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Non scoprire la debolezza è l’artificio della forza Emily Dickinson

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QUOTIDIANO • VENERDÌ 13 NOVEMBRE 2009

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Comincia, tra mille proteste, l’iter del nuovo «mini-lodo» che prevede un massimo di due anni per ogni grado di giudizio

Berlusconi è nel pallone Pensa a ripristinare l’immunità, non esclude addirittura un’amnistia. Intanto riesce solo a mandare al Senato il “processo breve”(incostituzionale?). Il premier non sa più cosa fare ANTONIO BALDASSARRE

di Errico Novi

«Anche questa legge vìola la Costituzione»

ROMA. C’è chi la defi-

È l’uomo che compare in tutti gli errori di Berlusconi, dal caso escort ai lodi incostituzionali: è Niccolò Ghedini, il consigliere prediletto del premier.

nisce la crisi dell’impero; chi più modestamente chiama in causa la fine della Seconda Repubblica; chi, ancora, dice che Berlusconi ormai accetta solo cattivi consigli. Di sicuro, il premier non attraversa il suo periodo di miglior forma. Non solo perché sempre e comunque appare rabbioso e scuro in volto, ma soprattutto perché non sa più che cosa fare: pensa di ripristinare l’immunità, ma vagheggia un’amnistia. Dopo di che si accontenta di un “processo breve” in forte odore di incostituzionalità. E anche sul versante tasse, ha tirato fuori solo un coniglio dal cilindro: il differimento del pagamento di novembre. Come dire: il governo del «vorrei ma non posso».

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di Ruggiero Capone Antonio Baldassarre, presidente emerito della Consulta, è durissimo con il processo breve: «Una norma assolutamente incostituzionale». a pagina 3

POLITICA E PROCESSI

Ghedinismo, malattia del berlusconismo di Riccardo Paradisi

Il Corriere accende la luce e denuncia il fallimento della Seconda Repubblica Finalmente lo dice anche il più grande giornale italiano: sia Prodi sia il Cavaliere hanno buttato via 15 anni di storia italiana. Forse qualcosa sta cambiando nella classe dirigente (mentre De Benedetti lascia il Pd…) di Franco Insardà inalmente il Corriere della Sera di ieri, per la penna di Giovanni Sartori, ha cominciato a dirlo con chiarezza: la Seconda Repubblica è fallita, perché sono falliti il

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Il presidente della Cei chiede che venga smentita la Corte dei diritti umani

«Europa, difendi il crocefisso»

“progetto Italia” di Prodi e il “progetto Italia” di Berlusconi. L’analisi del politologo coincide con quella di liberal da noi ribadita in tante occasioni. segue a pagina 6

Obama avvisa Karzai «Il nostro aiuto non sarà eterno» La messa in guardia dopo il Consiglio di guerra sull’Afghanistan

Appello di Bagnasco alla Ue: «Correggete quella sentenza» di Massimo Fazzi

Etica e democrazia dopo il 1989

Angelo Bagnasco, il presidente della Conferenza episcopale italiana, al termine dell’assemblea dei vescovi ha lanciato un appello alle istituzioni europee perché intervengano a correggere la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ha condannato l’Italia a togliere i crocefissi dalle scuole: «È una sentenza sbagliata. Occorre una riflessione seria: chi può, la corregga».

L’11 ottobre scorso, su invito dell’ex Presidente della Repubblica Ceca Václav Havel, ho tenuto un discorso nell’ambito del Forum 2000, conferenza organizzata annualmente a Praga per tastare il polso al processo di globalizzazione e per porne in risalto tanto gli aspetti positivi quanto i pericoli derivanti da un mondo sempre più interconnesso. Il tema di quest’anno era “La Democrazia e la Libertà nel mondo multipolare”. In sintesi, la democrazia dopo il 1989.

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

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La laicità non è amorale di Michael Novak

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

225 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Trichet lancia la grande riforma del lavoro «La ripresa ci chiede di cambiare radicalmente le regole del mercato» dice il capo della Bce D’Amato • pagina 14

IN REDAZIONE ALLE ORE

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Confusione/1. Non è più solo l’opposizione a puntare il dito su un presidente del Consiglio che continua a girare a vuoto

L’uomo che non ride più

L’immunità, magari un’amnistia. Intanto s’accontenta del processo breve in odore di incostituzionalità. Ormai il premier è nel pallone di Errico Novi

ROMA. Basterà? Chi può dirlo. Adesso in Senato Pdl e Lega sembrano aver raggiunto il massimo compromesso possibile: il ddl sul processo breve a cui Maurizio Gasparri ha accettato di prestare il proprio nome è depositato, da ieri, a Palazzo Madama. Contiene tutte le previsioni concordate da Berlusconi e Fini, compresa l’esclusione degli immigrati clandestini dai benefici della norma, come preteso dalla Lega. C’è insomma tutto quello che si può ragionevolmente pensare di inserire in uno scudo penale, visti gli attuali equilibri nella maggioranza. Eppure non è detto che basti. Non è detto, cioè, che sia sufficiente a placare le preoccupazioni del premier. È per evitargli una condanna sul caso Mills – con conseguente interdizione dai pubblici uffici, minaccia del carcere e fine certa della carriera politica – che

persino la Lega si è decisa a sottoscrivere il testo. Il presidente del Consiglio vuole di più: chiede uno scudo che lo metta al riparo da qualsiasi rischio successivo, da ogni possibile iniziativa delle Procure. Finché non avrà ottenuto questo

forse impossibile salvacondotto universale, non si darà pace.

