondo Biden, per un’operazione di questo genere sarebbero sufficienti quattro brigate con il loro relativo supporto, quindi 20mila unità in totale. McChrystal invece ha fatto i calcoli sul doppio delle forze da dispiegare. E qui si torna all’ordine che gli è stato consegnato: una surge secondo il modello iracheno. È evidente che Washington resti legata all’illusione di poter ripetere il successo di Petraeus, ammesso che questo possa considerarsi tale, vista l’ondata di attentati in cui è caduto nuovamente l’Iraq.Tuttavia Kabul non è Baghdad. Questo è stato sottolineato più volte sia da McChrystal sia dallo stesso Petraeus, quando assumendo il comando del Centcom a lui stesso chiesero una seconda surge in Afghanistan. Una “half surge”, un impeto dimezzato, così la stampa americana definisce la controproposta che Washington ha presentato al suo generale. Se poi al vuoto dei 20mila uomini in meno e all’importanza degli obiettivi da colpire si aggiunge anche il progressivo coinvolgimento del Pakistan nel conflitto, si comprende come McChrystal non possa promettere ai suoi superiori l’assolvimento pieno degli ordini.

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La nazione asiatica è la maggior produttrice mondiale d’oppio (da eroina)

Il Pil del papavero Quasi un narco-Stato di Pierre Chiartano Afghanistan è il più grande produttore di oppio al mondo. Tanto che un candidato alla vicepreseidenza del gabinetto Karzai, Qasim Fahim, sarebbe un noto trafficante di droga, secondo le più importanti agenzie investigative Usa, Cia compresa. Dall’invasione sovietica nel 1979, i narcotici rappresentano il settore chiave dell’economia nazionale, che dipende per il 40-60 per cento dal commercio di oppio. I proventi di questo traffico aiutano a finanziare i gruppi talebani e terroristi, tanto che c’è il timore che il Paese possa degenerare in un narco-Stato. Da anni lo dicono i rapporti del dipartimento di Stato americano sulle droghe nel mondo. La situazione dell’Afghanistan «rappresenta un’enorme minaccia alla stabilità mondiale». Nel Paese ci sono le condizioni climatiche ideali per la coltivazione del papavero da oppio, da cui si ricavano l’eroina e la morfina. Dal 2003 al 2004 il terreno adibito alla coltivazione da papavero è triplicato arrivando fino a 511.500 acri. Nel 2001 erano appena 19.800 acri. Nel 2007 si stimava che il 93 per cento degli oppiacei circolanti nel mondo fosse coltivato in Afghanistan. Con un giro d’affari di circa 4 miliardi di euro per coltivatori, industriali, ribelli, signori della guerra e narcotrafficanti, guadagnate con l’esportazione della droga. Secondo un rapporto statunitense la produzione di oppio in Afghanistan raggiungerebbe le 5.445 tonnellate (2006), 17 volte di più del secondo produttore mondiale, il Myanmar. Il 90 per cento dell’eroina lavorata in Afghanistan (29-30 tonnellate) prenderebbe la via della cosiddetta «rotta del nord», che include Tajikistan, Uzbekistan, Kazakhstan, Turkmenistan, Russia e Europa. La Gran Bretagna in passato ha stanziato fondi cospicui per la campagna contro l’oppio in Afghanistan: 100 milioni di dollari. Gli Usa sono arrivati a spendere 780 milioni dollari in questa battaglia antidroga. Per essere efficace la lotta all’oppio avrebbe bisogno di maggiore sicurezza in Afghanistan, Stato di diritto e valide alternative economiche alle coltivazioni illegali. Ai circa 2,3 milioni di contadini che lo coltivano, l’oppio garantisce guadagni 10 volte superiori alle tradizionali coltivazioni di cereali.Tempo fa l’agenzia dell’Onu che si occupa della materia (Unodc) aveva suggerito la coltivazione dello zafferano, che hai coltivatori renderebbe più del papavero, perché il loro lavoro è massicciamente sfruttato dai trafficanti che percepiscono la fetta più grossa del guadagno. Dopo un drastico calo della produzione nel 2001 (meno di 74 tonnellate, rispetto alle oltre duemila annue del periodo precedente), a seguito di alcuni provvedimenti del regime talebano, negli ultimi anni il volume totale ha sfondato il muro delle ottomila tonnellate. Ai primi di maggio in Afghanistan è tempo di raccolta.

L’

Campi, cantieri, botteghe e stalle di tutto il Paese subiscono un’emorragia di lavoratori che per un po’ di giorni si trasferiscono nelle coltivazioni di papaveri di parenti e amici. Nella provincia di Kandahar, Afghanistan sud-occidentale, la diffusione dei campi di papaveri è simile a quella dei vigneti nell’Italia centrale. Piccoli appezzamenti, fazzoletti di

poche decine di metri quadri, grandi piantagioni dei latifondisti che si estendono a perdita d’occhio. Un problema che incide anche sulle campagne militari di ribelli e talebani. Di recente dalle colonne del Washington Post ,Turki al-Faisal, già a capo dell’intelligence saudita, aveva dato una sua ricetta per risolvere il problema.

«Gli Stati Uniti dovrebbero comprare tutta la produzione di oppio del Paese, agevolando le coltivazioni alternative. Come è successo in Turchia a metà degli anni Sessanta», aveva scritto il principe e diplomatico. In verità la legge che proibisce la coltivazione del papavero in Turchia è del 1971, ma è vero che da quel Paese, dopo quel periodo arrivò meno eroina. In Afghanistan solo il 2 per cento della produzione viene sequestrata ogni anno, persino la Colombia, col 36 per cento, riesce a fare meglio, in tema di lotta antidroga. L’Iran

Nel 2008 sono arrivate in Europa circa 90 tonnellate di droga. Altre 70 sono finite in Russia, mentre circa 50 in Cina. Negli Stati Uniti e in Canada oltre 25 intercetta circa il 20 per cento dell’oppio che entra nel suo territorio e il Pakistan il 17 per cento, ma la Russia e gli altri Paesi europei ne sequestrano meno del 5 per cento. La zona più frequentata dai trafficanti è il confine tra Afghanistan e Pakistan, non molto controllata e soggetta a una corruzione profonda. Secondo l’Unodc (l’ufficio dell’Onu su crimine e droga) quell’area è il mercato nero dell’illecito più grande del mondo. Sempre secondo l’Unodc, i consumi di eroina – prodotta dal papavero d’oppio – in Europa sono stati stimati intorno alle 90 tonnellate nel 2008, alle 70 tonnellate in Russia, la Cina è al terzo posto con 45-50 tonnellate. Gli Usa e il Canada arrivano a circa 25 tonnellate. Un grammo di eroina vale 3 dollari a Kabul, ma 100 dollari a Londra, Milano o Mosca, crisi finanziaria permettendo. Ovviamente i soldi che i talebani intascano dalla vendita viene “reinvestito”in armi per finanziare la guerriglia.


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Iran. I pasdaran ricordano la presa dell’ambasciata Usa. E l’Onda verde manifesta l tira e molla sul programma nucleare iraniano continua tra prese di posizioni incrociate e moniti. L’ultimo ad intervenire è stato la guida suprema Khamenei che ha accusato gli Usa di essere una «potenza arrogante» e di voler ingannare l’Iran nelle trattative sul nucleare sottoponendo al proprio interlocutore un pacchetto di proposte già chiuso. La dichiarazione del grande Ayatollah potrebbe far pensare ad una tattica per guadagnare tempo o per spuntare condizioni più favorevoli, dopo che il segretario di Stato Clinton aveva, per l’ennesima volta, sollecitato una risposta definitiva da parte di Teheran a quella che era stata presentata come l’ultima proposta della comunità internazionale per arrivare ad un accordo. Ma le parole della Guida, pronunciate nel pieno solco del tradizionale rituale del khomeinismo, potrebbero essere lette diversamente e considerate semplicemente come l’ultimo capitolo del negoziato. Se, difatti, gli iraniani sembrano aver accettato nei principi l’accordo, non si può dire altrettanto per i suoi aspetti tecnici. In ballo ci sarebbe ancora la quantità di uranio leggermente arricchito da trasferire in Russia e Francia, da riportare poi in Iran per alimentare il reattore di Teheran per la ricerca medica (ironia della sorte, donato da Johnson all’Iran ai tempi dello Scià), e, soprattutto, i costi dell’operazione, con l’Iran che spinge perché ad accollarseli siano le stesse Russia e Francia. La Casa Bianca giudica le richieste di Teheran come meramente dilatorie, in linea con un atteggiamento che mira a macerare la comunità internazionale in una trattativa diplomatica interminabile per poi porla di fronte al fatto compiuto, ovvero di fronte alla realtà di un Iran armato di bomba atomica.

