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Il più certo modo di celare

agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli Giacomo Leopardi

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 6 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La battaglia sul Veneto era solo un diversivo: l’obiettivo della Lega è più ambizioso. I retroscena di trattative finora segrete

Lombardia, gratta e vinci Bossi vuole il Pirellone. E nel Pdl si è aperta una “lotteria”senza quartiere che coinvolge Fini, Formigoni, Cl e gli assetti di potere del governo. In premio, la più grande regione d’Italia di Valentina Sisti

MILANO. Il vero obiettivo

SAVINO PEZZOTTA

GIUSEPPE CIVATI

«Ma per Bossi «Comunque non sarà decideranno un affare» a Roma» di Franco Insardà

di Francesco De Felice

«Non so se la Lega fa un affare: chi guiderà il Pirellone nel prossimo biennio avrà una sola occupazione, quella di fronteggiare la crisi». Dall’osservatorio privilegiato della sua Bergamo, Savino Pezzotta sa che è soprattutto il Nord a patire la crisi di questi mesi. E che la ripresa arriverà troppo tardi rispetto ai tanti capannoni che vengono serrati giorno dopo giorno.

«La scelta di mettere un uomo della Lega al Pirellone, anziché tener conto del giudizio dei lombardi e dei gruppi dirigenti che hanno amministrato la Regione per quindici anni, è stata presa solo da due “capi”». È dura l’opinione del “ribelle”Giuseppe Civati, consigliere regionale lombardo, considerato uno degli esponenti di punta tra i “trentenni” del Partito democratico.

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La candidatura di D’Alema a ministro degli Esteri della Ue sembra sfumare per l’opposizione dei Paesi ex comunisti: «Pesa il suo passato». Favorito Miliband

non era il Veneto, come ci hanno fatto credere per mesi: la Lega puntava alla poltrona più alta della Lombardia, la Regione più grande, ricca e significativa del Nord. La trattativa è stata lunga e condotta ai massimi livelli lontano dai riflettori, ma doveva portare a uno scambio “pesante”tra Formigoni e Maroni, ossia fra le poltrone di Governatore della Lombardia e ministro dell’Interno. Certo, la Lega vuole il Pirellone ma non è disposta a dare il Viminale, mentre Formigoni ha posto il ministro più importante della Repubblica come condizione preliminare per dare la sua disponibilità alla trattativa. E mentre tutte le altre caselle stanno andando a posto con la Lega in vetta alla Lombardia, è proprio sul futuro di Formigoni che resta qualche dubbio.

Il parere del farmacologo, fondatore dell’Istituto Mario Negri

«Vi racconto la verità sull’influenza assassina» Silvio Garattini: «Uccide meno delle vecchie febbri, ma si diffonde con molta più facilità e aggressività» di Francesco Lo Dico Il Ministero coninua a ripetere che il virus H1N1 non è così mortale come sembra, ma le persone contagiate continuano a morire negli ospedali, sia pure accusando anche altre pato-

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logie. Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri, spiega il grande giallo delle nuova influenza: debole ma molto contagiosa. a pagina 10

Accordo nella maggioranza: la tassa solo sui guadagni delle aziende

Sì al «mini-taglio» dell’Irap

Paradosso Massimo: Ma Napolitano avverte: «Ci vogliono riforme di sistema» l’Est lo stoppa, di Francesco Pacifico Sono ricominciate le speculazioni finanziarie Berlusconi lo sostiene La prossima bolla di Sergio Cantone si chiamerà carry market La storia rischia di scaricare il suo bottino di responsabilità passate sulle spalle di Massimo D’Alema. I Paesi dell’est europeo, forti del loro incubo comunista, non vogliono D’Alema ministro degli Esteri dell’Unione: perché è stato comunista. E a difenderlo è dovuto scendere in campo direttamente Berlusconi.

E alla fine la montagna partorì il topolino salvando i conti, come voleva Tremonti, e la propaganda, come volevano tutti gli altri. La maggioranza s’è accordata di fare un mini-taglio all’Irap, in pratica escludendo le perdite delle aziende dall’imponibile. E intanto il presidente Napolitano avverte: «I conti vanno meglio, ma attenti a un eccesso di ottimismo».

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se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

220 •

di Gianfranco Polillo Gli economisti la chiamano «carry market»: è la possibilità di indebitarsi in un Paese e di investire in un’altra parte del Pianeta. Le grandi compagnie internazionali prendono a prestito i dollari dalle banche americane, sostenendo un costo irrisorio ed acquistano tutto ciò che è possibile fuori dal territorio nazionale: è questa la nuova bolla. a pagina 9 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Poltronissime. Fini, Formigoni, Cl, Maroni; e poi naturalmente il premier e il Senatùr: cronaca di un grande assalto

La lotteria Lombardia

Non era il Veneto l’obiettivo della Lega: Bossi voleva il Pirellone. Ecco come sono andate le trattative per la più grande regione d’Italia di Valentina Sisti

ROMA. «Macché Lombardia o Veneto, Berlusconi pensa a tenere in piedi la coalizione di governo…», si lascia scappare una fonte di primaria importanza del Pdl, che spiega così la decisione di rinviare il vertice con Gianfranco Fini e Umberto Bossi alla prossima settimana. E il riferimento è anche all’incontro di oggi fra Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini. L’esigenza di sentire prima l’Udc diventa per i Cavaliere il giusto pretesto per posticipare un vertice nel quale rischiavano di volare gli stracci su economia e giustizia, neanche una settimana dopo la tregua apparentemente sancita con Fini e Tremonti. Ma un fondo di verità c’è: la partita sulle Regionali non si potrà chiudere – nel Pdl quanto nel Pd – senza l’Udc. Berlusconi teme l’eventualità di un patto tra il Centro e i democratici. Eppure dei passi per chiarire la griglia degli aspiranti governatori ieri sono stati compiuti. L’occasione è arrivata con l’ufficio di presidenza del Pdl riunito da Berlusconi a Palazzo Grazioli, a cui Roberto Formigoni ha preso parte, come lo statuto gli consente. Di fronte alle incertezze che condizionano la maggioranza di governo, Casini studia con attenzione i suoi passi. Con Bersani, mercoledì, ha parlato di crisi economica e aiuti alle famiglie, mentre il tema delle alleanze è stato solo sfiorato. Di intese possibili ce ne potrebbero essere in Piemonte (sul nome di Sergio Chiamparino, eventualmente, se salta la Bresso) e in Puglia, se il Pd rinuncia a ripresentare Vendola. Contatti in corso anche su Marche e Liguria. «Noi – dice Casini – incontriamo tutti perché la gente è stanca dei litigi. Ma come si sa – aggiunge subito – abbiamo rinunciato al potere». Scelta che vale ancor di più in queste Regionali, che si tengono nel pieno di un processo costituente, che l’Udc non vuole compromettere con sbandate da un lato o dall’altro. «Pensia-

mo di andare da soli salvo in alcuni casi dove saranno possibili alleanze su candidati al di sopra di ogni sospetto, su un programma chiaro».

Come spiega una fonte vicina al Cavaliere, non ci si aspetta chissà quale apertura dal leader dell’Udc: oggi, il premier, certo, vorrà vendere cara la pelle in caso di eventuale riconferma dei centristi nelle alleanze del Nord. Ma in realtà Berlusconi ha poco da minacciare, visto lo stato dell’alleanza e visti i sondaggi che (senza l’Udc)

vedono traballante per oltre la metà il quadro delle possibili vittorie, con le regioni rosse perse del tutto. Per questo Berlusconi sarebbe disposto addirittura – nel quadro di un possibile voto politico anticipato – a cedere all’Udc la possibilità di mantenere il simbolo – concessione fatta nella scorsa tornata solo alla Lega. Un modo anche per frenare le pretese dei lumbàrd: va letto così il segnale mandato a Umberto Bossi, («basta diktat»), e ai leghisti che continuano a reclamare Piemonte, Veneto e Lombardia. Eppure è quest’ultima a trasformarsi di giorno in giorno da miraggio a mira vera e propria del Senatùr. Gli uomini vicini a Formigoni dicono che «da sola vale quattro ministe-

presidente del Consiglio. Oppure, ha indicato la contropartita: il ministero dell’Interno. Come a dire: la Lega vuole la Lombardia, Maroni si accomodi. Ma la novità, ora, è che l’attuale titolare dell’Interno ci starebbe. Come Luca Zaia abbandonerebbe di corsa le Politiche agricole per andare a guidare il Veneto, così Maroni sarebbe pronto a lasciare la sua poltrona. Si dirà: ma l’Agricoltura non è il Viminale. Giusto: ma – si potrebbe obiettare – la Lombardia non è il Veneto. Inoltre i problemi che sfiorano Formigoni, l’identificazione che – a torto a ragione – viene fatta, anche nelle inchieste giornalistiche, fra il suo ruolo politico e la Compagnia delle Opere, è oggetto di

Lo scambio che si prospetta è tra la Regione e il Viminale: Maroni è pronto a trasferirsi a Milano lasciando l’Interno. Galan torna in sella, e a Cl spetterebbe l’investitura di Lupi a sindaco di Milano ri», ma se la sua poltrona sembrava sicura fino a pochi giorni fa, l’inchiesta sugli appalti a Santa Giulia – che tirano in ballo il ”re delle bonifiche”Giuseppe Grossi e Rosanna Gariboldi, assessore a Pavia e moglie del parlamentare del Pdl Giancarlo Abelli, ex assessore vicinissimo al governatore – potrebbe contribuire a farla vacillare.

M e r c ol e d ì i l go v e r n at or e lombardo è volato a L’Aquila ufficialmente per inaugurare la Casa dello studente donata dalla Regione, ma con l’occasione per cercare rassicurazioni dal

riflessione anche all’interno di Cl, che non gradisce certo – tanto più ora che ha un leader spagnolo – di essere tirata in ballo per beghe di carattere politico. La partita è grossa, Formigoni certo resta favorito, ma la poltrona è tutt’altro che salda. Ieri a Palazzo Grazioli è Galan che è tornato a sperare di essere lui (se la Lega avrà la Lombardia) il candidato in Veneto:

Sopra, Roberto Formigoni, Roberto Castelli, Letizia Moratti, Umberto Bossi, Roberto Maroni. Nella pagina a fianco, Savino Pezzotta e Giuseppe Civati

«Aspetto di sapere, poi mi prendo dieci giorni per riflettere con i miei, e altri due per farlo da solo in località sconosciuta», dice il governatore ringraziando Gianni Letta per gli attestati di stima a L’Aquila che di fatto hanno riaperto la partita della sua candidatura. «Noi restiamo aperti in tutte le Regioni del Nord. In linea di massima correremo da soli ma valuteremo caso per caso l’opportunità di allearci su programmi e valori comuni», dice dalla sua il coordinatore veneto dell’Udc Antonio De Poli. Quindi: mai in una giun-


prima pagina ta a guida Lega. Ma la partita delle Regionali si ingarbuglia sempre più: ci si mette anche la possibile candidatura D’Alema nella Ue: se salta Antonio Tajani a Bruxelles, la Polverini dovrà cedergli il passo nel Lazio, e Fini potrebbe allora rivendicare di nuovo il cambio di rotta in Campania, sacrificando il discusso Nicola Cosentino per Pasquale Viespoli.

In questo vorticoso carosello di nomi vanno tenute presenti due cose: la possibilità di ricompensare Cl in Lombardia con la candidatura di Maurizio Lupi a sindaco di Milano nel 2011, e la reazione dei leghisti veneti. La cui delusione sarebbe più che comprensibile, se l’accordo si chiudesse sulla Lombardia al Carroccio e sulla conferma di Giancarlo Galan. Spiega però un esponente lombardo del partito di Bossi: «A quel punto il Senatùr farebbe digerire tutto e convincerebbe i nostri in Veneto a sostenere Galan. Con l’investitura lombarda noi incassiamo un voucher che dura dieci anni, a prescindere da quello che succede a livello nazionale». Milano sì che sarebbe una roccaforte, adatta a resistere in qualsiasi tempesta. Il Veneto no. In uno scenario rivoluzionato, «con Berlusconi che magari decide di uscire di scena e le alleanze che si ricompongono, il Veneto sarebbe per noi un piccolo, residuale patrimonio di periferia». Lettura forse condizionata dal lombardocentrismo che un po’ caratterizza i leghisti della “terra madre”, ma che ha un senso politico riconoscibile. «Parliamoci chiaro», prosegue la fonte anonima, «sta per chiudersi un ciclo: ma dopo? Dopo, il diluvio, si dice. E noi? Nella probabile scomposizione che verrà, con il controllo della Lombardia noi saremmo sempre determinanti, a maggior ragione con il federalismo applicato». Altro aspetto interessante della prospettiva lumbàrd, in bilico dunque tra «versione italiana della Csu» e «partito arroccato al Nord in un contesto di alleanze cambiate». Certo è che, ai lighisti della regione sorrellastra, Umberto dovrà somministrare dosi massicce di logoterapia. Tra i dirigenti lombardi del Carroccio già circolano ragionamenti del tipo: possono benissimo accontentarsi di Zaia, che è un bravissimo ministro dell’Agricoltura, di Tosi, entrambi destinati a diventare figure chiave nella Lega del futuro, non solo in Veneto. Non è affare di facile soluzione, come non sembra esserlo il lavoro persuasivo nei confronti di Formigoni. Non gli piace l’idea del nascente ministero della Salute: «Non mi sembra il caso», diceva ieri. Tocca a Berlusconi decidere tra il patto con la Lega e l’idiosincrasia alle ambizioni del suo ex pupillo.

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Savino Pezzotta: non mi stupirebbe, ormai comanda la Lega e non il Pdl. Ma...

«Per Bossi non sarà un affare» di Franco Insardà

ROMA. «Non so se la Lega fa un affare: chi guiderà il Pirellone nel prossimo biennio avrà una sola occupazione, quella di fronteggiare la crisi». Da un osservatorio privilegiato come le tante piccole imprese della sua Bergamo, Savino Pezzotta sa che è soprattutto il Nord a patire la congiuntura più stringente dell’età moderna. Che la ripresa arriverà troppo tardi rispetto ai tanti capannoni che vengono serrati ogni giorno. Onorevole, la Lega all’assalto della Lombardia? Se così fosse l’idea certamente non mi piace. Dal punto di vista di Bossi è logico puntare sulla Lombardia, perché parliamo di un partito che ha un radicamento forte in quella regione, governa tante province e comuni. La Lombardia alla Lega è un segnale politico forte e di portata nazionale? In parte. Se ottiene il Veneto e il Piemonte, invece della Lombardia, la valenza politica è simile. Ma è la regione più ricca. Ha un Pil più alto, ma con una crisi più profonda. Siamo in una fase nella quale cambia proprio il paradigma tecnologico di fondo che porterà le imprese a spostarsi su altri schemi produttivi che richiederanno meno

manodopera. Per questi motivi sarà molto complicato governare la Lombardia, dove ci sarà l’epicentro della congiuntura economica. Cedere la Lombardia alla Lega è il segnale di un Pdl in difficoltà? Sicuramente c’è confusione nel centrodestra e il Pdl è in difficoltà. È evidente, e la Lombardia lo conferma, che il partito di Berlusconi non riesce a definire la sua linea politica Quale sarà la posizione dell’Udc? È da decidere, ma l’idea di andare da soli oggi mi sembra la più conveniente e la più praticabile. Continuo a mantenere le mie riserve su alleanze che comprendano la Lega. L’Udc è alternativo e l’andare da soli aumenta la nostra capacità attrattiva e lo dimostra anche il fatto che altri movimenti ci guardano con interesse. Anche noi dobbiamo dare qualche segnale di distinzione e di discontinuità. Con la candidatura Formigoni le cose sarebbero state diverse? Bisogna prima capire che cosa succederà, ma personalmente continuo a sostenere che con la Lega non vanno fatti accordi.

Se si dovesse concretizzare l’ipotesi della Lombardia alla Lega ci potrebbe essere il via libera per Galan in Veneto. Che cosa farà l’Udc? Dipende sempre dal contesto e dal programma. Come se la immagina una Lombardia governata dalla Lega? Molto dipenderà da chi metteranno in campo. Dopo aver ottenuto questo risultato il Carroccio rilancerà ancora? Non ha bisogno di rilanciare. È già assolutamente determinante nelle scelte del centrodestra. Non c’è il rischio che la Lega voglia piano piano sostituirsi al Pdl nella leadership del centrodestra? L’obiettivo è quello di governare sul territorio nel quale è radicata. Come ne esce l’immagine di Berlusconi che abdica a un altro partito la guida per la sua Regione? Tutto sommato politicamente in Lombardia il Pdl non ha più la supremazia.

È la regione più ricca d’Italia, e proprio per questo risentirà maggiormente della congiunturà economica

Giuseppe Civati: «Epilogo prevedibile, comunque resta una questione fra “capi”»

«Comunque deciderà Roma» di Francesco De Felice

ROMA. Giuseppe Civati è un ribelle. Consigliere regionale lombardo è considerato uno degli esponenti di punta tra i “trentenni” del Partito democratico ed è stato il coordinatore nazionale della campagna elettorale di Ignazio Marino per la segreteria nazionale. La notizia di un possibile candidato leghista alla guida della Regione non lo coglie di sorpresa. Che pensa di questa eventualità? È una decisione che, anziché tener conto del giudizio dei lombardi e dei gruppi dirigenti che hanno amministrato la Regione per quindici anni, viene presa da due “capi”. Non sembra stupito. Formigoni è stato abbondantemente umiliato dalla politica nazionale e dal suo schieramento e anche questa volta sta succedendo la stessa cosa. Per noi del Pd cambia poco. In che senso? La Lega e Formigoni sono corresponsabili, nel male per noi e del bene per loro, di questo governo da dieci anni. L’unica cosa da stabilire è se

scelgono di santificare Formigoni con il quarto mandato o umiliarlo. Ma non c’è nulla che la stupisce in questa vicenda? Da cittadino rimango perplesso che si scelga un candidato per la guida della Lombardia non sulla base di un programma o di quello che ha fatto durante il suo governo, ma basandosi su un rapporto politico romano. Le decisioni si prendono ad Arcore. Ma sono gli equilibri nazionali quelli che contano. E nel patto leonino tra Berlusconi e Bossi c’è l’idea che del Nord debba occuparsene esclusivamente il Senatùr. E da questi giochi sono esclusi del tutto Fini e gli ex di An. Insomma il progetto è quello di appaltare il lombardoveneto al Carroccio. Con quali conseguenze? Prima di tutto è un errore che mina la stabilità del governo nazionale, perché una volta che la Lega dovesse riuscire a coronare il sogno di avere una Regione del Nord non so quanto possa considerarsi un’alleata stabile. Che cosa succederà sul piano amministrativo? Sono preoccupato che le principali e più

Nel patto leonino tra il Cavaliere e il Senatùr c’è l’idea che del Nord debba occuparsene soltanto il Carroccio

ricche regioni italiane siano trattate in questo modo: non ci si affida agli uomini migliori, ma le candidature sono la risultante di incastri e giochi di potere. Dopo il lombardo-veneto che cosa chiederà la Lega? Da politico navigato Bossi continuerà ad alzare la posta. Berlusconi, ritenendo il Carroccio la forza più dinamica, della coalizione, si affiderà sempre più a loro per ottenere buoni risultati elettorali. Sull’esito delle Regionali non c’è dubbio? Purtroppo è così. Il futuro governatore dovrà fare i conti con quindici anni di gestione non certo positiva. Cosa cambierà con un Pirellone targato Lega? Il loro protagonismo è molto evidente a livello nazionale. Lo stesso atteggiamento sarà esportato in Lombardia. Indipendentemente dal rischio che si facciano prendere la mano, le loro posizioni ideologiche sono pericolose. Come vi comporterete con un candidato leghista? Sarebbe stato meglio indicare prima il candidato, sfruttando anche la campagna congressuale. Spero che Bersani voglia giocarsi la sua pedina migliore: Filippo Penati.


mondo

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Poltrone. Sempre più probabile la nomina di David Miliband per gli Esteri, nonostante il Labour lo voglia incoronare nuovo leader del partito (in crisi)

Il Massimo Paradosso Per i Paesi ex comunisti il suo passato «è un problema» Berlusconi invece lo spinge con le Cancellerie europee di Sergio Cantone

BRUXELLES. Il governo italiano non indietreggia e trasforma in candidatura la proposta di Massimo D’Alema come Alto rappresentante dell’Ue. Dopo le frasi sibilline di un ambasciatore polacco un po’ confuso tra “off e on record”, Silvio Berlusconi ha preso il telefono e ha chiamato Sarkozy e Merkel per sostenere formalmente D’Alema. E ora l’imbarazzo è grande alla rappresentanza permanente polacca presso l’Unione europea. I diplomatici cercano di sminuire il peso della dichiarazione fatta ieri mattina dall’ambasciatore Jan Tombinski rispondendo a una domanda su Massimo D’Alema come pretendente al posto di alto rappresentante per la politica estera Ue. Il fatto che sia stato comunista «potrebbe essere un problema e sarebbe meglio candidare una persona la cui autorità non possa essere messa in questione per il suo passato». Secondo l’ambasciatore inoltre questo giudizio sarebbe condiviso da tutte le ex democrazie popolari, oggi membri dell’Ue. Impossibile smentire quanto detto (data la presenza di sette giornalisti) l’ambasciata polacca ha poi sottolineato che la «Polonia non ha intenzione di bloccare nessun candidato, ma si è trattato di una semplice valutazione off the record del peso dei

singoli pretendenti a divenire ministro degli esteri dell’Unione europea». Il ruzzolone polacco di ieri, con tanto di pasticci annessi, apre seri interrogativi sul gioco che stanno facendo gli ex Paesi socialisti nell’Ue. Con la sua dichiarazione carpita, Tombinski ha di fatto dato un vantaggio di qualche metro al contendente di D’Alema, l’attuale minisitro degli esteri britannico David Miliband. I Paesi dell’Europa centrale e orientale, si sa, stravedono per tutto ciò che è britannico. Le quotazioni di Miliband sembrano infatti salire ogni giorno che passa. E se il premier Gordon Bown dovesse proporre con fermezza il proprio responsabile degli esteri in occasione del prossimo consiglio europeo straordinario dedicato alle nomine, quanti leader europei sarebbero pronti a dire di no? Anche con tutta la buona volontà del governo italiano se il Regno Unito decidesse di puntare seriamente a un ruolo di capo della diplomazia, la partita si farebbe complessa. E a quel punto tutto verrebbe messo sulla bilancia, compreso il passato dei singoli candidati. È quindi vero quello che dicono i polacchi, secondo i quali Varsavia «non si oppone pregiudizialmente a nessuno dei nomi pronunciati finora», ma è vero che alla

Londra mira anche ad avere un buon portafogli all’interno dell’euro-commissione, come ad esempio quello dei servizi finanziari

ROMA. Una doccia fredda. Arrivata, tra l’altro, da una potenza amica come la Polonia che già lo scorso giugno, subito dopo le elezioni europee, aveva fatto - e con successo - uno sgambetto al nostro paese. Chi non ricorda, infatti, il duro braccio di ferro all’interno del Ppe tra chi proponeva per la presidenza dell’europarlamento il nostro Mario Mauro e chi, invece, contrapponeva il polacco, poi uscito vincitore ed eletto presidente dell’emiciclo di Strasburgo, Jerzy Buzek? Una nuova bordata, si diceva, è arrivata ieri da Bruxelles ad opera dell’ambasciatore polacco Jan Tombinski, rappresentante di Varsavia presso la Ue. Nel corso di un incontro con alcuni giornalisti, il diplomatico ha espressamente detto che «sarebbe un problema» avere un ex comunista come ministro degli Esteri dell’Ue. Più

fine una decisione dovrà indicare un solo nome ed è lí che Miliband potrebbe spuntarla, proprio in virtù della sua verginale purezza politica rispetto a quella di D’Alema.