Basterà o no, la legge subito contestata dall’Anm, per non dire dell’Italia dei valori, e capace di far arrabbiare così tanto la presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro da indurla a sbattere violentemente contro il muro i fogli con l’ar-

ticolato durante la conferenza stampa? Il quesito non ha a che vedere semplicemente con l’umore di Berlusconi. Se non altro perché dalla reazione del Cavaliere dipende anche lo sblocco delle trattative sulle Regionali, e forse dell’intera iniziativa politica della maggioranza. Perché il premier, stavolta, ha assunto un atteggiamen-

Sulle tasse il governo trova il jolly del differimento Non potendo tagliere le tasse, il governo cerca di confondere le acque proponendo ai cittadini una dilazione nel pagamento. Il consiglio dei ministri, infatti, ieri ha dato il via libera alla riduzione degli acconti Ires, Irap e Irpef. Ma, attenzione, non si tratta di un taglio delle aliquote, bensì di un differimento: anziché pagare a novembre pagheremo a giugno. Nel senso che ora pagheremo una quota minore di anticipo delle tasse del 2010 ma ciò che non paghiamo ora lo pagheremo comunque al momento del saldo, a giugno prossimo. Non a caso il Consiglio dei Ministri ha chiamto il decreto legge «Disposizioni in tema di differimento del versamento dell’acconto dell’Ires e dell’Irap». La norma riguarda le piccole e medie imprese individuali e le societa di persone. Il prov-

to intransigente: o viene eliminata ogni possibile ombra dal suo cammino futuro o quel cammino, il suo e quello del governo, non riprende.Tutto è fermo, non è detto che la situazione cambi a partire da stamattina, da quando cioè gli alleati, Umberto Bossi in testa, chiederanno se l’ennesima concessione alle alchimie di Niccolò Ghedini può schiudere le porte al negoziato sulle candidature.

vedimento prevede un differimento da 3,5 miliardi di euro. Il decreto legge riguarderebbe anche le famiglie dal momento che nel testo sarebbe previsto un calo dell’acconto per l’Irpef, con l’obiettivo di lasciare, per il momento, più soldi in tasca ai cittadini. La decisione del Cdm ha incassato una tiepida accoglienza da parte del presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, secondo la quale la riduzione dell’acconto di novembre «in termini di liquidità può essere un aiuto ma con una platea così ampia la dimensione è minima. In materia fiscale serve soprattutto una riforma strutturale che abbassi la pressione». Sarà interessante vedere, ora, se il governo pubblicizzerà il suo decreto come un taglio delle tasse o – come è nei fatti – come un semplice differimento.

Dall’interno del Pdl giungono rappresentazioni di un Cavaliere «molto Fermaagitato». mente deciso a non dare il proprio via libera ad alcunché se non avrà prima rassicurazioni ampie rispetto all’impotenza presente e futura dei pm.Tanto che alcune fonti di provenienza forzista parlano di un «Berlusconi in sciopero». Proprio così: «Berlusconi ha deciso di fare lo sciopero della politica. Se non ottiene le


prima pagina garanzie richieste, lo sciopero prosegue ad oltranza». A riprova che il ddl Gasparri, firmato appunto da tutto il direttivo del Pdl al Senato e dai capigruppo della Lega Federico Bricolo e Sandro Mazzatorta, è solo «il primo passo avanti» agli occhi del premier, può essere citato l’appello di Fabrizio Cicchitto: il presidente dei deputati pidiel-

Eppure secondo fonti del Pdl «Silvio continuerà il suo “sciopero della politica” finché non vedrà depotenziati i pm che lo perseguitano» lini invita infatti a «fare una riflessione sul ripristino dell’immunità parlamentare». Margherita Boniver ha già depositato un testo, ma è chiaro che per arrivare a elementi concreti servirebbe il via libera del Carroccio. E sull’argomento il Senatùr non vuole proprio sentirci, convinto com’è che già il processo breve costerà voti al suo partito. Oltretutto lo stesso Gasparri ribatte subito al suo omologo di Montecitorio che «l’immunità non è nel programma». Eppure quella di Cicchitto non è una battuta estemporanea. Circolano con insistenza, infatti, voci di un lavorio per arrivare a un «lodo Alfano costituzionale». A uno scudo per un certo numero di cariche dello Stato approvato in base all’articolo 138: legge costituzionale con doppio passaggio in entrambi i rami del Palamento.

