2009_11_11

Page 1

91111

di e h c a n cro

La forza non ha luogo

dove c’è bisogno di abilità Erodoto

9 771827 881004

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 11 NOVEMBRE 2009

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La destra assediata dal caso giustizia: la lunga trattativa di ieri a un passo dalla rottura. Poi arriva una mezza mediazione

Il Pdl nelle mani di Ghedini Berlusconi e Fini trovano l’accordo sul processo breve. Ma il caso Cosentino torna a dividerli e stravolge gli equilibri per le regionali. Ormai il leader del partito è l’avvocato del premier di Errico Novi

I vertici europei decidono di far slittare ancora le nuove nomine

ROMA. Quando si parla di immunità parlamentare il dibattito si fa aspro e il pericolo che la misura diventi impopolare preoccupa i politici. Le accuse contro la “casta”che vuole salvaguardare i privilegi sono dietro l’angolo e la Lega le brandisce da tempo.Tutto cominciò con Tangentopoli, certo, eppure prima che il ciclone spazzasse via la Prima Repubblica, l’articolo 68 della Costituzione prevedeva che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale». Ne parliamo con Piero Alberto Capotosti, Stefano Folli e Calogero Mannino.

ROMA. È stato un accordo a metà. Nel senco che Fini ha vinto a metà e a metà ha vinto Ghedini. Berlusconi ha perso per intero. Perché il “sì”alla legge sul procrsso breve strappato all’alleato riottoso lo copre solo in parte dai possibili guai giudiziari venturi. E perché la bomba a orologeria scoppiata l’altra sera nel nome di Nicola Cosentino ha rimesso in discussione l’intero domino delle candidature per le regionali. Fini ha detto no alla prescizione breve (su questo il tavolo stava per saltare) ma ha concesso il processo breve; ha detto no a Consentino in Campania ma ha dovuto rimettere in ballo Renata Polverini nel Lazio. Ha vinto Ghedini, appunto: perché ha dimostrato che la prescrizione breve è l’unico strumento sicuro per salvare il premier e perché ha difeso Consentino costringendo Fini a scoprirsi.

a pagina 4

a pagina 2

Tutele e opportunità secondo Folli, Mannino e Capotosti

Il vero nodo resta l’immunità La Lega: non la voteremo mai di Franco Insardà

La crisi è passata solo a metà: produzione industriale a picco

«Le pensioni? Intoccabili» Tremonti boccia la riforma: «Va bene così» di Alessandro D’Amato

BRUXELLES. «Le pensioni? Se la parola è tagli, mai finché ci sarò io. E sull’Irap vedremo: intanto è stato approvato il bilancio dall’Europa»: il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a margine dell’Ecofin di Bruxelles, tira fuori poche battute. Ma sono tutte significative. Commentando il giudizio della Commissione Ue sui conti pubblici italiani, il ministro ha frenato: «Non dobbiamo fare nuove manovre, ma dobbiamo confermare la finanziaria che c’è. Siamo convinti - ha spiegato Tremonti - che la nostra finanziaria triennale si integra pienamente con gli obiettivi assegnati dall’Europa per il rientro del deficit in Italia. Non dobbiamo fare qualcosa di più, non possiamo fare qualcosa di più». Il ministro quindi parla di politica. i, ma di cui nessuno ha parlato. a pagina 6 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

223 •

D’Alema yes D’Alema not, tutto dipende da Londra Crescono le quotazioni italiane per Mr Pesc, ma Brown candida Blair alla presidenza

di Alvise Armellini

BRUXELLES. Massimo D’Ale-

Il destino dell’Unione è incerto: ci vuole una Grande Svolta

ma continua a sperare nella nomina ad Alto Rappresentante per la politica estera Ue, ma è ancora presto per dichiarare conclusa la saga che lo coinvolge ormai da due settimane. La cena dei leader Ue a Berlino, lunedì sera, non è servita a chiarire la situazione, anzi. «Siamo ancora in alto mare», sospira una fonte diplomatica, lasciando intendere che la presidenza svedese dell’Ue – che si è impegnata a chiudere la partita entro il 19 novembre – potrebbe prendersi tutto il tempo a sua disposizione prima di convocare il summit decisivo sulle nomine comunitarie. L’ostacolo principale resta sempre la Gran Bretagna: dopo il via vai di voci sulle intenzioni di David Miliband, l’ex superfavorito alla poltrona cui ambisce D’Alema che l’altro ieri è stato dato prima per rinunciatario, poi solo in “stand by”, ieri il capo di Downing Street Gordon Brown ha voluto spazzare ogni dubbio candidando Blair alla presidenza Ue.

opo le ultime elezioni europee, con una schiacciante vittoria dei partiti di centrodestra, credo che sia giunto il momento delle nostre idee. Ora dipende da noi metterle in pratica e dare al processo europeo lo slancio di cui ha assolutamente bisogno. È il nostro momento. Dobbiamo restare sui nostri principi, seguire le nostre idee, le idee basate sulla libertà individuale, sulla responsabilità individuale, sui mercati liberi, sul governo limitato e sulla forte fiducia nella nostra identità occidentale. Dobbiamo dare una chiara risposta ai milioni di europei che si sono fidati di noi, nelle ultime elezioni europee, per uscire dalla crisi. Un’ampia maggioranza di europei ha detto “no” alle politiche socialiste e “sì” alle politiche di libertà.

a pagina 8

a pagina 12

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Ma le leadership di sinistra non sono più in grado di governare il futuro di José María Aznar

D

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 11 novembre 2009

Trattative/1. Due ore di faccia a faccia non risolvono tutte le contraddizioni. E per la Campania spunta il nome di Bertolaso

Ghedini for President

I processi di Berlusconi e l’arresto di Cosentino: il Pdl è nelle mani dell’avvocato Prima l’accordo con Fini sulla giustizia, poi si riapre la partita per le regionali di Errico Novi

ROMA. Fino all’ultimo. Fino all’ultima ombra processuale, fino al più remoto dei pericoli. Tutto deve essere eliminato, continua a chiedere Silvio Berlusconi. Non vuole più pensieri che intralcino il suo cammino di presidente del Consiglio, e di fatto ha sospeso l’attività politica fino a che non sarà trovata una soluzione legislativa alla più piccola delle sue preoccupazioni giudiziarie. L’incontro con Gianfranco Fini in mattinata non basta. Sull’ipotesi della prescrizione breve il presidente della Camera alza un muro alto quanto il rischio di una frattura interna al Pdl. Niente da fare, come già era stato lasciato intendere da Giulia Bongiorno il giorno prima. E giacché il parziale diniego opposto dal co-fondatore lascia aperto un piccolo spiraglio per l’arrivo a sentenza del processo Mediatrade e per un giudicato definitivo a carico dell’avvocato David Mills, Berlusconi non scioglie la riserva. Nel senso che manda all’aria anche il secondo vertice, subordinato al buon esito di quello di ieri, ossia il summit sulle Regionali tra lui, lo stesso Fini e Umberto Bossi.

Tutto sospeso, dunque. Come in un insostenibile spasimo a cui

il premier decide di sottoporre la maggioranza. La Terza carica dello Stato oppone ragioni difficilmente sindacabili anche sulla norma che manderebbe in archivio un contenzioso tra Mediaset e l’Erario per 400 miliardi di vecchie lire. «Non mi sembra che ci sia alcuna iniziativa in proposito», svicola disinvoltamente Fini davanti alle telecamere di Sky, che lo intervista su-

Rinviato l’incontro con Umberto Bossi

E la Le ga an n un ci a bat t ag lia: «M ai più l’i mmunità» di Valentina Sisti

bito dopo il vertice mattiniero a Montecitorio con Berlusconi. «La prescrizione breve non è praticabile, sulla durata dei processi sarà presentata invece una norma d’iniziativa parlamentare già nei prossimi giorni, quindi senza nessun intervento diretto del governo». Non basta, appunto. Ed ecco che Niccolò Ghedini si rimette subito all’opera, sotto l’impulso assai energico del pre-

mier: dovrà trovare nuovi escamotage, non indigeribili per il presidente della Camera e per il Capo dello Stato, che lascino evaporare anche gli ultimi due fattori di rischio processuale rimasti. Nelle mani dell’avvocato di Berlusconi c’è dunque il futuro della maggioranza, la sopravvivenza stessa del governo. Dovrà sbrigarsi, essere bravo e astuto. Ancora una volta la Bon-

giorno è pronta ad assicurargli cooperazione. Certo è che allo stato attuale non c’è alcuna possibilità di vedere risolto il rebus delle candidature.

Bossi può attendere. Nel frattempo può anche tarare a puntino la contaerea leghista contro l’altra ipotesi affiorata ieri dall’incontro Berlusconi-Fini, il ripristino dell’immunità parla-

MILANO. «Quella sull’immunità con la riapertura sull’immunità, re l’elezione diretta dei pm e parlamentare è una questione ormai chiusa». Dalle parole di Carolina Lussana traspare tutta la diffidenza della Lega nel ritrovato asse tra Berlusconi e Fini, dopo il faccia a faccia di ieri sulla giustizia. Un vertice che alla fine si è comunque concluso con l’annuncio di un ddl per garantire tempi brevi sui processi. E questo, certo, qualche problema alla Lega lo crea. E forse non è un caso che il previsto vertice fra il Cavaliere, Bossi e Fini alla fine venga rinviato. Il premier aveva incassato l’incondizionato appoggio sulla giustizia del senatùr, in cambio della richiesta di due regioni del Nord. Ma i successivi incontri del Cavaliere prima con Casini e poi con Fini,

devono essere suonati, per la Lega, come un tentativo di inciucio in sua assenza. Con Fini che dice: «Sì, a patto che non sia impunità». E Casini che a sua volta apre: «Non è un’eresia».

«Siamo d’accordo con la necessità della certezza della pena e della celerità dei processi - dice invece la vicepresidente leghista della Commissione Giustizia della Camera - ma consideriamo prioritari anche i problemi dell’autoreferenzialità della magistratura, la responsabilità civile e penale dei magistrati e la riforma costituzionale con un doppio Csm o l’introduzione di componenti esterni. Continuiamo inoltre a sostene-

l’ingresso di rappresentanti delle regioni nella Corte costituzionale». Affossata l’ipotesi sulla prescrizione breve e i reati tributari, infrantasi contro il muro elevato da Fini, l’accordo tra i due sembra viaggiare faticosamente verso un ddl d’iniziativa parlamentare, che garantisca tempi brevi per i processi nei tre gradi di giudizio, massimo entro sei anni e unicamente per gli incensurati. «Il premier ha garantito stanziamenti in Finanziaria» per la giustizia, dice Fini, indicando la sua vera priorità. Il Carroccio capisce che tira aria di burrasca e mantiene la linea della prudenza: «Non abbiamo ancora visto nulla della proposta - incalza Sergio Di-


prima pagina mentare che secondo l’ex leader di An «non deve destare scandalo», giacché lo scudo è tuttora in vigore per i parlamentari europei. Il Carroccio rende subito esplicito il proprio dissenso. A complicare il quadro e ad allontanare l’intesa definitiva sulla griglia di partenza per le elezioni è anche la tenace resistenza del Pdl sul nome di Nicola Cosentino per la Campania. Negli stessi minuti in cui Fini accoglie Berlusconi a Montecitorio, arriva negli uffici della presidenza l’ordinanza di arresto per il sottosegretario all’Economia, firmata dal gip di Napoli Raffaele Piccirillo. Accuse pesanti di reciproca copertura con il clan dei Casalesi: in favore del più potente e spietato cartello malavitoso della Campania, Cosentino avrebbe fatto persino pressioni in ambienti prefettizi, affinché venissero rilasciate certificazioni antimafia. Viene citato il caso di un’impresa attiva nel settore dei rifiuti, la Eco4 spa: secondo la ricostruzione del magistrato, raccolta in ben 352 pagine, Cosentino sarebbe stato oltretutto

il vero dominus di questa società, solo teoricamente controllata da Michele Orsi, l’imprenditore ucciso poco più di un anno fa in un agguato di camorra.

Materiale pesante, che suggerisce la fin troppo diplomatica chiosa di Fini: «La candidatura di Cosentino non è più tra le cose possibili», dice sempre a Sky il presidente della Camera. Eppure fonti accreditate del Pdl rivina della Commissione Giustizia del Senato - anche se avrei preferito di gran lunga il Lodo Alfano, che avrebbe se non altro consentito di continuare le attività di governo senza l’incubo di una mannaia che poteva interferire da un momento all’altro». E ora, l’apertura a sorpresa di Fini sull’immunità coglie di sorpresa la Lega, che rilancia il dialogo anche con l’opposizione: «Ho visto troppi attacchi strumentali, anche sulla prescrizione - continua Lussana - Dobbiamo evitare che una riforma che dev’essere a favore di tutti i cittadini si trasformi in uno scontro. Dobbiamo seguire lo stesso metodo utilizzato per la riforma sul federalismo fiscale, che ha ottenuto il voto favo-

feriscono che il sottosegretario è tranquillamente al lavoro, come se fosse già iniziata la campagna elettorale, rassicurato dal sostegno del premier: «Tieni duro e vai avanti», sarebbe stato l’incoraggiamento rivolto da Berlusconi a Cosentino, sempre secondo le indiscrezioni che filtrano dal partito di maggioranza. Sono d’altronde esplicite le attestazioni di solidarietà che al potenziale candidato governatore arrivano persino dal ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola: «Questa indagine della magistratura mi riempie di perplessità, conosco Cosentino da anni come ottimo parlamentare, come persona che si è sempre dedicata tantissimo al territorio». Persino il finiano Benedetto Della Vedova incita il sottosegretario a lanciarsi senza paura nella contesa per le Regionali, senza contare la «fraterna vicinanza» espressa dal coordinamento del Pdl campano.

Anche in questo caso si ha la sensazione di una vicenda tirata allo spasimo: come se la prova di tenuta condotta fino alle estreme conseguenze fosse indispensabile per definire il prosieguo della legislatura. Certo è che il mancato scioglimento della riserva sulla Campania tiene in piedi l’ipotesi Renata Polverini nel Lazio. E a lasciare per ora da parte l’avvicendamento tra Cosentino e il finiano Viespoli (con conseguente rientro in corsa, a Roma, per Antonio Tajani) contribuisce anche la possibilità di una scelta clamorosa da parte di Berlusconi in Campania: schierare Guido Bertolaso, che annuncia di voler lasciare entro l’anno la Protezione civile: non per dimettersi, ma per approfittare delle finestre di prepensionamento aperte da Brunetta. Come se non bastasse, filtrano voci di un nulla osta berlusconiano alla corsa solitaria di Giancarlo Galan. Obiettivo: frenare l’esuberanza della Lega e limitarne la vittoria in Veneto. Se qualcuno era in cerca di un altro elemento che compromettesse la serenità dei rapporti nella maggioranza, eccolo servito. revole di alcuni e quello contrario solo dell’Udc».

Ma la “pancia” della Lega resta più attenta alle questioni considerate irrinunciabili e considera la riforma della giustizia al massimo come merce di scambio. «Non è la riforma della giustizia la priorità di questo Paese - avverte l’europarlamentare Matteo Salvini - Se ho qualcosa da rimproverare a Fini, non sono i paletti sulla riforma della giustizia, ma alcune esternazioni che non sono nel programma, come la cittadinanza agli immigrati». Ma Lussana lo corregge: «È vero che non si possono rinviare altre riforme come quelle del Senato federale, ma la riforma della giustizia è ineludibile».

11 novembre 2009 • pagina 3

Cronaca di due ore difficili, con i due leader sempre sul punto della rottura

Ma alla fine Silvio ha dovuto cedere

Il Cavaliere è insoddisfatto: avrebbe voluto strappare la legge sulla prescrizione breve per stare sicuro su Mills e Meadiatrade di Riccardo Paradisi on Berlusconi abbiamo escluso l’ipotesi della prescrizione breve – dice il presidente della Camera Gianfranco Fini all’uscita del faccia a faccia di due ore con il premier Silvio Berlusconi a Montecitorio. Anche se – aggiunge – la durata dei processi è eccessiva». Basta già questo per capire che l’accordo con Silvio Berlusconi sullo scudo contro i processi milanesi che lo interessano è stato in parte raggiunto. In parte. Perché il premier voleva la prescrizione breve, l’unica soluzione davvero sicura per i processi aperti contro di lui.

«C

Niente prescrizione breve ha detto invece Fini, ipotesi che i legali del premier avevano avanzato: «Strada impraticabile – replica il presidente della Camera – perché avrebbe un impatto devastante su migliaia di processi in corso». Il percorso individuato è un altro: un disegno di legge di iniziativa parlamentare per garantire tempi brevi, e certi, per i processi: massimo sei anni, due per ogni grado di giudizio. «Un accorciamento dei tempi processuali che sarà valido unicamente per gli incensurati». Si tratterebbe, volendo semplificare e seguendo una delle bozze vagliate da Fini e dall’avvocato Giulia Bongiorno, di prescrizione sul procedimento e non sul reato. La bozza prevede che, in caso di processi per reati con pene non superiori a 10 anni (ad eccezione dei reati di mafia, terrorismo o grave allarme sociale come rapina o omicidio), ciascuna fase del processo non possa durare più di due anni (sei in totale), altrimenti scatterà la prescrizione. Il tetto dovrebbe valere anche per i processi in corso, ma limitatamente a quelli pendenti in primo grado. Questa soluzione garantirebbe al premier il famoso scudo rispetto agli “assalti” giudiziari di cui si ritiene vittima? Chiuderebbe cioè sia il processo sui diritti tv Mediaset, sia quello Mills? I legali di Berlusconi non sono così tranquilli, è soprattutto Mediatrade che li preoccupa, mentre per il processo Mills si potrebbe andare verso l’archiviazione. «È andata bene» dice Berlusconi sbrigativo e tirato all’uscita dall’incontro con Fini. Incontro tutt’altro che disteso e amichevole. Berlusconi infatti ha chiesto con insistenza a Fini di avallare anche la prescrizione breve ma il presidente della Camera gli ha risposto che il Quirinale non avrebbe mai firmato un simile provvedimento. Insomma il presidente della Camera non ha fatto nessuno sconto a Fini e certo non gli ha concesso la sua copertura sulla giustizia senza contropartite. Fini ha ceduto sulla questione dei processi in cambio di maggiori risorse in finanziaria per la giustizia: «Saranno messe a disposizione degli operatori del diritto, magistrati e cancellieri cospicue risorse finanziarie perché in molti casi la lentezza dei processi deriva dal forte disagio economico dei

tribunali». Una riforma quella della Giustizia osteggiata dalla Lega che non la ritiene invece prioritaria. Ma non c’è solo il processo breve tra i progetti del Pdl per sminare il terreno politico dalle sentenze e dalle inchieste della magistratura. Dopo l’incontro con Berlusconi Fini rilancia anche l’ipotesi di reintrodurre l’immunità parlamentare cancellata nel 1993 sull’onda di indignazione degli scandali di Tangentopoli. Parlare di immunità parlamentare non è uno scandalo, avverte il presidente della Camera: «Abbiamo in Italia un assetto di tipo legislativo originale: mentre infatti i parlamentari nazionali non godono di alcuna immunità, quelli europei sì». Purché, avverte, non sia «impunità e avvenga nel pieno rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura». Sull’immunità parlamentare e su una via d’uscita all’impasse politica giustizia si era espresso favorevolmente nella prima mattina anche il leader dell’Udc Pierferdinando Casini: «Credo sia stato un errore non cogliere l’occasione del lodo Alfano. C’era la necessità di superare le contrapposizioni decennali tra politica e giustizia. Oggi parlare di immunità sembra un’eresia ma a livello europeo, sotto una forma nuova rispetto a quella che era prevista dalla nostra Costituzione, c’è e nessuno si è scandalizzato». Quanto ai processi, l’esponente dell’Udc aggiunge che «è giusto che ci sia una ragionevole durata, ma questo non si deve tradurre nel fatto che non c’è la possibilità di fare i processi, quindi una sorta di amnistia mascherata, ma serve un serio modo di affrontare la questione».