Non bisogna scordare le campagne fatte in quei Paesi contro gli ex-comunisti. Ma il giovane Miliband vive un momento di conflitto interiore: restare a Londra per ricostruire il partito laburista dopo le mazzate che si aspetta alle elezioni del 2010 o tentare l’avventura della diplomazia sopranazionale? Il leader dei Tories, David Cameron, ha infatti mandato segnali piuttosto negativi nei confronti dell’Unione europea, e il lavoro di Alto rappresentante per la politica estera europea potrebbe diventare ostico, con il proprio Paese che rema contro. Poi però c’è anche una faccenda pubblica che riguarda la composizione della commissione europea. Londra mirerebbe infatti ad avere un buon portafogli alla commissione europea, come ad esempio i servizi finanziari. L’alto rappresentante è anche il vice-presidente della commissione europea (secondo il trattato di Lisbona): chi detiene quel ruolo non può quindi aspirare ad altri posti nell’esecutivo comunitario. Ma per la Gran Bretagna la guida della diplomazia europea potrebbe diventare una sfida ricca di tentazioni. In fondo con la fine dell’unipolarismo il rapporto preferenziale con gli Usa diventa relativo, soprattutto se Washington accetta (come

sembra) l’idea di un G2, America-Cina, per fissare le grandi linee guida del mondo e di un G20 per la loro messa in pratica. A quel punto, Londra potrebbe essere interessata a impegnarsi a fondo nella diplomazia europea, per influenzare le grandi scelte che dovrebbero fare del G2 un G3 (Usa, Cina e Ue) e del G20 una specie di organismo regolatore globale sul modello della governance comunitaria.

Gordon Brown sembra però non avere ancora gettato la spugna su Tony Blair. Ma se dovesse farlo la prospettiva di uno scontro italo-britannico in consiglio potrebbe diventare realtà. Anche

L’entourage dell’ex primo ministro: «Non si è mai autocandidato, è onorato anche solo dell’idea»

E i dalemiani: «Tante altre figure di peso» di Francesco Capozza nello specifico, per la carica di Alto rappresentante per la politica estera Ue istituita dal Trattato di Lisbona «sarebbe meglio avere una persona la cui autorità non può essere contestata a causa delle sue appartenenze politiche passate», ha detto ancora l’ambasciatore polacco. Un duro colpo per l’avanzata della candidatura di Massimo D’Alema, il candidato da alcuni ritenuto più forte per la poltrona di Mr. Pesc, su cui lo stesso governo italiano, diametralmente opposto politicamente, si era detto disponibile a dare «pieno appoggio». E lo ha confermato

ancora ieri, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, che al riguardo ha ribadito la posizione del nostro esecutivo: «Se emergesse in concreto la proposta del Partito socialista europeo di D’Alema, noi la sosterremmo con convinzione. È chiaro che avere un italiano in un posto così importante è comunque un onore e un orgoglio per l’Italia».

Dall’entourage dell’ex premier italiano nessun commento ovviamente, in questi casi è certamente meglio trincerarsi dietro un più cauto «no comment» o una dichiarazione fel-

pata come: «Lo stesso presidente D’Alema ha affermato che esistono in campo candidature più prestigiose della sua». Se lo stretto collaboratore del presidente della Fondazione Italianieuropei si riferisce al ministro degli Esteri britannico Miliband, fonti interne alla Farnesina hanno già chiarito da giorni che la candidatura inglese sarebbe stata ufficiosamente ritirata per favorire Miliband nella successione a Gordon Brown alla guida dei Labour dati perdenti alle elezioni politiche che si svolgeranno l’anno prossimo nel Regno Unito. «D’Alema è tran-


mondo

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L’opinione del consigliere Affari esteri del Parlamento europeo Trzaskowski

«A pesare di più sarà ciò che fece alla Farnesina» Israele, Russia, Afghanistan: sono queste le posizioni che non convincono i nuovi Paesi membri dell’Unione di Alvise Armellini

perché al momento sembra che il primo ministro belga Herman Van Rompuy sia il più quotato tra i candidati alla presidenza Ue. Se dunque il belga dovesse spuntarla, Blair aprirebbe definitivamente la strada a Milliband. A quel punto sarà importante verificare quale sia la capacità di costruzione del consenso da parte del governo italiano, dato che I conservatori britannici non sembrano particilarmente interessati alla sorte dell’attuale capo del foreign office. Insomma, l’impressione è che la faccenda si stia trasformando in un intreccio aggrovigliato di rapidi opportunismi di politica interna e lenti bizantismi di politica europea.

quillissimo, d’altronde ha detto fin dal primo momento che ritiene un grande onore che li Pse abbia inserito il suo nome tra quelli, tutti prestigiosi, dei possibili candidati alla carica di ministro degli esteri dell’Unione. C’è anche da dire, è bene ricordarlo, che quella di D’Alema non è affatto un’autocandidatura e che egli stesso non ha mai fatto nulla per favorirla. Se i governi europei dovessero optare per un’altro candidato non ci sarà certo amarezza o rimpianto, ma grandissima serenità» dice con più slancio un parlamentare democratico vicino a Bersani (e quindi a D’Alema).

Ancora più netta la posizione di una deputata di stretta osservanza dalemiana: «C’è un tentativo di stoppare una candidatura molto autorevole e che a qualcuno, forse, incute

David Miliband e Massimo D’Alema. Il primo è ministro degli esteri britannico, il secondo è presidente del Partito democratico italiano. A destra, Rafael Trzaskowski

un certo timore. L’autorevolezza della candidatura di Massimo D’Alema è data proprio dal suo profilo politico ben marcato ma anche, a dispetto di quanto si sente spesso dire in giro, dal suo convinto europeismo». Una levata di scudi, insomma, per difendere fortemente il candidato italiano che non si circoscrive, tuttavia, alla stretta cerchia di dalemiana. Anche dalla maggioranza, infatti, sono arrivati commenti stizziti alla dichiarazione dell’ambasciatore polacco presso la Ue. Per Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri, «fortunatamente non è l’ambasciatore polacco che decide le candidature per le cariche della nuova Unione. D’Alema gode della stima di tutti in Europa ed il governo italiano attende la formalizzazione della sua candidatura per sostenerla apertamente».

BRUXELLES. Professore di diritto comunitario istruito alle università di Oxford, Parigi e Varsavia, vicepresidente della commissione Affari costituzionali, ex braccio destro di Jacek Saryusz Wolski, il ministro che ha curato la fase finale dei negoziati di adesione tra la Polonia e l’Ue, il 37enne Raphael Trzaskowski è uno degli eurodeputati di punta di Piattaforma civica, il partito del premier polacco Donald Tusk. E in un’intervista a liberal, conferma lo scetticismo di Varsavia sulla nomina di Massimo D’Alema ad Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, a causa del suo passato comunista. Ma a preoccupare le capitali dell’Est non c’è solo il passato, ma anche le posizioni assunte dall’ex presidente dei Ds in veste di ministro degli Esteri del governo Prodi: dalla guerra in Afghanistan al Medio Oriente, passando per i rapporti con la Russia e con gli Stati Uniti. polacco L’ambasciatore presso l’Ue, Jan Tombisnki, ha definito la candidatura di D’Alema un problema per la Polonia e gli altri Paesi della Europa. Nuova Perché? Anche se la sua passata militanza nel Partito comunista potrebbe essere un problema per alcuni in Polonia, per me quello che conta é quello che ha fatto da ministro degli Esteri nel governo Prodi: le sue posizioni nei confronti di Israele, della Russia, sull’Afghanistan... Com’è visto D’Alema a Varsavia? Sicuramente non negativamente, sappiamo che é un politico rispettato. Preferirei D’Alema a un signor nessuno, ed é una persona con la giusta dose di determinazione ed esperienza di affari europei. E quando non si è d’accordo con lui si è sempre dimostrato pronto a discutere, il che è molto importante. Ma è indubbio che rispetto alla sinistra italiana, noi in Polonia abbiamo un punto di vista piuttosto diverso su questioni fondamentali come l’Afghanistan, il Medio Oriente, i rapporti transatlantici e i rapporti di vicinato con la Russia. Comunque, anche se la spuntasse non sarebbe troppo un problema, perché non potrebbe agire senza il consenso dei Ventisette, incluso noi. Qual è il vostro candidato ideale? Io credo che abbiamo bisogno di una voce forte nell’Ue, e quindi abbiamo bisogno di una personalità affermata, decisa, rispettata e conosciuta. Non mi piacciono i minimi denominatori comuni, le seconde o terze scelte. E ci sono molte persone che hanno il profilo giusto: per noi, per esempio, Carl Bildt sarebbe un ideale: viene da un Paese medio, ha un buon profilo internazionale, conosce molto bene i dossier e come funziona l’Unione, ha retto la

presidenza di turno fino ad ora quindi sarà pronto a iniziare da subito. E poi noi polacchi abbiamo molti interessi in comune con gli scandinavi. Un altro nome che circola é quello di David Miliband, il ministro degli Esteri britannico. Qual’é il vostro giudizio su di lui? È piuttosto positivo. Ha un profilo internazionale, condivide la nostra visione del mondo, specie per quanto riguarda i rapporti transatlantici e con la Russia ed è d’accordo sul bisogno di parlare con una voce unica sulle questioni più importanti come l’Afghanistan, il Medioriente. Insomma, é una brava persona. Lo sosterreste anche per ringraziare Tony Blair, che durante gli anni di Downing Street si è speso tanto per i Paesi della Nuova Europa? Non penso sia un fattore determinante. Cinque o sei anni fa, quando stavano ancora imparando il gioco europeo, ci importava molto sapere a chi stavamo simpatici e a chi no, ed eravamo contenti di ricevere pacche sulle spalle e di sentirci raccontare le cose che volevamo sentire. Ma ora siamo più maturi e guardiamo soprattutto alla convergenza di interessi: con Carl Bildt e David Miliband siamo d’accordo su molte questioni, con altri forse meno... Se per l’Alto rappresentante si pensa ad una figura forte, per il presidente si profila la scelta di una sorta di “notaio”, giusto? La maggioranza dei Paesi la pensa così, il presidente del Consiglio Ue deve essere un buon manager piuttosto che una figura di primo piano, mentre per l’Alto rappresentante serve una persona di alto profilo. Tra i candidati che circolano non c’é nessuno dall’Est Europa.Vi basta aver strappato la presidenza del Parlamento europeo per il polacco Jerzy Buzek? Direi di sì, e poi non ci sono molti nomi in corsa dalla nostra area. Penso che i nuovi Stati membri abbiano rinunciato alle poltrone create dal Trattato di Lisbona e preferiscano lottare per avere dei portafogli importanti in seno alla prossima Commissione europea. Avete un preferito per la presidenza? Si parla dei primi ministri di Belgio, Olanda o Lussemburgo... Tutti e tre i candidati del Benelux sarebbero dei bravi manager, e potremmo convivere con uno qualsiasi di loro: Juncker, van Rompuy o Balkenende. Sono tutti bravi e preparati, anche se è indubbio che Juncker conosce il Consiglio europeo meglio di chiunque altro. Mentre Balkenende, proveniente da un Paese più grande, avrebbe forse una maggiore ’gravitas’. Ma penso che tutti e tre sarebbero buoni candidati.

Per noi Carl Bildt sarebbe l’ideale: proviene da un Paese medio, ha un buon profilo internazionale, conosce i dossier e come funziona l’Unione


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pagina 6 • 6 novembre 2009

Il caso. L’ex presidente della commissione Giustizia lascerà il gruppo con Aurelio Misiti, Antonio Razzi e Giuseppe Astore

2010, fuga da Di Pietro

Pisicchio annuncia l’uscita dall’IdV: bisogna ricostruire il Centro di Marco Palombi

ROMA. «Cosa mi spaventa della purezza? La fretta». Questa frase che Umberto Eco mise in bocca a un suo personaggio forse risuona all’orecchio di Antonio Di Pietro oggi che soffre il classico tormento del giacobino: l’incontro con una forma di radicalismo ulteriore rispetto al suo. E così il generalissimo di Italia dei Valori si ritrova pressato da dentro e fuori il partito – per semplificare, dall’area De Magistris e da quella Micromega - da gente che gli rimprovera pecche e connivenze neanche fosse un Berlusconi qualunque. Solo che mentre si consuma l’eterno dramma del caudillo, nel corpo profondo del partito, quello cioè che non arriva alla militanza attraverso i girotondi o i meet up di Beppe Grillo, il disagio cresce e si prepara a decurtare pesantemente i gruppi parlamentari: fonti autorevoli danno in uscita ben quattro elementi su 40, il 10% secco della rappresentanza parlamentare. Ad essere decisamente orientati all’addio sono infatti i deputati Aurelio Misiti, Pino Pisicchio e Antonio Razzi e il senatore Giuseppe Astore, tutti di provenienza centrista, tutti in qualche modo interessati al percorso verso un nuovo partito di Centro. «Liberal» ha chiesto conferma ad uno dei deputati del gruppo che, ovviamente, accetta di parlare solo per sé: «Non so niente degli altri – spiega Pisicchio – ma per quanto mi riguarda posso dire che nessuna delle questioni

liberaldemocratica». L’approdo, Pisicchio, ancora non lo vede, ma «sicuramente Rutelli fa un’analisi che condivido spiega -. Si propone di occupare uno spazio politico di cui il centrosinistra ad esempio ha bisogno. C’è da capire però che ruolo ha l’Udc: è un interlocutore o un concorrente? E poi come verranno affrontate le prossime regionali? Sono sicuro che le risposte arriveranno, intanto registro con piacere che dopo la stagnazione degli ultimi anni qualcosa si rimette in moto: siamo davvero alla fine della Seconda Repubblica, in una condizione simile a quella del 9293, e quindi da Rutelli può arrivare un contributo importante, specialmente se lavorerà in squadra». L’obiettivo strategico, chiarisce, è ottenere «una legge elettorale di tipo tedesco che ridia al centro politico la dimensione, anche numerica, che gli compete in un Paese come questo, centrista per vocazione ma bloccato da un bipolarismo malato». In questo senso, «ovviamente l’Udc ha un ruolo importante, soprattutto perché ha dimostrato di saper esistere anche senza coalizzarsi».

Se però il futuro della pattuglia (ex) dipietrista è ancora incerto, l’analisi del passato è impietosa: «Nel mio libro Il postpartito – dice l’ex presidente della commissione Giu-

«Nel partito ormai ha vinto la deriva antagonista: mi interessa molto di più il percorso di Rutelli verso una nuova realtà politica» che ho posto a Di Pietro (forma partito, linea politica, visione strategica) ha ricevuto risposta. Mi sembra difficile continuare a dare il mio contributo a un partito che non lo vuole». Chiamate da Di Pietro? «Nessuna, segno che la scelta del mio segretario di schierare il partito nel campo antagonista e girotondino è definitiva. Che posso dire? La rispetto, ma contraddice profondamente le ragioni per cui nel 2006 mi venne chiesto di candidarmi con Italia dei Valori, che doveva essere un partito centrista di ispirazione

stizia - ho fatto un’analisi strutturale del consenso di Idv fino al 2008: risulta che la sua parte maggioritaria ha origine nei ceti piccolo-borghesi, persone moderate con una forte esigenza di rigore e legalità, ma certamente non in rapporto con col voto antagonista o di sinistra. Anche il fatto che il ceto dirigente di Idv fosse per il 57% composto da moderati, in massima parte ex Dc, ne faceva un partito dell’area intermedia». Dall’anno scorso, però, la situazione è cambiata: «Quanto sia rimasto dell’impostazione iniziale nell’attua-

Sopra, Antonio Di Pietro. Nei riquadri, Pino Pisicchio (a sinistra) e Aurelio Misiti (a destra)

La politica ricorda Benigno Zaccagnini ROMA. Le due anime che hanno dato vita al Pd -quella ex democristiana e quella ex Pcisi sono ritrovate ieri mattina nella Sala della Lupa di Montecitorio per ricordare la figura di Benigno Zaccagnini - indimenticato segretario della Dc e stretto collaboratore di Aldo Moro - a venti anni dalla sua morte. Insieme a tutto lo stato maggiore democratico (in prima fila il nuovo segretario Pier Luigi Bersani) nella sala sono convenute anche altre «radici» democristiane come quella dell’Udc (Casini, Pezzotta, Rao) o del Pdl (Pisanu che è stato anche tra i relatori). L’iniziativa è partita dall’Associazione dei Popolari (Pierluigi Castagnetti e Francesco Saverio Garofani) ed è stata sostenuta dal presidente della Camera Gianfranco Fini che ha presieduto il convegno intitolato «Benigno Zaccagnini: la politica come servizio» nel corso del quale hanno preso la parola lo stesso Fini, Giovanni Galloni, Beppe Pisanu, Paolo Pombeni, Enzo Bianchi e Dario Franceschini.

«Ricordiamo oggi un uomo che ha vissuto la politica con alta tensione morale ed esemplare dedizione al bene comune. Benigno Zaccagnini rimane nella storia del Paese - ha detto il presidente della Camera nel suo intervento - come testimone di una solida fede nella libertà. Una fede che non venne mai meno, anche nei passaggi più drammatici della vicenda italiana dei decenni passati».

le prassi politica sempre orientata ad una escalation di tipo ‘bossiano’ non so. Di Pietro, con la scelta dei candidati alle europee, ha siglato il cambio di rotta accettando una mutazione genetica del partito». Nella composizione delle liste «ha scientificamente rimosso tutte le candidature “di partito”, moderate, lasciando spazio al gruppo che fa riferimento a De Magistris e che oggi a Strasburgo rappresenta l’Idv nell’Eldr. Una cosa bizzarra: è difficile, per dire, immaginare il grado di compatibilità tra Gianni Vattimo e un gruppo che spesso ha posizioni più a destra del Ppe». Ora l’ex pm si ritrova alle prese con un conflitto interno inevitabile: «Queste persone, il cui maitre a penser è Flores d’Arcais, pensano all’Italia deiValori come al partito dell’antagonismo, dell’irriducibile no ad ogni confronto istituzionale, della piazza come unico luogo d’espressione, cose che poco hanno a che fare con le aule parlamentari. Escluse le manifestazioni folcloriche ovviamente».

