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Gli spiriti della verità e della libertà sono i pilastri di tutte le società Henrik Ibsen

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 10 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«L’unificazione non è ancora compiuta»:Angela Merkel, Gorbaciov e Walesa rilanciano gli Stati uniti del Vecchio Continente

«Ora cada il Muro di Pechino» Grande festa a Berlino con i leader dell’Occidente per i 20 anni della nuova libertà europea. Ma il più noto dei dissidenti cinesi scrive: «Adesso aiutate anche noi a cambiare la storia» di Wei Jingsheng

I respingimenti e il rispetto della vita nelle parole di Benedetto XVI

Prima che il Muro di Berlino venisse abbattuto, molti cinesi ne conoscevano la realtà. In effetti, erano più informati degli stessi russi. Il Partito comunista cinese aveva infatti lanciato una grande battaglia contro i Partiti dell’Unione Sovietica e quelli dell’Europa orientale, e tutti i giornali cinesi non perdevano l’occasione per scandagliare queste realtà e analizzare con la lente di ingrandimento i “lati oscuri” di quei regimi. Era l’unica occasione, per la nostra opinione pubblica, di criticare il sistema comunista.

LA CORTINA DI FERRO ROTTA DAI DISSIDENTI

Ma era davvero imprevisto? di Michael Novak Tra Est e Ovest del mondo, i dissidenti già portavno notizie dell’orrore conunista. Ma la vera magia si verificò quando Giovanni Paolo II fu invitato da un riluttante regime polacco a fare un pellegrinaggio nella sua terra natia. a pagina 4

«Gli immigrati sono una ricchezza» Appello del Papa: «Accogliete i migranti: fuggono dalla schiavitù» La Cei: «No alla politica dell’odio» di Franco Insardà

CITTÀ DEL VATICANO. «Non ci può essere uno sviluppo effettivo se non si favorisce l’incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture e il rispetto delle legittime differenze»: sono le parole di Benedetto XVI su accoglienza e respingimenti. Se da un lato l’immigrazione è una risorsa, dall’altro bisogna accogliere i migranti «che sono come l’antico popolo biblico in fuga dalla schiavitù». Benedetto XVI ha espresso il suo pensiero in un discorso ufficiale tenuto ieri al VI Congresso Mondiale della Pastorale dei Migranti e dei Rifugiati, nel corso del quale il presidente del Senato Schifani e Agostino Marchetto del Consiglio per i migranti, hanno polemizzato sul presunto uso ideologico del tema della sicurezza. Sul fronte dei difficili rapporti tra Chiesa e politica italiana, poi, sempre ieri Angelo Bagnasco, il segretario della Cei, ha ammonito i politici italiani ad abbandonare la predica dell’odio che finisce per abbandonare a se stessi i cittadini.

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«E per noi arrivò il giorno più felice»

JERZY BUZEK, PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO

«Fu decisiva la mia Polonia» di Sergio Cantone

Commozione più che retorica alle celebrazioni

«Prima del 9 novembre noi in Polonia stavano già preparando le elezioni libere: ecco perché la caduta del Muro non ci sorprese»: parla Jerzy Buzek, ex leader di Solidarnosc, oggi presidente del Parlamento europeo. a pagina 3

Chiartano • pagina 5

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Sul tavolo la mediazione Ghedini-Bongiorno. Richiesta di arresto per Cosentino

Pace armata tra Fini e Berlusconi Oggi il summit che segna la tregua sul processo breve di Riccardo Paradisi Questa mattina Berlusconi e Fini si incontreranno per firmare probabilmente - una tregua sulla giustizia. Il premier vuole un provvedimento ad hoc per difendersi dai processi e il cavillo trovato dagli avvocati Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno è quello dei “processi brevi”. Intanto dalla Procura di Napoli arriva in Parlamento la richiesta di arresto per il sottosegretario Nicola Cosentino, per presunte collusioni con il clan dei Casalesi. a pagina 10 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

Per Giovanni Sabbatucci il premier mette a rischio il suo consenso

• ANNO XIV •

NUMERO

222 •

di Luisa Arezzo

gioranza»: il politologo Giovanni Sabbatucci commenta il braccio di ferro tra Fini e Berlusconi (ma Bossi non sta a guardare) sulla giustizia. «Il processo breve rischia di essere un boomerang». a pagina 11

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di Errico Novi

I QUADERNI)

D’Alema o Blair? La sinistra litiga anche sull’Europa La sinistra non è d’accordo nemmeno sulle poltrone da occupare in Europa. Il passo indietro di David Miliband, promesso candidato del Pse al nuovo ministero degli Esteri di Bruxelles, sembrava aver spalancato le porte europee a Massimo D’Alema per il medesimo incarico. Ma nelle stanze del potere Ue circola con insistenza la voce che Tony Blair sarebbe ripartito all’attacco per strappare il sì dei 27 alla sua nomina alla presidenza della Ue. Nel caso, ovviamente, D’Alema resterebbe al palo.

«Ma nessuno firmerà per un indulto mascherato» «Berlusconi deve stare attento a spingere troppo sulla riforma della giustizia: promuovendo un indulto mascherato, rischia di perdere un pezzo del suo consenso, oltre a non essere sicuro di incassare il sì di tutti i parlamentari della mag-

Ancora incertezza sulle nomine

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 10 novembre 2009

Appelli. La popolazione cinese ha vissuto le stesse atrocità di quella dell’ex Urss. Solo che oggi il loro muro è ancora in piedi

Abbattiamo il Muro di Pechino Il più noto fra i dissidenti dell’Impero si rivolge all’Occidente libero e chiede di non dimenticare chi vive ancora senza libertà di Wei Jingsheng rima che il Muro di Berlino venisse abbattuto, molti cinesi ne conoscevano la realtà. In effetti, erano più informati degli stessi russi. Il Partito comunista cinese aveva infatti lanciato una grande battaglia contro i Partiti dell’Unione Sovietica e quelli dell’Europa orientale, e tutti i giornali cinesi non perdevano l’occasione per scandagliare queste realtà e analizzare con la lente di ingrandimento i “lati oscuri”di quei regimi. Era l’unica occasione, per la nostra opinione pubblica, di criticare il sistema comunista: parlare male del regime di Pechino significava andare in galera, ma attaccare ferocemente “il comunismo sovietico” era legittimo e addirittura incoraggiato. E quindi, persino Josip Tito o Palmiro Togliatti – leader comunisti dell’allora Jugoslavia e dell’Italia – erano ben conosciuti dalla nostra società. In ognuna di quelle conversazioni, veniva citato il Muro di Berlino.

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Nella nostra unità di lavoro c’era un vecchio operaio, che non leggeva mai i quotidiani. Una volta fra noi giovani era nata una discussione sul Muro, e questo vecchio operaio disse: «Ma non è uguale allo Stretto di Taiwan?». Fermammo immediatamente la discussione: come mai non c’era mai venuta in mente questa perfetta, calzante analogia? [Lo Stretto di Taiwan separa la Cina continentale, guidata dal governo comunista, dall’ex Formosa. Qui opera un governo democratico sin dal 1949 ndT]. Immediatamente, uno di noi disse al vecchio: «Non mi meraviglia che il governo ti abbia mandato in questo campo di lavoro come “contro-rivoluzionario”. Le tue dichiarazioni parlano per te». Subito dopo, inziammo a discutere su differenze e similitudini fra Muro e Stretto. Più andava-

mo avanti, più ci rendevamo conto che il paragone del vecchio operaio era stato molto accurato. Parlammo anche del 38esimo Parallelo [che divide le due Coree] e il 17esimo Parallelo [che divideva in due anche il Vietnam, fino alla fine della guerra con gli Usa].

Per colpa di diversi governi comunisti, tutte e quattro queste nazioni erano divise in due da un muro. Il sistema comunista è un sistema contrario alla

natura umana. E questo fatto non è soltanto pubblicamente riconosciuto, ma anche enfatizzato ripetutamente dallo stesso Partito comunista. Prima di arrivare al potere, il sistema comunista irretisce la popolazione con le sue splendide promesse. Sotto il suo dominio, invece, ci si rende conto che è un sistema intollerabile: e qui nasce l’opposizione interna. Ma molte persone non hanno il coraggio di opporsi, e scelgono invece di scappare. In ogni nazione governata dai comunisti c’è stata o c’è ancora una lunghissima fila di persone pronte a scappare. Il Muro di Berlino serviva proprio a impedire che la forza lavoro dell’Est – fondamentale per il comunismo fuggisse verso il mondo libero.

La gaffe storica del presidente appare su Facebook

Sarkò ci prova: «Quel giorno ero lì». Ma non è vero di Nicola Accardo a mattina del 9 novembre 1989 ascoltammo le informazioni che provenivano da Berlino, con Alain Juppé decidemmo allora di lasciare a Parigi per partecipare all’evento che si profilava. Nella notte diedi qualche colpo di piccone al Muro». Nicolas Sarkozy, o più probabilmente il blogger dell’Eliseo che si occupa della sua pagina Facebook, ha provato a riscrivere la storia prima di affiancare Angela Merkel alle celebrazioni di ieri sera a Berlino: si è vantato di captare notizie che non ci furono, anticipando la data di un viaggio che lui e Juppé fecero qualche giorno dopo, mentre il 9 novembre si trovavano come ogni anno a Colombey-les-Deux-Eglises per commemorare il 19esimo anniversario della morte del Generale de Gaulle. Il ricordo del presidente è zeppo di contraddizioni spazio-temporali: «Arrivati a Berlino ovest andammo verso la Porta di Brandeburgo dove una folla entusiasta si era già riunita all’annuncio del probabile crollo del muro. Poi attraversammo il checkpoint Charlie per passare dall’altra parte della città e infine demmo qualche colpo di piccone». Il tutto condito da una foto del giovane Sarkozy (all’epoca 34enne, vice segretario generale del partito Rpr) in compagnia di Alain Juppé, con cui osserva il muro armato di martello. Il sogno di Sarkò lo ha infranto Alain Auffray, all’epoca corrispondente da Berlino di Libération, rilevando sul

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suo blog gli errori storici del racconto del Presidente: nessuno, la mattina del 9 novembre, sospettava una possibile caduta del muro. Non ci fu nessun annuncio di “probabile crollo” e i colpi di piccone dei berlinesi si scatenarono il giorno dopo. Le folle riunite nella notte, inoltre, non si trovavano dalle parti della Porta di Brandeburgo, cioè ad ovest, ma a est e soprattutto a nord della città. Con il loro roadtrip verso la storia Sarkozy e Juppé avrebbero così anticipato perfino l’annuncio dell’apertura delle frontiere (che avvenne alle 18 e 15 per voce del dirigente della Sed Gunter Schabowski) e preceduto il violoncellista Rostropovich nella festa per l’abbattimento del Muro. Anche l’ex primo ministro Alain Juppé ha provato a confortare la versione di Sarkozy, ma poi ha corretto sul suo blog: «Ero a Berlino il 9 o qualche giorno dopo, la mia memoria è imprecisa sulla data esatta», inchiodato da un dispaccio della France Presse datato 9 novembre 1989 che precisa che il segretario generale dell’RPR si trovava a Colombey-les-DeuxEglises per la commemorazione della morte di de Gaulle. Poi una biografia lo vede a Berlino solo a partire del 16 novembre, «in compagnia di alcuni amici della Rpr», tra cui il suo vice Nicolas Sarkozy.

Ricordo una popolare novella russa che ho letto durante le mie scuole medie: parlava di come le guardie di frontiera cercavano di fermare le persone che volevano attraversare il confine fra due nazioni attraverso un fiume. Una era l’Unione Sovietica e l’altra un suo Paese satellite. Dopo aver guardato la mappa, non riuscivo a capire perché una persona volesse scappare da una nazione comunista a un’altra, anche questa sotto l’egida sovietica. Soltanto una volta cresciuto ho capito che anche quel minimo di libertà dei Paesi dell’Europa orientale era, per i cittadini so-

In Cina la gente preferisce gli squali alla dittatura comunista. L’esempio tedesco ci ha dato la forza di andare avanti dopo il massacro di piazza Tiananmen vietici, un sogno molto attraente. Soltanto quelle persone che hanno perso la propria libertà possono comprendere quanto questa sia attraente. La più grande differenza fra il Muro e lo Stretto è che uno è crollato e l’altro ancora no; inoltre, non bastano pochi minuti di rischio per oltrepassare il secondo.

Gli oltre cento chilometri di differenza rappresentano un limite fisico troppo grande: eppure, non riesce a impedire alla popolazione di pensare a un modo con cui scappare. Sono molto pochi coloro che riescono a fuggire in aereo, ma lo stesso il governo cinese controlla con attenzione persino il carburante caricato per i voli interni: l’intenzione è quella di


prima pagina impedire ai piloti di raggiungere “nazioni ostili”. Tutta questa energia serve a impedire alle persone di sentire l’attrazione della libertà. Anche così, il Partito comunista cinese non riesce a impedire alle persone di scappare dal proprio dominio dittatoriale. Il fiume che segna il confine con Hong Kong [retta da una mini Costituzione di stampo britannico che garantisce i diritti civili e politici ndT] è divenuto un posto sacro per tutti quei giovani che rischiano la vita tentando di attraversarlo. Nei primi tentativi, le persone usavano i pneumatici usati come salvagente: il sistema funzionava alla perfezione. Per fermarli, il governo ha intimato ai propri soldati di confine di sparare proprio alle ruote.

Come secondo tentativo, sono arrivati i sacchi pieni di palline da ping pong. Con questi sacchi, i fuggiaschi tentavano di resistere alla forza della corrente fino a raggiungere la sponda giusta del fiume, quella che all’epoca era sotto il dominio britannico. Nonostante fosse dominata da Londra, e i cinesi lo hanno sempre ritenuto un’offesa, Hong Kong era un’alternativa estremamente desiderabile per coloro che vivevano costretti nel regime del Partito comunista di Pechino. Anche l’utilizzo dei sacchi pieni di palline funzionava, tanto che aumentò il numero di soldati di stanza lì. Allora, la gente decise di passare via mare: preferivano essere cibo per gli squali piuttosto che rimanere in Cina. Sì, avete capito bene: sono più attraenti i lunghi denti di uno squalo, piuttosto che la prospettiva di vivere senza libertà. In questo modo si dà ragione all’antico proverbio cinese che dice: «Meglio le tigri della tirannia». L’uomo cerca la propria libertà, è insito nella sua natura. Quando arrivò in Cina la notizia della caduta del Muro di Berlino, noi cinesi eravamo scoraggiati: era appena fallito uno sforzo collettivo teso a raggiungere la libertà [il riferimento è ai moti di piazza Tiananmen, repressi nel sangue il 4 giugno 1989 ndT]. Noi studenti cinesi e i nostri concittadini abbiamo tentato una mossa più azzardata di quella dei berlinesi: abbiamo usato il nostro corpo e il nostro sangue per abbattere il Muro di Pechino. Ma, dopo il massacro compiuto dai carroarmati dell’Esercito di liberazione popolare, abbiamo fallito. Abbiamo raccolto i corpi dei nostri compagni con gli occhi pieni di lacrime, benedicendo la libertà che invece aveva raggiunto l’Europa dell’Est. In un momento di rassegnazione totale, abbiamo visto un lampo di luce nell’oscurità: il crollo del Muro ci ha dato speranza e incoraggiamento. Possiamo far crollare un muro ancora in piedi in Cina. Perché la libertà appartiene al popolo.

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La porta nota con il nome di Brandeburgo, simbolo della Germania unita. In basso il presidente del parlamento Buzek. Nella pagina a fianco, il presidente francese Nicolas Sarkozy e la foto che lo ritrae mentre piccona il Muro. Nel riquadro, Wei Jingsheng

Il 9 novembre visto da Jerzy Buzek, ex leader di Solidarnosc, ora presidente a Strasburgo

«Quando noi a Danzica riunificammo l’Europa» di Sergio Cantone

BRUXELLES. È toccato a Lech Walesa fare il primo colpo di piccone al Muro ricostruito simbolicamente vent’anni dopo. Segno che il ruolo della Polonia, nel 1989, fu determinante nel dare al mondo un indirizzo nuovo. E non è un caso che il parlamento europeo abbia dallo scorso luglio un presidente polacco, Jerzy Buzek. Fu uno dei membri più attivi del sindacato che si oppose all’apparato dello stato socialista, proprio accanto a Lech Walesa e a quello che in seguito divenne ministro degli esteri, Bronislaw Geremek, quando Buzek era primo ministro. I due furono gli artefici della candidatura polacca a Nato e Unione europea e avviarono i negoziati per l’adesione all’Ue nel marzo del 1998. Quello con Varsavia fu per Bruxelles il negoziato più difficile da un punto di vista tecnico, ma il più appassionante da quello storico. Infatti l’ultimo governo socialista polacco negoziò in una tavola rotonda la transizione con Solidarnosc prima degli eventi Berlinesi. Buzek è di confessione protestante mentre Geremek era di fede ebraica, niente male per un movimento che si è sviluppato nelle chiese cattoliche polacche con l’appoggio spirituale e materiale di Giovanni Paolo II. Si può dire che Buzek fu ed è protagonista indiscusso delle tre fasi, prima come militante di punta nella fase epica della sollevazione e della transizione, poi come primo ministro nel momento diplomatico con l’Ue e la Nato e oggi come capo dello scranno più alto dell’eurocamera. Ecco perché gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo 9 novembre 1989... Che tipo di sviluppi geopolitici immaginò tra l’estate del 1989 e il 9 di novembre dello stesso anno? Ho pensato che tutto stesse andando verso la liberazione completa dell’Europa Centrale e Orientale. Solo qualche mese prima avevamo partecipato a una tavola rotonda per preparare le prime elezioni libere, sicché quegli eventi non ci colsero di sorpresa perché le elezioni si svolsero (in Polonia) prima dell’apertura della frontiera tra l’Austria e l’Ungheria. Di fatto la Polonia era già un Paese libero quando Austria e Ungheria aprirono le frontiere. Sicché le nostre sensazioni, le nostre prospettive erano completamente diverse rispetto a quello che stavano vi-

vendo in quel momento altri Paesi del blocco sovietico. Erano come eravamo noi neanche un anno prima. E poi pochi mesi dopo anche il muro di Berlino sarebbe crollato. Ma in quel momento pensò che il muro di Berlino sarebbe caduto di lí a poco, tempo tre o quattro mesi? L’impressione fu che l’impero sovietico stesse per finire in quella parte di Europa, perché sarebbe stato impossibile andare contro la volontà di tutte le nazioni, anche se in realtà non pensai, lí per lí, che sarebbe andato tutto cosí velocemente. Eppure in Polonia… Già, in Polonia gli eventi avevano subito un’accelerazione improvvisa già nel gennaio dell’89, ma la nostra era una situazione particolare, legata al grado di sviluppo dell’opposizione ormai sedimentata attorno a Soldarnosc, al movimento sindacale da quasi un decennio. Insomma, l’alternativa era già strutturata e la situazione in Polonia era già matura per il cambiamento. Ma non bisogna dimenticare che all’epoca nessuno immaginava che l’ondata avrebbe travolto anche l’Urss ventiquattro mesi dopo. Ed ebbe da subito l’impressione che il comunismo, fattosi sistema attraverso il socialismo reale, sarebbe andato in frantumi? Beh, non in quel modo, pensai che ci sarebbe voluto ancora qualche anno, forse un decennio. Noi, come ho già detto eravamo già liberi, ma in quel momento altri come la Romania, la Bulgaria e i tre Paesi baltici erano ancora in una situazione completamente diversa. E infatti pensai che tutto sarebbe andato passo a passo, una sorta di lento e inesorabile effetto domino, caso per caso, Paese dopo Paese, anno dopo anno. E che ci sarebbe voluto molto più tempo. Invece tutto accelerò all’impazzata e nel giro di pochi mesi tutti i vec-

chi stati socialisti erano liberi. E secondo lei questo avvenimento ha riunificato l’Europa? Era ovvio che una volta arrivata la libertà, la tappa successiva sarebbe stata la riunificazione del continente. Sicché dopo solo qualche anno cominciammo il nostro processo di adesione all’Unione europea e all’Alleanza atlantica in Paesi come la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e l’Estonia e inseguito Lituania, Lettonia e altri ancora. Lei crede che come fattore di unificazione abbiano influito di più quegli eventi o l’Euro? Penso che quegli eventi, vent’anni fa, furono di un’importanza decisiva per tutti noi e anche per i nostri vicini dell’Europa occidentale perché fu un segno, un grande simbolo di riunificazione e quando distruggemmo la cortina di ferro tutto andò più rapido. Fu quindi più importante dell’Euro? Penso di sí, penso che fu più importante dell’Euro. Ma se ora vogliamo accrescere l’integrazione è necessario adottare l’Euro, secondo me. Lei pensa che i più vecchi stati membri dell’Unione europea stiano tentando di rallentare il ritmo dell’allargamento e dell’integrazione sotto la pressione delle rispettive popolazioni? Penso che i nostri cittadini in generale credano che sia meglio essere tutti insieme piuttosto che divisi. Siamo molto più potenti uniti, quando i ventisette Paesi agiscono assieme nell’economia e nella politica globali. E penso dunque che l’integrazione sia qualcosa di estremamente importante per i nostri cittadini, ma alcuni di loro lo dubitano e dicono no all’integrazione. Ebbene anche loro sono importanti. Perché anche la minoranza deve essere ascoltata. E dovremmo chiedergli le ragioni della loro opposizione.