Fonti vicine a Berlusconi dicono che il premier non si accontenterà dell’accordicchio con Fini

A non credere in questa soluzione e anzi a denunciarne la pericolosità è il leader dell’Idv Antonio Di Pietro che sobriamente definisce il provvedimento per l’instaurazione dei processi brevi annunciato da Fini «un atto criminale a cui si presta anche il presidente della Camera Gianfranco Fini che, a parole, fino a ieri, ha detto di non voler svendere il ruolo del Parlamento e che oggi per trenta denari politici, lo mette all’asta». Il presidente dell’Anm Luca Palamara si dice invece d’accordo sulla reintroduzione dell’immunità parlamentare: «Da 15 anni si è alterato il rapporto tra politica e magistratura. Forse anche perché nel ’93, in piena Tangentopoli, si decise di eliminare l’immunità». Decise le obiezioni che vengono dal Pd: « Se si prende a pretesto una riforma della giustizia per interrompere i processi in corso noi non possiamo essere d’accordo». Comunque questa storia potrebbe non finire qui. Fonti molto vicine a Berlusconi dicono che il premier non si accontenta dell’accordicchio con Fini. È sua intenzione chiedere e ottenere uno scudo più sicuro di quello che porta a casa con l’abbreviazione dei processi. E Fini? «Si piegherà, senza accordarsi».


prima pagina

pagina 4 • 11 novembre 2009

Trattative/2. Al di là dei processi di Berlusconi, il Pdl ha rimesso sul tavolo una questione tabù dai tempi di Tangentopoli

Immunità o impunità?

La tutela dei parlamentari è nella Costituzione. Il vero nodo è come ripristinarla senza perdere il consenso degli italiani... di Franco Insardà

ROMA. Quando si parla di immunità parlamentare il dibattito si fa aspro e il pericolo che la misura diventi impopolare preoccupa i politici. Le accuse contro la “casta”che vuole salvaguardare i privilegi sono dietro l’angolo. L’editoriale del direttore del Tg1 Augusto Minzolini ha riacceso le polemiche al punto che, oltre alle reazioni degli esponenti dei partiti, ha provocato la presa di posizione del cdr della testata e della commissione di Vigilanza Rai. Il presidente Sergio Zavoli ha puntualizzato che «l’editoriale, di per sé, non è escluso dai Tg per manifesta incompatibilità con la natura di un pubblico servizio: ciò che genera un diffuso dissenso è la manifestazione unilaterale di una tesi al di fuori del pluralismo, che l’informazione della Rai è tenuta a rispettare». Eppure prima che il ciclone Tangentopoli spazzasse via la Prima Repubblica, l’articolo 68 della nostra Costituzione prevedeva che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è

obbligatorio il mandato o l’ ordine di cattura». Se questo articolo fosse ancora in vigore, non vi sarebbero stati né il lodo Maccanico, né il lodo Schifani, né il lodo Alfano. Ma nel 1993, sotto la spinta di un’opinione pubblica indignata, il Parlamento soppresse l’autorizzazione a procedere e modificò l’ articolo 68 della Costituzione: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza». Ora si ricomincia a parlare di immunità ricordando lo spirito che ispirò i Costituenti: quello di evitare che il potere giudiziario possa condizionare il potere politico. Il conflitto sarà in ogni caso trasversale, considerato che la Lega, per voce di esponenti come la vicepresidente della commissione Giustizia Carolina Lussana, già esibisce il pollice verso.

CALOGERO MANNINO

«Democrazia dimezzata da 15 anni» ROMA. Calogero Mannino, deputato dell’Udc, non ha dubbi sulla reintroduzione dell’immunità: «È indispensabile all’interno di un quadro costituzionale che è stato pensato con un fortissimo concetto dell’equilibrio fra i poteri per la salvaguardia della democrazia». Onorevole, qual è la funzione dell’immunità? Storicamente è nata dall’esigenza di tutelare il rappresentante politico dai condizionamenti del potere. Ieri del re, oggi del possibile despota. Di chiunque, cioè, travolga la linea di confine che deve distinguere i diversi poteri. È d’accordo, quindi, con chi sostiene che l’abolizione dell’immunità parlamentare rappresenta un vulnus per il nostro sistema istituzionale? È stata una ferita introdotta nel 1993 con una manovra allora mirata ad avviare la stagione dei grandi processi. Ma oggi ci sono le condizioni per reintrodurla? Bisogna crearle con un dibattito politico che affronti, insieme con il ripristino dell’articolo

68 della Costituzione, alcuni temi connessi. Quali? Il primo, fondamentale e decisivo, riguarda il mantenimento della forma parlamentare della Repubblica e del governo. Il secondo è relativo al rapporto tra i diversi poteri e in particolare a quello che deve sussistere tra le-

È inutile nascondere che molte iniziative giudiziarie appaiono e vengono percepite dai cittadini come strumentali e politiche. E lo sono

gislativo ed esecutivo da una parte e il potere giudiziario dall’altra. Rapporto che negli ultimi anni si è modificato. Bisogna prenderne atto: dal 1992 c’è una deriva giustizialista che può anche avere ragione rispetto a un’iniziativa giudiziaria, ma quest’ultima deve essere sempre e innanzitutto coerente con i codici e con il sistema dei poteri. Basta fare il conto dei governi che sono caduti per iniziativa delle Procure. La cosa non ha riguardato soltanto il centrodestra, anche l’ultimo governo Prodi ha subito la stessa sorte. Allora che occorre fare?

Bisogna ritrovare un punto di equilibrio politico. È inutile nascondere che molte iniziative giudiziarie, al di là del loro fondamento, appaiono e vengono percepite dall’opinione pubblica come strumentali e politiche. E lo sono. Ripeto: lo sono. Con quali conseguenze? L’opinione pubblica reagisce sempre in favore di Berlusconi, perché percepisce una persecuzione e un’invasione di capo non sempre motivata. Bisognerà adeguare quanto prevedeva l’articolo 68? Non credo che si possa prevedere qualcosa di diverso. Si dovranno regolamentare gli abusi, ma di questi il Parlamento e i suoi membri rispondono all’opinione pubblica. E i magistrati? Questa è l’altra nota dolente, perché qualunque iniziativa dei Pm è franca da responsabilità. Non crede che la reintroduzione dell’immunità possa essere percepita come un ulteriore strappo della ”casta”? È da vent’anni che in nome dell’avversione alla ‘casta’ si fanno scelte che hanno consumato ogni possibilità di dare ordine, certezza e stabilità alla vita democratica del Paese.


prima pagina

Occorrerebbe la volontà di metter mano a una revisione complessiva delle nostre istituzioni in una chiave virtuosa

Nella pagina a fianco, da destra, De Nicola firma la Costituzione; il cappio in Parlamento e Mario Chiesa. In questa pagina, Craxi a processo, il socialista Giulio De Donato, il diessino Consorte e una manifestazione contro Tangentopoli

STEFANO FOLLI

«Prima serve la riforma elettorale» ROMA. «Non mi sembra questo il mo- Se ne potrebbe parlare in termini più mento per poter parlare di immunità parlamentare». Secondo l’editorialista del Sole 24Ore Stefano Folli non c’è il clima adatto per poter pensare a riformare l’articolo 68 della Costituzione. Che ne pensa di queste ipotesi? C’è stato probabilmente un errore nel 1993, quando si pensò di correggere e ridurre l’articolo 68 della Costituzione. All’epoca fu una concessione allo spirito di quei tempi sull’onda di Tangentopoli. E oggi? Che in questo clima si possa tornare indietro mi sembra improbabile, né politicamente praticabile. Da un punto di vista di cultura politica credo che una forma di immunità al legislatore sia giusto prevederla, come avviene già per gli europarlamentari. Anche se l’articolo 68 modificato contiene una sorta di immunità. Come si spiega la riapertura del dibattito intorno a questo tema? Porre in maniera brutale e polemica, così come ha fatto anche Minzolini, la questione dell’immunità serve soltanto a premere sul Parlamento perché faccia passare la questione della prescrizione. L’argomento va quindi archiviato?

realistici e concreti se si arrivasse a una forma complessiva di revisione costituzionale e non fosse l’esito di uno scontro simile a un incontro di pugilato. Occorrerebbe un percorso condiviso, anche con un dibattito acceso. All’interno di una riforma complessiva della Costituzione, in una chiave di ammodernamento dello Stato si può immaginare una forma più moderna di immunità. Con questa legge elettorale l’immunità parlamentare rischia di creare un “Parlamento monstre”? Sicuramente sì. Per questo occorre una riforma complessiva che comprenda anche la legge elettorale, che per la sua natura ha un’importanza quasi costituzionale. Se ci fosse questa volontà di metter mano complessivamente a una revisione delle nostre istituzioni in una chiave virtuosa, allora il discorso dell’immunità ha un senso. Come reagirebbe l’opinione pubblica? In questo momento non lo accetterebbe. Cosa diversa se ne percepisse l’utilità in una chiave di generale revisione delle istituzioni che andrebbe condivisa e spiegata bene ai cittadini.

PIERO ALBERTO CAPOTOSTI

«Cambiamo l’articolo 68» ROMA. Secondo Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale «non è questo il momento giusto per parlare di immunità parlamentare». Perché presidente? Ci troviamo di fronte a una tensione molto aspra tra magistratura e politico. Ma... Ma? Al di là del momento forse è opportuno pensare di reintrodurre, naturalmente con una serie di modifiche, l’immunità parlamentare in Italia per la sottoposizione dei membri del Parlamento a processi penali. Quali potrebbero essere le modifiche? Si potrebbe pensare non a reintrodurre l’autorizzazione a procedere così come era stata prevista dai nostri Costituenti nel 1948 e

11 novembre 2009 • pagina 5

abrograta nel 1993. Bisognerebbe, invece, prevedere di rovesciare il sistema. Ci spieghi. Ciascuno parlamentare potrebbe essere sottoposto a procedimento penale, salvo che il Parlamento non esprima un diniego con una maggioranza qualificata, ad esempio dei due terzi dei suoi componenti. L’esistenza dell’originario articolo 68 avrebbe potuto evitare le polemiche che hanno accompagnato l’iter tortuoso dei lodo Maccanico, Schifani e Alfano? Probabilmente la presenza dell’immunità parlamentare avrebbe ridotto l’importanza di quelle questioni, ma anche di altre relative a parlamentari di altri schieramenti. Non pensa che l’opinione pubblica possa essere disorientata rispetto a un atteggiamento che può essere visto come un privilegio della “casta”? Potrebbe essere così. Spetterebbe, però, alla nostra classe dirigente, se ne ha le capacità e spero proprio di sì, di chiari-

re come l’istituto dell’immunità parlamentare abbia delle radici lontanissime nel tempo. Ci dica. Addirittura parliamo del 1200 nella nobile patria del parlamento quale è l’Inghilterra. Si è tramandata nei secoli in diverse nazioni, è arrivata a noi anche attraverso lo Statuto albertino e oggi è presente in molti Paesi.Valga per tutti il riferimento al Parlamento europeo che la prevede. Come nasce? Prima l’istituto garantiva i parlamentari contro l’ingerenza della Corona e successivamente contro quello che era definito il fumus persecutionis della magistratura. Contro quegli atteggiamenti cioè che potessero essere considerati come persecutori nei confronti di qualche membro del Parlamento. L’origine di tutto

E lei vede all’orizzonte un simile sviluppo? Purtroppo no. Sarebbe senza dubbio preferibile pensare a una immunità dei parlamentari piuttosto che quella prevista per le alte cariche dello Stato. Avrebbe un senso che il premier, in quanto parlamentare, possa godere dell’immunità. Nel vecchio istituto previsto dall’articolo 68 c’erà qualcosa che andrebbe comunque accantonato per sempre? Quella norma risentiva del clima in cui nacque la Costituzione del ’48 che voleva tutelare in tutti i modi la libertà di espressione del parlamentare rispetto a minacce politiche. Alcuni passaggi andrebbero rivisti e la revisione del ’93, anche se è stata una concessione eccessiva che teneva conto di un sentimento giustizialista, andrebbe considerata concettualmente come tentativo di modernizzazione. Ma lei è favorevole all’immunità parlamentare? In linea di principio sì, ma sul piano pratico lo vedo più come un argomento di polemica politica. Non penso in questo periodo come si possa immaginare di discuterne con la dovuta tranquillità.

Ci potrebbe essere un procedimento penale, salvo che il Parlamento non esprima un diniego a maggioranza qualificata

questo è finalizzato a garantire il libero svolgimento del mandato parlamentare. E in Italia? L’applicazione che se ne è fatta dal nostro Parlamento repubblicano è stata percepita in modo molto negativo e a ragione. Perché? Quasi sistematicamente il Parlamento italiano ha rifiutato tutte le autorizzazioni a procedere che gli venivano richieste dai magistrati nei confronti dei vari parlamentari. Un atteggiamento corporativo, da “casta”, che dovrebbe essere modificato, come dicevo prima, anche attraverso l’introduzione di qualche modifica all’istituto stesso.


diario

pagina 6 • 11 novembre 2009

Superministro. Il titolare di via XX settembre a tutto campo dopo il vertice dell’Ecofin. L’Europa promuove la Finanziaria

«Giù le mani dalle pensioni» Tremonti: «Niente tagli, finché decido io. L’Irap? Si vedrà...»

e pensioni? Se la parola è tagli, mai finché ci sarò io. E sull’Irap vedremo: intanto è stato approvato il bilancio dall’Europa»: il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, a margine dell’Ecofin di Bruxelles, tira fuori poche battute. Ma sono tutte significative. Commentando il giudizio della Commissione Ue sui conti pubblici italiani, il ministro ha frenato: «Non dobbiamo fare nuove manovre, ma dobbiamo confermare la finanziaria che c’è. Siamo convinti - ha spiegato Tremonti che la nostra finanziaria triennale si integra pienamente con gli obiettivi assegnati dall’Europa per il rientro del deficit in Italia. Non dobbiamo fare qualcosa di più, non possiamo fare qualcosa di più».

«L

Il ministro quindi parla di politica. E lo fa con l’accuratezza che gli è propria: da una parte rimane possibilista ufficialmente sul taglio dell’Irap, ben sapendo che alla fine, se questo arriverà, sarà solo una piccola correzione sull’imposizione nei bilanci in passivo, e non l’abbassamento generalizzato che aveva annunciato Berlusconi sulla spinta degli altri ministri economici del PdL e di Mario Baldassarri. Dall’altra, utilizza un po’ di demagogia per escludere un “taglio” delle pensioni che porterebbe il governo a scontrarsi con i sindacati, ma di cui nessuno ha parlato. Aprendo però ad altre ipotesi, come si capisce dalle dichiarazioni successive: «Che l’Italia sia rientrata nella normalità», secondo il ministro, «è

ha preso nella sua interezza il Dpef con grandi complimenti, lodando la prudenza e l’oculatezza della gestione delle finanze pubbliche in questo periodo di crisi; l’aggiustamento sarà spalmato su tre anni e l’ottimo trattamento del Paese emerge dal fatto che viene consentita una correzione annuale della dimensione minore possibile (0,5% del pil in termini strutturali) e non ci è stata chiesta alcuna accelerazione che metta a rischio la ripresa». Rispetto agli altri paesi la situazione è diversa.

Per il 2012 il governo italiano prevede il ritorno del deficit a quota 2,7 per cento: «Ora non possiamo fare niente di più e niente di meno» dimostrato dal fatto che il paese viene considerato (solo) a “medio rischio” per quanto riguarda la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche cioè per la stabilità del sistema pensionistico».Tremonti ha detto che l’Inps «è in attivo» e ha escluso che ci sia la necessità di manovre in questo settore, indicando che «forse bisogna riequilibrare un po’ giovani e anziani». E comunque l’ok dell’Europa pesa: il dg del Tesoro Grilli ha dettagliato il commento italiano alle richieste della Commissione: «La Commissione

ca per il ministro una cosa sola: «Il nostro deficit è nella media, i numeri della Commissione dicono che l’Italia rientra nella normalità sia per il deficit che per il debito pubblico. Questo è dimostrato dal fatto che la finanziaria triennale integra pienamente gli obiettivi assegnati per il rientro» sotto il 3% del pil. Per il 2012 il governo italiano prevede un deficit a quota 2,7%. Rispetto alla finanziaria ora «non possiamo fare niente di più e niente di meno». E poi ha confessato di non pensare «che ci fosse l’ok al bilancio triennale, per una volta è andata bene...».

di Alessandro D’Amato

L’entità delle correzioni annuale vanno da 3/4 di punto percentuale a 2 punti per diversi paesi. Il ministro Tremonti ha anche parlato nuovamente di uscita dalla crisi: «Gli italiani possono stare tranquilli, ed essere contenti di come il governo Berlusconi ha gestito questa situazione. Tutti i paesi devono prendere una medicina, a noi è stata data la possibilità di curarci per primi: è evidente che è meglio prendere una medicina subito e a piccole dosi che non dosi molti molto forti e potenzialmente distruttive». Ciò signifi-

I dati dell’Istat sulla produzione industriale

Meno 20% in un anno ROMA. La produzione industriale di settembre è scesa del 5,3% rispetto ad agosto e del 15,7%, dato corretto per gli effetti di calendario, rispetto al settembre 2008. Lo comunica l’Istat precisando che è il calo congiunturale peggiore dall’inizio delle serie storiche del 1990. L’Istat segnala poi come la produzione industriale sulla base di dati grezzi sia scesa a settembre rispetto a un anno prima del 15,3%. Nei primi nove mesi dell’anno la produzione è scesa rispetto allo stesso periodo del 2008 del 20,3% sulla base dei dati corretti per gli effetti di calendario e del 20,5% sulla base dei dati grezzi. Nel terzo trimestre la produzione è cresciuta del 4% rispetto al trimestre precedente grazie al buon andamento della produzione registrata a luglio (+1,9% congiunturale) e agosto (+5,8% congiunturale). A settembre la produzione dei beni di

consumo registra un -4,1 congiunturale e un -5,5% tendenziale, mentre quella dei beni strumentali registra un -5,6% congiunturale e un -20,4% tendenziale. La produzione dei beni intermedi segna un calo del 7,9% e del 21,2% su settembre 2008, mentre quella dell’energia segna un calo del 3,9% su agosto e del 10,5% sull’anno. Vanno in controtendenza rispetto al forte calo congiunturale gli alimentari (+0,6% su agosto, +0,2 su settembre 2008) e la farmaceutica (+6,7% su agosto, +5,9% sull’anno). Nei primi nove mesi dell’anno ha sofferto soprattutto la metallurgia (-32,1%) e la fabbricazione di macchinari e attrezzature (31,8%). Gli autoveicoli nei primi nove mesi dell’anno hanno registrato un calo del 29% sulla base del dato grezzo e del 29,5% sulla base del dato corretto per gli effetti di calendario.

Nel frattempo, i dati dell’Istat di settembre sulla produzione industriale ci svelano che, nonostante le promesse e le premesse, la stasi del settore produttivo italiano è ancora lunga. La variazione più significativa è quella mensile da agosto a settembre, ovvero un calo del 5,3%: la più ampia da quando esistono le serie storiche, datato 1990. Da gennaio a settembre la produzione è scesa, rispetto al 2008 del 20%. Ma soprattutto, è stato rivisto al ribasso il dato di agosto, che dal +7% tanto strombazzato all’epoca dai giornali nonostante fosse provvisorio, è diventato un più umano +5,4%. È comunque significativo, a livello dei singoli settori di attività economica e su base annua, le diminuzioni maggiori si registrano per i macchinari e attrezzature n.c.a. (-27,5%), per la metallurgia e prodotti in metallo (-25,2%) e per i mezzi di trasporto (-20,2%). Nel confronto tra i primi nove mesi del 2009 e il corrispondente periodo del 2008 le diminuzioni più ampie hanno riguardato la metallurgia e i prodotti in metallo (-32,1%) e i macchinari e attrezzature. (-31,8%). L’unica variazione positiva ha riguardato i prodotti farmaceutici (+2,5%). In molti casi vediamo riduzioni di addirittura un terzo del valore totale: dati del genere fanno pensare a un’ecatombe più che a una congiuntura. In più, il calo di settori come l’energia fa comprendere qualcosa di più: ovvero che è l’attività economica generale ad essere tragicamente e strutturalmente in calo. Non a caso, nei giorni scorsi anche Terna ha denunciato un generale declino del consumo. Un dato allarmante, più di quanto si pensi.


diario

11 novembre 2009 • pagina 7

L’inaugurazione nella Capitale del “Parco Gabriele Sandri”

Accusati di omicidio tre agenti penitenziari e tre detenuti

Oggi Roma ricorda Gabbo, a due anni dalla morte

Caso Cucchi, un testimone: «Fu aggredito nella cella»

ROMA. Moriva esattamente due anni fa, l’11 novembre del 2007, il giovane deejay romano Gabriele Sandri, ucciso da una pallottola esplosa dall’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, mentre si trovava nella stazione di servizio di Badia al Pino. La famiglia, che non si dà per vinta dopo la sentenza di primo grado che ha stabilito la derubricazione del capo d’imputazione del poliziotto da omicidio volontario a omicidio colposo, ha organizzato una serie di appuntamenti. A Roma, la città natale di Gabriele, sono previsti eventi già dalle 7 e 30 di questa mattina: presso l’Ospedale Bambino Gesù si radunerà il Gruppo Donatori Volontari Gabriele Sandri per donare il sangue presso il centro trasfusionale della struttura ospedaliera, dedita alla cura dei bambini, forti del richiamo «donare il sangue è un gesto d’amore, come pieno di vita e d’amore era Gabriele».