Quindi Di Pietro rischia di perdere il controllo del partito? «Assolutamente no, ha il controllo totale – scandisce Pisicchio - I venti segretari regionali, per dire, sono tanti piccoli Di Pietro e dipendono completamente da lui: controllano persino il tesseramento. Con questa organizzazione, in un congresso vecchia maniera, è impossibile che emerga una maggioranza contro il leader». Il problema dell’ex pm, rispetto ai ribelli “europei”, «è il controllo dell’opinione pubblica: Idv ha un forte consenso d’opinione (basta vedere i risultati di giugno: 8% alle europee, 34% alle amministrative) e Di Pietro sa bene quanto sia volatile. Ora, siccome non ha né la forza né la voglia di costruire un partito, l’unica scelta che gli resta è quella di alzare sempre i toni».Alle regionali di marzo, infatti, «rischia di andare molto al di sotto dell’8% e si ritrova a un bivio: solo che invece di tornare alle origini e radicare il consenso rincorre De Magistris e Flores d’Arcais siglando per il 5 dicembre il patto con Rifondazione sull’occupazione della piazza».


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6 novembre 2009 • pagina 7

Presentato il rapporto 2009 dell’Osservatorio europeo

A dieci anni dalla «Lettera» di Giovanni Paolo II

È record dei consumi di cocaina in Italia

Il 21 novembre il Papa incontra gli artisti

BRUXELLES. Oltre 13 milioni di europei adulti hanno provato la polvere bianca nella loro vita. Di questi, 7,5 milioni sono giovani (15-34 anni): tre milioni di questi l’hanno usata negli ultimi 12 mesi. Nel dettaglio, l’Italia si conferma uno dei Paesi a più alta prevalenza, insieme a Danimarca, Spagna, Irlanda e Regno Unito. La polvere bianca si conferma così la sostanza stimolante illegale più popolare in Europa, mentre diminuisce «la popolarità dello spinello». Lo dice il Rapporto 2009 dell’Osservatorio europeo sulle droghe presentato ieri a Bruxelles, che conferma la diffusione costante della cocaina e rivela come il mix di droghe e alcool sia il responsabile della maggior parte dei problemi legati alle sostanze stupefacenti. In Italia, Danimarca, Spagna, Irlanda e Regno Unito, nell’ultimo anno, l’uso tra i giovani si è attestato tra il 3,1% e il 5,5%, mentre nella maggior parte degli altri Paesi europei si registra una tendenza alla stabilizzazione o all’aumento del consumo nella fascia d’età 1534 anni. Tra i pazienti che entrano per la prima volta in terapia per disintossicarsi, il 22% ha indicato la cocaina come sostanza primaria. Nel 2007 sono stati segnalati circa

CITTÀ DEL VATICANO. Il regista ”girotondino”Nanni Moretti e il cattolicissimo e popolare Terence Hill, ”don Matteo” televisivo, sono i due ”estremi”di una lunga lista di nomi diffusa ieri dal Pontificio Consiglio per la Cultura che ha presentato alla stampa l’incontro di Benedetto XVI con gli artisti in programma il prossimo 21 novembre nella Cappella Sistina.Tra i musicisti ci sono Antonello Venditti, Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Enrico Rava, Angelo Branduardi, Riccardo Cocciante, i Pooh, Ennio Morricone.Tra le personalità del mondo del cinema, i nomi di Pupi Avati, Laura Morante, Lino Banfi, Sergio Castellito, Claudia Kohl, Valeria Golino, Liliana Cavani,

Berlusconi risponde a Repubblica (via Vespa) Da Noemi alla propria salute: la verità del premier di Andrea Ottieri

ROMA. La giaculatoria dell’anno – le dieci domande che da giugno scorso il quotidiano La Repubblica da mesi reitera al presidente del Consiglio che si rifiuta di rispondere – pare destinata alla conclusione. Ma è un epilogo molto bizzarro e molto italiano (anzi, molto berlusconiano): in pratica, Berlusconi risponde a Repubblica per interposta persona: Bruno Vespa. Il tutto, lo avrete capito sicuramente, nel prossimo, fantasmagorico e anticipatissimo libro del giornalista tv, Donne di cuore. Che poi Berlusconi sia stato consapevole di rispondere a Repubblica per tramite di Vespa o se Vespa abbia brillantemente estorto qualche opinione in più al premier, è tutto da dimostrare. Anche perché, affidando il caso al suo straordinario ufficio stampa (sono almeno due settimane che l’agenda politica è di fatto dettata dalle anticipazioni del libro di Vespa), Lo stesso anchorman ha precisato che in realtà il premier risponde solo a otto delle dieci domande. E senza ulteriore contraddittorio, naturalmente, perché – come ogni buon giornalista sa - un conto è riportare delle opinioni e un conto è domandare e interloquire. Ma è bene anche ricordare che non solo il premier si è sempre rifiutato di rispondere ai quesiti di Repubblica, ma ha anche querelato il quotidiano, sostenendo che le sue domande erano invasive, offensive e preconcette.

due sue ospiti». Sui voli di Stato: «La magistratura ha già archiviato la pratica al riguardo. Io non ho mai utilizzato voli di Stato in modo non lecito. Faccio altresì presente che il mio gruppo dispone di ben cinque aerei che io posso utilizzare in qualunque momento». Rischio ricatti: in una precedente anticipazione del libro di Vespa - si legge in quella di ieri - Berlusconi aveva escluso di poter essere ricattato da chicchessia. Ipotesi di candidarsi al Quirinale: «Non ho mai pensato di candidarmi alla Presidenza della Repubblica. Come molti ricorderanno, ho ripetutamente indicato, a titolo di suggerimento affinché dal Parlamento possa essere compiuta la scelta migliore, un candidato che ritengo sia il migliore in assoluto: Gianni Letta». Sospetti di uso improprio dei servizi segreti: «I violenti attacchi contro di me sempre avulsi da ogni attinenza alla realtà e frutto solo di preconcetta ostilità, sono sotto gli occhi di tutti. Ma non ho certo mai pensato di impiegare queste risorse contro alcuno. Solo menti distorte e disoneste possono pormi una simile domanda, immaginandosi comportamenti che probabilmente sarebbero i loro se si trovassero al mio posto». Sulla propria salute: «A questa domanda rispondono i fatti. Da quella data a oggi le mie condizioni di salute, a parte un fastidioso torcicollo ormai debellato e la scarlattina che ho avuto a fine ottobre, sono infatti quelle che mi hanno permesso di proseguire e completare sedici mesi di fittissimi impegni che per brevità così riassumo: 170 incontri internazionali, 25 vertici multilaterali, 9 vertici bilaterali, 80 conferenze stampa, 66 consigli dei ministri, 91 interventi e discorsi pubblici a braccio. Cosa avrei fatto se non fossi stato ammalato?».

L’ennesima anticipazione dal libro del giornalista tv è la più clamorosa: finisce il tormentone iniziato a giugno

500 decessi associati al consumo di questo potente stimolante. Accanto alla cocaina prende piede anche la metamfetamina che sfrutta la facilità con cui può essere prodotta.

Lo spinello, però, resta la droga preferita dai giovani, ma la sua diffusione è in calo. Sono circa 74 milioni gli europei, uno su cinque degli adulti, che hanno provato hashish o marijuana nella loro vita, 22,5 milioni (6,8%) ne hanno fatto uso nell’ultimo anno e 12 milioni (3,6%) nell’ultimo mese. Pur restando la sostanza illecita più comunemente usata in Europa i nuovi dati segnalano un calo di popolarità dello spinello una tantum, in particolare tra i giovani.

Ma vediamo, tema per tema, che cosa avrebbe detto Berlusconi a Vespa. Sul caso Noemi Berlusconi: «Non avuto alcuna relazione con la signorina Noemi. A riguardo si sono dette e scritte soltanto calunnie». Capitolo candidature alle Europee: «Non posso trovare grave ciò che non esiste - dice il presidente del Consiglio usando l’aggettivo citato nella domanda di Repubblica -. Ho proposto incarichi di responsabilità soltanto a donne con un profilo morale, intellettuale, culturale e professionale di alto livello». Caso D’Addario: «Sulla D’Addario debbo ribadire che c’era una cena con molte persone organizzata dalle militanti di dei club Forza Silvio e Meno male che Silvio c’è. All’ultimo momento ci si infilò anche Tarantini con

Finita la questione, insomma. Berlusconi non solo risponde, ma sbeffeggia ad arte il quotidiano di Ezio mauro propugnando una verità completamente diversa da quella vagheggiata da Repubblica. Ma la recita non poteva essere fatta a giugno scorso? No, non consideratela l’undicesima domanda.

Vincenzo Cerami, Monica Guerritore, Luca Ronconi, Franco Zeffirelli, oltre appunto a Nanni Moretti. Tra i pittori e scultori, Jannis Kounellis, Alfredo Chiappori e Arnaldo Pomodoro. Tra gli architetti, Santiago Calatrava, Daniel Libeskind, Paolo Portoghesi.Tra letterati e poeti, Alberto Arbasino, Alberto Bevilacqua, Ferdinando Camon, Piero Citati, Claudio Magris, Margaret Mazzantini e Susanna Tamaro.

L’incontro è stato promosso in occasione del decennale della Lettera agli Artisti complilata da Giovanni Paolo II il 4 aprile 1999, e a 45 anni dallo storico incontro di Paolo VI con gli artisti, tenutosi nella Cappella Sistina (7 maggio 1964). Nella stessa Cappella Sistina, dunque, sono previsti brevi interventi musicali di apertura e chiusura dell’Incontro, eseguiti dalla Cappella Musicale Pontificia «Sistina» e saranno letti alcuni brani della Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II. Dopo il discorso del Papa ai partecipanti all’incontro, si terrà nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani un ricevimento conclusivo offerto dalla Martini e Rossi, che è «lo sponsor unico dell’evento», come ha precisato monsignor Gianfranco Ravasi presentando l’iniziativa.


economia

pagina 8 • 6 novembre 2009

Road map. Via libera a una serie di emendamenti di spesa, che dovrebbero riguardare la sicurezza e la Banca del Sud

Il mini-taglio dell’Irap Accordo tra Tremonti e il Pdl per ridurre il balzello. Non ancora chiara la copertura di Francesco Pacifico

ROMA. In un impeto di rigorismo che non si registrava da prima della crisi, ieri JeanClaude Trichet ha tuonato: «I Paesi membri di Eurolandia non dovrebbero tagliare le tasse se non vi sono i margini di bilancio». Ma nelle comunicazioni tra Francoforte e Roma ci devono essere interferenze: perché mentre il presidente della Banca centrale europea pontificava, a Roma la maggioranza di governo trovava un accordo sul taglio dell’Irap. Al momento non è ancora chiaro dove troverà le risorse necessarie, fatto sta che ieri mattina Giulio Tremonti ha incontrato i rappresentanti dei gruppi al Senato di Pdl e Lega e concordato con loro un pacchetto di emendamenti alquanto corposo. Impensabili rispetto alla rigidità sui saldi ostentata fino a una settimana fa. E comunque indispensabili per non far apparire la manovra in votazione al Senato soltanto un insieme di tabelle e di stime più o meno credibili. Ha spiegato il nuovo clima il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas:

«La crisi economica non è ancora del tutto terminata, ma questo non significa che, se esistono storture come l’Irap, queste non possano essere corrette: per esempio, se vengono tassate delle perdite, si può nell’ambito delle disponibilità rivedere la tassazione soprattutto riguardo i soggetti più deboli come le piccole imprese». Quindi l’Irap, sulla quale si interverrà in seconda lettura alla Camera. Eppoi i fon-

e Senato, Antonio Azzollini e Mario Baldassarri, il relatore Maurizio Saia.

In alto mare, il capitolo casa: sia per quanto riguarda la cedolare secca al 20 per cento sugli affitti sia la deduzione per le locazioni fino a 5mila euro. L’esito del vertice, va da sé, è stato soprattutto politico. Anche perché fino a una settimana fa era impossibile che Tre-

Via XX settembre lamenta le pressioni dei sindacati per intervenire anche sull’Irpef. Il centrodestra pretende sgravi per gli affitti. Dallo scudo potrebbero arrivare non più di 4 miliardi di per la sicurezza chiesti da Maroni e un mini pacchetto per il Sud – in testa i bond agevolati per la Banca del Mezzogiorno – da approvare in Senato. Questa roadmap sarebbe stata decisa con i capigruppi di Pdl e Lega, Maurizio Gasparri e Federico Bricolo, e con i presidenti delle commissioni Bilancio

monti discutesse amabilmente con un manipolo di senatori tra i quali c’era Mario Baldassarri, l’autore della contromanovra da 38 miliardi, utilizzata dai finiani per contrastarlo. Il responsabile dell’Economia non ha fornito cifre, ma avrebbe spiegato di stare lavorando a un taglio dell’imposta creata da Visco soltanto sulla deducibilità delle perdite in bilancio. Non citando però come base imponibile dalla quale partire quella Ires, c’è da pensare che

al ministero si stia lavorando su intervento non superiore al miliardo e mezzo di euro, magari legato a una franchigia per non estendere il taglio alle imprese con più di 50 dipendenti. Se il partito della riduzione Irap annovera ufficialmente da ieri anche il titolare di via XX Settembre, l’inflessibile custode del rigore dei conti pubblici, non è detto che questo basti per superare problemi tuttoggi insormontabili. Dopo le pressioni dalla sua maggioranza, il ministro ha raccontato che da giorni è tempestato dagli aut aut dei sindacati confederali: o con l’Irap si taglia anche l’Irpef, oppure non se ne fa nulla. E Tremonti non può permettersi di gestire l’ulti-

ma coda della crisi senza l’appoggio di Cisl e Uil.

Tra l’altro, Bonanni e Angeletti avrebbero avvertito in più sedi che almeno la metà dello scudo fiscale deve essere destinata agli aumenti per il 2010 del pubblico impiego. Che necessitano di 2,5 miliardi di euro. Al riguardo la sanatoria potrebbe però riservare un conto inferiore alle aspettative: lo stesso Tremonti ha spiegato che potrebbero rientrare dall’estero tra i 60 e 80 miliardi, non i cento previsti in un primo tempo. La cosa è fondamentale per il futuro taglio dell’Irap. Seppure il costo per l’intervento non superasse il miliardo e mezzo, almeno la metà si dovrebbe recu-

«I segnali sono buoni, ma non bisogna cedere all’ottimismo», dice il Quirinale

Napolitano: «Riforme contro la crisi» di Alessandro D’Amato

ROMA. La ripresa c’è, ma niente facili ottimismi. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando al Quirinale davanti ai Cavalieri del Lavoro, torna sulla crisi economica: «Grazie agli interventi delle organizzazioni internazionali e alla capacità di reazione delle imprese, i segnali “incoraggianti” di ripresa economica ci sono, ma non possiamo esprimere facile ottimismo». Per questo, ha detto Napolitano, «Dobbiamo guardare pacatamente alle prospettive più vicine e a quelle di più lungo termine».

Il capo dello Stato ha parlato anche delle riforme: «Liberiamoci di quel di più, di quel di troppo, in termini di esasperazione dei contrasti e di contrapposizione dei punti di vista che può compromettere il nostro domani». Per la ripresa economica, ha sostenuto Napolitano «non basta attendere che il clima economico internazionale migliori, occorrono in Italia riforme da troppo tempo rinviate, altrimenti ci vorrà

troppo tempo per riportare l’economia nazionale ai livelli precedenti la crisi iniziata nel 2008. Dobbiamo guardare tutti insieme al da farsi nei suoi diversi aspetti internazionali e nazionali; dobbiamo guardare alle riforme di cui c’è bisogno e a cui si sta lavorando sul piano mondiale; alle riforme e alle scelte da adottare finalmente in Italia per risalire in tempi non troppo lunghi ai livelli di attività che precedevano la caduta del 2008-2009, e per imprimere alla nostra economia e alla nostra società quel dinamismo che sono venute perdendo da oltre un decennio». Consolidare i segnali di ripresa, secondo l’inquilino del Quirinale, è compito che spetta a tutti e richiede riforme da troppo tempo rinviate e senza le quali l’Italia impiegherà «tempi troppo lunghi». Napolitano ha raccomandato di sviluppare la ricerca e di farsi carico con più attenzione del contributo delle donne imprenditrici. Ma occorre anche un clima politico che favorisca tutto ciò. Perciò Napolitano ha invitato


economia

6 novembre 2009 • pagina 9

Il costo del denaro tanto basso negli Usa favorisce nuove speculazioni

La prossima bolla? Scoppierà nelle Borse di Gianfranco Polillo he succederà? Sarà una breve estate di San Martino o l’inizio di una reale inversione di tendenza: finalmente la luce dopo quasi un anno di crisi? Gli economisti sono sconcertati. Somigliano sempre di più alle sibille: quelle antiche creature che, nel mondo antico, cercavano di predire il futuro, scrutando nelle viscere degli animali sacrificati agli Dei. L’ultimo tentativo, in ordine di tempo, è stato quello della Commissione europea. Plausi alla linea di Giulio Tremonti e al suo rigore finanziario. Nel checkup sull’economia italiana, il profilo di medio periodo somiglia, come una goccia d’acqua, a quello tracciato nei documenti governativi. Una crescita che riprenderà fin dal prossimo anno (più 0,7 per cento) per poi raddoppiare nel 2011. Rassicurante anche l’andamento del debito pubblico, addirittura inferiore, seppure di qualche decimale, rispetto alle più prudenti valutazioni governative. Sarà così?

C

perare con lo scudo. Ma gli stessi soldi fanno gola alla Gelmini per estendere l’indennità di disoccupazione agli insegnanti precari. Se non bastasse, a rendere ancora più difficile la vita del ministro c’è il dossier casa: Il Pdl spinge per una deduzione sulle locazioni fino a 5mila euro che costa circa 900 milioni di euro e un cedolare secca sugli affitti al 20 per cento che necessità di un finanziamento di quasi 900 milioni. E difficilmente il centrodestra accetterà un no definitivo dal Tesoro. Quindi si lavora ai fianchi il ministro per fargli accettare un provvedimento graduale, spalmabile su tre anni, partendo dalle fasce più povere della popolazione.

Qui sopra, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti insieme con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In basso a sinistra, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A destra, un’insegna con le ultime quotazioni della Lehman Brothers

ancora una volta gli italiani a liberarsi «di quel di più, di quel di troppo che è fatto di contrasti esasperati, di punti di vista contrapposti, un troppo che rischia di compromettere il domani»

Napolitano poi ha elencato i numeri preoccupanti della crisi: «La riduzione dei consumi delle famiglie e il peggioramento del mercato del lavoro e il tardare di una robusta ripresa degli investimenti. In prospettiva, i limiti persistenti nello sviluppo della ricerca, chiave decisiva per l’innovazione e per la crescita futura». Sul ruolo delle banche, il presidente fa suo «il giudizio positivo ribadito dal governatore Draghi sulle prove che dinanzi alla crisi ha dato di sé il nostro sistema bancario di cui peraltro non sono state ignorate le sofferenze e a cui sono state nello stesso tempo indirizzate alcune importanti raccomandazioni». Il capo dello Stato cita in particolare «la necessità di un intelligente, prudente, selettivo sostegno del credito al processo di ristrutturazione delle imprese che deve ancora intensificarsi ed estendersi». Per finire, il presidente ha salutato i nuovi Cavalieri del lavoro augurandosi che alle prossime cerimonie di nomina dei Cavalieri sia possibile «anche di un maggior numero di imprenditori del Mezzogiorno, così come di donne imprenditrici beneficiari di questo riconoscimento».

Il Fondo monetario internazionale è di idea contraria. La ripresa annunciata dalla Commissione europea sembra essere poco più di un sogno o di un desiderio. I tassi di crescita ipotizzati, negli stessi anni, saranno meno della metà ed il debito, invece di ridursi, sembra essere destinato a crescere in misura consistente. Due opposti scenari, quindi. Rassicurante il primo, fosco il secondo. Un sentiero di rientro spontaneo per Bruxelles, una rotta tendenzialmente fuori controllo per gli economisti di Washington. Chi ha ragione? È difficile dirlo. L’indecifrabilità dei segni – quelli provenienti dal mercato – regna sovrana. Se fossimo in Giulio Tremonti, tuttavia, non ci culleremo sugli allori. Il centro della crisi, come della possibile ripresa, è sempre negli Usa. Se l’ultimo trimestre sarà come quello che si è appena concluso, tutto andrà bene. Altrimenti saranno guai. Su quella crescita, che è stata pari al 3,5 per cento su base annua, si concentrano le attenzioni e le attese del mercato. Ed è paradossale il fatto che mentre la Casa Bianca tirava un sospiro di sollievo, le borse subivano, invece, una battuta d’arresto. Colpa di una breve flessione dei consumi. Un dato apparentemente minimalistico, ma con un recondito e forte significato politico. Il terzo trimestre dell’anno è stato, infatti, il punto terminale di una grande abbuffata. Il settore automobilistico è stato trainato dagli incentivi statali; gli investimenti, specie nell’edilizia, dai sussidi concessi. Ma ora quelle provvidenze sono terminate e la Casa Bianca si trova stretta tra due opposte esigenze: aumentare ulteriormente il deficit per sostenere ulteriormente il mercato o lasciare andare la congiuntura secondo il suo incerto destino. Scelta difficile per gli effetti collaterali, ch’essa è destinata a produrre. Aumentare ulteriormente il deficit di bilancio, significa insistere in una politica monetaria ancora più espansiva. Quindi scontare l’ulteriore caduta del dollaro sui mercati internazionali. Ciò che preoccupa non è tanto la reazione degli altri Stati – la Cina in testa che vede diminuire il valore delle proprie ingenti riserve valutarie – quanto il meccanismo che è all’origine di questa deriva. Gli economisti lo chiamano carry market o carry trade. La possibilità, cioè, di indebitarsi in un Paese e di investire in un’altra parte del Pianeta. Le grandi compagnie internazionali prendono a prestito i dollari dalle banche americane, sostenendo un costo irrisorio – addirittura negativo in termini reali – ed acquistano tutto ciò che è possibile acquistare fuori dal territorio nazionale: azioni, immobili, titoli, materie prime, oro e così via. Esportando i capitali, il dollaro scende e questo, in qualche modo, age-

vola l’economia americana scoraggiando le importazioni. Alimenta tuttavia una bolla speculativa che rischia di scoppiare da un momento all’altro. Né più, né meno di quanto è capitato prima del fallimento della Lehman Brothers. Insomma ci si comporta come se, finora, nulla fosse successo.