I

I tentennamenti di Teheran, più o meno mascherati da strategia di rischio calcolato, potrebbero però nascondere anche un’altra realtà, ovvero quella di una grave spaccatura all’interno del regime. Una spaccatura che, lungi dall’essere quella dipinta in questi mesi, riformisti contro conservatori, vede contrapposti i pasdaran da una parte ed il clero dall’altra. Un’analisi che potrebbe sembrare persino paradossale o surreale, ma che a ben guardare attraverso il prisma della leadership iraniana potrebbe presentare un certo fondamento. In Iran, i pasdaran sono stati per anni un semplice potere militare: i guardiani della rivoluzione, ovvero i pretoriani che avrebbero dovuto difendere la Re-

Ma la corda del regime è sempre più tesa Intanto la Guida suprema Khamenei: «No all’ultimatum di Hillary Clinton» di Pietro Batacchi

La militarizzazione della politica iraniana avallata dal governo di Teheran ha alterato i precetti base della Repubblica, creando uno scontro di poteri pubblica islamica dai suoi nemici, interni ed esterni. Così li aveva disegnati sin dall’atto della nascita della Repubblica islamica, il padre della rivoluzione Khomeini. Ma nel corso degli anni, soprattutto a partire dall’avvento alla presidenza della Repubblica di Ahmadinejad, le cose sono cambiate. Ahmadinejad è un pasdaran. Proviene dalle loro fila ed ai pasdaran durante il suo primo mandato ha dato potere economico, influenza e presti-

gio. E i Guardiani sono pertanto cresciuti, a discapito di altre realtà che compongono l’intricato puzzle del regime iraniano.

Durante l’era Ahmadinejad, i pasdaran si sono progressivamente trasformati da semplice potere militare a strumento politico. Uno strumento di cui Ahmaedinejad si è servito per consolidare il proprio potere, ma che ad un certo punto è diventato esso stes-

so potere. Le elezioni dello scorso giugno hanno sancito il completamento definitivo di questo processo ed il passaggio dei pasdaran da strumento politico ad attore politico a tutti gli effetti. Il problema è che questa trasformazione ha avuto delle gravissime ripercussioni sulla stabilità interna della Repubblica islamica e persino sulla sua stessa essenza ideologica. In uno spietato gioco a somma zero, tale è il meccanismo che regola il funzionamento del regime iraniano, la crescita di un polo significa l’indebolimento di un altro, nella fattispecie, il polo rappresentato dal clero che, ad un certo punto, si è trovato

a dover fare i conti con un pericoloso concorrente per il controllo della società. Oggi, gli ayatollah non sono più l’asse portante della Repubblica islamica perché la crescita dei pasdaran è andata a insidiarne posizioni e rendite di potere consolidate in 30 di storia.

Questo gioco a somma zero rischia di stritolare anche Khamenei che, avendo avallato la politica di Ahmadinejad volta a rafforzare i pasdaran nella vita politica iraniana, deve fare i conti con la montante ritrosia di vasti settori del clero, proprio quando lo stesso grande Ayatollah avrebbe bisogno dell’appoggio di tutto il mondo religioso per assicurarsi una successione senza scossoni alla guida della Repubblica nella persona del secondogenito, Mojtaba Khamenei. Ecco allora che la Guida suprema si trova costretta tra due fuochi: da un lato, Ahmadinejad e i pasdaran ai quali fino a poco tempo fa aveva concesso appoggio indiscusso, dall’altro, il clero tradizionale dietro il quale occhieggia la figura severa del suo grande nemico, Rafsanjani. Nel mezzo, i poveri riformisti che pagano il prezzo, altissimo, di uno scontro che passa sopra le loro teste. Ed anche la giornata odierna, con manifestazione dei Guardiani, per ricordare il ventennale della presa dell’ambasciata di americana di Teheran, e contromanifestazione del fronte riformista, rischia di trasformarsi nell’ennesima caccia ai sostenitori di quest’ultimo. Politica, dunque, ma non solo, perché l’affermazione dei pasdaran pone anche la questione della natura della Repubblica oslamica. Khomeini, nel tracciare l’architettura della sua nuova creatura politico-istituzionale, era stato chiaro assegnando al clero una posizione di primazia nella direzione della società e della politica. Il recente protagonismo dei pasdaran ribalta però questa prospettiva e pone in seria discussione la premessa originaria su cui si regge la costruzione di una repubblica teocratica come quella iraniana con il rischio di trasformarla di fatto in una sorta di dittatura militare o, peggio, in un regime Baath qualsiasi. Per cui alla fine, la militarizzazione della politica iraniana portata avanti da Ahmadinejad, e avallata da Khamenei, ha avuto come conseguenza quella di alterare i precetti stessi su cui si basa la Repubblica islamica creando di fatto le condizioni per uno scontro di poteri senza precedenti. Rispetto al quale i cosiddetti riformisti sono solo spettatori o vittime senza possibilità di difesa.


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Il regime di Kim Jong-il in possesso di ottomila barre

L’ex leader accusato formalmente di genocidio e crimini di guerra

L’ennesima sfida di Pyongyang: nuovo plutonio per le bombe

Karadzic: prima (e ultima?) apparizione al processo

PYONGYANG. La Corea del Nord ha riprocessato ottomila barre di plutonio che sono in grado di produrre materiale fissile per armi nucleari. Lo afferma l’agenzia di stampa del governo cinese Xinhua, che cita l’agenzia “sorella” nordcoreana Kcna. Il riprocessamento del combustibile nucleare sarebbe avvenuto nel suo reattore di Yongbyon. Due anni fa il reattore era stato parzialmente smantellato in base all’ accordo per il disarmo nucleare di Pyongyang in cambio di aiuti economici raggiunto nei colloqui a sei con Corea del Sud, Cina, Usa, Giappone e Russia. Con il plutonio ottenuto attraverso il riprocessamento, la Corea del Nord è ora in grado di produrre altri ordigni nucleari. Secondo gli esperti stranieri, Pyongyang potrebbe avere tra le quattro e le sei bombe atomiche. La Corea del Nord ha effettuato due test nucleari, nel 2006 e nel maggio scorso. All’ inizio di ottobre, in occasione della visita nel Paese del premier cinese Wen Jiabao, il leader supremo Kim Jong-il ha affermato che la Corea del Nord è pronta a tornare al tavolo delle trattative ma chiede come primo passo un incontro diretto con rappresentanti degli Usa. Alcune settimane fa, si è recato nel Paese asiatico Wen

L’AJA. Radovan Karadzic si è presentato davanti alla Tribunale penale internazionale dell’Aia per l’ex-Jugoslavia. Ma questa breve apparizione, per l’ex-leader dei serbi di Bosnia, accusato di genocidio e crimini di guerra, potrebbe essere anche l’ultima. Completo nero, camicia rosa, cravatta rossa, Karadzic ha dichiarato di «non voler boicottare il processo» ma ha ribadito di non volere presenziare alle udienze appena avviate. Come atteso, ha chiesto tempo, ha citato le 700mila pagine di materiale da studiare, ha rifiutato la proposta di un avvocato d’ufficio. «È l’ultima occasione per arrivare alla verità», ha detto, per poi subito puntualizzare d non po-