ROMA. «Dalle informazioni

Alle ore 13, alla presenza del sindaco di Roma Alemanno e del consigliere comunale Guidi, verrà inaugurato il “Parco Gabriele Sandri” tra Via delle Medaglie d’Oro e Via Trionfale, ai piedi della Scuola Elementa-

«Chi sceglie la Mafia è fuori dalla Chiesa» La Cei «scomunica» la criminalità organizzata di Guglielmo Malagodi

ASSISI. I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica, non c’è bisogno di scomuniche esplicite. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa ad Assisi, rispondendo a una domanda sul documento Chiesa e Mezzogiorno, anche in relazione alle recenti inchieste che hanno coinvolto uomini politici. La Conferenza episcopale italiana, infatti, sta celebrando nella città di San Francesco la sua sessantesima assemblea. «È evidente – ha spiegato ancora Crociata - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non disperata e non invincibile». Per quanto riguarda i mafiosi o gli affiliati alle organizzazioni criminali, il segretario della Cei ricorda quanto già disse Giovanni Paolo II in una visita ad Agrigento nel 1993 sul giudizio di Dio che si sarebbe abbattuto sui criminali. «Non c’è bisogno - ha aggiunto Crociata - di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità. Piuttosto - ha aggiunto il segretario Cei - non si risolve questo dramma sociale che si estende a tutta l’Italia, e non solo al Sud, solo richiamando l’esclusione dalla Chiesa, ma si risolve con un impegno di tutti, della istituzioni, della magistratura».

sto non è utile, non va a vantaggio del Paese nè è rispondente alla realtà». Quanto a un tema di stringente attualità sociale, quello del contagio della nuova influenza, monsignor Crociata ha spiegato che «tra gli ambienti in cui si può contrarre l’influenza non sembra che le chiese siano quelli più esposti. Per quello che le autorità ci fanno capire – ha aggiunto - non abbiamo motivo di allarmarci, e quindi non abbiamo indicato misure particolari, se ci fossero misure da prendere ci sarebbe stato chiesto». Poi, per quel che riguarda la comunione nelle mani (il segno della pace sostituito da un inchino) e le acquasantiere asciutte, il presule ha ricordato che 1esiste nella prassi liturgica la possibilità di esprimere in maniera diversificata questi gesti, e non c’è qualcosa di assolutamente prescrittivo: dunque possono essere gestiti in maniera ragionevole e sensata dalle persone stesse». Insomma, per risolvere la questione non servono indicazioni specifiche per i parroci, perché «si tratta di modalità che si possono gestire a livello locale, con il buon senso e la cautela necessarie ogni anno in questa stagione». Poi, rispondendo alla domanda di un giornalista che lo interrogava sulla richiesta – da parte delle comunità musulmane – di identificare delle aree specifiche a loro riservate nei cimiteri italiani, monsignor Crociata ha detto: «Quella dei musulmani che chiedono di poter avere una parte a loro riservata nei cimiteri mi sembra una richiesta legittima». Invece a proposito della cremazione, solo di recente approvata dalla Chiesa, monsignor Crociata ci ha tenuto a sottolineare che questo non significa «approvare quella concezione secondo la quale dopo la morte non c’è nulla».

Per monsignor Crociata, «è esagerato parlare di declino a proposito dello stato della democrazia in Italia»

re Giacomo Leopardi. «In quella stessa scuola - ha precisato il fratello Cristiano - Gabriele ha fatto le elementari, ha trascorso la sua infanzia. Dall’evento tragico di quella maledetta domenica di due anni fa, oggi nasce qualcosa di positivo». Alle 15 e 30, alla presenza del delegato allo Sport Cochi, saranno consegnati i locali di Piazza della Libertà dove, in seguito ai lavori di ristrutturazione eseguiti dal Comune di Roma, avrà sede la Fondazione Gabriele Sandri, sostenuta dalle amministrazioni locali e dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Infine, alle 19, si celebrerà una messa in suffragio di Gabriele nella Chiesa Pio X in Piazza della Balduina. Fuori dal sagrato, prima della funzione religiosa, si svolgerà anche una silenziosa fiaccolata.

che abbiamo, confermo la presenza di un testimone del pestaggio di Stefano Cucchi (il 31enne romano morto il 22 ottobre dopo essere stato arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre, ndr) nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia a Roma. Si tratta di un detenuto». Lo ha detto ieri l’avvocato della famiglia Cucchi Fabio Anselmo. L’avvocato ha precisato di attendersi come imminente l’istanza di riesumazione del cadavere per svolgere una nuova autopsia. Su cosa abbia visto il testimone l’avvocato non si sbilancia. «Sappiamo cosa ha visto il testimone, chi sono le personec oinvolte. Ma in questo momento non possiamo dire di più». Un testimone insomma

Sul coinvolgimento della Cei nella politica, Crociata è stato chiarissimo: «La nostra prospettiva non è quella apocalittica: dobbiamo tutti valorizzare le risorse del Paese, sottolineare e fare emergere questi aspetti positivi, guardando con onestà alle difficoltà. Ma non serve a nulla guardare ad esse unilateralmente. Parlare di declino della democrazia mi sembra esagerato, nel senso che la nostra situazione presenta difficoltà ma ci sono molte potenzialità di ordine materiale e valori morali e culturali: il punto non è emettere pronunciamenti senza appello sulla situazione. Que-

Intanto, monsignor Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia dal 16 luglio scorso, è stato eletto vicepresidente della Cei per l’Italia centrale. Sostituisce monsignor Giuseppe Chiaretti, anche lui arcivescovo di Perugia, che si è ritirato per limiti d’età.

avrebbe raccontato a chi indaga di aver «sentito rumori» e aver visto, parzialmente, «Cucchi aggredito in cella», dopo lo scoppio di un parapiglia per futili motivi (pare che il ragazzo avesse chiesto di andare in bagno). Il legale ha successivamente sottolineato di condividere «molte delle affermazioni di Carlo Giovanardi.

«Ciò che mi preme precisare - ha spiegato Anselmo - è che nelle cartelle cliniche emerge come Stefano abbia rifiutato cibo e acqua perché voleva parlare con il suo avvocato e con una volontaria di una comunità terapeutica dove voleva rientrare, oltre che con suo cognato. Che fosse un tossicodipendente con grossi problemi di droga come ha detto Giovanardi è vero - ha aggiunto Anselmo - ma è evidente come i molteplici traumi alla colonna vertebrale abbiano debilitato il fisico fino al decesso di Stefano. Credo che la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale è fuori discussione». Gli indagati sono tre agenti della polizia penitenziaria e tre detenuti che il 16 ottobre scorso si trovavano con il giovane a piazza le Clodio, nelle camere di sicurezza del tribunale, subito dopo l’udienza di convalida dell’arresto.


mondo

pagina 8 • 11 novembre 2009

Poltrone. Slitta al 19 il summit europeo sui nomi da proporre per presidenza e “ministero degli Esteri”

Se D’Alema fa l’inglese La candidatura dell’italiano all’Ue è ancora legata alla corsa di Blair di Alvise Armellini

BRUXELLES. Massimo D’Alema continua a sperare nella nomina ad Alto Rappresentante per la politica estera Ue, ma è ancora molto presto per dichiarare conclusa la saga che lo coinvolge ormai da due settimane. La cena dei leader Ue a Berlino, lunedì sera, non è servita a chiarire la situazione, anzi. «Siamo ancora in alto mare», sospira una fonte diplomatica, lasciando intendere che la presidenza svedese dell’Ue – che si è impegnata a chiudere la partita entro il 19 novembre – potrebbe prendersi tutto il tempo a sua disposizione prima di convocare il summit decisivo sulle nomine comunita-

presidenza Ue non è quello dell’inventore del “New Labour” ma quello del premier belga Herman Van Rompuy, apprezzato “paciere” tra francofoni e fiamminghi che verrebbe preferito ai suoi due colleghi del Benelux: il lussemburghese Jean Claude Juncker e l’olandese Jan Peter Balkenende.

Eppure Brown insiste: «La Gran Bretagna ha un solo candidato per gli incarichi al Consiglio europeo di cui si sta discutendo al momento, e quel candidato è Tony Blair». Parole in cui qualcuno – prendendo finalmente atto del passo indietro di Miliband – ha letto il ten-

I Ventisette, guidati dal cancelliere tedesco Angela Merkel, sono convinti che alla testa dell’Ue serva un mediatore di basso profilo piuttosto che una superstar internazionale della politica rie. L’ostacolo principale resta sempre la Gran Bretagna: dopo il via vai di voci sulle intenzioni di David Miliband, l’ex superfavorito alla poltrona cui ambisce D’Alema che l’altro ieri è stato dato prima per rinunciatario, poi solo in “stand by”, ieri il capo di Downing Street Gordon Brown ha voluto spazzare ogni dubbio. Chiarendo che il suo ministro degli Esteri «non è mai stato un candidato per l’incarico di Alto rappresentante», e ribadendo il sostegno al suo predecessore Tony Blair per l’altro incarico in palio, la presidenza permanente del Consiglio europeo.

E in quel caso la candidatura dell’ex premier britannico escluderebbe quella dell’ex presidente Ds, perché sono entrambe socialisti e almeno una delle due poltrone create dal Trattato di Lisbona spetterebbe a un rappresentante del PPE. Ma Brown continua a non fare i conti – almeno apparentemente – con le forti resistenze degli altri partner, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, convinti che alla testa dei Ventisette serva un mediatore di basso profilo piuttosto che una superstar internazionale della politica. Ed è per questo il nome sulla bocca di tutti per la

tativo di proporre l’ex premier britannico per la casella alternativa dell’Alto rappresentante, in diretta concorrenza con

Massimo D’Alema e Tony Blair. I due sono fra i candidati alla posizione rispettivamente di Alto rappresentante per la politica estera e presidente della nuova Europa. Essendo però entrambi socialisti non possono correre insieme. Nella pagina a fianco, il nuovo segretario del Partito democratico D’Alema. Ma se pure esistesse questa ipotesi – improbabile visto che nella stessa conferenza stampa di ieri Brown ha assicurato che la candidatura europea del suo predecessore a Downing Street «è per la presidenza del Consiglio», il governo di Londra si dovrebbe misurare con ostacoli “non minori” rispetto a quelli affrontati fino-

ra. «Se Blair era inadatto alla presidenza Ue per via della guerra in Iraq, lo sarebbe ancora di più alla guida della politica estera europea», fa notare una fonte socialista.

S o t t o l i n e a nd o , p era l tro , quanto sarebbe “impensabile” una convivenza tra un Blair Alto rappresentante e un José

Manuel Barroso presidente della Commissione europea, dove l’ex premier britannico siederebbe automaticamente come vicepresidente. Gli indizi lasciano pensare quindi che dietro l’incaponirsi di Brown sulla candidatura bruciata di Blair si nasconda un ‘Piano B’ ancora tutto da svelare. Uno degli scenari immaginati dagli

Nell’attesa della nomina, sul fronte italiano il leader Pd cerca l’accordo con tutti

«E ora, bipolarismo e proporzionale» ROMA. Massimo D’Alema ci crede. E comincia o, meglio, ricomincia a parlare cercando di non fare fastidio a nessuno: va bene tutto, pur di non urtare la suscettibilità di chi può spingerlo in Europa.Va bene, allora, una riforma della giustizia, ma anche il rispetto della giustizia; va bene il proporzionalismo ma anche il bipolarismo… Ieri, nel corso di una tavola rotonda sui vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il ministro degli Esteri europeo in pectore ha spiegato che «il tema del rapporto tra politica e magistratura è mondiale, solo in Italia viene vissuto come una psicosi che ci fa pensare che certe cose succedono solo da noi, invece è un problema delle democrazie contemporanee». Poi, a dimostrare che il suo orizzonte ormai è internazionale, ha aggiunto: «Basta vedere quello che è accaduto in Israele dove il presidente è stato

condannato e si è dimesso, in Francia è in corso un processo a de Villepin. Negli altri paesi tutto questo si affronta in modo meno drammatico». Altro tema: tangentopoli. «Durante tangentopoli facemmo l’errore

di illuderci che cavalcando l’ondata di antipolitica saremmo andati al potere, senza capire che c’era qualcuno più attrezzato di noi e infatti vinse lui: Silvio Berlusconi. Ma

non ci fu nessuna Spectre. Non ci fu nessun complottone. A Botteghe Oscure non manovravamo Di Pietro e Borrelli, non avevamo il potere di gestire la distruzione degli altri partiti, anche noi eravamo deboli, presi dal nostro psicodramma collettivo della trasformazione del partito e anche noi vivevamo gli avvisi di garanzia con trepidazione, il tesoriere del partito, Stefanini, morì di crepacuore». Infine, sulla questione delle riforme istituzionali, il “grande padre” D’Alema dice che «il sistema proporzionale non è incompatibile con il bipolarismo. È una logica primitiva dire che chi ha un voto in più, poi ha 100 parlamentari in più». Insomma, «Meglio il presidenzialismo con un Parlamento che lo bilancia di un Parlamento svuotato delle sue funzioni composto da una coorte nominata dai leader di partito».


mondo

11 novembre 2009 • pagina 9

Con il leader a Bruxelles, Bersani avrebbe molta più libertà a Roma

Esilio o promozione? Ma nel Pd torna l’unità di Antonio Funiciello

ROMA. L’unanime consenso che nel mondo politico italiano si è registrato intorno alla candidatura di Massimo D’Alema a Mr Pesc è un fatto inedito per questa legislatura. Quando nei primi giorni del terzo esecutivo Berlusconi tra l’allora segretario del Pd Walter Veltroni e il presidente del Consiglio si tentò di parlare appena di come dare un nuovo necessario volto istituzionale al paese, le critiche furono pesanti, fuori e dentro i loro partiti. Soprattutto all’interno di PdlL e Pd, i vari falchi furono tenaci nello smorzare sul nascere ogni respiro di possibile incontro. Oggi il clima che si respira, con la sola eccezione di qualche leghista, è unito sull’interesse nazionale che verrebbe esaltato dalla scelta di D’Alema. Al di là dell’apparente ovvietà della cosa, non sorprende il largo consenso che da destra arriva all’operazione Mr Pesc, vista la stima che da destra da sempre arriva al preferito tra i «comunisti». Nel recente congresso del Pd non c’è stato esponente politico del centrodestra, grande o piccolo, che non nascondeva la sua preferenza per Bersani, ovvero il candidato di D’Alema. addetti ai lavori coinvolge la Baronessa Catherine Ashton, attuale commissario britannico all’Ue responsabile per il Commercio: per lei Downing Street potrebbe negoziare, in cambio della doppia rinuncia alla presidenza Ue e all’Alto rappresentante, un portafoglio più ‘pesante’ nel prossimo esecutivo comunitario targato Barroso. Strappando magari la Concor-

ma anche come l’ex premier finlandese Paavo Lipponen – e l’Alto rappresentante ad un esponente del PPE. Magari ad una donna, come l’ex ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik o la sua omologa greca Dora Bakoyannis – facendo contento Barroso che insiste per aumentare la ‘quota rosa’ ai vertici delle istituzioni europee.

Il premier svedese Reinfeldt, che guida le consultazioni sul totonomine, ha messo in guardia: «Non è certo che i nomi che circolano al momento alla fine siano quelli sul mio pezzo di carta» renza, fondamentale per la vigilanza sugli aiuti alle banche, accompagnata da una vicepresidenza che renderebbe la Ashton una pari grado del cosiddetto ‘Mr Pesc’. In questo caso la strada che porta D’Alema a Bruxelles verrebbe spianata, ma si tratta solo di supposizioni del momento.

Di sicuro molti partecipanti al gioco devono ancora calare le loro carte: il premier svedese Fredrik Reinfeldt, che in veste di presidente di turno Ue guida le consultazioni sul totonomine, ha messo in guardia i naviganti: «Non è certo che i nomi che circolano al momento alla fine siano quelli sul mio pezzo di carta». Per esempio, anche se ritenuto da molti improbabile, non è da escludere un “ribaltone” che assegni la presidenza Ue a un socialista – come Blair,

Nel contesto si è inserita anche la Polonia, che finora non ha espresso alcun candidato, avendo già piazzato il popolare Jerzy Buzek alla poltrona più alta dell’Europarlamento. Il governo di Varsavia ha fatto circolare un ‘non paper’ tra le capitali europee che propone di istituire un vero e proprio esame degli aspiranti alla carica di Alto rappresentante, che dovrebbero presentare ai leader e ai ministri degli Esteri dei Ventisette “la propria visione” e “il proprio programma”. Lo scopo ufficiale, spiega il portavoce della diplomazia polacca Piotr Paszkowski, è di rendere le procedure «più trasparenti e democratiche possibili». Ma altri vi vedono il tentativo di allungare ulteriormente il brodo delle discussioni, preparando il terreno a qualcuno rimasto finora nell’ombra.

nominato primo ministro degli Esteri europeo. Ma tutti contano sul fatto che la sua assenza effettiva dalla scena politica italiana vedrebbe aumentato il potere di ogni maggiorente. La componente popolare di Fioroni e Marini rimprovera a D’Alema di non aver suggerito a Bersani di trattare meglio, nella riorganizzazione del partito, gli ex democristiani. Ecco perché soffre l’esposizione mediatica di D’Alema e spera che nei prossimi anni sia impegnato altrove.Tra i veltroniani non se ne trova uno disposto ad ammettere di non stare gufando; eppure anche per loro non ritrovarsi un D’Alema divenuto Mr Pesc nel caminetto politico sarebbe una liberazione. Fassino, che sarà confermato responsabile esteri del Pd, potrà forse soffrire un D’Alema promosso in una posizione tanto prestigiosa proprio nel suo settore di riferimento. Eppure per i fassiniani vale esattamente quanto detto per i veltroniani. Per non parlare di Letta e Bindi, che con le loro piccole correnti hanno mal tollerato l’indicazione di Franceschini a capogruppo della Camera e rimproverano a D’Alema il fiancheggiamento a Bersani nella scelta del suo sfidante. E proprio per questo vorrebbero non ritrovarsi più il presidente di Italianieuropei nei momenti decisivi. Bersani, poi, sarebbe il più avvantaggiato: godrebbe di una libertà d’azione che nessuno dei suoi predecessori, nel Pd o nei Ds, ha mai avuto.

I maggiorenti del partito, da Fioroni a Letta, da Marini a Bindi, vedono di buon occhio la gestione assembleare proposta dal segretario

Nel Pd, in tal senso, l’imbarazzo non è poco. D’Alema è da sempre considerato il vero capo della sinistra italiana e dal 2000, anno del naufragio del suo secondo governo, il fatto di non avere un ruolo apparentemente di primo piano non ha creato che problemi a tutti. Prima a Fassino, con l’ambigua diarchia che ha guidato i Ds negli ultimi sei anni di vita. Quindi a Veltroni, col pesante sostegno alla sua candidatura a primo segretario democratico e l’organizzazione della macchina da guerra interna al partito che lo ha abbattuto in pochi mesi, producendone le dimissioni. Non è un caso che, pure assai maldestramente, Franceschini si sia scagliato durante la campagna per le recenti primarie proprio contro D’Alema. Avendo pochi argomenti schiettamente politici e preferendo una polemica vecchio-nuovo abbastanza sterile, l’issue anti-dalemiana gli si è rivoltata contro fino a rafforzare Bersani. Nel contesto certo dell’ennesima anomalia italiana, per cui il vero capo della sinistra non può candidarsi a nulla e deve ritagliare per sé un contorto spazio politico nelle pieghe del sistema di potere. Confusione che alimenta altra confusione.