I dati di questa nuova “esuberanza irrazionale”– come disse tardivamente Alain Greenspan negli anni passati – sono sotto gli occhi di tutti. Le grandi banche internazionali, che qualche mese fa, sembravano essere sull’orlo del collasso, hanno di nuovo il vento in poppa. Cresce il fatturato e gli utili. E con essi le retribuzioni miliardarie del top management. La cui forza è tale da scardinare qualsiasi azione di carattere etico: tanto più se si considera la crescita preoccupante dei

Gli economisti lo chiamano “carry market”: è la possibilità di indebitarsi in un Paese e di investire in un’altra parte del Pianeta. Il vero rischio mondiale adesso è questo livelli di disoccupazione. Ma c’è poco da fare. I maggiori utili del settore finanziario – oltre il 50 per cento – derivano dalle attività di trading e non da una crescita dell’economia reale. I manager hanno, quindi, buon gioco nel rivendicare per sé una parte del bottino derivante dalla catena del valore che premia i propri azionisti. Se poi le cose dovessero andar male, il conto sarebbe comunque presentato – com’è già avvenuto – ai contribuenti. La conseguenza di questi comportamenti è visibile negli andamenti delle principali borse internazionali. Sono cresciute dalla scorsa primavera di percentuali vicine all’80 per cento. Mentre l’economia reale viveva giornate da dimenticare. Fino a quando può durare? Difficile ipotizzare la data esatta di un inevitabile atterraggio. Ma prima o poi questa bolla speculativa scoppierà. I primi sintomi si avvertano nella dinamica dei prezzi delle materie prime – soprattutto il petrolio – del tutto disallineati rispetto all’effettivo andamento dei consumi, comunque in flessione o quasi stazionari. Segno evidente che la spinta proviene da fattori di natura speculativa. Occorre pertanto prepararsi per tempo a questo appuntamento: non tanto anticipandone la scadenza, visto che una ripresa, seppure incerta, è sempre meglio di una lenta agonia. Ma predisponendosi, fin da ora, a fronteggiarne il possibile impatto.


diario

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L’intervista. Lo scienziato Silvio Garattini ci aiuta a capire il mistero della “suina”. E avverte: «Con i vaccini siamo in ritardo»

Tutta la verità sull’influenza A

«L’H1N1 non è mortale più di altre stagionali, è solo più contagiosa»

ispetto alle influenze stagionali degli anni scorsi, che hanno prodotto in media tra i cinque e gli ottomila morti, l’influenza A ha finora registrato un tasso di mortalità assai più modesto. Si può ragionevolmente sostenere quindi che esiste un allarme sociale eccessivo e un surplus di enfasi. I bollettini di guerra quotidiani trovano però grande risalto perché il virus A/H1N1 ha una peculiarità che lo differenzia dagli altri: colpisce molto di più i giovani rispetto agli anziani. E la vita di un giovane spezzata da un male stagionale è qualcosa che produce sgomento, che si impone con forte rilievo drammatico nella coscienza della popolazione». Di fronte alle inquietudini suscitate nel Paese dai recenti luttuosi episodi legati all’influenza A, Silvio Garattini (nella fotina a destra) non mostra soltanto il piglio confortevole dell’uomo di scienza. Nelle sue parole si adagia da subito anche quell’alto senso di umanità che accompagna sempre l’eccellenza alla saggezza. Decano degli scienziati italiani, e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri da lui fondato più di quarantacinque anni fa, il professore ha infatti speso lustri e lustri nel contrastare le più terribili malattie, e nell’aiutare ogni giorno chi se le portava addosso. Professore, davvero l’influenza A è più pericolosa di quelle degli

«R

di Francesco Lo Dico

dati statistici la inquadrano infatti come un’influenza relativamente mite, caratterizzata da un decorso breve. Ciò che la differenzia dalle altre è però l’incidenza che la H1N1 ha sui giovani soggetti, che rispetto al passato è più accentuata. E la morte di un giovane a causa dell’influenza, non può che suscitare panico e interrogativi che oltrepassano il perimetro scientifico, per riversarsi nella società sotto forma di angoscia. Ma l’influenza A, di per sé, può essere letale? È emersa in qualche caso una correlazione tra l’in-

Le normali febbri degli anni scorsi hanno prodotto in media tra i 5mila e gli 8mila decessi. La nuova febbre, però, colpisce più giovani che anziani anni scorsi, o si tratta soltanto di febbre mediatica? Se osserviamo la sintomatologia di altre influenze stagionali, il verdetto è indubbio. L’influenza A appare meno virulenta, perché suscita disturbi più modesti o comunque tipici: mal di gola, tosse, naso che cola, stato di debolezza o affaticamento più o meno intenso. Qualche volta sono presenti nausea o vomito e tempi di guarigione che rientrano ampiamente nella media. I

fluenza H1N1 e soggetti diabetici che erano in dialisi, vittime di patologie polmonari e malattie croniche. Ma se i dati fanno presupporre come talvolta il virus possa amplificare problemi pregressi, d’altra parte il sopravvenire della morte non è direttamente legato all’influenza A. Il fatto che l’individuo avesse contratto il virus ed è morto, cioè, può non aver nulla a che vedere con l’influenza. Sotto certi aspetti, è ragionevole credere che si tratta di morti che

In visita a Napoli, Fazio invita alla calma

A Desio un’altra vittima ltra giornata convulsa, quella che si è consumata ieri sul fronte dell’influenza A. E purtroppo, altre vittime, giunte a quota ventiquattro. Dopo i recenti casi che hanno funestato la Capitale con sei morti, dalla diciottenne Chantal Carleo, deceduta all’ospedale Bambin Gesù, al tecnico radiologo dell’ospedale Spallanzani, il virus H1N1 ha colpito ancora ieri notte all’ospedale di Desio, in Brianza. Deceduta una bimba di sette anni, che era stata ricoverata il 31 ottobre a causa di una broncopolmonite acuta. Dalla Campania, regione italiana che ha finora registrato nove vittime, il viceministro alla Salute Ferruccio Fazio, ieri ha invitato però alla calma nel corso di un vertice con i dirigenti sanitari locali a Napoli: «La mortalità in Campania a causa dell’influenza A – ha detto Fazio – è pari allo 0,005 per cento, molto al di

A

sotto dei decessi legati ad una normale influenza stagionale.

E a proposito delle polemiche su carenza di vaccini e ritardi nelle consegne, il viceministro assicura: «Per la prima settimana di dicembre contiamo di avere vaccini sufficienti per il 90 per cento dei pazienti gravi. La vaccinazione deve cominciare subito, bisogna fare presto». La fitta sequela di morti che ha segnato la Campania, per Fazio non configura particolari allarmi: «La città è attrezzata per gestire l’emergenza – ha affermato – e non c’è nessun caso Napoli». Tutto tranquillo, quindi? Non proprio: «Se il virus mutasse o se si combinasse con quello della aviaria allora si avrebbe un aumento della mortalità. Per questo il virus H1N1 va bloccato entro il 2010 per evitare guai peggiori», ammonisce Fazio.

sarebbero morti comunque. Rispetto alle altre, è più contagiosa? In effetti sì, e questo è l’altro elemento significativo che la discosta dalle stagionali precedenti. L’influenza A è molto contagiosa soprattutto tra i ragazzi. Se prendiamo come riferimento l’ambiente scolastico, ad esempio, si calcola che ciascun bambino può mediamente infettare 2,4 compagni di classe. Bastano più o meno quattro alunni perché altri dieci siano contagiati. E questi numeri fanno pensare che servono vaccini a tappeto, mi pare di capire. Come è stato ben fatto, occorre in queste stabilire evenienze delle priorità per i soggetti a rischio. Bambini, anziani, donne incinte e persone obese, che spesso sono afflitte da problemi respiratori, vanno vaccinati prima degli altri. L’approccio del ministero della Salute è corretto in buona sostanza, ma c’è l’innegabile problema che i vaccini disponibili sono per ora insufficienti, e che numerose Regioni italiane non sono ancora efficienti nel merito. Perché ci siamo mostrati impreparati? La verità è che l’influenza A ha colpito con un certo anticipo, rispetto alle altre influenze stagionali. Il picco registrato tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre ha colto di sorpresa e provocato una serie di ritardi a catena. E molte Regioni italiane lamentano carenza di farmaci e lentezze nella consegna. Che fare, in attesa che la grande macchina burocratica recuperi il tempo perso? Occorre seguire una serie di regole empiriche e comportarsi con buon senso. Innanzitutto norme igieniche: lavarsi le mani, evitando di sfiorare viso, naso e bocca. E poi coprire bene il corpo. In caso di tosse e starnuti è bene coprire bocca e naso con un fazzoletto, e poi è necessario areare i locali in cui si risiede: casa o ufficio. È importante inoltre stabilire una distanza di sicurezza, per così dire. Evitare cioè baci e abbracci, almeno per un po’.


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6 novembre 2009 • pagina 11

«Quello di Pierluigi Bersani è un progetto che guarda al passato»

Ennesima rivelazione del figlio del sindaco di Palermo

Un’altra fuga dal Pd: lascia anche Calearo

Ciancimino: «Provenzano tradì Totò Riina»

ROMA. Massimo Calearo starebbe per lasciare il Partito democratico. A quanto apprende l’agenzia di stampa AdnKronos, che lo ha annunciato nel pomeriggio di ieri, l’ex presidente di Federmeccanica, avrebbe già dichiarato la sua intenzione al neosegretario, Pierluigi Bersani, al quale avrebbe spiegato che l’attuale Pd non corrisponderebbe più alla sua storia personale e, soprattutto, al progetto di Walter Veltroni di un partito moderato e riformatore. Calearo, schierato con Dario Franceschini al congresso, aveva più volte nelle scorse settimane mandato segnali chiari, definendo quello di Bersani un progetto che «guarda al passato». E poco dopo l’annuncio delle agenzie, sono arrivati i primi commenti alla notizia. Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari ha sottolineato che «come ho compreso le ragioni di Francesco Rutelli, posso capire Calearo. Se dà ragione all’ex leader della Margherita, si vede che anche lui condivide le sue idee sul pericolo che il Partito democratico sta correndo. Detto ciò, mi auguro di essere smentito nei prossimi mesi dalla politica di Bersani».

PALERMO. Massimo Ciancimi-

Lorenzo Dellai, presidente della provincia autonoma di Trento, già fondatore della Mar-

Banda larga addio «Non ci sono i soldi» Letta fa marcia indietro: salta l’investimento del governo di Alessandro D’Amato

ROMA. Ci sono altre priorità, la banda larga può aspettare. A dirlo chiaro e tondo, frustrando così sia le speranze di Telecom che quelle dei provider e degli utenti di internet, è Gianni Letta: «I soldi per la banda larga li daremo quando usciremo dalla crisi», ha detto il sottosegretario alla presidenza del consiglio riferendosi agli 800 milioni che il governo aveva promesso di dare da mesi nell’ambito del cosiddetto Piano Romani, che doveva complessivamente valere 1,47 miliardi di euro. E avrebbe dovuto, nelle intenzioni del governo e di Telecom, portare nelle case degli italiani in tre anni internet veloce: 20 megabit al secondo per il 98% degli italiani e 2 mebabit per gli altri. Un piano ambizioso se confrontato con l’attuale situazione, ma nel complesso inferiore a quello di altri paesi europei. Dove i piani nazionali (in Francia e Germania) progettavano di portare velocità pari a 50 o 100 megabit in cinque anni, con investimenti pari anche a otto volte quelli italiani, e che toccavano tutta la popolazione. In più, l’Europa ha stimato che la banda larga porterà un milione di posti di lavoro fino al 2015 e una crescita dell’economia europea di 850 miliardi di euro. In Italia, secondo i dati del consorzio Eolo, almeno un terzo delle aziende e il 12% della popolazione continua a non potere essere presente in rete. E questo avviene in un paese in cui il 48,4% della popolazione risiede in aree urbane, il 38% in aree suburbane e il 13,6% in aree rurali. Sui fondi la polemica era stata già sollevata durante l’estate, e sempre da Telecom Italia, che attendeva un ok per la fine di giugno ma si era sentita rispondere dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, dovendo far fronte a spese prioritarie come l’acquisto dei vaccini per l’H1N1, lo sblocco sarebbe stato rinviato alla fine dell’anno. Adesso è arrivata la parziale doccia fredda: i fondi rimarranno congelati al Cipe finché non passerà la crisi economica, pronti, è facile supporlo, ad essere utilizzati per una prossima emergenza. Con il risultato che il piano di am-

modernamento della rete dovrà essere ulteriormente rinviato. Anche se Romani ha fatto sapere che saranno comunque disponibili altri 400 milioni derivanti dai fondi europei e da protocolli già firmati con le Regioni. Ma forse una soluzione c’è. «Purtroppo lo prevedevo», ha dichiarato Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, commentando le dichiarazioni. «Resta prezioso - ha aggiunto Calabrò, entrando al Quirinale per la cerimonia dei Cavalieri del lavoro - l’intervento della Cassa depositi e prestiti». Una proposta lanciata a Capri dallo stesso presidente della Cassa, Franco Bassanini, e che potrebbe tornare d’attualità a breve adesso che il governo si è tornato indietro. Ma bisognerà vedere come si potrebbe muovere la CdP e cosa potrebbe succedere con Telecom: spesso si è indicata la Cassa come la destinataria dell’eventuale vendita della rete pubblica, in caso di scorporo. Ma l’ex monopolista, con la guida di Franco Bernabé, ha sempre escluso ogni possibilità di alienare l’infrastruttura, caldeggiata invece dai concorrenti, per sfruttare i vantaggi della situazione. Anche gli azionisti più forti, tra cui Telefonica, hanno sempre detto no allo scorporo. Un’ipotesi di copertura dell’investimento pura e semplice è invece più probabile anche all’epoca Bassanini sottolineò che si aspettava di vedere “un piano finanziario credibile, e il benestare del ministro del Tesoro”.

«Ora ci sono altre priorità: gli 800 milioni per le tecnologie li daremo quando sarà finita la crisi», ha detto il sottosegretario

gherita e oggi uno dei promotori del “Nuovo Centro”, ha voluto commentare così: «L’addio di Massimo Calearo? Non lo vedo come un segnale di crisi del Pd o un preannuncio di scissione, ma piuttosto come una evoluzione del quadro politico: vuol dire che questo tipo di assetto bipolare mostra segni di stanchezza e quindi ci possono essere persone che avvertono questa difficoltà e cercano vie di uscita». Quanto alla possibilità che altri esponenti del Pd o rappresentanti del mondo imprenditoriale possano seguire l’esempio di Calearo, Dellai ha spiegato di non «credere in proprietà transitive: è una decisione personale che vale soprattutto come segnale di disagio».

no, figlio dello storico e chiacchierato sindaco palermitano, continua a snocciolare a scoppio ritardato la sua verità sulla mafia degli anni Novanta. Stavolta la “notizia” è che sarebbe stato Bernardo Provenzano a tradire Totò Riina, svelando il nascondiglio in cui poi fu catturato: «Ha consegnato lui le mappe della locazione dove poi è stato trovato Riina. Comunque non posso fare altre dichiarazioni per rispetto dei magistrati con i quali sto parlando». Secondo questa sua ricostuzione, fatta agli inquirenti di Palermo, che nel periodo delle stragi mafiose del ’92 l’allora capitano del Ros Giuseppe De Donno gli consegnò delle

Tra i concorrenti, è invece comprensibile la risposta di Fastweb: «Del congelamento degli investimenti pubblici sulla rete a banda larga abbiamo letto sui giornali. Questi fondi servivano per coprire il ’digital divide e interessavano Telecom Italia. Per noi non vediamo nessun impatto. I nostri investimenti non sono legati all’intervento del governo», ha detto Stefano Parisi, amministratore delegato dell’azienda svizzera, interpellato sul tema da un analista durante la conference call sui conti del gruppo. La fibra di Fastweb già garantisce internet veloce agli utenti.

mappe di Palermo, chiedendogli di darle a suo padre Vito Ciancimino e sperando di avere un contributo utile per l’arresto del boss latitante. Don Vito avrebbe trattenuto una copia delle mappe e un’altra l’avrebbe affidata al figlio perché la consegnasse a un uomo di fiducia del geometra Lo Verde, il nome con cui l’ex sindaco indicava Provenzano. L’emissario del capomafia avrebbe, poi, restituito a Ciancimino la mappa con un cerchio proprio sopra la zona del quartiere Uditore in cui si nascondeva Riina. La cartina venne poi fatta avere ai carabinieri e Riina nel gennaio ’93 finì in manette. Ciancimino, poi ha parlato di una serie di nastri contenenti le registrazioni dei colloqui che a suo dire il padre Vito incideva di nascosto per documentare i propri incontri con i carabinieri e che sarebbero custoditi in una cassetta di sicurezza a Vaduz, nel Lichtenstein.

Insomma, in un colpo solo Ciancimino getta un’ombra sulla capacità investigativa dello Stato (la cattura di Riina è sempre stato considerato un capolavoro delle nostre forze di sicurezza) e certifica l’esistenza di una lotta fratricida all’interno di Cosa Nostra negli anni Novanta.


il paginone

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Gianfranco Fini ha descritto il suo nuovo orizzonte politico in un libro-pamph Sotto forma di una lettera di «consigli non richiesti ai ragazzi nati nel 1989», il pr

Anatomia del fin Il grande approdo al liberalismo storico che si oppone al populismo berlusconiano, rischia di essere “tradito” dal laicismo e dall’autocensura sul concetto di nazione di Riccardo Paradisi eader politici, candidati premier, aspiranti statisti affidano ormai sempre più spesso a un libro l’annuncio della loro discesa in campo, l’esposizione del loro manifesto programmatico, del pantheon di valori che ispirerà il loro percorso, la visione della società e del Paese che vorrebbero condividere coi loro lettori-sostenitori.

L

È stato il caso di Silvio Berlusconi, ormai molti anni fa, con la pubblicazione dei suoi “Discorsi per la libertà”, è il caso del leader conservatore britannico David Cameron che pubblica La mia rivoluzione conservatrice, è stato il caso del presidente francese Nicolas Sarkozy i cui libri tradotti in Italia – Lo Stato, la religione, la laicità (2005) e Testimonianza (2007) – sono stati anticipati dalle prefazioni di Gianfranco Fini. Testimonianza

alla cui leadership Fini punta ormai sempre più chiaramente in una logica di successione a Silvio Berlusconi. Sicchè Il futuro della libertà (Rizzoli) potrebbe contenere la road map del futuro prossimo venturo del centrodestra italiano. Del resto, usando l’espediente letterario della lettera aperta ai ventenni, ai ragazzi cioè nati nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, e proponendo loro un patto generazionale di reciproca assunzione di responsabilità, Fini tenta di ancorarsi molto concretamente al futuro che si candida a voler

Le fratture nel cuore del Novecento

L’anno di svolta secondo Fini è il 1968 quando la voglia di cambiamento dei ragazzi europei esplode in forma di contestazione politica nelle fabbriche e nelle scuole di Sarkozy era proprio una sorta di manifesto programmatico, con digressioni personali (la crisi matrimoniale con Cecilia) e sulla sua formazione culturale. «Un contributo originale a una grande costruzione collettiva che riguarda l’ evoluzione della destra e la Quinta Repubblica voluta da De Gaulle», scriveva Fini nell’introduzione, accennando a ciò che con sano pragmatismo - si deve «salvare» e si deve «buttare» nel percorso storico di una famiglia politica. Elementi quelli della biografia personale che nel libro di Fini sono totalmente assenti. Forse è proprio nel periodo dell’uscita dei libri di Sarkozy che anche in Fini, alla ricerca di se stesso e di un’identità culturale per la destra italiana, è nata l’esigenza di mettere in forma una nuova tabula mundi per la destra italiana,

Sopra, Mussolini e Hitler insieme a Roma, in occasione del famoso incontro del 1938. Sotto, il padre della rivoluzione bolscevica, Lenin

costruire e governare. Con quali idee? Con quale offerta politica? Con quale visione? Il futuro della libertà è una riflessione rivolta all’avvenire, ma è evidente che immaginare un futuro senza avere una cognizione del presente e una narrazione del passato sarebbe una vuota esercitazione retorica. Fini se ne rende perfettamente conto, così che dopo una breve premessa di principio sulla fine delle ideologie e il positivo avvento della società aperta – temi su cui Fini tornerà per tutto il libro – il presidente della Camera ricostruisce la storia degli ultimi 50 anni della nostra storia, ossia del lungo dopoguerra che ha segnato le coscienze e la percezione del mondo di tutte le generazioni precedenti ai ragazzi della classe ’89.

