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Le idee chiare e precise
sono le più pericolose, perché non si osa più cambiarle André Gide
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 5 NOVEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Gli elettori “avvertono” il presidente togliendogli due governatori. E New York rielegge l’ex repubblicano Bloomberg
Obama, ed è subito sera I democratici crollano nelle elezioni in Virginia e in New Jersey. E, a solo un anno dal trionfo, la sua leadership è appannata. In America e nelle “aree calde”del mondo VISTO DAGLI USA
di Andrea Mancia
VISTO DALL’ITALIA/STEFANO FOLLI
È già cominciato «La politica estera il cambio di stagione finora è un disastro»
a parola d’ordine, alla Casa Bianca, è “fare finta di niente”. Secondo il guru di Obama, David Axelrod, il presidente «non ha neppure seguito lo spoglio delle schede in Virginia e New Jersey alla tv», preferendo concentrarsi sulla partita casalinga dei Chicago Bulls (che, per la cronaca, hanno vinto sui Milwaukee Bucks). E, secondo il portavoce Robert Gibbs, i giornalisti fanno male a trarre conclusioni affrettate dall’esito dell’ultima tornata elettorale. «Non guardiamo a queste corse per il governatore - ha detto, ancora prima dei risultati ufficiali - come a qualcosa che possa significare molto per i nostri sforzi di riforma o in vista delle elezioni del 2010». Ma nella notte tra martedì e mercoledì, la batosta è arrivata. Dura e inaspettata: i democratici hanno perso Virginia e New Jersey. E a New York Bloomberg è stato riconfermato.
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di Michael Barone
di Gabriella Mecucci
uesto editoriale, scritto mentre arrivano i risultati definitivi delle elezioni del 2009, inizia molto bene. Ma permettetemi di aggiungere a questo pezzo anche delle osservazioni che ho scritto mentre il corso delle elezioni diveniva più chiaro. Innanzitutto vale la pena sottolineare che, nel corso di queste elezioni in Virginia e New Jersey, i candidati democratici hanno corso con risultati molto lontani dalle percentuali ottenute da Obama nel 2008. Invece, i candidati repubblicani hanno ottenuto numeri migliori rispetto alle percentuali ottenute da George W. Bush nel 2004.
democratici hanno perso. È già un’inversione di tendenza per Obama, oppure è solo una prima avvisaglia, un avvertimento da parte dell’elettorato? Il politologo Stefano Folli invita alla prudenza sul test in Virginia e New Jersey: «So bene che c’è già chi immagina che gli americani abbiano voltato le spalle al presidente, ma mi sembra un giudizio decisamente prematuro». Del resto, il test è «troppo ristretto» per darci certezze. E «i fattori locali in questo genere di elezioni contano, sono prevalenti. Il vero problema di Obama, per ora, resta quello della politica estera».
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Tutti quegli errori fatti in Afghanistan
Che fine ha fatto il matematico iraniano?
Una situazione ingovernabile tra Karzai e Abdullah
L’Occidente tace sulla sorte dello studente anti-regime
di Enrico Singer • pagina 16
di Faccioli Pintozzi • pagina 14
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Autostrade, autogrill, cinema, finanza: inizia il viale del tramonto?
Benetton, la grande paura Dietro l’uscita da Telco c’è un colosso in difficoltà
«Sul crocefisso, una sentenza inapplicabile» Francesco Paolo Casavola contro Strasburgo: «Solo la nostra Consulta può decidere sulla laicità»
di Alessandro D’Amato
di Franco Insardà • pagina 6 ROMA. A vederla da lontano, può sembrare solo una scelta tecnica: questione di core business, si dice in gergo. La precisazione del terreno degli investimenti. In verità, l’uscita del colosso Benetton da Telco, ossia dall’universo della telefonia, è qualcosa di più: in termini industriali è l’abbandono di un settore strategico per gli affari del futuro. In prospettiva è un segnale di debolezza strutturale. Come dire: occuparsi di comunicazione è più difficile che fare maglioni colorati. È più difficile che gestire un’intera rete autostradale ex-statale, con lo Stato per amico. seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
È più difficile che dare una mano (e pochi spiccioli) al premier che vuole privatizzare la compagnia aerea di bandiera. È più difficile che vendere panini o film o accumulare azioni sui mercati mondiali. Insomma: Benetton è ammalata di gigantismo e, se diversificare è stata la parola d’ordine dei capostipite Luciano e Gilberto, oggi il management fa difficoltà a muoversi sul merctao globale. Anche se è globale relativamente ai prodotti e non ai referenti politici. Perciò industria e finanza italiane tremano.
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
La rivoluzione americana di Marchionne Il «Chrysler day» è pieno di promesse: pareggio nel 2010 e 21 nuovi modelli entro il 2014 di Francesco Pacifico • pagina 8 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Disillusioni. Il partito del presidente perde due governatori dove aveva vinto nel 2005. A New York rieletto Bloomberg
Obama già non vola più
A un anno dal trionfo, i democratici crollano in Virginia e New Jersey Per Washington è un campanello d’allarme: non bastano le promesse di Andrea Mancia a parola d’ordine, alla Casa Bianca, è “fare finta di niente”. Secondo il guru di Obama, David Axelrod, il presidente «non ha neppure seguito lo spoglio delle schede in Virginia e New Jersey alla televisione», preferendo concentrarsi sulla partita casalinga dei Chicago Bulls (che, per la cronaca, hanno vinto in rimonta sui Milwaukee Bucks). E secondo il portavoce Robert Gibbs, i giornalisti fanno male a trarre conclusioni troppo affrettate dall’esito dell’ultima tornata elettorale.
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«Non guardiamo a queste corse per il governatore - ha detto, ancora prima dei risultati ufficiali - come a qualcosa che possa significare molto per i nostri sforzi riformatori o in vista delle elezioni del 2010». Ma si trattava del più classico degli spin pre-elettorali. Perché, nella notte tra martedì e mercoledì, la batosta è arrivata. Dura e per certi versi inaspettata. E le “vittime” principali sono senz’altro il Partito democratico e l’amministrazione guidata da Barack H. Obama. «Anche nel 2001 - ha spiegato Gibbs, questa volta a sconfitta ormai consumata - i Repubblicani hanno perso Virginia e New Jersey, ma non credo che questo abbia influito sulle scelte legislative del presidente Bush».Tutto vero, naturalmente, ma questo racconta soltanto una parte (e tutto sommato marginale) della realtà. Perché a vedere le sfide per le poltrone di governatore in Virginia e New Jersey come un “referendum su Obama”non erano soltanto i repubblicani più ottimisti, ma anche gli strateghi democratici che avevano deci-
so di investire nelle due elezioni una montagna di dollari e il “capitale politico” dello stesso Obama. Il presidente, infatti, si è fatto vedere moltissimo negli ultimi mesi, soprattutto in New Jersey, dove i democratici hanno subito una delle sconfitte più amare degli ultimi decenni. La Casa Bianca può anche continuare a “far finta di niente”, insomma, ma è davvero poco probabile che questo mini-test elettorale non provochi contraccolpi sulle dinamiche politiche nella beltway washingtoniana, soprattutto perché le due docce fredde di Virginia e New Jersey non sono arrivate da sole. Ma proviamo a entrare nel dettaglio.
distacco. Ecco le proporzioni reali - e impreviste - della disfatta democratica di quest’anno: uno swing di quasi mezzo milione di voti (e oltre 20 punti percentuali) in cinque anni. Oppure in un anno, visto che nel 2008 Obama aveva ottenuto in Virginia più o meno lo stesso risultato di Warner. Spazzato via, in questo caso soprattutto per colpa della pessima campagna elettorale di Deeds, anche lo storico vantag-
gio democratico nelle contee del nord (in pratica sobborghi di Washington), dove il partito da sempre costruisce le fortune elettorali necessarie per contrastare lo strapotere repubblicano nel resto dello stato. Oggi la mappa della Virginia è tornata a essere “rosso scuro”, con qualche isolata macchia blu intorno alle città di Alexandria, Richmond e Petersburg. Dopo appena dodici mesi, insomma, un purple state strappato al Gop dopo oltre 40 anni (l’ultimo democratico a vincere, prima di Obama, era stato Lyndon Johnson nel 1964), torna solidamente nella colonna repubblicana. That’s change.
Non con proporzioni così vistoLa sconfitta democratica dalle proporzioni più vistose è arrivata in Virginia, dove il candidato repubblicano Bob McDonnell ha sconfitto Creigh Deeds con più di 300mila voti e 17 punti percentuali di distacco (58,6% contro 41,2%),“trascinando”con sé anche i candidati del Gop per le cariche di Liutenant Governor (Bill Bolling) e Attorney General (Ken Cuccinelli), anche loro vincenti, rispettivamente, con 13 e 15 punti di vantaggio. Nel Commonwealth della Virginia, la carica di governatore è limitata a un solo mandato, quindi tecnicamente nessuno dei due candidati era un incumbent, ma il governatore uscente era il democratico Mark Warner, che nel 2005 aveva battuto il repubblicano Mark Earley con quasi 100mila voti 5 punti percentuali di
se, ma la sconfitta democratica in Virginia era tutto sommato prevista e, forse, già “digerita” dall’establishment del partito. Quella in New Jersey, invece, non era ipotizzata neppure dagli attivisti repubblicani più accesi, visto che il Garden State ha una tradizione che - da decenni - tende a registrare un distacco molto ridotto tra i due partiti durante i sondaggi effettuati in campagna elettorale, per poi trasformarsi in un sonoro landslide democratico nel giorno del voto. Anche quest’anno, dunque, il vantaggio accumulato dallo sfidante repubblicano Chris Christie nei confronti del governatore uscente Jon Corzine durante la primavera e l’estate, sembrava destinato ad evaporare in autunno. Complice anche la presenza di un “terzo incomodo”, l’indi-
prima pagina pendente (ex repubblicano) Chris Daggett. Effettivamente, in settembre e ottobre i numeri di Christie sono iniziati a scendere pericolosamente, ma quelli di Corzine hanno stentato a decollare, fermandosi sempre appena al di sopra del 40% (un risultato pessimo, per un incumbent). Negli ultimi sondaggi prima del voto, Christie e Corzine erano praticamente alla pari. E la conventional wisdom era che, in qualche modo, i democratici sarebbero riusciti a portare a casa uno stato “blu”da oltre vent’anni. Il massimo a cui il Gop poteva puntare sembrava una “notte molto lunga”con l’esito deciso dal risultato del candidato indipendente (che in teoria tende a scemare nel giorno delle elezioni). Nessuno, ma proprio nessuno, ipotizzava una vittoria di Christie con oltre 100mila voti e oltre 4 punti percentuali di distacco. È vero che Corzine era un governatore estremamente impopolare, perfino per gli standard del New Jersey. Ma in questo caso Obama si era speso moltissimo per impedire il pick-up repubblicano, battendo lo stato in lungo e in largo per sostenere il suo candidato. Nonostante il “tocco” di Barack, rispetto alla vittoria del 2005 Corzine ha perso 200mila voti e quasi 9 punti percentuali, mentre Christie, in confronto al candidato del Gop di allora, Doug Forrester, ha guadagnato più di 50mila voti e oltre 5 punti. Uno swing vicino al 15%, in uno stato“blu”coperto dal mercato pubblicitario di New York e su cui Obama e il partito democratico hanno investito decine di milioni di dollari. Una sconfitta clamorosa. Anche per Obama.
Qualche magro motivo di consolazione, i democratici possono trovarlo nella conferma di John Garamendi al 10° distretto congressuale della California e dalla vittoria più risicata del previsto del sindaco indipendente (ed ex-Gop) di New York, Michael Bloomberg contro William Thompson (50,6% contro 46%). Mentre il movimento progressive non si aspettava affatto la sconfitta nel referendum sul “matrimonio gay” in Maine, che lo ha visto sconfitto con oltre 5 punti di distacco. Tutta un’altra storia è quella relativa al 23° distretto congressuale nello stato di New York, dove il democratico Bill Owens ha sconfitto di misura il candidato del Conservative Party, Doug Hoffman. In questo distretto storicamente repubblicano, si svolgevano special elections per sostituire John M. McHugh, scelto da Obama per essere il suo Secretary of the Army. I vertici del Gop hanno scelto Dede Scozzafava, candidato giudicato (non a torto) troppo liberal dalla base del partito, che si è ribellata riversando i propri consensi su Hoffman. Nel distretto si è scatenata una guerra senza quartiere all’interno del partito repubblicano, che ha portato al ritiro anticipato della Scozzafava (che ha poi appoggiato i democratici) e alla corsa all’endorsement per Hoffman da parte dei vertici del Gop. A beneficiarne, è stato Owens, che ha vinto per poco più di cinquemila voti, ma che dovrà rimettere in palio il seggio il prossimo anno durante le elezioni di mid-term. I democratici, ora, cantano vittoria. Ma, come spiega Patrick Ruffini, “cyberguru” della campagna di Bush nel 2004, «a NY-23 si sono appena svolte le primarie del partito repubblicano e ha vinto Hoffman; le elezioni generali si svolgeranno nel 2010». Obama e i democratici faranno meglio a ricordarselo.
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Il referendum in Maine boccia i “matrimoni gay”. E i progressisti perdono colpi un po’ ovunque
Bob McDonnell, il conservatore che ha riconquistato la Virginia Ritratto dell’anti-Barack che ha ottenuto la vittoria più larga contro i democratici. E su cui i repubblicani potrebbero puntare per il 2012 di Osvaldo Baldacci Repubblicani alla ricerca di un leader da contrapporre a Barack Obama tornano a sorridere dopo mesi bui. Il minitest elettorale tanto mini non è stato, visti la posta in gioco e i risultati. E tra i Repubblicani vince la destra dalla linea netta. Prendiamo Robert “Bob” McDonnell, trionfatore in Virginia: sposato, cinque figli, impegnato in prima linea nella difesa della famiglia, antiabortista militante, ostile alle nozze gay, già procuratore generale tutto legge e ordine, un figlio ha militato in Iraq, gradito anche alla lobby delle armi. E punta molto su istruzione e occupazione, ma ovviamente dal punto di vista dei conservatori: investimenti sì, e molti, ma non assistenziali.
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Una specie di opposto di Barack Obama. E qualcosa di simile anche nel New Jersey, nonché in quel seggio di New York unica vittoria dei democratici, ma solo perché i repubblicani si sono divisi: e nel derby interno la vittoria è andata anche lì all’ala destra, sostenuta dalla Palin e dal governatore del Minnesota, due potenziali candidati alle presidenziali del 2012, anno per cui si mormora di un possibile ruolo di primo piano anche per McDonnell. Per Obama più di un brutto colpo in vista delle elezioni di medio termine del prossimo anno. Le vittorie repubblicane in Virginia e New Jersey, con risultati utili anche a New York, parlano chiaro e segnano una strada. La stella della politica liberal del presidente si è già appannata. Deve essere chiaro che ogni elezione ha una componente locale prevalente, ma la linea di indirizzo rispetto alle tendenze politiche nazionali non manca. Avrà pesato un po’ anche l’Afghanistan? Probabile. Avrà pesato più di un po’ la riforma sanitaria? Più che probabile. Avrà pesato lo stato dell’economia che non ha subito magie? Sicuro. E hanno pesato anche scelte di visione della vita. Per spiegarsi: il superprogressista Maine è stato il 31° Stato degli Usa a bocciare con un referendum le nozze omosessuali, il candidato democratico - bocciato del New Jersey aveva promesso una legge per le stesse nozze, il nuovo governatore repubblicano della Virginia ha una chiara posizione pro-li-
fe e pro-family. Tre indizi fanno una prova: la debacle democratica segna però una chiara linea di indirizzo su alcune importanti tematiche e chiaramente non potrà non avere conseguenze. Basti pensare proprio alla riforma della sanità tanto cara ad Obama: è noto che ci sono forti resistenze tra i democratici, ed ovviamente soprattutto tra quelli dei seggi più moderati e più in bilico. Pochi
gara che si è trasformata in un referendum sulle politiche fiscali della Casa Bianca. Con in più per il Gop la soddisfazione di mandare indirettamente al tappeto il governatore democratico uscente, Tim Kaine, che nientepopodimeno è anche presidente del partito democratico e che si è dimostrato incapace di garantire l’elezione del suo successore.
Hanno votato per McDonnell gli indipendenti che un anno fa avevano catapultato Obama alla Casa Bianca. E questo nonostante l’impronta dichiaratamente conservatrice del candidato che finora aveva svolto il ruolo di Procuratore Generale. La sua vittoria è quella dell’ala conservatrice del partito, con i big scesi in campo al suo fianco. E questo ha già sapore di presidenziali 2012. Per gli utlimi giorni della campagna elettorale, e nonostante sondaggi che davano il risultato praticamente acquisito, a fianco di McDonnell sono scesi in campo personaggi del calibro di Sarah Palin: «Ciao Virginia. Sono Sarah Palin e chiamo per esortarvi ad andare alle urne martedì e votare per i nostri valori comuni - recitava il messaggio telefonico che l’ex governatrice dell’Alaska ed ex candidata vicepresidente ha fatto arrivare nelle case dello Stato - gli occhi dell’America saranno puntati sulla Virginia e non sbagliate: ogni voto conta. Non date nulla per scontato: votate per i vostri valori e invitate amici e familiari a farlo». Lo stesso McDonnell nella campagna elettorale ha promesso una posizione forte contro i matrimoni gay e per proteggere i diritti dei non nati, arrivando ad affermare di essere pronto a bloccare con il veto finanziamenti per i programmi di controllo delle nascite. La scelta di polarizzare il dibattito ha dato ottimi risultati (di nuovo, dopo le strategie di questo tipo messe in campo da Karl Rove in favore di Bush), galvanizzando e spingendo la base ad andare a votare. «Una dinamica che ha energizzato un partito privo di energia - analizza con il Washington Post Larry Sabato, politologo dell’università della Virginia Se un anno fa fossero andati a votare tutti i repubblicani che andranno oggi, John McCain avrebbe facilmente vinto in Virginia».
La larga vittoria dell’elefantino ha portato a Richmond anche i candidati del Gop a vicegovernatore e procuratore generale. Galvanizzata la base del partito giorno fa erano tutti seduti allineati dietro Nancy Pelosi che presentava l’ultimo compromesso sulla legge; dopo questi risultati elettorali se la sentiranno di andare fino in fondo oppure faranno riaffiorare le perplessità?
Situazione opposta in campo repubblicano. Intanto i due Stati hanno cambiato amministrazione: in Virginia come in New Jersey negli ultimi anni avevano governato i democratici. In Virginia la larga vittoria dell’elefantino ha portato all’affermazione anche del vicegovernatore e del procuratore generale, un en plein. McDonnell ha battuto il democratico Creigh Deeds, che peraltro non era riuscito a ottenere l’appoggio del compagno di partito Doug Wilder, il primo governatore afro-americano nella storia degli Stati Uniti, in una
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Il tracollo in Virginia e New Jersey visto dal politologo Stefano Folli
«È una sconfitta nata in politica estera» «L’Afghanistan e l’Iran senz’altro hanno pesato, anche se queste elezioni non possono essere del tutto considerate una bocciatura del presidente» di Gabriella Mecucci
ROMA. I democratici hanno perso. È già un’inversione di tendenza per Obama, oppure è solo una prima avvisaglia, un avvertimento da parte dell’elettorato? Stefano Folli invita «alla prudenza». «So bene aggiunge - che c’è già chi immagina che gli americani abbiano voltato le spalle al presidente, ma mi sembra un giudizio decisamente prematuro». Del resto il test è «troppo ristretto» per darci certezze. E «i fattori locali in questo genere di elezioni contano, sono prevalenti». Folli insomma preferisce non stabilire una connessione diretta fra il voto e il giudizio sull’operato della Casa Bianca: «Non credo si sia votato per il governatore del New Jersey pensando solo alla politica che si fa a Washington. Non nego che qualche rapporto possa esserci, ma queste elezioni non possono essere considerate una bocciatura del presidente».