Forse proprio per questo, nel Pd non ce n’è uno che non faccia il tifo per D’Alema. A nessuno sfugge che l’ex presidente del Consiglio vedrebbe molto accresciuto il suo prestigio e la sua capacità di influenza, se dovesse essere

Detto ciò, l’elemento politico che più strenuamente tiene unito il Pd sull’indicazione di D’Alema a Mr Pesc è oggi senz’altro la nuova gestione collegiale proposta dal neo segretario e accettata dai maggiorenti. Se tutti sono dentro in prima linea, nessuno può tirarsi indietro su D’Alema oggi e su quello che verrà domani. La strategia bersaniana presenta di certo i rischi del ”colleggialismo” tipico di certa sinistra. Ma se si condividono funzioni e sedicenti onori, si dividono pure oneri e responsabilità. Non è cosa da poco, con la minaccia delle vicine e difficilissime elezioni regionali. L’aria che tira nel Pd è questa ed è probabile che sul tema Mr Pesc e sui futuri ordini del giorno l’unanimismo per un po’regga. Dopo, si vedrà. D’Alema se ne beneficia anche inaspettatamente. Dopo la durezza mostrata, nei mesi scorsi, quotidianamente contro l’amalgama non riuscito, compattare quell’amalgama dietro di sé è un paradosso non da poco. La sua cautela deriva da qui e dal timore di non riuscire in una partita che resta complessa. Dopo aver fallito la scalata al Quirinale e quella a Montecitorio, una terza battuta d’arresto sarebbe davvero una brutta gatta da pelare.


panorama

pagina 10 • 11 novembre 2009

Divorzi. Dopo l’addio di Pisicchio, anche nel Lazio il partito di Di Pietro perde i pezzi

Attenzione caduta massi. Nell’Idv di Ruggiero Capone ROMA. Antonio Di Pietro è ormai più che intenzionato a correre da solo alle prossime Regionali. Questo non piace a molti democristiani dell’Italia dei valori, che dopo la rottura di Pino Pisicchio e del suo nutrito gruppo iniziano a chiedersi quali prospettive possano avere rimanendo nel partito dell’ex pm. Soprattutto è iniziata la fibrillazione nel Lazio, a seguito delle fughe dei “pisicchiani” in Puglia e del gruppo di Aurelio Misiti in Calabria. Le due cordate rischiano di portare via, insieme, quasi il 30 per cento dei consensi attuali. Nel Lazio a stare male sono proprio gli ex Dc dell’Italia dei valori, irritati dall’annuncio dato in conferenza stampa (svolta a Campobasso) da Di

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

Pietro dell’adesione all’Idv di diversi amministratori locali e dirigenti che nei mesi scorsi erano stati espulsi dal Pd. «È tutta gente che ha vissuto con velleitarismo giustizialista il rapporto con gli enti locali», ammette un ex Dc che ha divorziato da Di Pietro, «un giorno sì e l’altro pure telefonavano alle Procure per

cia di Latina, e senza che Pedica ne fosse messo al corrente. La scusa era sempre la solita, scovare i democristiani rintanati nei paesi e mimetizzati nell’Idv. Appresa la notizia, Pedica aveva chiesto al segretario di Latina d’espellere dall’Idv chi aveva aderito all’appello di Pardi. Ora nel Lazio ci sono anche le scor-

Il segretario regionale Pedica irritato dalle invasioni di Pancho Pardi e De Magistris, i dipietristi ex dc lo pressano per organizzare un ritorno con Mastella sollecitare inchieste o per segnalare comportamenti a parer loro scorretti: non avevano un gran seguito, soprattutto la gente non li amava. Ora Di Pietro li ha fatti entrare nell’Idv, certo che si tratti di gente perbene solo perché denunciavano continuamente il prossimo».

Queste situazioni alimenterebbero non poco i dubbi di Stefano Pedica, senatore dipietrista e segretario dell’Idv nel Lazio. Pedica s’era già rammaricato per le intrusioni di Pancho Pardi nella sua regione. Quest’ultimo aveva organizzato adunate forcaiole e giacobine nella provin-

ribande di Luigi De Magistris che, con la scusa di battere territori del basso Lazio limitrofi alle province campane, tiene vere e proprie manifestazioni contro gli ex Udeur di Mastella. Quest’ultimo aspetto piace davvero poco a Pedica, soprattutto perché offende il suo passato di ex democristiano. Il segretario dell’Idv nel Lazio fu tra i fondatori dell’Udr di Francesco Cossiga, poi diventata Udeur. Non va nemmeno dimenticato che nell’Idv romano si sono mimetizzati molti ex Udeur, fuggiti dal partito di Mastella all’indomani della caccia aperta dalle Procure contro Marco Verzaschi (as-

sessore che passava da Forza Italia al Campanile). Ora tutta questa massa di manovra centrista romana sta male nell’Idv, chiede a Pedica di seguire l’esempio di Pisicchio. Vale a dire costituire a Roma un gruppo centrista, magari organizzando un circolo chiaramente mastelliano o, meglio, dichiararsi in attesa d’una proposta centrista di Francesco Rutelli.

E la spaccatura interna all’Idv non è certo ricucita dai “grillisti”, che hanno già detto no ad intese regionali con Di Pietro. «Voi predicate bene», dicono i seguaci locali del comico, «poi razzolate male, se siete forcaioli duri e puri dimostratelo». Non va meglio allo stesso comico genovese. «Sappiamo chi è Grillo, altro che filantropo, altro che laico compassionevole», accusano dall’Idv, «sappiamo tutto degli ingenti guadagni di Grillo, dei suoi palazzi, non ci meraviglierebbe fosse sotto osservazione degli uffici delle entrate». Un partito che pensa solo male degli altri oggi rischia d’essere smembrato dal venticello di calunnia che, con molta probabilità, accompagnerà la prossima tornata elettorale.

Qualche suggerimento dopo la scandalosa sentenza della Corte di Strasburgo

Vogliamo libero crocefisso in libera scuola rancesco Alberoni lunedì ha scritto sul Corriere della Sera a proposito del divieto europeo di esporre il crocefisso nelle aule scolastiche: «Dopo un totalitarismo giacobino, marxista, nazista e musulmano potrebbe nascere un totalitarismo burocratico». Parole condivisibili. Mi sia concesso allora ritornare sul caso. Chiedo: qual è il più autentico significato dell’uomo Gesù inchiodato alla croce? Che laicità è quella che censura il simbolo della libertà? Sì, il simbolo della libertà, perché l’uomo Gesù che muore in croce non riduce l’uomo alla legge statale - Cesare - e con il suo sacrificio dissacra e smaschera la violenza della logica arcaica del capro espiatorio e ci rende tutti liberi e responsabili. Tutti, non i credenti sì e i non-credenti no. Tutti. Il crocefisso prima di essere un simbolo religioso è - come la vita e la morte di Socrate - la matrice della nostra anima e il cristianesimo, lo voglia o no qualunque tribunale dell’Ue, è stata la principale rivoluzione nella storia dell’uomo e senza questo rivolgimento morale e spirituale che ha agito in modo radicale nell’anima umana non ci sarebbero le moderne democrazie. In fondo, il principio che è stato invocato per to-

F

gliere il crocefisso dalle aule - se c’è anche un solo alunno che lo chiede, va tolto - va capovolto: se c’è anche un solo alunno che lo chiede, va messo.

Si può togliere il crocefisso dalle aule e avere una buona scuola? Certo. Non è la presenza di un’immagine che determina la qualità dell’insegnamento. Ma, allo stesso modo, non sarà l’assenza del crocefisso a garantire tolleranza, apertura, libertà, responsabilità. Anzi, si fatica a capire come si intraprenda una battaglia contro il crocefisso in nome della libertà e della tolleranza. La presenza nelle aule scolastiche dell’uomo messo in croce è, al contrario, l’ultimo simbolo di una libertà spirituale e morale che nella scuola del monopolio dello Stato è ridotta a mera appendice del diploma.

Non sarebbe male se chi ha fatto ricorso contro il crocefisso per la libertà dello Stato, invece, facesse ricorso contro lo Stato per la libertà della scuola. Infatti, la scuola non è un’istituzione statale, bensì sociale e la vera anomalia, della quale paga le conseguenze la nostra democrazia, non è la presenza del crocefisso nelle aule, ma l’esistenza di un unico ordinamento scolastico. Le opere di Giovanni Gentile furono messe all’indice dalla Chiesa, ma quando Gentile divenne ministro della Pubblica istruzione e varò la sua riforma volle - ma il provvedimento fu fatto quando era ministro Croce - l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari perché considerava il cattolicesimo una sorta di filosofia popolare indispensabile nel processo educativo (è il

caso di riprendere le opere del filosofo pubblicate dalla casa editrice Le Lettere). Ma se il nome di Gentile spaventa perché potrebbe richiamare alla mente l’hegeliano e poi fascista Stato etico, allora, si può richiamare Kant il cui concetto di libertà è la pietra angolare del liberalismo. Ebbene, c’è qualcuno in grado di intendere la Critica della ragion pratica senza il pietismo kantiano? Ossia senza il cristianesimo? Il dovere di Kant è la buona volontà cristiana e la buona volontà non è la legalità statale, bensì la “libertà dallo Stato” che è una pratica interamente cristiana. Che ci si appelli all’Europa per esiliare dalle aule scolastiche il crocefisso è il segno della decadenza dell’idea di libertà.

Le ultime parole de Il mio credo pedagogico di John Dewey suonano così: «L’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’annunciatore del vero regno di Dio». Potrà anche sembrare strano alla sensibilità dei nostri tempi, ma entrare in una scuola è come entrare in una chiesa e dalla chiesa non deve uscire Cristo, ma lo Stato. È - questo sembrerà ancora più strano - l’unico modo per costruire uno Stato autorevole e una democrazia meno fragile.


panorama

11 novembre 2009 • pagina 11

Conti. A un anno dalla sua elezione, si può tentare un primo bilancio della politica economica di Obama

La crisi è finita (solo per le banche d’affari) di Mario Seminerio un anno dalla sua elezione alla Casa Bianca, Barack Obama si trova ancora nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche e finanziarie degli ultimi ottant’anni. Fra tre settimane la recessione, così come datata dal National Bureau of Economics Research, entrerà nel suo terzo anno. Non è ancora dato sapere se la ripresa del Pil sarà sostenibile o verrà meno con la fine degli stimoli. L’area di maggior sofferenza riguarda il mercato del lavoro, come hanno confermato gli ultimi dati su occupazione e disoccupazione in ottobre, pubblicati la scorsa settimana. Tentiamo un bilancio del primo anno di presidenza Obama relativamente alla politica economica.

tizzazione sociale, come le reiterate proroghe dei sussidi di disoccupazione, vista la grave condizione del mercato del lavoro, che a sua volta danneggia le entrate fiscali a causa dello scarso sviluppo di reddito e consumi.

A

Sul piano delle misure adottate, la critica ricorrente a Obama riguarda l’esplosione di deficit e debito. Qui possiamo azzardare che il presidente non ha tutte le colpe che gli vengono attribuite. La profondità ed ampiezza della crisi ha determinato un crollo verticale di entrate fiscali, cir-

La via di uscita è stata una gigantesca operazione di reflazione, che sta riproducendo le condizioni di bolla dei mercati finanziari, come all’inizio costanza comune a tutti i paesi coinvolti. Al netto delle misure di stimolo e della loro specifica efficacia, l’ampiezza della voragine fiscale è direttamente legata al grado di indebitamento del settore privato dell’economia (si vedano, per una conferma, le condizioni dei conti pubblici nel

Regno Unito). Lo stimolo obamiano in senso stretto, l’American Reconstruction and Reinvestment Act (Arra), che peraltro non ha ancora pienamente dispiegato i propri effetti, pesa relativamente poco in questo quadro d’insieme. Molto più incidono le necessarie misure di ammor-

Ben diversa appare la situazione relativamente alla riforma della regolazione delle istituzioni finanziarie. Qui praticamente nulla è stato fatto. O meglio, l’amministrazione, con il pieno sostegno della Fed, ha scelto di mantenere lo status quo e di fare uscire le banche dalla crisi attraverso misure di supporto incondizionato, gonfiandone margini d’interesse e utili da trading. La via di uscita dalla crisi è stata una gigantesca operazione di reflazione, che sta riproducendo le condizioni di bolla dei mercati finanziari che sono all’origine della crisi, oltre ad esacerbare quello stesso gigantismo che si vorrebbe combattere. Esiste un’assoluta continuità tra il Tesoro dell’ex boss di Goldman Sachs, Hank Paulson, e quello dell’ex presidente della Fed di

New York (che è espressione diretta di Wall Street), Timothy Geithner. Da sempre, gli uomini delle banche d’affari dispongono di un sistema di porte scorrevoli che ne consente l’approdo a Washington, per scrivere la legislazione in materia finanziaria o per gestire i salvataggi.

Il dibattito sul «too big to fail» è ormai confinato agli ambienti accademici. Ben diversamente sembrano andare le cose nella vituperata Europa dove, anche per effetto delle forti pressioni antitrust della commissione europea, qualcosa si muove e banche che hanno beneficiato di massicci aiuti pubblici (fino alla nazionalizzazione, come nel caso britannico), verranno fatte a spezzatino e rimesse sul mercato. Malgrado la retorica obamiana, in America finora abbiamo visto continuità, non cambiamento, e forse non poteva andare altrimenti, date le premesse. Il declino dell’impero americano passa anche attraverso gli utili monopolistici di Goldman Sachs, ma la cosa sembra ancora sfuggire a molti.

Finanziaria. Il progetto di una parte della maggioranza favorirebbe solo le imprese

Togliere l’Irap? Per adesso no, grazie di Giuliano Cazzola alli all’Irap! L’abolizione (o quanto meno la riduzione) di questa imposta sta diventando uno dei tanti luoghi comuni della politica italiana, che si accettano quasi senza discussioni e senza porsi il problema delle conseguenze. Se si volesse, invece, approfondire il problema ci si accorgerebbe che l’intervento sull’Irap finirebbe per porre più problemi che risolverne.

D

Il gettito annuo del-

to, che il destino delle imprese italiane possa dipendere dal taglio di questa imposta. L’introduzione dell’Irap, nel 1998, comportò l’abolizione di altre tasse e di prelievi contributivi che nell’insieme fornivano un gettito di 70mila miliardi di vecchie lire (pari a 36,15 miliardi di euro). Caddero sotto la mannaia del legislatore i seguenti tributi: Ilor, contributi sanitari e tassa sulla

Quando venne istituita, nel 1998, assorbì molte altre tasse, andando incontro a una richiesta delle aziende. Ora bisogna pensare ai lavoratori

la imposta, riscossa dalla Regioni, è di circa 38 miliardi di euro (di cui 10 miliardi sono versati dalle amministrazioni pubbliche). Queste risorse concorrono a formare lo stanziamento complessivo (nel 2010 circa 110 miliardi) a favore della sanità. Diverrebbe, allora, necessario reintegrare in qualche modo il venir meno del gettito da Irap. Essendo l’aliquota pari al 3,9% (due anni or sono era del 4,25%), ciò significa che su 10mila euro di ‘’valore della produzione’’ (costo del lavoro+interessi passivi+reddito) il prelievo Irap è pari a 390 euro (un dato modesto se paragonato con l’incidenza dell’Ires o dell’Irpef sul medesimo ammontare). Non sembra, pertan-

salute, Iciap, imposta patrimoniale, tassa sulla partita Iva, tassa di concessione comunale. L’istituzione dell’Irap non fu solo un’operazione di semplificazione fiscale, ma procurò alle aziende, per anni, un’importante riduzione del prelievo derivante dalle precedenti imposte abolite, dal momento che solo nel 2006 il gettito ha raggiunto i 36 miliardi di euro (pari a quanto incassavano, in lire e nell’insieme, i vecchi tributi nel 1998). Pure nella passata legislatura, i tagli del cosiddetto cuneo fiscale e retributivo andarono a favore delle imprese. Sarebbe il caso, allora, di investire le

scarse risorse disponibili nelle tutele previdenziali dei giovani precari iscritti alla Gestione separata dell’Inps, sulla base di due linee di intervento: a) rendendo fruibili le prestazioni già riconosciute (malattia, assegni familiari, maternità) ma gravate da criteri di accesso a causa dei quali risulta impossibile avvalersene; b) trasformando in misura strutturale l’indennità di reinserimento dei collaboratori in caso di perdita del lavoro.

Ma soprattutto è opportuno che il Governo prosegua, nella misura del possibile, nella linea di condotta seguita fino ad ora, trovando ed utilizzando gli strumenti per mantenere un rapporto tra i lavoratori e le loro imprese. Laddove ciò non sarà possibile devono essere adottate politiche attive del lavoro che puntino alla formazione e al re-impiego di coloro che perdono il posto.


pagina 12 • 11 novembre 2009

opo le ultime elezioni europee, con una schiacciante vittoria dei partiti di centrodestra, credo che sia giunto il momento delle nostre idee. Ora dipende da noi metterle in pratica e dare al processo europeo lo slancio di cui ha assolutamente bisogno. È il nostro momento. Dobbiamo restare sui nostri principi, seguire le nostre idee, le idee basate sulla libertà individuale, sulla responsabilità individuale, sui mercati liberi, sul governo limitato e sulla forte fiducia nella nostra identità occidentale. Dobbiamo dare una chiara risposta ai milioni di europei che si sono fidati di noi, nelle ultime elezioni europee, per uscire dalla crisi. Un’ampia maggioranza di europei ha detto “no” alle politiche socialiste e “sì” alle politiche di libertà. Ignorare questo mandato nelle politiche europee che verranno è il modo più sicuro di ottenere un risultato politico negativo alle prossime elezioni. Guardiamo a quello che sta accadendo nello scenario politico europeo. La sinistra sta attraversando una profonda crisi in Francia, Italia e Germania. Ci si aspetta che i conservatori britannici torneranno al potere l’anno prossimo. E questo non sta succedendo per caso. La sinistra ora sta raccogliendo gli effetti di un collasso della sua ideologia. La sinistra non è in grado di offrire un programma ideologico attraente alla maggioranza dei cittadini europei. Non è il nostro caso. Stiamo vincendo la battaglia di idee e dobbiamo aumentare i nostri sforzi per rendere questa vittoria chiara a un numero sempre maggiore di cittadini di tutta Europa. Noi crediamo nell’Europa. Il processo europeo ha portato libertà, democrazia, prosperità, influenza mondiale e pace a tutti i suoi membri. La storia dell’Europa occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale è stata un successo. E, dopo il vero evento storico rappresentato dalla riunificazione dell’Europa, i cittadini dell’Europa dell’Est hanno potuto a loro volta godere i benefici del progetto europeo.

D

Il successo dell’Europa si basa su tre sostegni principali: la validità della democrazia liberale; il legame atlantico; l’economia basata sul mercato. In altre parole: i sistemi politici nazionali in quanto espressione di democrazia liberale; la Nato come struttura di sicurezza delle democrazie occidentali contro nemici stranieri; l’Unione Europea come struttura sovranazionale per promuovere e assicurare un’economia di mercato in rapido sviluppo. Questi tre sostegni formano le solide fondamenta che hanno storicamente permesso il nostro progresso; tre consistenti basi complementari grazie alle quali abbiamo potuto raggiungere quello che chiamiamo “stile di vita occidentale”. Ma, purtroppo, negli ultimi anni le cose si sono complicate. Abbiamo perso di vista il vero obiettivo del progetto europeo. Ci siamo impigliati in una eterna riforma istituzionale che è cominciata dopo il Trattato di Nizza e in cui abbiamo impiegato il meglio delle nostre energie. Questo ci ha distanziati da quello che

il paginone

La validità della democrazia liberale e delle sue istituzioni; il rafforzamento basato sulla libertà del mercato: sono questi, secondo l’ex premier spag

Europa, ora serve u Le idee e la leadership delle sinistre hanno fallito. È il momento che i conservatori si impegnino nel costruire un futuro luminoso per l’Unione di José María Aznar conta veramente, e siamo finiti per abbandonare l’agenda delle riforme economiche stabilita a Lisbona. A questo proposito, io spero che il risultato positivo dell’ultimo referendum in Irlanda possa mettere fine alla disputa internazionale. È ora che l’Europa torni al lavoro e, con una pianificazione concordata, cominci a intraprendere le misure necessarie per migliorare la vita degli europei. Perché questo è l’obiettivo delle istituzioni europee: servire gli europei.