Noi stavamo già preparando le prime elezioni libere: ecco perché non fummo colti di sorpresa


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Testimonianze. Come l’Europa cristiana,“orribilmente divisa in due”, venne riunita dal coraggio di alcuni grandi uomini

Il piccone di papa Wojtyla Havel, Walesa e Giovanni Paolo II sono fra i grandi protagonisti di una delle pagine più importanti del secondo millennio di Michael Novak er dieci anni a partire dal 1982 ho avuto il privilegio di far parte del Consiglio di Radio Free Europe (per l’Europa centrorientale) e Radio Liberty (per l’intera Unione Sovietica). Il presidente Reagan aveva dichiarato che l’obiettivo degli Stati Uniti era vincere la guerra fredda, non solo accettando una vittoria a lungo termine, e che il nostro compito era di raccontare le realtà sul posto quanto più accuratamente possibile. Ai nostri ascoltatori piaceva sentire il gusto di questa realtà e ci aiutavano con sempre maggiore partecipazione fornendoci piccoli frammenti di informazione. Verso la fine del 1988, potevamo disporre di telefonate in entrata gratuite per la maggior parte delle due aree. E le telefonate cominciarono ad affluire: chiamate di crescente quotidiana frustrazione, di rabbia per le ingiustizie locali, descrizioni delle condizioni in cui si trovavano i propri cari negli ospedali del posto, esempi recenti di ufficiali bugie locali, racconti di esplosioni locali di protesta. Circa la metà degli ospedali non aveva l’acqua calda; spesso si assegnavano due pazienti per letto; i parenti dovevano portarsi il cibo per sostenere i loro cari. Al nostro incontro di partenza, a Monaco nel 1989, le nostre persone chiave raccontavano che tutti i segnali facevano pensare a un crollo dell’Urss entro la fine dell’anno.

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L’enorme volume delle chiamate in entrata e il loro tono disperato, oltre ai dettagliati racconti dei nostri agganci sempre più numerosi nell’intera desolata zona di trasmissione, fecero in modo che anche i nostri direttori più duri e astiosi cominciassero a credere che qualcosa di nuovo stava per succedere. La nostra gente ci raccontò una testimonianza sulla comparsa di una novità fra i venditori ambulanti di Mosca: un mercato di lampadine fulminate. Perché vendere lampadine fulminate? Per portarle in ufficio, svitare quelle buone da portarsi a casa e avvitare quelle fulminate per l’ufficio. Non appena tornai a casa, scrissi un breve articolo per trasmettere questa previsione e avvisando i lettori che, qualsia-

I giovani in fila per passare attraverso una delle numerose crepe del muro che divideva Berlino est dalla parte ovest. In basso, decine di ragazzi tedeschi con la bandiera nazionale. Nella pagina a fianco, la capitale tedesca come si presenta oggi mentre commemora quel giorno di vent’anni fa

La vera magia l’aveva compiuta il giovane Papa polacco, che alla sua gente e al mondo intero diceva: «Non abbiate paura» si cosa stessero ascoltando dalla maggior parte dei media e dagli esperti universitari sulla Russia, la fine era vicina. I miei articoli di solito andavano in stampa velocemente nei giornali religiosi che sceglievo. Questa volta, nessun direttore mi aveva creduto. Il pezzo tornò indietro almeno cinque volte. Quindi mi rivolsi a Steve Forbes del giornale Forbes: lui era presidente del Consiglio di amministrazione di Radio Free Europe/Radio Liberty, quindi capì. Sviluppai più approfonditamente il mio articolo fino ad ottenere, da una pagine, altre tre, usando nuove informazioni

a mano a mano che si svolgeva. Il mio intento era di aiutare i lettori ad anticipare gli eventi in arrivo e a collocarne ognuno in una narrativa rivelatrice più ampia. Cominciai la serie il 24 luglio. Nella primavera del 1989 si cominciava a dichiarare apertamente – anche dallo stesso Gorbachev – che l’Urss poteva avere una forza militare da primo mondo, ma che il resto dell’economia era da terzo mondo. Non si poteva più nascondere. Anche la produzione del sapone era in calo.

Si raccontava di cibo che scarseggiava, con il peggio che doveva arrivare. Alcuni esperti addirittura prevedevano carestie. Il presidente Reagan nel 1983 chiamò l’impero sovietico “l’impero del male”. Lo fece con espressa previdenza, contro il parere di quasi tutti i suoi importanti consiglieri e con immenso sfregamento di mani dei

giornalisti occidentali. Reagan sapeva che sarebbe stato inevitabile che un giorno un giornalista avrebbe chiesto a Gorbachev se era d’accordo. Da allora, qualsiasi cosa i sovietici facevano era soggetta a quello che i comunisti odiavano maggiormente: la valutazione morale. Fino ad allora, i comunisti avevano disdegnato la “moralità borghese”e insistevano che l’unico bene morale era far progredire il Comunismo, e il male doveva resistergli. Ora qualsiasi cosa facevano poteva venire giudicata moralmente, usando termini legittimati dallo stesso Gorbachev. “Apertura, Glasnost” stava diventando quotidianamente uno spillo più appun-

tito per il regime. La prima gigantesca esplosione contro l’impero si verificò – dove altrimenti? – in Polonia. Lech Walesa, l’elettricista elettrificante del sindacato Solidarnosch, fu ispiratore di una massiccia esplosione di proteste pubbliche in tutto il Paese e il generale Jaruzelski fu costretto a piegarsi alle elezioni parlamentari che questa volta non potevano essere manipolate.

Ad agosto, la democrazia ancora una volta fece la sua pacifica magia in una sorprendente transizione di potere. La vera magia si era verificata dieci anni prima quando il nuovo papa polacco, il giovane e vigoroso Giovanni Paolo II, fu invitato (dopo una sua inesorabile insistenza) da un riluttante governo comunista polacco a fare un pellegrinaggio nella sua terra natia. Quando le folle, anche a milioni, si riunirono attorno a lui, furono colte da una sorprendente consapevolezza: noi siamo più di loro. «Non abbiate paura!» era il tema ricorrente del Papa. Nel corso dei dieci anni successivi e oltre, il popolo polacco non ebbe paura. Si scoprì che il Papa aveva molte più divisioni di Stalin e che le armi dello spirito conferiscono più potere delle armi militari. Ahimè, molti ad occidente ancora non potevano credere che l’intero impero sovietico stava crollando. E allora il centro dell’azione si spostò in Cecoslovacchia, dove più di duecento coraggiosi scrittori, preti e medici firmarono nel 1977 una carta di diritti umani che condusse molti di loro in prigione o fece loro perdere il lavoro. Un medico dal futuro molto promettente fu condannato a spalare carbone nello scantinato di un palazzo – scoprì che per la maggior parte del giorno poteva leggere (e pregare) e anni più tardi raccontò dei paradossali benefici della sua punizione. Il futuro cardinale di Praga, il cardinale Vlk, fu condannato a lavare le finestre di uffici e abitazioni – e molti, do-


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«Ma la riunificazione è incompiuta» Angela Merkel apre i festeggiamenti: più emozione che retorica alla Porta di Brandeburgo di Pierre Chiartano

BERLINO. «La riunificazione tedesca è ancora incompiuta». Sceglie toni pesanti, il cancelliere Angela Merkel, per dare il via alle celebrazioni ufficiali per i vent’anni della caduta del Muro. Lo fa in un’intervista alla prima rete televisiva pubblica Ard, invitando la nazione a fare uno sforzo per equiparare il tenore di vita tra est e ovest del Paese. Il Cancelliere spiega che nei 5 laender tedesco-orientali sono spuntati molti «paesaggi fioriti», come aveva promesso Helmut Kohl al momento della riunificazione, ma anche che «all’Est la disoccupazione rimane con un tasso doppio di quello dell’Ovest». E che, proprio per questo motivo, è indispensabile mantenere fino al 2019 il “contributo di solidarietà” (una tassa del 5%) per continuare a finanziare la ricostruzione dell’est. Poi, nel pomeriggio, la Merkel attraversa l’ex valico di frontiera che divideva in due Berlino, sulla Bornholmer Strasse, per inaugurare la festa. Insieme a lei ci sono l’ex presidente dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, e l’ex presidente della Polonia, Lech Walesa. Fu proprio la postazione di confine di Bornholmer Strasse ad aprire per prima la frontiera ai cittadini tedescoorientali durante la notte del 9 novembre 1989.

Oggi, dopo vent’anni, raccontare i cambiamenti, le mutazioni culturali e urbanistiche di Berlino o della Germania non è possibile. Sono successe più cose di quante se ne potranno mai scrivere e la storia è diventata un fiume in piena. Oggi, i berlinesi si meravigliano che tanti europei vogliano fare una cronaca di questa ricorrenza. L’anomalia da raccontare era - per la Weltanschauung germanica - quella di po la sua nomina a cardinale, riconobbero il suo volto in televisione. Nell’estate del 1989, sotto la leadership carismatica dell’ex prigioniero e drammaturgo Vaclav Havel, le proteste nell’antica zona di Praga a Piazza Venceslao crebbero per intensità e quantità. Se la Po-

un Paese e di una città divise. Non quella del 2009. Allora tutto poteva accadere e niente era scritto, se non nei cuori dei berlinesi e nella loro incrollabile e fortissima volontà di tornare uniti. Egon Krenz aveva sostituito il vecchio Erich Honecker alla guida della Sed (il partito socialista della Rdt) e del Paese e il Neues forum organizzava riunioni clandestine nelle chiese sconsacrate della parte est della capitale: con migliaia di persone, troupe televisive, rappresentanti politici e non dell’ovest.

Vecchi simulacri luterani di un trascendente cancellato dall’ideologia, che si prendevano una piccola rivincita sulla storia che stava riscrivendo il palinsesto per il nuovo secolo. Erano gli ultimi giorni di ottobre e in quella città capivi come la forza della storia superava quella della politica. Gli eventi si potevano giusto cavalcare. Centinaia di migliaia di persone nelle strade erano il terminale di quegli accadimenti. Oggi il mondo bipolare non esiste più e Check Point Charlie, mitico posto di passaggio tra la città libera e quella comunista, è una tappa per turisti. Non esistono più i vopos, gli agenti della Volkpolizei, e il clima da guerra fredda e conflitto di spie, ben descritto nelle pagine di Le Carré. La Friedriechstrasse era divisa a metà. Nell’89 la parte est era piena di cantieri e gru. Rinnovata di continuo. Chi passava dall’ovest non doveva avere una percezione troppo forte del cambiamento di scenario, di mon-

lonia poteva vincere un cambio di regime, perché non poteva farlo anche la Repubblica Cecoslovacca? Infine, in un giorno che rimarrà alla storia, il 9 novembre 1989 le manifestazioni raggiunsero il culmine. Un giovane lavoratore di una birreria vicino alla Piazza

do e di civiltà. Palazzi nuovi e restaurati, negozi con le vetrine piene e scaffali vuoti, ne erano la cifra. Ora in quel punto di transizione tra due universi c’è solo un museo, un gabbiotto in legno ricostruito e dei finti militari per foto ricordo.

All’angolo opposto, lo Starbucks pieno di turisti e universitari che bevono e digitano distratti sui loro laptop, raccontano di un mondo che non esiste più. È la nuova Germania, che oggi parla dell’affare Opel, del gran rifiuto di Gm e della crisi che ancora morde. Tra gli eventi che vogliono far rivivere quel momento storico, Moahmad Yunus, Nelson Mandela, Vaclav Havel e artisti come Thierry Noir e Kiddy Citny hanno firmato le tessere del domino della libertà. «L’idea della nostra iniziativa il cui motto è “Devi esserci! Fai la storia con l’effetto domino”da Berlino si è diffusa in tutto il mondo. Ogni tessera racconta la sua storia della caduta del muro. Non ha importanza che venga da Parigi,Varsavia o Berlino» afferma Moritz van Dulmen, direttore del Kulturprojekte Berlin che ha organizzato l’evento per la notte del 9 novembre. «Sono soddisfatto di essere riuscito a coinvolgere nel nostro progetto anche le generazioni di quelli che sono nati nel 1989», continua Dulmen che per l’occasione ha mobilitato più di 15mila persone. Nelle due piazze di fronte alla porta di Brandemburgo, oltre ai mega schermi, alle torri televisive e alle strutture per il pubblico, non mancano le note da festa popolare. I berli-

Nel parterre degli invitati, oltre al premier italiano Berlusconi: Sarkozy, Medvedev e Clinton

in piedi su una scatola sollecitava i suoi compagni ad unirsi alle proteste e si racconta che abbia declamato con drammaticità la seguente frase: «Noi deteniamo queste verità perché siamo auto-evidenti, che tutti gli uomini sono dotati dal loro Creatore di diritti inalie-

nesi hanno metabolizzato la polvere del muro, i mattoni e l’intonaco che oggi vendono a pezzettini, nelle bancarelle. Il programma ha preso il via alle sette di sera, con il Festival of Freedom e i concerti alla Pariser Platz, tra questi quello del coro dell’Opera di Berlino. Maestro delle cerimonie il sindaco della città, Klaus Wowereit, il presidente federale Horst Kohler e la cancelliera Angela Merkel. Nel parterre degli invitati, insieme al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, anche Nicolas Sarkozy, Dmitri Medvedev, Gordon Brown e il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton.

Poi i protagonisti di quel momento storico, come Michail Gorbaciov, Hans-Dietrich Gensher, Lec Walesa e Miklos Nemeth, l’allora premier ungherese. Tra questi, i membri di quella che fu l’opposizione della Repubblica democratica tedesca (Rdt) come Marianne Birthler, Roland Jahn e Katrin Hattenrehauer per ricordare «una rivoluzione pacifica partita dalla gente nelle strade». Una serata che è stata accompagnata dalle parole degli anchorman Guido Knopp di Zdf e Klaas Heufer-Umlaut di Mtv. Un tempo la tor era sorvegliata dai militari comunisti, ingabbiata tra le due sponde del muro. La potevi osservare dai finestroni dei primi piani del Reichstag sul lato del viale 17 giugno. Lì sotto una passerella per lanciare uno sguardo oltre il muro. Ora ci sono le note e le parole di Jon Bon Jovi e della sua We weren’t born to follow «per scandire il sentimento di gratitudine verso “coloro che a est scesero in campo per la democrazia e la libertà nelle condizioni più difficili» come ha affermato il sindaco della città.

nabili, fra questi il diritto alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità!». Gli studenti e i poeti che manifestavano sono una cosa, ma quando gli operai si unirono alle proteste, tutte le pretese del comunismo crollarono. Il governo si dimise, Havel fu acclamato presi-

dente ad interim e in pochi giorni, se non ore, l’orribile muro che aveva separato l’Europa cristiana in due parti (come sostenne il Papa) si sgretolò, martellata dopo martellata. Le radici dell’Europa cristiana tornarono ad alimentare un unico albero.


società

pagina 6 • 10 novembre 2009

Appelli. Al via il VI Congresso mondiale della Pastorale dei rifugiati mentre nel Canale di Sicilia due barconi sono alla deriva

La risorsa immigrati Benedetto XVI: «Accogliete i migranti che fuggono dalle nuove schiavitù» di Franco Insardà

ROMA. Ancora barconi con un centinaio di migranti a bordo alla deriva nel Canale di Sicilia. Ancora uno scaricabarile tra Malta e l’Italia su chi debba aiutare questi disperati in balia del mare. Ieri due imbarcazioni hanno lanciato un drammatico Sos per evitare di essere protagonisti dell’ennesima tragedia del mare. Perché se il governo de La Valletta ha negato la presenza dei due natanti, quello di Roma ha confermato la richiesta d’aiuto spiegando però di non potere fare nulla visto che i clandestini si trovano in acque internazionali. Sono state allertate, però, le unità della Guardia costiera e della Marina impegnate nei normali servizi di pattugliamento. A rendere ancora più preoccupante la situazione dei migranti sono le condizioni meteo, in netto peggioramento in tutto il Canale di Sicilia, con mare forza 6. Tutto questo proprio mentre a Roma si è aperto il VI Congresso mondiale della Pastorale dei migranti e dei rifugiati alla presenza di papa Benedetto XVI.

Il Pontefice ha lanciato un appello ai politici e non soltanto «per aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie». Ha sottolineato che i migranti, più di un problema, costituiscono una risorsa da saper valorizzare «opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo». Quindi ha ricordato che «molti migranti abbandonano il loro Paese per sfuggire a condizioni di vita umanamente inaccettabili senza però trovare altrove l’accoglienza che speravano». Il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale dei migranti e gli itineranti, monsignor Antonio Maria Veiò, aprendo i lavori ha detto chiaramente che «occorre superare le paure che nascono dalle migrazioni viste come un’incognita, talvolta ridotta esclusivamente a una questione di ordine pubblico da affrontare con la repressione». E ha aggiunto: «Oggi tuttavia, appare sempre più importante puntare sulla integrazione, che non equivale a un processo di assimilazione». Anche monsignor

Agostino Marchetto ha sottolineato che «l’integrazione non è una strada a senso unico, non è cammino da far percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua “ricchezza”, cogliendone i valori della cultura. La vera integrazione si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale».

L’arcivescovo ha criticato un tipo di inserimento più simile all’assimilazione, ribadendo che «il lavoratore straniero è persona, immagine di Dio, che non si può considerare come una merce o una mera forza lavoro, né trattarlo come qualsiasi altro fattore di produzione». Le parole di Marchetto hanno riaperto le polemiche estive tra l’Italia e le gerarchie ecclesiastiche sui respingimenti e il presidente del Senato, Renato Schifani, nel suo intervento ha precisato che sul tema dell’immigrazione spesso ha avuto il sopravvento l’aspetto ideologico, utilizzando «talvolta lo strumento improprio della polemica politica, tra opposti

schieramenti e anche all’interno degli stessi partiti, per rimarcare più gli elementi di contrapposizione, che i punti di possibile convergenza e condivisione».

Secondo Schifani la sicurezza e integrazione «sono obiettivi giusti solo se interpretati attraverso la lente della reciprocità. Chi accoglie non si può sentire svuotato della propria storia, ma arricchito nella sua identità da un incontro dove, sull’ostilità e sull’indifferenza, prevale il rispetto». La solida-

Monsignor Marchetto: «Il lavoratore straniero non si può considerarlo come una merce o una mera forza lavoro». Schifani: «C’è il rischio che tutto si trasformi solo in polemica ideologica» rietà e l’integrazione, secondo il presidente del Senato, «saranno più solide se da parte degli immigrati saranno adottati comportamenti che diano concreta dimostrazione della loro reale volontà di osservare le leggi e le regole che governano il nostro Paese che li ospita: rispetto della legalità, delle nostre tradizioni, della nostra cultura».Quindi un «sincero grazie alla Chiesa e al mondo cat-

tolico, che è divenuto struttura portante della solidarietà nei confronti degli immigrati».