Presidenza Ue, spunta il primo ministro belga Soltanto Bruxelles contro la candidatura di Van Rompuy di Aldo Bacci n Europa c’è solo il Belgio contro il candidato belga Herman Van Rompuy. Non perché non lo amino, ma anzi perché lo amano troppo e lo vogliono tutto per loro. Il nome del primo ministro belga, un democristiano fiammingo, sembra essere improvvisamente balzato in pole position per la candidatura a presidente dell’Unione Europea, ora che si è sbloccato il Trattato di Lisbona. In lizza c’erano nomi ben più noti e altisonanti, a partire dall’ex premier britannico Tony Blair, ma anche per il loro peso sono rimasti bruciati. Blair poi paga anche le difficoltà della sua patria, dello scetticismo di molti britannici sull’Europa e della crisi dei laburisti. Nessuno dei nomi circolati avrebbe comunque ottenuto l’unanimità, neanche gli altri due leader del Benelux, l’olandese Jan Peter Balkenende e il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Sembra invece che il nome del primo ministro belga abbia incontrato l’insolito favore di tutti e 27 i Paesi dell’Unione, oltre a risultare il più gradito (o il meno sgradito) a Francia e Germania, immancabili king-maker di ogni scelta di questo genere. Secondo fonti diplomatiche, quindi, Van Rompuy non è candidato ma è favorito. Il portavoce del sessantaduenne politico non ha voluto fare dichiarazioni. Ma proprio il premier belga, frutto della scuola di Lovanio, sarebbe incerto e titubante. Molti lo starebbero sollecitando ad accettare, e nessuno gli si oppone. Ma il fiammingo ha molti dubbi e lo stesso Belgio lo guarda con orgoglio ma anche con preoccupazione. Questo per la situazione politica molto particolare del suo Paese. Con la sua nomina a primo ministro, infatti, il Belgio è uscito da un anno di crisi parlamentare - probabilmente la più lunga mai registrata in una democrazia - sciogliendo un rebus di governo che è enormemente complicato, perché non coinvolge solo fattori politici. Il problema del Belgio infatti consiste soprattutto nei conflitti fra la comunità vallone e quella fiamminga, conflitti che negli ultimi anni si sono esasperati fino al punto di ipotizzare lo scioglimento del Belgio. Van Rompuy è stato eletto mettendo insieme una coalizione molto variegata, fatta da demo-

I

cristiani e socialisti fiamminghi, democristiani e socialisti valloni, democristiani e socialisti tedeschi, sei partiti diversi diversamente “scollegati” fra loro a seconda se si guarda l’aspetto politico o quello linguistico. Fuori invece i liberali, anch’essi molto compositi e molto spesso al governo con gli uni o con gli altri.

Anche a livello personale il premier si è impegnato a risolvere alcune delle questioni più gravi, prima fra tute quella sulla circoscrizione elettorale di Bruxelles-Hal-Vilvorde. Visto da fuori, si potrebbe pensare che passare dal Belgio all’Europa potrebbe essere una opzione rilassante per il premier, ma il suo carattere - molto stimato - gli impone di non lasciare irrisolti i problemi e di pensare prima al Paese e poi a se stesso. Da qui le sue resistenze. Con in più la preoccupazione, non solo sua, che rimettere in gioco le carte della politica belga in questo momento potrebbe comportare dei rischi davvero gravi, senza che si possa dare per scontata una nuova soluzione. Ecco allora che tutti vogliono Van Rompuy in Europa, ma sono proprio le realtà belghe a mettere un freno a questa soluzione. Certo, a vantaggio di questa ipotesi spinge proprio l’esperienza del cristiano democratico fiammingo nel mettere insieme realtà così diverse, e questo per chi deve coordinare l’Ue non può che essere un elemento a favore. Si è poi già detto dell’apprezzamento riscosso prima di tutto presso gli ingombranti vicini, e in più il leader politico riscuote fiducia negli ambienti cristiani e democristiani, ma sta dimostrando di guadagnarsi anche il rispetto e la fiducia dei socialisti. Tutto insomma lo spinge alla presidenza, ma a patto che ci si faccia carico di risolvere la questione del Belgio. A meno che il primo presidente della Ue non finisca per mantenere il doppio incarico continuando a guidare anche il Belgio. Si vedrà. D’altro canto è evidente che non dipende tutto solo da lui: l’Europa oggi più che mai è un mosaico a incastro dove sono tante, forse troppe le poltrone da sistemare, compresa tutta la Commisisone e il famoso mister PESC.

Francia e Germania si sono accordate per presentare un candidato unico. Che non vuole tradire il proprio Paese

Jiabao, primo ministro di Pechino. Rompendo un protocollo diplomatico molto stretto e una antica consuetudine, il dittatore nordcoreano Kim Jong-il è arrivato ad abbracciarlo. Il segnale, colto dagli analisti internazionali, sembra essere stato di scuse. Pyongyang aveva infatti ignorato i moniti di Pechino e si era lanciata in diversi esperimenti atomici non autorizzati dall’ingombrante vicino. Che, per ritorsione, ha interrotto l’invio di aiuti alla popolazione, duramente colpita dalla scorsa carestia. Dato che la Corea del Nord sopravvive all’ottanta per cento proprio grazie agli aiuti cinesi, è ipotizzabile che questa nuova sfida sia stata fatta di concerto con l’impero.

ter «accettare di partecipare a qualcosa che parte male dal primo momento e che viola i miei diritti e in particolare quello alla difesa. Non può terminare bene ciò che inizia male». Il processo è iniziato lo scorso 26 ottobre. Fino ad oggi, Karadzic si è rifiutato di presentarsi in aula perchè «non pronto» a difendersi e deciso a farlo da solo, pur con l’assistenza “esterna”di una ventina di legali. Decisione che ha sollevato nei giorni scorsi proteste da parte dei familiari delle vittime che hanno manifestato all’Aia e per le strade di Sarajevo. Ora a Karadzic potrebbe essere comunque imposto un difensore d’ufficio a rappresentarlo in aula. «Non si permetterà al signor Karadzic di manipolare la procedura decidendo di non assistere alle udienze - ha detto il procuratore Hildegard UertzRetzlaff, chiedendo l’assegnazione di un avvocato d’ufficio si può anche utilizzare la forza per essere certi che sarà presente». I giudici del Tpi hanno annunciato che entro la settimana decideranno su come procedere il processo nei confronti dell’ex-leader serbo che evidentemente ha deciso di non presentarsi alle prossime udienze. In ogni caso, spiegano diversi giuristi, la soluzione più probabile è quella d’ufficio.


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Riletture. Ultima delle tragedie “greche” di Shakespeare, il “Timone d’Atene” è una dura invettiva contro gli orrori di un’umanità dominata dal Dio-Denaro

William e il Capitale Generosità e ingratitudine, usura e falsità: la contemporaneità è già tutta nell’antica Ellade di Franco Ricordi ltima opera “greca” di Shakespeare e anche ultima del genere tragico, composta nel 1607, Timone d’Atene deve la sua celebrità moderna anche a una non indifferente citazione e suggestione di Karl Marx: nel primo libro del suo capolavoro Das Kapital il grande filosofo ed economista cita il testo shakespeariano come esempio più che mai calzante nella definizione del denaro; in effetti Timone è l’opera in cui Shakespeare prende di petto in maniera più che mai violenta ed esplicita la questione dell’oro, ovvero di ciò che chiamiamo denaro, soldi. Non tanto dal punto di vista economico, o di un possibile discorso finanziario, quanto da quello di un’analisi ancor più ancestrale dei rapporti che sussistono fra amicizia e denaro, possibilità di relazioni sociali e generosità disinteressata.