L’Unione Europea non è fine a se stessa, è uno strumento che è stato assemblato con lo scopo di costruire un futuro migliore per tutti i suoi membri. Non dobbiamo mai perdere di vista questo punto. E questo è il motivo per cui le istituzioni europee de-

vono diventare più trasparenti e dinamiche. Anche ora, gli europei non sanno chi è responsabile di cosa. Hanno bisogno di sapere cosa si decide in casa e cosa si decide a Bruxelles. E hanno bisogno di poter chiedere spiegazioni ai loro rappresentanti. Dobbiamo mettere le persone al centro dell’Europa. Ci sono altri due argomenti, a proposito dell’Unione europea, sui quali è importante discutere: l’economia e la portata inter-

Abbiamo bisogno di un nuovo accordo economico con gli Usa, aperto al resto del mondo, che elimini le numerose barriere al commercio che ancora prevalgono attraverso l’Atlantico

nazionale dell’Europa. In primo luogo, l’economia. Esistono tre diverse prospettive: la realizzazione di una importante agenda di riforma economica; la revisione del Welfare State; il rifornimento energetico come base di un’economia in ripresa. L’Europa ha bisogno di mettere in atto un’importante agenda di riforme, perché per un certo tempo l’economia europea non è cresciuta al ritmo sperato. L’economia è il motore del mondo e il motore dell’Europa. Un’economia in ripresa porta occupazione, benessere e ricchezza alle persone. L’economia è il fulcro del sogno europeo. Oggi stiamo attraversando una crisi economica e finanziaria a livello mondiale, ma non dobbiamo dare la col-

pa di tutto a questa crisi. L’Europa che una volta creava occupazione, portava prosperità ai suoi cittadini ed era un esempio lampante di produzione di benessere oggi è in declino. La crisi in Europa ha molto a che vedere con sbagliate politiche monetarie, una cattiva regolazione, negligenti politiche di supervisione e, soprattutto, con la volontà politica di non realizzare riforme. L’Europa è capace di superare la crisi e riconquistare la sua leadership economica nel mondo. Questo potrà essere raggiunto adottando politiche economiche basate sulla libertà individuale, sulla responsabilità e sui mercati liberi. Noi non usciremo da questa crisi con un interventismo maggiore ma con mercato libero più grande o con un protezionismo maggiore, ma con un’apertura più grande. Non usciremo da questa crisi con politiche più introspettive ma con più ambizione; non con maggiore relativismo, ma difendendo i valori che hanno dato forma al nostro successo passato.

Per quanto riguarda il Welfare State, vorrei ricordarvi che l’Europa è un continente con tasso demografico in declino. Al ritmo attuale, entro il 2050 si avrà una persona inattiva su due in età lavorativa. Questo porterà inevitabilmente a un aumento di spesa sulla salute e sulle pensioni. Inoltre, una crescente immigrazione nei paesi europei contribuirà all’aumento dei costi. Dovremo allargare le possibilità di vita lavorativa per coloro che possono e vogliono continuare a lavorare. Avremo inoltre bisogno di aumentare la produttività, di proteggere le famiglie e prevenire gli abusi nei sistemi di protezione sociale. Alcuni criteri dovrebbero essere introdotti per migliorare l’efficienza di mercato nella fornitura di servizi sociali, come è stato fatto con successo nei paesi scandinavi riguardo ai servizi sanitari, dell’istruzione e ai programmi di cura agli anziani. In ultimo, l’Europa ha bisogno di un rifornimento di energia sostenibile, sicuro, economico, efficiente e pulito. Tutte le fonti di energia sono necessarie per garantire il futuro dell’economia europea, questo comprende anche l’energia nucleare. L’energia nucleare è pulita, sicura,


il paginone

o del legame atlantico con gli Stati Uniti d’America; un sistema economico gnolo José María Aznar, i tre pilastri sui quali costruire il futuro della Ue

una Grande Svolta

11 novembre 2009 • pagina 13

Nato alle sue attuali sfide. Dobbiamo accendere la fiamma della libertà ovunque si sia affievolita, e sostenere coloro che si trovano negli angoli bui della Terra che stanno combattendo per essa. Dall’Iran a Cuba, dal Venezuela all’Iraq, dobbiamo aiutare coloro che anelano per la libertà e la democrazia, e dare loro il nostro sostegno incondizionato, mentre non dobbiamo dare alcuna concessione ai loro oppressori. In particolar modo, voglio inviare un messaggio di incoraggiamento e sostegno a tutti i cubani che stanno rischiando la loro vita e la loro libertà per un futuro di democrazia e diritti umani. Se desideriamo raggiungere questi obiettivi, è fondamentale preservare e rafforzare il legame Atlantico. Non è possibile comprendere la storia europea contemporanea senza il ruolo degli Stati Uniti. Lo stesso vale per il progetto europeo che ha ricevuto un’importante approvazione dal Nord America. Io credo che non esista alcun futuro europeo possibile senza una forte alleanza Atlantica. Io non credo in quelle teorie proclamate da quei pochi che cercano di collocare l’Europa come un contrappeso degli Stati Uniti. Né credo nell’estraniarci da coloro che ci hanno mantenuti al sicuro per almeno sessant’anni. L’Europa non è una priorità per l’attuale amministrazione Americana. Non più. Ci piaccia o no, le priorità americane rispetto alla politica estera guardano più ad est che ad ovest.

In Afghanistan si sta combattendo una battaglia cruciale, la battaglia contro il terrorismo e contro i nemici della libertà deve essere vinta. Serve una strategia vincente, perché la vittoria è possibile

efficiente e garantisce un rifornimento stabile. Essa non esclude lo sviluppo di altre fonti di energia, come le energie rinnovabili. L’Unione europea non può permettersi di trattenere una fonte di energia perfettamente possibile a causa di decadenti dogmi ideologici. In questo mondo, il ruolo dell’Europa come attore internazionale è di fondamentale importanza. La politica estera europea dovrebbe impegnarsi a proteggere il nostro stile di vita occidentale, i valori della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza in cui crediamo, dai numerosi nemici che cercano di demolirli. A vol-

«Dobbiamo restare sui nostri principi - scrive Aznar - seguire le nostre idee, le idee basate sulla libertà individuale, sulla responsabilità individuale, sui mercati liberi, sul governo limitato e sulla nostra identità occidentale. Dobbiamo dare una chiara risposta ai milioni di europei che si sono fidati di noi per uscire dalla crisi»

te, questi nemici si trovano fra di noi. Ma molto di loro si trovano in posti remoti; tuttavia, benché distanti, rappresentano una minaccia per la nostra sicurezza e anche per le nostre società aperte.

In Afghanistan si sta combattendo una battaglia cruciale, la battaglia contro il terrorismo e contro i nemici della libertà deve essere vinta. Abbiamo bisogno di una strategia vincente, perché la vittoria è possibile. Per quanto riguarda la Nato, occorre sviluppare un nuovo concetto strategico. Io ho molta fiducia nel nostro amico, Anders Fogh Rasmussen, nella sua disponibilità ad adattare la

I o c re do in u n a f orte collaborazione tra i due lati dell’Atlantico, perché rappresenta la migliore garanzia per la nostra sicurezza contro i nemici della libertà e della democrazia, e perché insieme la nostra reciproca prosperità può raggiungere legami più elevati. Credo che l’Agenda Economica Transatlantica abbia bisogno di una svolta politica. In questo deve agire l’Unione europea. Io sostengo un nuovo mercato e un nuovo accordo economico tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, aperto al resto del mondo, che elimini le numerose barriere al commercio e all’investimento che prevalgono ancora attraverso l’atlantico. Ho dichiarato che è arrivato il momento delle nostre idee. Lo è veramente. E dovremmo portarle avanti con orgoglio. Dobbiamo fare quello che è giusto, non solo quello che è semplice. Oggi più che mai «le idee hanno conseguenze». Oggi le nostre idee possono avere conseguenze decisive nella costruzione di un’Europa più luminosa. Le nostre idee sono semplicemente le migliori, e dobbiamo lavorare duramente per farle prevalere.


mondo

pagina 14 • 11 novembre 2009

Iniziative. Una campagna internazionale parte da Roma per sensibilizzare l’Occidente sull’ultima sfida degli estremisti

Pakistan, ultimo atto La legge sulla blasfemia uccide senza distinzioni i non musulmani: va fermata di Vincenzo Faccioli Pintozzi on scherzate con il Pakistan. La comunità internazionale è chiamata ad intervenire per calmarne la società, altrimenti rischia di veder esplodere un focolaio di integralismo islamico peggiore di quello del vicino Afghanistan». È quanto sostiene fra le righe il direttore della Commissione episcopale pakistana “Giustizia e Pace”padre Emmanuel Y. Mani, intervenendo alla conferenza stampa organizzata da AsiaNews (agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere). Questa ha raccolto e rilanciato la campagna, nata proprio in Pakistan per l’abolizione della legge sulla blasfemia nel Paese. Gli articoli 295 b/c e il 298 a/b/c del codice penale pakistano regolamentano le offese alla religione islamica. Tra il 1980 ed il 1986 queste leggi sono state introdotte dall’allora presidente del Pakistan, Zia-ulHaq, per garantire il rispetto del profeta Maometto, i suoi Compagni [indicati dalla tradizione islamica con il termine Sahabah, ndr] e del Sacro Corano. Oggi queste leggi sono le uniche al mondo attraverso cui persone che subiscono accuse infondate restano vittime di omicidi, vengono arse vive e subiscono la distruzione delle loro proprietà.

«N

Nonostante la Costituzione garantisca una libertà religiosa pressoché totale, la legge sulla blasfemia viene spesso usata per consumare feroci vendette personali o per eliminare, senza bisogno di alcuna prova, concorrenti economici. Secondo i parametri della “giustizia” pakistana, infatti, basta la testimonianza di due musulmani adulti per considerare reale l’accusa di blasfemia: nelle corti locali, la testimonianza dei non musulmani non conta. Dal 1986 all’ottobre del 2009, racconta padre Mani, «almeno 966 persone sono finite sotto accusa per la legge sulla blasfemia: 50 per cento musulmani, 35 ahmadi, 13 cristiani, 1 indù e 1 di religione non specificata. Almeno 33 persone sono state vittime di omicidi dopo l’accusa: 15 musulmani, 15 cristiani, 2 ahamdi e 1 indù. Queste leggi

vengono usate in modo indiscriminato contro i cittadini e quelli non musulmani sono annichiliti dalla legge sulla blasfemia perché l’intera comunità ed i villaggi patiscono le conseguenze del suo abuso». Il numero delle vittime tra i musulmani è elevato non perché la legge è usata in modo equo tra le diverse componenti della società, ma perché diversi gruppi islamici usano la norma per at-

appena uscito di prigione: ha passato “diverso tempo in carcere” ma non ricorda quanto. È stato giudicato ai sensi dell’art. 295 C del Codice penale pakistano: per liberarlo, si è dovuto muovere un procuratore musulmano, che si è fatto impietosire dalla sua vicenda ed è intervenuto per farlo uscire dal carcere. Stesso percorso per Walter Fazal Khan, 84enne cristiano di Lahore, che ha guada-

Gli articoli 295 b/c e il 298 a/b/c del codice penale pakistano puniscono con la morte le offese alla religione islamica. Da quando sono entrati in vigore, sono morte senza prove circa mille persone taccarsi l’un l’altro. D’altra parte, i racconti di questi abusi sono disponibili per chiunque li voglia cercare. C’è ad esempio la storia di Shahid Masih, che mentre veniva trascinato in carcere gridava la sua innocenza. I poliziotti incuranti gli hanno detto di stare zitto, perchè il musulmano Ghafar lo aveva denunciato per blasfemia e questo a loro bastava. Masih (che in urdu significa Cristo) è

gnato la libertà soltanto grazie alla testimonianza di alcuni musulmani. Secondo i testimoni, Khan è stato intrappolato in una congiura tesa dal suo autista per rubare i suoi terreni. Proprio quest’ultimo aveva dichiarato agli agenti di aver visto il suo datore di lavoro mentre bruciava alcune pagine del Corano. Nonostante l’assenza di prove, la polizia aveva arrestato l’anziano cristiano. La fa-

miglia dell’uomo e diversi gruppi civili che lo conoscono avevano definito l’accaduto, sin dal primo momento, “una cospirazione”orchestrata da alcuni uomini d’affari musulmani che volevano ottenere i terreni di Khan. Questi, infatti, aveva rifiutato la vendita e non si era fatto piegare dalle intimidazioni: un giorno, senza alcuna prova ma con un mandato di arresto, la polizia ha bussato alla

sua porta. Dopo una settimana di carcere, i musulmani del luogo, che avevano chiesto l’arresto e l’esecuzione del cristiano, hanno ammesso di «essere stati provocati da alcuni sobillatori» che hanno presentato Khan come “un blasfemo”. Dietro tutta l’operazione vi era Raja Riaz, l’autista, che voleva rubare i terreni del suo datore di lavoro. Meno fortunato Ranjha Masih, cristiano di Lahore con-

L’università musulmana di Deoband annuncia: ripudiamo il terrorismo, è contro il Corano

L’islam indiano sceglie la non violenza di Antonio Picasso on una recente dichiarazione, l’università islamica di Deoband in India ha ufficialmente ripudiato la violenza come strumento di proselitismo per il Corano. Si tratta di una presa di posizione inaspettata, in quanto molto spesso proprio questo ateneo era stato indicato come una delle fonti di ispirazione ideologica della lotta talebana. Il rifiuto di sintetizzare gli insegnamenti del Profeta unicamente nel concetto di Jihad rappresenta una novità assoluta nell’ambito dell’ortodossia islamica sunnita dell’Asia centrale. Deoband è uno dei più prestigiosi centri di studio di tutto il mondo islamico. La sua università teologica, fondata nel 1867, è per numero di studenti come per contributo di pubblicazioni, seconda solo a quella del Cairo di al-Azhar. Proprio dalla città indiana e dal suo ateneo si è sviluppato e ha preso il nome il movimento ultra-

C

ortodosso dei deobandi, il quale grazie ai suoi studenti si è radicato in Pakistan, Afghanistan, parzialmente in India e in Bangladesh. Inoltre, in seguito ai legami storici con l’ex Impero britannico, una presenza deobandi è stata rilevata anche nel Regno Unito e in Sud Africa. Negli anni Novanta, la coincidenza di prospettive fra le idee deobandi il wahabismo sunnita – corrente religiosa che influenza buona parte del conservatorismo della monarchia di Riyadh – portò entrambe le scuole di pensiero a ispirare il movimento talebano che, in quel periodo si stava affermando come regime di governo in Afghanistan.

Di conseguenza, il puritanesimo dell’islam indiano e il fondamentalismo saudita, di cui al Qaeda è espressione, vennero utilizzati come giustificazione ideologica da parte degli studenti armati afgani per

combattere e annientare qualsiasi manifestazione che potesse essere giudicata takfir (empio), secondo la giurisprudenza islamica. Finora l’ateneo di Deoband non si era mai espresso né in favore né prendendo le distanze dai talebani. Un silenzio, questo, che era stato fonte di critiche nei confronti del rettorato, la cui immagine rischiava di essere accostata impropriamente a un messaggio di violenza che non è suo. Al contrario, il sinodo islamico ha confutato l’ambiguità delle autorità religiose locali. «Tra l’islam e il terrorismo c’è un mondo di differenza», ha detto Hakimuddin Qasimi, Segretario della Jamiat Ulema-e-Hind, la più influente organizzazione islamica indiana. Questa presa di posizione mette in luce la progressiva marginalizzazione dei talebani, almeno da un punto di vista ideologico. Ai mujaheddin dell’Asia centrale, quindi,


mondo

11 novembre 2009 • pagina 15

Nella foto grande, i funerali delle vittime cristiane dell’attacco a Sialkot. Sobillati da alcuni imam, i musulmani dell’area hanno distrutto il villaggio e ucciso chiunque cercasse di fermarli. A lato, scene dell’attacco. In basso, l’ultima foto di Fatih Masih: accusato di blasfemia, è morto in carcere

dannato all’ergastolo per blasfemia: è stato liberato, ma ha passato otto anni in cella di isolamento. Masih, 58 anni, era stato arrestato l’8 maggio del 1998, nel corso di una manifestazione contro il governo. I manifestanti avevano lanciato delle pietre ed una di queste aveva colpito l’insegna di un negozio che conteneva un versetto coranico: per questo, la polizia aveva arrestato Masih

ta «non importa dove si nasconderà». Johnson Michael, presidente della Fondazione intitolata a monsignor John Joseph [il presule pakistano che si suicidò in segno di protesta contro la legge sulla blasfemia], dice: «Ho incontrato molta gente nel corso della mia vita, ma nessuno è come questi sopravvissuti. Hanno avuto una forza straordinaria nel difendere il loro credo, una forza che pagano giorno per giorno, ma che conforta tutta la comunità. Ci sentiamo edificati dal loro esempio». Eppure, spiega il segretario generale di “Giustizia e Pace” Peter Jacob [anche lui presente all’incontro di ieri], «se qualcuno è accusato di essere un blasfemo, non importa cosa dicono i giudici: la sua vita diverrà miserabile, costretto a nascondersi in povertà. Questo vale anche per le famiglie, che perdono ogni diritto sociale e vengono condannate a rimanere ignoranti e povere». Fino ad ora «nessuno è stato impiccato dalla legge per accuse collegate alla blasfemia. Eppure, ventiquattro persone sono morte fuori dal carcere per opera di estremisti che non sono mai stati fermati».

con l’accusa di essere un blasfemo. Nel 2003 una Corte di Faisalabad lo ha condannato all’ergastolo, fra le proteste dei musulmani locali che ne chiedevano invece l’impiccagione. Nel corso dell’intera detenzione, la polizia lo ha tenuto “per sicurezza” in una cella di isolamento. Ora Masih vuole emigrare in Germania, ma una lettera anonima ad un giornale ne ha annunciato la morte violen-

non resta che il wahabismo come punto di riferimento dottrinario e grazie al quale giustificare le proprie azioni di guerra in Afghanistan e il terrorismo in Pakistan. Ciò non toglie che, per quanto di endorsement esplicito non si sia mai potuto parlare, perdere il faro di Deoband per i talebani significa vedere compromesso un pilastro teologico di inestimabile valore, il cui vuoto non potrà essere colmato né dal conservatorismo saudita né dal jihad e dal fondamentalismo promossi da al Qaeda. Il movimento talebano quindi si riduce a essere un soggetto armato al quale manca un manifesto politico-religioso che ne giustifichi le violenze finora commessi.

culturale del Paese, o della singola comunità religiosa. Tuttavia non si può escludere l’eventualità che New Delhi abbia strumentalizzato il movimento islamico nazionale in funzione anti-pakistana. Il contrasto con Islamabad sta attraversando una nuova fase di tensione, che trova libero sfogo nella guerra in Afghanistan e nei talebani. Dopo gli attentati a Mumbay alla fine di novembre dello scorso anno, le accuse reciproche tra l’India e il Pakistan, di sostenere i mujaheddin e di finanziare il terrorismo di matrice islamica, si sono fatte ancora più accese. Non dovrebbe sorprendere, di conseguenza, se l’India avesse deciso di ricorrere a uno stratagemma ideologico-culturale per far pesare unicamente sulle spalle del Pakistan le ragioni dell’instabilità dell’area. Smarcando l’ateneo di Deodand da eventuali connessioni con i talebani, la responsabilità che questi ultimi non siano ancora stati debellati potrebbe ricadere sulla sola Islamabad.