Benedetto XVI ha ricordato che l’immigrazione rappresenta uno dei «grandi cambiamenti sociali in atto e occorre dare rispose avendo chiaro che non ci può essere uno sviluppo effettivo se non si favorisce l’incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture e il rispetto delle

legittime differenze». Il Papa ha invitato a «considerare l’attuale fenomeno mondiale migratorio come condizione favorevole per la comprensione tra i popoli e per la costruzione della pace e di uno sviluppo che interessi ogni Nazione».

Nel suo discorso Ratzinger ha richiamato anche a Wojtyla rispetto allo stesso processo di globalizzazione che «secondo quanto opportunamente ebbe a sottolineare il Servo di Dio Giovanni Paolo II, può costituire un`occasione propizia per promuovere lo sviluppo integrale, soltanto però se le differenze culturali vengono accol-

Il cardinale Bagnasco contro «la politica conflittuale che abbandona i cittadini a se stessi»

La Cei: «Fermate la deriva dell’odio» ASSISI. In Italia «c’è un pericoloso clima d’odio». L’allarme è del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, lanciato all’apertura dell’Assemblea generale della Cei, che ieri ha iniziato la propria settimana di consultazione. Nel corso della sua prolusione, il porporato ha detto: «È necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito a un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese». Il cardinale auspica che «nel riconoscimento di una sana e vivace dialettica si arrivi a una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente». E quindi «si impone una decisa e radicale svolta tanto nelle paro-

le quanto nei comportamenti», viceversa si rischiano «conseguenze inevitabili in termini di sfiducia e disaffezione verso la cosa pubblica, e un progressivo ritiro dei cittadini nel proprio particolare. Da parte di ciascuno serve un supplemento di

buona volontà, di onestà intellettuale, ma anche il superamento di ideologie di un passato che non vuole passare. Il nostro popolo gradirebbe il superamento delle campagne denigratorie: è una responsabilità grave che ricade in primo luogo su chi ha doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali e informativi». L’arcivescovo di Genova ha parlato anche della scuola affermando che la Cei «si augura che il governo reintegri i finanziamenti per le scuole cattoliche». Bagnasco ha poi ribadito le proprie riserve sull’ora di religione islamica: «Non è in discussione la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che, in uno Stato laico sono di ordine culturale ed educativo».


società te come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana». Secondo il Papa «le migrazioni invitano a mettere in luce l’unità della famiglia umana, il valore dell’accoglienza, dell’ospitalità e dell’amore per il prossimo. Ciò va però tradotto in gesti quotidiani di condivisione, di compartecipazione e di sollecitudine verso gli altri, specialmente verso i bisognosi». Così ha avuto gioco facile nel richiamare la sua enciclica Caritas in veritate nella quale si sottolineava «che vero sviluppo è solo quello integrale, quello cioè che interessa ogni uomo e tutto l’uomo».

In considerazione del fatto che donne, uomini, bambini, giovani e anziani, a milioni «affrontano i drammi dell’emigrazione talvolta per sopravvivere, più che per cercare migliorate condizioni di vita. Si va infatti allargando sempre più il divario economico fra Paesi poveri e quelli industrializzati». E ad aumentare le dimensioni del fenomeno c’è anche «la crisi economica mondiale», che ha ricordato il Papa costringe tanti «ad abbandonare le proprie terre» per accettare lavori in condizioni per nulla consone alla dignità umana». «Ogni comunità cristiana non può non nutrire rispetto e attenzione per tutti gli uomini, creati a immagine e somiglianza di Dio e redenti dal sangue di Cristo, ancor più quando si trovano in difficoltà». Per questo motivo «la Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie, sapendo che essi non sono solo un problema, ma costituiscono una risorsa da saper valorizzare opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo». E Benedetto XVI ha concluso il suo discorso richiamando le Sacre scritture: «La condizione dei migranti, ed ancor più quella dei rifugiati, richiama alla mente, in un certo modo, la vicenda dell’antico popolo biblico che, in fuga dalla schiavitù dell’Egitto con il sogno nel cuore della terra promessa, attraversò il Mar Rosso e, anziché giungere subito alla meta desiderata, dovette affrontare le asperità del deserto».

10 novembre 2009 • pagina 7

Il ministro in Libia promette nuovi investimenti per la sicurezza

E Maroni ringrazia i “doganieri” di Tripoli di Marco Palombi

ROMA. Magari Roberto Maroni non è destinato ad essere il ministro dell’Interno che sconfigge la camorra, come generosamente previsto dal presidente del Consiglio, però sicuramente è il lumbard che sta rivoluzionando i rapporti tra la Lega e il mondo arabo. Non si parla, certo, di politiche per l’integrazione in Italia, ma dell’alleanza strategica che l’Italia – prima quella del centrosinistra e poi quella di Silvio Berlusconi – ha stretto con la Libia di Muhammar Gheddafi per bloccare l’immigrazione illegale, o almeno quella parte del tutto minoritaria del fenomeno che da Lampedusa sbarcava nei Tg. Il Colonnello infatti è l’unico arabo che piace agli avventori delle osterie padane potendosi permettere di fare ai clandestini – come da incontrovertibili testimonianze – quello che in Italia è vietato per legge: può arrestarli e chiuderli in prigione senza processo e a tempo indeterminato, ributtarli nel deserto scaricandoli da container come fossero animali, torturarli, stuprare le donne o ucciderne un tot senza che nemmeno si sappia in giro. L’Italia e l’Unione europea mettono i soldi, la Libia fa quello che deve fare e tutti fanno finta di niente.

Roberto Maroni è da ieri in Libia, per la terza volta nel 2009, per festeggiare tutto questo. Nel gergo del Viminale: «Confermare gli ottimi rapporti di collaborazione col governo libico che sta facendo un lavoro molto efficace nel contrasto all’immigrazione clandestina». «Chiederemo alla nuova Commissione europea di mantenere gli impegni presi con la Libia» (tradotto: soldi e mezzi), ha promesso Maroni al suo omologo di Tripoli Younis al-Obeidi. Il nostro ministro ha anche riferito ai libici che «siamo pronti a consegnare altre tre motovedette concordate e fornire il periodo di formazione previsto per gli equipaggi più altre dotazioni, autovetture, strumenti informatici, tutto ciò che serve per mantenere efficiente il sistema di controllo e sicurezza definito nei Trattati». In particolare, Maroni ha ricordato il contratto firmato a settembre tra il governo libico e la Selex, una società di Finmeccanica, che dovrebbe fornire al Colonnello un sistema di controllo della frontiera sud, quella che si apre sulle centinaia di chilometri di confine desertico col Sudan. «Le risorse – ci ha tenuto a sottolineare il ministro – sono già a disposizione». Risorse, ingenti, che spenderemo per controllare una rotta su cui - si ascoltino le voci dei militari libici in Noi difendiamo l’Italia, un audiodocumentario del giornalista tedesco Roman Herzog – passano

poche decine di immigrati ogni mese (ovviamente non tutti diretti in Italia). Lo stesso tipo di progetto, peraltro, la Selex lo starebbe preparando anche per i confini meridionali italiani: si parla di un sistema di controllo radar che dovrebbe individuare anche imbarcazioni di piccole dimensioni, come quelle usate per l’immigrazione clandestina via mare. Ancora una volta un sistema - che si presume costoso e logisticamente complesso – viene impiegato per fermare la sola produzione mediatica di immigrazione: i cosiddetti barconi infatti sono assai ripresi dalle tv, ma “portano” appena il 10% dei clandestini che arrivano nel nostro Paese e - nel caso di quelli che dal Corno d’Africa attraversano la Libia - quasi tutti in possesso dei requisiti per ottenere asilo (non concederglielo, secondo le nostre leggi, è illegale).

Come che sia, i libici tengono molto a questa partnership con l’Italia e l’Europa che li ha tirati fuori dalla lista degli Stati canaglia. Il ministro dell’Interno alObeidi ad esempio - che peraltro verrà ricevuto con tutti gli onori a Venezia a fine novembre - ieri ci ha tenuto a far notare che Tripoli «ha rispettato gli impegni presi» e «messo in piedi un grande apparato di controllo delle coste libiche che ha portato all’arresto di bande e organizzazioni criminali che sostenevano il movimento migratorio». Tutti risultati che, va ricordato, vengono certificati solo dal governo libico: l’Europa non ha alcuno strumento per sapere se effettivamente la magnifica riuscita delle politiche securitarie tripoline sia reale o meno – per capirci quanti trafficanti siano stati o meno arrestati, quanti irregolari bloccati nell’atto di salire sulla nave – ma deve fidarsi dell’autocertificazione di Gheddafi. Che la faccenda non vada proprio come la raccontano i governi si potrebbe desumere anche dalla lettera che la comunità eritrea in Libia ha scritto al Papa (consegnandola a settembre al cardinal Martino del Pontificio consiglio Giustizia e Pace): la situazione a Tripoli, scrivono, «è oltre ogni limite», l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) non fa nulla visto che la Libia non ha firmato la Convenzione sui rifugiati e il lasciapassare Onu a Tripoli è carta straccia. Non resta che il mare, scrivono gli eritrei, anche se in mare si muore. A chi festeggia per la diminuzione del 90% degli sbarchi va infatti ricordato l’altro lato del problema: dove sono le 17.000 persone che quest’anno non sono riuscite ad arrivare in Italia?

Sarà la Selex, una società di Finmeccanica, a fornire a Gheddafi un sistema di controllo della frontiera sud verso il deserto del Sudan


diario

pagina 8 • 10 novembre 2009

Resa dei conti. All’Ecofin di oggi la Ue imporrà all’Italia di riportare entro il 2012 il deficit/Pil nei parametri di Maastricht

Una exit strategy lunga tre anni

Sul rigore mano pesante di Bruxelles anche con Parigi, Berlino e Madrid ROMA. Tre anni per riportare

di Francesco Pacifico

il deficit/Pil italiano sotto il famigerato tetto del 3 per cento. Tre anni per sistemare i conti pubblici o quantomeno far segnare un’inversione nel Paese con la spesa pubblica più sbilanciata d’Europa. Questo il messaggio per il Belpaese che arriverà oggi dall’Ecofin. Nelle strategie per uscire dalla crisi il concetto di exit strategy è ancora vago. Questo almeno fanno intendere i governanti europei. Eppure la Ue sta per rompere indugi chiedendo agli Stati membri strette già dal 2010. Quindi, si passerebbe con un anno d’anticipo dagli aiuti alle banche e all’economia reale ai tagli di spesa improduttiva.

All’Ecofin di oggi il commissario all’Economia, Joaquin Almunia, imporrà scadenze a suo dire molto ferree per chiudere con il laissez faire finanziario di questo ultimo biennio. Se l’Italia deve rientrare dal deficit nel 2012, Francia, Germania e Spagna – che però hanno disavanzi doppi rispetto al Belpaese – hanno un anno in più. Inutile dire che proprio Parigi e Berlino – soprattutto in prospettiva di ampi tagli fiscali – non siano entusiaste di questi rientri così rigidi. Ma che il clima stia per cambiare lo ha chiarito per l’ennesima volta il governatore della Bce, Jean Claude-Trichet. Ieri, come ha ripetuto prima a un workshop della Bri e poi durante la cena dell’Eurogruppo, ha spiegato che «il mondo ha evitato una depressione economica estremamente pericolosa. La cadu-

nevoli. Soprattutto se si avvereranno le stime della Ue, migliori rispetto a quelle del Fmi: il deficit a quota 5,3 per cento sia nel 2009 che nel 2010, per poi scendere al 5,1 nel 2011. Quindi tre anni per ritrovare la via del rigore. Un impegno che si traduce in un rientro progressivo di mezzo punto di deficit all’anno. E che soprattutto dovrebbe iniziare già con la prossima Finanziaria. Ma la cosa potrebbe avere ripercussioni nella manovra in questi giorni al vaglio del Senato e con la quale buona par-

Almunia chiederà a Tremonti di attenersi al Dpef e di intervenire sul debito pubblico «attuando riforme per aumentare il potenziale di crescita» ta libera è finita anche se restano molti rischi che non consentono ancora di compiacersi per lo scampato pericolo». Eppure è necessaria «un’inversione di rotta, per quanto graduale, ma anche tempestiva per non alimentare l’inflazione futura» Quindi rigore e non più indebiti aiuti di Stato. E, già da dicembre, fine delle aste di liquidità a 12 mesi per aiutare le banche. Per l’Italia che deve trovare i fondi per tagliare l’Irap o dotarsi di una rete in fibra ottica, i tempi di rientro sono ragio-

te della maggioranza vorrebbe tagliare l’Irap. Al riguardo il responsabile del Lavoro Maurizio Sacconi, ospite di “Mattino” 5 e guardiano dei conti alla stregua di Tremonti, ha fatto sapere: «Ogni decisione sarà assunta valutando l’andamento delle entrate, comprese quelle che arriveranno dallo scudo fiscale». Quindi, del suo collega, ha aggiunto: «Tremonti ha assolutamente ragione. Il requisito della stabilità è una sorta di “primum vivere” e le ragioni della instabilità non sono finite. Dobbiamo mantenere l’im-

Murdoch vuole far pagare i suoi contenuti sul web

Lo Squalo morde Google ROMA. Nei mesi scorsi aveva bollato il suo pericoloso concorrente come «un parassita». Ieri l’editore Rupert Murdoch ha rilanciato contro Google. Il magnate australiano potrebbe presto mettere in atto una strategia aggressiva per tutelare i contenuti online della galassia News Corp, che include anche il Wall Street Journal, il Times e il Sun. Per farlo si dice pronto a studiare sistemi per bloccare le ricerche di notizie effettuate proprio con Google news. «Quando cliccano ottengono la pagina con le notizie pubblicate dai nostri giornali. E senza pagare».

Murdoch, nel corso di un’intervista a Sky News Australia, ha spiegato che potrebbe prendere in considerazione una manovra di questo genere una volta che saranno avviati i piani per fare pagare agli utenti i contenuti web di News Corp.

Il tycoon ha però spiegato di non essere un fan del “pay per news”: en passant ha definito «uno scandalo» il pagamento obbligatorio del canone Bbc da parte di ogni cittadino britannico in possesso di un televisore.

Del suo attivismo beneficia intanto il gruppo L’Espresso. Il mercato e gli analisti hanno plaudito all’accordo con il gruppo di Murdoch per l’affitto della frequenza televisiva di Rete A che consentirà il lancio di un Cielo, nuovo canale per il digitale terrestre. Riuscendo in questo modo a scalfire la supremazia di Mediaset in questa piattaforma. A Piazza Affari si è registrato un balzo del 10,26 per cento, a 2,197 euro, per il titolo di De Benedetti. Alcuni analisti (Chevreux e Centrosim) hanno anche approvato il piano di taglio dei costi che il gruppo editoriale sta portando avanti.

pegno a tenere per tre anni fermi i saldi di bilancio bloccati a giugno 2008 con la manovra con la quale abbiamo anticipato la grande crisi». Se l’Italia ha tre anni di tempo per rimettersi in riga, Germania, Francia e Spagna ottengono dodici mesi in più. Ma dovranno riallineare i loro conti con interventi più stringenti. Parigi – con un deficit stimato al 8,3 per cento nel 2009, 8,2 nel 2010 e 7,7 nel 2011 – dovrà ridurre annualmente il Pil dell’1,25. Stessa velocità anche per Berlino. Al nerbo dell’Eurozona la Ue non ha voluto fare sconti, riscontrando maggiori sentori di ripresa. Diverso il discorso della Spagna, il Paese nel Vecchio Continente che ha più risentito dalla bolla immobiliare. Con una disoccupazione del 20 per cento e un deficit/Pil che tra il 2009 e il 2011 passerà dall’11,2 al 9,3 per cento, Madrid dovrà garantire un intervento in termini strutturali dell’1,75 annuo. Non va meglio alla Gran Bretagna, che può “vantare” un disavanzo che l’anno prossimo salirà fino al 12,9 per cento: i tagli, e fino al 2015, devono incidere su quasi 2 punti di deficit. Ma nelle sue considerazioni di oggi la Ue non identificherà soltanto una road map per rientrare dalla crisi finanziaria. Saranno altre tre le altre raccomandazioni che Almunia farà al governo di Roma. Innanzitutto chiederà di attuare pienamente il bilancio approvato e il Dpef. Quindi di accelerare la riduzione del debito, che nel 2011 sfonderà il tetto del 117 per cento sul Pil. In ultimo «attuare riforme con l’obiettivo di aumentare il potenziale di crescita». E la lista, si sa, parte con l’innalzamento dell’età pensionistica e arriva alla liberalizzazione dei servizi dove c’è meno concorrenza.

Tra l’altro, Bruxelles dovrebbe rilevare che è insostenibile un servizio del debito pari al 5 per cento annuo del Pil ogni anno con un così basso potenziale di crescita. Sempre ieri alla cena dell’Eurogruppo i ministri competenti hanno anche discusso dei picchi di disoccupazione che si registreranno il prossimo anno. Con gli Stati membri pronti a studiare soluzioni che partono dall’idea di riformare i sistemi previdenziali per recuperare più risorse per il welfare più proattivo.


diario

10 novembre 2009 • pagina 9

Intanto ci sono i primi indagati tra chi ha avuto contatti col giovane

La nuova influenza continua a fare vittime: ieri altre quattro

Giovanardi: «Cucchi solo un drogato anoressico»

Ancora morti per la febbre. Fazio: «Niente di grave»

ROMA. «Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto è morto, e la verità verrà fuori come, soprattutto perché era 42 chili». Lo ha detto il sottosegretario Carlo Giovanardi, intervenuto a «24 Mattino» su Radio 24 per parlare di droga. Parlando di Cucchi, Giovanardi ha continuato: «La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente, poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato, certo bisogna vedere come i medici l’hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così». Ilaria, sorella di Stefano Cucchi ha risposto a Giovanardi dai microfoni di Cnrmedia: «A Giovanardi che fa queste dichiarazioni a titolo gratuito, rispondo solo che il fatto che Stefano avesse problemi di droga, noi non l’abbiamo mai negato, ma questo non giustifica il modo in cui è morto».

ROMA. Continua a salire il nu-

Intanto sono state effettuate le prime iscrizioni sul registro degli indagati della procura di Roma: i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno deciso di iscrivere per il reato di omicidio preterintenzionale i nomi di chi ha avuto contatti con Cucchi dal momento dell’arresto fino al ricovero in ospedale, passando per il carcere di Regina Coeli. E sui siti di abuondiritto.it, italiarazzismo.it, innocentievasioni.net, la documentazione clinica di Cucchi. «Non c’è alcun mistero sulla sua morte. Può sembrare paradossale, ma tutto è documentato e leggibile negli atti» queste sono le parole di Luigi Manconi. E Giuseppe Giulietti, dell’associazione Articolo21, aggiunge che «si tratta di un atto di accusa che non può essere ignorato, né dalle istituzioni né dalla politica né, per quanto ci riguarda, dai media. Per queste ragioni l’associazione Articolo21 ha chiesto a blog e siti di linkare i video e la documentazione pubblicata».

Quei “rutelliani” sparsi fino alle regionali Per i centristi del Pd, appuntamento in primavera

mero delle vittime per l’influenza A: quattro i morti accertati ieri. Ma il viceministro alla Salute, Ferruccio Fazio, ribadisce che l’influenza A non è grave, salvo «rarissimi casi», e assicura che i vaccini «sono sicuri». Intanto, un anziano perugino colpito dal virus H1N1 e affetto da altre patologie quali cardiopatia e diabete è morto all’ospedale di Branca (Perugia). Successivamente è deceduta all’ospedale ”Moscati”di Avellino, dove era ricoverata dal 30 ottobre, Maria Carraturo, 49 anni. La donna, morta per una polmonite interstiziale bilaterale, era fortemente obesa ed era affetta da broncopneumatica cronica. La terza vittima è stata

di Antonio Funiciello

ROMA. La gestione plurale dell’era Bersani sembra essere una risposta anche all’uscita dal Pd di Francesco Rutelli. L’inclusività del neo segretario democratico sembra essere cucita su misura delle diffuse fasce di scontento presenti nel partito. La perseveranza di Rutelli a stare fuori dal nuovo corso specifica e valorizza sul piano politico le motivazioni che lo hanno spinto ad uscire. In fondo, restare poteva convenirgli di più: Rutelli poteva sedere al tavolo principale del Pd e pretendere per sé un ruolo di primo livello, così come hanno preteso e ottenuto pressoché tutti i maggiorenti del partito. Con la conseguenza di una moltiplicazione delle cariche che ricorda tanto quella del secondo governo Prodi. La settimana scorsa, il Pd non aveva neppure un presidente; oggi si ritrova con un presidente e due vice. Operazione analoga allo spacchettamento di ministeri e deleghe operato da Prodi nel 2006. Mentre allora Rutelli fu uno dei maggiori beneficiari di quella parcellizzazione minuziosa degli spazi del potere istituzionale (col combinato disposto della vicepresidenza del Consiglio e dei Beni Culturali strappati all’amico Bettini), oggi compie la scelta più ambiziosa del tirarsi fuori dalla mischia.

loro molto vicini in passato a Rutelli. La loro permanenza nel Pd è così più significativa della fuoriuscita del loro vecchio capo corrente proprio perché motivata con gli stessi argomenti. Nell’analisi, Rutelli, Lanzillotta, Lusi e Gentiloni continuano a concordare: il Pd rischia di iscriversi con la segreteria Bersani come quarto acronimo della sequenza Pci-PdsDs. È negli effetti politici, invece, che la scelta di Rutelli produce una rottura con i suoi ex compagni di viaggio. Almeno per il momento.