Si tratta solo di un’idea, lontana dal divenire un atto legislativo concreto. Il fatto stesso che l’ipotesi circoli è d’altronde una prova inconfutabile: il processo breve a Berlusconi non basta. Non perché sussistano rischi di condanne per il processo Mills, che anzi con lo schema che fissa a due anni il tempo massimo per il primo grado (a partire dalla data del rinvio a giudizio) risulterebbe prescritto da tempo. Il punto è che dietro l’angolo si allunga la sinistra ombra del pm Ingroia, dell’intera Procura di Palermo, persino dei magistrati di Firenze: tutti pronti a spostare sul Cavaliere il carico di dubbi sul patto fra Stato e mafia, sulle stragi dei primi anni Novanta e su papelli di ogni specie. E allora Berlusconi per ora non si decide a proclamare la revoca dello sciopero. «In questo», osservano ancora le fonti interne, «il presidente è assai incoraggiato da una parte del Pdl, da alcuni dirigenti, in particolare da Denis Verdini, che gli suggeriscono di non fermarsi, e di considerare anche l’ipotesi delle elezioni anticipate. Qualcuno invece dovrebbe spiegare a Berlusconi che non può ragionare come un padrone delle

ferriere dell’Ottocento. Lui ha ancora quel tipo di approccio, nei confronti della politica, ma chi ha gradi altri nel Pdl dovrebbe aiutarlo a cambiare atteggiamento».

La metafora è ricca di sorprese: «Nel frattempo c’è stato lo Statuto dei lavoratori, la nascita del sindacato: non siamo più nell’Ottocento, e invece Berlusconi pensa di poter dire a ciascuno dei suoi parlamentari, da un giorno all’altro, ‘basta, io vi licenzio’». Ecco, questa interpretazione dei fatti è interessante, perché Berlusconi ne viene fuori come il padrone delle ferriere che si mette in sciopero. Un ossimoro. E una pericolosa sopravvalutazione, giacché «fuor di metafora, lo Statuto dei lavoratori è la Costituzione, i sindacati sono i partiti alleati o comunque le componenti non allineate del Pdl». Secondo un’altra analisi che pure nel Pdl circola, il presidente del Consiglio sarebbe fortemente incupito per un insieme di circostanze, non tutte legate alla politica o al rapporto con i magistrati. C’è chi tira in ballo i dispiaceri personali, soprattutto i lutti subiti negli ultimi due anni, ossia la scomparsa della madre e della sorella. Sono fattori che avrebbero un forte peso nell’atteggiamento di chiusura che segna da qualche tempo il premier. La politica oltretutto sa essere crudele: nel senso che Berlusconi non avrà nemmeno il tempo di interrogarsi troppo sulle proprie perplessità che già dovrà fare i conti con quelle degli altri. Con il Pd che non esita a denunciare subito l’incostituzionalità del ddl Gasparri, ma anche con critiche interne come quella di Giulia

Circolano voci di un presidente del Consiglio ancora molto agitato: «Vorrebbe “licenziare” tutti e tornare alle urne» Bongiorno: la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio e fiduciaria di Gianfranco Fini in materia non nasconde il proprio «stupore per la scelta di escludere il reato di clandestinità» dall’accorciamento dei tempi. Rientra nei benefici la maggior parte dei reati con pena massima inferiore a dieci anni, tranne quelli legati a mafia, terrorismo, violenza sessuale e poche altre categorie. Il taglio si estende anche a reati come quelli contestati nel processo Parmalat, torna a ricordare l’Anm. Quello che Berlusconi considera uno scudo troppo piccolo potrebbe in poco più di un anno svanire nel nulla, sotto i colpi dell’Alta Corte.

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L’opinione dell’ex presidente della Consulta sul ddl della maggioranza

Una legge per i corrotti che punisce i più deboli

Baldassarre: «Il processo breve non rispetta la Carta e lede i diritti dell’uomo, violando il principio di uguaglianza» di Ruggiero Capone