Sono pagine efficaci quelle dove Fini racconta l’atmosfera psichica prima ancora che politica che avvolgeva l’Europa divisa dalla cortina di ferro e consegnata alla logica dei blocchi. Pagine dalle quali traspira l’idea di un’Europa a libertà limitata. Dimensione sconosciuta alla generazione F, così Fini chiama i ragazzi dell’89, che s’è trovata a nascere in un’epoca di libertà senza poter avere un termine comparativo con il mondo che l’ha preceduta. Per questo Fini ritiene utile raccontare ai ragazzi dell’89 il percorso faticoso di questa libertà, percorso che sfocerà con l’abbattimento del muro di Berlino. L’anno di svolta secondo Fini è il 1968 quando «la voglia di cambiamento dei ragazzi europei esplode in forma di contestazione politica. La protesta parte dalle università e l’anno successivo dilaga nelle scuole e nelle fabbriche. I capelli dei ragazzi si allungano e si accorciano le gonne delle ragazze». Ci sono molte differenze tra Fini e Sarkozy – a partire dalla prosa dei libri: piana, didascalica e a tratti paternalistica quella dell’ex leader di An e concitata, rapida e zeppa di formule assassine quella del presidente francese – una di queste è appunto il giudizio sul 68. Per Sarkozy l’origine della deriva edonistica e della deresponsabilizzazione di massa, per Fini la rottura di un ordine statico e superato. Eppure le aperture di Fini sul ’68, a parte delle riserve, non tengono troppo in conto che il movimento di contestazione che si opponeva al


il paginone

hlet intitolato “Il futuro della libertà” appena pubblicato da Rizzoli. residente della Camera lancia il suo manifesto per il “dopo-Berlusconi”

nismo

Arriva il 1989 e il mondo cambia all’improvviso

Dall’alto, la caduta del Muro di Berlino, i carri armati in piazza Tiananmen a Pechino e l’uomo che ha dissolto l’Urss, Michail Gorbaciov

vecchio ordine occidentale, che poi era il capitalismo democratico del modello renano, era lo stessa che marciava contro la guerra in Vietnam e il Brasile fascista senza vedere che oltre cortina, a pochi chilometri dall’Europa libera, gli operai polacchi chiedevano il pane. L’altro punto di svolta del dopoguerra sono per Fini sono gli anni ‘80. Un decennio che segna un’inversione di rotta culturale rispetto agli ideologismi novecenteschi. Dove il pontificato di Woytila, la presidenza Reagan, il dispiegarsi dell’economia immateriale e della tecnologia, combinati col qualunquismo post-ideologico degli attuali quarantenni, assestano un nuovo e formidabile colpo al muro

del totalitarismo. Insomma la ricostruzione della guerra fredda e del suo esito, con la vittoria del mondo libero, è quella della vulgata liberale più comune, la stessa da cui Fini trae gli strumenti anche per l’analisi dei totalitarismi, con ampie citazioni di Hanna Arendt.

Il pregio di Fini è di non trascurare la critica a un liberalismo progressivo e ingenuo, quello della fine della storia e della mano invisibile del mercato come regolatore spontaneo della società. Per questo Fini non nasconde che la libertà comporta anche dei rischi, come l’affermarsi di nuove elites economiche insofferenti ad ogni controllo e limite. Per questo scrive il presidente della Camera: «il principio democratico deve sposarsi con quello liberale delle garanzie, dei diritti e dell’equilibrio tra i poteri di uno Stato». Di fronte al rischio nichilista Fini riafferma invece il principio del dovere civico e di fronte ad un anarchico principio di piacere, che predica per esempio la droga libera, ribadisce le ragioni d’un proibizionismo fondato sull’etica civica e la responsabilità pubblica. La destra come categoria politica è nominata quasi per nulla nel libro, ma sono di destra la sua difesa delle istituzioni e il costante richiamo al principio di realtà e di responsabilità ed è un retaggio conservatore la chiusura verso ogni deriva populista come il richiamo reiterato all’equilibrio tra libertà di mercato e giustizia sociale: «Passare dalla dittatura del proletariato alla dittatura del Pil può non avere rappresentato un grande passo avanti per molte persone dell’ex impero sovietico e dell’Europa dell’est» E anche: «Una rinnovata attenzione al profilo sociale dell’economia globalizzata deve farsi largo presso le classi di governo dei Paesi industrializzati». Nel riflettere su questi temi a Fini manca però un po’di coraggio o se di preferisce l’umiltà e la fierezza di ripercorrere la propria storia e ritornare al proprio recente passato. Non per sottolinearne gli errori – come del resto Fini coi suoi strappi ha già fatto – ma per rivendicarne stavolta intuzioni e meriti. A partire dall’anticomunismo, posizione che solo la destra, nel dopoguerra italiano, ha tenuto senza cedimenti e pagandone un prezzo altissimo anche in termini di vite umane, di fronte a una generale compromissione del Paese con un’ideologia spaventosa, di cui si conoscevano i crimini ben prima della caduta del Muro e che pure nell’Europa libera che snobbava Solgenitsin, godeva di simpatie e di complicità. Un altro merito della grande cultura di destra europea, da Fini incomprensibilmente trascurata, è la critica al nichilismo che il presidente della camera pure mette a tema. Tra quelle opportune di Von Hayek e di Popper un richiamo ad Heidegger o a Junger non avrebbe certo macchiato la carta d’identità liberale di Fini. Infine il presidente della Camera si dimostra timido sul tema della questione nazionale. Declinandola in un debole patriottismo costituzionale«Si affermò così, pur nella guerra fredda – diceva Ferdinando Adornato in un recente convegno di liberal sulla nazione – una sorta di “patriottismo co-

stituzionale” dove però la parola-chiave era costituzione. Fuori dalla Carta, infatti, nella cultura e nella società, la parola patria e anche la parola nazione vennero lasciate in gestione alla destra preferendo la sinistra coltivare la tragica utopia dell’internazionalismo proletario e astenendosi la cultura cristiana (e i residui di quella liberale) dal rivendicare valori, sia pur ad essa familiari, che potessero però far nascere qualsiasi sospetto su possibili “deviazioni” di destra. Persino il tricolore, manifestazioni istituzionali e ufficiali a parte, era meglio non circolasse, se non nelle piazze di destra. Come se nominare l’Italia come soggetto storico-morale significasse, evocare un’entità atta a turbare il compromesso costituzionale sul quale si reggeva il sistema. Così, dagli anni Sessanta in poi, l’Italia tornò con tutta evidenza a manifestarsi come uno Stato senza nazione. Anzi, per essere più precisi, uno Stato con “due nazioni”. Una democrazia vincolata dal dettato costituzionale, ma sostanzialmente orfana di un’identità eticopolitica condivisa, perché fratturata in due distinte “comunità di valori”; separate non solo dal bipolarismo mondiale tra Usa e Urss ma anche da miti, sentimenti, letture, modelli di vita». Paradossale che a rivendicare i meriti della destra debba essere un’intellettuale liberale oggi impegnato al centro e non l’ex segretario del Movimento sociale italiano Gianfranco Fini.

Tra le citazioni di von Hayek e di Popper un richiamo ad Heidegger o a Junger, esponenti della destra europea, non avrebbe macchiato la carta d’identità liberale di Fini E d’altra parte basta il patriottismo costituzionale o la legge sulla cittadinanza per favorire una reale integrazione e assorbire in maniera virtuosa i flussi migratori che investono l’Italia e l’Europa? Davvero ci salveranno le maestre elementari, come si deduce dai discorsi di Fini sull’integrazione che deve avvenire nelle scuole primarie, dai contraccolpi ultraidentitari degli immigrati di seconda generazione come sta avvenendo in Francia e in Gran Bretagna? Fini affida all’Europa il mito unificante che dovrebbe unire e integrare popoli diversi. L’Europa delle Cattedrali – dice Fini – trascurando però di dire che alle basi di questa Europa non si sono volute mettere le radici cristiane. E che dei giudici europei definiscono con una sentenza pericoloso per il pluralismo il crocefisso nelle scuole italiane. Una destra conservatrice e liberale potrebbe spendere parole più decise verso certe derive, non lasciando il campo della difesa dell’identità culturale del Vecchio continente a destre razziste, xenofobe e antieuropee. Coerentemente con le sue posizioni Fi-

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I tre modelli della nuova destra Europea

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, il leader tory David Cameron e l’ex premier spagnolo José Luis Aznar: Fini spesso fa riferimento a loro

ni affronta anche il tema del fine vita e della laicità sulle questioni bioetiche: «Il caso di Eluana Englaro – scrive Fini – ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del fare ma secondo le linee novecentesche dell’essere, vale a dire le linee, in definitiva rassicuranti ma immobili dell’identità». Eppure, si potrebbe replicare a Fini, non è stata la volontà d’azione e di potenza senza la luce della comprensione e dell’essere a gettare l’europa nell’incubo totalitario? e precisare che nel caso di Eluana Englaro non si è trattato di rifiuto di accanimento terapeutico ma di cessata somministrazione di cibo e acqua. Sono particolari. Ma a volte è su questi particolari che si misurano le idee.


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Afghanistan. Costretti a tornare a casa anche i delegati inviati nel nord-est del Pakistan, mentre la popolazione perde fiducia

L’Onu fugge da Kabul Il Palazzo di vetro richiama i funzionari stranieri E la ricostruzione rischia una battuta d’arresto di Antonio Picasso probabile che la decisione dell’Onu di ritirare la metà del suo personale straniero dall’Afghanistan susciterà molte polemiche. Ieri, in un comunicato delle Nazioni Unite, si leggeva che dei 1.300 funzionari non afgani dipendenti del Palazzo di Vetro e attualmente presenti nel Paese centro-asiatico, circa 600 verranno «ricollocati temporaneamente in altre sedi». I delegati Onu afgani, invece, non verranno toccati da questo taglio. Si tratta di una scelta dettata dalla mancanza di condizioni di sicurezza per i civili, che Kabul - ma a questo punto anche i contingenti stranieri lì presenti - non sarebbero in grado di garantire. Secondo l’Onu, le forze di sicurezza nazionali e la Nato sarebbero incapaci di proteggere i diplomatici e i tecnici impegnati nei progetti di ricostruzione del Paese. Il Palazzo di Vetro ha fatto questa scelta anche in seguito agli attentati che hanno coinvolto direttamente i suoi funzionari. L’ultimo caso risale alla fine di ottobre, quando un attacco alla sede dell’Onu di Kabul è costato la vita di cinque persone. D’altra parte, come ulteriore giustificazione, bisogna ricordare che la conclusione delle elezioni presidenziali - con l’annullamento del ballottaggio e l’automatica

È

conferma di Hamid Karzai alla guida del Paese - prevede di per sé il ritiro di una parte di osservatori non afgani.

Le conseguenze di questa scelta tuttavia sono immaginabili. Si dirà che le Nazioni Unite abbandonano l’Afghanistan a se stesso. Agli stessi talebani sarà offerta la possibilità di accusare la comunità internazionale di aver riacceso la guerra nel Paese e adesso di lasciarlo allo sbando. Non bastano infatti le rassicurazioni che si leggono nella già citata nota in cui si dice che da una parte l’Onu riduce la sua presenza, ma dall’altra non «abbandona la popolazione afgana». Quello che

to meno di un’evacuazione». Qualunque cosa essa sia, in quanto non è stata indicata, ciò che conta è che l’Onu non prevede al momento un eventuale ritorno di questi suoi 600 dipendenti ricollocati. Aggiungiamo a questo la decisione, presa sempre a New York lunedì scorso, di richiamare a Islamabad i funzionari a loro volta impegnati nelle Province nordoccidentali del Pakistan. Motivo, anche in questo caso, la mancanza di sicurezza che il governo pakistano e le sue Forze armate non offrirebbero agli operatori stranieri. Da qui la riflessione per cui mentre prima della presenza straniera in Afghanistan si poteva parlare, alme-

La decisione è stata presa formalmente per motivi di sicurezza, dopo l’attentato mortale che ha colpito gli uffici delle Nazioni Unite la scorsa settimana. Per Kai Eide «non stiamo scappando» risulta, a prima vista, è un disimpegno significativo da parte di un attore fondamentale nella gestione della crisi centro-asiatica. A questo proposito, perde di valore anche la dichiarazione del capo missione Onu in Afghanistan, il diplomatico norvegese Kai Eide, il quale ha voluto precisare che «non si tratta di un ritiro a tutti gli effetti, o tan-

no in apparenza, come di un’operazione internazionale di peacekeeping, ora il realismo suggerisce di ammettere che si tratta una guerra a tutti gli effetti. Resta l’obiettivo di pacificare il Paese e preservarlo dal ritorno di un regime antidemocratrico com’era quello talebano. Tuttavia, sembra che oggi la comunità internazionale abbia

deciso di realizzare il progetto in due tempi. Nel primo step concentrandosi sulle attività militari, per poi procedere alla ricostruzione. Tecnicamente si tratta di una strategia che potrebbe dare quei frutti non ancora raggiunti. D’altra arte, è legittimo chiedersi cosa sarà dei progetti tuttora in corso in Afghanistan. Saranno abbandonati, oppure demandati alla Nato e ai suoi singoli membri? Dal 2002 a oggi, da quando cioè è iniziata ufficialmente la missione Onu in Afghanistan (Unama), la comunità internazionale aveva sottolineato la necessità

di procedere su due binari paralleli: da una parte l’operatività dell’Alleanza atlantica, dall’altra i progetti di ricostruzione, lotta al narcotraffico e alla corruzione, nonché la definizione di una politica economica di lungo periodo. Cosa succederà adesso? Questa seconda parte dell’impegno internazionale in Afghanistan sarà gestito da altri. Da chi però?

Alla promessa di Karzai di intervenire contro la corruzione, ha fatto seguito una dura critica da parte degli Stati Uniti. La Casa Bianca, pur ricono-

Kouchner attacca «il corrotto Karzai, che comunque va sostenuto», e la disorganizzazione della coalizione europea

L’accusa di Parigi: «Così la Nato non funziona» a Nato in Afghanistan «non sta funzionando per niente. Quali sono le strategie? Qual è la strada da seguire? E in nome di che cosa?». Non usa mezzi termini Bernard Kouchner, ministro degli Esteri francese, che punta il dito contro «la disorganizzazione della coalizione e l’assenza degli americani». Abbiamo bisogno di parlare, spiega il capo della diplomazia dell’Eliseo, «come europei, come un’Europa veramente unita, agli americani. Non possiamo più aspettare che sia Washington a prendere tutte le decisioni». La posizione del presidente americano Obama, che parla di una nuova strategia per l’Afghanistan, «va

L

di Vincenzo Faccioli Pintozzi apprezzata, ma dove sono gli americani? Inizia ad essere un problema. Dobbiamo parlare fra di noi come alleati». Un problema che non riguarda soltanto lo scambio fra Nato e Isaf, ma che colpisce anche il rapporto intra-europeo: «Ma è possibile che la nostra coalizione si comporti in maniera così sconclusionata?».

I tedeschi «reagiscono soltanto se gli sparano addosso, e ogni membro del Patto ha differenti regole di ingaggio. Inoltre, all’interno dei nostri Paesi di provenienza, parliamo e ci comportia-

mo come se fossimo in guerra: ma fra di noi non ne parliamo. È una cosa vergognosa: dobbiamo cooperare veramente e migliorare la struttura di comando». Le dichiarazioni sono state fatte ai giornalisti parlando dal Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese. Le accuse del ministro, con un passato da fondatore di Medici senza Frontiere, non hanno risparmiato il rieletto presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai: «Siamo tutti d’accordo, è un corrotto. Ma la corruzione è endemica in quel Paese, e lui è il nostro uomo. Nonostante sia stato pesantemente

indebolito dalle numerose frodi che hanno gravato sul processo elettorale. Dobbiamo legittimarlo, se la Nato vuole veramente consolidare l’Afghanistan per poi andarsene».

Una stoccata anche agli opinionisti occidentali: «Chi non conosce il Paese e ne vuole parlare per forza, parla di brogli e storce il naso. Certo, le frodi annullano il senso politico dell’operazione: ma qui non parliamo di politica, parliamo di buon senso». La Francia, ha confermato il ministro, ha dato a Karzai «un’agenda composta da nove punti, che riguardano tutti la riforma del governo. Inoltre, siamo stati tutti


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Le istituzioni fanno un passo indietro perché non sono riuscite nel loro scopo

«È stato l’Occidente a sbagliare ricetta» di Pierre Chiartano oppositore di Karzai si ritira dal ballottaggio, l’Onu ritira parte del personale internazionale e quattro nostri militari rimangono feriti nell’ennesimo agguato. L’Afghanistan sembra essere sempre più una sciarada incomprensibile. Il generale Fabio Mini, grande esperto di missioni militari all’estero, ci da alcune indicazioni utili per capirla meglio. Karzai alla fine l’ha spuntata perché non esisteva una vera opposizione? L’opposizione non c’è perché è mancato l’impegno della comunità internazionale. È inutile nascondersi dietro un dito. Da quando, nel 2006, a Londra fu sottoscritto l’Afghanistan compact, che era l’aggiornamento di un patto congiunto. Uno degli obiettivi principali era quello di far sviluppare una società civile. E non vuol dire solo togliere il burqa alle donne, significa formare una classe cosciente di cittadini che crei delle alternative. Si è andati, invece, verso una sorta di pensiero unico che ha prodotto un unico candidato alle presidenziali. In verità gli americani ci avevano provato. Avevano fatto capire a Karzai che non fosse l’unico candidato, sostenendo Abdullah Abdullah e altri uomini prima delle elezioni. Quello che non aveva fatto l’intervento internazionale per sviluppare strutture, comunità civile e produrre varietà politca, si tentava di farlo con delle manovre elettorali. Abbiamo visto con quali risultati. Se oggi non c’è opposizione è perché sono in pochi a costituire un’alternativa. Lo Stato afghano nasce nel 1747 con una monarchia basata sul concetto di primus inter pares, come lei ha scritto anche su Limes. I piani internazionali hanno mai tenuto conto di questa realtà? Questo è assodato. Perciò la costruzione delle istituzioni non ha funzionato. Hanno tentato un trapianto di democrazia di marca occidentale, dove è possibile aver un’autorità centrale che amministri un Paese. Come ho scritto, non solo il re era un primus inter pares, ma a volte, non era neanche primus. Gli veniva riconosciuto solo un ruolo di mediazione tra i capi tribù e la funzione, che interessava a pochi, di rappresentare lo Stato all’estero. Ma quando andava nella Loya jirga o tra i capi tribali, il monarca doveva faticare parecchio per trovare un accordo. E il suo compito era solo quello, non poteva imporre nulla. Suggerisce che sarebbe un’evoluzione di quel modello a poter funzionare in Afghanistan? Sì, di dovrebbe tornare a una democrazia che assomigli a quella tradizione. Con una rap-

L’

Sopra, un mezzo corazzato trasporta personale delle Nazioni Unite fuori da Kabul. In basso, il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner. A destra, il generale Fabio Mini scendo la conferma del leader pashtun alla presidenza del Paese, ha ricordato che finora il governo di Kabul non ha risolto il problema e che soprattutto non sembra avere in mente una soluzione per il futuro.