Poco distante dalla nave arenata del Pd che il suo nuovo comandante Bersani s’incarica di riportare a largo, Rutelli ha ammarato una scialuppa di salvataggio più agile e più a suo agio nelle acque basse del centrosinistra. Rutelli crede che il destino del Pd sia segnato e che la nave, per colpa delle sue caratteristiche di fabbricazione, non sia in grado con le sue forze di uscire dalla secca in cui non poteva che cacciarsi. Questo epilogo sarà più chiaro a tutti con la perdita di molte amministrazioni regionali alle prossime amministrative di primavera, che nelle previsioni oscilla tra la sconfitta onorevole e la disfatta senza appello. In entrambi i casi, comunque, il ragionamento di Rutelli tiene. Ed è proprio dopo le elezioni regionali che l’ex leader della Margherita scommette che sulla sua scialuppa saliranno molti dei suoi amici che hanno scelto di restare sulla nave democratica. Gentiloni e gli altri si sono dati, al contrario, altro tempo per provare a vedere che ruolo la cultura liberaldemocratica che rappresentano possa tornare utile a disincagliare la chiglia. Nell’ottica unionista di Bersani, che mira a giustapporre e valorizzare (pur nel loro preciso peso specifico) tutte le sensibilità interne al partito, la presenza dei rutelliani può essere una carta più da giocare. A guardar bene, il rischio è davvero tutto dei rutelliani senza Rutelli, che devono scongiurare d’essere ridotti a una pura funzione di testimonianza politica. La stessa che oggi indebolisce non poco i veltroniani senza Veltroni.

La gestione “plurale” di Bersani punta a non disperdere Gentiloni, Lisi e Lanzillotta. Almeno fino alle elezioni

Ma ancora più ambiziosa e complicata della sua partita, sembra essere quella dei rutelliani rimasti nelle file del Pd. I quali, da un lato condividono appieno le critiche spesso radicali mosse da Rutelli sul versante della cultura politica al nuovo corso del Pd; dall’altro tuttavia ritengono di dover offrire un credito temporale a Bersani, pur caratterizzando la propria azione in modo peculiare. E, a tal proposito, non disdegnano di impegnarsi in iniziative di frontiera, come quella di Linda Lanzillotta che nei giorni scorsi ha firmato con Rutelli, Dellai e Tabacci il manifesto che mette alla berlina l’attuale impostazione bipolare del quadro politico. Con la Lanzillotta nella direzione nazionale democratica sono stati eletti altri due rutelliani di rango come Lusi e Gentiloni, pure

segnalata a Piacenza: nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Guglielmo di Saliceto è deceduta una donna di 44 anni, con grave patologia cardio-polmonare cronica. Infine, è risultato positivo al test sul virus H1N1 l’uomo di 35 anni residente a Boscotrecase, Francesco Cirillo, morto ieri a causa di una grave insufficienza respiratoria in provincia di Napoli.

A fronte di tutto ciò, Ferruccio Fazio continua a ripetere che l’influenza A non è grave, salvo «rarissimi casi». L’altro messaggio è che «le influenze, e forse questo finora non si sapeva, sono delle malattie che portano anche dei decessi ed è bene che i cittadini lo sappiano. In futuro - ha aggiunto il viceministro - mi auguro che aumenti l’adesione alla campagna vaccinale per le influenze stagionali». Il viceministro ha ricordato inoltre che «i bambini sotto i dieci anni di età dovranno fare due dosi di vaccino, contrariamente alle altre fasce di età per le quali è prevista una sola dose». A confondere ancora di più le acque, il viceministro ha aggiunto che «non è escluso che si possa fare una valutazione per cui il richiamo o entrambe le dosi possano contenere la metà dell’antigene».


politica

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Compromessi. Gli ex An sono a disagio ma alla fine diranno “obbedisco”. Intanto i pm chiedono l’arresto di Cosentino

La lite va in prescrizione Oggi la pace armata tra Berlusconi e Fini In porto la mediazione Ghedini-Bongiorno di Riccardo Paradisi rriva un momento in cui le cose che sembrano complicate si semplificano molto. Ora nel Pdl non si tratta più di discutere di centralità del parlamento o di cesarismo, di abolizione dell’Irap o del suo mantenimento, di quanta democrazia debba esserci nel partito fondato da Silvio Berlusconi e da Gianfranco Fini. Non è più il tempo insomma del dibattito interno. Adesso, mentre arriva anche la richiesta di arresto per il sottosegretario Nicola Cosentino (per le presunte collusioni con il clan dei Casalesi), c’è un appello ultimativo, un aut aut semplice e preciso: si tratta di capire chi accetta o chi rifiuta, all’interno della maggioranza e del partito, l’introduzione della ”norma salva premier” nel prossimo pacchetto sulla Giustizia.

A

zione interna finiana dal Giornale, ormai il braccio operativo del berlusconismo più intransigente, è una spia significativa dell’urgenza che spinge il Cavaliere a chiudere la partita sulla giustizia e portare a casa uno scudo contro le eventuali sentenze di condanna. È stato lo stesso Feltri a parlare dell’esistenza di una lettera da far sottoscrivere ai parlamentari della maggioranza per vincolarli a sostenere questa iniziativa del governo. Un’ipotesi a cui il presidente della Camera Fini ha reagito con nervosismo: «Non firmo niente, il Pdl non è una

chiaro: o si trova una soluzione per liberarmi dalla spada di Damocle che pende sulla mia testa oppure si va a elezioni anticipate. Che significherebbe un nuovo Parlamento con liste di fedelissimi al Cavaliere visto che le possibilità di un governo di transizione appaiono improbabili. Che si sia a una stretta lo dimostrano anche altri segnali. Come l’editoriale di Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, giornale che aveva dato importanti aperture di credito al presidente della Camera: «Gentile Fini, delle due l’una: o lei accetta solidamente gli escamotage che il circolo del presidente del Consiglio troverà per evitare una condanna a oggi sicura nel solito processo milanese oppure deve prendere l’iniziativa e trovare lei una soluzione accettabile, mediando e rifinendo gli strumenti legislativi opportuni… l’elettorato di destra e di centro non capirebbe mai un defilamento dalla linea di resistenza democratica all’assalto militante di certa magistratura». Alla ricerca della quadra per quella che Ferrara chiama una soluzione accettabile stanno lavorando alacremente l’avvocato del premier Niccolò Ghedini e il legale di fiducia del presidente della Camera Giulia Bongiorno.

I due leader si vedranno stamattina. E domani il premier incontrerà Bossi per trattare il “prezzo” del sì della Lega

Certo conterà molto, nella ricezione interna alla maggioranza e in particolare nell’opposizione finiana, la qualità del pacchetto giustizia e la confezione di questa norma salva premier. Ma la sostanza è questa, questa la linea divisoria per cui si sta di qua o di là da una legge che in fondo è la riproposizione, con altri mezzi, del Lodo Alfano bocciato dalla Core costituzionale. Del resto la pressione esercitata in questi giorni sulla potenziale opposi-

caserma». Dopo la bocciatura della norma Ghedini sul Lodo Alfano, stoppata dall’opposizione del ministro finiano delle politiche comunitarie Andrea Ronchi e dal presidente della Repubblica Napolitano Silvio Berlusconi era stato molto

La quale in una lettera al Corriere della Sera ha però già detto chiaramente che la riduzione pura e semplice dei tempi di prescrizione che riduce da dieci a otto anni il tempo in cui si può perseguire il reato di corruzione non è una via praticabile perché sarebbe un’amnistia mascherata: «Esiste insomma il fondato timore che, introducendo una soluzione che il sistema non è in grado di sostenere, si porrebbe una pietra tombale sopra una serie di vicende processuali che magari proprio

adesso stanno, con enorme ritardo, volgendo al termine». La via prediletta dai finiani dunque, quella accettabile, sarebbe una riedizione riveduta e corretta del disegno di Legge Fassone, che risale a due lesgislature fa e che inaugurando il processo breve consentirebbe l’estinzione dopo sei anni. Una via questa che non convincerebbe troppo i legali del Premier però che invece vagheggiano una prescrizione ridotta ogni volta che il processo viene interrotto per una sospensione chiesta dalle parti. Il Giornale va oltre e più nello specifico: «Ci vorrebbe un pacchetto. Magari eliminare l’articolo 238 bis di procedura penale che rende utilizzabili in un processo i fatti di un altro e cambiare il 190 che concede al giudice di selezionare le prove richieste dalla difesa». Fini e Berlusconi comunque si vedranno stamattina a Montecitorio proprio per capire se c’è ed è percorribile questa via stretta sull’intesa per sminare il terreno dei processi milanesi senza aprire un nuovo fronte polemico nel Paese. Due esigenze che si conciliano difficilmente considerando che l’opposizione annuncia già una battaglia durissima contro ogni riforma della Giustizia tesa a introdurre nell’ordinamento norme salvapremier. Ma qual è l’atteggiamento della pattuglia finiana? Di quei venti deputati cioè che firmarono subito la lettera di Italo Bocchino che chiedeva maggiore democrazia interna nel

Pdl? «Non abbiamo interesse di dare a Berlusconi il pretesto per additarci come traditori e per andare a nuove elezioni» dice uno di loro che preferisce l’anonimato. Angela Napoli invece, deputato Pdl ex An, non ha problemi a esprimere il suo pensiero: «Credo che si arriverà ad un compromesso che alla fine verrà votato. Resta il fatto che noi viviamo un disagio. Non perché non riteniamo che una riforma della Giustizia non sia urgente e indispensabile, né perché non siamo convinti che contro il premier ci sia un accanimento. Ma perché le riforme non si fanno sacrificando i diritti dei cittadini comuni e sotto lo stress del timore di sentenze sgradite. Noi abbiamo votato il lodo Alfano perché abbracciava le quattro principali cariche dello Stato e non annullava i processi». Non siamo dunque allo scontro finale anche se la tensione nel Pdl resta molto alta: «Questa discussione – dice ancora Napoli – dovrà servire a rimettere sul tavolo la richiesta di una maggiore collegialità nel partito». Ma questa discussione sulla norma salva premier condiziona già un’altra partita, quella delle regionali.

Perché poi ognuno degli attori della maggioranza mette sulla bilancia delle trattative con Berlusconi anche l’interesse


politica

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Lo storico giudica inadeguate anche le candidature lumbàrd alla presidenza delle regioni

«Stavolta il consenso di Silvio può subire un duro colpo» Sabbatucci: «Se ci sarà un indulto mascherato da prescrizione gli elettori reagiranno male, soprattutto quelli del Carroccio» di Errico Novi

ROMA. È un circolo vizioso. Più ingovernabile dei

per i governatorati. Dalla Lega, che torna a chiedere il ticket Piemonte-Veneto con le candidature di Cota e Zaia, riaprendo però la questione Galan in Veneto a Fini che ribadisce ancora una volta il no alla candidatura Cosentino in Campania (pensando all’ex An Pasquale Viespoli) e manifesta preoccupazione Renata Polverini. La cui candidatura potrebbe saltare nel Lazio se Berlusconi dovrà recuperare Antonio Tajani dall’Europa. Insomma un risiko delicatissimo dentro il quale il premier, pur tentato dalla soluzione forte e dal balzo in avanti, deve muoversi con grande circospezione ed equilibrio. Mentre avrebbe una voglia matta di saltare su un altro predellino.

Sopra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Sotto, a sinistra, il legale di fiducia del presidente della Camera Giulia Bongiorno. A destra quello del premier Niccolò Ghedini. Sono loro che cercano l’accordo nel Pdl sulla giustizia

contraccolpi politici che pure in passato hanno investito, dopo interventi sulla giustizia, la leadership di Berlusconi. Stavolta, nota Giovanni Sabbatucci, «alla istintiva solidarietà per il premier ‘perseguitato’ può aggiungersi una forte insofferenza, soprattutto se il marchingegno che verrà escogitato per proteggere il presidente del Consiglio si dovesse tradurre nella messa in libertà di delinquenti. Se insomma dovesse esserci una prescrizione che sembra un indulto». Giacché il malessere finirebbe per contagiare molto l’elettorato leghista, osserva ancora lo storico ed editorialista del Messaggero, «sarà sì inevitabile una contropartita in termini di candidature», ma qui appunto si completa il circolo vizioso: «La Lega è da una parte indispensabile per vincere, dall’altra può non essere vincente se schierata in prima linea». Ed ecco che si realizzerebbe così un ulteriore penalizzazione per la maggioranza di governo, già fiaccata dal risentimento del suo elettorato più giustizialista. Allora professore, è vero che la questione giudiziaria e quella elettorale sono fatalmente intrecciate. Intanto la maggioranza dovrebbe chiarire a se stessa se nella scelta delle candidature è preferibile una logica ‘locale’, nel qual caso in Veneto, per esempio, sarebbe naturale schierare Galan, o appunto un criterio ‘nazionale’, di coalizione, e allora la Lega ha ragione a rivendicare qualche presidenza. Il punto è che le due logiche sono destinate a entrare in conflitto. Perché? Il Carroccio è indispensabile, decisivo, strategico per vincere, ma i suoi candidati spesso non lo sono: si tenga presente il caso del Friuli, dove Alessandra Guerra fu sconfitta. Un precedente poco considerato, in effetti. Prendiamo anche il caso del Veneto: lì il nome di Bossi probabilmente vincerebbe, sempre però che Galan non si scocci e se ne vada da solo. Certo che è fondata la pretesa, avanzata dal Carroccio, di ottenere una contropartita per la propria disponibilità sulla giustizia. Ma bisogna vedere se poi questa logica non risulta troppo onerosa. Dopo un anno e mezzo di legislatura la maggioranza è ancora lì a trascinarsi il nodo dei processi: a volte sembra che la vulnerabilità delle soluzioni sia perseguita in modo volontario, come se tenere la tensione tra il premier e i magistrati sia funzionale alla stessa leadership di Berlusconi. È un’ipotesi che non mi sento di escludere. È anche vero che i due aspetti, la tensione con i magistrati e l’incompiutezza delle soluzioni, possono convivere finché non si presenta una reale minaccia per il presidente del Consiglio. Nel momento in cui la condanna sembra avvicinarsi le cose cambiano, lì Berlusconi vuole stringere. Oltretutto l’atteggiamento degli alleati non fa che sollecitare il premier a trovare la via d’uscita.

In che senso? Proprio i contrasti che nella maggioranza stanno emergendo sulla giustizia fanno capire a Berlusconi che probabilmente porterà a casa meno di quanto sperato. D’altra parte resto dell’idea che la questione giudiziaria non potrà risolversi finché non si troverà un accorgimento ‘definitivo’, come il lodo Alfano sembrava essere, almeno nelle intenzioni. Il fatto che sulla giustizia Bersani abbia un atteggiamento meno spigoloso rispetto a suoi predecessori come Prodi e Franceschini non rischia in realtà di far apparire proprio Berlusconi come il vero intralcio a una dialettica politica normale? Il nodo dei processi è un intralcio, certo, ma dal punto di vista di Berlusconi resta sempre una necessità. È una necessità che intralcia tutto il resto, diciamo. Su Bersani in ogni caso vorrei essere un po’ più problematico. Faccia pure. È vero che tende a mettere al primo posto dell’agenda altre materie, a cominciare da quelle economiche. Ma può essere così finché le vicende giudiziarie del premier restano in una situazione di stasi, perché nel momento in cui arriverà la conclusione del processo il segretario del Pd sarà costretto a chiedere le dimissioni del Cavaliere, indipendentemente dalle sue intime convinzioni. Anzi, proprio il sospetto che voglia tenersi su una linea inciucista renderà inevitabile, per lui, una reazione pesante. Insomma, l’ombra di Di Pietro non abbandonerà mai il Pd. Certo che no, il rischio di un’emorragia di consensi verso l’Italia dei valori resta sempre elevato. Ma questa affannosa ricerca di una via d’uscita legislativa dal conflitto tra politica e magistratura rischia di suscitare insofferenza negli elettori? A lungo andare credo di sì. Soprattutto se il marchingegno che verrà adottato dovesse tradursi nella messa in libertà di delinquenti: c’è sempre la solidarietà per il perseguitato, è vero, ma ci sarà anche insofferenza per un eccessivo deterioramento del sistema giudiziario. Il problema insomma può esserci se avremo una prescrizione che sembra un indulto. E le ricadute peseranno anche e soprattutto sulla Lega: l’elettorato giustizialista di Bossi non sembra compatibile con soluzioni del genere. Ci saranno le Regioni a bilanciare tutto. Ma lì appunto ricadiamo nel discorso precedente, cioè nella trappola di candidature leghiste che possono risultare non vincenti. E poi sta emergendo un elemento nuovo, ossia l’indisponibiltà a scambiare le presidenze delle Regioni con ministeri anche di rango. È il segno che il potere periferico acquista sempre più peso rispetto a quello centrale. Come se una forma di federalismo si fosse già realizzata, con un netto sbilanciamento a favore del piano locale. La Lega lo ha capito e per questo investe sulle prossime elezioni. Ma non è la Csu, e da sola non vincerebbe.

Bossi avrà le sue contropartite, ma anche se i suoi voti sono indispensabili per vincere, i suoi uomini possono non essere vincenti


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rientalista e docente di islamistica alla Sapienza di Roma, Biancamaria Scarcia Amoretti è fra i massimi studiosi della religione musulmana. Specializzata nelle eresie islamiche, e particolarmente dell’Islam politico, la Scarcia - 50 anni di frequentazioni con il mondo musulmano e una produzione letteraria ricchissima - ha dato ora alle stampe un’ipotesi di lettura del Corano, per i tipi Carocci, che presenterà lunedì prossimo all’Università di Roma Tre. E così, dopo alcuni lavori di alta divulgazione, quali, ad esempio, Sciiti nel mondo, Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, e Un altro Medioevo, il quotidiano nell’Islam, questa volta la studiosa si è cimentata direttamente con il testo sacro per eccellenza. Rivelato direttamente a Maometto - che l’autrice chiama sempre Muhammad, seguendo la corretta traslitterazione dall’arabo, secondo un uso che comincia a diffondersi anche in Italia - mai come in questi tempi il Corano viene continuamente tirato in ballo.