U

Il protagonista Timone ci appare nei primi due atti come uno splendido esempio di personalità liberale, sempre pronto ad aiutare gli amici nel momento del bisogno, a friend in need is a friend indeed, dice un vecchio proverbio inglese. Tutti parlano assai bene di Timone e lui non lesina certo di offrire ciò che può, senza badare a spese. Tuttavia fra i vari amici e conoscenti ve n’è uno, Apemanto, che lo incalza a non credere e a discernere un po’ meglio lo situazione: Apemanto è un “filosofo cinico”, un po’ Socrate rompiscatole e un po’ Aristotele eticorealista. E certo non si può non dargli ragione per come avverte Timone a prendere le distanze dai suoi compagni ateniesi, ammonendolo come «chi ama essere adulato è degno dell’adulatore», e fin dall’inizio comincia a mettere sullo stesso piano il commercio, gli affari, e la divinità: l’oro sarà infatti concepito alla fine come il solo “Dio visibile”. Anche qui il discorso di Shakespeare è in qualche maniera teologico, riuscendo ad anticipare l’epoca

di fondamentale ateismo in cui viviamo, particolarmente evidenziato dalla stessa riduzione di cui è conseguenza la metafora del Dio-Denaro. Ma Timone è anche un esaltato, che ha quasi scambiato l’amicizia per l’amore: è tanto convinto del bene che si può trarre dall’amicizia, che non si rende nemmeno conto di come i suoi amici siano in realtà degli usurai. Nella seconda scena del I atto egli brinderà all’amicizia arrivan-

santhropos, che ha in odio l’umanità. Il suo assistente Flavio lo incalza, ricordandogli come le sue finanze siano ormai agli sgoccioli, ma Timone non riesce a capacitarsene, certo com’è che i suoi amici vorranno aiutarlo: «aprirò i forzieri del loro affetto». E così ordina ai servi di farsi prestar soldi dagli amici.

E qui l’impatto con la realtà: tutti si rifiutano di aiutarlo, e

«Splendente, prezioso oro, che strapperà servi e sacerdoti dal vostro fianco. Questo giallo verme sfalderà religioni e benedirà i maledetti...» do addirittura a piangere dalla commozione: un personaggio assai strano, certamente anch’egli un diverso, non tan-

to dal punto di vista sessuale quanto sociale, analogo in tal senso a Shylock e Otello. Timone non è ebreo, negro o mostro, ma alla fine arriverà a definirsi come vero Mi-

gli sbattono la porta in faccia. come si abbandona un sole al tramonto. Timone si sente tradito, comincia la sua malattia mortale, si chiede se mai sia

stato libero, se la sua stessa casa non sia la sua prigione, e organizza una grottesca cena in cui servirà agli amici ingrati soltanto una pentola

Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. In basso, a sinistra, un ritratto del grande drammaturgo inglese William Shakespeare, che nel “Timone d’Atene” (qui sotto la copertina del libro) affronta la piaga del “Dio-denaro”. A destra, Stratford, luogo di nascita dello scrittore

d’acqua calda. Nel frattempo il giovane capitano Alcibiade – personaggio che ricorda in qualche maniera Fortebraccio in Amleto – si reca presso il Senato a chiedere uno sconto di pena per un suo amico guerriero che, stando alla sua testimonianza, lo merita in particolare. I senatori lo trattano male, si rifiutano di ascoltarlo e, alle sue repliche, minacciano di bandirlo. A quel punto sarà Alcibiade a prendere l’iniziativa, denunciando i vecchi e per lui rimbambiti senatori, che certo si comportano in maniera assai cinica e violenta: e analogamente a Coriolano, sobillerà il suo esercito contro la città.

Si viene a creare così una doppia rivoluzione contro Atene, insieme a quella di Timone, che all’inizio del IV atto scaglia la sua potente maledizione – in una invettiva davvero splendida, condita da un linguaggio di una potenza tipicamente shakespeariana: «Voi pestilenze connaturate all’uomo, ammucchiate su Atene, matura per il colpo, le vostre febbri potenti e infette. Tu fredda sciatica, azzoppa i nostri senatori, si che le loro membra siano sciancate come le loro maniere. Libidine e lussuria striscino nelle menti e nel midollo della nostra gioventù, che lotti contro le correnti delle virtù e anneghi nei bagordi! Rogne e pustole come semi entrino in

tutti i petti ateniesi e il loro raccolto sia la lebbra universale!». Timone-Shakespeare ci ribadisce, sulla scorta dell’ Etica nicomachea di Aristotele, come di tutte le belve l’uomo sia certo la peggiore, e il tramite di questa concezione è senza dubbio lui, la


cultura

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impossibilità) a bilanciare la sventura che incombe sui personaggi. Né appaiono in alcun modo invocazioni agli Dei, in questa Grecia dove assai prima di Hoelderlin essi sembrano “fuggiti”. Morti gli Dei pagani e in mancanza del Dio cristiano, l’unico vero Dio si rivela il Denaro, nella sua inquietante visibilità: ma proprio questo condurrà Timone alla morte, dopo aver compreso come evidentemente nella

Nella società non c’è altra possibilità che «vivere-per-i-soldi»: ecco la rivelazione che spinge l’eroe del dramma alla morte nostra società atea e secolarizzata non ci sia altra possibilità se non quella di «vivere-per-isoldi», quindi essere indebitati dalla nascita, analogamente al peccato o alla colpa, in un senso che si può definire ontologico: un vero e proprio “debito originale”. Se infatti i veri amici non prestano mai soldi “ad interesse”, come aveva già detto Antonio ne Il mercante di Venezia, allora la stessa istitu-

“materia-prima” dell’alienazione umana, l’oro: «Oro? Giallo splendente, prezioso oro…Che strapperà sacerdoti e servi dal vostro fianco, ucciderà coi cuscini uomini vigorosi. Questo giallo verme unirà e sfalderà religioni, benedirà i maledetti…Oro, puttana dell’umanità». Significativo come a tal punto il bandito Alcibiade vada a trovare l’altro bandito Timone, e compaiano proprio in questa scena le due sole donne della vicenda, Frine e Timandra, amanti di Alcibiade e vere e proprie puttane, come esse stesse si definiscono. Non si faranno problemi ad accettare gli improperi di Timone, e certo la misoginia non sarà da meno della misantropia.

Ma è proprio questo l’aspetto che forse più colpisce di quest’ultima tragedia shake-

speariana: è significativo che in Timone d’Atene non appaia in alcun modo una relazione amorosa né una storia d’amore, come avviene invece sempre nelle opere di Shakespeare. Timone è l’unica tragedia (si pensi a Otello, Romeo e Giulietta, Amleto, Macbeth, Antonio e Cleopatra, ecc.. ma anche a tutte le grandi commedie) che non si connetta in alcun modo con l’intersezione di una vicenda dove sia l’amore a muovere tutto. E lo si deve proprio a questo grande discorso che non prende di mira l’amore ma l’amicizia, le sue ultime possibilità. E certo anche qui non si può dire che il messaggio del Bardo sia particolarmente allegro (lo sarà senz’altro in altre situazioni e

commedie), ma sicuramente l’amicizia umana non sembra uscirne particolarmente esaltata. Così Timone d’Atene appare in qualche modo una tragedia sterile, dove non c’è nemmeno il contrappunto dell’amore (e se si vuole della sua

zione dell’odierna Banca Mondiale che governa tutte le nostre relazioni economiche, si rivela come il riferimento obbligato al nostro rapporto di sostanziale inimicizia: siamo tutti nemici perché, prigionieri volenti o nolenti del sistema bancario, ci siamo indebitati fin dalla nascita; e così Timone morirà maledicendo lo stesso rapporto che lega l’uomo al proprio lavoro, quindi al guadagno, al profitto e ai soldi: «La tomba sia l’unico lavoro dell’uomo, e la morte il suo unico guadagno».