ROMA. Il presidente emerito della Consulta, Antonio Baldassarre, avverte che la proposta di legge sul processo breve è «non poco a rischio d’incostituzionalità». Oltre che per certi tratti lesiva dei diritti dell’uomo. Un simile provvedimento considererebbe il “barbone” che ruba una mela più pericoloso d’un banchiere dedito all’usura. Gli autori della bancarotta Parmalat, delle scalate bancarie e dell’usura in varie zone del Mezzogiorno risulterebbero meno colpevoli dell’extracomunitario colto a rubare una bottiglietta d’acqua minerale. «Siamo al paradosso», commenta Baldassarre, docente di diritto già presidente della Corte Costituzionale proprio nel difficile periodo in cui venne cancellata l’immunità parlamentare. Ritiene adeguata la proposta di legge sul processo breve, come risposta alle sollecitazioni della Ue? La Corte costituzionale potrebbe benissimo obiettare che non c’è proporzione, parità di trattamento tra i reati. Vediamo il caso, tutto sommato lieve, relativo all’incendio che viene escluso nella prescrizione, mentre viene inclusa la corruzione. Difficilmente passerà al vaglio. Si viola il principio dell’uguaglianza. Gli unici processi che potranno essere portati a termine saranno quelli nei confronti dei recidivi, o quelli relativi ai fatti indicati in un elenco di eccezioni. Il che pone forti dubbi di costituzionalità. Poi non si può fare un discrimine a seconda del grado di giudizio. La prescrizione deve valere per ogni grado. A parte le altre riserve, potrebbero essere sollevati dubbi anche per l’eventuale entrata in vigore d’un provvedimento con simili contenuti, anche perché non è affatto chiaro se andrebbero inclusi i processi dopo l’approvazione della legge. Rimane che non ci può essere un discrimine nei gradi di giudizio. Ma non è questa la sola violazione del principio di uguaglianza. L’altro aspetto è aver limitato l’applicazione tra i processi pendenti soltanto a quelli che sono in primo grado. O si applica solo ai processi futuri o si deve applicare a tutti i processi in corso: diversamente mi pare incostituzionale dal punto di vista della parità di trattamento. E l’ipotesi di applicare la norma del limite massimo di 6 anni anche ai processi in corso è costituzionalmente solida? Può valere per i reati bagatellari, roba di

poco conto. Ma è impensabile che si possa chiudere rigidamente un grado di giudizio in un biennio per reati come stragi, o per altri reati che interessano indagini su interessi economico-finanziari di mafiosi. Sempre dal punto di vista della legittimità costituzionale, cosa pensa dell’ipotesi di circoscrivere il beneficio del processo breve solo agli incensurati? L’essere incensurato potrebbe esser l’attenuante, ma dovrebbe prevedere un corridoio diverso, non certo una diparità di trattamento. Anche perché l’autore di reati lievi è più facile che risulti pluripregiudicato rispetto ad un esperto in reati finanziari legato ad organizzazioni che operano in più Paesi. Il provvedimento viola il principio di uguaglianza, soprattutto perché si applica a reati gravissimi, come quelli di corruzione e concussione, mentre tra quelli esclusi si confermano i lievi. E la possibilità di escludere gli immigrati clandestini? È sicuramente incostituzionale, oltre che in palese violazione dei diritti dell’uomo. E mi auguro certi percorsi rimangano solo ipotetici. Il provvedimento viola il principio di uguaglianza. Non è una cosa seria, visto che stiamo parlando di leggi e non di regali. È difficile dubitare che il ddl non sia incostituzionale sotto il profilo della parità di trattamento dei cittadini davanti alla legge. Non è accettabile che l’extracomunitario colto a rubare una bottiglia d’acqua paghi più dellocale l’amministratore corrotto o del banchiere usuraio. Tutto potrebbe essere evitato con il ripristino dell’immunità parlamentare. È un’eventualità che ritiene utile? L’immunità con legge costituzionale è percorribile. Di tutto quello che s’è detto rimane la via che incontrerebbe meno eccezioni. Ricordo d’aver vissuto personalmente, come presidente della Corte, il periodo in cui venne abolita e un reinserimento nel rispetto dei principi supremi d’uguaglianza è possibile. Prima del ’93, era più facile che un politico eletto potesse non dare conto. Oggi i politici sono diversi perché diverso è il sistema. E poi c’è sempre la possibilità del ricorso alla Corte costituzionale. Se la Camera negasse una autorizzazione, per conflitto d’attribuzione, potrebbe essere annullata la delibera parlamenatre. Insomma, oggi ci sono garanzie che in passato erano negate.

Il provvedimento considererebbe il “barbone” che ruba una mela più pericoloso d’un banchiere dedito all’usura. È un paradosso inaccettabile


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Confusione/2. Da quindici anni, seguire i suggerimenti del suo avvocato ha lasciato Berlusconi nella palude dell’inattività

Processo al ghedinismo

L’«utilizzatore finale», i tribunali, i lodi incostituzionali: ecco tutti gli errori, gli eccessi e le furbizie del consigliere preferito del premier di Riccardo Paradisi egli avvocati è più facile parlarne male che farne a meno. Silvio Berlusconi non sempre parla bene del suo avvocato di fiducia, Niccolò Ghedini – gli è capitato in momenti di prostrazione e di impazienza di parlarne anche molto male – ma difficilmente potrebbe farne a meno. Eppure Nicolò Ghedini – un passato di destra, entrato nel circolo berlusconiano grazie ai buoni uffici di Gaetano Pecorella (un passato nell’estrema sinistra) – per il Cavaliere non è solo un legale, è lo sherpa, lo scout senza il quale il premier è convinto di capitolare in uno dei numerosi agguati che secondo lui “certa magistratura politicizzata” ha ordito ai suoi danni, attendendo il momento giusto, il crocicchio decisivo della legislatura per far scattare la trappola.