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Una tra le massime studiose del mondo musulmano dà alle stampe una “ipo ma non di specialisti». Un’interpretazione «equilibrata, ma non necessariamente

Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a scrivere questo libro? In un clima culturale, come quello che si sta imponendo un po’ovunque nel mondo occidentale, caratterizzato da una demonizzazione dell’islam e dei musulmani, che prescinde da una qualunque onesta verifica sia storico-politica, sia religioso-dottrinale, conoscere il Corano può portare a una più equilibrata valutazione, non necessariamente più benevola. Semplicemente più documentata. In merito all’approccio al testo, solitamente si assiste a un diffuso rifiuto di cercare e trovare nel Corano quelle forme universali di spiritualità che una lunga abitudine ci ha condotti a riconoscere solo in alcune tipologie di libri sacri. Nella mia ipotesi di lettura ho cercato di essere obiettiva esponendo correttamente il contenuto del testo. Ma che cosa lo può meglio rappresentare? Le parti normative o la spesso sottesa dimensione mistica? La penalizzante condizione femminile o il proclamato egualitarismo di fronte a Dio di tutti gli esseri umani? Con questi scrupoli e domande mi sono messa al lavoro, convinta anche dal fatto che mi sembrava opportuno che un simile impegno venisse assolto da una non musulmana. Ho trovato interessante che una laica come me si assumesse questa responsabilità. Mantenendo intatto il rispetto del libro in sé. Con questo lavoro vuole parlare agli specialisti o anche a chi ha poca dimestichezza con testi del genere? Il mio obiettivo è quello di avvicinare ai testi sacri delle diverse tradizioni religiose un pubblico interessato, ma di non specialisti. La generalizzata poca dimestichezza in Italia, anche in lettori attenti, con tutti i testi sacri, compresi quelli ebraici e cristiani, è ancora più evidente nei confronti del Corano. Per molti versi, il fatto che il Corano rimandi al testo biblico complica la lettura. Infatti, è difficile sottrarsi alla tentazione di individuare analogie e dipendenze al fine di verificare conformità o scarti, cosa che non succede di fronte a opere - quelle buddhiste, per esempio decisamente al di là del nostro orizzonte quotidiano. È così che, anche a prescindere dalla competenza, o dalle intenzioni, del lettore, l’approccio al Corano tende a configurarsi come filologico, a scapito di una sua più diretta fruizione cultural-religiosa.

Cosa è scritto (dav Parla Biancamaria Scarcia Amoretti, autrice della più recente analisi in italiano del testo sacro dell’islam di Rossella Fabiani Quali sono, allora, gli aspetti che lei intende sottolineare? Per prima cosa che esiste uno scarto, come accade anche con la Bibbia, tra quello che dice il testo e le sue interpretazioni. Contestualizzare la parola divina che è polisemica per natura e quindi passibile di essere aggiornata, è questione molto delicata quando entra in gioco l’uomo. Non si può leggere il testo soltanto attraverso le interpretazioni. Il Libro, che è un Libro tendenzialmente pacifico pur senza eludere i problemi, può anche dire altro. Ma soprattutto va detto che non esistendo, clero, chiesa, autorità centrale, è soltanto Dio l’unico referente. Esiste, poi, uno scarto anche tra gli studi sul Vecchio e Nuovo Testamento e quelli sul Corano tale da non consentire se non operazioni propedeutiche e parziali, a loro volta basate su una documentazione ancora frammentaria. Siamo ben lontani, infatti, dal contare su repertori sinottici che diano conto dell’insieme della letteratura

esegetica, mentre ci si limita di necessità ad alcuni Commentari che, per quanto significativi, non possono rappresentare se non una porzione di un tutto, al momento non quantificato né quantificabile, nonostante le enormi potenzialità aperte dall’informatica. Quello che voglio dire è che è ancora da fare una vera storia dell’ermeneutica coranica che tenga conto delle sue costanti e della sua evoluzione sulla base di uno spoglio sistematico di un numero di opere, se non esauriente, almeno sufficientemente indicativo. A titolo di esempio, si pensi che parte dell’enor-

I fondamentalisti abbandonano quell’invidiabile pluralismo che ha permesso all’islam di penetrare nei contesti più disparati

me patrimonio manoscritto giace tuttora non catalogato e, spesso, addirittura ignorato, in biblioteche private; o che la produzione di commenti al Corano, che si è data in tutta l’ecumene islamica, continua tuttora e in una grande pluralità di lingue. Non si cercano giustificazioni, si tratta di precisare i limiti del lavoro. Anche in questo caso tradurre è stato un po’ tradire? Più che altro siamo penalizzati dalla mancanza di traduzioni antiche “canoniche”, tali da garantire fedeltà al testo e permettere nello stesso tempo, a chi si accinga a tradurlo, quella continuità di aggiornamento nel linguaggio che invece esiste, per esempio, nelle moderne traduzioni della Bibbia. E questo problema della traduzione è complicato da motivazioni teologiche e, per di più, dalla straordinaria polivalenza semantica dell’arabo coranico, con la conseguente attribuzione alla lingua araba di uno statuto talmente eccezionale da mettere


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otesi di lettura” che vuole «avvicinare ai testi delle diverse tradizioni religiose un pubblico interessato, e benevola» per svelenire un clima culturale caratterizzato dalla demonizzazione della figura di Maometto

Le traduzioni nella nostra lingua ANTOLOGIA DEL CORANO, traduzione e note a cura di Virginia Vacca, Sansoni, Firenze 1943 e 1990. IL CORANO, introduzione, traduzione e commento A CURA DI ALESSANDRO BAUSANI, Sansoni, Firenze 1955 (successive, numerose, ristampe ed edizioni, ultima delle quali Rizzoli, Milano 2008). IL CORANO, introduzione, traduzione e commento, DI CHERUBINO MARIO GUZZETTI, ELLEDICI, Leumann 1989 (successive ristampe ed edizioni, ultima delle quali 2008). IL CORANO, A CURA DI GABRIELE MANDEL KHAN, Utet, Torino 2004 (con testo arabo a fronte, 2006). IL CORANO, A CURA DI MARTINO MARIO MORENO, Utet, Torino 1967 (successive ristampe ed edizioni, ultima delle quali La Repubblica, Roma 2005). IL CORANO: nuova versione letterale italiana, CON PREFAZIONE E NOTE CRITICO-ILLUSTRATIVE DI LUIGI BONELLI, Hoepli, Milano 1929 (successive ristampe ed edizioni, ultima 1997). IL CORANO: testo arabo con tavole di concordanza per la divisione in versetti e un indice analitico, A CURA DI LUIGI BONELLI, Hoepli, Milano 1937 (successive ristampe ed edizioni, ultima 1990). IL CORANO PIÙ ANTICO, A CURA DI SERGIO NOJA, Marsilio, Venezia 1991 (SCELTA ANTOLOGICA DI ALCUNE TRA LE PIU ANTICHE SURE DEL CORANO, TRADUZIONE DI L. BONELLI, con testo arabo a fronte). LE SURE BREVI DEL GLORIOSO CORANO, TRADUZIONE DI FUAD KABAZI, Società per l’appello all’Islam, Tripoli 1984. NEL NOME DI ALLAH: ANTOLOGIA DEL CORANO, A CURA DI PAOLO BRANCA, Vallardi, Milano 1994.

vvero) nel Corano in causa non solo la competenza, ma addirittura la legittimità di accostarsi al testo quando non si è arabofoni. Ci sono alcune traduzioni del Corano in italiano. Quale è stato il suo criterio nel dare la sua lettura? Ho scelto di far parlare, quanto più possibile, direttamente il Corano, con citazioni anche lunghe: forse la scorrevolezza del discorso ne risente, ma rientra nei miei obiettivi renderlo quanto più quotidiano possibile. Per quanto riguarda la traduzione, il mio obiettivo principale era quello di semplificare al massimo la lettura. Non ho avuto la presunzione di tradurre ex novo il Corano. La migliore traduzione italiana è quella di Alessandro Bausani, il mio maestro. In linea di massima, questa è la traduzione che ho usato, perché più empatica. Senonché, durante la lunga gestazione di questo lavoro, è uscita una traduzione di tutto rispetto, con testo arabo a fronte. Anch’essa è accompagnata da un commento che si presenta come una summa delle concezioni teologiche musulmane e del vissuto dei credenti, pur dando spazio a ciò che accomuna o divide l’islam dal giudaismo e dal cristianesimo. È opera di un musulmano, Gabriele Mandel. Questa traduzione mi ha talvolta suggerito, tal’altra confermato

l’opportunità di scostarmi da quella bausaniana. Come vede i diritti delle donne musulmane secondo quello che viene riportato nel capitolo 4 del Corano intitolato “Le donne”(al Nisa)? Con grandi contraddizioni non è possibile negarlo, ma ancora oggi manca uno studio sistematico completo su quella che era la prassi su che cosa succedeva nei fatti. Non esiste ancora un’enciclopedia su donne e islam. Personalmente posso dire che in tutti i paesi in cui esi-

La virtù per eccellenza è la pazienza: avere la consapevolezza storica e avere fiducia, nell’ipotesi che il Bene arriverà

ste una comunità islamica, dai musulmani in America all’Iran (dove vengono fatti i tentativi più persuasivi) le donne hanno iniziato a studiare teologia anche nelle università. E per me questo è una certezza che le cose cambieranno. È vero che siamo in un’epoca di ritorno indietro. Come è stato per noi, anche l’I-

slam è sottoposto alle stesse curve, dove i contesti influenzano sempre. Dobbiamo aspettare che le donne ci dicano loro. Ma è importante che questi movimenti non rimangono elitari Quali sono gli aspetti fondamentali che lei ha scoperto nel testo del Corano? La virtù per eccellenza del Corano è la pazienza: avere la consapevolezza storica e avere fiducia. La pazienza, quando non è sottomissione, accettazione, vittimismo, include la consapevolezza nella speranza, nell’ipotesi, che il Bene arriverà. Ma il valore straordinario del Corano, consiste, per consolidata tradizione, nella sua pluralità di livelli di interpretazione, di cui quello letterale vale come inizio, non come esito finale. È questione delicata. In passato, l’affermazione della polisemia del testo nella sua globalità e nelle sue singole parti sarebbe stata accolta come un corretto riconoscimento di un dato di fatto, convalidato dall’impossibilità di individuare nell’islam - in assenza di una riconosciuta autorità di riferimento, a sua volta effetto della mancanza di clero, di papato, di dogmi - il confine tra ortodossia ed eresia. Oggi la medesima affermazione è contestata dalla maggior parte delle correnti fondamentaliste, esigua

minoranza nel panorama religioso musulmano, ma che gode da noi del massimo di visibilità. Come agiscono le correnti fondamentaliste? Nella pretesa di tornare alle fonti e all’autenticità del messaggio che le fonti medesime veicolano, queste correnti abbandonano quell’invidiabile pluralismo che ha, per secoli, improntato di sé la tradizione ermeneutica e ha permesso all’islam di penetrare nei contesti socioculturali più disparati, trovando risposte adeguate alle esigenze cui, nel corso della loro storia, i musulmani hanno dovuto far fronte. Il fatto che i fondamentalisti contestino, come aberrante e mistificatrice, la legittimità di letture che non siano le loro vale a maggior ragione quando a proporle sia un non musulmano - ed è il mio caso - sebbene ciò significhi negare, neanche tanto implicitamente, valore ecumenico al messaggio coranico, un messaggio rivolto all’intera umanità a prescindere dalle specifiche appartenenze confessionali del singolo. In che modo si è avvicinata al testo coranico? Nel mio approccio al testo non mi sono sentita vincolata sul piano metodologico. A volte è il puntuale riscontro in arabo del significato di un termine, veicolato da altre lingue, che mi è sembrato di dover evidenziare in funzione della comprensione di un’idea. Altre volte, invece, è un libero accostamento con altre tradizioni religiose presenti nell’area vicino-orientale che mi ha fatto vedere nel Corano sia un particolare esempio di continuità con il mondo tardo-antico (sasanide, ellenistico-bizantino). Oppure, mi sono lasciata trascinare dall’interpretazione di un commentatore medievale. Ma ribadisco che questo lavoro non è, e non intende essere, un prodotto accademico. Il mio vuole essere un tentativo di rendere, per quanto è nelle mie capacità, un po’ più accessibile il Corano, nella speranza che esso venga letto e che parli al lettore una lingua quotidiana, familiare. Mi considererei più che soddisfatta se questo libro aiutasse qualcuno a scoprire anche nel Corano una delle molte vie per capire che l’umanità è accomunata da qualche cosa - un’aspirazione, una percezione di sé, una visione del mondo - che ci è possibile cogliere non al di là delle differenze con cui questo qualche cosa si esprime, quanto piuttosto grazie a esse. La maggioranza dei musulmani ha ben chiari i nodi da sciogliere circa il proprio rapporto con il Corano e la Sunna e in merito al valore di paradigma attribuito al periodo storico rappresentato dalla vita di Muhammad.


mondo

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Unione Europea. Il gran rifiuto di David Miliband alla poltrona di Alto Commissario agli Esteri, riapre il valzer delle candidature

Mr Pesc: tutto da rifare Decolla l’ipotesi dalemiana ma Blair scalpita per la presidenza di Luisa Arezzo el complesso sudoku che si gioca in casa europea per stabilire chi riempirà le caselle di Mister Ue e Mister Pesc, le due alte cariche previste dal Trattato di Lisbona che entreranno in vigore dal 2010, ieri è tornata in pole position la candidatura di Massimo D’Alema per il posto di Alto rappresentate Ue per la politica Estera e di Sicurezza. A risollevarlo dal cono d’ombra in cui sembrava essere caduto la scorsa settimana, il “no” definitivo del grande favorito: il britannico ministro degli Esteri David Miliband. Le volontà del quarantaquattrenne Miliband sono

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state raccolte da Paul Rasmussen, presidente del Pse, uno degli sherpa incaricati dai grandi partiti europei di individuare la coppia giusta per gli incarichi di vertice della Ue. Lo stesso Martin Schulz, capogruppo degli europarlamentari socialdemocratici, nel confermare il tramonto dell’ipotesi inglese, ha fatto sapere di sostenere «con forza» la candidatura di D’Alema per il posto di ministro degli Esteri (e di vicepresidente della Commissione Ue).

In questo ambito - e non solo in Italia - i tatticismi sono naturalmente il pane quotidiano, ma è un dato di fatto che ora tutti i detrattori di D’Alema, così come i suoi sponsor sinceri, dovranno uscire allo scoperto e i giochi si faranno più chiari. «È una vicenda molto delicata sulla quale non posso e non devo dire nulla. Non dipende da me ma dal consiglio europeo» ha detto ieri D’Alema. Mentre il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha commentato: «Se Miliband decisamente rinuncia alla sua candidatura, che francamente non c’è mai stata finora, si aprono eccellenti prospettive per D’Alema». L’uscita di scena di Miliband (che molti già vedono come futuro leader laburista al posto di Gordon Brown), potrebbe ridare però fiato a un’altra candidatura, quella di Tony Blair a presidente dell’Ue. Ieri il Times di Londra scriveva che l’ex inquilino di Downing Street starebbe giocando tutte le sue carte per tentare di avere il sostegno dei leader europei alla sua candidatura a presidente dell’Ue. In particolare Blair avrebbe avviato un’offensiva telefonica per capire quali sarebbero davvero le sue chance. Tra i leader contattati ci sarebbero il presidente della Commissione europea Josè Manuel

A destra: Javier Solana, attuale “mister Pesc” della Ue, Il ministro degli Esteri britannico David Miliband, il premier belga Herman Van Rompuy, il premier svedese e presidente di turno della Ue Frederik Reinfeldt e Massimo D’Alema. In basso a sinistra, Tony Blair Durao Barroso, il premier irlandese Brian Cowen e Jan Balkenende, premier olandese. Ci sarebbe stata anche una telefonata al presidente francese Nicolas Sarkozy, che negli ultimi giorni (i maligni dicono dopo il suo incontro con la Merkel) è sembrato meno entusiasta della candidatura Blair di quanto fosse qualche settimana fa.

Un eventuale tandem D’Alema-Blair, tuttavia, è altamente improbabile. Entrambi appartengono alla famiglia del Pse, e questo, nel grande risiko europeo, significherebbe che il Ppe, nel nuovo assetto aperto dalla ratifica ceca del Trattato di Lisbona, sarebbe destinato a restare a bocca asciutta. Impensabile. Dunque o uno o l’altro. E al momento su D’Alema Mr. Pesc convergono in molti. Oltretutto, al netto dell’attivismo di Tony Blair (e all’appoggio alla sua candidatura ricevuto da Gordon Brown), in testa alle quotazioni dei bookmaker per la carica di Mister Ue c’è sempre il primo ministro belga Herman Van Rompuy (62 anni, cristiano-democratico), che benché sconti le tensioni interne in Belgio tra fiammighi e valloni, resta il favorito, e non solo della coppia MerkelSarkozy. Detto questo, non è affatto tramontata la candidatura popolare alla carica di Mr Pesc di Carl Bildt, attuale ministro degli Esteri svedese. Se l’ipotesi Blair dovesse decollare, Bildt potrebbe soffiare la sedia all’ex presidente dei Ds. Prende corpo, inoltre, l’ipotesi di un’altra possibile candidata britannica alla poltrona di Mister Pesc, più volte citata dalle cancellerie europee, e cioè l’attuale commissario europeo al Commercio Catherine Ashton. Se

questa candidatura fosse concretizzata da Londra, il Pse, dicono a Bruxelles fonti socialiste, «non potrebbe che prenderne atto, perché non sta a noi indicare i nomi per queste alte cariche». La Ashton, 53 anni, baronessa, che ha da poco preso il posto di Peter Mandelson come Commissaria Ue, ha in realtà un solo “vantaggio”: quello di essere donna, visto che tutte le altre alte cariche Ue sono in mano a uomini. Lo stesso presidente della Commissione Barroso, alla ricerca di una “pennellata rosa” per il suo eurogoverno (Mr. Pesc sarà anche

dell’Unione non ha ancora fissato alcuna data per il previsto vertice straordinario che avrà il compito di “ratificare” le nomine dopo il via libera del Trattato di Lisbona.

Il premier svedese e presidente di turno della Ue, Fredrik Reinfdelt, dovrebbe però aver spazzato via ogni incertezza al riguardo ieri sera alla cena dei capi di stato e di governo offerta da Angela Merkel presso la Cancelleria federale di Berlino, in chiusura delle celebrazioni per il ventennale dalla Caduta del Muro. L’occasione, infatti,

Un tandem socialista al vertice della Ue è impensabile. Una delle due nomine deve essere di impronta popolare. E il belga Van Rompuy sembra più forte dell’ex premier inglese vice presidente della Commissione), non ha fatto mistero di appoggiarla. Ma ciò non toglie che il suo profilo politico non sia elevatissimo e che la sua esperienza politica sul fronte della politica estera risulti troppo debole per essere credibile. La sua scarsa notorietà, oltretutto, in questo caso gioca a suo sfavore: un tandem AshtonVan Rompuy rischierebbe di affidare la nuova Europa voluta dal trattato di Lisbona ad un duo senza una forte leadership. Secondo l’agenzia Agipronews, gli unici avversari a D’Alema, uscito Miliband di scena, rimarrebbero il socialista romeno Adrian Severin e la socialista francese, ex ministro dell’Europa, Elizabeth Guigou. Ma anche qui, la loro candidatura risulta ancora troppo debole. Contatti tra le cancellerie dei 27 sono in corso da giorni. Ma i giochi restano apertissimi, tanto che la presidenza svedese

complice anche l’assenza di Barack Obama, si è trasformata in una sorta di consiglio informale tra i leader dei 27 per arrivare ad un accordo di massima sui nomi. Reinfdelt intende tenere il summit tra il 12 e il 19 novembre. Se dunque ieri sera si fosse creato un clima di consenso sui due nomi, il vertice si terrà molto presto, se invece ci sarà bisogno di altri colloqui, il presidente prenderà ancora qualche giorno di tempo: l’obiettivo è chiaro: arrivare al vertice con una posizione già concordata. Se la nomina di Massimo D’Alema andasse in porto, il governo dovrebbe rinunciare ad Antonio Tajani (non sono possibili due commissari della stessa nazionalità): ma il “sacrificio” potrebbe portare il Pdl a valorizzare la sua esperienza nel modo migliore. E per lui, si parla della candidatura alla presidenza della Regione Lazio.


mondo

BRUXELLES. Se il capo del Foreign Office, David Miliband, avesse davvero rinunciato all’incarico di Alto rappresentante per la politica estera Ue, la candidatura di Massimo D’Alema verrebbe indubbiamente rafforzata. Ma è ancora presto per cantare vittoria, perché «in politica tutto è possibile», incluso uno scambio dell’ultima ora tra Pse e Ppe che potrebbe assegnare ai primi, con Tony Blair, la poltrona di presidente del Consiglio Ue, e ai secondi, con il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, quella di Alto rappresentante, tagliando fuori l’ex presidente dei Ds. Uno scenario “altamente improbabile” ma non da escludere, secondo il capogruppo del Pdl all’Europarlamento, Mario Mauro. Che in un’intervista a Liberal avverte: «tutti i nomi sono ancora sul piatto, adesso spetta ai capi di governo decidere». Le due principali famiglie politiche dell’Ue, il Ppe e il Pse, hanno ricevuto l’incarico dai leader dell’Ue di selezionare i candidati per i due nuovi incarichi creati dal Trattato di Lisbona: il presidente stabile del Consiglio Ue e l’Alto rappresentante per la politica estera. Pensa che indicheranno un candidato unico per ogni poltrona - con D’Alema in pole position per l’Alto rappresentante dopo il ritiro di Miliband - o una rosa di nomi? Questo primo stadio è stato già superato: le indicazioni delle famiglie politiche sono già avvenute e si tratta di una rosa di nomi. I socialisti hanno indicato una serie di candidati per l’Alto rappresentante e uno solo, quello di Blair, per la presidenza del Consiglio Ue; i popolari hanno anche

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Parla Mario Mauro, capodelegazione del Pdl all’Europarlamento

D’Alema? È possibile ma Bildt è ancora in gara Il ballo delle poltrone è tuttora in corso: adesso spetta ai capi di governo decidere di Alvise Armellini

loro indicato diversi candidati per la presidenza del Consiglio, e si vocifera di altri nell’eventualità che all’ultimo momento si dovessero scambiare i ruoli, con l’assegnazione del ministro degli Esteri Ue al Ppe. In quel caso penso che il primo tra tutti sarebbe l’attuale ministro degli Esteri svedese Carl Bildt. Dopodiché tutti i nomi sono ancora sul piatto, adesso spetta ai capi di governo decidere. Quindi non è da escludere

un ribaltone che assegni la presidenza Ue a un socialista e la politica estera a un popolare, facendo saltare lo schema opposto su cui è basata la candidatura di D’Alema? Diciamo che è altamente improbabile, ma è sempre da tenere in conto visto che parlando di politica tutto è possibile. Come mai il governo Berlusconi ha deciso di sostenere un uomo d’opposizione?