Ieri, a sua volta, il Ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ha espresso in modo inequivocabile il proprio pessimismo. Ha ammesso che Karzai è un corrotto. «Tuttavia, non

può che essere appoggiato», ha aggiunto. Per poi concludere: «La Nato in Afghanistan non sta funzionando per niente». Il capo della diplomazia transalpina ha rimproverato anche la mancanza di dialogo fra Usa e governi europei. È un atteggiamento quello di Parigi, come quello di Washington che mal si accompagna con la sensibile riduzione dell’impegno da parte di un soggetto tanto importante come sono le Nazioni Unite.

d’accordo nel dire che al nuovo esecutivo deve quanto meno collaborare il candidato sconfitto, Abdullah Abdullah». Per quanto riguarda invece lo svolgimento della guerra, Kouchner ha una ricetta precisa: «È impossibile occupare l’Afghanistan o sconfiggere i talebani rintanati sulle loro montagne. Per questo, la Nato non deve cercare una vittoria militare; deve concentrarsi sul consolidamento e sulla messa in sicurezza di alcune, selezionate aree popolate». E questo perché quella in corso «è una guerra pashtun. Se vogliamo avere un effetto reale, arrivare a raggiungere uno scopo importante in quel teatro, è necessario operare vicino al popolo afgano: non contro di loro. Come sembra che a volte accada».

presentazione di tutte le etnie, senza scandalizzarci per un governo con sessanta ministri, come è successo in Somalia. Uno scandalo solo per i parametri occidentali. Lì sono incarichi non funzionali, ma rappresentativi. Si nomina un ministro non per svolgere un compito, ma per dare rappresentatività a un’etnia, a una tribù, a un clan. Come nell’Italia di qualche tempo fa? Sì… hanno il loro manuale Cencelli! In Afghanistan c’è un tentativo che chiamano decentramento del potere. Sullo stesso modello di quello applicato nei Balcani. Non funziona, perché segue la tradizione occidentale delle amministrazioni locali. Invece serve tenere conto dei capi di tribù, clan e famiglie che hanno un radicamento fortissimo sul territorio. Non lo puoi cambiare. In Waziristan a fine Ottocento si facevano massacrare da inglesi e indiani, per non venir meno alla parola data, per difendere l’asilo dato a un bandito. Ha citato l’India. Potrebbe essere funzionale alla stabilizzazione del Paese? Sì, potrebbe avere un ruolo, ma sarebbe un’ulteriore complicazione. Non è escluso che Dehli, già ora, non abbia un ruolo. Nel senso che tutto ciò che è male per il Pakistan è bene per gli indiani. Si ragiona ancora così. L’India è un Paese molto complesso, lontana dall’immagine di democrazia più popolosa del mondo che ci siamo costruiti. Tutto ciò che può far male a Cina e Pakistan può far bene a loro. Ragionano così. Sicuramente stanno già operando per ridimensionare il ruolo di Islamabad in Afghanistan. Gli Usa non stanno cercando di far sedere allo stesso tavolo New Dehli e Islamabad? Ci stanno provando, ma non so fino a che punto si rendano conto di quanto sia complicato.Tutto ciò che si concede all’India nel gioco asiatico è una diminutio per l’Afghanistan che sarebbe sempre meno indipendente. Sarebbe un ritorno, non al Grande gioco delle potenze mondiali, ma al piccolo gioco delle potenze regionali, per spartirsi il Paese. Come giudica la decisione dell’Onu di ritirare parte del personale? È gravissima. Primo perché non viene garantita la sicurezza. Forse c’è anche qualcosa d’altro. Può darsi che Isaf e Usa non possano dare la sicurezza richiesta. Oppure che l’Onu preferisca usare le compagnie private. Ora le garanzie di sicurezza non ci sono e c’è anche da sottolineare l’atteggiamento rinunciatario delle Nazioni Unite. Ridislocano il personale che rimane sempre numeroso, in aree sicure... Sì, che non sono le zone controllate da Isaf, dove muoiono i militari americani e inglesi.

Le proposte fatte a Londra nel 2006 prevedevano lo sviluppo di una società civile. Obiettivo fallito. Oggi si tenta un decentramento che non funzionerà


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quadrante Spagna. Il sistema Sitel permette di controllare tutte le sim. Popolari all’attacco

l governo spagnolo è alle prese con due grosse grane che, insieme alle fosche previsioni sulla ripresa economica, potrebbero decretarne la caduta. La prima riguarda la feroce polemica scatenata dall’opposizione per l’uso disinvolto di un sistema informatico che permetterebbe di ascoltare le conversazioni telefoniche tra privati cittadini. La seconda invece, investe l’integrità territoriale della Spagna, minacciata da un referendum per l’indipendenza promosso da 130 comuni catalani. Come annunciato da Uriel Beltran, esponente degli indipendentisti catalani, il 13 dicembre si terrà una consultazione popolare sull’autodeterminazione della Catalogna, in presenza anche di osservatori internazionali. Per Uriel, i referendum sono solo l’anticipo di un grande plebiscito indipendentista che si dovrà realizzare a breve in Catalogna ed il cui risultato dovrà essere convalidato dalla comunità internazionale - come in Kosovo - e non dalla Spagna. Secondo un sondaggio dell’Istituto Noxa pubblicato tre giorni fa da La Vanguardia, la maggioranza dei catalani (53%) appoggia la realizzazione del referendum, ma solo il 35% è a favore dell’indipendenza.

I

Il governo è finito anche nel mirino del Partido Popular poiché, dalla prossima settimana, quando in Spagna entrerà in vigore l’obbligo per gli utenti di sim prepagate di comunicare i dati personali alle compagnie telefoniche (pena la sospensione del servizio), avrà la possibilità di controllare tutto il traffico telefonico spagnolo. “Sitel”, (Sistema integrato di intercettazione telefonica) questo il nome del software incriminato, è in grado di spiare le telefonate dei cellulari. Nel 2000, l’allora premier conservatore José María Aznar, incaricò la compagnia svedese Ericsson di sviluppare un sistema informatico per facilitare il lavoro di ascolto segreto delle telefonate. Si voleva offrire uno strumento più moderno e potente alle forze di polizia e ai servizi di intelligence per la lotta contro le organizzazioni criminali dedite al traffico internazionale di stupefacenti, al terrorismo e ad altre forme di crimine organizzato. Per la realizzazione del Sitel, il governo bandì un concorso dichiarato segreto, vinto dalla Ericsson, che si aggiudicò l’appalto per 36 milioni di euro. Quando il Sitel stava per diventare operativo però, l’esecutivo decise di non utilizzarlo più a causa delle evidenti violazioni di norme di legge poste a tutela della privacy

Zapatero in crisi fra spie e catalani Bufera sul governo, che intercetta i cittadini e si avvia verso una Catalogna indipendente di Massimo Ciullo

dei cittadini. Il sistema vulnerava direttamente il diritto al “segreto delle comunicazioni” e il diritto alla privacy, così come ribadito anche da alcuni pareri espressi dal Consiglio Generale del Potere Giudiziario e dai Ministeri della Difesa e della Giustizia.

Nel 2004 però, dopo la vittoria del Psoe alle elezioni, il primo ministro socialista Zapatero decise che i tempi erano maturi per attivare il Sitel. Il sospetto dei popolari è che da cinque anni a questa parte, l’esecutivo socialista abbia approfittato del nuovo software per esercitare un indebito controllo sulle conversazioni telefoniche dei cittadini a loro insaputa. Dal punto di vista istituzionale poi, il responsabile delle Comunicazioni del Pp, Esteban González Pons, ha eccepito che il Sitel è “illegale e incostituzionale”, in quanto l’unica autorità dello Stato che potrebbe avvalersi del suo uso è quella giudiziale e non certamente il ministero degli Interni. Secondo un documento redatto dal Pp, «il Sitel permette di ascoltare le conversazioni dei cittadini senza alcun con-

Il sistema ideato per controllo era stato ordinato da Aznar, che non lo ha mai usato per la privacy

Sei omosessuali fermati sulla base della legge sulla “pericolosità sessuale”

E a Cuba il regime arresta i gay Sei omosessuali cubani sono stati arrestati e incarcerati dal regime castrista senza aver commesso alcun reato, in base alla legge sulla “pericolosità presunta”. La notizia è stata diffusa dalla Confederazione spagnola Colegas, un’associazione che riunisce gay, lesbiche e transessuali, che ha ricevuto la denuncia dalla Fondazione omosessuale cubana Reinaldo Arenas, «un’organizzazione fuori dal controllo dello Stato cubano o dei suoi strumenti di politica di educazione sessuale come il Cenesex diretto dall’illustre Mariela Castro» figlia dell’attuale dittatore Raul Castro. I sei omosessuali sono stati condannati lo scorso mercoledì dal Tribunale provinciale di Boyeros (cittadina nei pressi dell’Avana). La polizia castrista ha arrestato una coppia di gay ventenni per «aver esercitato l’attività di sarto senza la necessaria autorizzazione statale». Dopo un mese di detenzione nelle carceri del locale commissariato, senza avvertire i famigliari, entrambi sono stati condannati a 3 anni di reclusione per la famigerata legge sulla “pericolosità” presunta. Eliseo Montalvo invece è stato condannato a due anni di reclusione, dopo tre ammonizioni della polizia, per «aver intratte-

nuto rapporti con stranieri», sempre in base alle stesse norme. Gli altri tre gay hanno ricevuto condanne simili poiché “costituiscono un pericolo” per i cubani. Ai sei detenuti non sarebbe stato garantito il diritto di difesa, esercitato non da avvocati professionisti ma da giovani laureati in legge. Secondo l’organizzazione spagnola, la legge sulla “Peligrosidad Predelictiva” sarebbe ampiamente impiegata dalla polizia del regime per «arrestare quei giovani, il cui stile di vita si allontana dall’ideale rivoluzionario e che a loro dire potrebbero commettere in futuro reati dovuti proprio al loro stile di vita». Nella denuncia si legge anche che i giovani «sono costretti a firmare un atto di ammonizione e minacciati di essere rinchiusi in carcere se non cambiano e si impegnano a diventare veri patrioti rivoluzionari». La Fondazione Reinaldo Arenas accusa il regime castrista di aver messo in atto, negli ultimi mesi, una vera e propria ondata repressiva contro la comunità gay dell’isola caraibica. Nel 2007, secondo i dati dell’associazione cubana, sarebbero stati “ammoniti” circa 4000 giovani, mentre nel 2008, i gay arrestati e rilasciati nella sola Avana, sarebbero stati 3.500.

trollo giudiziario; permette che i magistrati ricevano registrazioni manipolate delle conversazioni telefoniche poiché i cd-rom mancano di una firma elettronica digitale e legale; controlla gli account di posta elettronica; localizza terze persone che non sono implicate nelle inchieste». Nella denuncia si sottolinea anche che «nessuno è a conoscenza delle informazioni che vengono archiviate, con quale criterio vengono selezionate, chi decide quali intercettazioni debbano essere inoltrate alla magistratura e chi custodisce le registrazione». La difesa dell’attuale titolare degli interni,Alfredo Pérez Rubalcaba, si è rivelata piuttosto debole: «Il Sitel è stato voluto da Josè Maria Aznar e il PP era perfettamente a conoscenza del suo uso». Rubalcaba è stato accusato di mentire poiché il governo Aznar non autorizzò mai l’operatività del sistema proprio a causa dei dubbi di costituzionalità avanzati dagli organismi interpellati dal premier. Chi lo rese effettivamente operativo fu, nel dicembre del 2004, l’attuale portavoce del Psoe, José Antonio Alonso, prima dimettersi da ministro degli Interni.


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Il Tribunale assegna un difensore d’ufficio al boia di Srebrenica

Gorbacev e Walesa si contendono il primo colpo al muro di mattoni

Karadzic, la Corte si aggiorna al marzo 2010

Dopo 20 anni, il Muro riaccende la crisi fra Russia e Polonia

L’AJA. Il Tribunale penale in-

VARSAVIA. Vent’anni dopo il

ternazionale (Tpi) dell’Aja per i crimini compiuti nella ex Jugoslavia ha deciso di imporre un avvocato d’ufficio all’ex leader serbo bosniaco, Radovan Karadzic, e di rinviare la ripresa del processo al primo marzo del 2010, per dare al nuovo difensore il tempo necessario per prepararsi. La decisione è stata comunicata al termine di una Camera di consiglio che ha analizzato la richiesta fatta martedì da Karadzic - nella sua prima ed unica apparizione pubblica davanti al tribunale dall’avvio del processo il 26 ottobre scorso - di un rinvio delle udienze di almeno dieci mesi per avere più tempo per preparare la propria difesa. Il Tpi ha ritenuto che la richiesta dell’ex capo dei serbi di Bosnia facesse parte di una tattica dilatoria. L’imposizione di un avvocato d’ufficio segue infatti la convinzione del Tribunale che Karadzic abbia «sostanzialmente e in modo persistente ostacolato lo svolgimento corretto e spedito del processo rifiutandosi di presenziare alle udienze fino a quando non avesse valutato lui stesso di essere pronto». Karadzic è accusato di crimini di guerra e contro l’umanità per i reati commessi durante la guerra di Bosnia,

crollo, il Muro di Berlino accende il protagonismo tra gli ex rivali che da una parte e dall’altra fecero del proprio meglio per abbattere il simbolo più concreto della Guerra Fredda. Lech Walesa, che nel 1980 capeggiò lo storico sciopero nei cantieri di Danzica, da sempre reclama la primogenitura nella caduta del comunismo e non vuole lasciarsi sfuggire l’occasione del prossimo 9 novembre, quando una fila di mattoni finti sarà fatta crollare come in un domino, dove una volta spostata la prima tessera cadono pure le altre. «Sono stato invitato a Berlino - ha detto l’ex presidente polacco - per togliere la prima tessera. Abbiamo noi il di-

Israele, un blitz ferma armi destinate al Libano Secondo l’intelligence, erano per gli uomini di Hezbollah di Michael Sfaradi è stato un enorme lavoro di intelligence dietro il sequestro, da parte della marina israeliana, del cargo “FrancoP”, motonave di proprietà tedesca ma battente bandiera di Antigua. Le informazioni sul carico trasportato non lasciavano dubbi ed è per questo che la marina israeliana ha fatto le cose in grande. Secondo voci bene informate la “FrancoP”è stata seguita da uno dei sommergibili “Dolphion” fin dalla sua uscita in mare dal porto egiziano di Damietta, dove aveva ricevuto, con trasbordo, il carico da un cargo iraniano. Quando è entrata in acque internazionali al largo delle coste cipriote, la Shaietet 13, il corpo d’elite dei fanti della marina israeliana, è entrato in azione ed ha preso possesso della nave dirottandola verso il porto israeliano di Ashdod. Nel momento in cui le autorità militari hanno ispezionato i containers trasportati e le stive della nave è stato è chiaro a tutti che ci si trovava davanti al più imponente sequestro di armi della storia dell’esercito israeliano. Fucili d’assalto, mitragliatrici pesanti, decine di migliaia di proiettili di ogni calibro, migliaia di mine antiuomo ed anticarro, mortai e lanciarazzi del tipo RPG erano ben imballati ed inventariati. Ma la parte più importante del carico era formato da oltre 3000 missili terraterra a media e a lunga gittata, una versione rinnovata dei devastanti Katiuscia. Il quantitativo di armi e di esplosivo era tale che le autorità portuali di Ashdod, a scanso di equivoci, hanno deciso la chiusura per diverse ore anche delle banchine che effettuano il lavoro di carico e scarico delle merci. I comandi israeliani, forti delle informazioni in loro possesso, hanno dichiarato che se questi armamenti non fossero stati intercettati e sequestrati, una volta arrivati in Siria sarebbero stati trasportati via terra verso il Libano del sud per finire in mano ad Hetzbollah nonostante la presenza delle truppe Unifil. Questo sequestro, oltre ad avere una notevole importanza dal punto di vista militare, scoperchia un “vaso di Pandora” politico ed ora saranno in molti, nei prossimi

C’

giorni, quelli che dovranno spiegare il loro operato. Il trasbordo delle armi è avvenuto all’interno di un porto egiziano, risulta difficile credere che le autorità del Cairo non fossero a conoscenza del manifesto di bordo della nave iraniana in entrata e della “Franco P.” in uscita da un loro porto. Ed ammesso che i documenti fossero falsificati risulta oggettivamente strano che non ci siano stati controlli doganali su nessuno dei container trasportati. Anche la Siria dovrà in qualche modo spiegare il suo coinvolgimento in un traffico illegale di armi verso Hetzbollah.

E poi l’Iran, mittente del carico, che continua a seminare odio e guerra in ogni angolo del Medioriente. Lo stessa Iran che vorrebbe far credere al mondo intero la sua buona fede nell’uso dell’energia nucleare, continua imperterrita a rifornire una milizia armata che in Libano è diventata uno Stato nello Stato impedendone, con la forza, ogni funzione democratica. La confisca di questo carico, non è la prima volta che armi iraniane di tutti i tipi vengano intercettate confiscate dalle forze armate israeliane, è l’ennesima prova dell’interesse di Teheran a tenere alta la tensione nella regione e di voler mantenere la promessa, più volte fatta dal presidente Ahmedinejad, dalla guida spirituale Ayatollah Khamenei e dal capo di Hetzbollah Hassan Nasrallah di distruggere lo Stato ebraico. Anche se con questa operazione Israele ha portato un duro colpo ai suoi nemici, rimane il dato di fatto che la milizia sciita Hetzbollah ha ricevuto dall’Iran, nonostante la risoluzione Onu 1701 che ne prevede il completo disarmo e come più volte denunciato dal governo israeliano, un quantitativo tale di armi che la rende oggi militarmente più forte di quello che era prima della guerra del 2006. Se le lamentele israeliane si riveleranno esatte le nazioni europee che compongono l’Unifil dovranno spiegare come sia stata eseguita la missione a loro assegnata dall’assemblea della Nazioni Unite e il perché dei mancati controlli.

Nella stiva fucili d’assalto e granate, oltre a 3000 missili terra-terra a lunga gittata: la versione rinnovata dei Katiuscia

tra il 1992 e il 1995. Gli è anche contestata l’accusa di genocidio per il massacro di 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica e per il lungo e sanguinoso assedio di Sarajevo. I capi di accusa sono sostanziati da centinaia di migliaia di pagine, documenti e testimonianza che il nuovo consulente d’ufficio dovrà visionare. «Nessun consulente, neppure il più preparato ed efficiente, potrebbe ragionevolmente essere nella posizione di assistere l’imputato senza un periodo di tempo sufficiente per la sua preparazione», ha motivato la Camera del tribunale, spiegando la decisione di rinviare la ripresa delle udienze al primo marzo del prossimo anno.

ritto di farlo perché il primo muro cadde a Gdansk nel 1980. Senza il crollo di quel primo muro, quello di Berlino non sarebbe mai andato giù». Ciò che davvero non serve a un ventennale destinato soprattutto a ricordare la Storia ai giovani è una polemica tra ex. Eppure, la celebrazione rischia di diventare proprio questo, dato che il programma provvisorio attribuisce a Mikhail Gorbaciov il compito di picconare simbolicamente il Muro, alle 19.30 del prossimo lunedì. A meritargli l’onore è stato il ruolo avuto da Segretario del Partito Comunista sovietico per quella parte degli anni Ottanta che furono segnati dalla glasnost e dalla perestrojka e dell’inizio dei Novanta con il collasso dell’Unione Sovietica. Un percorso del quale l’ex leader comunista si dice ancora oggi «orgoglioso». Il programma, ancora in via di stesura definitiva, prevede un incontro sotto la Porta di Brandeburgo fra i leader di Germania e Francia. Ancora non chiara la presenza del presidente americano Barack Obama, che ha annunciato la propria partecipazione ma che ieri ha fatto una mini marcia indietro. Non pronta neanche la lista degli altri invitati sul palco d’onore, quello da cui gli ospiti dovrebbero pronunciare un discorso.


cultura

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Anniversari. Il protagonismo politico-costituzionale è stato della monarchia, del parlamento, dei partiti, ma non del popolo

L’unificazione incompiuta Perché, a un secolo e mezzo dall’Unità d’Italia, il Paese è ancora in cerca della propria identità di Francesco Paolo Casavola roviamo a muovere dagli stati d’animo degli italiani quando loro si propone l’approssimarsi del compleanno di un secolo e mezzo dell’Unità. I settentrionali vedono i meridionali in balia di mafia, camorra, n’drangheta, sacra corona unita, di amministrazioni locali colluse con i poteri criminali. A loro volta i meridionali guardano al Nord come il luogo di elezione di poteri forti, finanziario, bancario, mediatico e di popolazioni ricche ed evolute. Le infrastrutture delle comunicazioni, autostradali, ferroviarie, aeroportuali sottolineano le differenze a svantaggio del Sud. Si aggiungono ospedali e scuole per una comparazione ancora una volta di inferiorità del Sud rispetto al Nord. Basterebbero queste grandi evidenze a giustificare l’esistenza di due Italie, e dunque di italiani non uguali a seconda dei luoghi di nascita e di vita, come se non si trattasse di cittadini di uno stesso ed unico Stato unitario.

smi tendono ad alimentarsi della sfiducia nelle istituzioni nazionali. La richiesta di fronteggiare l’emergenza sicurezza con le ronde anziché con le forze dell’ordine è un sintomo inquietante di progrediente eclisse dello Stato. Italiani divisi e diversi ancora dopo 150 anni di Unità? Ma allora, che cosa è veramente stata d’Italia? l’Unità Stringere la più antica nazione d’Europa in un solo Stato invece che in sette, poteva avere ed ebbe due distinte motivazioni. La prima era quella di avere più voce nel capitolo delle relazioni tra le potenze europee e meridionali. La seconda di dare una patria giuridica alla nazione.