Obama dunque non è stato abbandonato dagli americani e ha ancora molte frecce al proprio arco. Del resto, «è facilitato dal fatto che i repubblicani sono completamente privi di identità. Non hanno né un leader né riescono a essere efficaci nell’opporsi. Sono orfani di Bush e della sua politica imperiale, per altro sconfitta, e non sembrano in grado di ridarsi un volto e un leader in tempi brevi». Al di là della “prudenza” nel valutare la natura del voto in Virginia e New Jersey, è arrivato però il tempo di dare un primo giudizio sull’amministrazione Obama che ormai è da quasi un anno presidente degli States. Secondo Folli «il bilancio è contraddittorio: positivo in politica interna e decisamente negativo in politica estera». «Il presidente ha avuto una particolare attenzione verso i problemi interni: è stato una sorta di sindaco d’America; per trovare un impegno simile si deve risalire sino a Lindon Johnson». I risultati però non sono un granché, la riforma sanitaria tanto per dirne una - langue. Folli difende la Casa Bianca: «Ancora non è riuscito a farla, ma il compito è difficile, altri presidenti, vedi Clinton, hanno fallito su questo terreno e mi sembra troppo presto per dire che anche Obama fallirà, occorre dargli un po’ più di tempo». L’altro grande tema di politica interna, e cioè l’economia, ha dato qualche
soddisfazione in più a Obama, si vedono infatti ormai i primi segnali di una inversione di tendenza. «È riuscito a evitare un crollo economico simile a quello del ’29». «Non enfatizzerei la portata della ripresa: vedremo più avanti quanto è solida questa ripresa visto che le iniezioni di danaro sono state massicce e occorrerà vedere se questo comportamento non determinerà delle distorsioni; l’avvio della ripresa però indubitabilmente c’è». La vera debolezza della presidenza Obama è la politica estera. Per Folli «sul piano internazionale, nonostante il premio Nobel preventivo che ha ricevuto, l’inquilino della Casa Bianca non è riuscito a darsi una direzione di marcia precisa. Le questio-
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Se la casa Bianca non affronterà in tempi brevi il problema Teheran e la questione israelopalestinese, il giudizio sul suo operato diventerà sempre più negativo
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ni sono tutte aperte e sull’Afghanistan i segnali sono contraddittori, mentre destano più di un dubbio l’eccesso di aperture alla Cina e alla Russia voltando le spalle al Dalai Lama e lasciando cadere una ormai lunga attenzione verso i problemi del Tibet». Se il giudizio sulla politica estera obamiana è già definito, potrebbe indurirsi ulteriormente nel momento in cui verranno al pettine alcuni nodi di grande rilevanza: a partire dall’Iran. «Non si capisce bene se Teheran vuole davvero negoziare sul nucleare o tenta solo di prendere tempo. Si ha l’impressione però che gli Usa non la incalzino a sufficienza e questo si è apparso chiaro anche per lo scarso appoggio che è stato dato ai manifestanti contro il regime di Ahmadinejad». I repubblicani - pur non avendo un profilo politico - attaccano duramente su queste questioni. Dicono: non discutiamo la politica estera di Obama, magari ce ne avesse una... «Il presidente ha commesso degli errori, non merita un giudizio positivo, ma l’opposizione repubblicana somiglia a quella del Pd italiano. E
poi occorre riconoscere che nel costruire l’immagine degli Usa nel mondo, la Casa Bianca si sta muovendo molto bene. Certo, obiettivamente, i risultati concreti sino a oggi non ci sono. Obama è innovativo sul piano interno, ma la sua strategia mondiale non ha nulla di originale. Cerca di tenere semplicemente una posizione generica e la sua fortuna è che sino ad ora non si è trovato di fronte a nessuna crisi particolarmente grave». La vera patata bollente è l’Iran e in tempi non lunghi la Casa Bianca potrebbe trovarsi a dover decidere sul che fare: «Questa è la questione più calda, non è possibile infatti accettare che Teheran si doti della bomba nucleare. È sicuramente la priorità di politica estera per Obama. La seconda priorità è il Medioriente, bisogna riuscire ad ottenere qualche risultato nella vicenda israelo-palestinese. Se la casa Bianca non affronta in tempi brevi questi due temi, il giudizio sul suo operato diventerà sempre più negativo». Noi europei ci aspettavamo, con questa presidenza, un netto miglioramento dei rapporti. Ma le cose non sono andate proprio così: «Obama non mi sembra molto interessato al Vecchio Continente, preferisce intessere un nuovo dialogo con Cina e Russia. La vera responsabilità però del mancato cambiamento delle relazioni è dell’Europa: fa di tutto per apparire irrilevante sullo scenario internazionale e continuerà ad andare così sino a quando non parlerà con una voce sola, sino ad allora sarà difficile che venga presa in considerazione».
Ieri mattina Sergio Romano ha scritto sul Corriere che anche l’America però manca di identità. Per Stefano Folli «è vero». «È un problema molto serio. Dopo la presidenza imperiale di Bush, non si scorge ancora un profilo netto e questa è la questione “filosofica”di fondo che si pone a Obama. L’immagine degli Usa nel mondo è migliorata, ora però bisogna rispondere alla domanda di fondo: che cosa vogliono davvero? Dove vogliono andare e con chi?». La politica estera infatti è la politica per eccellenza, figurarsi per il Paese più forte e importante del mondo. Non basterà certo una ripresina ad accontentare gli elettori americani. «L’Europa, se fosse in grado di dire qualcosa in questa situazione di incertezza, potrebbe tornare a contare parecchio», conclude Folli. Ma questa più che una speranza sta diventando un’illusione.
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Il mini-terremoto nelle valutazioni del celebre analista statunitense
I numeri non mentono: inizia il cambio di stagione L’imposizione di nuove tasse e la presenza invadente del governo hanno scontentato persino le tradizionali roccaforti democratiche di Michael Barone uesto editoriale, scritto mentre arrivano i risultati definitivi delle elezioni del 2009, inizia molto bene. Ma permettetemi di aggiungere a questo pezzo anche delle osservazioni che ho scritto mentre il corso delle elezioni diveniva più chiaro. Innanzitutto vale la pena sottolineare che, nel corso di queste elezioni governative in Virginia e New Jersey, i candidati democratici hanno corso con risultati molto lontani dalle percentuali ottenute da Obama nel 2008. Invece, i candidati repubblicani hanno ottenuto numeri migliori rispetto alle percentuali ottenute da George W. Bush nel 2004. I numeri sono impressionanti, e parlano da soli. In Virginia, Creigh Deeds ha ottenuto il 41 per cento dei voti: niente a che vedere con il 53 per cento del presidente Obama un anno fa. E nel New Jersey Jon Corzine si è fermato al 45 per cento, mentre Obama aveva conquistato il 57. Al contrario, i candidati repubblicani hanno ottenuto delle percentuali migliori rispetto a quelle delle presidenziali del 2004, che eppure hanno visto vincente Bush. Bob McDonnell, repubblicano, è arrivato a prendere cinque punti all’ex presidente: 59 per cento per il governatore, 54 per cento per l’ex presidente. Anche il repubblicano Chris Christie ha ottenuto tre punti in più: 49 contro 46. Basandosi su questi numeri, si potrebbe dire che i democratici hanno ottenuto risultati ben distanti da quelli strappati nel corso dell’ultima, ottimale performance, mentre i repubblicani hanno compiuto un percorso nettamente contrario. D’altra parte, parliamo di competizioni dove le questioni che sono state discusse sono state ragionevolmente congruenti, per non dire identiche, alle problematiche nazionali.
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Un altro aspetto che è necessario sottolineare – ed in questo voglio che mi venga reso il merito di averlo pronosticato ben prima dei sondaggi democratici e dell’analista politico Pat Caddell – i votanti suburbani sono aumentati e si sono spostati verso il Grand Old Party. Nella contea di Bergen, nel New Jersey, il voto del 2005 aveva riportato un vantaggio di quattoridici punti per il de-
mocratico Corzine: ma nella stessa contea il repubblicano Christie è riuscito a vincere – quattro anni dopo – con due punti di vantaggio.La contea di Fairfax, in Virginia, è da molto tempo un “protettorato” repubblicano.
Ma McDonnell è riuscito ad aumentare il proprio vantaggio nonostante, negli ultimi anni, sia aumentata la popolazione democratica che viene da fuori.Tanto che, nel 2008, Obama aveva riportato proprio qui una vittoria del 60 per cento. Un altro caso importante viene dalla contea di Westchester, Stato di New York, dove i re-
I democratici pagano la politica del presidente, che cerca di imporre una tassazione più pesante e si batte su un argomento molto spinoso: una riforma sanitaria molto impopolare pubblicani hanno ottenuto il 58 per cento dei voti: quattro anni fa, con gli stessi candidati, il voto era andato esattamente al contrario. Le contee suburbane di Philadelphia hanno dato il loro voto ai democratici nel 1996, 2000, 2004 e 2008: nella corsa per la Corte Suprema hanno consegnato il loro voto al partito avverso. Ma questo fenomeno riguarda quasi tutte le contee importanti di est, midwest e ovest, che fino alle ultime presidenziali hanno votato democratico. In maggioranza perché – non senza ragione – identificavano i repubblicani con una massa di conservatori (religiosi e culturali) che ritenevano essere dominanti nel partito. Oggi, con davanti lo spettro di un aumento fiscale e di un’enorme espansione del settore pubblico, il partito inizia a muoversi verso nuove direzioni. Anzi, hanno impostato quasi tutto in questa nuova ottica; e questo è un modo di fare molto interessante da seguire. Infine, e questo è il terzo punto che a mio avviso merita di essere segnalato, sarà interessante vedere che impatto avranno queste elezioni nei prossimi voti del Congresso – dominato dai democratici – che si prepara a
votare una legislazione controversa e impopolare: quella sulla sanità. I dati rilasciati dalla Commissione elettorale della Virginia forniscono alcuni suggerimenti, nel momento in cui hanno aggregato i risultati dei distretti congressuali. Nelle elezioni del 2008, tre candidati democratici sono riusciti ad aggiudicarsi i tre distretti precedentemente in mano ai repubblicani. In questo modo, sono riusciti a dare al partito una delegazione statale composta da un minimo di sei a un massimo di undici delegati. I risultati delle elezioni per i goverantori dimostrano, quanto meno, che i democratici sono e si sentono in pericolo. Nel secondo distretto congressuale, dove l’anno scorso il democratico Glenn Nye ha battuto per 52 a 47 la repubblicana Thelma Drake, McDonnell ha battuto Deeds 61 a 39. Nell’undicesimo distretto congressuale, dove sempre nel 2008 il democratico Gerry Connally ha battuto il rivale Tom Davis, Mc Donnell ha vinto di dieci punti. E nel quinto distretto, dove il democratico Perriello aveva battuto il rivale Goode per 50,01 contro 49,85, il nuovo governatore si è aggiudicato il 61 per cento dei voti. E nel sud-est, patria del carbone e dei “nove combattenti”, che dal 1982 era rappresentato dal democratico Rick Boucher, gli elettori hanno dato il 67 per cento delle loro preferenze al candidato del Gop. Io non posso immaginare che i deputati del Congresso Nye, Perriello, Connally e Boucher non abbiano ancora consultato quei siti internet che mostrano la posizione dei loro seggi costituenti in un contesto in cui, facendo salve tutte le specifiche di una competizione elettorale che riguarda l’elezione del governatore, si è trattato di questioni che ricalcano in maniera quasi perfetta i temi che si affrontano a livello nazionale.
E non c’è dubbio sul fatto che io possa in tutta onestà provare una vera simpatia nell’immaginare che uno o tutti questi deputati abbiano commentato i numeri – incontestabili e pesantissimi – con un’espressione fatta di due parole di cui però mi sento in grado di anticipare solo la prima: “Oh”. I risultati delle elezioni del 2009 dimostrano inoltre senza ombra di dubbio che sarà difficile, molto difficile per Nancy Pelosi raccogliere fra i democratici del Congresso i 218 voti che sono necessari per approvare il loro piano di riforma sanitaria.
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Simboli. La guerra al crocefisso secondo il presidente emerito della Corte costituzionale e presidente del Comitato bioetico
«Una sentenza inutile» Casavola contro Strasburgo: «Il principio di laicità è modificabile soltanto dalla Consulta» di Franco Insardà
ROMA. «Il crocefisso è per i credenti il simbolo della fede. Ma per chiunque altro, mediamente colto e consapevole, è il segno storico dell’identità europea». Fa ancora discutere la sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l’esposizione del crocefisso nelle aule italiane. E fa discutere sia se la si guarda sotto l’aspetto religioso sia sotto quello giurdico. Francesco Paolo Casavola, presidente emerito della Corte costituzionale e presidente del Comitato nazionale per la bioetica, è la persona più adatta per chiarire la vicenda in tutta la sua complessità. È corretta la Corte quando si richiama al diritto all’istruzione e alla libertà di pensiero e religione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Indipendentemente dal ricorso presentato dal governo italiano, la sentenza europea non potrebbe applicarsi in un ordinamento costituzionale che ha un principio di laicità non modificabile neppure dal Parlamento nazionale con il procedimento di revisione previsto dall’articolo 138. Perché? Solo la Consulta, qualora fosse investita della questione, potrebbe decidere sulla sorte della decisione dei giudici europei, ma oltre la laicità come principio costituzionale. I giudici sovranazionali avrebbero perlomeno dovuto informarsi di quello che stabilisce il sistema costituzionale italiano. Nella sentenza c’è il richiamo al principio di laicità contenuto anche nella nostra Costituzione? La decisione della Corte di Strasburgo prova che in Europa sul tema della laicità non regna unanimità di vedute. In questa parola si nasconde, sotto l’apparenza di una tolleranza liberale per la pluralità di confessioni religiose entrate nelle società occidentali, uno stato d’animo ambiguo nei confronti del fenomeno religioso ed in particolare nei confronti della Chiesa cattolica. Sarebbe preferibile che i laici si presentassero per quello che ciascuno è: ateo, materialista, irreligioso o anticlericale.
Lo scandalo europeo nelle parole del cardinale Bertone
La croce e le zucche (vuote) di Halloween di Osvaldo Baldacci razie a Dio il Crocefisso torna a fare scandalo. Forse lo stavamo dimenticando. Ma ora il furore di pochi giudici fanatici e dogmatici ci regala la grande occasione per recuperare il senso di qualcosa che non è un arredo da parete. Intanto parliamo di Crocefisso, non solo di croce. Non è solo un simbolo geometrico, c’è una persona appesa sopra, appesa e uccisa. Una persona storica che è anche Dio, morto per noi. Morto, torturato, abbandonato, umiliato, persino deriso. Non certo accolto trionfalmente e osannato come leader fascinoso. Dio ucciso per la nostra salvezza, se questo non è uno scandalo! Se non è un’assurdità!
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La croce non è un simbolo geometrico alla moda, qualcosa che può lasciare indifferenti, un gioiello da collo o una decorazione da muro. È un simbolo di identità, un segno di appartenenza, ma a una persona, a un Creatore, a un Salvatore, a una scelta di vita radicale, non solamente e banalmente a una cultura in cui siamo nati e ciononostante conosciamo poco e di cui prendiamo di volta in volta solo ciò che ci fa comodo. Non è un caso, in fondo, se l’Europa - come ha detto ieri il cardinale Bertone, segretario di Stato vaticano - ci lascia solo le zucche vuote di Halloween. A poco serve quel crocefisso appeso a un chiodo se deve fare la stessa fine degli scarpini dei giocatori in pensione. Quella croce è viva se è incisa nei nostri cuori, se brucia nella vita di ogni giorno, se scuote la società. Forse da troppo tempo ci eravamo assuefatti a quell’oggetto
che abbiamo lasciato ricoprire di un velo di polvere. I giudici di Strasburgo e qualche accanito laicista lo hanno spolverato, e forse lo hanno liberato, facendocelo di nuovo vedere così come è, con le sue ferite sanguinanti, con le sue piaghe aperte. Solo mettendo le nostre mani in quelle lacerazioni potremo accorgerci che dopo la croce e tutte le sue sofferenze c’è l’immensa luce della Risurrezione, c’è la gioia del perdono, c’è la vittoria finale anche su questa storia che tutti i giorni sembra andare in direzione opposta a Dio abbracciando il male e l’indifferenza.
Ma la partita è truccata. Il trucco è quella croce. Può sembrare che tutto vada storto, ma alla fine l’esito sarà uno solo. Grazie quindi ai giudici europei per quella loro sentenza, scellerata e da contrastare, ma che può aiutare a svegliare le coscienze. Coscienze che se sveglie non devono però ritirarsi nell’intimismo, ma devono appiccare il fuoco a tutta la società: Gesù parlava nel tempio, Pietro dopo la Pentecoste si esprimeva in tutte le lingue, Paolo predicava nell’aeropago. Per questo la fede ha anche una valenza sociale. E per questo bisogna rigettare e contrastare la campagna laicista che vuole rinchiudere in un angolo i fedeli.
Francesco Paolo Casavola è presidente emerito della Corte costituzionale e presidente del Comitato nazionale per la bioetica
Nel nostro sistema costituzionale la laicità è tutelata in altro modo. In Italia la laicità è stata definita dalla Consulta principio costituzionale supremo. Il che vuol dire estraneità dello Stato alla religione, ma garanzia alla libertà della coscienza religiosa dei cittadini. Da questo discende la possibilità che nelle scuole si insegni la religione cattolica, e che nelle aule scolastiche non si possa né vietare, né imporre l’esposizione del crocefisso. Si è modificato il rapporto tra Stato e Chiesa. Laicità dello Stato nel nostro sistema costituzionale non significa altro che Chiesa e Stato sono enti sovrani e indipendenti ciascuno nel suo ordine. Quindi che lo Stato non professa alcun credo religioso. L’epoca del confessionismo di Stato è tramontata per sempre, al suo posto è subentrata la libertà di coscienza di cui lo Stato è ga-
rante. Ogni altra tesi che dia diverso contenuto alla laicità è in Italia contro la Costituzione. In Francia l’approccio, però è diverso. In Francia la laicité de combat si presenta per quello che è e giustifica l’ostracismo di ogni singolo religioso nello spazio pubblico e tuttavia da tempo i governi francesi avvertono l’insostenibilità di questa laicità negativa tanto che Sarkozy tende a declinarla in positivo, consapevole com’è che la religione è una risorsa per l’educazione civile delle modelle e complesse società democratiche. Questa sentenza, secondo lei, è stata influenzata dal rifiuto di citare le radici giudaico-cristiane nella Costituzione europea? Si è trattato di una prova non di laicità, ma di misconoscenza della storia concreta della civiltà dei popoli europei. La civiltà europea, prima e più di altre, ha promosso la crescita della libertà umana nel segno della ragione, nella organizzazione della vita collettiva e della distinzione tra Cesare e Dio. Il cristianesimo ha incivilito le popolazioni del continente europeo barbariche o imbarbarite dopo il collasso dell’impero romano, accompagnandole in un percorso di progresso che non ha conosciuto pari in nessun altro luogo del pianeta. Come non vedere che quel simbolo di uni-
politica
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Ecco la galassia italiana dei movimenti antireligiosi
Laicisti, agnostici, atei. Praticamente fanatici di Riccardo Paradisi a Corte Europea dei diritti dell’uomo ha detto “no” ai crocifissi in classe, pronunciandosi sul ricorso di una cittadina italiana, nostra socia». È una rivendicazione orgogliosa quella dell’Uaar, l’Unione degli atei e agnostici razionalisti, che all’indomani del pronunciamento della corte di Strasburgo tiene a precisare di aver «promosso, sostenuto, curato tecnicamente l’iter giuridico della richiesta della signora Soila Lautsi», iter che era già passato per Tar del Veneto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato e che aveva sancito la legittimità della presenza del crocefisso in classe. Linea chiaramente sconfessata dalla sentenza di Strasburgo che per voce del segretario nazionale Raffaele Carcano parla di «un grande giorno per la laicità italiana».