Non è un discorso di metodologia economica, di una

parte o dell’altra, quello di Timone; è invece la tragica denuncia dell’impossibilità dell’amicizia in una società dove tutto dipende, in una maniera ancestrale e anteriore alle nostre stesse volontà, dalle relazioni che sono già stabilite e alienate attraverso il denaro. E non c’è bisogno di arrivare allo Strindberg dei Creditori, e nemmeno al pedante Brecht de Gli affari del Sig. Giulio Cesare ovvero alla più recente Visita della vecchia Signora di Duerrenmatt, che afferma perentoriamente come «tutto si può comprare». La più forte e sconvolgente denuncia del nostro essere homini oeconomici, che ricalca l’apostrofe di Plauto homo homini lupus assai presente nel testo, viene sperimentata da Shakespeare in questa inquietante e ancora per molti versi non compresa tragedia che, al di là della suggestione marxista, contiene in verità un discorso “economico” ancora più terribile e alienante. Non a caso anche Apemanto andrà a trovare Timone che si è rifugiato nella foresta dopo aver maledetto la città; e in questo dialogogià vagamente alterco, beckettiano, egli lo investe con l’accusa fondamentale nei confronti del suo carattere: «Tu non hai mai conosciuto la via di mezzo dell’umanità, ma solo gli estremi».

È vero, manca a Timone una “via media”; ma proprio in tale maniera egli riesce, sempre con Apemanto, a scandagliare in profondo il proprio pensiero, nel comune approccio alla bestialità, e nel rapporto con gli animali che entrambi ricercano. E verrebbe quasi da pensare che, proprio alla celebre definizione di Aristotele dell’uomo in quanto «animale che ha il linguaggio», Shakespeare ne voglia aggiungere un’altra, più pessimista ma forse anche realista: «l’uomo, animale che ha il denaro», trovandosi fin dalla nascita implicato in una realtà economica che lo trascende. In effetti è l’ultima disincantata verità che sembra suggerirci il grande testo, anche nel suo finale “politico” in cui Alcibiade, spronato in tutti i modi dai senatori, rinuncia ad attaccare la città in cambio di compensi che gli anziani di certo gli avranno assicurato. E tutto questo ci appare molto più vicino alla realtà di quanto venga descritto nell’intero teatro politico novecentesco.


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cultura

Ritratto. A cento anni è morto Claude Levi-Strauss, uno dei maggiori antropologi del Novecento, autore di «Tristi tropici»

L’uomo alle origini della storia di Osvaldo Baldacci

Il grande antropologo Claude Levi-Strauss ha dedicato la vita a studiare le abitudini sociali dei popoli primitivi attraverso l’esperienza delle tribù dei luoghi più sperduti della Terra. Sotto, un’immagine recente dello studioso che era anche accademico di Francia

e capiamo un po’ di più il mondo lo dobbiamo senz’altro anche a lui. È morto nella notte tra sabato e domenica a Parigi Claude LeviStrauss, antropologo francese nato a Bruxelles 101 anni fa (nacque in Belgio il 28 novembre 1908 da genitori francesi). Ne ha dato notizia ieri l’Ecole des hautes etudes en sciences sociales. Il metodo di indagine “strutturalista”, che caratterizzò il suo operato, fu il frutto di un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti, dove fu costretto a scappare nel 1939 per evitare le persecuzioni naziste contro gli ebrei. Giramondo inesauribilmente in cerca di elementi che gli facessero capire i meccanismi della cultura umana, Levi-Strauss è stato il principale teorico dell’approccio strutturalista, per il quale i comportamenti, le convenzioni, i rapporti di parentela, la lingua, i miti e tutti gli aspetti della cultura umana sono infine riconducibili a strutture fondamentali. Per questo motivo LeviStrauss si è dedicato soprattutto alla ricerca presso le realtà umane più primitive, specializzandosi nei popoli che non usavano la scrittura. Ha così raccolto una messe immensa e ancora fondamentale di materiale, che ha tentato di riorganizzare e di comprendere, evidenziando alcuni aspetti fondanti alle radici della cultura umana. Un’attenzione particolare l’ha dedicata alla religione, considerata lo sfondo principale di una cultura e anche lo strumento attraverso cui questa cultura si esprime. Un altro aspetto da lui indagato in modo approfondito e basilare per ogni studio successivo sono i rapporti di parentela all’interno delle società primitive, e il conseguente sviluppo di questi rapporti intorno ai quali si passa dalla struttura familiare a quella statuale. Il suo ragionamento antropologico base procedeva

S

per categorie di coppie di opposti, rimaste fondamentali: natura-cultura, crudocotto, storico-universale, società caldesocietà fredde, pensiero selvaggio-pensiero logico. Grazie a lui è cambiata la stessa accezione di cultura,non più vista solamente come espressione artistica, bensì concettualmente ampliata a comprendere ogni manifestazione dell’uomo e della società. Per tutti questi motivi Levi-Strauss è considerato il padre

dell’antropologia moderna, nonostante il superamento di alcuni suoi meccanicismi. Resta il fatto del suo grande amore per tutte le culture, per tutta l’umanità, che ha animato la sua scienza. “’Nulla, allo stato attuale della ricerca, permette di affermare la superiorità o l’inferiorità di una razza rispetto all’altra”: una citazione come questa mostra il livello dello scienziato non solo per la correttezza scientifica, ma anche per lo

Fu il primo a sottolineare il valore formativo per l’intera umanità della stagione dei “primitivi”: i suoi studi strutturarono una disciplina che ha segnato di sé tutto il secolo passato spessore umano di una affermazione che va collocata nel suo momento storico, ancora permeato dall’impostazione razzista della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, impostazione che tanti orrori ha prodotto.

Tra le sue opere più importanti: Tristi tropici (1955, diario di viaggio con le sue impressioni del mondo primitivo amazzonico), Le Strutture elementari della parentela (1962), Pensiero Selvaggio (1962), Le origini delle buone maniere a tavola, L’uomo nudo, Il Cotto e il Crudo, i quattro volumi della gigantesca impresa dei Mythologiques, in cui analizza tutte le variazioni dei gruppi del Nord America e del Circolo Artico esaminando, con una metodologia tipicamente strutturalista, le relazioni di parentela tra i vari elementi. Come si vede anche da alcuni dei titoli, un’altra grande sua capacità fu quella di divulgare, di raggiungere un pubblico più ampio di quello strettamente accademico, e questo, visto anche i temi trattati e il suo approccio innovativo, ha contribuito enor-

memente a cambiare il modo di pensare il mondo e la cultura in occidente. Sulla stessa lunghezza d’onda va anche aggiunto che i suoi studi, la sua scrittura, vanno oltre l’ambito scientifico e si possono ricondurre anche a quello politico e letterario. E tra gli altri suoi meriti va considerato quello della sua libertà intellettuale che gli ha sempre permesso di innovare rifuggendo dall’asservimento al pensiero dominante. Era avvenuto prima con le impostazioni eurocentriche e razziste, avvenne anche nel dopoguerra con la sua capacità di rimanere alternativo al dilagante pensiero marxista, mantenendosi fedele a una lettura analitica della società. Anche per questo oltre che antropologo, scienziato sociale nonché intellettuale nel senso più ampio, Claude LeviStrauss può essere considerato anche un filosofo della politica. Peraltro i suoi studi sulla cultura e sulla società lo hanno portato a vibranti dibattiti sul tema della natura della libertà umana. Nasce a Bruxelles ma si trasferisce presto con la famiglia a Parigi dove suo padre lavorava come ritrattista. La sua formazione culturale avviene nel clima intellettuale parigino. Studia Legge e Filosofia alla Sorbona, non conclude gli studi in Legge ma si laurea in Filosofia nel 1931. Inizia a insegnare in un liceo di provincia, un’esperienza che condivide con Maurice Merleau-Ponty e con Simone de Beauvoir. Scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell’etnologia, la possibilità di costruire un discorso più concreto e innovatore sull’uomo. Ha vissuto e insegnato per decenni tra la Francia e gli Stati Uniti, e nel 1973 ha ricevuto il più grande riconoscimento per uno scienziato francese, la nomina all’Accademia di Francia.