Il movimento talebano si riduce a essere un soggetto armato al quale manca un manifesto politico-religioso che ne giustifichi le violenze

Contestualmente, il messaggio che giunge da Deoband lascia intendere che si sia arrivati un accordo tra il governo di New Delhi e la sua comunità islamica. Gli oltre 160 milioni di cittadini indiani di religione musulmana hanno sempre rappresentato, agli occhi delle istituzioni federali

di implicita tendenza indù, un pericolo di instabilità interna. A questo si aggiunge la vicinanza di due Paesi stranieri a maggioranza islamica, Pakistan e Bangladesh, entrambi potenziali fonti di criticità. La “santa alleanza” che può essere nata fra l’ateneo religioso e il governo nazionale è molto simile a quella sottoscritta in passato tra l’Università di al-Azhar e il regime egiziano. Le autorità così facendo demandano il controllo e l’indirizzo delle coscienze ai responsabili dell’orientamento

Questa è la realtà che il giro di “Giustizia e Pace” in Europa cerca di portare alla luce: dopo Roma e il Vaticano, i suoi membri sono attesi in Olanda, Germania e Belgio per colloqui con le istituzioni politiche e cattoliche locali. A questa realtà individuali vanno aggiunti i raid contro i villaggi cristiani – l’ultimo è quello di Kasur, che è costato la vita a sette persone – che aumentano di intensità man mano che il tempo passa. Va aggiunto il crescente senso di abbandono che attanaglia le minoranze del Pakistan, forse l’ultimo baluardo contro la talebanizzazione del Paese. Va aggiunta l’importanza strategica di un’area che – se ricondotta alla legalità – può fermare la guerra in Afghanistan. Viceversa, se si lascia mano libera agli estremisti gli si consegna l’autorità per distruggere un altro Paese. Come ha detto Jacob in chiusura di intervento, «date una nuova speranza alla società civile del Paese, combattendo contro questa legge. Ha molto da dimostrare, ancora».


pagina 16 • 11 novembre 2009

quadrante Usa. Non si placano le polemiche su cosa abbia spinto il militare musulmano alla strage

inevitabile: se un musulmano che vive in Occidente attacca in modo violento e senza una ragione evidente dei nonmusulmani, bisogna capirne le ragioni. L’establishment forze dell’ordine, politici, media e mondo accademico - insistono su un aspetto e sostengono che una qualche forma di oppressione deve aver indotto il trentanovenne Maj Nidal Malik Hasan a uccidere il 5 novembre scorso, a Fort Hood, 13 persone e a ferirne 38. Una forma di oppressione che però prende le distanze da chi avanza particolari inclini a ritenere Hasan vittima di “razzismo”, “vessazioni in quanto musulmano”, di un senso di “non appartenenza”, di un “disturbo da stress pre-traumatico”, di “problemi mentali”, di “problemi emotivi”, di “una eccessiva dose di stress”, o della possibilità di essere inviato in Afghanistan o Iraq, di fatto suo “peggiore incubo”. La conclusione è quella ben riassunta da un quotidiano americano: «Ciò che è passato per la testa al militare solitario è un mistero».

È

Esempi di violenze perpetrate dai musulmani contro i miscredenti, motivano la scuola di pensiero che ritiene Hasan una vittima, a tirare fuori nuove e fantasiose scuse. Coloriti esempi (riportati in un mio articolo di qualche anno fa e nel mio blog riguardo la negazione del terrorismo islamista) includono: 1990. «Un farmaco prescritto per (…) la depressione» (per spiegare l’assassinio di Rabbi Meir Kahane). 1991. «Una rapina andata male» (l’omicidio di Makin Morcos a Sydney). 1994. La «rabbia di strada» (l’uccisione di un ebreo scelto a caso sul Ponte di Brooklyn). 1997. «Molti, molti nemici nella sua mente» (l’omicidio con arma da fuoco in cima all’Empire State Building). 2000. «Un incidente stradale» (l’attacco ad un autobus di scolari ebrei nei pressi di Parigi). 2002. «Una controversia lavorativa» (il duplice omicidio all’Aeroporto internazionale di Los Angeles). 2002. Un «burrascoso rapporto familiare» (i cecchini del mondo politico statunitense). 2003. Un «problema comportamentale» (l’attacco lanciato da Hasan Karim Akbar contro i soldati di stessa fede. Ne ha uccisi due). 2003. «La malattia mentale»

Vi spiego perché Hasan amava il Jihad America in lutto dopo il massacro Obama e Michelle ai funerali di Fort Hood di Daniel Pipes

da al grido di Allahu Akbar, Allah è grande, il credo jihadista, mentre sparava un centinaio di colpi dalle sue due pistole. Da quanto è stato riferito i suoi superiori lo avevano messo in libertà vigilata per aver inopportunamente fatto attività di proselitismo per l’Islam. Si noti quel che i suoi excolleghi dicono di lui: uno di loro, Val Finnel, racconta che Hasan soleva ripetere: «Per prima cosa sono un musulmano e poi americano» e giustificava il terrorismo suicida; un altro collega, Terry Lee, rammenta che Hasan «sosteneva che i musulmani avevano diritto a insorgere ed attaccare gli americani»; il terzo, uno psichiatra che ha lavorato a stretto contatto con Hasan, lo ha descritto come un uomo «quasi aggressivo in merito all’essere musulmano».

E per finire, la scuola di pensiero del jihad attribuisce una grande importanza al fatto che le autorità islamiche esortino i soldati americani di fede musulmana a rifiutare di battersi contro i loro fratelli di religione, fornendo così una base per una improvvisa sindrome da jihad. Nel 2001, ad esempio, rispondendo agli attacchi americani sferrati contro i talebani, il mufti d’Egitto, Ali Gum’a, emise una fatwa che stabiliva che«i soldati musulmani presenti nell’esercito

La scuola di pensiero jihadista considera l’attacco in Texas un esempio da seguire e ripetere (l’omicidio con mutilazione di Sebastian Sellam). 2004. «Solitudine e depressione» (un’esplosione a Brescia, in Italia, fuori da un McDonald). 2005. «Una divergenza tra l’indiziato e un altro membro del personale» (la furia omicida scatenatasi in una casa di riposo in Virginia). 2006. Il «malanimo verso le donne» (una violenta azione criminosa alla Jewish Federation di Greater Seattle). 2006. «Un matrimonio combinato che potrebbe averlo stressato» (a propsito di un musulmano che ha travolto dei pedoni con il proprio Sev nella Carolina del Nord). E non è finita: quando un cittadino americano di origine araba, ammiratore

di Osama bin Laden, si è schiantato con il suo aereo contro un edifico di Tampa, si dette la colpa all’uso del farmaco anti-acne Accutane.

Come socio fondatore della scuola di pensiero che motiva la strage di Fort Hood nel jihad, non accetto le giustificazioni sopra elencate, ritenendole deboli, utili a confondere le idee e anche offensive. La scuola di pensiero jihadista, ancora in minoranza, considera l’attacco di Hasan come uno degli innumerevoli tentativi da parte dei musulmani di sconfiggere gli infedeli e imporre la legge islamica. E non è certo un caso isolato: gli Stati Uniti ne sanno qualcosa dell’improvvisa sindrome da Jihad. Il comportamento di Hasan ci confonde le idee, ma vediamo la prova schiacciante delle sue intenzioni jihadiste. L’uomo ha distribuito copie del Corano ai vicini proprio prima che si scatenasse la sua furia omici-

Usa devono astenersi dal partecipare a questa guerra». Hasan stesso, facendo eco a questo messaggio, sconsigliò un giovane discepolo musulmano, Duane Reasoner Jr., di unirsi alle truppe americane perché «i musulmani non devono uccidere i fratelli musulmani». Se la motivazione del jihad è di gran lunga più convincente di quella della vittima, è altresì assai più difficile da formulare chiaramente. Tutti pensano che dare la colpa alla rabbia di strada, all’Accutane o ad un matrimonio combinato sia più facile che discutere di dottrine islamiche. E quindi, mi lancio in una predizione: ciò che Ralph Peters definisce «l’imperdonabile errore del politically correct» dell’esercito farà sì che l’attentato verrà ufficialmente giustificato sotto la voce “vittimizzazione di Hasan” e non farà parola del jihad. E così l’esercito si renderà cieco e non si preparerà al prossimo attacco jihadista.


quadrante

11 novembre 2009 • pagina 17

In cambio la Francia vendette al Pakistan 3 sottomarini

«Sono soddisfatto, ma avrei preferito inventare un tagliaerba»

Una bustarella di 4 milioni per il presidente Asif Ali Zardari

Kalashnikov compie 90 anni e per Putin è «una leggenda»

ISLAMABAD. Mentre un’auto-

MOSCA. Grande festa in Russia

bomba piazzata in un mercato ha provocato ieri un’altra strage vicino a Peshawar (30 le vittime, decine i feriti), ieri il presidente pachistano, Asif Ali Zardari, è stato accusato di aver ricevuto 4,3 milioni di dollari di fondi neri per l’acquisto, nel 1994, di tre sottomarini francesi Agosta 90 da parte della marina pachistana, un contratto del valore complessivo di 825 milioni di euro. Ma non solo, secondo quanto reso noto dal quotidiano Liberation, citando documenti della magistratura francese, il mancato pagamento a Zardari dell’intero importo patuito, ma solo dell’85 per cento, potrebbe essere stato il movente dell’attentato che provocò la morte di undici francesi a Karachi nel 2002. Gli inquirenti sono orientati a escludere la mano di al Qaeda, come era stato originariamente ipotizzato. I documenti relativi alle bustarelle in mano al quotidiano della sinistra francese erano stati inviati all’ufficio per la contabilità pachistana da parte delle autorità già nel 2001. I fondi erano stati accreditati a conti intestati a Zardari presso la sua banca svizzera dall’uomo d’affari libanese Abdulrahman el-Assir: 1,3 milioni fra il 15 e il 30 agosto, un mese prima della firma del contratto, e poi altre due tranche da 1,2 e 1,8 milioni l’anno successivo. L’intero ammontare delle bustarelle versate a esponenti pachistani per arri-

per i 90 anni di Mikhail Kalashnikov, l’inventore del celebre fucile d’assalto Ak-47. «Sono un uomo felice», ha spiegato ai giornalisti prima di ricevere il più importante premio russo dalle mani del presidente Dmitri Medevdev, che ha parlato di lui come di un“eroe”. Secondo Medvedev, l’ingegnere è infatti riuscito a «trasformare le armi russe in uno dei migliori marchi nazionali». Dal canto suo, il premier Vladimir Putin ha definito Kalashnikov una «leggenda». Alcuni anni fa, Kalashnikov dichiarò di essersi pentito per aver inventato un «falcia-uomini utilizzato dai terroristi» di tutto il mondo: «Avrei preferito inventare un tagliaerba», disse mentre era in vi-

Assedio a Gordon Brown lo sconfitto d’Inghilterra Dall’Afghanistan al G20: il premier non ne azzecca più una di Lorenzo Biondi essuno, in questo momento, vorrebbe trovarsi nei panni di Gordon Brown. Ha tentato il colpo di teatro al G20, con l’ipotesi di una tassa sulle transazioni finanziarie, ma i suoi alleati lo hanno abbandonato. E poi c’è il Sun che torna all’attacco mettendo il premier sotto accusa per la gestione della guerra in Afghanistan, per il suo stato di salute e per la presunta mancanza delle doti «morali» necessarie a svolgere il suo incarico. Continuano intanto le manovre nel Labour, e non smette di circolare l’ipotesi che Brown si dimetta. Il primo ministro sta giocando tutte le carte che gli rimangono. Introducendo i lavori del G20 finanziario in Scozia, Brown ha rilanciato una vecchia proposta: far ripagare al mondo della finanza i costi del salvataggio delle grandi banche. La cosiddetta Tobin Tax sarebbe minima (inferiore all’1%) ma si applicherebbe ad ogni transazione di titoli finanziari, con guadagni ingenti per le casse dello Stato. I benefici sarebbero quelli di risanare parte del debito pubblico, di porre un freno alla speculazione e di assecondare l’antipatia dell’opinione pubblica verso il mondo della finanza. Tobin conta molti fan a Washington, Berlino e Parigi. Brown sperava nel loro supporto, ma il Segretario Usa al Tesoro Tim Geithner gli ha tagliato subito le gambe: non se ne parla. Lasciando solo il premier britannico nell’affrontare le critiche del Financial Times, organo della City.

N

ta - che il Sun ha regalato ieri a tutti i suoi lettori - il premier si scusa per la sua «pessima grafia», ma la madre del defunto lo accusa di aver indirettamente causato la morte del figlio, con la cattiva gestione della guerra. Il peso dell’episodio va ben oltre l’imbarazzo per gli errori di scrittura. «Non è la grammatica, ma la vista», suggerisce il Guardian: Brown è cieco da un occhio e anche l’altro soffrirebbe di problemi alla retina. Secondo il quotidiano, il premier è ormai costretto a ricorrere al suo staff in tutte le funzioni pubbliche.

Non stupisce che, in questo clima, si moltiplichino le voci sulle possibili dimissioni di Brown prima delle elezioni di maggio. Fonti interne al Labour descrivono questa prospettiva come «possibile ma improbabile»; ma continua intanto il toto-successione. Il Daily Telegraph si spinge più avanti di tutti, nominando Harriet Harman primo ministro in pectore. La Harman, leader laburista alla Camera dei Comuni, ha appena annunciato di avere in cantiere un rapporto sulla riforma del sistema fiscale britannico: la crisi ha aggravato le disparità, la ricetta è aumentare le tasse sui redditi più alti. Una linea molto popolare nel partito, che fa salire le quotazioni della numero due del Labour, già osannata per la gestione «soft» della crisi dei rimborsi spese. C’è poi l’«eterno delfino» David Miliband, la cui candidatura europea sembra tramontata definitivamente. Lunedì la sua partenza improvvisa per Berlino aveva fatto capire che il ministro degli Esteri era al centro dei negoziati per il ruolo di Alto Rappresentate. Ma secondo la Bbc, Miliband avrebbe avvisato i suoi colleghi - e i capi del Partito socialista europeo - di non essere disposto a lasciare Londra. I suoi supporter lo hanno avvisato: se parti ora, perdi il treno della leadership laburista. Miliband non darà la spallata a Brown: se avesse voluto, lo avrebbe già fatto. Il premier non molla e punta ad un pareggio alle elezioni: ha sei mesi, ma ben poche speranze di successo.

Si moltiplicano le richieste di dimissioni prima delle elezioni. Ma lui non molla e punta al pareggio nel 2010: impossibile

vare alla firma del contratto equivale al dieci per cento del suo valore, di cui il sei per cento, o 49,5 milioni, destinato ai militari e il quattro per cento, ai diversi esponenti politici. Nel 2001, l’allora capo di stato maggiore della marina pachistana, Mansour Ul-Haq, era stato arrestato in connessione con il contratto e costretto a rendere sette milioni di dollari di bustarelle.Tutti i procedimenti legali in corso nei confronti di Zardari erano stati sospesi nell’aprile del 2008, prima della sua elezione a presidente. Zardari era stato in prigione, con accuse di corruzione, anche fra il 1997 e il 2004.

Proprio dalla stampa, e dal Sun di Rupert Murdoch, è arrivato l’ultimo affondo contro il leader laburista. Per tradizione Gordon Brown invia una lettera manoscritta a tutte le famiglie delle vittime in Afghanistan. In un’intervista infuocata, però, la madre di un giovanissimo soldato morto nei giorni scorsi ha definito «oltraggiosa» la lettera ricevuta: Brown infatti, oltre ai numerosi errori di ortografia, avrebbe sbagliato a scrivere il nome del ragazzo. Come se non bastasse, la donna ha poi spedito al tabloid la registrazione della telefonata di scuse ricevuta da Gordon Brown. Nella casset-

sita in Germania. «È certo, però, che il suo nome, come quello del primo astronauta,Yury Gagarin, sia diventato un simbolo della Russia nel Ventesimo secolo», ha affermato in collegamento dallo spazio l’astronauta russo, Maxim Surayev. Sono oltre 100 milioni i Kalashnikov venduti in tutto il mondo, utilizzati soprattutto da guerriglieri in Paesi quali la Somalia, l’Iraq o l’Afghanistan. Ma Mr. Kalashnikov, un veterano della seconda guerra mondiale, non ha tratto un grande profitto dal successo planetario del suo fucile e vive in un’abitazione modesta a Izhevsk, una città industriale 1.300 chilometri a est di Mosca. Il motivo, secondo l’azienda Izhmash che produce i fucili Kalashnikov, è la grande contraffazione: simil-Ak47 vengono prodotti in Bulgaria, Cina, Polonia e Stati Uniti, con una perdita per l’azienda russa di 261 milioni di euro ogni anno. Kalashnikov disegnò il fucile nel 1947, dopo essere rimasto ferito durante la seconda guerra mondiale. Il suo obiettivo era di fornire all’esercito russo un’arma leggera e affidabile. Una curiosità: nel 2004 è stata lanciata una vodka che porta il suo nome e di cui l’ex ingegnere è testimonial; la Vodka Kalashnikov, distillata a San Pietroburgo e imbottigliata in un recipiente a forma di fucile.


cultura

pagina 18 • 11 novembre 2009

Tra gli scaffali. Scrittore, poeta, pittore, incisore e critico: credeva nella forza redentrice dell’arte e nella moralità dell’atto creativo

Il Maestro della bellezza Medusa e Adelphi riscoprono le opere di John Ruskin, il “Leonardo da Vinci” dell’epoca (e dell’estetica) vittoriana di Mario Bernardi Guardi era una volta, in un’appartata e montuosa regione della Stiria, «una vallata sorprendentemente lussureggiante e fertile». La circondavano «scoscese e rocciose montagne sempre incappucciate di neve, dalle quali scendevano, in perenni cascate, numerosi torrenti», ma nessuno di essi sfociava nella vallata. Infatti, scendevano tutti dalla parte opposta della montagna, volgendo il loro corso attraverso vaste pianure e popolose città. «Le nuvole, però, erano attratte così dolcemente su quelle nevose colline e si adagiavano così dolcemente nel bacino montano che, anche in tempo di siccità e di caldo intenso, quando tutta la campagna all’intorno era arsa, nella piccola valle pioveva». E i raccolti erano abbondanti, i fieni raggiungevano altezze mai viste, le mele erano belle tonde e rubiconde, i grappoli d’uva violetti, il vino aveva un sapore robusto e il miele era dolcissimo. Perciò quel luogo d’incanto veniva chiamato la “Valle del Tesoro”. In mezzo a quella natura feconda, però, i proprietari non brillavano per bontà e generosità. Avevano mucchi d’oro in ogni angolo della loro casa, ma custodivano la ricchezza con golosa avidità. Davvero egoisti, crudeli, tirannici i due fratelli Schwartz ed Hans, nemici degli uomini e ignari di Dio. E non solo cattivi, ma brutti, con le sopracciglia prominenti e gli occhi piccoli e maligni che sembravano voler nascondere i loro pensieri ed invece si fissavano sugli interlocutori con insolente curiosità.

C’

Come abbiamo detto, i due detestavano la gente che, intimidita e impaurita da quella protervia, li aveva ribattezzati “i fratelli Neri”. Non era invece “nero” il fratello minore, Gluck, un adolescente biondo, dagli occhi azzurri e dal carattere mite. Lui voleva bene a tutti.

Anche ai suoi fratelli. I quali se ne approfittavano, per mortificarlo e trattarlo come un servo. Ma ecco che un giorno...