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Senonché anche gli uomini più prossimi al Cavaliere si domandano ormai da tempo per quale motivo Lui continui a delegare operazioni delicatissime a questo quotato avvocato padovano visto che finora Ghedini sembra aver procurato al premier più grane che soluzioni. Certo, Ghedini ha collaborato fattivamente a concepire e confezionare quelle leggi che l’opposizione definisce ad personam e che vanno dalla Cirami e le Cirielli, dalla depenalizzazione falso in bilancio alle rogatorie, ma i buoni servigi resi sono ormai almeno pari agli autogol, alle gaffe, agli infortuni che l’avvocato-sherpa continua serafico a collezionare. All’interno del Pdl c’è chi gli attribuisce anche la responsabilità della bocciatura del Lodo Alfano, confezionato in modo tale da non avere nessuna possibilità di passare al vaglio della Corte costituzionale. Ma anche sulla partita delle intercettazioni, per la quale Ghedini aveva promesso un giro di vite nell’immediato e che è ferma al Senato, c’è chi punta il dito su Ghedini. Oltre gli errori, che a torto o ragione gli vengono attribuiti all’interno stesso dell’u-

niverso berlusconiano, ci sono appunto i suoi clamorosi scivoloni. Due tra tutti. Quando il settimanale l’Espresso pubblica tutte le intercettazioni della D’Addario sugli incontri con Berlusconi a Palazzo Grazioli, Ghedini smentisce tutto: «Non credo sia mai andata a casa di Berlusconi,le registrazioni sono inverosimili e frutto d’ invenzione». Strategia comunicativa quanto meno avventata visto che lo stesso Berlusconi non smentisce nulla e sceglie un’altra via difensiva. L’altro è il più tristemente famoso: la definizione di “utilizzatore finale” riferita a Berlusconi è quella che fa più rumore e crea intorno al premier la letteratura censoria più infuocata: «Certamente – era stata l’esternazione dell’ avvocato Ghedini ad Affaritaliani a proposito del “Barigate” - non può essere un’ inchiesta nei confronti del presidente del Consiglio. Qualsiasi ricostruzione si possa ipotizzare, ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza, e vere non sono, il premier sarebbe, secondo la ricostruzio-

Che cosa prevede il progetto presenatto in Senato

Processi di due anni per ogni grado di giudizio ROMA. La maggioranza ha depositato in Senato il testo del disegno di legge sul processo breve, firmato dai capigruppo di Pdl e Lega Nord. Il testo prevede la prescrizione dei processi in corso in primo grado per i reati inferiori nel massimo ai dieci anni di reclusione, se sono trascorsi più di due anni a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio del pm senza che sia stata emessa la sentenza. Come sempre su questi temi, le reazioni del mondo politico hanno ruotato sulla presunta incostituzionalità del provvedimento che di fatto differenzia il trattamento dei colpevoli. «È evidente che ci saranno polemiche sui beneficiari di questa norma o meno, ma il tema esiste e va risolto», ha commentato il presidente del Se-

nato, Renato Schifani. E poi ha aggiunto: «Questa iniziativa tende ad attuare il principio della ragionevole durata dei processi, sostenuto sia nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e sia dalla nostra Carta costituzionale». «Legge ad personam? No, è una legge che riguarda tutti», ha assicurato Gaetano Pecorella del Pdl. Il testo del ddl per il processo breve consta di tre articoli: il primo definisce i tempi in cui il processo decade in assenza di sentenza (due anni per quelli di primo grado, due per quelli d’appello e due per quelli in Cassazione). Il secondo e il terzo articolo dànno conto delle eccezioni e delle modalità da seguire nel caso gli imputati siano reclusi all’estero. Dall’opposizione, è furente la capogruppo dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, che in sala stampa a palazzo Madama ha letteralmente sbattuto il testo del ddl contro il muro: «Così, per il rom che ruba il processo rimarrà, mentre processi come Eternit, Thyssen, Cirio e Parmalat andranno al macero». Infine, l’Italia dei valori è pronta a chiedere il referendum contro «una legge targata Pdl».

ne, l’utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile». Ghedini viene richiamato all’ordine e lui si scusa. Poi tenta di metterci una pezza che proverbialmente risulta peggiore del buco: «Berlusconi non ha bisogno che qualcuno gli porti le donne potrebbe averne grandi quantitativi, gratis». Questo è il recente passato. Il presente di Ghedini è l’impegno sul fronte della norma sul processo breve che è stato presentato al Senato. Mercoledì Paolo Bonaiuti dà per certo che il Ddl verrà presentato al Parlamento in giornata, il Guardasigilli Angelino Alfano fa la spola con palazzo Grazioli, soprattutto si tengono fitti conciliaboli –

raccontano le agenzie – tra Ghedini, il ministero della Giustizia (che valuta l’impatto), i leghisti (che temono le scarcerazioni), il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri infuriato perché rischia di fare la figura di chi firma solo il testo: Un caso che rende obbligatorio il rinvio. Un giornalista chiede al vice presidente dei senatori Gaetano Quagliariello «Ma è vero che Ghedini riunisce la Consulta e presenta all’Anm il testo?». E lui: «Così poi se la approva lui da solo». Il Ddl arriva in Senato ma malgrado i lunghi concilii con Giulia Buongiorno, il legale di fiducia del presidente della