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versale fraternità per tutti gli uomini ha potentemente giovato a tanta evoluzione del mondo umano? Nella sentenza c’è questo presunto vulnus all’eguaglianza tra scolari di fedi diverse? È sorprendente l’idea che quei giudici hanno del funzionamento di una democrazia in una società multiculturale e multireligiosa. Se, indipendentemente dalle tradizioni e dalle scelte civili della maggioranza delle famiglie degli studenti, si deve eliminare un simbolo di
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getto politico unitario, che tuttavia continuiamo ad auspicare fortemente. Questa sentenza secondo alcuni esponenti politici esprime “uno spirito antieuropeo”. Se l’Europa ha realizzato un mercato monetario unico, ma stenta ad avere una politica estera e di difesa comune e vive di diversità giuridiche-procedurali, che mettono a rischio persino le ratifiche dei trattati fondativi, non appare ragionevole che i suoi ceti dirigenti le facciano perdere la forza della
I giudici sovranazionali avrebbero dovuto informarsi di quello che stabilisce il nostro sistema costituzionale. Questa decisione non rafforza il cammino verso un’Europa unita quella comunità per non creare turbamento in uno studente e compromettere la libertà di educazione dei suoi genitori, siamo a uno Stato etico autoritario rovesciato, non a uno Stato laico e democratico. I giudici europei sembrano lontani dai contesti nazionali. Come si potrebbe sperare in una integrazione della cittadinanza se una famiglia ha la forza di abolire il simbolo distintivo di una cultura della quasi totalità della comunità ospitante? Ragioni storico-culturali e politico-costituzionali impongono di nutrire perplessità intorno a una simile decisione che non sembra rafforzare il cammino dell’Europa verso un più sog-
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sua storia identitaria. C’è il ”rischio”, come dice monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d`Europa, che si impongano scelte non condivise, ad esempio sulla bioetica? Le questioni di bioetica sono sempre aperte, innanzitutto perché la scienza non dà certezze definitive, ma soltanto provvisorie legate proprio al suo progresso. Esiste, quindi, una prospettiva mutevole ai rapporti tra la scienza e l’etica nella sostanza biologica dell’esistenza umana. Nessuna norma di diritto, quale che ne sia la fonte, può irrigidire una decisione bioetica.
Uaar, sigla che sembra un ruggito, non è nuova a sortite “clamorose”in nome dell’ateismo e della liberazione dalla religione. Ricordate l’idea dei bus atei? I mezzi pubblici che avevano affissi lo slogan «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno»? Ecco la formula che annunciava la buona novella dell’inesistenza di Dio è stata ideata dall’Uaar. l’Uaar lancia la sua campagna a Genova, la diocesi guidata dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana Angelo Bagnasco. Solo che lo slogan non viene accolto favorevolmente dagli utenti dei mezzi pubblici, che si sono sentiti offesi nei loro sentimenti. Così che l’azienda concessionaria della pubblicità ha rifiutato di proseguire la promozione del messaggio. Si sarebbe trattato invece di un complotto secondo l’Uaar, a cui avrebbe dato il là il dolore e il disagio del cardinal Bagnasco. Ma la galassia dell’ateismo e del laicismo radicale in Italia non si ferma all’Uaar. Emma Bonino, esponente radicale, ha salutato con contenuto entusiasmo la sentenza Ue, ma all’interno del variegato mondo radicale italiano esiste anche chi porta innanzi con maggiore energia la battaglia contro l’oscurantismo religioso. È l’associazione Anticlericali.net, convinta che noi si viva in una specie di Stato confessionale e che perciò si sta preparando a fare del 2010 l’anno anticlericale. L’ultimo anno anticlericale fu indetto dai radicali nell’ormai lontano 1967, quando Luigino de Marchi, il discepolo italiano di Wilheilm Reich, predicava la liberazione dalla repressione sessuale. Problema abbondantemente superato, ma evidentemente non era il sesso libero la soluzione alla religione e al suo clero. Decisamente meno lib-lab è invece l’associazione G.a.ma.di: “Gruppo atei materialisti dialettici”. “I grandi scienziati” a cui si ispira l’associazione sono Engels, Marx e Lenin. “Grandi scienziati” è l’eponimo che usa per definirli la signora Miriam Pellegrini Ferri, fondatrice, animatrice e presidentessa del Gamadi. La parziale visibilità dell’associazione è dovuta al grande attivismo della signora, decorata – si legge nel suo fiero curriculum – con la Medaglia di amicizia, dal Parlamento della Repubblica Popolare Democratica di Corea con decreto del 7 aprile 2007. Dal 1998 la Ferri tiene regolarmente su TeleAmbiente ”una
trasmissione settimanale di diffusione scientifica e di memoria storica”, dove quando si parla delle origini dell’uomo fa capolino dietro la signora un simpaticissimo peluche di scimmia, a ricordare al telespettatore che non c’è Dio ai primordi della sua storia. Dimenticavamo: sostiene il Gamadi che La dialettica della natura “testo importantissimo e scomodo” sia stato fatto sparire dalla circolazione dal “Potere clericale-borghese” e dalla sinistra revisionista, «in connubio, lo hanno tolto di mezzo da tutte le librerie e perfino dalla biblioteca nazionale». Insomma se l’opera scientifica di Engels non la legge più nessuno non è perché si tratta di un reperto di archeologia culturale. Spiegazione ingenua. È perchè le oscure forze della reazione lo impediscono. In questa rassegna episodica dell’ateismo italiano non può mancare il piatto forte: “L’associazione per lo sbattezzo”. Movimento molto attivo nel centro-Italia con una sua base logistica a Fano (nelle Marche) dove
Tra le associazioni il Gamadi: Gruppo atei materialisti dialettici. Per loro Engels era un grande scienziato. La sua opera sarebbe stata fatta sparire dal potere clericoborghese e dalla sinistra riformista
si tengono ameni convegni anticlericali. Oltre ad associarsi, è possibile via internet anche ricevere la Dichiarazione di Sbattezzo. Si tratta di un attestato che viene inviato numerato e accompagnato da quattro moduli di Notifica.
A Bolzano, annunciava recentemente l’Uaar, trenta persone sono state sbattezzate. Alcune di loro sostengono anche di sentirsi diverse ora. Magari Chesterton aveva ragione a dire che quando si smette di credere a Dio si comincia a credere a tutto.
diario
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Auto. Il nuovo amministratore delegato presenta il futuro della casa americana e promette: pareggio entro il 2010
La rivoluzione di Marchionne Per Chrysler 21 nuovi modelli entro il 2014: tre progetti con Fiat ROMA. «Garantiremo un ri-
di Francesco Pacifico
torno agli investitori, non deluderemo le aspettative, interne ed esterne». Nuovo marchio, nuovo management, nuovi modelli e soprattutto una nuova storia industriale che abbraccia le due sponde dell’Atlantico. Ieri Sergio Marchionne ha presentato il suo piano per rilanciare la casa americana entrata nell’orbita di Fiat, riportare in attivo la piccola di Detroit. Sulle note di Bruce Springsteen, del maggiore cantore della working class americana, con una 500 “parcheggiata” tra una Jeep e una Grand Cherokee davanti al quartier generale di Auburn Hills, è scattata alle 11 spaccate la maratona per presentare il piano industriale 2010-14. Padroni di casa il presidente Robert Kidder – che rappresenta il 9 per cento detenuto dal governo Usa – e lo stesso Marchionne. Sono stati loro – e per otto ore – a illustrare ai 450 invitati tra azionisti, rappresentanti dei fondi e dei sindacati, analisti,
Dopo il ritiro della Opel dal mercato
Berlino rompe con Gm BERLINO. Il terremoto Opel scuote il mondo dell’economia e della politica mondiale. Gm ha deciso di ritirare la disponibilità a vendere Opel. Come si ricorderà, la casa automobilistica era stata promessa a Magna. Anzi, un po’ più che promessa, giacché il piano di vendita era stato messo a punto al termine di una lunga stagione di trattative. Non solo: per completare l’affare Magna aveva trovato soldi in Russia (grazie alla Sberbank) e Gm aveva avuto un congruo aiuto finanziario dal governo di Berlino. Ritirarsi ora dalla vendita, insomma, è un vero pasticcio burocraticofinanziario. Al punto che la Germania ha minacciato di volere indietro i soldi (parecchi: un miliardo e mezzo di euro) prestati alla Gm (il portavoce di Angela Merkel ha commentato sconfortato che «con questa decisione è stato rotto un
processo di investimento, che per un periodo di oltre sei mesi è stato condotto in modo intenso da tutti i soggetti coinvolti, Gm compresa»); l’Unione europea, solidale con la Germania, ha chiesto chiarimenti sui livelli occupazionali; la Russia ha promesso ritorsioni. E in mezzo c’è Gm che, per l’intanto, si è detta pronta a rimborsare alla scadenza a fine novembre il mega prestito-ponte ricevuto dal Governo tedesco per fare fronte alle scadenze più immediate dal maggio scorso, se Berlino lo chiederà effettivamente, oltre a minacciarlo. Il totale in scadenza il 30 novembre è di 900 milioni, in quanto Gm ha fatto uso di soli 1,1 miliardi su un tetto massimo di 1,5 miliardi messo a disposizione di Berlino e ha già rimborsato 200 milioni. Il governo di Mosca, da parte sua, ha commentato con grande sorpresa la decisione degli americani. Il portavoce del premier russo Dmitry Peskov, citato dall’agenzia di stampa Interfax, ha affermato che la decisione della casa automobilistica americana ha lasciato «allibiti in Russia e in particolare il governo».
stampa e politici quello che chairman e ceo hanno definito «un piano ambizioso perché Chrysler ritorni alla crescita e alla redditivita».
Tanta attenzione in America per questo turnaround. Con il manager italiano che ha reso omaggio «allo spirito e alla passione con cui il management sta lavorando venga colto e che darà vita a un’azienda dinamica e competitiva».
ro delle piattaforme dalle attuali undici a sette. Tre delle quali saranno condivise con Fiat. Il tutto per lanciare sul mercato 21 modelli. Spiegava ieri Scott Kunselman, responsabile dello sviluppo: «Le sinergie consentiranno di lanciare i prodotti accorciando i tempi di 5 mesi». Guardando ai marchi la tecnologia del Lingotto si sentirà soprattutto su un marchio glorioso come Dodge, per la quale si prevedono una nuova compatta, una berlina media e una vettura nel segmento B. Per il resto Jeep sarà l’unico brand commercializzato a livello internazionale, mentre le altre berline saranno realizzate sulle linee Bertone Il chairman Kidder ha fatto notare che «il successo di Chrysler e dell’industria automobilistica è importante per il rilancio dell’economia americana. Perché i problemi che hanno costretto Chrysler alla bancarotta possono essere risolti». È queste parole appaiono rassicuranti dopo che il Government Accountability Office, la Corte dei Conti americana, ha lanciato l’allarme che difficilmente il Tesoro riuscirà a recuperare i 15 miliardi investiti in GM e Chrysler per evitare il fallimento. Ma ad Auburn Hills c’era un convitato di pietra che ha cercato risposte che Marchionne darà soltanto a fine mese incontrando Berlusconi: cioè il sindacato italiano. La presenza a Detroit del vicepresidente John Elkann e dei cugini An-
Il manager italiano conquista la fiducia del mercato: «Garantiremo un ritorno agli investitori, non deluderemo le aspettative» Marchionne, con il suo ordinario e informale maglioncino blu, ha incentrato la sua relazione sulle economie di scala che può permettersi un gruppo attivo tra le due sponde dell’Atlantico. «La nuova Chrysler», ha spiegato, «è stata parsimoniosa nelle spese: da giugno la sua liquidità è aumentata di 1,7 miliardi di dollari, a 5,7 miliardi di dollari alla fine di settembre». Alla base del piano un massiccio trasferimento di know how dall’Europa, con Torino che metterà in campo la sua tecnologia, in primis i motori multijet. Proprio questa filosofia porterà la nuova Chrysler a ridurre entro il 2014 il nume-
drea Agnelli e Alessandro Nasi fa sperare nell’interesse della più importante dinastia industriale per quest’operazione. Ma le cose sono destinate a cambiare, e con esse i livelli di produzione in Italia. Qualche settimana Elkann aveva chiarito che il perimetro nazionale sarebbe cresciuto o diminuito in base ai successi all’estero. Ma per ora Marchionne sembra più interessato alle potenzialità del marchio Jeep che alla costruzione di 500 nello stabilimento messicano di Tulum o delle nuove Alfa Milano che usciranno dalle linee di Detroit. Progetti che in ogni caso non partiranno prima del 2011 e del 2012.
diario
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Il segreto di Stato «salva» l’ex numero 1 del Sismi
«Sulle riforme, vedrò prima Casini e poi Fini e Bossi»
Abu Omar: non luogo a procedere per Pollari
Berlusconi: «Ora un premier eletto dal popolo»
MILANO. L’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari e l’ex funzionario dello stesso servizio Marco Mancini non devono rispondere del sequestro di Abu Omar perché non sono giudicabili a causa del segreto di Stato. Per Pollari erano stati chiesti 13 anni, 10 per Mancini. La sentenza del giudice monocratico di Milano, Oscar Magi, è arrivata dopo tre ore di camera di consiglio. Sono stati invece condannati 23 agenti della Cia (quasi tutti quelli imputati) 22 a cinque anni di reclusione mentre Robert Seldon Lady è stato condannato a otto anni. I funzionari del Sismi Pio Pompa e Luciano Seno accusati solo di favoreggiamento sono stati condannati a tre anni. Immunità consolare, infine, per l’ex capo della Cia in Italia Jeff Castelli e altri due colleghi. Il giudice Magi ha inoltre condannato tutti gli imputati ritenuti colpevoli al risarcimento a titolo di provvisionale di un milione di euro nei confronti dell’ex imam. Il giudice ha disposto inoltre una provvisionale di 500 mila euro per la moglie di Abu Omar e ha stabilito che l’entità del risarcimento per l’ex imam e la moglie venga poi liquidato in sede civile.
ROMA. La quotidiana dose di
Per Pollari il non doversi procedere è stato disposto dal
Storace, pace con il Pdl (ma non con Fini) La Russa all’assemblea della Destra, intesa in tutte le regioni di Errico Novi
ROMA. Nel complicato mosaico della maggioranza riappare una tessera che sembrava irrecuperabile, quella di Francesco Storace. È ormai definito il patto che ricongiunge la Destra al Pdl, seppur a livello locale. In alcuni casi gli uomini dell’ex ministro correranno con il loro simbolo, in altri, soprattutto dove il sistema di voto prevede lo sbarramento al 4 per cento, sotto le insegne del partitone unico. Un rientro inatteso. Come imprevedibile è la distensione tra Storace e gli ex An: domenica prossima, infatti, alla conferenza programmatica organizzata dalla Destra a Pomezia, porterà il proprio saluto Ignazio La Russa. Ossia il dirigente che nel coordinamento nazionale del Pdl rappresenta l’azionariato di via della Scrofa. Circostanza ai limiti del clamoroso, se si pensa al veto posto nel 2008 da Gianfranco Fini sull’ingresso in coalizione del partito separatosi da An. Oggi che il Popolo della libertà è «un mare vasto in cui elementi di aggregazione e di dissenso vanno oltre le vecchie appartenenze di partito», per usare la perifrasi con cui Fini spiega a Vespa il distacco degli ex colonnelli, il problema Storace è superato: lo è quanto meno per quella frazione, ancora maggioritaria, degli ex aennini che hanno tagliato il cordone ombelicale con il vecchio capo. Non è detto che il discorso valga per il presidente della Camera.
‘scissionisti’ in quel momento fu inevitabile». Nessuna sorpresa, dunque, se La Russa si presenterà domenica davanti alla stessa platea che invitò Berlusconi a scatenarsi al grido di «chi non salta è comunista».
Berlusconi, appunto: è lui ad aver avviato la pratica di ricongiungimento con la Destra. Infondata è invece l’ipotesi dell’ingresso di Storace nel governo, dice lo stesso ex ministro: «Non se ne è parlato: semplicemente, la settimana scorsa ho visto Bondi, Verdini e La Russa a via dell’Umiltà per la questione delle regionali. Prima c’era stato il contatto tra il sottoscritto e Berlusconi, al quale avevo inviato due righe dopo l’estate e che ha promosso l’incontro. Fin dall’inizio è stato chiaro che noi non eravamo interessati a un’alleanza a macchia di leopardo. Adesso si tratta di trovare la formula giusta, considerato appunto che ogni Regione ha la sua legge elettorale». Non si tratta di una“riassimilazione”, in ogni caso: «Abbiamo condotto le precedenti campagne elettorali con una coerente posizione contraria al governo. Ora più nessuno ci chiede di entrare nel Pdl, l’autonomia è un valore che intendiamo mettere a frutto». Se in alcune regioni l’Udc decidesse di allearsi con il Popolo della libertà non ci sarebbero problemi, secondo Storace: «Abbiamo governato insieme, con l’Udc, abbiamo fatto insieme due campagne elettorali, una delle quali vittoriosa. Di più: il segretario dell’Udc nel Lazio, Luciano Ciocchetti, è stato mio assessore». La piattaforma programmatica sarà anticipata oggi in conferenza stampa da Storace, che della Destra è segretario, e dal presidente Teodoro Buontempo: «Mutuo sociale contro l’emergenza abitativa, stimoli alla partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, chiarezza delle istituzioni locali nella difesa dei cittadini davanti alle banche». Un decalogo simile a quello della Lega: ma Storace rifiuta l’assimilazione alla corrente “sociale” della maggioranza (Tremonti e Bossi): «Non mi pare che l’Abi sia in guerra col ministro dell’Economia. E poi si chiaro: a noi non ci Lega nessuno…».