spettacoli lettra. Anche solo scandire mentalmente questo nome riporta a galla reminescenze scolastiche legate allo studio della mitologia greca. Ma Carmen Consoli non è una che si lascia intimidire facilmente. Elettra, dunque, è il nome del suo nuovo album che esce a tre anni di distranza da Eva contro Eva, altro emblema dell’universo femminile. Eppure l’ascolto della title-track riserva una sorpresa. L’Elettra descritta dalla “Cantantessa” non è quella che ci ricordavamo. È, infatti, una prostituta che rischia una «necrosi del cuore». Una a cui bisogna saldare «il servizio d’amore». Una che, nonostante l’esperienza, continua a soffrire di ansia da prestazione. E il tema della mercificazione del corpo non viene esaurito solo in questa canzone.Torna ad essere esplorato, ad esempio, anche nel video del primo singolo estratto dall’album, Non molto lontano da qui, caratterizzato da un irresistibile refrain di chitarra che rimanda alla musica caraibica. Carmen appare nel video nelle vesti, succinte e sexy, di una peripatetica. La location scelta è un bordello dei primi del Novecento. La cantante si muove sinuosa attraverso le stanze di una casa del piacere e la telecamera, seguendola, svela la noia delle colleghe alle prese con le lunghe attese e i tempi morti tipici di questo lavoro. Sono tutte professioniste del sesso programmate per dare piacere agli uomini, spesso potenti, che vanno a trovarle. Tutto questo sa maledettamente di già visto e di già sentito eppure anche questo video riserva una sorpresa. Nel finale infatti un panciuto uomo di mezza età, simbolo del potere, viene assalito eroticamente da tutte le prostitute. Il suo cuore non riesce a sostenere l’emozione e l’uomo muore. Tutto questo mentre Carmen canta, con una nota di rassegnazione nella voce, «a volte ci forziamo di ignorare il gemito costante delle nostre inclinazioni».

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siciliano doc come lei: l’amico Franco Battiato. Un altro cantautore i cui testi rappresentano una forma di espressione altissima di concezioni filosofiche e sono animati da una ricerca linguistica tesa al raggiungimento di un’espressività che renda giustizia alla realtà raccontata. E non è un caso che la Consoli sia in grado di mettere in musica anche le date come nell’ipnotica Ventunodieciduemilatrenta, bizzarra previsione sul futuro in forma di filastrocca. Più graffiante la caustica Mandaci una cartolina che traccia un ritratto impietoso della nostra «Italietta» fatta di «cafoni» e «puttane in preda all’ormone». Incentrata sulla vita di paese e infarcita di luoghi comuni invece Perturbazione atlantica. Fin qui i testi.

E

Un video che fa riflettere e che mostra tutta la femminilità di una «Donna con la D maiuscola» come ama definirsi la cantante. Certo a volte Carmen gioca a fare la «Bambina impertinente» ma cos’è la seduzione se non un gioco portato alle estreme conseguenze? Eros e Thanatos. Le due facce della stessa medaglia. Anche in questo caso la mitologia greca ci aiuta a capire paure ancestrali e desideri irrefrenabili nascosti in ognuno di noi. Anche se la Consoli non parla direttamente del mito di Elettra in una canzone specifica dell’album, la figura archetipica della ragazza che vorrebbe uccidere sua madre per prendere il suo posto nel rapporto con il

Musica. Piace (e ipnotizza) l’album inedito di Carmen Consoli “Elettra”

La nuova conferma della “Cantantessa” di Matteo Poddi padre permea tutto il disco. Costituisce il filo rosso che lega le varie tracce. Anche quelle che a un primo ascolto non sembrano rimandare all’infanzia sono in realtà ricolme di malinconia e di nostalgia. «Che senso ha aspettare l’estate per poi rimpiangere il freddo dell’inverno?» recita il testo di Sud Est che rimanda alle «domeniche mattine» caratterizzate dal «tumulto delle parole», quelle pronunciate da un padre spesso

idealizzato. E la figura maschile è, non a caso, uno dei temi preferiti della “cantantessa” che, nelle sue canzoni, ha sempre cercato di analizzarla in tutte le sue sfaccettature. Il padre, l’amante, l’uomo-padrone e il padre-padrone. Difficile non cercare in ogni uomo un po’ del proprio padre per molte donne. E Carmen non fa eccezione in questo. In ogni gesto, in ogni accento è la figura del padre a costituire il metro di

In questa pagina, alcune immagini della cantautrice catanese Carmen Consoli, oggi sotto i riflettori con il nuovo attesissimo album “Elettra”. Per l’artista si tratta dell’ennesima conferma del proprio talento, dopo il successo ottenuto con il disco “Eva contro Eva”

Il rapporto con il padre costituisce il filo rosso che lega le tracce. Anche quelle che a un primo ascolto sembrano non rimandare all’infanzia paragone. Anche se si tratta di un Signor tentenna qualunque, per citare il titolo di uno dei brani del disco del 2006 Eva contro Eva. In Elettra la Consoli prosegue nella strada che ha intrapreso con il disco precedente. La sua attitudine rimane quella di una rocker pronta a dare il meglio di sé sul palco ma le sue canzoni sono diventate sempre più intime e minimaliste. Quasi fosse alla costante ricerca di una purezza e di una essenzialità che si ottengono solo liberandosi da etichette e preconcetti. Carmen Consoli può affascinare o risultare odiosa ma è, di fatto, una delle cantautrici più originali e genuine del panorama musicale italiano. Anche quando canta in francese come in Marie ti amiamo in coppia con un altro

Ma la musica non è da meno. Suadente forse è la parola giusta per descriverla. È talmente avvolgente che in men che non si dica trasporta l’ascoltatore in una dimensione popolata dai bizzarri personaggi che la Consoli è in grado di cogliere nei loro tic e nelle loro stravaganze. ‘A Finestra, cantata in dialetto catanese, è una perfetta dimostrazione di tutto ciò. Folk ma non solo. La finestra è quella attraverso la quale la cantautrice si affaccia sul mondo che la circonda per descriverlo e raccontarlo con tutta la forza del suo sentire. Suggestioni brasiliane caratterizzano Non molto lontano da qui e altre tracce dell’album. La fedele chitarra della Consoli continua ad accompagnarla in tutti i brani ma viene suonata con più delicatezza, in punta di dita. Dopo tredici anni di carriera e dodici dischi pubblicati, compresi i live e le edizioni in altre lingue come Stato di necessità del 2001 e L’eccezione del 2003, è tempo di bilanci per la cantautrice catanese. Sicuramente questo album conferma tutto quello che la cantante ha dimostrato nel corso degli anni. Anche qui Carmen riesce a distinguersi per la cura del dettaglio e il ricorso a un lessico davvero inusuale nella musica pop. Anche qui le melodie sono orecchiabili, fresche, radiofoniche eppure per niente banali o scontate. Anche qui vengono toccati temi anche forti con decisione e disinvoltura. Anche qui si intravede la stoffa di una cantante che si mette in gioco in tutto e per tutto. E che comunica col suo pubblico. Per questo sarebbe bello vederla, quanto prima, in tour in giro per l’Italia e il mondo. In definitiva un disco piacevole da ascoltare e da riascoltare. Ma se pensate di relegarlo al sottofondo vi accorgerete di avvertire l’esigenza di ascoltarlo con calma e concentrazione. Più volte. Come tutti i dischi che hanno qualcosa da dire.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”International Herald Tribune” del 03/11/2009

Una Russia tutta da bere di Clifford J. Levy n tardo pomeriggio in un sobborgo di Mosca. Come in qualunque altro posto della grande Russia, dove esista un centro per la disintossicazione da alcol. Dopo un po’ la gente arriva. Lo fanno sempre. È un brutto vizio che rovina il Paese ed è una sfida che il nuovo governo vorrebbe vincere. Il primo ad arrivare, scorta da due agenti di polizia , è stato un operaio Damir Askerkhanov, che ha ammesso di essersi ubriacato con vodka e birra – «Questa e mia unica vera vacanza!» – prima di essere stato ripescato in mezzo ad una strada al freddo.