P

La questione meridionale, spina nel fianco dell’Unità italiana, sembrava potere essere assorbita intitolandola e trattandola quale questione nazionale, quando le si è contrapposta la questione settentrionale della reclamata indipendenza padana e della minacciata secessione qualora la forma di Stato non si mutasse da unitaria a federale. Il federalismo fiscale è per ora uno stralcio di un non dismesso disegno di mutamento costituzionale. Come strategia di autodifesa si propone un partito del Sud. Si mette in discussione la lingua meridionale con impiego concorrenziale dei dialetti. Regionalismi e locali-

A seconda che preva-

Nell’immagine grande, lo storico incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano. Qui sopra: in alto, Giuseppe Mazzini; in basso, Vincenzo Gioberti. Nella pagina fianco: Camillo Benso conte di Cavour

lesse l’una o l’altra ispirazione diversa divenivano le forme del vissuto istituzionale degli italiani. Le guerre di indipendenza e poi quelle coloniali e le due guerre mondiali univano gli italiani, qualunque fosse la loro origine regionale in una obbedienza comune, fino al sacrificio della vita per quella idea ch’era insieme un sentimento della fraternità nella Patria. Il suggello dell’amore ai fratelli nella Patria è sacrificare la vita. Il trapasso tra la Patria e lo Stato sta in una vita che non si perde, ma si spende al servizio dello Stato e, traverso lo Stato, dei concittadini. Quante migliaia di maestri elementari, di professori, di ferrovieri, postelegrafonici, di funzionari hanno per un secolo e mezzo lavorato per lo Stato avendo di faccia scolari, studenti, viaggiatori, utenti, cittadini destinatari di innumerevoli frustrazioni pubbliche? Questa moltitudine di soldati e di cittadini non saldavano la Nazione e lo Stato? Perché allo-

L’Inno di Mameli, simbolo del Risorgimento

Il Canto degli Italiani che costruì la nazione Nell’autunno del 1847, Goffredo Mameli scrive il testo de Il Canto degli Italiani e, dopo aver scartato l’idea di adattarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre lo invia al maestro Michele Novaro, che scrive di getto la musica. L’inno debutta il 10 dicembre a Genova, in occasione del centenario della cacciata degli austriaci, suonato dalla banda municipale di Sestri Ponente. Mancavano pochi mesi al 1848 e dopo pochi giorni tutti conoscevano l’inno, che veniva cantato senza sosta in ogni manifestazione. Durante le Cinque giornate di Milano, gli insorti lo intonavano a squarciagola: il canto degli italiani era già diventato un simbolo del Risorgimento. Quando l’inno si diffuse, le autorità cercarono di vietarlo, considerandolo eversivo (per via dell’ispirazione repubblicana e anti-monarchica del suo autore); visto il totale fallimento, tentarono di censurare almeno l’ultima parte, estremamente dura con gli Austriaci, al tempo ancora formalmente alleati, ma inutilmente. Dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura del testo, così come abrogò l’articolo dello Statuto albertino secondo cui l’unica bandiera del regno doveva essere la coccarda azzurra, rinunciando agli inutili tentativi di reprimere l’uso del tricolore verde, bianco e rosso, anch’esso impostosi come simbolo patriottico dopo essere stato adottato clandestinamente nel 1831 come simbolo della Giovine Italia. In seguito fu proprio intonando l’inno di Mameli che Garibaldi, con i “Mille”, intraprese la conquista dell’Italia meridionale e la riunificazione nazionale.


cultura

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lia sui due schieramenti dell’ atlantismo e del comunismo filosovietico. Lo stesso patriottismo costituzionale restò una formula ottativa perché se ne fece un impiego fazioso da una parte contro l’altra. Con l’effetto che la Costituzione ebbe una attuazione tardiva, ostacolata e distorta, la Corte costituzionale entrò in funzione nel 1956 otto anni dopo la Carta del 1948, le Regioni cominciarono a darsi i loro Statuti agli inizi del decennio 70.

ra non è bastato a far nascere un popolo italiano, come altrove erano il popolo francese o il popolo tedesco? Popolo è un soggetto politico e costituzionale. In Italia il protagonismo politico-costituzionale è stato della monarchia, del parlamento, dei partiti, non del popolo. Lo stesso modello liberale dello Stato di diritto ha avuto vita grama.

Nella monarchia il Governo oscillava tra i voti del Parlamento e il gradimento del Sovrano, la giustizia era emanazione del Re, come prescriveva lo Statuto di Carlo Alberto, i partiti condizionavano l’Amministrazione, come denunciò Marco Minghetti, il suffragio era limitato ai maschi dotati di istruzione e di censo, in pratica pilotato da ceti borghesi di proprietari, imprenditori, professionisti. Quando nel tornante tra Otto e Novecento divenne acuto il conflitto sociale gli italiani si separarono tra lavoratori e padroni. Il turn-over tra destra e sinistra storica non oppose al socialismo la forza di uno Stato liberale. Anche per questo la soluzione che il fascismo prospettò per chiudere il conflitto di classe fu quello Stato autoritario, nulla contro, nulla al di sopra e al di fuori dello Stato. Una

ideologia politica che si proponeva come una mistica, come una religione. Gli italiani che della libertà non avevano mai fatto effettiva esperienza della perdita della libertà nella dittatura non avvertirono la gravità, se non nelle esigue frange degli antifascisti. La nozione non mai divenuta pienamente adulta degenerò in

Le crisi del terrorismo, di tangentopoli, la fine dei grandi partiti popolari, Democrazia cristiana, Partito socialista e Partito comunista, hanno segnato un itinerario che è stato chiamato di transizione da una Prima Repubblica ed una seconda ed ora ad una terza senza che si sia approdato ad altro che ad un bipolarismo di due schieramenti che più divi-

sanziona la non riformabilità l’art. 139 della Carta, ma l’altra di un governo personale e autoritario senza i pesi e i contrappesi propri alle grandi democrazie occidentali. Quanto alla società che movimenta le sue innumerevoli filiere entro il traballante telaio di uno Stato affidato ormai alla sola moral suasion del Presidente della Repubblica esso si trova non solo nella crisi economica congiunturale e nelle tante difficoltà indotte dai processi di globalizzazione, ma soprattutto e più gravemente in una tormentata fase di disorientamento etico. Vita privata tra riservatezza e rilevanza pubblica, libertà e dignità della persona e interesse collettivo, valori della coscienza tra religione e leggi dello Stato laico sono nodi problematici ogni giorno più complessi. Quel tessuto connettivo prodotto dalla morale cristiana che aveva consentito di superare il conflitto StatoChiesa nel processo unitario e che nella preparazione della Costituzione repubblicana faceva dire a Togliatti «noi siamo il più importante partito cattolico non democristiano», oggi è causa di ulteriori contrasti, politici e culturali. Principi del cristianesimo sono confutati in nome di una laicità animata da ostilità alla religione, letta come forma arcaica di potere sociale, da chi ignora la portata rivoluzionaria del cristianesimo nella promozione della libertà della

Esaurita l’onda lunga dei processi di secolarizzazione, il bisogno di Dio torna a rivivere nella società contemporanea. E potrebbe divenire un collante di fraternità in un sistema troppo incline a moltiplicare le frammentazioni nazionalismo. La forma parlamentare dello Stato fu soppressa, sostituita dal corporativismo in cui l’individuo valeva solo come monade dell’universo autoritario dello Stato. Con la Repubblica gli italiani avrebbero dovuto essere educati alla democrazia come avvertì e ammonì la Commissione Alleata di Controllo. Invece i partiti preferirono tenerli sotto tutela, gestendo una Repubblica dei partiti, non dei cittadini.

Gli italiani restavano separati in monarchici e repubblicani, liberali e democristiani, socialisti e comunisti. Il pianeta spaccato, per usare la metafora di Solzhenitsyn, tra Usa e Urss, si rifletteva in Ita-

dono i cittadini in pregiudizi di setta anziché unirli ed educarli ad essere giudici sereni delle opere dei governanti e dei programmi di chi aspira a governare. I conflitti tra i poteri dello Stato si acuiscono, specie tra esecutivo e legislativo da un canto e giudiziario dall’altro, l’invocato presidenzialismo prevede una perdita di ruolo del Capo dello Stato e del Parlamento rispetto al Primo Ministro, il popolo come fonte dell’investitura elettorale sembra chiamato a dare superiorità gerarchica su qualunque altra figura istituzionale non direttamente elettiva, la forma di governo diventando così non quella di una democrazia parlamentare, quale fu voluta dai Costituenti e di cui

persona, e da chi è estraneo ad ogni sentimento di religiosità.

Esaurita l’onda lunga dei processi di secolarizzazione, il bisogno di Dio torna a rivivere nella società contemporanea. Potrebbe divenire un collante di fraternità in un sistema di formazioni sociali troppo incline a moltiplicare le sue frammentazioni fino a restituire la persona umana alla solitudine. Ecco, a 150 anni dall’Unità, questo il quadro di un paese in le tensioni individualistiche e di gruppi particolaristici sembrano assai più energiche che non quelle di solidarietà politica, economica e sociale per ripetere il Trinomio dell’art. 2 della Costituzione.


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spettacoli

Cinema. Quasi totalmente privo di una nuova elaborazione il film “Yattaman” di Takashi Miike, ispirato al noto cartone animato

Dal Giappone senza amore di Pietro Salvatori

A fianco, un fotogramma del film “Yattaman” del regista giapponese Takashi Miike, pellicola interamente ispirata alla famosissima serie animata degli anni Ottanta e Novanta (sotto e in basso, due immagini del cartone)

li si è potuto dare un’occhiata lo scorso maggio in occasione del Far East Festival di Udine. Ma per lo più è ancora un oggetto misterioso. Al di fuori dei confini del Giappone sono state pochissime le proiezioni per pubblico e addetti ai lavori. La curiosità è tanta e ha radici lontane. È almeno quattro anni, da quando è iniziata la pre-produzione, che i fan sono in fibrillazione. Di che stiamo parlando? Del film di Yattaman, serie televisiva d’animazione della fine degli anni Settanta, sbarcata sulle reti Mediaset nel 1983 e diventata un cartone di culto lungo tutto il corso degli anni Novanta grazie al tam-tam delle televisioni private.

G

Un breve riepilogo per i pochi che ne fossero totalmente a digiuno. Gli Yattaman sono due eroi metropolitani giapponesi, due adolescenti dotati di forza e intelligenza straordinarie, che viaggiano a bordo di pittoreschi robot dalla forma di animale su e giù per i Continenti allo scopo di salvare il mondo. Poi ovviamente ci sono i cattivi di turno, il Trio Drombo, perfidi quanto sgangherati antagonisti che tentano di mettere insieme i vari pezzi di una pietra magica che li potrebbe rendere padroni del mondo. Il canovaccio della serie animata si è ripetuto costante lungo i 108 episodi della serie. Il Trio Drombo a combinar sfracelli in giro per il pianeta alla (vana) ricerca della pietra magica, e i due Yattaman a cavallo dei loro robot dalle forme più assurde a corrergli dietro per impedirgli di raggiungere l’agognato obiettivo. È facile immaginare come, puntualmente, gli Yattaman hanno conseguito la vittoria, più per la dabbenaggine degli avversari che per propria bravura. Yattaman, al pari di tante altre serie animate provenienti dal Sol Le-

vante, ha avuto un’enorme fortuna in tutto il mondo, in Italia in particolar modo. Sulla scia delle nuove avventure che stanno andando adesso in onda in Giappone, la produzione ha deciso di portare le vicende di questi particolarissimi paladini del bene anche sul grande schermo. In modo del tutto anomalo e curioso. Non ci troviamo infatti di fronte a un lungometraggio animato, alla stregua di quel che si è pensato di fare con produzioni americane come Spongebob o I Simpson, ma a un film con attori in carne ed ossa, calati nel bel mezzo di imponenti scenografie fumettose, e aiutati generosamente dalla computer

enfant-prodige dal 1991, anno del suo primo lungometraggio, è stato accreditato alla guida di ben 86 progetti. Una media di quasi cinque film l’anno. Il successo internazionale è arrivato nel 1999 con The Audition, disturbante thriller dalle implicazioni horrorifiche. Ed è la strada dell’orrore che l’ha definitivamente consacrato, prima con la miniserie MPD Psycho, poi con pellicole quali Ichi the Killer e The Call - non rispondere, acclamate dagli appassionati di genere in tutto il mondo e messe sotto accusa dalla censura in ogni parte del globo.Tanto che il suo episodio dei Masters of Horror, serie di film-tv girati dai mae-

Non stupisce che la pellicola non abbia ancora trovato un distributore europeo disposto a investirci sopra. Ad ogni modo, incuriosisce la scelta del regista di affidarsi ad attori in carne e ossa grafica in fase di post-produzione. Il risultato è particolarissimo e spiazzante.

Per farsene un’idea, è necessario inoltre considerare che alla direzione di questo grandissimo carrozzone è stato posto uno degli autori più prolifici e controversi della produzione giapponese contemporanea: Takashi Miike. Quarantanove anni, talentuosissimo

stri del genere e trasmessi per la televisione americana, è stato l’unico la cui proiezione televisiva è stata ritenuta non opportuna anche in fascia protetta, relegandolo unicamente alla distribuzione in home-video. Tratti della sua presunta misoginia, che vanno ad unirsi ai blandi e giocosi riferimenti sessuali disseminati lungo tutto il corso della serie animata, sono rintracciabili anche nel lungometraggio, nonostante le raccomandazioni della produzione, che punta ad un target che non sia composto unicamente dai fans d’annata, ma anche sulle nuove generazioni, conquistate alla causa di Yattaman dalla nuova serie trasmessa a Tokio e dintorni proprio nel corso dell’ultimo anno. Non ci si stupisce che la pellicola non abbia ancora trovato un distributore europeo disposto ad investirci sopra. Il film riprende pedissequamente le movenze dei personaggi che riempiva-

no il piccolo schermo affascinando generazioni di adolescenti negli anni Ottanta e Novanta.

Gli stessi siparietti, le stesse gag, la stessa ridondanza di forme e di personaggi. Quasi inesistente un’elaborazione concettuale, un lavoro di trasposizione, di adattamento. Yattaman-il film è il cartone animato con personaggi reali, con tanto di nasi e baffi finti laddove occorrono, che riproducono, con una recitazione ostentata e costantemente sopra le righe, le mossette, i tic, i siparietti (i balletti disseminati qua e là ne sono un efficacissimo esempio) del cartone animato. La trama a questo punto è del tutto secondaria, una summa dell’intera serie televisiva, con tanto di personaggi al gran completo, robot assurdi in gran quantità, e, finalmente, i vari pezzi della pietra magica riuniti insieme per dare il via alla fine del mondo. Il lieto fine è ovviamente dietro l’angolo. Di certo non per lo spettatore che non sia un accanito seguace della saga, che rischierà di essere annoiato e frastornato da una storia assurda quanto poco avvincente, ridondante ai limiti del fastidioso. Ci auguriamo, ovviamente, che la pellicola trovi qualcuno disposto a trovarle uno spazio nell’asfittico panorama della distribuzione italiana. Ed il successo commerciale potrebbe anche non essere poi così lontano. Sicuro è, che se così non fosse, non ci stracceremo di certo le vesti.


spettacoli

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e il rock fosse un mondo meritocratico i Little Feat sarebbero una delle band più popolari e celebrate del pianeta. È una convinzione che si rafforza dopo aver visto e ascoltato Skin It Back, un vecchio concerto (23 luglio 1977) alla Grugahalle di Essen trasmesso all’epoca in tv nella benemerita serie Rockpalast e finalmente in circolazione come dvd. Invece sono una semidimenticata band di culto, che oggi fatica a trovare uno straccio di contratto discografico e fa quadrato affrontando la malattia del batterista Richie Hayward (ha un tumore al fegato, in tour lo sostituisce a tempo indeterminato il tecnico assistente Gabe Ford).

S

Trent’anni fa avevano perso il faro guida, Lowell George: il fat man in the bathtub, il grassone dai piedi piccoli (feat, perché nel loro mondo tutto era storpiato e distorto) che li aveva messi in moto. Un ex Mother of Invention che Frank Zappa aveva licenziato in tronco, a quanto pare infuriato da quegli espliciti riferimenti all’erba e alle polverine bianche che infarcivano una delle più belle canzoni “da strada” di tutti i tempi, quella Willin’ che metteva sulla mappa dell’immaginario collettivo città misteriose come Tucumcari, Tehachapi e Tonopah diventando di punto in bianco un inno ufficioso dei camionisti americani e di chi vive on the road. Il concerto di Essen anticipava di pochi giorni le registrazioni del doppio live Waiting For Columbus, la loro apoteosi, replicandone in forma più ruvida e succinta i trucchi e le magie: con la slide in glissando e il vocione roco di Lowell, i virtuosismi di Bill Payne al piano e alle tastiere elettroniche, il drive ritmico e gli assoli fluidi della sei corde di Paul Barrère, la forza d’urto e la flessibilità di una straordinaria sezione ritmica multirazziale con basso, batteria e percussioni. Erano una formidabile macchina da musica, i Little Feat. A prima vista potevi scambiarli per un’anomalia geoculturale, una band californiana e metropolitana che prediligeva la musica del Sud degli Stati Uniti, il boogie e il dixieland (Dixie Chicken è il titolo di un altro pezzo forte del repertorio), il funk di New Orleans e l’honky tonk blues, musica polverosa da locande d’autostrada, motel da quattro soldi e stazioni di servizio. Ma, come amava ripetere George, anche tra le pieghe delle canzoni apparentemente semplici tutto era molto complicato: poliritmi, tempi dispari, chiamate e risposte, improvvisazione che a un certo punto sconfinava nella fusion jazz di Weather Report e Chick Corea (Lowell non era d’accordo, e durante l’esecuzio-

Musica. Finalmente in un nuovo dvd, il famoso concerto live “Skin It Back”

Il grande ritorno dei Little Feat di Alfredo Marziano

Oggi sono una band di culto semidimenticata. Ma se il rock fosse meritocratico, sarebbero uno dei gruppi più celebrati del pianeta ne di Day At The Dog Races la sua corpulenta figura in salopette abbandona il palco). Una rielaborazione surreale e hollywoodiana della musica tradizionale americana, colorata e allucinata come le straordina-

rie e folli immagini che l’illustratore Neon Park creava per le loro copertine: pomodori sorridenti (il loro simbolo ufficiale) sdraiati su un’amaca, la collina di Hollywood trasformata in un budino gigante, papere sexy in reggicalze a bordo piscina, una vezzosa lady-torta in altalena, Marilyn e George Washington insieme in auto su una tortuosa strada di montagna sotto un cielo di fulmini e saette. La musica dei Little Feat era così, «bizzarra e un po’ scentrata. Mai siamo

stati capaci di seguire una linea retta», ammette Bill Payne in un’intervista rilasciata al sito musicale Rockol. «Ed eclettica: quando iniziammo mettemmo subito in chiaro che non avremmo avuto limiti, ci piacevano John Coltrane e Frank Zappa,

A fianco, un’immagine di repertorio della band Little Feat. In alto, uno scatto recente del gruppo. Qui sopra, la copertina del loro vecchio album “Hotcakes Outcakes”

Buddy Holly e Ray Charles, volevamo tenerci aperti a qualunque genere musicale». Lowell George era la locomotiva sbuffante che trainava il gruppo, una presenza ingombrante ed eccessiva non solo sul palco. «Un uomo impossibile da sopportare ma di cui non puoi fare a meno», lo definì qualcuno. «Già», ridacchia Payne. «Ma era soprattutto un uomo aperto e un fantastico autore di canzoni, bravissimo nel suonare la chitarra slide. La sua abilità nel cantare la nota giusta al momento giusto non era inferiore a quella di Frank Sinatra. E poi era un magnete che attraeva tutta la buona musica che gli girava intorno, un talent scout dal fiuto speciale che ha scoperto Emmylou Harris, Rickie Lee Jones e Bonnie Raitt». Sembrava scritto in cielo che non potesse durare a lungo: costantemente sovrappeso, vorace di cibo, di tabacco e di cocaina, il 29 giugno del 1979 Lowell se ne andò stroncato da un infarto. Dopo qualche anno di sbandamento i Little Feat decisero di non mollare: «Lo so bene che c’è ancora gente che pensa che senza di lui i Little Feat non abbiano ragione di esistere», si difende Payne. «Ma se è per questo, c’è anche qualcuno che non ha mai perdonato a Dylan di avere imbracciato una chitarra elettrica. Ci sono persone che vengono ai nostri show e se ne vanno dopo qualche canzone. La maggior parte, però, resta ad ascoltarci e torna anche la volta successiva. Una band è un’entità speciale, e anche se il contributo di Lowell era importantissimo lui non era i Little Feat, così come Robbie Robertson non era la Band. Qualche giornalista ogni tanto scrive ancora che Oh Atlanta!, All That You Dream o Times Loves A Hero sono canzoni sue, e invece le abbiamo composte io, Paul Barrère e Kenny Gradney… È questo che significa essere una band, si mettono in moto dinamiche particolari». Un anno e mezzo fa l’amico Jimmy Buffett gli ha dato una chance, riunendoli nel suo studio galleggiante di Key West con un nutrito gruppo di ammiratori illustri, la Harris e Bob Seger, Dave Matthews e Chris Robinson dei Black Crowes, il chitarrista slide Sonny Landreth e il bassista dei Phish Mike Gordon, il mandolinista Béla Fleck e il violinista Sam Bush più le stelle del country Vince Gill e Brooks and Dunne. Ne è nato un album festoso e celebrativo, Join The Band, che vive il momento più toccante quando Inara, la figlia trentacinquenne di George, interpreta Trouble, la canzone di papà Low che la mamma gli cantava quand’era bambina. Non è ora di trovargli un posto nella Rock’n’Roll Hall of Fame?