«Discorso avviato da me e Berlusconi», dice l’ex governatore, «ma non entreremo nell’Esecutivo. Con An rancori archiviati»
giudice sulla scorta dell’articolo 202 del Codice di Procedura Penale, il quale recita: «Qualora il segreto sia confermato e per la definizione del processo risulti essenziale la conoscenza di quanto coperto dal Segreto di Stato il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del Segreto di Stato». Stessa sorte per l’ex n.2 del Sismi Marco Mancini. Il generale Nicolò Pollari, al telefono con i suoi difensori, ha commento così la sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti: «Se il segreto di Stato fosse stato svelato dagli organi preposti, sarei risultato non solo innocente ma anche contrario a qualsiasi azione illegale».
anticipazioni dal nuovo libro di Bruno Vespa (di cui ormai i lettori sanno quasi tutto al punto che forse saranno tentati di non comprerlo) ieri hanno coinvolto le grandi riforme istituzionali. «Voglio un premier eletto direttamente dal popolo. Anche se per farlo bisogna modificare la Costituzione»: sono queste la parole – non nuove, per la verità – fatte filtrare dal solerte ufficio stampa di Vespa. «Sarà il Parlamento nei prossimi mesi - spiega il premier nel libro - a definire quale sia il modello più adatto alla realtà italiana. Ciò che conta è che il titolare del potere esecutivo venga scelto direttamente dal popolo. E con lui la forma di governo. Di fatto, è quello che già
Tra i punti di partenza «sui quali vogliamo misurare la cifra della nostra rappresentanza», dice Storace a liberal, c’è anche «la necessità di garantire i servizi prima agli italiani e poi agli immigrati». In tempi in cui Fini si batte per riconoscere la cittadinanza in base allo ius solis si tratta di un argomento destinato quanto meno a innescare un vivace dibattito. Ma l’ex governatore del Lazio non sembra farne un dramma: «Abbiamo contestato degli errori, a Fini: ma rispetto a due anni fa le condizioni sono diverse». Perché? Semplice: «Sono in politica e trovo fuorviante la categoria del rancore: quando siamo nati a fine 2007 non avremmo mai pensato di andare al voto dopo sei mesi. Invece successe, e la campagna di An contro gli
succede nella costituzione materiale. È ora che la costituzione formale sia aggiornata e messa al passo con la realtà del paese». In più Berlusconi vorrebbe tagliare il numero dei parlamentari: «L’avevamo già realizzato nella nostra precedente legislatura ed è stata la sinistra a farla abrogare con un referendum. Comunque ci riproveremo e sono sicuro che ci riusciremo». Naturalmente Berlusconi allude al referendum del 2006 con il quale non la sinistra ma la maggioranza degli italiani rigettò le modifiche alla Costituzione.
Sempre sul fronte della politica spettacolo, c’è da annotare un altro colpo di scena del premier. «Caro Pier, rinvio il vertice perché prima voglio incontrarmi con te». Una telefonata di buon mattino, per comunicare al leader dell’Udc Casini che l’incontro con Gianfranco Fini e Umberto Bossi era saltato per ”rispetto” nei confronti della trattativa con i centristi. Sulla decisione sicuramente ha influito la voglia di trattare con i centristi, visto che il centrodestra non poteva presentarsi all’incontro con Casini e Lorenzo Cesa con un pacchetto chiuso di candidature, ma anche divisioni interne al Pdl, e fra Pdl e Lega hanno reso necessario il rinvio del vertice.
economia
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Inchiesta. In principio era la maglieria, poi sono arrivate le infrastrutture, la ristorazione, il cinema e la finanza. Radiografia di un impero che scricchiola
Benetton perde colore Da Telco a Autostrade, la stella degli imprenditori veneti, legatissimi agli affari del premier, comincia a tramontare di Alessandro D’Amato on è rilevante. Il patto è stato rinnovato come doveva essere rinnovato». Una bugia diplomatica, quella che Corrado Passera ha detto a proposito dell’uscita dei Benetton da Telco: nell’ultimo giorno utile per il rinnovo del patto che legava i soci della holding che detiene la quota di controllo di Telecom Italia, Sintonia si è sfilata. Abbandonando così dopo quasi dieci anni la diversificazione nella telefonia che li aveva visti protagonisti insieme a Marco Tronchetti Provera e alla sua Pirelli, dopo la gestione di Colaninno e Gnutti. E, soprattutto, dopo quasi due miliardi di euro bruciati in un investimento che non è mai decollato e garantito la redditività che la famiglia di Ponzano Veneto si aspettava. E che anche sotto Bernabé non ha mai partorito
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(né sembrava volerlo fare in futuro) piani strategici di rilancio e investimenti adeguati. Ora i soci di Telco dovranno trovare con chi sostituire i Benetton, e non sarà facile. Ma non sarà facile nemmeno per Ponzano Veneto ricominciare a muoversi, per lo meno in Italia. Un po’ perché l’atteggiamento accomodante del governo Berlusconi nei confronti delle autostrade dal punto di vista delle tariffe (al contrario di Prodi e Di Pietro), era comunque frutto della scelta, da parte della famiglia, di rimanere nello “zoccolo duro” di Telecom sbarrando così la strada allo straniero (Telefonica). Un po’ perché adesso Sintonia vuole puntare sugli aeroporti. Il piano presentato da Fabrizio Palen-
L’irresistibile storia di un’azienda nata nel 1965
Una dinastia dal Veneto ai salotti buoni del mondo rfani del padre, Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo fondano l’azienda Benetton nel 1965. Sorta a Ponzano Veneto, in provincia di Treviso, la piccola fabbrica di maglioni conquista da subito i favori del pubblico. Nel 1966 nasce il primo punto vendita a Belluno, e tre anni dopo la prima filiale estera a Parigi. Una crescita costante, quella del marchio trevigiano, che alla fine degli anni Settanta, acquisita la Sisley, esporta il sessanta per cento della produzione all’estero. Gli anni Ottanta guadagnano alla casa d’abbigliamento italiana gli onori di New York e Tokio, dove sorgono altrettanti raffinati negozi.E tra l’86 e l’89 arriva anche la quotazione in borsa: Milano, Francoforte e New York. La consacrazione definitiva arriva con l’ingresso in Formula 1. Preceduto dalla sponsorizzazione della squadra Tyrrell, l’azienda acquisisce la Toleman e dà vita alla Benetton Formula Limited , ceduta alla Renault alla fine del 2001. Con il nuovo millennio arriva però anche un passo indietro. I fratelli Benetton lasciano il management a Silvano Cassano (sostituito nel 2007 da Girolamo Caccia Dominioni) assumendo il ruolo di azionisti e delegando la loro presenza diretta ad Alessandro, figlio di Luciano e vicepresidente esecutivo. La scelta di delocalizzare la produzione porta alla chiusura di numerose fabbriche nella Penisola.
O
Nel 2006 chiude il primo negozio Benetton in Italia, quello di via Calmala a Firenze. E in parallelo, mutano anche gli assetti societari. Edizione, la holding di famiglia controllata dalla società per azioni Ragione, si suddivide in due unità separate sottoposte alla stessa: Edizione Holding, concentrata sul settore retail con partecipazioni in Benetton Group e Autogrill, e Sintonia Spa, incentrata su investimenti in infrastrutture come Atlantia, Grandi Stazioni, Aeroporti di Roma, Aeroporto di Torino, Aeroporto di Firenze e Aeroporto di Bologna. A dicembre 2007 la holding dei Benetton acquisisce da Unicredit (che si fonde frattanto con Capitalia) il 2,17 per cento delle azioni ed entra nel patti di sindacato di Mediobanca. A luglio 2008 Edizione Holding e Sintonia spa vengono riassemblate in Ragione spa, La fusione, operativa a partire da gennaio di quest’anno, restituisce alla holding Benetton l’antico nome: Edizione srl raccoglie di nuovo tutte le partecipazioni del gruppo.
Accanto, la dinastia Benetton al completo. Sotto, Autostrade e Autogrill: due rami fondamentali dell’impero veneto. Nella pagina a fianco, l’area sportiva, dal rugby al basket alla Formula 1 e, sotto, le due colonne della famiglia, Gilberto e Luciano Benetton
zona, presidente di Aeroporti di Roma, qualche tempo fa al governo prevede un aumento tariffario in cambio degli investimenti su Fiumicino. Fino a qualche tempo fa sembrava un accordo facile da raggiungere. Ma oggi?
Dal la sua la fam igl ia
Tutte le volte che Berlusconi ha avuto bisogno di un sostegno imprenditoriale, si è rivolto a loro: ultimi esempi, l’aiuto dato all’operazione Alitalia e la joint venture con Medusa
Benetton però ha ancora molte frecce al suo arco. In primo luogo, la rinnovata vicinanza con la famiglia Berlusconi, testimoniata dalla joint venture The Space business che vede insieme la Medusa film e 21 Partners - un nuovo
leader del circuito cinematografico in Italia: la marginalita’ delle sale cinematografiche è ormai molto bassa, a causa degli elevati costi di gestione, e per questo motivo The Space vuole proporre una serie di nuovi servizi che possano rilanciare i conti. L’obiettivo è di aggiungere nelle
sale anche sistemi di intrattenimento come sale giochi, shopping, oppure eventi musicali o sportivi. Sfruttando anche le sinergie importanti con Autogrill, come ha detto Giuseppe Corrado, presidente e amministratore delegato, in un’intervista al Giornale. «Il mercato italiano del cinema ha spiegato Corrado - vale circa 700 milioni di euro l’anno, e le nostre sale, Medusa e Warner, hanno un fatturato di circa 125 milioni con 16 milioni di spettatori per 250 schermi». In più, Marina Berlusconi è diventata azionista di «21 investimenti», il fondo di famiglia.
In secondo luogo , c’è il piano di infrastrutture del governo. Sul quale i Benetton naturalmente puntano. Ma nel frattempo altri impegni finanziari incombono. I soci di Gemina, la società che controlla Aeroporti di Roma, faranno un aumento di capitale che potrebbe superare i 500 milioni che servirà a finan-
economia
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rendite di posizione. Inoltre i Benetton ormai sono dei punti di riferimento del salotto buono, nomi obbligatoriamente presenti quando si tratta di fare operazioni di “sistema” (Telecom, Alitalia). Se si profilano degli affari di grandi dimensioni, loro sono in pole position. Un trattamento molto diverso da quello rice-
ziare lo sviluppo di AdR. Ma lo faranno solo quando saranno ufficiali i provvedimenti sulle tariffe, che dovrebbero portare ad un aumento ”una tantum” da 1 a 3 euro in base alle dimensioni degli scali. Ma dopo aver ricevuto il via libera definitivo del Ministro dei Trasporti, la scorsa settimana, il provvedimento è ancora fermo sul tavolo del ministro del Tesoro Tremonti. Ufficialmente per dare tempo ai tecnici di Via XX Settembre di individuare la strada migliore per legare l’incremento tariffario al varo di nuovi investimenti. Ma nel frattempo le compagnie aeree (Ryan Air per prima) hanno già cominciato a far sentire la propria voce. Che è ovviamente contraria. Ecco allora che per Sintonia potrebbe essere più facile cercare occasioni di business all’estero. In Cile la holding ha chiuso accordi per la realizzazione di nuove autostrade; prossimamente potrebbero nascere nuove interessanti possibilità. Soprattutto se, come sembra in progetto, si dovesse aprire a nuovi soci stranieri oltre a Mediobanca, Goldman Sachs e Gis.
Nel
frattempo,
qualche
considerazione sulla gestione dal punto di vista imprenditoriale si può legittimamente fare. E questo li ha esposti alle giuste critiche di chi li portava ad esempio di una classe im-
prenditoriale incapace d’innovare. Il nuovo comandamento era ripararsi dalla concorrenza all’ombra delle entrate sicure dei pedaggi e delle bollette, con l’ulteriore aggravante che la necessaria contiguità con la politica di chi opera nei settori regolati potesse trasformarsi in un ulteriore protezione dal giudizio dei consumatori. Tutti sospetti almeno in parte confermati: il trattamento di favore ottenuto come concessionario autostradale, il monopolio nella ristorazione e quello in via di costituzio-
vuto nel loro business d’origine dove la concorrenza internazionale l’ha relegata tra i comprimari a lottare contro vecchi e nuovi colossi (Zara, H&M, Gap) provenienti da tutto il mondo.
Il vero problema del gruppo è che nei settori più delicati (dai servizi alla finanza) non sono mai stati raggiunti quei risultati davvero clamorosi ottenuti nell’abbigliamento ne nelle costruzioni (Atlantia è il più grande committente di lavori pubblici in Italia, Impregilo è il contractor più importante ed entrambe sono direttamente o indirettamente controllate da Ponzano), sono qualcosa in più di “indizi” di
Eppure molte di quelle scommesse “sicure” sono state perse, perché di valore in questo paese se ne è creato veramente poco e il track record delle ultime operazioni realizzate in Italia è veramente poco elettrizzante (Telecom, Impregilo, Aeroporti di Roma, Alitalia). Sono tutti dei salvataggi dai dubbi ritorni futuri e dalle sicure perdite presenti. Quindi la strategia della sicurezza si è rivela-
ta controproducente in modo del tutto inaspettato: fuggire dai mercati esposti alla concorrenza internazionale per puntare ai più prevedibili mercati regolati ha portato le fortune di famiglia ad essere legate a doppio filo alla crescita di questo paese. E questo spiega perché i Benetton sono costretti a partecipare a tutte le operazioni di “respiro nazionale“. Il traffico delle autostrade è funzione diretta del Pil, l’andamento delle costruzioni e dei progetti pubblici dipendono dai bilanci dei governi molto di più di quanto la vendita delle magliette dipenda dal reddito pro capite.
L’emotività o l’orgoglio familiare non hanno mai offuscato le decisioni epocali dei Benetton e la politica del “buy Italian” è ormai agli sgoccioli. Tre anni fa Autostrade, la partecipazione più ricca, stava per essere venduta agli spagnoli di Abertis. Autogrill è stata spesso sulla lista delle possibili dismissioni e i compratori sono quasi sempre esteri. I miliardi che arrivassero da un affare del genere sarebbero sicuramente dirottati oltre confine: sia per aumentare il fatturato estero delle controllate rimaste, sia per diversificare i possedimenti di famiglia. D’altronde i Benetton hanno le mani libere grazie a due caratteristiche della politica gestionale di Gilberto: non assumere mai cariche direttive all’interno delle partecipate e riuscire a trattare con le banche alla pari (rapporto che per motivi finanziari pochi imprenditori nazionali riescono ad imporre). La rivoluzione è vicina: l’elemento scatenante sarà il passaggio generazionale che ha visto a fine 2008 i quattro fratelli affiancati dai 14 cugini della seconda generazione. Sono capitanati dall’ormai ex giovane Alessandro Benetton, che sta provando a fare l’imprenditore in settori diversissimi da anni, e predilige la Francia. Forse, semplicemente, i Benetton hanno puntato sul paese sbagliato e su una crescita costante che non c’è stata. Il problema non sono loro, è l’Italia.
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Mentre Bompiani ripubblica le Opere integrali del grande filosofo france della rivoluzione che le baionette giacobine e napoleoniche abrebbero imposto a
Tutta la verità
Il suo razionalismo è in continuità con la Scolastica del Medioevo cristiano o ne è la rottura? Ecco perché questa antica domanda è malposta di Franco Cardini ei tempi, quelli conclusi grosso modo verso la fine del Settecento. Bei tempi europei, in cui l’Europa non era davvero un’espressione geografica. Fino a verso la metà del Quattrocento, decennio più decennio meno, eravamo stati Christianitas latina, un’espressione che si ricollegava strettamente non solo alla separazione tra una pars Orientis e una pars Occidentis dell’impero voluta da Teodosio il Grande, ma anche alla consapevolezza che tale separazione amministrativa era anche geostorica e geoculturale; e che essa si andava concretizzando in una distinzione storicoculturale e si potrebbe dire perfino teologico-storica tra Chiese greche e orientali da una parte, con la loro persistente struttura episcopale e il loro riferimento forte alla maestà dell’impero romano d’Oriente (va sempre ricordato che l’impero romano non è caduto nel 476, ma nel 1204; e forse addirittura nel 1453, per quanto russo-moscoviti e turco-ottomani ne abbiano rivendicato l’eredità). La Christianitas latina fu l’unico “Occidente”che il mondo medievale fosse disposto e preparato a conoscere/riconoscere; il moderno concetto di “Occidente” andò elaborandosi lentamente e più tardi, a partire da quando,
B
progressivamente, gli europei di cultura teologica, filosofica e politica latina – ormai divisi in “cattolici” e “riformati” – si andarono accorgendo di non potersi più definire una “Cristianità”.
Cristiani, certo, lo erano rimasti: ma la Riforma aveva proclamato a forti e chiare lettere che la fede era questione strettamente personale, mentre la filosofia occidentale - progressivamente radicando e rafforzando l’importanza del concetto d’Individuo - marciava sempre più chiaramente verso la valorizzazione di tutto quel che appunto fosse concepibile
A questo rampollo di una famiglia di piccoli nobili dobbiamo la possibilità di estendere il ragionamento matematico da altri campi del sapere a tutte le scienze, attraverso “catene di ragioni” come individuale (sul piano, soprattutto, della volontà di discernimento, dell’etica, dell’affermazione dei diritti), riducendo e sottovalutando quando non addirittura sopprimendo e cancellando tutto il resto, a partire dalla istituzioni comunitarie. Assolutismo politico e individualismo filosofico hanno creato l’Occidente moderno, anzi - a voler essere più chiari l’Occidente in quanto Modernità, l’Occidente sinonimo di Modernità. Alla Christianitas latina medievale aveva quindi fatto seguito - mentre la Chri-
stianitas graeca e quella orientalis sembravano eclissarsi, fagocitate dalla conquista ottomana o ridefinite dall’egemonia autocratica degli czar della Terza Roma - la dimensione dell’Europa cristiana, che sottolineava tale aggettivo non tanto e non solo per giustificare in qualche modo il suo peccato originale (la crisi della Riforma dalla Germania all’Inghilterra all’Europa centrale, quindi le guerre di religione prima in Francia e poi in tutta Europa, dallo scoppio della “crisi ugonotta” alle paci di Westfalia/Pirenei), ma anche per sottolineare al tempo stesso il carattere religioso che in qualche modo la distingueva e la contrapponeva all’impero ottomano in quanto potenza islamica concepita, come tale, extraeuropea e sia pur episodicamente “antieuropea” (ma la storia dei rapporti militari e diplomatici tra europei, ottomani e sciito-persiani è in buona parte da riscrivere e in aprte già scritta, anzi acclarata, ma da diffondere massmedialmente in quanto nota ai soli specialisti o comunque agli studiosi). L’Europa cristiana si era dilaniata in lotte intestine tra 1517 e 1648/59: il concetto di tolleranza, elaborato appunto nella seconda metà del Seicento, deve la sua originale definizione lockhiana di mutua Inter Christianos tolerantia proprio al fatto di essere per un verso sintomo chiaro della stanchezza dopo quasi un secolo e mezzo di violenze che avevano avuto nella confessione religiosa il loro centro e al tempo stesso il loro pretesto - e che in fondo avevano potuto esser placate solo sulla base del principio geopolitica dell’eius regio, eius religio, formidabile forma di consolidamento dello stato assoluto e delle sue rigide necessità confinarie -, per un altro segno della consapevolezza che un fattore primario di coesione dell’Europa emersa dalla guerra civile-religiosa non poteva non rilevarsi, almeno a livello teorico, nella costante opposizione alla minacciante potenza ottomana (con la quale peraltro ciascuna singola potenza europea intratteneva specifici e complessi rapporti diplomatici, politici, militari ed economici). Un’opposizione suscettibile di tradursi, sul piano emozionale, propagandistico, edificante e demagogico, nella resistenza all’Islam, per quanto fosse ben noto che l’avanzata turca non equivaleva assolutamente a un’affermazione ipso facto proselitistica dell’Islam (greco-ortodossi
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ese, a cura di Giulia Belgioioso, torna d’attualità il suo ruolo di precursore a tutto il Vecchio Continente. Aprendo la strada al “processo di secolarizzazione”
à su Descartes
suo cognome, caratteristica di un tempo nel quale appunto il latino era ancora la principale lingua di cultura d’Europa, chiamiamo “Cartesio”.