Introdotto nel circolo berlusconiano da Pecorella, l’avvocato Ghedini ha condizionato le strategie politiche del premier fino ad oggi Camera, non sembra che il testo definitivo soddisfi l’avvocato di Fini: «Suscita un certo stupore la scelta di includere nell’elenco dei reati di grave allarme sociale, come quelli di mafia e terrorismo, l’immigrazione clandestina che è una semplice contravvenzione peraltro punita con una banale ammenda». Una concessione alla Lega di Ghedini, viene detto assolutamente non gradita da una parte della maggioranza. Ma la Buongiorno non era l’unica a diffidare sul testo. Con Ghedini s’era già scontrato Gianni Letta: scrivono ancora i retroscenisti: «Al sottosegretario non piace l’avvocato, e l’ultima creatura giuridica del legale li allontana ancora di più. Al punto che tocca a Letta, che si preoccupa come l’Anm, raccomandare a Ghedini il problema dell’impatto della futura legge sui processi».

Insomma per essere uno che dovrebbe semplificare la vita del premier non c’è male. Sicchè ci si torna a chiedere come mai Berlusconi gli affidi anima e corpo. Esegeti prossimi al Cavaliere spiegano preoccupati che in Ghedini il premier vede una figura rassicurante. Prostrato da molti pesi e amareggiato da tanti attacchi preferisce le persone che gli insufflano ottimismo e gli presentano solu-


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Durissima presa di posizione dell’Anm contro il disegno di legge

Magistrati in guerra: «Amnistia mascherata»

Palamara e Cascini: «Così cadranno in prescrizione tutti i procedimenti in corso per i reati più gravi» di Francesco Lo Dico

ROMA. Altra giornata di fuoco, quella che si è consumata ieri sul fronte giustizia. La riforma che rischia di cancellare migliaia di processi in corso, ha mobilitato i vertici dell’associazione nazionale magistrati. In pratica, spiegano i giudici, l’approvazione del disegno di legge sospinto dalla maggioranza per venire incontro alle grane giudiziarie del premier Silvio Berlusconi, avrà sulla giustizia un impatto devastante.

zioni invece che problemi. Figurarsi quanto può rincuorarlo chi gli prospetta la terra promessa della chiave di volta per risolvere i suoi guai giudiziari, la panacea definitiva. Il problema sono appunto le soluzioni di Ghedini.

Ghedini è il consigliere più ascoltato da Berlusconi. Ma i suoi suggerimenti spesso vanno fuori bersaglio. A sinistra, il ministro Alfano. A destra, Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm

E anche quest’ultima, quella del processo breve, s’annuncia problematica, visto che sull’orizzonte del suo percorso si profila il parere negativo del Capo dello Stato oltre l’opposizione certa di Anm e Csm. Del resto, spiegano sempre gli avversari interni di Ghedini, «rientra nelle strategie dell’avvocato consigliare Berlusconi a intraprendere la via giudiziaria piuttosto che quella politica. Ghedini – dicono – fa il suo mestiere: e l’avvocato è come lo psicanalista ha interesse a dirti che non sei mai guarito». Non è un’accusa nuova: è l’estate del 2002 quando il guardasigilli Roberto Castelli attacca la forte lobby degli avvocati, trasversale a tutti i partiti che alla Camera e al Senato tende spesso a bloccare le riforme. Il ministro individua anche il movente di questo atteggiamento: «Cercano di bloccare le riforme perché porterebbero a una diminuzione dei loro interessi. Vi sono alcuni di loro che vogliono difendere il loro status». Ghedini replica subito: «Escludo che si

possa riferire a me e a qualcuno della maggioranza e comunque agli avvocati di Berlusconi, sarebbe una barzelletta». Una barzelletta che qualcuno però continua a raccontare anche oggi se c’è chi, tra i berlusconiani, ricorda come Ghedini sia sempre stato attivo nel far precipitare la soluzione politica e il dialogo con l’opposizione sul piano della lotta processuale e soprattutto nel porsi come l’unico legale di Berlusconi. Facendo piazza pulita, dagli anni Novanta, di ogni altro candidato. L’avvitamento della rivoluzione berlusconiana nel ghedinismo si configura così come un percorso progressivo che avviene nella mente del Cavaliere. Qualcosa che ha finito per alterarne la psicologia e l’ideologia. Lui che era sceso in campo per sciogliere lacci e lacciuoli ora come Gulliver si trova impigliato in quelli della ragnatela leguleia. Da cui lo sherpa Ghedini, pur con tutta la sua buona volontà, non sembra riuscire a liberarlo, precipitandolo sempre più in un labirinto di cavilli e codicilli.