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The Moscow Times” del 05/11/2009

Schiaffo di GM al Cremlino di Maria Antonova osca guarda Detroit con stupore deluso. General Motors ha bruscamente interrotto i negoziati per la vendita della sua unità produttiva in Europa. Parliamo della Opel tedesca che era in procinto di essere venduta al consorzio Magna-Sberbank (di cui fa parte anche la casa automobilista russa Gaz, ndr). Un accordo che, nelle speranze del governo russo, avrebbe dovuto aiutare la sofferente industria dell’auto nazionale e creare legami più solidi con l’economia occidentale. Il consiglio d’amministrazione della casa madre americana, martedì, ha votato contro l’operazione di vendita, dopo circa sette mesi di accese trattative tra Europa e Stati Uniti. Una decisione che ha scatenato reazioni indignate in Germania, dove si trovano la maggior parte delle fabbriche Opel e dove la cancelliere Angela Merkel aveva svolto un lavoro di mediazione nella trattativa di Magna e Sberbank per acquisire il 55 per cento del gruppo Opel e della britannica Vauxhall, per 500 milioni di euro. Dmitry Peskov, portavoce del premier Vladimir Putin, si è detto «sorpreso» per la decisione di Detroit. «Il progetto era stato già approvato dal trust di Opel e ora c’è stata questa decisione del consiglio d’amministrazione di GM» ha affermato Peskov, aggiungendo che il gruppo canadese di componentistica Magna e la banca di Stato Sberbank stanno valutando la possibilità di un’azione giudiziaria. Putin personalmente aveva sostenuto l’offerta della partnership russo-canadese. Ai primi di giugno, aveva affermato che vedeva in questa iniziativa un’occasione per rigenerare l’industria automobilistica nazionale (Autovaz e Gaz sono in serie difficoltà, ndr). Il premier russo aveva discusso della trattativa con Angela Merkel in numerosi incontri. Vi era stato anche un meeting a luglio con il capo del potente sindacato tede-

M

sco IG Metall, Berthold Huber in visita a Mosca. «È una cosa positiva (…) Spero sia un primo passo che ci porti a una sempre maggiore integrazione con l’economia europea» aveva commentato Putin, dopo l’accordo di settembre. L’annuncio della decisione di GM arriva appena una settimana prima di una riunione chiave del governo russo. Dove il primo vicepremier, Igor Shuvalov, doveva discutere di un piano di riforme dell’industria automobilistica russa presentato da una commissione ad hoc. Peskov afferma che la commissione aveva già preso in considerazione l’operazione Opel, ma che aveva comunque uno schema indipendente di riforma industriale.

Alcuni punti di questo progetto erano stati anticipati da Putin durante una riunione di governo già martedì scorso. Il comitato guidato dal ministro dell’Industria e del Commercio,Viktor Khrystenko e da quello per lo Sviluppo economico, Elvira Nabiullina, ha in programma un summit per martedì prossimo. Altre reazioni di rappresentanti del Cremlino, hanno virato dal sollievo alla rabbia per la decisione del gruppo americano controllato dal governo di Washington, che ha fatto naufragare l’affare. «Abbiamo così tanti problemi con le nostre case automobilistiche. Il loro futuro dovrebbe essere la nostra preoccupazione principale» è stato il parere dell’altro vicepremier, Alexander Zhukov durante una conferenza stampa, mercoledì. La casa automobilistica Gaz, del magnate Oleg Deripaska, è stata sempre considerata come un partner privilegiato della Opel in Russia. Gaz aveva dichiarato di essere pronta a produrre modelli Opel sulle proprie linee di montaggio, al momento utilizzate sui modelli poco redditizi della Vol-

ga Siber. Oleg Mozorov vicepresidente della Duma, in quota al partito di maggioranza Russia unita, ha definito la mossa di Detroit come «più politica che economica». «Sono incline a pensare che sia stata una decisione in cui abbia svolto un ruolo diretto o indiretto il governo Usa. Il motivo sarebbe molto semplice: mantenere la Opel nella sfera d’influenza del potere politico ed economico americano» ha dichiarato all’agenzia Interfax. Una decisione che imbarazza anche la Merkel reduce da uno storico discorso davanti al Congresso Usa. Nel nuovo piano GM ci sarebbe la chiusura di tre impianti e il licenziamento di 10mila operai. Mentre Berlino minaccia di ritirare i finanziamenti già accordati.

L’IMMAGINE

Veltroni non può dare consigli visto che ha portato allo sfascio il centrosinistra Non potendo più dare cattivo esempio, Veltroni vorrebbe dare consigli. Ma dare consigli su come non suicidarsi, da parte di chi ha suicidato se stesso e il centrosinistra alle scorse elezioni, consegnando il Paese a Berlusconi appare francamente paradossale. Se è vero che le sconfitte dei partiti socialisti e socialdemocratici di questi ultimi anni pongono con drammatica evidenza la necessità di ripensare quella cultura politica, è altrettanto vero che ancora oggi, la cultura socialista resta comunque maggioritaria. D’altra parte, gli ultimi anni hanno visto i dirigenti di mezza Europa e più, e Veltroni tra questi, impegnati in una rincorsa al “nuovismo” con l’obiettivo di sfondare al centro: le conseguenze di questa scelta sono state il tracollo elettorale di quei partiti. Solo su un punto sono d’accordo con l’on Veltroni: non si può tornare all’Unione delle 11 sigle, ma occorre ripartire da una coalizione che si salda sul profilo programmatico e su questo terreno, se lui considera naturale, l’alleanza con il Partito democratico.

Lello

TUTTI NEL DIMENTICATOIO Desidero riferirmi ad un episodio avvenuto qualche anno fa, quando la lotta per ottenere il voto per noi che viviamo lontani dalla nostra Patria, era molto intensa. Ebbene in quel periodo ricevemmo la visita di un ministro degli Esteri del centrosinistra: egli dichiarò che gli italiani all’estero non meritavamo il voto perché«non vivevamo la realtà italiana», dimenticando che il voto è un diritto sacrosanto sancito dalla Costituzione. In questi attuali momenti non vorremmo certamente viverla la realtà italiana, dove una mediocre opposizione crea un ridicolo governo ombra, diventato buio, perché cosa fanno codesti incapaci? Criticano e criticano. Mi sovviene un aggettivo coniato

dal buon Italo Cucci, quando nel 1982, ai giornalisti che ai mondiali di Spagna, riempivano pagine di critiche alla nostra nazionale e al Ct, disse che erano dei “criticonzi”... Diventammo campioni del mondo! Quanti di questi personaggi appaiono tutti i santi giorni in televisione, specialmente in progammi preparati ad hoc. Qualcuno più intelligente che bello, crede che il Berlusconi preghi tutte le sere affinché in Italia accada qualche disgrazia, così può andare a fare passarella, come ha fatto in Abruzzo ed in Sicilia. Che vergogna! Emula i suoi amici di Ballarò e Anno zero, che nella loro mediocrità, spesso e volentieri, arrivano allo sciacallagggio mediatico, vivono sulle disgrazie e sui dolori degli italia-

La regina dei ghiacci Non lasciatevi ingannare dal passo un po’ incerto. Per quest’aquila di mare di Steller il ghiaccio è un elemento familiare. La penisola russa Kamchatka dove vive, infatti ne è piena. Se è così concentrata è solo perché sta pensando al suo prossimo spuntino, il salmone che il rapace - un metro e 30 circa di apertura alare - si procaccerà con astuzia e leggiadria

ni. Di una cosa sono convinto: il popolo italiano è molto saggio e ha già spazzato dalla politica italiana pseudo e mediocri politici, che finiranno nel dimenticatoio.

Giuseppe Morgana Venezuela

UN’OPPOSIZIONE RIFORMISTA C’è un modo diverso di concepire l’opposizione e per questo be-

ne ha fatto Bersani a rifiutare l’adesione alla manifestazione contro Berlusconi indetta da Di Pietro e Ferrero per il 5 dicembre. L’opposizione va costruita su un programma alternativo e condiviso di governo, e per questo non basta un nemico comune da sconfiggere. Quanto avvenuto, d’altra parte, con la segreteria Veltroni, dimostra che con l’I-

talia dei valori non c’era nessuna prospettiva riformista, ma solo un calcolo, sbagliato, di reciproco vantaggio elettorale. Archiviata la mitologia dell’autosufficienza politica e del bipartitismo strisciante, occorre ora costruire assieme un nuovo centrosinistra, ancorato saldamente alle radici del riformismo.

Riccardo N.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Credo che la fedeltà sia un segno del genio

L’ORA DI RELIGIONE “CATTOLICA” NELLA SCUOLA PUBBLICA Ha ragione e pieno sostegno al presidente Casini quando asserisce che necessita in Italia consolidare la piattaforma dei valori etici per rafforzare l’identità cattolica nel pieno rispetto del dettame costituzionale che prevede le libertà di fede. Di fronte a società sempre più globalizzate e interetniche e ai rischi di sincretismi e confusioni, l’Unione di centro pone dei paletti attorno all’ora di religione che «non può essere trasformata in un insegnamento generico di cultura religiosa o di etica» e «deve mantenere il suo carattere confessionale e godere dello stesso status, in quanto a sistematicità e rigore, delle altre discipline scolastiche». Nell’ora di religione si insegna la religione cattolica». Il Vaticano ribadisce, dal suo punto di vista, il valore didattico dell’ora di religione, cioè il suo status di materia scolastica a tutti gli effetti. «Il rispetto della libertà religiosa, che vale per tutti, esige la possibilità di offrire agli alunni nelle scuole pubbliche e pri-

Dimenticarvi è impossibile. Si dice che sono esistiti dei poeti che hanno vissuto tutta la loro vita con gli occhi fissi su un’immagine cara. In effetti io credo (ma sono troppo interessato) che la fedeltà sia un segno del genio. Voi siete più di una cara immagine sognata, siete la mia superstizione. Quando commetto qualche grossa stupidaggine, mi dico: Mio Dio! Se lo sapesse lei! Quando faccio qualcosa di buono, mi dico: Ecco qualcosa che mi avvicina a lei, nello spirito. E l’ultima volta che (malgrado me) ho avuto la fortuna di incontrarvi! Perché voi ignorate con che cura vi evito! - mi dicevo: sarebbe strano che questa vettura l’aspettasse, farei bene, forse, a prendere un’altra strada. E poi: Buonasera Signore! con quella voce amata il cui timbro incanta e strazia. Me ne sono andato, ripetendo lungo la strada: Buonasera Signore! provando a imitare la vostra voce. Ho visto i miei giudici giovedì scorso. Non dirò che non sono belli; sono abominevolmente brutti, e la loro anima deve assomigliare al loro volto.Flaubert aveva dalla sua l’imperatrice. Mi manca una donna. E si è impadronita di me la strana idea che forse voi potreste far arrivare una parola sensata a uno di quei cervelloni, attraverso canali complicati. Charles Baudelaire alla signora Sabatier

ACCADDE OGGI

MA QUALI TV PRIVATE Se l’Italia è da rifare, la colpa è anche delle televisioni. Finalmente ho capito che le responsabilità della pessima situazione generale del Paese, è da attribuire ai giornalisti, alle televisioni, ai magistrati e infine ai “poveri politici”. Le televisioni locali meritano una forte tirata di orecchie; altro che aiuto economico! Le tv nazionali fanno ancora più schifo: mezzi potentissimi, che dipendono dai giornali, mezzi potenti! Piuttosto,diciamo al nostro amato Silvio nazionale, basta con le autodifese, avanti con la patrimoniale.

Michele Ricciardi

CONFRONTO SUL QUOZIENTE FAMILIARE La famiglia come soggetto fiscale di riferimento da cui ripartire è nel nostro dna e occorre lavorare in tal senso per arrivare, entro la fine della legislatura, all’introduzione del quoziente familiare, così come previsto nel programma elettorale del Pdl. Il peggio della crisi è alle spalle anche se gli effetti occupazionali sono ancora nella fase acuta. Tuttavia dobbiamo porci il problema di impostare le basi di una solida ripresa e, a questo riguardo, il governo non può trascurare l’esigenza di dare un segnale forte alle famiglie, che in questa recessione hanno svolto la funzione di primo ammortizzatore sociale. Ora serve un impegno per sostenere i redditi attraverso un fisco più leggero ed equo. Di qui l’urgenza di una riforma ispirata al quoziente familiare che, tenendo conto della difficile situazione dei conti

e di cronach di Ferdinando Adornato

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6 novembre 1956 Il presidente uscente repubblicano Dwight D. Eisenhower viene rieletto dopo aver sconfitto lo sfidante democratico Adlai E. Stevenson 1957 Félix Gaillard diventa primo ministro di Francia 1960 Elezioni politiche in Italia 1962 L’Onu approva la risoluzione 1761 che condanna le politiche razziste di apartheid del Sudafrica, e chiede a tutti i suoi membri di interrompere le relazioni con la nazione 1965 Freedom Flights: Cuba e Stati Uniti concordano formalmente per dare il via ad un ponte aereo per i cubani che vogliono andare negli Usa 1971 L’Atomic energy commission testa la più grande esplosione sotterranea di una bomba all’idrogeno, nome in codice Cannikin, sull’isola Amchitka nelle Aleutine 1975 Inizia la Marcia Verde: 300.000 marocchini disarmati convergono sulla città meridionale di Tarfaya in attesa di sconfinare nel Sahara occidentale

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

pubblici, potrebbe partire gradualmente attraverso un alleggerimento del peso fiscale sui nuclei familiari più numerosi. Mi auguro che su questa tema cruciale possa aprirsi un confronto all’interno del neocomitato del Pdl per la politica economica.

Lettera firmata

SI ASPETTA IL MORTO? Più di un anno fa inviai al sindaco una lettera, chiedendo un intervento in merito alla circolazione e alla sosta delle moto sui marciapiedi. Da tempo i marciapiedi non sono più tali; si sono trasformati prima in area di sosta, poi di transito di moto, scooter, motorini e ciclomotori. Gli scivoli per i disabili sono divenuti accessi e luoghi di sosta per tali veicoli. È evidente il pericolo che corrono le persone, soprattutto anziani e bambini. Occorre intervenire prima che una tragedia porti all’attenzione dei media il problema. Si aspetta il morto per intervenire? Si aspetta che qualche persona anziana sia travolta mentre esce dalla propria abitazione? Si aspetta che qualche bambino sia investito sul marciapiede? Si attende un tragico litigio tra pedoni e motociclisti? Cosa intende fare, visto che la situazione si è ulteriormente degradata, il sindaco di Roma? Dovrebbe prendere le opportune iniziative. Basterebbe un intervento sistematico in una zona della città per dare un segnale chiaro e preciso a tutti coloro che, oltre a violare il codice della strada, mette a repentaglio la salute e la vita dei cittadini romani.

Primo

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

vate un’educazione religiosa coerente con la loro fede cattolica», come raccomanda la Santa Sede. La Chiesa, inoltre, stigmatizza le «nuove regolamentazioni civili, che tendono a introdurre un insegnamento del fatto religioso di natura multiconfessionale o di etica e cultura religiosa, anche in contrasto con le scelte e l’indirizzo educativo che i genitori e la Chiesa intendono dare alla formazione dei giovani». Visto che lo Stato non può imporre una religione, il Vaticano chiarisce che «spetta alla Chiesa stabilire i contenuti autentici dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola, che garantisce, di fronte ai genitori e agli stessi alunni l’autenticità dell’insegnamento che si trasmette come cattolico». L’Udc ritiene anche opportuno che «l’insegnamento religioso scolastico appaia come disciplina scolastica, con la stessa esigenza di sistematicità e rigore che hanno le altre discipline». Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Nel guardaroba. Arrivano in Italia le “Shuella”, fashion-parapioggia da infilare sopra le calzature

Se le scarpe mettono di Roselina Salemi ituazione numero uno: vai a una festa, hai messo un paio di sandali e il tassista ti lascia lontano con la scusa di un senso vietato, proprio mentre comincia a piovere. Situazione numero due: riunione di lavoro, sei elegantissima, ma in pratica devi guadare la città, perciò arriverai con l’orlo dei pantaloni bagnato e le scarpe infangate. Situazione numero tre: hai speso una cifra folle, genere Sex and The City, per le decolleté di Jimmy Choo, stai per uscire quando senti i tuoni. Che cosa fai? In tutti e tre i casi la soluzione si chiama Shuella.

S

Può essere un segno dei tempi, siamo nell’era di cambiamenti climatici ed economici, di desideri fashion e necessari risparmi, di crisi che aguzza l’ingegno, ma la designer Rebecca Miller, di Chicago, ha avuto in ogni caso un’idea geniale

hot pink), giallo e verde fluo. Per chi le compra on line (www.shuella.it) costano 49,95 dollari, circa 35 euro. Garantite anche sulla fanghiglia mista a neve, sui cocktail infernali di neve e sale nelle città del Nord. E, a differenza delle galosce fashion (le aveva prodotte Givenchy qualche anno fa, erano bellissime), non richiedono un mini trolley per essere conservate. Quelle di Givenchy alla fine, era più semplice metterle come stivali… Il dibatto sui blog è stato, per alcune settimane, piuttosto vivace: può una fashion victim farsi vedere con le Shuella? Certo, «sono meglio delle galosce tradizionali», «sono meglio delle sovrascarpe di plastica, quelle che fanno somigliare qualsiasi donna a una misteriosa creatura a metà tra un folletto e un agente dei Ris», ma non saranno poco stilose? Madonna, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, J.Lo, Paris Hilton, Megan Fox, Eva Mendes le hanno ricevute in regalo, ma le metteranno? E soprattutto, si faranno fotografare? Probabilmente

Si chiudono con strisce di velcro, si piegano in una bustina impermeabile, si infilano in borsa per averle sempre a portata di mano, e per comprarle bisogna soltanto familiarizzare con le taglie americane: dalla 5 alla 11, cioè dalla 35 alla 43 che, beata lei, la sta facendo diventare ricca: un ombrello per le scarpe, feticcio femminile, investimento a volte sconsiderato (un sandalo da sera di Christian Louboutin, di Manolo Blanhik o di Roger Vivier può costare traquillamente 3.000 euro, ma ce ne sono altri che valgono un mutuo). Shuella, (divertente contrazione di “Your shoe umbrella”), è una versione glamour che salva capra e cavoli, look e investimento. Un acquazzone può distruggere passamanerie e decori, staccare spille, lasciare macchie incancellabili. Delle piogge acide, poi abbiamo già avuto qualche assaggio. Siamo già in stagione. Le Shuella (da poco arrivate in Italia) con 1.134 di fan su Facebook e un paio di filmati, sono di plastica, si infilano sulle scarpe, vanno bene con qualsiasi tipo di tacco e arrivano al polpaccio. Si chiudono con strisce di velcro, si piegano in una bustina impermeabile, si infilano in borsa per averle sempre a portata di mano (e di scarpa), e per comprarle bisogna familiarizzare con le taglie americane, dalla 5 alla 11, cioè dalla 35 alla 43. Quattro colori: nero, più tranquillo, rosa carico (impossibile non notarlo, si chiama

l’OMBRELLO no. Questo futile interrogarsi sarebbe passato sotto silenzio se le Shuella non fossero, nel frattempo, state adottate dalla lobby, ormai planetaria e molto trendy, delle recessioniste (una cinquantina di siti in tutto il mondo), se non fossero diventate il simbolo dell’ottimismo indispensabile per camminare in mezzo al fango senza sporcarsi e per attraversare la crisi, che prima o poi finirà, senza perdersi d’animo. O addirittura con allegria. Nella Bibbia delle recessioniste ci sono i saldi, le sarte, i viaggi a un euro con Ryanair, lo scambio-casa, il bookcrossing, i corsi di taglio e cucito, gli swap-party, e-Bay, il vintage, la moda low cost, gli abiti “taglia unica”, e le Shuella, per arrivare dappertutto. Perché non è più tempo

di sprechi, né di sacrifici inutili. Anzi, a proposito di ombrelli, c’è chi ha pensato persino a riciclare anche quelli rotti trasformandoli in visionarie gonne fashion.

Questa volta, l’idea, tutta italiana, arriva da Busto Arsizio. Cecilia Felli, giovane, carina, master in disegno industriale, ha appena lanciato le umbrella skirts, che riutilizzano il tessuto dei vecchi parapioggia. In tinta unita o multicolore, scozzesi, a fiori, a spicchi, a righe, gli ex ombrelli ormai inservibili non finiscono più nella spazzatura, ma nel guardaroba. Il campionario è online su www.coroflot.com, approvato (e amato) dalle recessioniste.Tra Shuella e umbrella skirts, l’inverno è servito. Passaparola.


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