È a questo rampollo d’una famiglia di piccoli nobili-giuristi del nord della Francia, nato a La Haye in Touraine nel 1596 ed entrato a otto anni nel celebre collegio gesuita di La Flèche, quindi passato a studiar diritto a Poitiers ma infine emigrato in Olanda per servire, come matematico e ingegnere militare (un interesse che condivideva con Galileo), il principe calvinista Maurizio di Nassau, che dobbiamo una delle prime grandi “rivoluzioni concettuali” da cui sarebbe nata la matura Modernità: la possibilità di estendere il ragionamento matematico da altri campi del sapere, in tal modo collegando fra loro tutte le scienze non più ipotatticamente alla teologia - una scelta, questa, che all’inizio del Seicento era o stava peraltro divenendo desueta -, bensì paratatticamente a tutte le scienze, attraverso “catene di ragioni”. Questa la base della
La presentazione delle Opere all’Ambasciata dell’imepro bizantino nel 1453, e i greci ciprioti nel 1570, furono molto lieti del fatto che il turbante ottomano li proteggesse dalla tiara pontificia; e, nel secondo caso, li liberasse dall’oppressione veneziana).
Ma il progredire d’una coscienza individualistica per un verso, umanitaria e cosmopolitica per un altro, rese ben presto inadeguati anche questi nuovi parametri. La tolleranza, per esser tale, non poteva limitarsi a venir esercitata inter christianos: essa doveva trasformarsi in valore universale. Questo il cammino compiuto dal concetto di tolleranza da Locke a Voltaire. E l’“Europa cristiana”, quella delle “Sante Leghe” che dalla guerra di Cipro del 1570-72 a quelle che avevano fatto seguito all’assedio di Vienna del 1683 fino alla pace di Passarowitz del 1718, scoprì che intanto il collante che avrebbe consentito il “concerto delle nazioni”, ora che il pericolo ottomano si era andato dissolvendo progressivamente mentre il latino andava inesorabilmente regredendo come lingua filosofica, giuridica e scientifica mentre il mondo cristiano-riformato l’aveva ripudiato come lingua liturgica, non risiedeva più nell’aggettivo che qualificava la fede religiosa individuale di gran parte degli europei: per quanto i monarchi del continente venissero ancora proclamati
“unti del Signore”.L’Europa/Occidente/Modernità si andava affermando come realtà non più “cristiana” - per quanto composta da cittadini individualmente in gran parte cristiani - bensì “laica”. Questo lento processo fu studiato parecchi anni fa da una straordinaria figura di storico, Paul Hazard, in un libro destinato a diventare uno di quelli che “non invecchiano”, un “classico”: La crise de la conscience européenne, 16801715, da allora incessantemente ripubblicato. Pur essendo dedicato soprattutto al pensiero e alla società francesi - ma in un tempo nel quale l’uno e l’altra erano centrali e fondamentali per l’intera Europa - il libro di Hazard ci pone dinanzi a un fenomeno sconvolgente: «La maggioranza dei francesi pensava come Bossuet; poi, d’un tratto, i francesi pensano come Voltaire: è la rivoluzione». Una rivoluzione che la stampa, la moda (questa straordinaria, invisibile regista della Modernità…) e le baionette giacobine e napoleoniche avrebbero imposto in tutta Europa.
Ebbene: in tale rivoluzione un ruolo centrale e una funzione precorritrice debbono essere accordati al filosofo, matematico, fisico e soldato René Descartes, che noialtri, seguendo la leggermente grottesca abitudine dell’italianizzazione della forma latina del
Martedì 10 novembre, all’Ambasciata di Francia a Roma, Jean-Robert Armogathe, Vincent Carraud, Umberto Eco e Tullio Gregory presentano i due volumi delle Opere (1637-1649) e Opere postume (16502009) di René Descartes, a cura di Giulia Belgioioso, pubblicati da Bompiani nella collana “Il Pensiero Occidentale” (Pagine 26001800, Prezzo ¤ 48- ¤54). Di Cartesio, Bompiani ha già pubblicato Tutte le lettere in un unico volume (2005), opera premiata a livello europeo, oltre a vari scritti singoli nella collana “Testi a fronte”. Ora vengono proposte in due volumi le opere filosofiche e scientifiche, autentici capolavori della filosofia moderna - Discorso sul metodo, le Meditazioni metafisiche, le Regole per la guida dell’intelligenza - per ricordare i titoli più noti, ma anche i numerosi scritti di geometria, di fisica e di cosmologia, meno conosciuti e di solito non frequentati dagli studiosi del pensiero moderno. Giulia Belgioioso è professore ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Lecce, dove ha fondato il Centro interdipartimentale di studi su Descartes e il Seicento.
mathesis universalis, divulgata nel 1637 dal suo celebre e fortunato Dirscours sur la méthode, che tra l’altro fece di lui l’iniziatore di un’altra fondamentale innovazione: quella sulla base della quale, per più o meno i successivi due secoli, la filosofia europea si sarebbe espressa in lingua francese, per quanto dall’inizio dell’Ottocento tale primato cominciò a venir insidiato dai tedeschi. Il razionalismo metodico cartesiano sta alla base, al fondamento della Modernità ed è elemento costituente di quello ch’è stato definito il “processo di secolarizzazione”: che non riguarda difatti tanto e soltanto le istituzioni e la cultura in generale, quanto il rapporto delle scienze tra loro, il recupero d’una loro unità in grado di sostituirsi all’egemonia della teologia ch’era stata progressivamente combattuta e ridotta a partire dal metodo abelardiano. Cartesio, venuto a mancare a Stoccolma nel 1650, completa, mezzo millennio circa più tardi, il magistero di Abelardo. Non aveva affatto torto, quindi, il grande filosofo cattolico Etienne Gilson a sottolineare come la rivoluzione cartesiana fosse impensabile senza quella scolastica che ne costituisce il presupposto. Una linea di continuità concettuale unisce, in questo senso, il medioevo cristiano alla Modernità. Ma tale linea non deve impedirci di scorgere altresì le linee di rottura: il razionalismo assunto da Cartesio in poi come massima misura interpretativa della realtà, che insieme allo sperimentassimo galileiano stanno appunto alla base della “rivoluzione” descritta da Paul Hazard, costituì la premessa e la base per un nuovo modo di vivere e di pensare che avrebbe permeato di sé i tre secoli successivi, quelli del trionfo del razionalismo occidentale e della sua Volontà di Potenza, tanto ardua peraltro a coniugarsi con la dimensione, anch’essa profondamente occidentale e moderna, dei Diritti Umani. Giunti forse alla vigilia di un’altra fase di svolta (per quanto sia difficile dire se, in che misura e in che senso si tratterà di un’altra “rivoluzione”), di tutto ciò è necessario prender coscienza con chiarezza.
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Iran. Migliaia di manifestanti e studenti gridano slogan contro il governo presa d’assedio dagli universitari la sede dell’agenzia di stampa di Teheran
Pugno duro del regime Milizie Basij scatenano violenze nella capitale Aggredito il leader dell’opposizione Karroubi di Pierre Chiartano ncora tensione in Iran. Sarebbero almeno una cinquantina i dimostranti arrestati a Teheran durante la contro-manifestazione organizzata dall’opposizione moderata, in occasione del trentesimo anniversario del sequestro degli ostaggi all`ambasciata americana in Iran. Lo ha riferito il sito il sito riformista Balatarin, citato da diversi media arabi. La polizia iraniana e alcuni uomini in abiti civili avrebbero anche sparato lacrimogeni e colpi di pistola per disperdere gruppi di manifestanti dell’opposizione. Lo scorso giugno la polizia aveva represso nel sangue le manifestazioni di protesta organizzate dalle forze di opposizione contro il risultato delle elezioni presidenziali. Ieri era il trentesimo anniversario dell’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran da parte di un gruppo di giovani studenti iraniani e del sequestro di 52 cittadini americani. La tv satellitare saudita, al Arabiya, fa il punto della giornata di Teheran. Davanti all’ambasciata americana, una contromanifestazione organizzata dalle autorità ha raccolto migliaia di persone.Testimoni oculari hanno riferito all’emittente saudita che il leader moderato Mehdi Karroubi, che ha partecipato alla manifestazione sarebbe stato aggredito da un gruppo di Basij, le milizie volontarie che rispondono direttamente alla guida suprema, Ali Khamenei.
A
Karroubi avrebbe poi lasciato il luogo «protetto dai suoi accompagnatori». Secondo al Arabiya, per impedire il flusso di altri manifestanti dell’opposizione alla piazza di Haft Tir, «quattro stazioni di metropolitana» sarebbero state chiuse. Inoltre, sempre sulla stessa piazza, per disperdere la folla, i pasdaran (guardiani della Rivoluzioni) «si sono calati da sette elicotteri». Negli scontri avvenuto con i manifestanti, «decine di persone, comprese alcune ragazze» sarebbero state portate via dai pasdaran. Secondo altri testimonianze oculari citate dalla tv araba, altre cariche della polizia sono avvenute nella via centrale Karim Khan. Durante
L’opinione del sottosegretario agli Esteri Mantica
«L’Italia non dimentica lo studente sparito» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. La questione dei diritti umani in Iran «è nell’agenda dell’incontro dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, che si terrà il prossimo 17 novembre a Bruxelles. Ma questo non deve farci pensare che Teheran sia pronta a collaborare; certo, noi lo speriamo». Il Sottosegretario agli Esteri del governo italiano Alfredo Mantica spiega a liberal la posizione occidentale nei confronti delle tante violazioni del regime. Onorevole, cosa pensa del matematico che ha fatto una domanda indiscreta a Khamenei ed è sparito? Voglio ricordare che, accanto alla questione di questo giovane, ci sono ancora tanti casi aperti: ci sono i contrattisti iraniani, impiegati all’ambasciata britannica e arrestati per la presunta partecipazione alle proteste post-elettorali. E poi c’è la ricercatrice francese agli arresti domiciliari all’interno dell’ambasciata di Parigi a Teheran. Su questo l’Unione europea è molto attenta: certamente uscirà un comunicato congiunto dei 27 Paesi europei, che noi speriamo essere molto preciso e attento sull’argomento. Noi operiamo in sede europea; abbiamo ovviamente anche dei rapporti bilaterali, diretti con l’Iran. In ogni occasione riproponiamo il tema dei diritti civili e delle libertà interna: ovviamente, tutto questo va legato in un contesto in cui nell’ambito dei rapporti prevale la questione del nucleare. Anche in questo caso si mette come priorità assoluta la speranza: io spero di arrivare a un accordo. Ma sono molto dubbioso che ci si riesca, visto l’atteggiamento degli iraniani sull’argomento.
Il ministro Frattini propose di invitare l’Iran al tavolo di Trieste sull’Afghanistan. Ieri ha rilasciato delle dichiarazioni dure sulla repressione in corso a Teheran. C’è un cambio di marcia del governo? Resta in noi una convinzione profonda: l’Iran è una grande potenza regionale, con cui occorre fare i conti quando si parla di Afghanistan e Pakistan. Quando li invitammo lo facemmo con quella condizione, che permane; ovviamente noi riteniamo che una grande potenza ha il diritto di fare la sua politica nell’area in cui si trova, ma che questo non debba essere precostituito come potenza nucleare. Noi speriamo che l’Iran arrivi a un accordo con la comunità internazionale, ma gli riconosciamo un ruolo da grande potenza. Ovviamente, rimane il problema dei diritti umani all’interno della società, di cui occorre discutere. Senza illudersi però che vi siano estremisti e moderati: noi riteniamo che lo scontro in atto sia fra pragmatisti e conservatori ideologici. Ma tutti legati alla stessa visione della società.
gli scontri, gli agenti avrebbero fatto «intenso» ricorso ai lacrimogeni e arrestato «almeno 7 giovani dimostranti». Scene analoghe di scontri con giovani che gridavano «morte al dittatore» si sono verificate nelle vie principali e nei pressi delle università «al Hurra» e «Sharif». Secondo le fonti di al Arabiya, la polizia ha dovuto «più volte» chiedere il sostegno di altre forze per disperdere gli studenti all’università al Hurra che gridavano, «gli studenti muoiono, ma non accettano l’umiliazione» e «non abbiamo paura delle pallottole né del cannone».
Tensione anche in altre città iraniane come Isfahan e Shiraz. Sempre il canale all news in lingua araba riferisce di «scontri all’università di
un comizio organizzato dalle autorità. Gli agenti hanno preso a manganellate i manifestanti e lanciato lacrimogeni. Testimoni hanno riferito di aver visto diverse persone ammanettate con le mani dietro la schiena, venire portate via dagli agenti su furgoni neri. Comunque secondo diverse fonti giornalisti nel pomeriggio sarebbe poi tornata la calma nel centro della capitale iraniana, dopo il pugno di ferro usato dalle forze di sucrezza del regime. Intanto a 30 anni dall’occupazione dell’Ambasciata americana a Teheran, sono arrivate ieri le prime ammissioni dall’interno del regime degli ayatollah iraniani che si trattò di un «errore». Lo ha affermato ieri la tv satellitare al Jazeera che riporta le dichiarazioni del
Una cinquantina i dimostranti arrestati nella capitale durante la contro-manifestazione dell’opposizione per il trentesimo anniversario del sequestro degli ostaggi all’ambasciata Usa Isfahan». Mentre secondo il sito riformista Rah-e sabz, venti persone sono state arrestate e alcune ferite negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine nella città di Shiraz, nell’Iran centrale. Intanto, come ha riferito il Guardian, circa 200 manifestanti riformisti hanno preso d’assedio la sede di Teheran dell’agenzia d’informazione ufficiale Irna. I dimostranti, tra i quali vi erano anche mullah del clero sciita, sono stati attaccati da agenti in borghese e miliziani islamici Basji, mentre ancora cercavano di radunarsi sulla grande piazza Haft Tir con l’intenzione di scendere verso l’ex ambasciata Usa, circa un chilometro a sud, dove era in corso
grande ayatollah, Hossein Ali Montazeri. Montazeri, oggi vicino al fronte moderato, è stato uno dei compagni del fondatore della rivoluzione islamica iraniana, l’imam Ali Khomeini. Citato dall’emittente qatariota, Montazeri ha affermato che «l’irruzione nella sede diplomatica americana è stato un errore». E Barack Obama si è rivolto ai leader iraniani. L’Iran deve «scegliere» fra restare sul passato o aprire la strada a «più opportunità, prosperità e giustizia» per il suo popolo. «Da 30 anni ascoltiamo quello contro cui è il governo iraniano. La questione ormai è: per quale tipo di avvenire è?» ha affermato il presidente Usa.
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Le proteste di piazza che si sono verificate, di nuovo, ieri a Teheran. Il 4 novembre è il giorno in cui l’Iran ricorda la presa dell’ambasciata americana. In basso il presidente della Camera iraniana, Ali Larijiani. Nella pagina a fianco, il Sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica
Teheran, oltre alle manifestazioni di piazza, altri due motivi fomentano la tensione di questi giorni. Da una parte, le dichiarazioni del residente Usa, Barack Obama, in merito al trentennale della presa dell’ambasciata statunitense a Teheran dai rivoluzionari, dall’altra la sempre più evidente spaccatura all’interno della leadership del regime, la quale rischia di erodere il potere personale del Presidente Ahmadinejad. Da Washington, il capo della Casa Bianca ha ricordato che i fatti del 1979 «hanno profondamente inciso sulla vita di americani coraggiosi che vennero ingiustamente tenuti in ostaggio». «Tuttavia gli Stati Uniti sono pronti superare questo passato, e cercano un confronto con la Repubblica iraniano impostato sul rispetto reciproco», ha aggiunto Obama, volendo in questo modo tendere nuovamente la mano agli Ayatollah. In questo senso, la Casa Bianca non ha mai permesso di essere travisata. Al di là di tutte le dimostrazioni antigovernative che possono nascere nel Paese, il suo obiettivo è chiudere la partita nucleare con Teheran e avere da questa la garanzia dell’abbandono di qualsiasi ambizione militare. Ne consegue che per Obama l’unico interlocutore utile è il regime stesso. Non ha importanza, in questo momento, se l’Iran sia nelle mani di un governo autoritario e antidemocratico. Ciò che conta è che nel cuore del Medio Oriente, vicino all’Afghanistan e al Pakistan, non si inneschi un nuovo focolaio di tensione.Tuttavia, oltre al ritorno dell’«Onda Verde», l’Iran cela nelle stanze dei bottoni un problema forse ancora più grave. Perché le rivalità interne all’establishment potrebbero mettere in discussione la credibilità e il potere decisionale della controparte di cui Washington è alla ricerca.
A
Obama si dice pronto a dimenticare il passato
La scossa degli Usa: «Ora cambiate marcia»
Mentre nelle dinamiche interne iniziano gli scontri fra il presidente e i leader di governo moderati di Antonio Picasso nejad. Allora, gli ultra-conservatori avevano manifestato contrarietà nel vedere tre donne alla guida di tre ministeri.
La polemica poi si era soffermata sulla scelta di alcune personalità, a loro giudizio, non pedissequamente fedeli alla linea di intransigenza definita dalla Guida suprema, Ali Khamenei. Ma risale solo a ieri l’ultimo caso di questo scontro al vertice. Al momento di dare la parola ad Ahmadinejad, il Presidente della Majlis, Ali Larijani, gli
energetici e alimentari. Il Capo dello Stato però, spinto da ragioni di contenimento della spesa pubblica, si è detto contrario a questa ennesima iniziativa paternalistica. Sarebbe quindi una ragione di politica economica il casus belli di questo nuovo confronto tra Ahmadinejad e le altre istituzioni? Non solo. Perché anche la questione nucleare ta generando nuovi attriti. Il Presidente iraniano ha dichiarato la propria disponibilità a confrontarsi con la comunità internazionale sulla base dei
ramente di prestigio, ma privo di visibilità oltre i confini nazionali e senza alcun potere decisionale. Bisogna tenere conto inoltre che il clan Larijani rappresenta una lobby di indiscusso peso politico all’interno del Paese.
I tre fratelli Ali, Mohammen e Sadegh sono tra i consiglieri più ascoltati da Khamenei.Vantano una discendenza da un ayatollah quale Hashem Amoli Larijani, figura esemplare ai tempi di Khomeini ed essi stessi occupano una posizione di spessore culturale e religioso presso l’attuale establishment nazionale. Intaccare il potere di Ali, da parte di Ahmadinejad – laico e privo di questo «sangue blu» – è apparso come uno sgarbo commesso nei confronti di tutta la famiglia. Mousavi, a sua volta, vuole cogliere l’occasione per attaccare il suo rivale dal quale è stato sconfitto in un modo così poco cristallino alle elezioni del 12 giugno. Emerge da tutto questo il sospetto che la posizione del Presidente sia sempre più precaria. La sua velata disponibilità al confronto con l’Occidente, inoltre, può essere interpretata come un tradimento in favore del «Grande satana» americano. Il regime è riuscito a fare del nucleare un’ambizione nazionale, trasversale – da qui l’opposizione anche di Mousavi all’accordo di Vienna – e sulla quale non c’è possibilità di compromesso. Chiunque, anche il Capo dello Stato, si dimostrasse favorevole al dialogo, rischierebbe di compromettersi di fronte all’intero regime. E non è da escludere che gli ultra-conservatori aspettino che Ahmadinejad compia un passo falso proprio in questo senso.
Il regime è riuscito a fare del nucleare un’ambizione nazionale e trasversale: ecco perché anche Mousavi si è opposto all’accordo di Vienna. In pratica, non è più possibile fare dei compromessi con nessuno Stato
Di questo fenomeno si era avuto il sospetto al momento del voto di fiducia richiesto dal Parlamento iraniano, la Majlis, per il nuovo governo di Ahmadi-
ha concesso cinque minuti di intervento, come da regolamento. «Secondo la Costituzione, posso parlare quando e quanto voglio», ha replicato invece il Capo dello Stato. Tuttavia, lo speaker della Camera è stato irremovibile e non gli ha permesso altro tempo. Ahmadinejad è stato interpellato dal Parlamento per rispondere di un emendamento della futura Legge finanziaria. In seguito al taglio dei sussidi, previsti da una precedente politica economica e poi abrogati dal governo, la Majlis pretende che venga definito un nuovo sistema di contributi statali in favore della popolazione nell’ambito dei consumi
recenti accordi di Vienna. Contrario a questa apertura è il gruppo di conservatori pragmatici, guidati da Larijani, nonché – e questo è sorprendente – il riformista Hussein Mousavi.