U

A soli 23 anni ha ammesso di essere già stato in un centro per alcolisti. Sergey Yurovsky, 36 anni, che sta studiando per diventare un funzionario governativo, è il secondo arrivo, e borbotta qualcosa tentando di togliersi il maglione su richiesta del medico che lo deve visitare. L’avevano lasciato smaltire la sbornia in una stanza, prima di sveglialo, giusto in tempo per incrociare Larissa Lobachyova di 53 anni. La donna ha i capelli sporchi d’immondizia, in mezzo a cui era caduta quando l’hanno trovata i poliziotti che l’accompagnano. «Va avanti così tutto il giorno» afferma l’ispettore Igor Poludnitsyn che ha fatto da supervisore per sette anni in uno di questi centri. «È una vera calamità nazionale». Il presidente russo Dmitri Medvedev ha espresso la stessa preoccupazione, solo un po’tardi rispetto alla gravità del problema. Ha dichiarato che il governo deve intervenire per eliminare la Russia dalla cima della lista di Paese con il maggior consumo d’alcol al mondo. Il Cremlino ha già vinto una prima battaglia, quella sui casinò e il gioco d’azzardo, a luglio di quest’anno. Ma gli alcolici, e la vodka in particolare, è completamente un’altra faccenda. È un pila-

stro della vita e delle abitudini russe. Sembra essere un lubrificante sociale oltre a un mezzo per fuggire dai problemi quotidiani. Medvedev chiede sanzioni più rigide contro la vendita di alcol ai minori, così come un giro di vite sulla vendita della birra, che è sempre più popolare tra i giovani. E naturalmente un controllo sulla vendita di quella più popolare in assoluto: la vodka. Il piano del presidente non è il primo e segue una lunga serie di campagne che si sono susseguite nei secoli, è il caso di dire. L’iniziativa più importante la mise in campo Michail Gorbachev negli anni Ottanta. Svuotò tutti gli scaffali del Paese e rase al suolo i vigneti da cui si produceva la bevanda alcolica. Inizialmente la campagna funzionò, ci fu un miglioramento della qualità della vita dei russi e un incremento dell’aspettativa di vita.

Ma la reazione pubblica non tardò ad arrivare a danneggiare la reputazione di Gorbachev e del Partito comunista. Negli ultimi anni in cui la Russioa si è sentita maggiormente coinvolta nelle relazioni col resto del mondo, questo problema ha creato non poche difficoltà. Possiamo affermare che abbia frenato lo sviluppo del Paese. Le imprese straniere che vogliono operere in Russia sono consapevoli del pedaggio che devono pagare col personale russo: minore produttività. I cittadini russi consumano ogni anno 4,75 galloni (circa 16 li-

tri, ndr) di alcol puro a testa. Più del doppio della quantità considerata una minaccia per la salute dall’organizzazione mondiale della sanità. Negli Stati Uniti il consumo è di circa 2,6 galloni a testa. Il Paese difficilmente riuscirà a superare la crisi demografica che attraversa – la popolazione dovrebbe diminuire del 20 per cento entro il 2050 – se non risolverà il problema dell’abuso di alcolici. La vita media di un cittadino russo è di soli 60 anni, in parte a causa dell’alcol.

«Non importa cosa dica la gente sul fatto che sia troppo radicata nella nostra cultura, sul fatto che sia praticamente impossibile la lotta contro l’alcolismo in Russia», ha affermato Medvedev ad agosto, «dobbiamo riconoscere che in altri Paesi hanno avuto successo nei loro sforzi per risolvere il problema». Putin intanto ha dati una mano per vincere la resistenza delle lobby, soprattutto quella dei produttori di birra. Per ora vale sempre la multa per gli ubricaono: 100 rubli. Come al tempo dei sovietici.

L’IMMAGINE

Appello al ministro Tremonti: riesaminiamo le spese per le autostrade I regionali di Italia Nostra Lazio e Toscana chiedono al ministro Tremonti di procedere a un riesame delle esagerate spese previste per queste autostrade in un momento di grandissima crisi economica e di difficoltà dei bilanci dello Stato. L’autostrada da Livorno a Latina verrebbe a costare circa 5 miliardi di euro senza portare alcun significativo vantaggio né per i pendolari né per gli automobilisti né per i contribuenti. Invece la messa in sicurezza e l’ampliamento dell’Aurelia e della Pontina costerebbero meno di un terzo della spesa prevista per le due autostrade. Oltre a ciò va sottolineato il fatto che la mobilità sulla costa tirrenica potrebbe essere favorita con spesa molto più bassa da sistemi di trasporto pubblico innovativi. Signor ministro, vista la coraggiosa battaglia che lei sta combattendo per evitare lo sperpero di risorse pubbliche, Italia Nostra auspica che accolga questo nostro appello.

Nicola Caracciolo presidente Italia Nostra Regionale Toscana

L’IRAP DA SOLO NON BASTA Non so se l’abolizione dell’Irap potrà cambiare le cose perché, pur essendo un’ottima idea, da sola non basta. Credo che l’azione riguardi la diminuzione delle tasse, definita da molti storici come l’unica cosa con la quale i governi inducono il cittadino a farsi aiutare dal consociativismo. Il nostro governo non ha bisogno di creare tali indotti, perché vuole agire con azioni dirette e riforme che alla sinistra fanno un po’paura: ma in molte buste paga le detrazioni superano il netto a pagare.

Barbara

A PROPOSITO DI “BALLARÒ“ La sensazione che si riceve da un programma come Ballarò, è che in Italia il problema fondamentale è la mancanza di collaborazione

dell’opposizione. I discorsi dei presenti consistono in slogan ritriti su frasi comuni, che non forniscono alcun valore aggiunto. Da un punto di vista etico, bisognerebbe chiedersi se è più importante considerare la propria posizione all’interno dei fatti decisionali o venire a patti per favorire il bene comune, laddove esiste possibilità di convergenza.

Br

I NOSTRI GOVERNANTI IMPARINO DALL’ISLANDA Conoscevamo il cattivo stato delle pari opportunità nel nostro Paese, ma non pensavamo di stare peggio di alcuni Paesi africani. Purtroppo invece il World economic forum ci fa sapere che le donne in Italia continuano a perdere terreno e stanno addirittura peggio che in

Finalmente un po’ di fresco Siete un po’ giù di corda per l’arrivo dei primi freddi? Di certo non lo è questo elefante ospite di uno zoo belga, catturato in un momento di relax durante un bagno tonificante. I pachidermi infatti, come molti mammiferi di grossa stazza, soffrono molto il caldo. E per combatterlo, ricorrono a un curioso stratagemma: sventolano ripetutamente le grandi orecchie

Paesi in via di sviluppo come Lesotho e Botswana, per non dire del Kazakhstan, della Cina o del Vietnam, e questo soprattutto a causa «dei risultati sempre scarsi in materia di partecipazione economica». Suggeriamo ai nostri governanti di andare in Islanda, oppure in Finlandia o Norvegia, i primi tre Paesi in classifica, per imparare

come si fa a correggere una situazione così scandalosa.

P.L.

NON STRUMENTI MA PERSONE La numerosità soppianta la sovranità della persona, la cui autonomia rischia di essere vinta dalla eterocrazia. La democrazia può alimentare invidia, conformismo,

livellamento. Stato e società estendono indebitamente i loro poteri sull’individuo, con caste, ideologia, pianificazione, burocratismo, sindacalismo, partitocrazia, redistribuzione ed eccesso di leggi. Il welfare declassa il cittadino a cliente. Il potere non può vessare gli individui, né usarli come mezzi.