È una domanda che non si pone, per un governo di centrodestra convinto, fin da tempi non sospetti, di dover sostenere in sede europea l’immagine e la capacità del paese di conseguire i risultati migliori. Quindi, come detto correttamente dal presidente Berlusconi, se questa opportunità ci sarà, verrà colta. Una scelta che vale il“sacrificio”di un commissario di centrodestra come Antonio Tajani? Inviterei a considerare la questione in un altro modo: nel 1999 fu l’intervento in aula dell’europarlamentare Silvio Berlusconi a sdoganare, all’interno del gruppo Ppe, la candidatura di Romano Prodi a presidente della Commissione europea. Pensa che il sacrificio richiesto in quel caso a Berlusconi sia stato inferiore? L’ambasciatore della Polonia presso l’Ue, Jan Tombinski, ha dichiarato che D’Alema non è adatto a ricoprire un incarico europeo a causa del suo passato comunista. Sono posizioni condivise dal resto del Ppe o provengono solo dai Paesi della cosiddetta Nuova

Europa? E comunque, si può parlare di ingratitudine polacca nei confronti dell’Italia, visto che a luglio lei aveva fatto un passo indietro per lasciare la presidenza dell’Europarlamento al candidato di Varsavia Jerzy Buzek? Lo valuteremo meglio alla luce del dibattito parlamentare che si svolgerà mercoledì. Mi auguro che ci sia la serenità conseguente al fatto che abbiamo appena celebrato vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino. Comunque mi sembra che il governo polacco abbia sufficientemente chiarito che la presa di posizione dell’ambasciatore a Bruxelles era un’iniziativa personale. Nel caso in cui D’Alema non ce la facesse, sarebbe una sconfitta solo per lui o anche per Berlusconi che lo ha sponsorizzato? No, non sarebbe assolutamente una sconfitta perché non dimentichiamo che Antonio Tajani è un fior di commissario che funge da punto di riferimento per l’intero fronte dei commissari Ue di marca Ppe. Se D’Alema non passasse, sarebbe semplicemente l’esito, nell’ambito delle strategie in corso per dare un nuovo volto alle istituzioni europee, di un complesso puzzle. Se l’Italia non ottenesse la poltrona di Alto rappresentante, potrebbe strappare un portafoglio più pesante nella prossima commissione Barroso? Credo che il ruolo che l’Italia ha in questo momento (i Trasporti, ndr) sia già di per sé significativo. Ma penso anche che il nostro governo, nell’uno e nell’altro caso, si batterà affinché il portafoglio che le verrà assegnato sia più operativo e più ampio possibile.


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Venezuela. Il presidente a Uribe: smettila di prendere ordini da Washington l presidente venezuelano Hugo Chávez ha annunciato che il suo Paese è pronto ad entrare in guerra, se la Colombia continuerà ad offrire sostegno strategico e militare agli Stati Uniti. Il caudillo “bolivariano”aveva avuto parole molto dure nei confronti del governo di Bogotà, accusato di aver rinunciato alla sovranità nazionale a favore degli Stati Uniti con la firma lo scorso 30 ottobre di un accordo che prevede lo stazionamento di militari americani in alcune basi colombiane. Chavez ha denunciato che di fatto gli Usa si sono “annessi” la Colombia ottenendo da Bogotà sette basi militari sul proprio territorio. «Il governo della Colombia ora non sta a Bogotà, ma negli Usa», ha affermato Chávez. L’accordo è stato perfezionato dopo un incontro riservato tra Obama e il presidente colombiano Alvaro Uribe e rientra nel quadro del cosiddetto “Plan Colombia”. Ideato nel 1998, l’accordo di collaborazione militare è diventato operativo l’anno successivo. La motivazione ufficiale del piano rientra nella strategia della lotta contro il narcotraffico e il terrorismo del Dipartimento di Stato, già attiva in Colombia dalla metà degli anni ’80. Ma Chávez è convinto che il vero scopo della presenza statunitense nell’area sia quello di un maggior controllo di quanto accade in America latina, da sempre considerata dagli Usa il “corridoio di casa”.

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Chávez aveva avvertito sia Uribe che Obama, annunciando che il suo Paese è pronto ad affrontare un conflitto militare perché «il modo migliore per evitare la guerra sta nel prepararsi a combatterla». Nel corso del programma Alò presidente, ha chiesto a militari e civili di tenersi pronti alla guerra, assicurando poi che i suoi connazionali «sono disposti a tutto». Preferendo le minacce al dialogo, Chávez ha dimostrato di non voler accogliere neanche l’offerta del presidente brasiliano Lula per un incontro chiarificatore con il colombiano. «Bisogna parlare con chi comanda - ha detto Chávez - e per questo dico a Obama: non ti sbagliare ordinando una aggressione aperta contro il Venezuela utilizzando la Colombia». Il presidente venezuelano ha anche ammonito l’inquilino della Casa Bianca che una guerra eventuale durerebbe «cento anni. Nessun equivoco né aggressione aperta contro il Venezuela, utilizzando la

Chávez alla guerra contro la Colombia Il caudillo scatenato dopo la firma di Bogotà a favore di basi militari Usa di Massimo Ciullo

Colombia, perché noi siamo disposti a tutto, ma mai torneremo ad essere una colonia “yanqui” né di nessuno», ha detto il caudillo.

Da mesi, Chávez sostiene che la collaborazione militare tra Bogotà e Washington punta a destabilizzare il suo governo. Alle intimidazioni di Chavez, il governo colombiano ha risposto appellandosi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e all’Osa (l’Organizzazione degli stati americani). «Di fronte alle minacce pronunciate dal governo del Venezuela, il governo della Colombia -ha fatto sapere Bogotà con un comunicato - si rivolgerà all’Organizzazione degli Stati Americani e al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La Colombia non farà un solo gesto di guerra nei confronti della comunità internazionale, e men che mai di paesi fratelli. L’unico interesse che ci muove è quello di battere il narcoterrorismo che per tanti anni ha colpito i colombiani», si legge in un comunicato dell’esecutivo di Bogotà. Dal 1999, la Colombia è di-

E rivolto a Obama dice: «Non illuderti, perché una guerra con noi durerebbe più di 100 anni»

La blogger, autrice di Generacion Y, fermata perché “controrivoluzionaria”

Cuba, percosse per la Yoani entre in tutto il mondo si celebra la caduta del Muro di Berlino e il conseguente crollo del comunismo, a Cuba le autorità del regime castrista continuano ad opprimere i dissidenti con metodi degni della famigerata Stasi, la polizia segreta della ex-Germania orientale. A farne le spese, lo scorso fine settimana, è stata la nota bloggerYoani Sanchez, conosciuta in tutto il mondo per il suo impegno a favore della libertà d’espressione. Sanchez ha detto di essere stata arrestata per breve tempo sabato scorso, insieme a due suoi colleghi da agenti della sicurezza che li hanno accusati di essere “controrivoluzionari”, mentre stavano andando a una dimostrazione non autorizzata contro la violenza politica. L’autrice del famoso blog “GeneracionY”, ha riferito di essere stata costretta, insieme ad un altro blogger, Orlando Luis Pardo, a salire su una macchina mentre si stavano avvicinando alla dimostrazione nel distretto Vedado all’Avana.

M

I poliziotti li hanno portati in un punto vicino alla casa di lei e li hanno buttati fuori dall’auto, prima di allontanarsi. «Siamo stati fermati da tre uomini in una macchina cinese nera», ha

detto la Sanchez, nota a livello internazionale per le sue posizioni molto critiche nei confronti del governo comunista di Cuba. La blogger ha raccontato di aver detto alle persone che stavano lì intorno che li stavano minacciando, ma gli agenti hanno intimidito i presenti dicendo: «Sono controrivoluzionari, non immischiatevi». Secondo la Sanchez, l’obiettivo della polizia era quello di impedire a lei ai suoi compagni di partecipare alla manifestazione non autorizzata. Un’altra blogger, Claudia Cadelo, è stata condotta via su un’altra auto della polizia, ed è stata poi rilasciata in un altro luogo.

Durante le percosse, i poliziotti accusavano la trentaquattrenne cubana di essere una controrivoluzionaria in quanto la sua notorietà, tramite il pluripremiato sito, sarebbe contraria agli interessi del regime socialista del suo Paese. Sanchez ha affermato che le intimidazioni del regime non fermeranno la sua battaglia pacifica per la restituzione della libertà ai cubani. La sua aggressione è un ulteriore segno della debolezza del regime, che tenta invano di soffocare le sempre più pressanti richieste di apertura che arrivano da intellettuali, artisti e gente comune.

ventata la prima destinataria di aiuti militari e politici statunitensi, superando la Turchia. Il “Plan Colombia” va avanti senza intoppi sia che l’inquilino della Casa Bianca sia un democratico oppure un repubblicano. I due Paesi hanno negoziato accordi per l’apertura di cinque nuove basi militari in Colombia, dopo che l’Ecuador ha sloggiato l’ultima base aerea statunitense da Manta. Un vero e proprio colpo di grazia a tutte le precedenti dichiarazioni dell’amministrazione Usa di elaborare una exit strategy dal Paese sudamericano per ridurre la militarizzazione dell’area. Originariamente pianificato per a dimezzare il traffico di cocaina e successivamente rimodellato per includere la lotta al terrorismo, il “Plan Colombia” non ha avuto grossi successi nel contrasto al narcotraffico (non c’è stata alcuna riduzione globale dei terreni coltivati a coca, né della quantità di cocaina disponibile negli Stati Uniti), mentre ha contribuito in maniera sostanziale a debellare la guerriglia delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia).


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Obama si congratula, più vicino il ritiro delle truppe Usa

L’offerta durante il summit sino-africano di Sharm el-Sheikh

Iraq, passa la nuova legge: elezioni entro gennaio 2010

Wen Jiabao: «Dieci miliardi di prestito all’Africa»

BAGHDAD.

Il Parlamento irakeno ha approvato la legge elettorale, in vista del voto nazionale in programma nel gennaio 2010. L’accordo è stato raggiunto ieri dopo settimane di stallo e una serie di attentati sanguinosi, che hanno fatto temere uno slittamento del voto.Tuttavia rimane ancora scoperto il nodo legato a Kirkuk, regione del nord ricca di petrolio e al centro di una contesa fra curdi, arabi e turcomanni. La legge è stata approvata da 141 parlamentari dei 196 presenti alla seduta, su un totale di 275 aventi diritto. Un’approvazione rimandata 10 volte nel recente passato, che ha determinato una situazione di forte instabilità nel Paese. Fra i punti di scontro la distribuzione dei seggi fra le diverse etnie, il governatorato di Kirkuk e le modalità di inserimento dei candidati nelle liste elettorali. Il presidente Usa Barack Obama definisce “una pietra miliare” l’accordo raggiunto dal Parlamento, trasmesso in diretta tv nazionale. «Voglio congratularmi – aggiunge l’inquilino della Casa Bianca – con i leader irakeni per l’accordo» che, in caso di

IL CAIRO. La Cina ha offerto ie-

Diamanti rosso sangue, ma Mugabe la scampa Il Kimberly Process non sanziona lo Zimbabwe di Franz Gustincich o Zimbabwe ha rischiato di vedersi sospeso il certificato per il commercio di diamanti rilasciato dal Kimberley Process, ma il Kp, nato nel 2002 per fornire una certificazione ai paesi produttori di diamanti, per garantire che questi non abbiano contribuito a guerre o violazioni di diritti umani, ha giudicato non congrue le richieste di sanzioni. Dell’organismo fanno parte 75 paesi tra produttori ed acquirenti ed il loro impegno, in caso di sanzioni, è vincolante. I 75 rappresentanti riunitisi in Namibia la scorsa settimana hanno giudicato i rapporti di numerose associazioni ed Ong che accusano lo Zimbabwe di gravi violazioni, chiedendo l’espulsione del paese da questa importante organizzazione. Il Kimberley Process, nel luglio di quest’anno, ha inviato una delegazione in Zimbabwe per investigare sulle denunce giunte. Secondo alcune indiscrezioni riportate dall’agenzia Ap, gli investigatori avrebbero ritenuto fondate le accuse, raccomandando la sospensione dello Zimbabwe. Secondo la Ong Human Right Watchdog, lo scorso novembre il governo dello Zimbabwe avrebe lanciato un’operazione militare contro i villaggi dove vivono i minatori clandestini e le loro famiglie, uccidendone 200 e ferendone 30mila.

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l’ambito di una operazione volta ad allontanare il più possibile la perfida Albione dallo Zimbabwe, Robert Mugabe confiscò la miniera ai britannici per cederla alla compagnia mineraria di Stato, la Mining Development Corporation. Quest’ultima fallì la propria missione non riuscendo nemmeno ad iniziare gli scavi, a causa della mancanza di mezzi e di alcuni problemi politici legati, probabilmente, al disaccordo sulla divisone dei profitti.

Le miniere, praticamente abbandonate, attirarono i cercatori illegali che iniziarono a costruire villaggi di baracche di rami e stoffa per vivere sul luogo di lavoro. Con un guadagno medio di 18 euro al giorno, i minatori erano depredati dai militari, dalla criminalità e dai potenti locali. Tuttavia guadagnavano più della media e, soprattutto, potevano sopravvivere, pur alimentando una catena dell’illegalità che si estendeva fino al vicino Mozambico, le cui permeabilissime frontiere avevano attirato compratori europei e mediorientali. Nel novembre scorso Robert Mugabe, decidendo di porre fine all’illegalità, ha inviato l’esercito. Le testimonianze, anche filmate, descrissero scenari di guerra. Dei trentamila feriti, alcuni furono portati nell’ospedale della capitale della provincia, Mutare, senza ricevere alcuna cura per indisponibilità di medicamenti. Sempre secondo le Ong citate, i diamanti estratti o sequestrati (si parla di un milione di carati l’anno) avrebbero preso la via del contrabbando per non figurare nel bilancio dello Stato, ed alimentare così l’esercito per garantirne la fedeltà al dittatore. Il Kimberley Process, fondato proprio per evitare che i diamanti potessero servire a finanziare dittature, guerre e violazioni, però tutto questo non lo ha visto. E secondo Human Rights Watchdog, nel non sospendere lo Zimbabwe, ha decretato la perdita della propria autorevolezza. Ma il Kp non ci sta: e in una breve nota replica: «i profitti dei diamanti servono ala popolazione dello Zimbabwe», e chiudergli il mercato internazionale porterebbe altre sofferenze alla già disastrata economia del paese.

Un anno fa il governo avrebbe ucciso 200 minatori clandestini: feriti altri 30mila. Il motivo? Dare ai militari il lucroso affare

regolari elezioni, permetterà il ritiro programmato delle truppe statunitensi dal Paese. La data del voto verrà decisa dalla Commissione elettorale nelle prossime settimane; pare molto probabile uno slittamento rispetto al 16 gennaio, la data prevista in origine. Faraj al-Haidari, capo della Commissione, assicura che “lavoreremo anche durante le feste” per garantirne il regolare svolgimento. Un primo provvedimento concerne l’inserimento dei nomi dei candidati ai diversi uffici, invece di semplici liste anonime con i nomi dei partiti. Esperti di politica irakena sottolineano però che non si è fatto nulla per risolvere lo status di Kirkuk, nel nord dell’Iraq, regione ricca di petrolio e al centro di una contesa fra le diverse etnie del Paese.

ri 10 miliardi di dollari di prestiti al continente africano, una cifra che verrà devoluta nei prossimi tre anni. Il premier cinese Wen Jiabao, estensore della proposta, ha dichiarato che Pechino è «un vero e fidato amico» del continente nero e della sua popolazione. La dichiarazione è stata fatta nel corso del summit sino-africano in corso in questi giorni a Sharm elSheikh, in Egitto. L’offerta di aiuto rappresenta esattamente il doppio di quanto venne garantito dal presidente Hu Jintao nel corso dell’ultimo summit, che si è svolto nella capitale cinese nel 2006. L’aumento si spiega con il fatto che la Cina mira a moltiplicare le proprie

Sono numerosi i villaggi improvvisati dei minatori clandestini nello Zimbabwe di Robert Mugabe. Oro, argento e pietre dure sono abbondanti e facili da estrarre: basta scavare dei pozzi e già da un paio di metri di profondità i preziosi minerali iniziano ad essere visibili. Nel paese, con l’80% di disoccupazione, un Pil pro capite di appena 130 euro e un’inflazione incontrollabile, quella delle miniere illegali è un lavoro come un altro, che peraltro non ha mai reso ricchi i minatori quanto gli intermediari. La miniera più ricca, nella provincia di Mutare, prima dell’indipendenza del paese nel 1980, era sfruttata dal colosso dei diamanti De Beers, che provvedeva alla sicurezza ed impediva lo scavo di pozzi clandestini. La grande miniera a cielo aperto di Chiadzwa venne poi ceduta alla britannica African Consolidated Resources, ma nel 2006, nel-

relazioni con i governi africani, un rapporto che comunque va avanti da decenni. Fu Mao Zedong a iniziare la politica di sostegno ai governi africani: milioni di dollari in cambio di riconoscimenti internazionale, negli anni in cui era Taiwan ad avere un seggio alle Nazioni Unite. Inoltre, il governo maoista sosteneva attivamente i movimenti di liberazione anti-coloniale del Continente nero. Spiegando il piano di prestiti, Wen ha detto: «Aiuteremo l’Africa a mettere in piedi un vero sistema finanziario. Per questo concediamo dieci miliardi di dollari di prestito». Il vorticoso aumento del giro d’affari fra Cina e Africa - 7,8 miliardi di dollari in investimenti diretti soltanto nel 2008 – innervosisce molto l’Occidente. I governi europei, ad esempio, accusano Pechino di essere interessata soltanto alle risorse naturali africane; da parte sua, la Cina sostiene che il Vecchio mondo tratta l’Africa ancora come una colonia. Secondo il popolare tabloid Global Times – edito dal Quotidiano del Popolo – l’Occidente «ha paura della rinnovata vicinanza fra noi e l’Africa». Citando un esperto, il giornale continua: «Gli europei considerano queste nazioni come il loro cortile. È chiaro che non siano felici dell’arrivo dei cinesi».


cultura

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Mostre. Fino a febbraio al Palazzo delle Esposizioni di Roma una grande rassegna dedicata allo scultore americano che rivoluzionò l’arte contemporanea

La festa mobile di Calder Piegò il filo di ferro alle intuizioni creative più impensabili e creò il moto nella fissità: ecco chi era il “maestro dell’aria” di Olga Melasecchi l modo migliore per ricordare Alexander Calder è con la matassa del filo di ferro su una spalla e l’espressione concentrata sulle mani con cui lentamente svolge il filo per modellarlo. Così è ritratto all’interno del suo studio di New York in una foto del 1936, in cui è racchiusa la poetica del lavoro del grande scultore americano (Lawnton 1898 – New York 1976), famoso soprattutto per i suoi mobiles, come li aveva chiamati Marcel Duchamp, le leggere sculture dell’aria.