Il perché di questa condivisione di prospettive è dettato da una serie di rancori politici e strettamente personali, nutriti sia dallo speaker della Majlis, sia da Mousavi verso il Presidente. Il primo non ha dimenticato la scelta di Ahmadinejad di averlo sollevato dall’incarico di capo negoziatore iraniano nella questione nucleare, per relegarlo alla guida del Parlamento. Un ruolo, questo, sicu-
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quadrante Afghanistan. Dallo psicodramma del ballottaggio mancato ai dubbi di Obama
eggio della tela di Penelope che alla luce del giorno veniva tessuta e nel buio della notte veniva smontata. L’Afghanistan del dopo elezioni annaspa in un totale caos politico e militare che conferma i limiti della presidenza di Hamid Karzai - ma questa, ormai, non è più una novità - e che rivela anche il modo fallimentare - e questo è molto più allarmante - in cui gli Stati Uniti e l’Europa stanno gestendo il principale fronte della guerra al terrorismo. Il voto presidenziale avrebbe dovuto rafforzare la credibilità del regime democratico che si oppone agli attacchi dei talebani. E avrebbe dovuto anche facilitare quella decisione che Barack Obama ancora stenta a prendere: l’invio dei rinforzi chiesti dal comandante del corpo di spedizione Usa, generale Stanley McChrystal. Si è messo in moto, invece, un meccanismo perverso fatto di accuse e di controaccuse che rischia di demolire tutto quello che, con tanta fatica, è stato costruito. L’ultimo colpo lo ha assestato Abdullah Abdullah che ha lanciato una nuova requisitoria contro Karzai appena 24 ore dopo il discorso d’investitura del presidente riconfermato al suo posto dalla decisione della commissione elettorale. Lo sfidante che sembrava uscito di scena, dopo avere rinunciato al ballottaggio, adesso dice che la rielezione di Karzai ottenuta in questo modo «non ha base legale» e che il futuro governo «non sarà in grado di combattere il terrorismo, la corruzione, la disoccupazione, la povertà e tutti gli altri problemi che affliggono il Paese».
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Falliscono a Kabul i piani di Europa e Usa Abdullah rilancia: Karzai è illegittimo La voglia di stabilità naufraga nel caos di Enrico Singer
Per due anni, dal 2004 al 2006, Abdullah Abdullah ha collaborato con Hamid Karzai e ancora oggi riconosce che «allora Karzai sembrava perfetto per ricostruire il Paese dopo trent’anni di guerra». Ma dice anche che «ora non è più così perché ha associato al governo criminali e signori della guerra». Riferimenti nemmeno tanto nascosti al nuovo vicepresidente, Mohammad Qasim Fahim, conosciuto anche come il maresciallo Fahim, uno dei più potenti signori della guerra afghani, e allo stesso fratello di Ha-
L’ex ministro degli Esteri rilancia la sua sfida e punta a diventare il capo dell’opposizione
Il discorso del capo dello Stato per la Giornata delle Forze armate
Napolitano difende le missioni ROMA. Il Presidente della Repubblica, Giorgio
Abdullah Abdullah, insomma, non rinuncia alla sua lotta. Anzi, si propone come il capo dell’opposizione e imbocca, così, l’unica strada che potrebbe portarlo, un giorno, nel palazzo presidenziale di Kabul. L’ex ministro degli Esteri del primo governo di coalizione di Karzai quello che cinque anni fa aveva acceso molte speranze in Afghanistan e in Occidente - sapeva bene che dal ballottaggio sarebbe uscito sconfitto: per la possibilità o la certezza - di nuovi brogli ed anche perché lo scontro a due si era inevitabilmente caricato delle divisioni tribali tra l’etnia pashtun - maggioritaria, di cui Hamid Karzai è espressione - e la minoranza tagika - circa il 25 per cento della popolazione afghana - che rappresenta il nucleo duro dei sostenitori di Abdullah Abdullah che co-
minciò la sua carriera politica negli Anni Ottanta come braccio destro del mitico Leone del Panshir: Ahmad Shah Massud, il comandante dell’Alleanza del Nord che ha combattuto contro l’invasione russa ed è stato ucciso in un attentato di al Qaeda proprio alla vigilia dell’attacco contro le Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Massud era un tagiko e per questo Abdullah Abdullah - che è nato nel 1960 a Kabul da padre di etnia pashtun e da madre tagika - adesso è molto rispettato da quella parte della popolazione.
Napolitano, in occasione del 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate, ha inviato alle Forze Armate un messaggio in cui auspica, tra l’altro, che «non venga mai a mancare il pieno supporto dei cittadini e dello Stato» verso le missioni internazionali in cui è impegnata l’Italia perché «l’impegno militare italiano nelle missioni internazionali è di capitale importanza per il futuro del Paese e della comunità internazionale. Oggi - si legge nel messaggio - ricorre il 91° anniversario della vittoria nella Grande Guerra e con essa si celebrano il Giorno dell’Unità Nazionale e la Giornata delle Forze Armate. Questa mattina all’Altare della Patria mi chinerò in nome di tutti gli italiani sulla tomba del Milite Ignoto per rendere omaggio a coloro che sono caduti per assicurare al nostro Paese libertà, democrazia e prosperità. Nel contesto pur profondamente mutato del XXI secolo, questi restano valori fondamentali che dobbiamo continuare a tutelare ed a consolidare. Ieri – ha ricordato il Capo dello Stato - ho celebrato il 4 novembre insieme ai nostri militari impegnati nella missione Unifil in Libano ed ho potuto ancora una volta apprezzare lo straordinario contributo che le Forze Armate sanno dare, per generale riconoscimento, alla sicurezza internazionale, alla paci-
fica convivenza e al progresso dei popoli. La critica fase di instabilità che stiamo vivendo, con le sofferenze e le ingiustizie che pure comporta – ha evidenziato Napolitano - segna un passaggio di rilevanza fondamentale nella transizione verso una società globale sempre più interconnessa ed interdipendente». «Questa nostra società – ha aggiunto il capo dello Stato - sarà in grado di affrontare e vincere le grandi sfide dell’umanità se gli Stati sapranno trovare la necessaria unitarietà di intenti e costruire insieme un sempre più rappresentativo sistema di istituzioni internazionali ed un’efficace struttura di sicurezza. Tale struttura dovrà avere la capacità, da un lato, di intervenire nelle situazioni di crisi e di instabilità prima che queste degenerino in conflitto e, dall’altro, di contrastare le grandi minacce eversive transnazionali, dal terrorismo alla criminalità organizzata. Questi – ha concluso Napolitano - sono i compiti primari delle Forze Armate dei Paesi avanzati e di quelle italiane in particolare. Siamo tutti ben consapevoli che l’impegno militare italiano nelle missioni internazionali è di capitale importanza per il futuro del Paese e della comunità internazionale e dobbiamo perciò far sì che a questo impegno non venga mai a mancare il pieno supporto dei cittadini e dello Stato».
mid Karzai, Ahmed Wali Karzai, che è accusato di essere uno dei più grandi narcotrafficanti del Paese che, non dimentichiamolo, produce ed esporta - in barba alla guerra - il 90 per cento dell’oppio mondiale. L’impressione è che gli americani e gli europei considerino tutto questo delle faide interne ineluttabili e che la loro maggiore preoccupazione sia stata quella di non far andare di nuovo gli afghani alle urne, anche perché il ballottaggio avrebbe inchiodato in Afghanistan le truppe inviate laggiù proprio per vegliare sulle elezioni di agosto. Ma far tornare a casa i 400 soldati italiani - come quelli degli altri Paesi della Nato - che hanno rinforzato i contingenti già impegnati stabilmente, è soddisfazione assai magra in confronto all’instabilità politica di cui possono trarre vantaggio soltanto i talebani più duri che, non a caso, hanno già respinto al mittente l’apertura tentata da Karzai nel suo discorso d’investitura di martedì.
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Dopo l’incontro con due diplomatici Usa. Sorrisi senza dichiarazioni
La Cina protesta per un viaggio del Dalai Lama. Delhi: «Ospite d’onore»
Aung San Suu Kyi riappare in pubblico
Il primo ministro tibetano: «Pechino sempre più nervosa»
YANGON. Aung San Suu Kyi ha
NEW DELHI. I commenti cinesi
incontrato ieri Kurt Campbell e Scot Marciel, i due alti funzionari statunitensi in visita diplomatica in Myanmar. Fonti locali, riferite dal quotidiano birmano Mizzina News, spiegano che la leader dell’opposizione ha lasciato la villa sulle rive del lago dove è detenuta per dirigersi all’Innya Lake hotel, di Yangon. La “Signora”, che ha trascorso 14 degli ultimi 20 anni agli arresti, indossava un vestito tradizionale birmano di colore rosa, appariva in buona salute, ha salutato i fotografi presenti ma non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Kurt Campbell, vice-segretario di Stato Usa con delega all’Asia dell’est e al Pacifico, e il suo vice Scot Marciel, ambasciatore Usa all’Asean (Associazione che riunisce 10 Paesi del Sudest asiatico), hanno lasciato nella prima mattinata Naydyidaw, la capitale del Myanmar, dove ieri hanno incontrato alti gerarchi della dittatura militare. Ieri i due diplomatici hanno intrattenuto un breve colloquio con Thein Sein, prima di partire alla volta diYangon. Come anticipato, non vi è stato il faccia a faccia con il generalissimo Than Shwe, che di rado accetta di ricevere diplomatici stranieri e, soprattutto, è l’uomo che detta legge nel Paese. Secondo
sulla visita del Dalai Lama allo Stato indiano dell’Arunachal Pradesh «non vanno neanche presi sul serio. Dimostrano soltanto il nervosismo di Pechino, che nasce da una mancanza di legittimazione su quel territorio e costringe i suoi leader a creare accuse false e prefabbricate». Lo dice ad AsiaNews il primo ministro tibetano in esilio Samdhong Rinpoche, che commenta le reazioni ufficiali del governo cinese alla visita del prossimo 8 novembre del leader tibetano nello Stato di confine. Il quotidiano governativo China Daily, parlando della visita del Dalai Lama, ha scritto: «Spesso, quella persona mente e si impegna in azioni tese a danneggiar le rela-
Il rapporto Goldstone all’esame dell’Onu In discussione la presentazione al Consiglio di Sicurezza di Massimo Fazzi Assemblea generale delle Nazioni Unite si è riunita ieri per decidere la sorte del Rapporto Goldstone, il documento commissionato a un giudice sudafricano con il mandato di indagare su presunti crimini di guerra commessi durante l’operazione “Piombo fuso”, lanciato da Israele nella Striscia di Gaza lo scorso inverno. La Commissione Goldstone è stata creata dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, e i primi risultati della loro indagine hanno allargato ancora di più il divario fra i Paesi arabi, che le sostengono, e le nazioni occidentali che invece lo hanno condannato. L’Assemblea generale è decisa a girare la grana diplomatica al Segretario generale delle Nazioni Unite, che avrebbe così l’incarico di decidere cosa farne. Tutti i diplomatici, di ogni schieramento, sono infatti d’accordo nel sostenere che – mantenendo il Rapporto nell’agenda internazionale – si rischiano nuove, incendiarie posizioni. Molti temono inoltre che una presa di posizione decisa da parte del Palazzo di vetro possa ulteriormente incrinare il già difficile processo di pace in Medioriente. Una bozza di risoluzione all’analisi dei presenti all’incontro di ieri – preparata dai Paesi arabi – chiede a Ban Ki-moon di ripresentare il documento all’Assemblea non prima di tre mesi. Formalmente, la dilazione serve a permettere al governo israeliano e a quello palestinese di preparare una risposta – tramite indagini interne – alle accuse presentate da Goldstone. Insieme a Tel Aviv, infatti, anche Hamas viene accusata di atrocità commesse durante le tre settimane di scontri nella Striscia.
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Ma i Paesi arabi sembrano intenzionati a procedere sulla loro strada. Portando il Rapporto all’attenzione dell’amministrazione Obama, sostengono, «potrebbe evidenziare il doppio standard di Washington, che fa pressione per far accettare diplomaticamente Israele ma poi evita di pronunciarsi sulle sue guerre».
Proprio il giorno prima della presentazione all’Onu, infatti, la Camera dei rappresentanti americana si è pronunciata contro il Rapporto. I parlamentari statunitensi hanno approvato con 344 voti contro 36 e 22 astensioni una risoluzione che invita «il presidente Obama e la segretaria di Stato Hillary Clinton a respingere senza equivoco ogni sostegno o ogni esame futuro» al Rapporto redatto dalla commissione. Secondo le indagini condotte da Goldstone, Hamas avrebbe usato degli esseri umani come scudi, mentre Israele avrebbe intenzionalmente usato la sua potenza di fuoco contro edifici e installazioni governative. Un’accusa che l’esercito di Tsahal si è già visto muovere, durante la guerra nel sud del Libano del 2006. Queste pesanti accuse hanno scatenato la dura reazione di Israele: il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a dichiarare: «I rapporti di pace non ripartiranno fino a che questo testo sarà tenuto in considerazione». Secondo l’esecutivo israeliano, infatti, l’operazione è stata condotta per interrompere il lancio di missili dalla Striscia verso il loro territorio: ogni legittimità concessa a Goldstone mina il diritto di Israele a difendersi dal terrorismo. Secondo Human Rights Watch, l’Organizzazione internazionale non governativa che opera contro gli abusi ai diritti umani, «non è corretto mettere dei paletti ai rapporti Onu». Sarah Leah Wilson, direttore per l’area mediorientale di Hrw, sostiene: «Invece di negare a priori, bisogna indagare su tutto ciò che accade sui teatri di guerra. Soltanto in questo modo si può portare alla luce i fatti e consegnare alla giustizia chi ha commesso abusi. Che siano israeliani o palestinesi non conta».
La bozza di risoluzione presentata dai Paesi arabi propone di discuterne nuovamente tra «non prima di 3 mesi»
Thakin Chan Htun, ex diplomatico birmano, il mancato incontro conferma che «il generalissimo non è disposto a compromessi». I diplomatici Usa hanno riferito della nuova politica di parziale apertura dell’amministrazione Obama verso la dittatura militare, dopo anni di isolamento e sanzioni economiche e commerciali. Una eventuale rimozione delle sanzioni – che non sarebbe osteggiata dalla stessa Aung San Suu Kyi – resta però legata a un miglioramento dei diritti umani in Myanmar e alla liberazione dei detenuti politici. Nel tardo pomeriggio Campbell e Marciel hanno incontrato anche i leader della Lega nazionale per la democrazia
Sempre la bozza propone al Segretariato di passare il Rapporto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’unico organismo in grado di girarlo alla Corte internazionale di Giustizia de L’Aja. Alcuni membri permanenti del Consiglio hanno sostenuto però che sarebbe insensato portare il documento sul loro tavolo, dato che è certo il veto imposto dagli Stati Uniti sulla risoluzione che condanna Israele.
zioni della Cina con gli altri Paesi». Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Ma Zhaoxu ha aggiunto ieri: «Abbiamo espresso le nostri preoccupazioni al governo indiano. Crediamo che questo episodio dimostri, ancora una volta, l’anima anti-cinese del Dalai Lama. Ci opponiamo alla sua visita in una regione di confine: è un atto separatista». Alle proteste ha risposto in prima persona il primo ministro indiano, Manmohan Singh, che ha detto: «Ho spiegato direttamente al premier cinese Wen Jiabao che il Dalai Lama è un nostro onorato ospite. È un leader religioso. Inoltre, noi non permettiamo ai rifugiati tibetani sul nostro territorio di praticare attività politica». Dal 1949, dopo la presa di potere di Mao Zedong e l’invasione del Tibet, il Dalai Lama e il suo governo sono rifugiati nella città indiana di Dharamsala. L’Arunachal Pradesh, inoltre, è uno Stato che per decenni è stato al centro di scontri fra i due Paesi. Pechino ha per molto tempo sostenuto che debba ricadere sotto la propria giurisdizione. Secondo Rinpoche, inoltre, «si tratta di una visita di routine, in programma da molto tempo. Il Dalai Lama deve inaugurare un ospedale, e la popolazione di quello Stato è desiderosa di avere una dharshan [una benedizione] da parte sua».
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Ritratti. La Società Editrice Fiorentina ristampa “Fra terra ed astri”, raccolta di versi che il letterato romano pubblicò con lo pseudonimo di Giulio Orsini
Gnoli, poeta delle beffe Vecchio erudito, si finse giovane letterato, ma le sue rime ispirate segnano lo snodo di due secoli di Matteo Marchesini ella storia della letteratura ci sono rari casi che illuminano d’un tratto, con uguale nitidezza, sia lo sviluppo interno delle forme poetiche sia il profilo sociologico di un milieu culturale. Uno di questi casi lo creò a inizio ’900 Domenico Gnoli, bibliotecario romano più che sessantenne (era nato nel 1838) che fino ad allora aveva affiancato agli studi sull’arte antica e rinascimentale alcune raccolte di versi dall’eco piuttosto scarsa: i primi, pubblicati sotto lo pseudonimo di Dario Gaddi e influenzati dai sodali della Scuola Romana; i più celebri, riuniti in due libri di «odi tiberine» assai debitrici al Carducci; e negli ultimi anni dell’800 quelli editi col titolo di Eros sotto il nom de plume femminile di Gina D’Arco.
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Come si vede, a Gnoli piacque fin da subito inventarsi identità fittizie, quasi ad allontanare certe ispirazioni dalla figura del severo erudito che guidò l’amico Giosuè «dinanzi alle terme di Caracalla». Ma il travestimento con cui inaugurò il secolo XX è tutt’altra cosa. Aiutato da alcuni complici, tra cui il grecista Ettore Romagnoli, iniziò infatti a mandare in giro poesie firmate da un misterioso Giulio Orsini. Poi le raccolse in una prima plaquette, in cui l’ignoto autore stampava anche le critiche e gli elogi ricevuti da alcuni importanti intellettuali dell’epoca (Mazzoni, Ojetti, Graf... e Domenico Gnoli!). I giudizi erano resi anonimi: ma poiché il poeta elencava a parte gli estensori, il pubblico poteva giocare al malizioso gioco delle attribuzioni. Questa “beffa seria” sfociò poi nella raccolta maggiore, Fra terra ed astri, uscita nel 1903 (l’anno del doppio esordio di Govoni, che molti segnalano come l’inizio del nostro ’900 poetico; ma anche l’anno dei Canti di Castelvecchio e di Maia). Tra i letterati il libro andò subito a
ruba, e le domande sull’invisibile autore s’infittirono. Ma quale profilo aveva impresso, il demiurgo, alla sua bizzarra creatura? Ecco come la ritrae oggi Paolo Maccari, che ha curato con intelligenza e sobrietà una ristampa anastatica di Fra terra ed astri appena uscita per la Società Editrice Fiorentina: «un conte del nobilissimo casato degli Orsini, giovane sui venticinque anni,
Le suggestioni decadenti, ormai agli ultimi spasimi, slittano nelle sue pagine verso i rintocchi crepuscolari che caratterizzano il secolo scorso
amante sfortunato, e che ha questa principale caratteristica: non si fa vedere da nessuno. Circola la notizia che la sua ritrosia sia causata da un morbo che gli ha sfigurato il volto: insomma, un giovane ramingo per il mondo, dalla nostra Penisola, che percorre in lungo e in largo, all’Europa del Nord, fino all’Africa nera, guidato dall’inquietudine di un amore tormentoso; e sognatore poi, sempre pronto a innalzarsi dalla terra agli astri e a porsi le domande ultime sul destino universale; malato
di pessimismo, come alcuni dei più begli ingegni del periodo, ma sincero patriota, pronto a tutto per la sua Italia».