Potranno essere celebrati i processi solo «nei confronti dei recidivi e quelli relativi ai fatti indicati in un elenco di eccezioni (articolo 2, comma 5 del disegno di legge) che pone forti dubbi di costituzionalita». «Saranno destinati a inevitabile prescrizione – spiegano il presidente dell’Anm, Luca Palamara, e il segretario dell’associazione, Giuseppe Cascini – tutti i processi per reati gravi, quali abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, vendita di prodotti con marchi contraffatti» Un’impressionante serie di reati, insomma, che includono anche sfruttamento della prostituzione, violenza privata, falsificazione di documenti pubblici, calunnia e falsa testimonianza, lesioni personali, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, incendio, aborto clandestino. «Per tutti questi reati sarà impossibile arrivare a una sentenza di primo grado entro due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio, quindi sarà sempre impossibile accertare i fatti. Più che di una amnistia, si tratta di una sostanziale depenalizzazione di fatti di rilevante e oggettiva gravita», sottolinea l’Anm.

per corruzione nel processo Eni-Power. Perplessa anche il presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, che prima dell’accordo raggiunto da Fini e Berlusconi sulla giustizia, aveva commentato: «Suscita un certo stupore la scelta di includere nell’elenco dei reati di grave allarme sociale, come quelli di mafia e terrorismo, l’immigrazione clandestina che è una semplice contravvenzione peraltro punita con una banale ammenda». Ma non è questa l’unica voce dissonante nella maggioranza, c’è anche quella di Fabio Granata, finiano particolarmente esposto, in questi tempi: «È ridicolo, più che grave, che il reato di immigrazione clandestina sia inserito tra i reati di grave allarme sociale esclusi dal ddl sul processo veloce»: questo il suo commento alla presentazione del ddl. Gli fa eco l’opposizione: «Il ddl Gasparri è viziato da incostituzionalità ed è inaccettabile dal punto di vista morale – ha affermato il presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro –. C’è disparità di trattamento fra soggetti a seconda se siano recidivi o meno. Ad esempio, se nello stesso processo c’e’ un imputato incensurato ed uno no, il processo si estingue per tutti oppure no?». E ancora: «Perché Berlusconi non deve andare a giudizio?». Domanda mal posta, quella della senatrice del Pd. Almeno stando ai reali intenti riformisti della maggioranza. «L’obiettivo – recita la relazione illustrativa al ddl Ghedini – è quello di rendere più certi i presupposti, la procedura e la quantificazione dell’equo indennizzo, nel quadro di un generale contenimento degli effetti, anche economici, derivanti dalla ragionevole durata dei processi».

Arrivare a una sentenza di primo grado entro due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio, è utopistico. In pratica accertare i fatti diventerà impossibile

Da Chianciano Terme, dove ha tenuto un comizio, arriva anche l’altolà di Pier Luigi Bersani: «Non vedo perché dovremmo partire da un meccanismo complesso e ingiusto e con profilo di anticostituzionalità al solo fine di risolvere i problemi del presidente del Consiglio. Ancora una volta – ha fatto sapere il segretario del Pd – abbiamo delle norme che discriminano i cittadini di fronte alla legge». Per citare qualche esempio, infatti, la riforma dei processi provocherà l’immediata estinzione di gran parte dei reati nei processi per i crac Cirio e Parmalat, per le scalate alle banche Antonveneta e Bnl e

Per chiudere, fa simpatia la dichiarazione di Carlo Taormina, avvocato con un grande avvenire berlusconiano dietro le spalle: «Il provvedimento è vergognoso perché per vietare il giudizio su di un imputato se ne vietano centomila, con danno morale e patrimoniale delle vittime dei reati. È criminale perché implica l’utilizzazione dello strumento legislativo per fini personali ed integra un attentato alla Costituzione sotto il profilo della vanificazione della giurisdizione. È criminogeno perché, essendo materialmente impossibile celebrare un processo di primo grado in due anni, il disegno di legge è una licenza a delinquere, soprattutto per i delitti che attentano alla sicurezza di ogni giorno dei cittadini».


diario

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segue dalla prima

pate che nessun Paese si può permettere, e via di questo passo». Gli scontri quotidiani tra maggioranza e opposizioni, all’interno dei vari schieramenti e, soprattutto tra i poteri dello Stato rendono difficile qualsiasi azione politica seria. Il politologo Paolo Pombeni ritiene invece che «sia prematuro pensare alla fine della Seconda Repubblica. Bisogna aspettare l’esito delle prossime elezioni regionali, che potrebbero chiarire il quadro politico. La fine della Democrazia cristiana è testata decretata tante volte che, se fosse successo, la Dc non esisterebbe più da almeno trent’anni».

D’altra parte in Italia i terremoti sono di casa. Non solo quelli terribili che distruggono città e paesi, ma anche quelli politici. Nel 1992 Tangentopoli fece saltare la Prima Repubblica e azzerò i partiti. Da allora i sismografi politici segnalano uno sciame continuo, con picchi che fanno traballare un sistema già debole di suo: la cosiddetta Seconda Repubblica.