Sembra di vederla Effie Grey, promessa sposa di John Ruskin, mentre legge la favola che il fidanzato le ha dedicato. Sembra di percepire i battiti del suo cuore, mentre si fa sempre più attenta allo svolgersi del racconto, alle sue mirabili sorprese, alla sua “morale”. Perfettamente coerente con quanto John va predicando da tempo: chi oltraggia l’umanità col proprio egoismo, chi avidamente si arricchisce sfruttando gli altri, chi, offendendo il prossimo, offende l’Onnipotente e la sua amorosa

creazione, si pone al di fuori del consorzio civile. Come nemico di Dio e dell’uomo, della natura e della cultura, che è, a un tempo, culto e coltivazione del corpo e dello spirito, attraverso il lavoro (che deve comunicare gioia) e l’arte (che deve essere “contemplata” da tutti), perché edifichi l’animo nel senso e nel segno della Comunità, della Civiltà, della Bellezza. In questo, Ruskin fortissimamente crede; questa è, diremmo, la sua pratica devozionale di uomo di lettere e di arti. Nonché di educatore dalla vocazione profetica, che col proprio magistero, le vi-

branti polemiche, i “messaggi” carichi di “pathos”, vuole avvincere e convincere. Questo è il suo intendimento sia che discetti di arte sia che si occupi dei mali della società sia che scriva una fiaba esemplare. Come Il Re del Fiume d’Oro, di cui abbiamo visto l’incipit. Una storia che fu pubblicata per la prima volta nel 1851, più volte stampata a delizia di fanciulli ed adulti ansiosi di “vero”, e viene ora riproposta per i tipi della Medusa, con le suggestive illustrazioni di Richard Doyle (cura e postfazione di Riccardo De Benedetti, pp.62, euro 9). Ma non è questo il solo Ruskin “riscoperto”. Adelphi, infatti, ha da poco riproposto Gli elementi del disegno (tr. di Maria Grazia Bellone, pp. 272, euro 24), che fu tradotto per la prima volta in Italia dai Fratelli Bocca nel 1898 e che aveva visto qualche edizione tra le due guerre, salvo poi finire nel dimenticatoio. Quando, nel 1857, dette alle stampe questa operetta di avviamento e di formazione, il trentottenne John, scrittore, critico d’arte, lui stesso disegnatore e incisore, era già un nome noto nell’Inghilterra colta. Figlio di un ricco mercante di sherry,convolato a nozze con una cugina in età già matura, John, fin dagli anni della adolescenza, viene avvezzato da babbo e mamma ai “Grand Tour” cari alle élites aristocratiche ed alto-borghesi, e cioè ai vagabondaggi dell’occhio e dello spirito nei paesi mediterranei, sovraccarichi di meraviglie naturali e artistiche. John visita la Francia e l’Italia, ed è del Bel Paese che si innamora. Con una full immersion nei nostri tesori che fortunatamente non lo fa stramazzare al suolo ubriaco di troppa bellezza, come accadde a Stendhal, ma lo spinge a scavare senza posa nella nostra storia e nella nostra cultura. Ed è così che il “cercatore” Ruskin si bea di “luce”: i “primitivi”veneti e toscani,

Claude Monet, uno dei padri dell’impressionismo , affermò che i nove decimi dell’impalcatura teorica del nuovo movimento artistico erano contenuti nelle pagine di “Elementi del disegno” di John Ruskin, una specie di corso per studenti, dilettanti e artisti principianti

l’artigianato- arte del Medioevo, il gotico, così severo, così puro, così “comunitario”. Un’arte che è più che arte, perché fondata su una dimensione religiosa e civile “forte”, alternativa alla volgarità e alla ferocia della civiltà industriale, nonché al suo ipocrita e bigotto moralismo, fondato sulla avidità predatrice e ostico a qualsivoglia slancio ideale.

Ruskin si sente investito da una sorta di missione ideale. Così comincia a collaborare a riviste importanti, segnalandosi per l’acutezza dello sguardo critico nonché per la passione polemica e la tensione utopica. Infatti crede nella forza redentrice dell’arte, a tutti i livelli; ritiene che in essa ci sia un “quid”di divino che deve essere portato alla luce scavando nel “lontano” e nel “profondo”, e rendendolo manifesto e manifestamente “operativo”; pensa che la vita, l’educazione, la religione, la morale debbano trovare la loro sintesi nell’atto creativo, che peraltro non è mero arbitrio individuale, ma espressione di una comunità/civiltà, a misura d’uomo solidale e non all’insegna di un’usura piratesca e di una pilatesca indifferenza all’urgere della verità. L’artista come “uomo d’eccezione”? Beh, sì, e con tutti i “capricci” del caso, anche perché John sente il bisogno di libe-

rarsi dai residui influssi della madre puritana, che lo ha oppresso col suo affetto geloso e appiccicoso. Tanto è vero che quando da ragazzo era andato a studiare al “Christ Church College” di Oxford, lei si era trasferita nell’illustre e togata cittadina per stargli accanto. Comunque, l’uomo d’eccezione non è “bello e dannato”, ma è bello perché crede nel “bene”, perché lavora al bene comune. Lasciamolo però “respirare”. Nella potenza di una visione artistica vista come utopia salvifica, umanistica e umanitaria, in antitesi con un affannoso, caotico “sviluppo” che annichilisce la persona e, per dirla con Pier Paolo Pasolini, è altra cosa rispetto al “progresso”. Scrive e scrive John, inseguendo la bellezza perduta, la civiltà da ritrovare. Così, nel 1843 esce il primo dei cinque volumi di Pittori moderni (l’ultimo vedrà la luce nel 1860): grande arte, dice il Nostro, è quella che suggerisce alla mente il maggior numero di grandi idee. Nulla a che fare, dunque, con una concezione “utilitaristica”: bisogna imparare a “ri-vedere”, recuperando la verginità dello sguardo e il valore di un’ estetica attenta ai segni epifanici del divino, e dominata da preoccupazioni etiche, ideali, mistiche. Il cammino è iniziato ed è “iniziatico”. Nel 1849 viene pubblicata


cultura

un’altra opera-manifesto: Le sette lampade dell’architettura.

Al centro, l’immagine/idea della cattedrale gotica, come emblema di perfezione ed espressione di verità. In prospettiva, l’obbiettivo, umanistico e sociale, di rendere “bella e amabile” ogni casa di abitazione. E tutto questo nello splendore delle “lampade” antiutilitaristiche. Sette. Lo spirito di sacrificio; l’intenzione/tensione vòlta alla verità; la cifra della forza, dell’imponenza, del power, come maestà e grandezza, che dia stile agli edifici; la tutela della bellezza, ricca e varia come il creato, ed è, a un tempo, armonia, simmetria, proporzione e colore “ripreso” dalla natura; la vita che è tanto più nobile, quanto più magnanima e ricca di generosi slanci; la memoria che è costante dialogo con la tradizione; il senso alto dell’obbedienza che non è passiva, bruta sottomissione, ma riconoscimento di gerarchie, a garanzia della libertà. La libertà... Era il segno fecondo della Repubblica di San Marco. Lo sguardo di Ruskin, che ha già “penetrato”Venezia nei suoi viaggi, torna a carezzarla tra il 1851 e il 1853 con Pietre di Venezia: pietra per pietra, il Viaggiatore complice descrive i maggiori monumenti della Città, celebrandone il valore coloristico dell’architettura. Non mancano osservazioni sto-

rico-etico-politiche: la decadenza di Venezia incomincia quando entra il crisi la civiltà cristiana, quando crescono orgoglio politico, volontà di potenza personale e smania di ricchezza, quando l’artigianato e l’arte tessuta di sensibilità religiosa e umiltà di cuore sono profanati dalla “logica di mercato”.

Contro di essa occorre scendere “lancia in resta” e in ogni occasione. Così, più che mai intellettuale militante, e in polemica con gli arcigni conformisti

Per sottrarsi all’angoscia della modernità, bisogna restaurare la severa disciplina del Medioevo, così umile e artigianale del Times, Ruskin esalta la pittura di Turner e sposa la causa dei preraffaeliti che hanno il culto della natura simbolica e vedono in essa l’alfabeto divino. Dunque, per sottrarsi all’angoscia propiziata da una modernità che spazza via la bellezza, bisogna restaurare la severa disciplina del Medioevo, così umile e artigianale, ma anche così capace di guardare “oltre”. Scavando nel linguaggio segreto di una natura “esotericamente” vi-

sitata. Come fanno, per l’appunto, i preraffaeliti che attingono dai primitivi le suggestioni e i significati degli archetipi.

Ruskin ci tiene ad essere un “maestro” che parla però non solo a degli “adepti”, ma ad ogni ascoltatore pensante, e non invano. Certo, c’è da fare. Non tanto, però, producendo nuove opere, quanto conservando quelle tramandate. Il Buon Governo - ammonisce Ruskin in Economia politica dell’arte (1857) - è quello dell’affresco dipinto dal senese Ambrogio Lorenzetti e che raffigura un impegno di lavoro proiettato verso il futuro, ma anche sapientemente conservativo. Un lavoro che guarda alla durata e che è all’antitesi dell’atomismo sociale moderno, perché fondato sull’idea di organicità. Organico è un ordine in cui la creazione e il godimento di un’opera d’arte coinvolgono la comunità, perché la bellezza è il bene e il bene è di tutti; organica è la Città in cui un’autorità paterna vede e provvede a tutto ciò che occorre perché i cittadini/figli crescano armoniosamente. Teorico e critico d’arte, maestro e sapiente, Ruskin. E gran viaggiatore nella/della Bellezza. Quella dei grandi autori classici (i loro libri «durano per sempre» e se si fa

11 novembre 2009 • pagina 19

tesoro della loro lezione, si può efficacemente collaborare alla «fabbrica del sapere». Così scrive Ruskin nel 1864 in Sesamo e i gigli, un’opera che quattro decenni dopo sarà tradotta e commentata dall’esteta Marcel Proust). Quella dei grandi artisti del Medio Evo e del Rinascimento: si vedano le Mattinate fiorentine del 1885: un vero e proprio vademecum “di rango”, una vivace e puntuale rassegna degli splendori di Firenze, attraverso l’arte del 1200 e del 1300. Viaggiatore intellettuale, Ruskin, e ispirato riformatore sociale. Si leggano, a questo proposito, le 96 lettere dedicate agli operai e ai lavoratori d’Inghilterra e raccolte nel 1884 in Fors clavigera: un appello “multiplo” affinché - grazie alla Fortuna (Fors) che porta le chiavi, alla Clavis che esercita tutta la sua potenza nel serrare e proteggere, ma che è anche Clava che colpisce, chiodo battuto e ribattuto, sigillo impresso sul Destino - si provveda agli indigenti, si educhi a compiere il lavoro con gioia, ci si impegni allo sviluppo di facoltà come l’ammirazione, la speranza, l’amore. Infine, un prof. a tutti gli effetti, il nostro John. Lo sarà ad Oxford, a partire dal 1869, lo è già nel 1857 in questi Elementi del disegno che costituiscono una specie di corso per studenti, dilettanti e artisti principianti. Un libro importante nella vastissima produzione di Ruskin? Per lui, sì, visto che sostenne di avervi trasfuso il metodo di Leonardo. Mentre Monet, uno dei padri dell’impressionismo, affermò che i nove decimi dell’impalcatura teorica del nuovo movimento artistico erano contenuti in queste pagine. Dove, e questo è indiscutibile, si insegna a disegnare. Ma da cosa nasce la voglia di imparare? Se voglia è volontà, e non velleità, ecco le motivazioni che sono poi una direzione di marcia: si impara a disegnare «per poter rappresentare in maniera chiara e utile immagini di cose che non si possono descrivere a

parole»; per «aiutare la memoria, dare ad altri un’idea precisa, ottenere una percezione più vivace della bellezza del mondo naturale, conservare qualcosa che somigli a un’immagine fedele di cose splendide ma di breve durata, o che sei costretto a lasciare, comprendere le concezioni dei grandi pittori e saper apprezzare le loro opere», vedendole con i propri occhi, amandole e riuscendo a parlarne in prima persona, senza accontentarsi del punto di vista degli altri.

Per tutto questo, ci vogliono qualità “antiche”: pazienza, autodisciplina, attenzione, impegno, sacrificio. Da parte sua, il prof. spiega, consiglia, ammonisce, incoraggia, deplora. Partendo “ab ovo”: e cioè da quel che occorre quando ci si accinge all’opra. Dunque, dai tipi di pennino, dagli inchiostri, dalla carta. Ce n’è di lavoro da fare prima di impadronirsi dei segreti del colore, delle ombre, dei chiaroscuri, e di arrivare al disegno dal vero e alla composizione. Del resto, il buon lavoro artigiano è da sempre alla base dell’arte. Ma, si badi bene, non tutti hanno la “vocazione”. In ogni caso, possono imparare gli “elementi del disegno”. E fare qualche esercizio di ammirazione di fronte alla grandezza immacolata di un “primitivo”. Il che non è poco.


cultura

pagina 20 • 11 novembre 2009

also storico» - come ricordava domenica scorsa in una trasmissione televisiva un esponente della comunità musulmana milanese - o «icona pop» - come lo ha definito il regista Pedro Almodovar presentando a Roma il suo film Gli abbracci spezzati - quel che è certo, è che dopo la decisione adottata dalla Corte di Strasburgo di bandire il crocifisso dalle scuole pubbliche italiane, il simbolo della cristianità continua a fare discutere. In tanti, politici e intellettuali in testa, sono intervenuti nel dibattito che continua a infiammare gli animi, schierandosi contro o a favore del tribunale europeo. Tra questi, c’è anche il noto scrittore franco-marocchino, Tahar Ben Jelloun, secondo cui «nelle scuole pubbliche il crocifisso non deve esserci». In quelle private e cattoliche, spiega, è cosa invece diversa. «La religione deve rimanere un fatto privato: a qualsiasi latitudine e in qualsiasi mondo, sia in quello cristiano che in quello musulmano e ebraico».

«F

Un giudizio netto, quello di Ben Jelloun, che in questi giorni è a Roma per seguire, in qualità di giurato, il Medfilm Festival, la manifestazione che da ormai quindici anni celebra il cinema mediterraneo. «A mio modo di vedere - afferma l’intellettuale - deve necessariamente esistere una separazione tra Stato e Chiesa». L’Italia, prosegue polemicamente Ben Jelloun, «non è un Paese laico, è una nazione estremamente attaccata alla religione cristiana e ai suoi simboli, almeno sul piano formale». È dunque impossibile immaginare che in Italia venga varata una legge come quella introdotta in Francia, nel 2004, dal governo Raffarin che vieta i simboli religiosi nelle scuole? «Per ottenerla replica Ben Jelloun - ci sono voluti cento anni. E in Italia, di laicità dello Stato, si inizia a parlare soltanto ora». Poeta e giornalista, Ben Jelloun pubblica la sua prima opera L’aube des dalles, nel 1968, mentre nel 1971 lascia il Marocco e si trasferisce a Parigi. Vincitore di numerosi premi letterari, tra cui il Grinzane Cavour 2000 per L’albergo dei poveri (Einaudi, 1999) e il Goncourt 1987 per Stelle velate (Einaudi, 1998), da decenni Ben Jelloun si occupa di razzismo, emigrazione, periferie e islam.

L’intervista. A tu per tu con il poeta e giornalista marocchino Tahar Ben Jelloun

L’uomo che sussurra la tolleranza ai bambini di Cristiana Missori Grazie alla collaborazione con la sua primogenita, Meriem, ha firmato romanzi come Non capisco il mondo arabo (Bompiani, 2006) o Il razzismo spiegato a mia figlia (Bompiani, 1996), volume giunto alla sua quarantesima edizione, «che non sarà

centrare i suoi sforzi sui più piccoli, andando nelle scuole a parlare di razzismo. In questi giorni, anche in una grande nazione come la Francia, paladina dei diritti umani, lo stesso Ben Jelloun è stato oggetto di pesanti attacchi da parte del

zione, Eric Besson, lanciava il dibattito sull’identità francese, l’Accademia del Goncourt assegnava infatti il premio, dopo dieci anni, a una donna, per giunta “nera”. «L’identità nazionale - ribadisce Ben Jelloun - è anche questo: è nera, meticcia,

Da dieci anni lo scrittore si occupa di razzismo, emigrazione, periferie e islam, andando nelle scuole a parlare direttamente con i più piccoli: «È inutile spiegare a un adulto di 40 anni, cresciuto nel pregiudizio, cosa sia l’integrazione» l’ultima», aggiunge. Dopo gli episodi di intolleranza verificatisi negli ultimi tre anni, in Italia, fa sapere, «ho sentito il bisogno di tornare sull’argomento, lavorando a una nuova edizione - con una aggiunta di circa un centinaio di pagine di questo volume che uscirà a breve - sempre per Bompiani». Per uscire dalla spirale dell’odio nei confronti dell’altro, Ben Jelloun ha una sua teoria: puntare sui bambini, perché, dice, «è inutile spiegare a un adulto di quarant’anni, cresciuto nel pregiudizio, cosa sia la tolleranza». Ed è questa motivazione che ha spinto il poeta a con-

Alcune immagini del poeta e giornalista franco-marocchino Tahar Ben Jelloun, in questi giorni a Roma per seguire, in qualità di giurato, il Medfilm Festival, la rassegna sul cinema mediterraneo

Front National di Le Pen. Membro della giuria del premio Goncourt 2009, che lo scorso 2 novembre ha assegnato il prestigioso riconoscimento alla scrittrice franco-senegalese Marie Ndiaye, per il suo Trois femmes puissantes (Gallimard) - Ben Jelloun si era infatti rallegrato per la sua vittoria. Ironia della sorte, proprio nel giorno in cui il ministro dell’Immigra-

maghrebina, senegalese». Ed è proprio questo che ha fatto infuriare l’estrema destra transalpina «che non vuole ricevere

lezioni sull’identità nazionale da parte di un marocchino». «Scrivo dall’età di sei anni in lingua francese, parlo francese. La lingua è uno degli elementi che accomuna un popolo. E io mi sento a tutti gli effetti francese1. Se Besson chiede che i giovani cantino la Marsigliese taglia corto Ben Jelloun - deve fare in modo che i giovani immigrati di seconda generazione si sentano veramente francesi, bisogna che lo Stato e le istituzioni li trattino bene. A quel punto non fischieranno più l’inno nazionale ma lo canteranno». Negli ultimi tre anni, l’autore di Partire (Bompiani, 2007) è tornato a vivere nella sua terra natale. «In Marocco si respira un’aria nuova, di cambiamento. L’azione del sovrano, Mohammed VI, ha consentito al Regno di compiere notevoli passi avanti, sia a livello economico, che politico-democratico». A livello culturale, lamenta però Ben Jelloun, le cose non vanno per niente bene. «Lo Stato ha abbandonato il mondo degli intellettuali e il settore dell’educazione», dice. Molte iniziative, sostiene lo scrittore, sono unicamente appannaggio degli enti e degli istituti di cultura stranieri, mentre i tanti festival ospitati in Marocco durano una settimana. Spenti i riflettori, dunque, si torna a un gran silenzio.