Vent’anni prima, l’esordiente D’Annunzio aveva finto la morte per pubblicizzare un libretto di versi; ora, il vecchio Gnoli si nasconde sotto la maschera senza corpo di un poeta di quaranta anni più giovane per esser giudicato “onestamente”, senza pregiudizi, e attingere una fama sempre agognata ma mai davvero raggiunta. Nella primavera del 1904, quando la curiosità è giunta allo spasimo, il Giornale d’Italia lancia un’inchiesta; e a fine aprile smaschera l’anziano letterato. La scoperta toglie al caso ogni alone romantico: sotto le vesti del ragazzo splenetico c’era un pedante di lungo corso! Ma Luigi Baldacci ha colto anche una delusione più profonda. Molti, infatti, speravano che Orsini risolvesse una situazione bloccata tra i poli pascoliano e dannunziano: e poteva farlo solo un autore giovane. Del resto, anche a causa di questa illusione il libro fu giudicato “senza pregiudizi”. Con la sua beffa, Gnoli portò allo scoperto i caratteri dei propri colleghi. Alcuni di quelli che s’erano più esposti s’infuriarono; ma non Arturo Graf, che una volta chiarito lo scherzo osservò signorilmente come restasse comunque da risolvere il vero mistero, e cioè quello psicologico: di dove aveva tratto, il vecchio erudito, la forza e la fantasia necessarie a scriver versi così spregiudicati e freschi? Perché Fra terra ed astri costituisce davvero il più singolare punto di mediazione tra un ’800 insoddisfatto di sé e un ’ 900 ancora in embrione; e davvero Orsini non è lo Gnoli che tutti conoscevano. Tra l’altro, come osserva Maccari, quando nel 1907 l’autore pubblicherà l’antologia delle Poesie edite ed inedite, allineerà senza gerarchie le sezioni firmate col suo vero nome accanto a quelle attribuite agli pseudonimi: siamo
Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Nelle foto, alcuni poeti che hanno influenzato Gnoli. A sinistra, nel tondo, Arturo Graf. Qui sotto, Giovanni Pascoli. Nella pagina a fianco, D’Annunzio
già tra Pessoa e Pirandello – che poco prima di morire, nella pièce Quando si è qualcuno, s’ispirerà proprio alla vicenda Gnoli-Orsini.
Ma l’allineamento dei nomi ha anche un altro senso, più strettamente formale. Gnoli è infatti il miglior termometro di un secondo ’800 eclettico per forza: un ’800 condannato a banalizzare la grande esperienza romantica, a illanguidirsi in una torbida sensualità o in un ascetismo senza fede, e incline talvolta a gonfiarsi in titanismi ormai privi di reale contenuto ideologico. Non a caso, nella prefazione scapigliata di Fra terra ed astri, la controfigura imberbe del vecchio poeta si dice alla ricerca di quella «legge morale della sincerità» in arte che presuppone il rifiuto della malafede oggettiva attribuita di lì a poco dal Croce alla letteratura dei D’Annunzio, dei Pascoli e dei Fogazzaro. Senza far nomi, Orsini sferza appunto la dannunziana «virtuosità d’oziosi», il “buco con le parole intorno”. Ma al tempo stesso, censurando la discorsività prosastica in poesia e dividendo nettamente la lirica (arte del «cielo») dalla prosa (arte di «terra») rivela il sostrato ottocentesco che lo separa dalle future esperienze crepuscolari, a cui pure offrirà nella pratica un notevole contributo. Insomma: il manife-
sto di Orsini appare una reazione ancora indefinita dell’anima «brancolante nel buio del gran mistero». E mistero è infatti parola tematica di Fra terra ed astri: che annuncia fin nel titolo un romanticismo grafiano anelante a vette fisiche e spirituali d’ascendenza nordica. Questo afflato cosmico, che spazia dall’infinitamente grande delle costellazioni all’infinitamente piccolo del filo d’erba, ha poi un parallelo evidente nel Pascoli coevo (anche Orsini vaga per i mondi col suo «bordone del pellegrino»). Osserviamolo, dunque, addentrandoci nel libro. Il famoso prologo, intitolato Apriamo i vetri!, riassume bene il suddetto miscuglio di retorica petroliera e angoscia tardoromantica: da una parte il falso giovane invita i coetanei a sollevare la Musa «anemica» dal
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sche («verginità di stupori») e certa iconografia decadente che sta alla pari con le invenzioni di Pascoli e D’Annunzio (si vedano i fiori «tremuli turiboli», o le cupole rovesciate al cielo come calici). Ma ci salterà agli occhi anche la distanza corrente tra gli interrogativi cosmici a metà tra Graf e un Leopardi volgarizzato (si legga l’incipit di Getzèmani) e quelli che di lì a poco pervaderanno le pagine dei veri giovani, gli Slataper e i Rebora. La natura di trait-d’union tra due secoli è poi ben visibile, in Fra terra ed astri, nel fatto che Orsini-Gnoli opera spesso una spontanea mise en abîme dei modi decadenti, preparando così quella loro riduzione al grado zero, palazzeschiana e crepuscolare, sulla cui soglia lui si ferma però con incertezza ottocentesca. Si veda un passo come questo: «Era una campana dondolante/Senza suono dall’alta torre,/Era gente che corre, che corre/In giro in giro, ansante ansante». Siamo all’epigonismo pascoliano, o
«giaciglio de’ vecchi metri» e a far circolare aria nuova («Vogliamo piangere co’ nostri occhi/Le amarezze de’nostri pianti»); dall’altra s’abbandona alla fatalità misteriosa che «Col lume del grande occhio nero,/Del grande occhio fascinatore,/Ci attira oltre gli spazî, oltre l’ore». Il miscuglio ebbe la fortuna d’intercettare parecchie ansie che erano nell’aria, e che il Croce ritrovò perfino nei tentativi onesti ma monchi del contemporaneo De Bosis. Una tale inquietudine, ancora informe, si esprime qui al massimo grado nella trama del poemetto su cui la raccolta: s’incardina quell’Orpheus nel quale, in cambio di un proprio bacio, l’amata impone al poeta l’impresa ormai impossibile di trovare «il fior della fede».
A partire da questa richiesta, Fra terra ed astri sviluppa un esile romanzetto costellato di continui rimandi interni, nella cui filigrana può leggersi la sublimazione del breve amore senile di Gnoli per la poetessa Vittoria Aganoor. Abbiamo prima un casto idillio, poi il “tradimento” della donna che sposa un altro, quindi i versi di recriminazione (in cui, come nella sezione di polemica politica, si sfoga l’astiosa vena carduccian-stecchettiana: Spegni i ceri fa pensare all’Anacreontica romantica) e infine il narcisistico perdono (in cui fluisce una blanda musica in parte decadente e in
parte già quasi corazziniana). Ma intriganti, nell’ Orpheus, sono soprattutto le dissolvenze attraverso le quali una sequenza riflessiva trascolora in frammento paesistico e questa trapassa poi in allegoria. È un modo di procedere che fa pensare in piccolo a certo Pascoli dei Poemetti; un modo modernissimo, che Maccari descrive perfettamente nella sua Postfazione là dove afferma che a volte il pensiero si sfoca e «dà luogo a una sorta di tremito visivo che coinvolge tanto i meccanismi mentali, inceppati, riottosi a un percorso fluido, quanto gli oggetti osservati, che si disperdono in un’ipnotica fluttuazione tra la loro reale consistenza fisica e la consistenza ambigua del simbolo». A questa fluttuazione immaginativa corrisponde poi la fluttuazione metrica della raccolta, le cui strofe scivolano dall’ottonario e dal decasillabo accentati in maniera anomala a un novenario e a un settenario a loro volta sfumanti in un alone quasi atonale. In particolare, nel definire questa zona d’accentazione incerta e dissonante, dove ogni metro evoca il fantasma di metri contigui, ha un ruolo decisivo quel novenario che lo Gnoli studioso riteneva ancora mal esplorato dalla nostra poesia, e che tuttavia formò l’ossatura dei versi barbari carducciani: alla cui scomposizione Maccari ri-
porta molte delle quartine di Fra terra ed astri.
In sintesi, da qualunque punto la si guardi, la raccolta di Orsini è «ibrida». Qualità che spicca ancor meglio se, unendo le osservazioni su temi e metri, tentiamo di coglierne i toni. Scopriremo allora come certi languidi panismi dannunziani e certe nenie anaforiche del Pascoli scivolino già verso Corazzini. Ancora, potremo cogliere certe astrazioni analogiche già novecente-
già a una sua parodia? Forse ci troviamo piuttosto in una strana terra di mezzo. La stessa da cui sboccia un verso come «Penso al radiotelegrafo e sospiro», già esposto al furto gozzaniano ma qui ancora inserito in un quadro di sentimentalismo romantico. Il Croce colse questa medesima oscillazione tonale quando osservò che spesso anche le zone più accorate della poesia di Orsini si sfrangiano in immagini così ingegnose (si veda la poesia sul crollo del campanile di San Marco) da sfiorare lo straniamento umoristico. In alcuni brani l’ingegnosità funziona come una lente: quella lente che nel Pascoli disperde l’unità compositiva e che qui, in una poesia tutta fisiologicamente ed esilmente giocata sui trapassi atmosferici, permette di scivolare pian piano da un punto di vista a un altro. Comunque, a chiusura di libro resta soprattutto impressa l’immagine di un ’800 moribondo che tenta di sfuggire a se stesso estremizzando le sue polarità più tipiche: da una parte un positivismo insieme sfruttato e rigettato, dall’altra l’Inconoscibile che lo insegue come un’ombra; da una parte i raggi X, dall’altra il Mistero; da una parte un aristocraticismo pompier, dall’altra un socialismo confuso; da una parte la «larva» mondana dell’Io, dall’altra il puro occhio fuori dallo spazio e dal tempo, che vede «come polvere al vento,/Innanzi a me roteare i mondi» e che solo l’amore riesce a riportar giù dalle nubi.
In questo contesto, il bisogno parossistico di autorealizzazione si muta spesso in desiderio regressivo di annichilimento: «Fuggire, sparire, sparire/Dentro gli abissi del nulla». Fra terra ed astri è un libro saturato da cima a fondo dall’angoscia di chi crede che ogni voce, sul piano biografico e storico, cadrà nel Vuoto. Gnoli-Orsini si chiede più volte se la sua vita si trovi davanti a «un tramonto o un’aurora». E al di là dello sdoppiamento autoriale, questa domanda dà conto della torbida terra di mezzo in cui è cresciuto il suo libro. Che forse non a caso si chiude con un «sicomoro»: l’albero evangelico su cui il piccolo Zaccheo sale per vedere Gesù, un po’ come Gnoli s’intrufola tra i rami delle più diverse poetiche del suo tempo per provare a intravedere – riuscendoci solo a metà – i destini del ’900 letterario.
spettacoli
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Cinema. Il regista presenta il programma della XXVII edizione del Film Festival, fino allo scorso anno guidato da Nanni Moretti
Al via il “Gran Torino” di Amelio di Pietro Salvatori
Aprirà i battenti venerdì 13 novembre la XXVII edizione del Torino Film Festival. Quest’anno la kermesse, guidata da Nanni Moretti fino allo scorso anno, è stata affidata al nuovo direttore artistico Gianni Amelio. Tanti i big in concorso: tra gli italiani, si alterneranno sul red carpet Mario Monicelli, Marco Bellocchio, Mario Martone, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Elio Germano, Paolo Briguglia ed Ennio Fantastichini
l vizio del cinema, se ce l’hai, non lo puoi perdere. Altrimenti te lo puoi solo guadagnare». Così Gianni Amelio conclude l’introduzione del suo volume, Il vizio del cinema per l’appunto, pubblicato una manciata di anni fa da Einaudi. Ma Amelio, oltre che regista solido e coerente, è anche - forse soprattutto - un grande amante della visione in sala. «Oggi con un solo biglietto non posso più vedere un film per tre o quattro volte di seguito», si rammarica sempre nelle pagine iniziali di un volumetto che non è un saggio sul fare cinema, né un’autobiografia lavorativa, ma la raccolta di tante piccoli lemmi che, partendo da un film, si dipanano in ricordi personali, aneddoti, considerazioni. È stato l’Amelio spettatore, così come è stato precedentemente il Moretti produttore, a selezionare le opere e indirizzare l’impianto globale della prossima edizione del Torino Film Festival, che si avvia verso la ventisettesima edizione.
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Un cambio della guardia al quale si è guardato per una certa continuità: un regista, Amelio per l’appunto, che su-
bentra ad un regista, Nanni Moretti, è cosa abbastanza inedita e singolare per qualsiasi festival al mondo.
Ma il rovescio della medaglia è evidente. Il passaggio è infatti quello da un personaggio come Moretti, capace di catalizzare su di sé tutte le attenzioni e tutti gli interessi del caso, che
in cui nasceva a poca distanza (fisica e temporale) un avversario temibile come il nuovo evento romano della fu Festa del Cinema, per catalizzare attenzioni e suscitare interesse. Il rifiuto del regista di Ecce Bombo di guidare il festival per il terzo anno consecutivo per tornare dietro la macchina da presa ha dato il “la”agli organizzatori per ritornare su quei binari di schiva lontananza che ne è stata cifra costante per tanti anni, pur avendo compreso il bisogno che ha un festival co-
una in concorso quest’anno) di cineasti di tutto il mondo, per rispettare la tradizione ormai quasi trentennale di un festival che ha guardato sempre ai giovani come peculiarità centrale del proprio programma.
E al fianco della valorizzazione dei giovani, come di consueto, le grandi retrospettive per far conoscere il passato. La prima dedicata a Nicholas Ray, leggendaria pietra miliare di Hollywood, regista di pellicole cult quali Johnny Guitar e, soprattutto, Gioventù Bruciata, del quale verranno proiettate tutte le pellicole da lui dirette e una corposa selezione dei film che lo hanno visto sceneggiatore e interprete, il tutto sotto l’attenta cura del vicedirettore del Festival, Emanuela Martini. La seconda apre a una cinematografia più laterale e distante, quella giapponese del periodo della nouvelle vague del Sol Levante, attraverso il regista del tormento e della protesta degli anni Settenta, Nagisa Oshima, autore del discusso e controverso L’impero dei sensi, a lungo martoriato dalla distribuzione italiana. Tantissime le presenze internazionali che hanno confermato la propria presenza. Il piatto forte è sicuramente rappresentato da Francis Ford Coppola, che presenta due suoi lavori, il più atteso dei quali è senz’altro
Molti i big nel cartellone. Tra gli altri, si alterneranno sul red carpet Mario Monicelli, Marco Bellocchio, Mario Martone, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Elio Germano, Paolo Briguglia ed Ennio Fantastichini
da solo costituiva una novità, ad uno come Amelio, la cui traiettoria garbata e in un certo qual verso distante dagli altari della cronaca di costume, non è stata intaccata dal nuovo ruolo ricoperto. La presidenza Moretti è stata in qualche modo necessaria al Torino Film Festival, negli anni
sì particolare di una legittimazione più ampia e, probabilmente, autorevole in chi lo guida. La ventisettesima edizione catalizzerà dunque l’attenzione degli addetti al settore, ma non solo, dal 13 al 21 novembre prossimi all’ombra della Mole, in una settimana di fuoco per i cinefili incalliti.
Il concorso è particolarissimo e stimolante: sono ammesse solo opere prime, ben nove su sedici, e seconde (con rarissime eccezioni di opere terze, solo
Tetro-Segreti di famiglia. Ma nella capitale sabauda sfileranno anche Emir Kusturica, insignito dal festival di un premio speciale, che presenterà le sei ore della versione integrale di Underground, Charlotte Rampling, Susan Ray e Sam Taylor Woods. Attesissima la proiezione di Fantastic Mr. Fox, gioiello in stop motion presentato dall’eclettico Wes Anderson. Ma è sul cinema italiano di qualità che Amelio sembra voler puntare, con due prime mondiali inserite in concorso (sono Bocca del lupo, di Pietro Marcello, e Santina, di Gioberto Pignatelli), e con un lunghissimo parterre di artisti di spicco del cinema nostrano. Si alterneranno sul red carpet Mario Monicelli, Marco Bellocchio, Davide Ferrario, Mario Martone, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Elio Germano, Paolo Briguglia, Ennio Fantastichini. E questo solo per citarne alcuni.
Ad aprire le danze sarà la prima mondiale di Nowhere boy, pièce sull’infanzia del compianto John Lennon circondata da una grande attesa. Dopo un solidissimo passato da valida, per quanto di minor impatto, alternativa a Venezia, e dopo gli anni dei ruggenti scontri morettiani con la nascitura Festa (ora Festival) di Roma,Torino si è riassestato, rilanciando la qualità e la novità (tutti i film sono in anteprima) quali principali cardini del proprio cartellone. La sfida raccolta da Amelio è ardua, i presupposti per vincerla, però, ci sono tutti.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Gulf News” del 04/11/2009
Petrolio e monnezza di Rayeesa Absal cittadini di Abu Dhabi godranno, d’ora in avanti, di un particolare incentivo. Faranno parte di un sistema globale di riciclaggio, gestito (in quel Paese) dal Centro per la gestione dei rifiuti (Cwm). Il progetto è partito lunedì e mira ad aumentare la consapevolezza nella gente sull’utilità della riduzione dei rifiuti e a rendere la raccolta differenziata un’abitudine quotidiana. Mentre coloro i quali aiuteranno questa iniziativa con i comportamenti adeguati avranno degli incentivi, sono già pronte le sanzioni per i «cattivi».
I
Ogni comportamento che ostacoli le operazioni di riciclaggio sarà multato. Al momento questa resta solo una proposta che va ancora approvata. Ma è già un inizio e indica una tendenza. Il sistema di raccolta differenziata verrà attuato in diverse fasi. La prima prevede la distribuzione di due bidoni per l’immondizia. Un contenitore verde per il materiale riciclabile e uno nero per il resto dei rifiuti prodotti da una famiglia. Gli scarti così selezionati verranno poi raccolti da società private che porteranno il materiale al deposito del Cwm. Saranno presto rese note le procedure che permetteranno agli abitanti residenziali di conoscere bene cosa fare per dividere plastica, carta, vetro e metallo, con il doppio sistema di raccolta che comprenderà ogni appartamento. «Stiamo promuovendo un’iniziativa a favore dell’ambiente per la raccolta differenziata. È la prima del suo genere nella regione. Per far diventare le nostre città dei posti ambientalmente più vivibili. Naturalmente il successo del progetto dipende dal livello di collaborazione della gente. Per questo stiamo lanciando una campagna di co-
municazione per rendere i cittadini maggiormente consapevoli dell’importanza dei temi ambientali» ha affermato Majid al Mansouri che dirige la Cwm. «Stiamo per avviare lo schema di raccolta in tre aree, Khalidyia, al Jisrein e la città degli uffici. Nell’arco di un anno il sistema dovrebbe essere completato per coprire l’intera città» ha continuato il responsabile del centro per lo smaltimento dei rifiuti urbani. L’obiettivo del programma è quello di ridurre la quantità di rifiuti buttati in discarica e di massimizzare il recupero di risorse. Questo il piano di al Mansouri, che ha invitato tutti i cittadini a collaborare affinché il progetto vada a buon fine. E nelle prossime settimane il sistema verrà esteso ad altri quartieri della città.