I

Dal 23 ottobre 2009 al 14 febbraio 2010 è possibile ammirare le opere straordinarie di questo poeta delle arti visive del XX° secolo al Palazzo delle Esposizioni di Roma dove è stata allestita la grande mostra Calder. Scultore dell’aria, curata dal nipote Alexander S.C. Rower. Calder era figlio d’arte, il padre e il nonno, originario della Scozia, erano artisti, importanti scultori, la madre era ritrattista, tanto che di se stesso una volta scrisse ironicamente: «Non sono stato allevato, sono stato impostato». L’atmosfera creativa della sua casa, frequentata da artisti, attori e musicisti, fu fondamentale nella formazione del suo mondo fantastico, quello che volle poi ricreare con le sue mani attraverso il mezzo più semplice e sintetico, ed anche il simbolo dell’era industriale, l’umile filo di ferro. Era stato abituato fin da bambino a lavorare con le mani, dal momento che, come ricorda Jed Perl in catalogo, «a ogni nuovo trasloco della famiglia, veniva sempre trovato lo spazio per allestire un laboratorio al ragazzo, fosse una tenda con il pavimento di legno come a Pasadena o uno scantinato in una delle case che i Calder abitarono nello stato di New York». Fu nel suo atelier infantile che Calder cominciò a utilizzare il filo metallico come mezzo espressivo: «ero solito raccogliere i pezzetti di filo di rame avanzati quando si giuntava un cavo, e con quelli e qualche perlina facevo gioielli per le bambole di mia sorella». Ma, bambino, amava anche, come tutti i bambini, animare il suo gioco, costruendo animali con lamine di ferro, come Dog e Duck, entrambi del 1909, ora esposti nella mostra romana. Divenuto ingegnere,

nel 1923 a venticinque anni, decise invece di fare l’artista. Le sue scelte sono costellate di intuizioni improvvise, come la prima, fondamentale, quando una visione al largo del Guatemala lo convinse a dedicarsi all’arte: vedendo da una parte sorgere un sole rosso come il fuoco e dall’altra brillare la luna intuì, come ricordò in seguito in una sua biografia, «l’immensità del sistema solare». Parole che racchiudono il segreto della potenza della creazione e del perfetto e

terribile equilibrio dell’Universo. Carpire la natura e diventarne l’artefice, come Prometeo, è un’operazione affascinante ed esaltante, che Calder perseguì per tutta la vita.

La magia dell’opera di Calder è racchiusa proprio nelle sue mani, affascinanti per il grande fluido di energia che sprigionavano e che, proprio per questo

l’amico fotografo Ugo Mulas amava porre in particolare evidenza nei numerosi ritratti che gli aveva scattato e che ora possiamo ammirare in una sezione particolare della mostra, Calder secondo Mulas: «Mi piaceva il fatto che si dedicava a tutto con uguale intensità – diceva di lui – che riuscisse a costruire dei forchettoni o dei mestoli per la cucina non meno belli delle sue sculture e soprattutto, quei buffi lampadari costruiti sovrapponendo a cerchio due serie di forme da budini, e i supporti in filo d’ottone... così mi piace l’impegno e l’abilità con cui si muove per realizzare delle teste o delle figure con un solo filo di ferro senza mai tagliarlo, come si fa un disegno su un foglio senza stac-

care la matita». Cioè come faceva, prima di lui, Henri Matisse, uno dei grandi artefici dell’arte moderna, e che può essere considerato il maestro ideale di Calder. E proprio Matisse, che era andato a visitare una sua mostra, lo aveva definito un mago. Come un abile prestigiatore Calder “estraeva”dalle sue mani invenzioni incredibili: dai ritratti agli amici, a silhouette “parlanti”, come Josephin Baker, del 1926, in cui il filo di ferro è stato piegato, attorcigliato, avvitato e magicamente trasformato nella figura stilizzata della famosa ballerina

Concepì le sue creazioni all’interno dello spazio: un’idea di pieni e di vuoti che ispirerà uno dei temi centrali della seconda metà del Novecento francese. James Jones Sweeney, il più autorevole esegeta dell’opera di Calder, ha descritto infatti le sue sculture in filo metallico, le wire sculptures, come «una riduzione del volume a linee di contorno», «una specie di calligrafia spaziale» tradotta nel ferro. «Per primo nella storia della scultura», aveva scritto con acuta intuizione il critico d’arte e suo caro amico Giovanni Carandente,


cultura

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Esili o maestose, le sue opere sfidano la staticità

Un ingegnere al servizio dei sogni di Francesco Lo Dico alder non suggerisce nulla: cattura dei movimenti reali, vivi, e li plasma. I suoi mobile non significano nulla, non rimandano a nulla se non a se stessi: esistono e basta, sono assoluti. Del mare Valéry usava dire che ricomincia di nuovo, sempre nuovo. Un oggetto di Calder è come il mare. È come un motivo di jazz, unico ed effimero, come il cielo, come l’alba. Se vi è sfuggito, vi è sfuggito per sempre». È una delle più profonde suggestioni poetiche, quella che le creazioni di Alexander Calder suscitarono in Jean-Paul Sartre. E anche una delle più fervide. Perché delle opere dello scultore di Lawnton, è giocoforza parlare se non in termini che dalla staticità impressa alla materia grezza dallo scalpello, scollinano nella fuggevolezza della natura, o nella ”riserva indiana” del jazz. Perché proprio come nel jazz la tenue traccia musicale, l’esile supporto metallico che snoda nell’aria la forma cangiante, diventa in Calder musica irripetibile, che tramuta l’onda sonora in marea inafferabile.

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«Calder ha fatto sorgere un’opera plastica dal disegno lineare invece che dall’antico gesto del formatore in argilla, dello sbozzatore del marmo oppure dall’idea calcolata e mentale del costruttivista». «In queste opere – evidenzia Daniela Lancioni nel bellissimo catalogo della mostra – il volume non è dato dalla massa plastica, ma da una linea tracciata con il filo di ferro e dalle porzioni di vuoto che essa delimita». I concetti di pieno e di vuoto, che sono alla base dell’arte della scultura, erano particolarmente studiati da Calder, memore della sua formazione tecnica, al punto che, allorquando, nella fase matura della sua attività si dedicò ai grandi stabiles, sculture astratte monumentali realizzate con pesanti lastre di metallo imbullonate destinate ad arredare spazi urbani, studiava attentamente lo spazio in cui sarebbero state collocate

esigendo una particolare situazione di vuoto, l’unica possibile per farle “respirare”. Egli riteneva pertanto che lo spazio circostante avesse una parte attiva e fondamentale nella visione dell’opera, così di quella monumentale, come dei famosi mobiles. Con i mobiles Calder passò dal figurativo all’arte astratta, ed anche in questo caso attraverso una folgorante intuizione: nel 1930 all’interno dello studio di Piet Mondrian rimase colpito dalla disposizione dei rettangoli di carta colorati su un muro bianco per gli esperimenti dell’artista. «Sarebbe stato divertente – pensò Calder – far oscillare quei rettangoli». Come rami di foglie sospesi nell’aria, Calder costruiva lamine dalle vaghe forme di gemme, lune, dischi, boccioli, falci, piume, messi in orbita da una rete di esili linee metalliche, innestate le une sulle altre con raccordi a vista, ottenuti con anelli o ganci a “esse”.

Ma protagonista dell’opera è anche e soprattutto l’aria e le correnti che la muovono. Calder è stato in ciò un grande precursore: «l’assunzione all’interno dell’opera dello spazio che la circonda e con esso dell’elemento naturale dell’aria che lo sostanzia, sintetizzata da Calder nelle sue sculture, sarà uno dei temi centrali dell’arte della seconda metà del Novecento, quando, dalla Minimal Art all’Arte Povera, fino alla Land Art, gli artisti concepiranno le loro creazioni nei termini di installazioni» (D. Lancioni in catalogo).

Nella foto grande, “Parasite” (1947), opera di Alexander Calder in lamiera dipinta e filo di ferro. A sinistra, altre due sculture dell’artista americano: “Glass Fish” (1955) e“Romulus and Remus” (qui accanto). Qui sopra, una posa dello scultore, figlio d’arte nato a Lawnton il 22 luglio 1898 e morto a New York l’11 novembre del 1976

Cresciuto sotto l’influenza di Joan Miró, Jean Arp e Piet Mondrian, Calder coniugò l’ astrattismo europeo, coltivato in origine in pittura, con un estro pragmatico tutto americano. E così, ingegnere e sognatore, legò con il filo di ferro due estremità impossibili: la fermezza scultorea e la cinetica del vento. Risultato di un paradosso, nacquero i mobiles.Marcel Duchamp chiamo così quelle nervose lamine di metallo che avvinte in arabeschi di ferro sospendevano la fisica in uno continuo sciabordio dell’aria. Mandando a farsi benedire l’hic imposto alla materia greve, in un nunc che di continuo ridefinisce la stasi e la modella sul capriccio dell’istante. Geometria volatile al servizio della fantasia, il teorema di Calder. Che man mano, impressa alla linea astratta l’imprevedibilità della vita viva, riammette la natura sulla sua soglia. Arrivano dunque fogge ispirate al mondo organico come Cono d’ebano (1933, collezione privata) e Squalo e balena, (1933, Musée national d’art moderne, Parigi), e il riuso di materie naturali, come rami d’albero e pietre. Dalla tela alla lamina, fuoriuscita dalla ristrettezza della cornice come dal giogo degli assi cartesiani, l’opera scultorea non più inerte, è matura perché non possa più temere l’aperta campagna del mondo. Accade con Steel-Fish (1934, collezione privata). E accade con la fine della seconda guerra mondiale, quando fuori dalle teche, la sua arte giganteggia en plein air. Non più esili ma mai del tutto ferme, le stabiles (definizione di Jean Arp) si ancorano a una terra ferita tenendone insieme le crepe. Uno slancio appassionato che proietta nel cielo le sagome vivaci di animali festosi. Ecco Le Tamanoir apparire a Rotterdam, Le Halebardier (1971) ad Hannover, Têtes et Queue (1965) a Berlino. Dal moto alla stasi, si potrebbe supporre. E invece, in quelle creature metalliche, dai colli nodosi di quelle giraffe che sondano il vento, spira ancora, miracolosa, la sfida titanica dell’artista. Quello che non riuscendo a plasmare la vita dalla sua opera, la predispone affinchè il suo soffio l’attraversi.


cultura

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Qui sotto, un’immagine dello scrittore italiano Alessandro Baricco e, in basso, la copertina del suo nuovo romanzo “Emmaus” (Feltrinelli, 139 pagine, 13 euro). A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

el nuovo romanzo di Alessandro Baricco c’è un padre di famiglia, osservato da tutti come depresso cronico, che alla fine svelerà il mistero di un gesto. Era solito alzarsi da tavola e affacciarsi al balcone. Facile e superficiale deduzione: l’uomo, enigmatico e di grandi silenzi, probabilmente era tentato dal vuoto, da un gesto risolutivo. Niente di tutto questo, dirà all’amico di suo figlio (sì, lui suicida, e dallo stesso balcone): lo facevo per allegria infantile, perché fin da bambino mi piaceva guardare le cose dall’alto. Così, per distrarmi. Riportiamo questo passo perché Baricco, in Emmaus (Feltrinelli, 139 pagine, 13 euro), si pone in alto e dall’alto guarda nel tentativo di descrivere, e anche spiegare (con una meticolosità elegante che talvolta sottrae ossigeno alla corsa narrativa), il mondo orrendo, le sue contraddizioni, il suo bagaglio di dolore e di niente. Spesso, molti lo sanno, si vede meglio ad altezza uomo o seduti su una panchina: il risultato potrebbe essere più vero, più drammatico, forse anche più grezzo, ma certamente meno didascalico e arrogante.

N

Quello di Baricco è un frullatore affabulatorio dove infilarci quel tutto che serve per un liquido utile ad acutizzare la nostra vista. Gli ingredienti stavolta sono una sorpresa, visto che lo scrittore torinese parte e termina con i Vangeli, sfiora, con compiacimento culturale, le infinite pieghe del mistero della vita e della morte, accosta le varie figure femminili alla Vergine immacolata, senza cassare la tentazione di scrivere: «Nessuno lo sa, ma l’Immacolata concezione non c’entra niente con la verginità di Maria... il sesso non c’entra per niente». Grazie dottor Baricco, senza di lei ci pareva di essere vissuti finora nel lontanissimo Oriente o in un Paese di abissale e ruvida ignoranza islamica. Il titolo del romanzo si riferisce a un passo dei Vangeli. Qualche giorno dopo la crocifissione di Gesù, due viandanti s’avviano verso Emmaus e discutono tra loro degli avvenimenti che hanno a che vedere con il Calvario e il Sepolcro vuoto. Un terzo uomo si accosta e si fa raccontare quel che non sa. La sera lo sconosciuto spezza il pane. Da quel gesto particolare i due viandanti capiscono che è lui il Messia (che sparisce all’istante). È il dramma innocente dell’ignoranza, del non accorgersi della luce e del buio che stanno in noi e dentro di noi. L’episodio viene ricordato da

Libri. Arriva da Feltrinelli “Emmaus”, il nuovo romanzo dello scrittore torinese

Il «Vangelo» secondo Baricco di Pier Mario Fasanotti uno dei quattro ragazzi, tutti sui diciott’anni, attorno ai quali si snoda la vicenda del romanzo. L’io narrante racconta, con maestria ma anche con la suggestione quasi musicale che ricava dalle parole e dalle immagini, il percorso giovanile che va dal rituale sociale dei cattolici, eroi a parte, eroi senza armi, «eroi femmina», alla deriva della dissipazione del sé. A illuminare continuamente il palcoscenico allestito da Baricco c’è la bella, fredda e affascinante Andre, «con l’accento sulla A», diminutivo di Andrea,

di famiglia molto ricca, silenziosa, avara della sua anima (ma non del suo corpo che gestisce con strabiliante leggerezza), a volte androgina, modello estetico e comportamentale per le sue coetanee, che per imitarla si fanno «più dure», più consapevolmente padrone del proprio involucro di carne. Andre si tiene sempre a un passo dall’emozione. È una sfinge flessuosa che seduce. E sedurrà, nella realtà e nell’immaginazione, i quattro amici che vanno a messa, in parrocchia, negli ospedali per alleviare le sofferenze degli altri, e in famiglia si comportano da bravi ragazzi. C’è, ed è evidente, un doloroso iato tra figli e genitori. Le madri interrogano ma paiono non capire il significato

Nel volume, a sorpresa, l’autore parte e termina con le Scritture, accosta le protagoniste a Maria, sfiora il mistero della vita e della morte... di certe allusioni. I padri sono stanchi, sconfitti, ripetitori di frasi uguali, svuotate e rituali. A volte si lasciano andare raccontando che da giovani sono stati felici, come a giustificare quel grigio che li opprime quotidianamente. Ci scappa pure la confessione di uno di quei padri: «Sai, io e mia moglie venivamo da famiglie orrende».

L’unione coniugale intendeva essere il proseguimento di certi momenti felici. Ma il tempo stritola ricordi ed emozioni, inacidisce. Nel frullatore di Baricco c’è molta morte. A parte quella del Cristo e quella, temporanea, di Lazzaro, ci sono le morti tragiche del padre di Andre, di uno dei quattro amici, di un transessuale cui hanno sparato per gioco «quelli là», i giovani del giro di Andre, che la sera mischiano vino, droga, trasgressione e scorribande, salvo poi crollare davanti a chi li interroga e a chi riceve come risposta la parola più drammatica della vita di oggi: «Niente». È Andre a fare da calamita. Lei che non ha amicizie strette, che non ha inibizioni, che non ha fede, che smonta con colpevole leggerezza la geometria morale dei “bravi ragazzi”. I quali cominciano a interrogarsi, a litigare, a tardare agli appuntamenti fissati dall’agenda cattolica e giovanile (la band musicale). Deragliano. Drammaticamente soli dinanzi a quel mistero che turba la carne e l’immaginazione. Il disastroso contagio prodotto da Andre deriva anche dal fatto che la ragazza tentò di suicidarsi buttandosi da un ponte. È una che «muore ogni giorno».

Alle sue spalle Baricco costruisce leziosamente una simmetria di destini: Andre nasce proprio nel momento in cui la sorellina muore affogata nell’acqua scura della vasca con i pesci rossi. L’adolescente è un mondo a parte anche perché è inglobata in una famiglia, anzi in un ceto, ove qualsiasi destino ha il «privilegio», anche del tragico.“Loro” possono tutto e pare quasi che buttino nel cortile della piccola borghesia un’esca come Andre. Una lettura allegorica degli steccati sociali ci consente di evitare l’accusa a Baricco di essere scivolato in un congegno artificioso, costellato da stereotipi sociali. La sofisticata madre di Andre, quando ascolta gli allarmi dei ragazzi a proposito della vita senza baricentro della figlia, fa cenno a una sua esperienza sessualmistica con un frate. Forse un ingrediente di troppo, messo lì con l’intento di non scordare alcun architrave del feuilleton. Quante sono le cose che Baricco vede dal suo balcone. Pare che la strada dove sorge la sua abitazione letteraria sia sempre affollatissima.


società

10 novembre 2009 • pagina 21

Costituzione apostolica. La “Anglicanorum coetibus” di Benedetto XVI, un salto nel futuro assetto della comunione cattolica

Una rivoluzione in quattro mosse di Luigi Accattoli È stata presentata ieri la Costituzione apostolica (“Anglicanorum coetibus”) di Benedetto XVI, attraverso la quale il desiderio degli anglicani di tornare alla Chiesa cattolica potrà essere realizzato. A fianco, un’immagine di Papa Benedetto XVI e dell’arcivescovo di Canterbury. In basso, Enrico VIII

a Costituzione apostolica con cui il Papa accoglie nella Chiesa cattolica “gruppi di anglicani” (Anglicanorum coetibus è il titolo latino) è un testo davvero importante, forse epocale, che compie quattro passi - due dei quali audaci - in vista dei rapporti ecumenici e del futuro assetto della comunione cattolica. I quattro passi toccano - in ordine di importanza decrescente - il celibato, la nomina degli “ordinari”, la presenza di ordinari sposati nelle Conferenze episcopali e nei Concili, il pluralismo liturgico. Ritengo che qui vadano cercate le decisioni più aperte al futuro tra quante ne abbia prese fino a oggi Benedetto XVI.

L

La più audace riguarda il celibato dei preti: si stabilisce che in deroga alla legge attuale - come è definita nel canone 277: «I chierici sono vincolati al celibato» - gli «ordinariati personali» anglicano-cattolici potranno chiedere al Papa «caso per caso» di poter ordinare preti «anche uomini sposati». Non solo dunque è previsto come già avvenuto più volte lungo gli ultimi decenni - che vengano ammessi al sacerdozio della Chiesa Cattolica gli attuali preti anglicani sposati, ma che preti sposati vi siano anche in futuro «secondo criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede». Le “Norme complementari”pubblicate insieme alla Costituzione specificano che tali criteri avranno di mira «le necessità dell’ordinariato». Vale a dire che l’autorizzazione verrà data quando l’ordinazione di un uomo sposato ri-

sulti necessaria per garantire la celebrazione dell’Eucarestia a una comunità che non possa essere servita altrimenti. Il giovane Ratzinger nel saggio Fede e futuro (Queriniana, Brescia 1971, p. 115) aveva previsto per l’intera Chiesa Cattolica che un giorno si sarebbe arrivati per necessità e restando vigente la norma del celibato - all’ordinazione di «cristiani maturi» (viri probati) già sposati. Forse

Così il Papa ricuce una storica ferita CITTÀ

DEL VATICANO. Il «santo desiderio» degli anglicani di tornare alla chiesa cattolica, potrà ora essere realizzato: lo prevede la Costituzione apostolica per i gruppi di anglicani approvata da Benedetto XVI lo scorso 4 novembre e pubblicata ieri. «Ogni divisione fra i battezzati in Cristo è una ferita» - afferma il Papa - tuttavia la Chiesa «non è solo una comunione invisibile, ma anche visibile» e si manifesta nella «società costituita di organi gerarchici» che insieme «formano una sola complessa realtà. L’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro», «ancorché al di fuori del suo organismo si trovino elementi di santificazione e di verità che spingono verso l’unità cattolica». Il Papa ha quindi fissato una normativa generale per regolare l’istituzione di Ordinariati personali per quei fedeli anglicani che intendano entrare in piena comunione con la Chiesa cattolica.