Buchi neri che si verificano altrove nel mondo arabo. Un mondo che con la recente bocciatura del controverso ministro della Cultura egiziano, Farouk Hosni, e l’elezione a direttore generale della bulgara Irina Bokova, ha perso la grande chance di guidare l’Unesco. «Il governo egiziano sottolinea Ben Jelloun - ha sbagliato il modo di porre la sua candidatura. Farouk Hosni è un personaggio discutibile». La verità è che il mondo arabo, prosegue lo scrittore, non è pronto a guidare una simile istituzione. «Esistono individui eccezionali nel mondo arabo, ma questi vengono boicottati dai loro governi. Io, per esempio, avrei visto meglio una candidatura come quella del direttore della biblioteca alessandrina, Ismail Serag El Din, che so essere una persona retta. Se avessimo presentato un candidato inattaccabile, conclude, a quest’ora avremmo avuto la direzione dell’Organizzazione per l’Educazione, la Scienza e la Cultura».


cultura

11 novembre 2009 • pagina 21

Convegni. Le ragioni (e le conseguenze) della caduta del Muro di Berlino, in una tavola rotonda che si è svolta a Perugia

1989: il prezzo della libertà di Gabriella Mecucci

In questa pagina, alcune storiche immagini della caduta del Muro di Berlino. Lunedì scorso, a Perugia, un convegno ne ha indagato le ragioni e le conseguenze in un convegno organizzato dai socialisti liberali umbri e dalla loro leader Ada Girolamini, cui hanno partecipato fra gli altri Claudio Martelli, Ruggero Ranieri e Ferdinando Adornato

PERUGIA. Come cadde e con quali conseguenze il muro di Berlino? Secondo Claudio Martelli ci sono le cause interne: «Il dissenso, ma soprattutto il sindacato cattolico (e non solo) Solidarnosc». Quelle esterne: «Nel mondo anglosassone vincono la Thatcher e Reagan e sono soprattutto gli Usa a mettere alle corde l’Urss, prima convincendo gli europei a istallare gli euromissili (“decisivo l’appoggio del cancelliere socialdemocratico tedesco, Schmidit e del governo italiano composto da democristiani e socialisti”), e poi lanciando lo scudo spaziale. Infine ci sono le cause strategico-teoriche: Gorbaciov tenta di riformare il comunismo che è per sua natura irriformabile. È Eltsin dunque l’uomo che capisce bene l’essenza del sistema, il suo predecessore sbaglia e alla fine cerca di rimettere tutto sotto il controllo del partito, non riuscendoci». L’ex leader socialista è il primo relatore di un convegno sulla caduta del Muro che si è svolto a Perugia, in uno splendido teatrino settecentesco, affollato da centinaia di persone. Numerosi gli interventi, la conclusione di Ferdinando Adornato. Ma, ormai, l’analisi delle cause del crollo del comunismo è materia affidata agli storici. I socialisti liberali umbri e la loro leader Ada Girolamini, che hanno organizzato l’appuntamento, vogliono anche e soprattutto guardare al futuro. Claudio Martelli spiega che cosa è successo dopo la caduta del Muro. «Non è finita la storia -osserva - è finito però il mondo bipolare. Si è riunificata la Germania e, di conseguenza, l’Europa che ha visto estendere

in modo inimmaginabile i propri confini: vi sono entrati i tanti stati che hanno ritrovato la libertà con la caduta del muro». Ma un’Unione più grande non ha voluto necessariamente dire «un’Unione più forte». Anzi, «si è inceppata». L’Urss è diventata più piccola, ma la Russia è rimasto un Paese estesissimo, popolosissimo e assai ricco di materie prime: Putin, dopo una lunga transizione, «l’ha fatto approdare su sponde autoritarie». Ma - secondo Martelli - «nel lungo periodo le conseguenze indirette della caduta del muro sono di grandissima rilevanza: la crescita economica straordinaria dell’India e soprattutto della Cina, caratterizzata dal capitalismo senza libertà, e la grande questione islamista, un nuovo estremismo molto esteso nel quale rientra anche un feroce terrorismo». «Tutti gli sconvolgimenti che sono avvenuti pongono - sempre secondo Martelli - agli europei un problema di grande rilevanza: la loro politica deve procedere di pari passo con quella Usa (come è accaduto dalla fine della seconda guerra mondiale sino ad oggi), oppure le loro scelte devono essere separate, non opposte natu-

ralmente, da quelle americane?». Secondo Ruggero Ranieri, studioso dei problemi dell’economia europea, «il crollo del Muro nel breve periodo provocò un impoverimento di tutti i Paesi satelliti. Calò spaventosamente il Pil e i primi che tornarono ai livelli del pre caduta furono, nel 1997, i polacchi». Quanto all’Europa «ha mandato un fiume di danaro a Est e ha accolto nell’Unione molti Paesi dell’ex blocco diVarsavia, ma gli aiuti devono proseguire e

ra parecchi in giro per il mondo. Qual è l’antidoto? Mettere sempre e prima di tutto al centro «la libertà, la vita, e la dignità della persona», risponde Adornato. Niente può essere considerato più importante di questi valori, «ogni volta che vengono abbandonati, l’umanità torna a rischiare». «L’altra faccia della medaglia della libertà - seconda riflessione suggerita - è la responsabilità: Kohl decise la riunificazione

Al centro del dibattito, la transizione dalla pace artificiale della Guerra fredda ai rischi della società aperta, con cui dobbiamo convivere incrementarsi, se non si vuole che molti di quei luoghi non sprofondino nella miseria e nel disordine». Decisamente autocritico l’intervento di Alberto Stramaccioni, leader provinciale del Pd, che guarda anche ai fatti di casa nostra: «L’incapacità della sinistra di rispondere adeguatamente ai problemi che poneva la caduta del Muro, la sua perdita di rigore e di immagine, accanto alla crisi morale dei partiti di governo che ha portato alla loro scomparsa, è alla base della vittoria di Berlusconi».Tutte proiettate verso il futuro, le conclusioni di Ferdinando Adornato, che suggerisce sei riflessioni. La fine del comunismo non esclude la possibilità che si possa ricadere nei totalitarismi, anzi ce ne sono anco-

della Germania non sulla base dei sondaggi, ma essendo ben cosciente che probabilmente la maggioranza dei tedeschi sia a Ovest che a Est non l’avrebbe voluta. Eppure, si prese la responsabilità di scegliere».

La fine del comunismo - per un paradosso o un capriccio della storia - «portò con sé anche la perdita di presa della socialdemocrazia che pure si era sempre battuta contro i regimi sovietici». «Erano già caduti - osserva Adornato - due presupposti che erano alla base, pur tra le tante differenze, sia del comunismo che della socialdemocrazia: la

centralità della classe operaia (ormai era diventata una minoranza mentre avanzavano nuovi lavori e nuove professioni), e l’idea che le società si potessero cambiare solo dall’alto, dalle postazioni del potere - un potere che Lenin voleva strappare con la violenza, i riformisti invece ne ammettevano la conquista solo col metodo democratico - mentre è molto importante la battaglia culturale, l’agire non solo verticalmente ma anche orizzontalmente». Se la socialdemocrazia subì nell’89 un duro colpo, resta comunque ancora proponibile una delle tante anime del socialismo: il socialismo liberale. La quarta riflessione riguarda il fatto che - durante la guerra fredda - «l’equilibrio del terrore fece tacere le armi: vivemmo un lungo periodo di pace senza libertà, mentre la libertà può creare conflitti. Occorre dunque che impariamo a viverla e a gestirla» osserva Adornato, che va oltre: «Abbiamo lottato contro il totalitarismi, quello nazista e quello sovietico, ma oggi non ci impegniamo più ad abbattere i tanti muri che ancora esistono, quello di Pechino, ad esempio, o quello coreano, o quello birmano». L’ultima, la sesta riflessione, riguarda l’Italia: «La necessità di costruire di nuovo dei grandi partiti, due, tre, o quattro. Il Pci decise di farsi solo un lifting e perse una buona occasione; Berlusconi è salito sul predellino e ha perso anche lui una buona occasione. Ma delle forze politiche organizzate e democratiche c’è bisogno, così come c’è bisogno di ricostruire una cultura politica». Ed è proprio questa la grande sfida per chiudere la transizione italiana.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “New York Times” del 08/11/2009

Heil Heidegger! di Patricia Cohen er decenni il filosofo tedesco Martin Heidegger è stato al centro di un dibattito appassionato. La sua critica al pensiero occidentale e alla tecnologia, penetrando così profondamente nell’architettura, psicologia e teoria letteraria, ha ispirato alcuni dei più importanti movimenti intellettuali del Ventesimo secolo. E questo al netto del fatto che fosse un fervente nazista. Notizie risapute. Ma sta destando grande scalpore l’imminente uscita di un saggio di Emmanuel Faye in Gran Bretagna che sostiene l’impossibilità di separare l’uomo dal suo pensiero. Portando a galla una serie di nuovi indizi, Faye sostiene che le idee fasciste e razziste di Heidegger, filo conduttore e cemento dei suoi teoremi, sono così evidenti da non poterlo più mantenere nel pantheon della filosofia mondiale. Di più: non sarebbe proprio un filosofo. E a prova di questo Faye dichiara che il lavoro di Heidegger deve essere riesaminato anche in virtù di quelle frasi sinistre, finora tollerate, che invece sono uno dei semi dell’odio contemporaneo, come «Il nazismo è stato la reale incarnazione dello sterminio dei popoli». Pubblicato per la prima volta in Francia, il libro Heidegger: the introduction of Nazism into Philosophy invita i professori di fisolofia a trattare gli scritti di Heidegger come discorsi inneggianti all’odio. Allo steso modo, chiede alle biblioteche e alle librerie di smetterla di catalogare le opere dell’autore tedesco sotto la voce“filosofia”e includerle invece sotto la voce “storia del nazismo”. Misure necessarie, secondo l’autore, a evitare il continuo diffondersi dell’«odioso pensiero» di Heidegger, fra cui l’esaltazione dello stato sopra l’inidviduo, l’impossibilità di una morale, l’anti-umanesimo e il concetto di razza pura. Il libro di Faye è l’attacco più radicale mai avan-

P

zato contro Heidegger (1889-1976) ed è destinato non solo a fare scalpore, ma a spronare filosofi, centri culturali e case editrici a riconsiderare l’intera sua opera. In Francia sta portando le università a cassare i suoi testi per le lauree di secondo livello. Faye, professore all’Università di Parigi, non vuole solo far depennare Heidegger dalla lista dei filosofi, ma anche sfidare i suoi colleghi a riconsiderare i veri propositi della filosofia e la sua relazione imprescindibile con l’etica. E sotto questa luce, l’opera di Heidegger non può essere avallata ulteriormente. Richard Wolin, autore di molti libri su Heidegger e un attento lettore del libro di Faye, ha dichiarato di non essere convinto che il pensiero di Heidegger fosse completamente alterato dal nazismo come sostiene Faye, ma riconosce quanto le sue idee si siano pericolosamente diffuse.

Ron Rosenbaum, autore di Spiegare Hitler ha esteso questa osservazione addirittura ad Hannah Arendt, la filosofa ebrea tedesca, ex studentessa e amante di Heidegger. Citando un recente saggio dello storico Bernard Wasserstein, Rosenbaum ha scritto in slate.com che il pensiero della Arendt sull’olocausto e la sua famosa frase «la banalità del male» erano contaminati da Heidegger e da altri scritti anti-semiti. Anche Richard Rorty, influente filosofo statunitense, è sceso in campo al riguardo, scrivendo sul New York Times: «Non si può leggere nessuno degli importanti filosofi moderni senza prendere in considerazione il pensiero di Heidegger. Ma questo non significa che la puzza di fumo dei crematori possa svanire dalle loro pagine». Secondo Faye la filosofia di Heidegger non può esse-

re separata dalla sua politica, così come il talento poetico di T.S. Eliot o la tecnica cinematografica di D.W. Griffith non possono essere valutate indipendentemente dalle loro opinioni. Dunuqe ad essere in discussione non è la collocazione di Heidegger nel pantheon intellettuale del Ventesimo secolo, ma la sua appartenenza alla scuola filosfica mondiale. Faye sostiene che senza una vera comprensione del terreno ideologico nazional socialista su cui si basa l’opera di Heidegger, le persone potrebbero essere - ancora oggi - tratte in inganno e prendere derive pericolose di pensiero. «Perpetrare l’insegnamento di Heidegger - spiega Faye - senza puntare il dito sulla sua appartenenza al nazismo, è come mostrare un video di magnifici fuochi d’artificio a un bambino senza avvisarlo che da lì a poco potrebbe cadergli sulla testa».

L’IMMAGINE

Norme in favore dei lavoratori che assistono famigliari gravemente disabili Per fortuna la ragioneria generale dello Stato ha rimesso a posto le cose. Era stato calendarizzato in assemblea il testo unificato recante “norme in favore dei lavoratori che assistono famigliari gravemente disabili” che introduce, per questi soggetti, un pensionamento anticipato a 53 anni, a fronte di determinati requisiti contributivi e di assistenza. Oltre al pensionamento anticipato, sono previste ulteriori agevolazioni contributive figurative. Mentre la commissione referente aveva stimato un onere (peraltro privo di copertura) di 712 milioni di euro a partire dal 2010, la ragioneria, nella relazione tecnica richiesta dalla commissione Bilancio, ha stimato un onere di 2,2 miliardi nel prossimo anno e di 1,5 miliardi annui a regime. La materia dovrà essere riconsiderata nel suo complesso, secondo criteri e requisiti più rigorosi e sostenibili e sulla base di una copertura finanziaria effettiva.

Giuliano

BERLUSCONI PROPONE UNA COSTITUZIONE TAROCCATA Un tema importante come quello della forma dello Stato, se lo propone Berlusconi, ha inevitabilmente il sapore dell’ennesima legge ad personam, e si finisce per rendere più difficile un confronto sereno sull’argomento. Quando il premier dice di preferire che «il titolare del potere esecutivo venga scelto direttamente dal popolo», sembra preparare l’autocandidatura e provoca così un irrigidimento pregiudiziale nei suoi possibili interlocutori. Quello che è inimmaginabile è continuare a cambiare la Costituzione a pezzi, fuori da ogni disegno generale di pesi e contrappesi che dia robuste garanzie democratiche. Alla fine, avremo non una Costituzione riformata, ma taroccata.

Nencini

CLAUDE LEVI-STRAUSS È morto alcuni giorni fa Claude Levi-Strauss, l’antropologo che rivoluzionò il concetto di famiglia. È opinione diffusa che la famiglia, e il matrimonio come supporto legale, sia un’istituzione naturale. LeviStrauss confutò questa idea, dimostrando che la famiglia non è né un fatto naturale né universale, poiché se così fosse la sua definizione non dovrebbe variare nel tempo e nello spazio: la certezza dell’istituzione famiglia, cioè dell’insieme di un uomo, di una donna e dei relativi figli, formalizzata dal matrimonio, dovrebbe essere condivisa da tutto il gruppo umano come legge di natura che escluda la possibilità che ve ne siano altre. Gli studi effettuati su diverse popolazioni dimostrarono il contrario. Insomma, niente è naturale, necessario, biologicamente fondato nell’istituzio-

Gonne in gabbia Una modella ha infilato per sbaglio una gabbia per cardellini? No, questa è una gonna, presentata a San Paolo in Brasile. Forse un po’ scomoda da gestire ma non è l’unica. Lo stravagante capo d’abbigliamento dello stilista brasiliano Alexandre Herchovitch è in buona compagnia e va ad aggiungersi alla nutrita schiera di sottane-scultura disegnate da alcuni suoi colleghi

ne familiare. In alcune popolazioni esiste il matrimonio legale fra donne! La famiglia è un fatto culturale non naturale.

P.M.

STRATEGIE CONFUSE La politica internazionale è la partita più scottante dello scac-

chiere mondiale, che ha mietuto la maggior parte di vittime illustri nella storia politica. Ora è il turno di Obama, da molti accusato per aver fallito la gestione militare in Afghanistan. In realtà agli Americani non piacciono le innovazioni di natura etica e sociale che ha introdotto nella vita

americana. Obama è serio e pieno di buone intenzioni, ma alla fine i risultati dicono che la gestione Bush ha realizzato la libertà in Iraq, mentre quella di Obama sta creando un problema in Afghanistan caratterizzato da strategie confuse.

Bruna Rosso


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Sarò scemo come una iena “Non sarò scemo come l’usignolo, che senza birra fa le ore piccole da solo, producendo rumori col naso moccioso”. Una citazione che trascrivo senza nessuna ragione E non mi pare nemmeno appropriata. Perché invece io sarò scemo come una iena, che fa le ore piccole con pena, producendo rumori con il fondoschiena. Tutto questo stona con una giornata come oggi. Dovrei scrivere delle pagine solari, immaginando nelle parole per te una distesa verde e blu di campagna gallese dove le mandrie, come vuole la convenzione, «mugghiano», dove gli agnelli «zampettano», e i ruscelli cristallini «sussurrano» o «scorrono» secondo necessità di rima. Questo pomeriggio andrò a passeggiare e forse a notte fonda, quando ti scriverò di nuovo, la bellezza quasi estiva sarà penetrata in me così profondamente che tutte le smorfie e le affettate introspezioni gastriche delle ultime pagine saranno solo un’eco che rifiuta di «risuonare» alle tue orecchie o un odore che rifiuta di spandersi sino al tuo naso. Ma, prima che io mi avvii solitario e almeno due volte più pallido e malconcio del solito - praticamente non ho peso, a questo punto sono 50 chili - verso le mie baie di Gower, lasciami dire che ti desidero forte. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson

ACCADDE OGGI

TEST ANTIDROGA PARLAMENTARI: “CHISENEFREGA” L’iniziativa del nostrano zar antidroga Carlo Giovanardi sembra riscuotere il successo che si merita. Una classe politica screditata, che fa strage dello Stato di diritto e della legalità, cerca ansiosamente di recuperare una parvenza di dignità davanti ai cittadini. Ma davvero presentandosi con un bel attestato di “urina senza droga”, qualcuno immagina di rendere appetibile questa partitocrazia? O è solo un’inutile operazione demagogica al servizio di un moralismo ipocrita e bigotto? Chisenefrega se il sen. tizio o l’on. caio non si sono fatti una striscia di coca o una canna se poi in Parlamento sono straniati dalla realtà che li circonda! E, invece che fare leggi al servizio della società che chiede diritti, approvano divieti e ostacoli a vivere, amare e morire dignitosamente. Chisenefrega se Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, che la notte in cui è morta Eluana Englaro sembravano in preda a delirio cognitivo e motorio, non avevano usato stupefacenti o consumato alcolici, basta riguardarsi quelle scene per capire quale sia la lucidità che possa interessare ai cittadini. Risultare positivi o negativi a quel test antidroga non comporterà nessuna conseguenza penale e/o amministrativa, neppure il test alcolemico potrebbe far decadere un parlamentare o un ministro. Il contrario di quanto accadrebbe al posto di lavoro di un autista di autobus beccato positivo perché due sere prima si è fatto

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

11 novembre 1975 Viene approvata la legge n. 584: “Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico” 1986 Sperry Rand e Burroughs si fondono e formano la Unisys, che diventa la seconda azienda di informatica del mondo 1989 Viene fondata l’Iniziativa Quadrilaterale 1992 La Chiesa d’Inghilterra vota per permettere alle donne di diventare sacerdoti 2000 Disastro al Kitzsteinhorn in Austria 2006 Lanciata la PlayStation 3 in Giappone 2007 Disordini a Milano, Bergamo e Roma in seguito all’uccisione del tifoso laziale Gabriele Sandri da parte della polizia stradale: prese di mira le questure e le forze dell’ordine 2007 Chiusura dei lavori della costituente del movimento politico La Destra di Francesco Storace; vengono votati statuto, membri del direttivo nazionale, documento programmatico. Nasce ufficialmente La Destra

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

una canna con gli amici. E allora a che serve? Qualcuno mai penserà che la classe politica è migliore del resto della società? L’operazione di rifarsi il trucco potrà appassionare qualche cronista di politica parlamentare, ma non certo i cittadini italiani che forse si aspettano qualcosa di più di un trucco dalle istituzioni.

Donatella P.

NARCOTEST Lapilli d’informazione generalizzata schizzano veloci sul nostro Parlamento per quanto attiene alla questione del narco test. Effettivamente non si può ritenere utile un provvedimento del genere se non si usa l’elemento sorpresa. Anche nelle aziende, quando si devono fare delle ispezioni di primo ordine, si giunge nell’area da auditare quando uno meno se lo aspetta, altrimenti è facile nascondere, occultare, prevenire in maniera opportuna. Mi auguro che la cosa non darà risultati raccapriccianti, ma quando tempo fa si disse che nel cielo di Roma c’era tanta cocaina, si voleva dire molto e di più. La gente comune parla molto di queste cose perché addebita ai nostri politici tutti i mali, e afferma che all’estero facciamo figuracce ogni giorno. Occorrerebbe dire inoltre che i semi della discordia non partono da lontano ma sono proprio in mezzo a noi, o meglio in quella fetta politica che vive solo di critiche gratuite e rema contro gli interessi della nazione.

IL FISCO E GLI ITALIANI (II PARTE) Il vecchio redditometro è una misura utilizzata più di dieci anni fa e, poi, abbandonata per fare posto agli attuali studi di settore. Il redditometro permette di effettuare dei controlli efficaci, poiché si confrontano la capacità di spesa e il tenore di vita del contribuente con la sua dichiarazione dei redditi.In sostanza si presuppone che, per sostenere certe spese, le entrate da dichiarare al fisco non possano essere inferiori a determinati importi. È evidente che, essendo una comparazione ad personam eventuali risultati non congrui o marcatamente dissonanti, balzano agli occhi di chi è abilitato al controllo. Il redditometro si applica a tutti coloro che effettuano le dichiarazioni di reddito senza distinzione di attività o di categoria di appartenenza. Sia un lavoratore dipendente che uno autonomo, può essere “colpito” dal controllo e, se dalla dichiarazione personale si evince che “i conti non tornano”, si innesca un processo automatico di verifica. Sembra che questa proposta di riscoprire il redditometro abbia trovato il consenso di tutti gli addetti ai lavori. Ma ciò che è auspicabile, al di là delle tecniche fiscali migliorative, è che il sistema tributario del nostro Paese possa cambiare al punto che l’imposizione sia più leggera e, quindi, più sopportabile. Anche il sistema sanzionatorio dovrebbe prevedere multe severe per coloro che si ostinano a fare i “furbi”. In definitiva, un sistema fiscale nuovo ed equo permetterebbe a tutti i cittadini di sentirsi meno vessati e spremuti come limoni, e darebbe anche l’idea di essere tutti uguali e uniti all’interno di questo nostro straordinario Paese. Francesco Facchini C I R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I BA R I

APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 VENERDÌ 13 E SABATO 14 NAPOLI - MOSTRA D’OLTREMARE BARI - DOMINA CONFERENCE PALACE Conferenze programmatiche regionali “Nasce dal Centro l’Italia di domani”. Ferdinando Adornato interviene venerdì 13, ore 17, a Napoli e sabato 14, ore 13, a Bari. Intervengono inoltre: Ciriaco De Mita e Savino Pezzotta. Conclude: Pier Ferdinando Casini. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Bartolo Caserta

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.