La capitale degli Emirati arabi uniti è una delle città al mondo che produce più immondizia. Per ogni abitante si calcolano mediamente 4,2 chilogrammi di rifiuti al giorno. Un dato che è emerso da un recente studio commissionato propri dal Cwm. A dimostrazione che ci sia la seria volontà di risolvere il problema. È presto fatto il confronto con gli altri Paesi membri del mondo più avanzato. Nei centri delle aree più sviluppate la media è intorno a 1,54 chilogrammi al giorno di immondizia prodotta dai singoli. Ogni giorno circa 1.500 tonnellate di rifiuti solidi urbani e dalle 12mila alle 15mi-
la tonnellate di residui dell’edilizia finiscono per riempire le discariche a cielo aperto, ponendo un serio pericolo ambientale: «la situazione delle discariche urge una soluzione pratica ed immediata» ha affermato al Mansouri a Gulf News. Intanto un esercito di volontari sta facendo un lavoro porta a porta per spiegare l’importanza di riciclare i rifiuti e come la raccolta differenziata ne sia un elemento fondamentale che dovrebbe diventare un abitudine per tutti i cittadini. L’organizzazione è impegnativa e utilizza grafici e schemi rappresentativi e brochure di tutti i tipi. Ne sono state distribuite a migliaia.
Tra il 2007 e il 2008 gli Emirati hanno prodotto 5,9 milioni di tonnellate di rifiuti che riempiono a dismisura ogni spazio delle discariche disponibili sul territorio. La maggior parte di questa massa di materiale è formata da elementi biodegradabili che generano metano. Un potente gas che ha contribuito non poco ai cambiamenti climatici di questi ultimi anni.
L’IMMAGINE
La Campania, un treno in corsa inseguito da indiani agguerriti La Campania si avvia verso le regionali come un treno in corsa assediato dagli indiani che lanciano frecce incendiare contro i vagoni. Il treno in corsa rappresenta tutte le iniziative che il nostro governo sta facendo per immettere la Campania in una nuova prospettiva con i rifiuti, con la sicurezza, con i nuovi progetti, con la scuola e quanto altro. Gli indiani sono i clan che guidano le mille iniziative che cercano di rallentare il progresso delle nostra regione. Nel contempo c’è una parte dei viaggiatori che al momento giusto farà fermare il treno e sono i vecchi amministratori, coloro che hanno fallito e non se ne sono andati, continuando a tramare nell’ombra. L’inchiesta sull’Agenzia dell’ambiente, seguita dall’arresto di volti noti e meno noti, è un esempio di azione aspettata e attuata da qualcuno, ma desta il sospetto che rappresenti una di quelle cose sempre necessarie ma che avvengono solo nel periodo che precede le elezioni.
Bruna Rosso
SOSTANZE EPATOSSICHE NEL LAGO DI VICO Sul fronte delle cause dell’inquinamento del Lago di Vico, il lavoro da fare è ancora molto lungo, sebbene siano stati già adottati alcuni provvedimenti per tutelare la salute dei cittadini. Queste sostanze sono in grado di rilasciare delle microcistine epatotossiche e genotossiche dannosissime sia all’uomo che all’ambiente. Alcuni comuni stanno già adeguando gli impianti di potabilizzazione di tecnologie che riducono l’impatto di queste sostanze, ma per altri, come Ronciglione e Caprarola, l’uso di diserbanti, pesticidi e fitofarmaci é stato praticamente liberalizzato. Relativamente a quest’ultima situazione non è stata ancora avviata nessuna politica strutturale capace di ridur-
re l’apporto nelle acque del Lago di nutrienti organici, azoto e fosforo in particolare, che sono i principali responsabili della crescita abnorme dell’alga.
Domenico S.
RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E LIBERO SCAMBIO Ogni essere umano è unico, irripetibile e diverso dagli altri, per capacità, attitudini, volontà e risorse. Al cittadino va garantita l’opportunità al benessere. La laboriosità, la parsimonia e la produttività generano la proprietà e, quindi, l’avanzamento economico, civile e morale. Anche per tutelare i suoi averi, il proprietario evita di recare danno altrui. La naturale propensione degli individui allo scambio determina vantaggi ai contraenti e alla col-
Non ti muovere Qualcuno si sente osservato? Meglio non muoversi allora! L’occhio composto del moscerino qui al microscopio, non vede i dettagli ma è capace di cogliere anche il più piccolo movimento. Merito di tante minuscole strutture fotosensibili chiamate ommatidi, che captano ciascuna un’immagine parziale dell’ambiente circostante
lettività. Il mercato favorisce l’allocazione ottimale delle risorse. Il commercio pacifica, civilizza, integra, promuove il benessere e si contrappone al nocivo militarismo. La guerra è evento massimamente collettivo. L’individuo ha il diritto d’appagare il bisogno di serenità e felicità. Il paternalismo statale è dispotismo: tratta i sudditi da minorenni, ai quali im-
porre la felicità, come è intesa dall’oligarchia dominante.
Franco Padova
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE Egregio Presidente, sono un ragazzo toscano. 20 anni fa i miei genitori si separarono e mi fu tolto mio padre. 7 anni fa, mia moglie mi tradì e poi chiese la separazione. Sono una persona per
bene non ero mai stato in un tribunale, ma da 7 anni ci passo il tempo per cercare di vedere mia figlia. I padri e i figli separati sono esseri umani dimenticati. Le segnalo che in Senato c’è un Disegno di legge (Ddl957) già firmato da senatori ed ex presidenti che potrebbe salvare molte giovani vite in futuro. Grazie.
Fabio B.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
«Lei non è certo olandese. Lei ha tanto calore» Già da molte sere mi propongo di mandarti un piccolo resoconto, ma qui si vive in un’agitazione quotidiana. Le mie coperte, lassù nella tua balconata di legno, dovranno pazientare più del previsto per potermi ricoprire di nuovo. La mattina del 24 è arrivato l’ordine di partenza:dovevo presentarmi il 25. Subito mi sono accinta a dare l’ultima mano al mio zaino, ma dopo mezza giornata ho saputo che la mia convocazione era stata un «errore». Un «errore», come se non lo fosse per tutti gli altri. Bene, adesso non voglio mettermi a filosofare su questo tema sgradevole, tanto ci parleremo presto. Oggi ho saputo che quindici colleghi del Consiglio Ebraico di Westerbork avranno una licenza, e che qui si richiedono altrettanti volontari per sostituirli. Certo che mi presenterò, e poi si vedrà se mi potranno utilizzare dato che rappresento una categoria un po’ strana e nichilista. Ad ogni modo credo che ci rivedremo presto, la liquidazione delle rimanenze ebraiche procede ora a ritmo serrato. Pensare che sono già trascorsi dieci mesi da quando ho incontrato un omino dal berretto grigio e dai grossi occhiali; questo omino mi aveva raccontato alcune storie avventurose e poi mi aveva detto: «Lei non è certo olandese. Lei ha tanto calore». Hetty Hillesum a Osias Kormann
OBIEZIONE DI COSCIENZA E FARMACISTI Il ritornello del diritto all’obiezione di coscienza da parte dei farmacisti per la vendita di un contraccettivo, quale la pillola del giorno dopo, sta diventando una grottesca rappresentazione di una crociata senza senso. Per tutelare il diritto alla vita e per evitare l’aborto, monsignor Mariano Crociata farebbe meglio a promuovere l’astinenza dal sesso o i diversi metodi contraccettivi: naturali, meccanici, chimici o chirurgici. Ma evidentemente si preferisce la strada più subdola del creare confusione, avvicinando la pillola contraccettiva a quella abortiva, e facendo credere che in farmacia si vendano pillole abortive. L’unico modo perché un farmacista possa decidere cosa vendere, è trasformare le farmacie in esercizi commerciali privati che rispettino vincoli di sicurezza per i farmaci; e dove i cittadini vadano sapendo che ad una farmacia cattolica non gli venderanno un preservativo così come ad un ristorante vegetariano non gli cucineranno un pollo arrosto. Se monsignor Crociata sta parlando di questo, cioè di una completa liberalizzazione del mercato delle farmacie, senza pianta organica, diritti ereditari, monopolio nella vendita, lo dica... ma temiamo che voglia invece mantenere i privilegi delle farmacie e del servizio pubblico, aggiungendoci anche qualcosa: un servizio pubblico, dove a decidere cos’è di interesse pubblico non sia lo Stato e la propria farmacopea, ma la Conferenza episcopale italiana. La
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
5 novembre
botte piena e la moglie ubriaca - recita un vecchio detto - è difficile averla, anche per chi crede ai miracoli.
Donatella P.
1989 Muore il grande pianista Vladimir Horowitz 1990 Il rabbino Meir Kahane, fondatore del movimento di estrema destra Kach, viene freddato dopo un discorso tenuto a New York 1992 A Detroit (Michigan), un automobilista nero, Malice Green, viene picchiato a morte dai poliziotti durante una colluttazione 1994 Il 45enne George Foreman diventa il più vecchio campione mondiale di pugilato nei pesi massimi, mandando k.o. Michael Moorer 1996 Il presidente uscente democratico Bill Clinton batte lo sfidante repubblicano Bob Dole 1998 Scandalo Lewinsky: come parte della richiesta di impeachment, il presidente del comitato giudiziario della Camera dei deputati Henry Hyde, invia una lista con 81 domande al presidente Bill Clinton 2001 Muore in carcere, dopo mesi di sciopero della fame, l’animalista Barry Horne, alacre attivista inglese dell’Animal Liberation Front
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
LE BATTAGLIE PERSE SONO QUELLE CHE NON SI FANNO I vigili del fuoco hanno ribadito il loro no agli accordi sottoscritti a gennaio dai sindacati confederali e ripresi poi nei contratti di lavoro nei vari settori; Ccnl che prevedono, validità triennale della loro vigenza, nuovi coefficienti per stabilire l’inflazione programmata depurata dai prezzi del petrolio, aumenti secondo amicizie e raccomandazioni. Ma soprattutto i vigili del fuoco hanno confermato la necessità di una struttura di protezione civile, nella quale siano a capo per gestire le emergenze, come è stato ampiamente dimostrato nelle ultime calamità, senza voler “copiare ” modelli di altri messi peggio di noi. Sono state richieste risorse contrattuali al posto di quelle offerte dal governo, che si aggirano intorno ai 50? medi e lordi per il biennio 2008/09, e nuove risorse per il contratto integrativo prossimo che dovrebbe partire dal 2010. Abbiamo necessità di sapere da questo governo, dopo le promesse verbali, quali siano i finanziamenti per la struttura generale del corpo nazionale, inoltre quali per le indennità che saranno devolute al personale. Altre rivendicazioni sono quelle di avere un sistema previdenziale che recepisca l’usura del personale operativo e i conseguenti riconoscimenti in termini previdenziali.
Vigili del Fuoco
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
DOCUMENTO STRATEGICO REGIONALE 2007-2013 Il Documento strategico regionale (Dsr) approvato dal consiglio regionale costituisce il primo passo verso la definizione della nuova programmazione per il periodo 2007-13, e si pone come riferimento di base per la stesura dei documenti di programmazione cofinanziati con Fondi comunitari, al fine di favorire lo sviluppo economico e sociale della Basilicata in un’ottica unitaria. Inoltre, il Dsr è stato inserito nel percorso che ha portato alla redazione prima del Documento strategico del Mezzogiorno e quindi alla stesura del Qsn. In tal senso, contribuisce e recepisce i contenuti del dibattito sviluppatosi a livello nazionale sulla nuova programmazione. In tale contesto, le linee strategiche del Dsr sono scaturite dall’analisi dello stato e delle tendenze prospettiche della realtà regionale in rapporto alle indicazioni contenute nel programma di governo della regione, nonché dalla disamina delle politiche regionali e dei risultati conseguiti, e dal confronto e dal dialogo con le altre regioni e i ministeri da un lato e con i diversi portatori d’interessi locali che hanno preso parte alle consultazioni. Il Dsr orienta la strategia di sviluppo regionale verso un forte impulso allo sviluppo e al cambiamento: «collegare la Basilicata ad un’area caratterizzata da uno sviluppo più intensivo proponendo questo territorio come prolungamento della direttrice di sviluppo adriatica facendo compiere al sistema socioeconomico regionale un salto, non solo quantitativo ma anche qualitativo». La strategia per raggiungere questo risultato si articola intorno a 5 obiettivi strategici, i quali vedono le politiche per il lavoro, l’istruzione e l’inclusione sociale come componente fondamentale, trasversale e integrata ai diversi interventi: 1. Territorio aperto e collegato alle reti nazionali ed internazionali; 2. Verso una società della conoscenza: investire nei talenti e nei giovani, investire nell’educazione e nei saperi; 3. Risorse ambientali e sviluppo sostenibile; 4. Innovazione e qualità per una nuova strategia produttiva; 5. Potenziamento del Welfare. La lettura di questi cinque obiettivi strategici ci inducono a pensare che non vi può essere crescita della competitività del territorio se non vi sono efficienti collegamenti logistici con i mercati più sviluppati del nord Italia e del centro-Nord Europa, senza trascurare le potenzialità future di sviluppo dei mercati del bacino mediterraneo. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
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PAGINAVENTIQUATTRO Anniversari. Il 20 dicembre 1909 la città inaugurò l’ascensore di Castelletto. Oggi celebrato in una mostra
Cent’anni di altitudine nel cuore di Marco Ferrari
GENOVA. «Quando mi sarò deciso/ d’andarci, in paradiso/ ci andrò con l’ascensore/ di Castelletto, nelle ore/notturne, rubando un poco/ di tempo al mio riposo» scriveva Giorgio Caproni nella poesia intitolata, appunto, L’ascensore. Le sue rime sono ben visibili nel lungo tunnel che da Piazza Portello, proprio alle spalle di Palazzo Tursi, sede del Comune, si eleva con un dislivello di 57 metri al Belvedere Montaldo. Da lassù si può ammirare la conca di Genova, l’ampiezza del porto, la Lanterna, i tetti d’ardesia, l’intrico dei vicoli, i palazzi ottocenteschi, la modernità della metropoli che mantiene intatta la sua superbia marina. L’ascensore di Castelletto compie cento anni, una bella età per l’impianto speciale dell’azienda pubblica Amt Genova, e li festeggia con una mostra nell’atrio dell’ingresso di Piazza Portello dove vengono svelati i segreti del funzionamento della poderosa macchina di salita: la sala motrice, la manutenzione, le curiosità, il pubblico che muta nel tempo, i grandi visitatori, da Luzzati a Anthony Quinn.
Situato alle spalle di Via Garibaldi, la strada dei bei palazzi storici patrimonio dell’Unesco, e incastonato tra due gallerie stradali, l’ingresso è anch’esso monumentale, stile liberty, di mattonelle lunghe, nero di volta, sovrastato da una torretta esterna che assomiglia ad un faro. Un tempo l’ascensore era per un tratto esterno e conduceva il viaggiatore, grazie alle ampie vetrate, dal buio del primo tratto in salita alla luce del giorno e poi alla torretta liberty da dove si accede ancora adesso, con un doppio impianto, alla spianata del Castelletto, culmine della città verticale e degli amori in salita cantati da Giorgio Caproni e Eugenio Montale, disegnate dalla parabole musicali di Gino Paoli e Ivano Fossati più che da Fabrizio de André, cuore a anima del più antico centro storico del Mediterraneo. Dopo cento anni, modello di ascensore a parte, è tutto uguale. Anche il pubblico di Castelletto è da poesia, come gli amanti che si baciano guardando i tetti di Genova, donne sole che leggono libri sulla panchine, anziani che prendono il sole o accompagnano il cane seguendo le sagome delle navi che lasciano le banchine. È un pezzo della storia di Genova quella che si svela nella mostra “1909/2009: cent’anni nel cuore della città”, riletta attraverso il progetto, la costruzione e la vita dell’ascensore di Castelletto. Il 20 dicembre 1909 la città inaugurò un’opera grandiosa: il primo ascensore pubblico di Genova, ideato per servire i quartieri collinari e collegato direttamente alla rete tranviaria di pianura, che allora tracciava i confini dei percorsi pubblici dal centro alle periferie. In quell’inizio secolo Genova Belle Epoque è una città moderna, ingegneristica, urbanisticamente all’avanguardia. Dopo l’Expo colombiana del 1892, l’espansionismo affronta le difficoltà orografiche del territorio, aggredisce le colline, inventa un articolato sistema di trasporto per collegare i quartieri a monte con il centro. Il fulcro diventa proprio l’innovativo impianto di risalita tra Castelletto e la zona del centro con una prima proposta degli ingegneri Sertorio e Saligeri del 1900 ed una successiva del 1903. Quest’ultimo progetto culminerà nella creazione della società Lifts (divenuta poi la Società Ligure Ascensori), fondata dagli ingegneri Sertorio e Stigler, e nella realizzazione dell’impianto che porterà all’inaugurazione dell’ascensore Portello-Ca-
di GENOVA
sulle cime collinari e si spingeva sino alla Val Trebbia smarrendo il senso del mare e gli aromi del salmastro in cui era nato e cresciuto e smarrendo la maternità di Genova a cui era visceralmente legato («Mia Genova difesa e proprietaria, / ardesia mia. Arenaria») e da cui alla fine si staccò per andare a morire a Roma.
I versi più famosi a lui dedicati sono quelli di Giorgio Caproni, livornese di nascita e genovese d’adozione dall’età di 10 anni. La poesia recita così: «Quando mi sarò deciso/ d’andarci, in paradiso/ ci andrò con l’ascensore/ di Castelletto» stelletto con una torre d‘arrivo allora adibita a caffè, l’uso di funi di acciaio e motore elettrico e una galleria d’ingresso rivestita e impermeabilizzata con piastrelle di ceramica, materiale che univa ai requisiti tecnici dell’igienicità e della durevolezza, un notevole pregio estetico. Il lavoro venne affidato alla famosa manifattura di ceramiche Richard Ginori che, seguendo il gusto dell’epoca, utilizzò elementi propri dell’Art Nouveau. Ad innamorarsi di questo luogo così singolare fu Giorgio Caproni (1912-1990), livornese di nascita, genovese d’adozione dall’età di 10 anni, maestro di professione, scopritore di una città verticale, non votata al mare ma al suo interno, alla sua interiorità collinare, agli squarci che si aprivano oltre quelle stazioni, quelle gallerie, quei tubi che conducevano al cielo. Non a caso a Caproni è stato dedicato uno slargo in un’altra stazione, quella della funicolare del Righi: «Ma già un Righi/rosso da un’altra Genova la cima/ tira inflessibile il cavo». Amava i luoghi in progressione, montava
Iniziata l’attività poetica con Come un’allegoria del 1936, successiva alla lettura di Ossi di seppia di Montale, raggiunse il culmine proprio con Le stanze della funicolare nel 1952 con cui vinse il Premio Viareggio e Nel passaggio di Enea del 1956 in cui mitizza la città ligure della sua infanzia perduta e dei suoi amori in salita. Quelle verticalità così accentuata di Genova, con spostamenti di uomini e idee da far concorrenza a Lisbona, resta un punto prioritario anche del futuro visto che si sta progettando una nuova funicolare agli Erzelli, un’area di espansione urbanistica destinata al polo tecnologico e universitario. Un tassello in più per i dieci ascensori pubblici di Genova che, assieme alla funicolare del Righi e Sant’Anna e alla ferrovia Principe-Granarolo rappresentano la vista sull’immensità marittima della capitale portuale italiana.