è per questa via degli ordinariati venuti dall’anglicanesimo che la Chiesa di Roma scioglierà domani il nodo del celibato anche per il resto delle sue comunità. È una decisione audace perché nella Chiesa cattolica di rito latino - e questi ordinariati faranno parte del rito latino - non vi sono più deroghe o tolleranze in tale materia dal Concilio di Trento. La seconda decisione audace riguarda la figura dell’ordinario, che è assimilato giuridicamente al vescovo diocesano e che sarà nominato dal Papa «in base a una terna presentata dal Consiglio di governo dell’ordinariato». Sarebbe come se il

vescovo di Milano venisse scelto dal Papa all’interno di una terna fornita dal capitolo della cattedrale. Qui l’audacia è minore perché forme simili di nomina dei vescovi - seppure limitate a singole diocesi - sono state in vigore nella Chiesa latina fino al Vaticano II e sono cessate definitivamente solo con Giovanni Paolo II. Anche qui è facile intuire la portata di futuro legata a un’innovazione che reintroduce - per via ecumenica - quanto era arrivato “in reliquia” fino a noi per via di tradizione. La terza riguarda il fatto che “ordinario”potrà essere anche un sacerdote sposato e dunque avremo degli ordi-

prete, ma conserverà lo «stato matrimoniale» e sarà equiparato a tutti gli effetti ai vescovi della Chiesa cattolica. Potrà dunque partecipare alle convocazioni episcopali nazionali e universali. Per la prima volta in epoca moderna uomini sposati entreranno nella compagine gerarchica della Chiesa latina.

Infine la novità in campo liturgico: questi ordinariati saranno integrati nella Chiesa Cattolica di rito latino ma continueranno a usare «i libri liturgici propri della tradizione anglicana». Potranno cioè celebrare la messa, i sacramenti, le “ore”e ogni altra azione liturgi-

Il Pontefice interviene direttamente sul celibato, la nomina degli “ordinari”, la presenza di ordinari sposati nelle Conferenze episcopali e nei Concili, il pluralismo liturgico nari sposati che entreranno a far parte delle conferenze episcopali e dei Concili. La questione è complessa, specialistica e ipotetica (nel senso che in via normale si cercherà di nominare ordinari celibi), ma indubbiamente seria e simbolicamente rilevante. L’ordinario cioè il responsabile di ognuno degli ordinariati anglicano-cattolici che ora si vanno a costituire - potrà essere un vescovo o anche un prete. Nel caso del vescovo sarà celibe, perché non potranno esservi vescovi sposati. Ma nel caso del prete potrà anche essere sposato ed è previsto espressamente che «un vescovo già anglicano e coniugato è eleggibile per essere nominato ordinario». Non sarà vescovo, sarà riordinato come

ca «secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana» in modo da «mantenere vive» all’interno della Chiesa cattolica le loro tradizioni. È stata dunque fatta propria da Papa Benedetto la formula enunciata una volta da Papa Montini, che invitava a guardare per il futuro a una Chiesa Anglicana «unita ma non assorbita». Non è stato costituito un nuovo rito “anglicano-cattolico”, ma agli ordinariati di provenienza anglicana è stata accordata la facoltà di mantenere i propri riti. Sono quattro novità - quelle che abbiamo esaminato - che vanno tutte nella direzione della varietà e della pluriformità all’interno della compagine cattolica. www.luigiaccattoli.it


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “Chosun Ilbo” del 09/11/2009

La sfida del Dalai Lama di Joseph Yun Li-sun ltre 30mila devoti buddhisti hanno ascoltato ieri mattina la preghiera recitata dal Dalai Lama nel monastero di Tawang, cittadina dello Stato settentrionale dell’Arunachal Pradesh al confine fra il Tibet e l’India. Il leader religioso ha ribadito che la sua è una visita “non politica”, mentre Pechino l’ha definita “altamente provocatoria”. Nelle scorse settimane, infatti, Pechino ha accusato il Dalai Lama di fomentare la ribellione e di sfidare il dominio cinese sulla regione tibetana con questa sua visita nello Stato di confine indiano. Il premier indiano Manmohan Singh ha invece risposto alla Cina definendo il Premio Nobel per la pace “un ospite d’onore” per l’India. I fedeli hanno viaggiato per giorni per non mancare all’incontro con il leader spirituale tibetano: alcuni sono arrivati anche dal vicino Buthan. Sono state appese per le strade di Tawang bandiere e striscioni tibetani. Tuttavia le autorità indiane, per tentare di contenere la protesta cinese e minimizzare la tensione, hanno limitato l’ingresso alla stampa per la copertura del viaggio del Dalai Lama. Tawang è uno dei luoghi più importanti per il buddhismo tibetano: ospita infatti un monastero vecchio di quattro secoli, il primo nel quale si rifugiò il Dalai Lama 50 anni fa mentre era in fuga dal Tibet. Aprendo la preghiera, il Dalai Lama ha detto: «La mia visita non ha uno scopo politico e vuole promuovere la fratellanza universale, nient’altro. Ma la Cina usa sempre i miei viaggi per parlare male di me».

O

Tawang, ha aggiunto il leader religioso, «ha per me un’importanza particolare. Ho molte emozioni diverse, mentre mi trovo qui davanti a voi. Quando ci sono venuto per la prima volta ero mentalmente e fi-

sicamente molto provato. All’epoca, Pechino ancora non mi attaccava». Nell’ultimo anno si sono intensificati gli attacchi alla guida spirituale del buddismo tibetano. Nell’agosto di quest’anno il Dalai Lama, 74 anni, ha effettuato un’altra controversa visita a Taiwan, regione considerata dalla Cina parte integrante del suo territorio: Pechino lo ha accusato di voler incitare il mondo cinese alla secessione. Il problema deriva anche dalla sovranità contesa sullo Stato in questione. «L’Arunachal Pradesh è parte integrante dell’India… Di certo l’integrità della sovranità territoriale dell’India deve essere rispettata». Così il ministro degli Affari esteri S M Krishna ha ribadito la ferma posizione indiana su una regione che la Cina con uguale forza rivendica come sua. Il ministro ha aggiunto che «i confini indiani sono saldi» e che «il nostro esercito è in grado di difenderli», anche se ha aggiunto che New Delhi e Pechino sono Paesi maturi e responsabili e che confida che il dialogo e il confronto trovino una soluzione sui discussi confini tra i due.

Dopo la guerra del 1962, sono tuttora incerti parte dei 3.500 chilometri di confine tra i due Stati, che cadono in gran parte lungo gli alti monti himalayani. All’epoca la Cina penetrò nell’Arunachal Pradesh (Ap) e tuttora rivendica come propria tale regione di 90mila km quadrati, di tradizione buddista, che chiama Tibet meridionale. Intanto mantiene l’occupazione su 38mila kmq nel Ladakh. New Delhi rivendica anche circa 5.180 kmq di Kashmir

settentrionale, che il Pakistan ha ceduto alla Cina nel 1963. Di recente i media hanno parlato di un aumento dei piccoli conflitti a fuoco tra i due eserciti nelle zone di confine, notizia smentita da Delhi.

Brahma Chellaney, del Centro di ricerca politica a New Delhi dice che gli “sconfinamenti” cinesi sono passati da circa 140 nel 2006 a 270 nel 2008, e non sono in diminuzione. Pechino ha soltanto detto di avere intensificato la vigilanza sui confini di Tibet e Xinjiang, dopo che nelle due regioni ci sono state grandi proteste di piazza su base etnica, e ha accusato l’India di fomentare la tensione, anche tramite “notizie inaccurate” pubblicate dai media. La Cina sostiene che non viola i confini, ma si limita a impedire che lo faccia controparte, e che l’aumento di scontri dipende dalla maggior presenza di truppe indiane nella zona. Di recente il governo indiano ha inviato in Arunachal Pradesh altre due divisioni, circa 30mila uomini.

L’IMMAGINE

Stallo elettorale: a quando l’avvento di un Karzai, presidente europeo? In Afghanistan lo stallo elettorale ha minato la già fragile reputazione di cui godono il governo di Kabul, le organizzazioni internazionali e il contingente straniero tra la popolazione. Esperti locali dicono che l’intero Paese dovrebbe essere oggetto di una ricostruzione prima di tutto qualitativa, che abbracci tessuto sociale, classe dirigente, scuole, strade e ospedali. L’aspetto quantitativo dei soldati è secondario. «Tenteremo di portare la pace in tutto il Paese. Chiediamo ai nostri fratelli talebani di tornare in Afghanistan in questo ambito, e su questo chiediamo l’assistenza e la cooperazione della comunità internazionale», ha detto Karzai. «La pace sarà possibile quando tutti gli afgani saranno uniti e parleranno con una sola voce, lavorando insieme per un governo di unità che rappresenti tutti». A quando l’avvento di un Karzai presidente europeo?

Matteo Maria Martinoli - Milano

FAZIO, CHE DISASTRO! L’influenza A passerà e saremo ancora a fare vaccinazioni. La superficialità con cui si è affrontato il problema ha dello stupefacente: si è passati dal ruolo di incendiari, con previsioni catastrofiche sulla pandemia da influenza A con 8-12 milioni di malati e 10-15mila morti in Italia, a quello di pompieri con 250mila influenzati e 24 morti. L’organizzazione della distribuzione dei vaccini fa acqua da tutte le parti con Stato e Regioni che si rimpallano le responsabilità: troppi vaccini in alcune Regioni pochi in altre e confezioni monodosi e pluridosi inviate e utilizzate senza criteri. Che disastro questo nostro viceministro alla Salute, Ferruccio Fazio. Qualcuno ha fatto i calcoli di quanto ci costa la produzione e

la distribuzione del vaccino? Ne scopriremmo delle belle!

Primo Mastrantoni

CALL CENTER E PRIVACY La maggioranza e il governo hanno dato il via libera, al Senato, al provvedimento che, tra l’altro, proroga il regalo agli operatori di telemarketing a danno della privacy degli utenti dei servizi di telefonia e in violazione delle norme comunitarie in materia. Gli italiani che continueranno a subire il martellamento telefonico dei venditori di tutte le risme sapranno chi ringraziare. Inclusi i tanti pianisti della maggioranza che hanno votato anche per conto dei colleghi assenti. Ora il provvedimento passerà alla Camera. È sintomatico che questo voto antieuropeo è avvenuto dopo che la Corte europea dei dirit-

Prima il piacere, poi il dovere Meglio giocare ancora un po’ finché c’è luce. Per gli ermellini, infatti, il tempo delle attività meno divertenti ma necessarie, come la caccia, è la notte. Avvolti nell’oscurità gli agili carnivori, non più lunghi di una trentina di centimetri, pattugliano boschi e radure in cerca di piccoli roditori, uccelli, rane e insetti, percorrendo anche 15 chilometri in una notte

ti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano sulla questione del crocifisso. Due questioni sicuramente diverse per argomento e per ambito (la Corte europea non è un organismo Ue), ma che indicano che il nostro Paese ha scelto di essere altrove. Quando e se il provvedimento sui call center diventerà definitivo, denunceremo l’Italia in sede comunitaria,

oltre a chiedere nuovi interventi del Garante della privacy.

Lettera firmata

I CONTI TORNANO La Fiat sembra essersi ripresa e l’attuale evidenza è data dal mare di promesse e di disegni futuri che hanno come oggetto il mercato americano. Ma non tutti sanno che anche Alitalia, grazie al-

l’opera del governo, che al momento fu tanto criticata dai soliti delatori, gode di ottima salute è ha una gestione che riesce ad organizzare marketing, piani interni e progetti futuri e futuribili, con una sicurezza ritrovata e uno slancio che mai si era avuto fino ad ora, perché i numeri per la prima volta tornano.

Gennaro Napoli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sei una grande presuntuosa! Ho ricevuto la tua lettera e mi sono proposto freddamente, cinicamente, di farti arrabbiare. Lo sai che sei una grande presuntuosa? Te lo voglio dimostrare obbiettivamente e mi diverto già immaginando la tua collera. Che la lettera mandatami ad Ustica fosse tutta sbagliata, è certo; ma tu non ne puoi essere ritenuta responsabile. È impossibile immaginare la vita di Ustica, perché è assolutamente eccezionale, è fuori di ogni esperienza normale di umana convivenza. Potevi tu immaginare una cosa come questa; senti. Sono giunto ad Ustica il 7 dicembre. Fui avvisato subito di farmi una provvista di sigarette; andai dal tabaccaio e domandai 10 pacchetti di macedonia (16 lire), mettendo sul banco un biglietto da 50 lire. La venditrice si meravigliò della mia domanda, prese i dieci pacchetti, li aprì, incominciò a contare le sigarette; prese un foglio di carta, fece dei lunghi conti colla matita; prese le cinquata lire, le guardò da ogni parte e mi domandò chi ero. Saputo che ero un confinato politico, mi consegnò le sigarette e mi restituì le 50 lire, dicendomi che l’avrei potuta pagare dopo aver cambiato il biglietto. Ecco la spiegazione: ad Ustica esiste solo l’economia del soldo; si vende a soldi e si spende mai più di 50 cent. Antonio Gramsci a Tania

SI FACCIA QUADRATO INTORNO AI VIGILI Spiace assistere a episodi di mesta e vile aggressione ai danni di uomini deputati alla tutela e alla garanzia dell’ordine pubblico: ai vigili urbani tarantini, vittime di questo episodio, inclassificabile sotto il profilo umano, desidero esprimere la personale solidarietà e quella dell’intero gruppo regionale dell’Unione di centro e mi auguro che tutti i canali giuridico-istituzionali vengano celermente attivati per far chiarezza sull’accadimento che ha in sé tratti di bassa e deplorevole inciviltà.Spiace anche constatare il fatto che l’attenzione nei confronti dei vigili urbani sia non così altissima da parte dell’amministrazione cittadina: il lavoro delle forze dell’ordine va elogiato, seguito costantemente e valorizzato, e invece assistiamo a una sorta di dimenticanza, di negligenza verso uomini che spesso si trovano a essere aggrediti, proprio come nell’ultimo periodo. Bisogna che si faccia quadrato intorno al corpo dei vigili urbani e che ci si adoperi affinché episodi analoghi possano non ripetersi più.

Antonio Scalera

REGIONALI: VALORIZZARE LA CLASSE DIRIGENTE FEMMINILE Valorizzare il più possibile la classe dirigente femminile in vista delle prossime elezioni regionali. In questi giorni il presidente Berlusconi, il presidente Fini e gli organi del Pdl stanno mettendo a punto la definizione delle candidature. A questo riguardo, mi auguro che le donne possano trovare il giusto spazio nella corsa alla presidenze e, comples-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

10 novembre 1969 La National educational television (che diverrà il Public broadcasting service) degli Stati Uniti manda in onda per la prima volta il programma per bambini Sesame Street 1971 In Cambogia, le forze dei Khmer Rossi attaccano la città di Phnom Penh e il suo aeroporto 1975 Italia e Jugoslavia firmano il trattato di Osimo, 1989 Dopo 35 anni di governo comunista in Bulgaria, il capo del Partito comunista bulgaro, Todor Zhivkov, viene sostituito dall’ex primo ministro Petre Mladenov, che cambia il nome del partito in Partito socialista bulgaro 1995 In Nigeria, l’autore televisivo, romanziere, imprenditore e ambientalista Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (Mosop), vengono impiccati dalle forze governative 1997 Una giuria di Fairfax (Virginia) dichiara Mir Aimal Kasi colpevole dell’uccisione di due impiegati della Cia nel 1993

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

sivamente, ai vertici regionali. D’altro canto, l’altissimo numero di preferenze totalizzate dalle candidate del Pdl nelle scorse elezioni europee ha dimostrato che le donne sono in forte sintonia con gli elettori e in grado di ottenere notevoli successi.

Barbara S.

QUESTA EUROPA Questa Europa. Uno strano continente, nato vecchio, con leggi relative e criticate già prima di vedere la luce, sembra dare troppa importanza all’esigenza dei Paesi che la compongono, di importare abitudini, cibi e modi di dire. Alla fine risulta che una zucca orribile di Halloween può tranquillamente essere esposta nei negozi, nelle scuole, nelle case, mentre il crocifisso deve sparire dai nostri occhi e dalle nostre coscienze. Coscienze che stanno scordando cosa sia la pietà, che è la rappresentazione mistica principale del crocifisso, perché oggi si fa una strana carità, ma non si mostra la pietà verso chi soffre, anche per errori propri, perché la cultura cristiana è stata rosicata nelle sue viscere. Allora ha ragione un cardinale del Vaticano quando dice che, a questo punto, anche tutte le opere artistiche, dalla stessa Pietà di Michelangelo alle opere moderne, potrebbero per la stessa ragione sparire. Forse ciò che rappresenta un guadagno può anche restare, mentre due legnetti incrociati danno più fastidio perché rappresentano la grandiosità delle forze immense che noi non vediamo.

IL FISCO E GLI ITALIANI (I PARTE) Esiste in Italia una categoria numerosa di persone che dichiarano al fisco di avere annualmente un reddito inferiore ai quindicimila euro. Molto meno affollata, invece, la famiglia di contribuenti che dichiarano un reddito superiore ai duecentomila euro. Sembra evidente che il fenomeno della evasione fiscale sia un problema ancora serio da affrontare e le misure sino ad ora utilizzate non sono state sufficienti a eliminarlo o a ridurlo nella sua dimensione.Vengono prese in esame nuove misure per arginare il fenomeno ed una di queste è il redditometro in una versione riveduta e corretta, così come è stato anticipato dal presidente nazionale dell’ordine dei dottori commercialisti in un incontro tenutosi in occasione della Fiera del Levante a Bari. I dati forniti dal ministero dell’Economia, presentati a Bari, oltre a dare un’immagine forte, sottolineano che il fenomeno è generalizzato in tutto il Paese e riguarda tutte le categorie di lavoro. Emerge dall’analisi fatta dal presidente che esiste fra i cittadini la convinzione che i tributi da versare allo Stato siano «irrazionali ed iniqui». Questa immagine dovrebbe essere rimossa poiché, soltanto procedendo in questa direzione è possibile arginare prima, e vincere dopo, la battaglia nei confronti della evasione. Al momento gli sforzi sostenuti dalla Guardia di finanza insieme alla Agenzia delle entrate per combattere l’evasione possono soltanto limitare le proporzioni del fenomeno. Archiviata ormai la convinzione che gli studi di settore non abbiano rappresentato un valido strumento per aiutare i contribuenti a formulare dichiarazioni più “veriterie” (giova ricordare che la giurisprudenza abbia sostanzialmente bocciato gli accertamenti da studi di settore, secondo la metodologia eseguita dall’amministrazione finanziaria finora), sembra ritornare in auge il “vecchio” redditometro. Francesco Facchini C I R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I BA R I

APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 VENERDÌ 13 E SABATO 14 NAPOLI - MOSTRA D’OLTREMARE BARI - DOMINA CONFERENCE PALACE Conferenze programmatiche regionali “Nasce dal Centro l’Italia di domani”. Ferdinando Adornato interviene venerdì 13, ore 17, a Napoli e sabato 14, ore 13, a Bari. Intervengono inoltre: Ciriaco De Mita e Savino Pezzotta. Conclude: Pier Ferdinando Casini. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Br

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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