Gianfranco Nìbale


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Perché sei così abbattuta e triste? Dimmi una cosa, amore mio: perché nella tua lettera mi fai capire di essere così abbattuta e triste? Capisco che tu possa avere nostalgia della mia presenza: ma ti riveli di un nervosismo, di una tristezza e di un abbattimento tali che la tua lettera mi ha procurato un grande dolore. È successo qualcosa, amore mio, oltre alla nostra separazione? Ti è successo qualcosa di peggio? Perché parli in un tono così disperato del mio amore, come se tu dubitassi di esso, quando non hai nessun motivo? Sono totalmente solo, posso ben dirlo, dato che le persone di questa casa (che comunque mi hanno curato benissimo) mi trattano con perfetta formalità, e appaiono durante il giorno solo per portarmi una tazza di brodo, il latte o le medicine; e non mi fanno nessuna compagnia. Perciò a quest’ora della notte mi pare di essere in un deserto. Ho molta sete e non c’è nessuno che mi possa dare qualcosa. Mi sento impazzire per la solitudine, e non c’è nessuno che mi possa vegliare un po’ mentre io tento di addormentarmi. Ho molto freddo. Mi corico un po’ per fingere di riposarmi. Non so quando ti manderò questa lettera o se aggiungerò ancora qualcosa. Ah, mio amore, mio Bebè, mia piccola bambola, potessi averti con me! Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

RETTE RESIDENZE SANITARIE ASSISTENZIALI Domani al Tar Toscana si svolgerà l’udienza di merito per tre cause sulle rette rsa (residenze sanitarie assistenziali) in cui i parenti dei ricoverati (ultra 65enni non autosufficienti e portatori di handicap grave) chiedono il rimborso delle quote pagate ingiustamente. In passato il tribunale aveva dato loro ragione, ma questa volta i ricorrenti si trovano di fronte a una sentenza diversa: secondo il nuovo orientamento i comuni e le rsa hanno il diritto di chiedere somme che esorbitano dai redditi del ricoverato, computandole rispetto ai redditi di svariati parenti e affini. Con sentenza dello scorso agosto, dopo numerosi provvedimenti positivi per gli utenti, è arrivato questo ribaltamento di giurisprudenza. La legge che disciplina l’Isee, prevede che per il calcolo delle rette di degenza nelle rsa per questi pazienti si consideri il solo reddito dell’assistito. Secondo il nuovo orientamento del Tar Toscana, tali norme diventano di mero indirizzo e inattuabili. Insomma - dice il Tar - la norma c’è ma non la si può attuare perché non è stato emanato il Decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Evidentemente, per il Tar non conta che ci sia una specifica volontà politica di non emanarlo e che da 10 anni i comuni ne ostacolino l’approvazione! Ma la nostra battaglia continua, sia al Tar Toscana sia al Consiglio di Stato se sarà necessario, organo che si è già pronunciato in modo favorevole agli utenti.

Emmanuela Bertucci, Claudia Moretti

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

4 novembre 1966 La piena dell’Arno raggiunge Firenze passando alla storia come l’alluvione di Firenze 1968 Si aprono in Israele i III Giochi paralimpici estivi 1970 Guerra del Vietnam: gli Stati Uniti cedono il controllo della base aerea nel delta del Mekong ai sudvietnamiti 1979 Inizia la crisi degli ostaggi in Iran: radicali iraniani, in gran parte studenti, invadono l’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran e prendono 90 ostaggi 1980 Il candidato repubblicano Ronald Reagan sconfigge il candidato democratico Jimmy Carter e diventa presidente degli Stati Uniti 1993 La Bolivia diventa membro della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche 1995 Dopo aver partecipato ad una manifestazione per la pace nella Piazza dei Re di Tel Aviv, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin viene ferito mortalmente da un estremista di destra israeliano

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ETERO, BI, OMO, TRANSEX Il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, si è dimesso per vicende legate ai suoi rapporti con un transessuale e ai denunciati tentativi di ricatto sui quali è intervenuta la magistratura. Si chiude una vicenda politica, rimane quella umana che auguriamo possa trovare soluzione. Ci si è chiesti come un eterosessuale, uomo o donna che sia, possa avere rapporti con un transessuale o relazioni omosessuali o bisessuali. Un’idea diffusa del maschio e della femmina li collega alla riproduzione e quindi al rapporto etero. È un’idea sbagliata. In natura sono ben 1500 specie animali, dall’insetto al capodoglio, che praticano l’attività omosessuale e non solo a scopo ludico-sessuale ma anche affettivo, il che può portare a rapporti duraturi. L’omosessualità non è praticata solo da specie a noi vicine ma anche dai moscerini o dai pappagalli Galah. La bisessualità, altro tema controverso, è praticata dal 100% dei Bonobo (scimmie antropomorfe). Il transessualismo, che coinvolge persone che sentono di appartenere al sesso opposto, riguarda 1 maschio su 10.000 e una femmina su 30.000. Cosa attrae un dichiarato etero verso un omosessuale o un transessuale? La risposta sta nei nostri cromosomi, nella produzione ormonale, nell’educazione ricevuta, nell’ambiente in cui viviamo. Insomma c’è una varietà notevole di identita’ sessuali. Tutte con uguale diritto di cittadinanza.

Primo Mastrantoni

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LO STATO RESTI FUORI DAL FINE-VITA Una volta messa nelle mani della legge positiva, l’autodeterminazione non può più fermarsi di fronte a un sondino. L’ennesima intromissione dello Stato in un ambito così misterioso e delicato che è la vita nella sua fase più debole e terminale. Siamo persuasi che sia sufficiente l’attuale pratica del consenso informato e che qualunque decisione circa la medicina di fine vita debba essere determinata non da carte notarili di stato, ma dal libero, privato, fiducioso dialogo tra medici, pazienti e familiari dei pazienti. Perché dobbiamo dirci cristiani, dev’essere il tema di una battaglia culturale, ma non c’è bisogno di una legge per imporlo. Quando la società civile non percepisce più un certo comportamento come violazione di un divieto morale, non si può trasformare il peccato in reato. Non si può imporre un’etica di Stato, perché in una società libera l’etica preesiste allo stato. L’etica di Stato appartiene alle dittature comprese quelle democratiche, le quali votano su quelli stessi valori su cui invece le democrazie dovrebbero fondarsi. La legge sul testamento biologico ne è solo l’ultimo esempio. I laicisti, alla Veronesi e alla Marino cercano di imporre la morale del supermarket etico del ciascuno fa quel che vuole, gli antilaicisti difendono la dottrina della Chiesa. Tra Beppino Englaro che vuole la morte di sua figlia e coloro che vogliono salvarla, la mia concezione morale stà con i secondi, ma io credo che entrambi i fronti oggi siano impegnati a trasformare lo stato nel braccio armato dell’etica. Lo Stato, allora, non dovrebbe mai intervenire? Dovrebbe tollerare qualsiasi comportamento affidato alla discrezione dei privati? No! Pensare che lo Stato sia neutrale è l’errore dei laicisti. Lo Stato liberaldemocratico in realtà ha valori e principi propri, sanciti dalla Costituzione, e in nome di tali valori e principi può legiferare e imporre limiti e divieti. La nostra Costituzione stabilisce che non si può coartere la libertà di autodeterminazione di un malato. Se un malato rifiuta la trasfusione di sangue, perché è un testimone di Geova, il medico si deve fermare. Dunque sul fine vita bisognerebbe astenersi dal legiferare? Una legge ci vuole, ma dovrebbe essere sul dissenso informato più che sul testamento biologico, e dovrebbe mantenere almeno quattro punti fermi: 1) ribadire certi divieti, che sono anch’essi principi costituzionali al pari dell’autodeterminazioneterapeutica, come il no all’eutanasia, il no al suicidio assistito, il no all’abbandono e il no all’accanimento terapeutico; 2) adottare per questi termini le migliori definizioni scientifiche disponibili; 3) precisare cosa intendere per dissenso informato contro la terapia prescritta dal medico e in particolare che il dissenso del paziente debba essere affidato a una volontà espressa, attuale, dunque non risalente ad anni prima in equivoca e cioè non ricavata dalla voce del padre o degli amici, come nel caso di Eluana e informata, secondo quanto stabilito da una bella sentenza della terza sezione civile della corte di cassazione, presieduta da Roberto Preden. Infine, la legge dovrebbe stabilire chi debba esprimere questo dissenso nel caso in cui lo stesso paziente non fosse in grado di farlo. Giuseppe Confalone C I R C O L I LI B E R A L SI C I L I A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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