Qualcosa sta cambiando.e, comunque, qualcosa si muove. L’editoriale del professor Sartori sul Corriere della Sera, è un segnale che fa il paio con l’avvicinamento di Carlo De Benedetti, tessera numero 1 del Partito democratico, ad Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli. Si ha la sensazione che l’Rcs e la galassia editoriale dell’ingegner De Benedetti stiano sul punto di abbandonare l’idea del sistema che voleva polarizzare l’elettorato su due fronti contrapposti. Scrive, infatti, Sartori: «Il giocattolo di Prodi è oramai esploso, come era inevitabile, uccidendo prima se stesso (il suo ultimo governo), poi Veltroni e Franceschini, così lasciando in eredità a Bersani un partito dimezzato». E di Berlusconi dice che «ebbe

Il cli ma poco tranqu ill o

Svolte. Il quotidiano milanese e il fallimento del bipolarismo

La Terza Repubblica del Corriere di Franco Insardà subito un’idea geniale, che poi diventò il suo giocattolo: porsi come anello di congiunzione tra un Bossi e un Fini che allora neanche si salutavano. Nacque così uno strano terzetto che nel ’94 vinse le elezioni e lo insediò a Palazzo Chigi. Dopo sei mesi fu Bossi a silurarlo. Ma quindici anni dopo lo strano terzetto (modificato) è di nuovo, per la terza volta e più forte che mai, al governo». Per Sartori «nonostante lo sgambetto iniziale, Bossi è diventato il suo alleato di ferro. E più Bossi si rafforza, più diventa esigente. La cerniera Nord-Sud non tiene più, e si sta trasformando in un imprevisto boomerang. Al colmo del suo potere il Cavaliere scricchiola, mi sembra, perché è la sua Italia che si scolla. Il “progetto Berlusconi” rischia anch’esso di esplodere, o di implodere, come il progetto Prodi. Oggi invece il potere del Cavaliere «scricchiola perché ha incubato un problema più grande di lui».

Già al convegno di liberal a Todi, nel luglio 2008, si ponevano una serie di interrogativi sulla Seconda Repubblica,

Si ha la sensazione che che si stia sul punto di abbandonare l’idea del sistema che voleva polarizzare l’elettorato su due fronti contrapposti sull’impossibilità che ci possa essere una democrazia senza partiti, sul finto bipartitismo e sull’esistenza di due partiti-contenitori, costruiti intorno a un leader.

E prefigurava «un’Italia in declino, ma anche un Paese “bloccato”, incapace finora di autoriformarsi. Solo una nuova e coraggiosa visione politica potrebbe invertire la rotta. Probabilmente una visione capace di unire, almeno per il periodo necessario alle riforme, tutte le forze in campo». Si trattava di un vero e proprio appello alla poli-

tica italiana perché prendesse atto che il finto bipartitismo è incapace di condurre il Paese fuori dalla crisi.

Evidentemente sta crescendo questa consapevolezza della fine della Seconda Repubblica al punto che il professor Sartori parla di «una repubblica del nulla che però è riuscita, sia con la sinistra che con la destra, a ingigantire oltre misura il debito pubblico, a precipitare agli ultimi posti in Europa nel suo tasso di crescita, a perdere 15 punti nella produttività del lavoro, a salvare pensioni antici-

non aiuta nessuno, e le continue defezioni che si registrano dai due partiti maggiori non fanno altro che aumentare la fibrillazione, Sempre secondo il professor Pombeni «così facendo affondano tutti e bisognerà vedere chi realmente riuscirà ad approfittare di una situazione simile. Prima di tutto occorre capire che cosa succederà all’interno del centrodestra e se nel Partito democratico il neosegretario Bersani riuscirà a reagire a questa situazione. Le Regionali potrebbero chiarire il quadro a secondo dei risultati che i partiti maggiori otterranno. Tenendo presente che il sistema bipolare del nostro Paese non è mai decollato completamento, perché lascia, comunque, spazio ad altri partiti. Ci troviamo di fronte a una situazione più vicina al modello tedesco, piuttosto che a quello inglese o statunitense. La situazione va inquadrata in quest’ottica». In sintesi sia Prodi che Berlusconi hanno buttato via 15 anni e c’è il rischio concreto che continuando su questo registro di contrapposizione la strada sia ancora lunga per arrivare a a definire degli assetti politici condivisi che tendano a realizzare le riforme necessarie al Paese per uscire da questa situazione. La sfida che l’Udc ha lanciato va proprio in questa direzione e anche la scelta di Francesco Rutelli di abbandonare il “bambino mai nato” del Pd dimostra che il progetto di Pier Ferdinando Casini e della Costituente di Centro è giusto e va perseguito. La realtà è che la crisi economico-finanziaria, con le sempre crescenti difficoltà per le famiglie, per i giovani e per le piccole e medie imprese impone una visione coraggiosa e di buon senso ed un politica che faccia i conti con la realtà e non con le contrapposizioni tra poteri dello Stato e tra partiti politici per puro spirito di sopraffazione.


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Mutazioni. L’uscita dei rutelliani e il recupero di Mussi, Folena e Angius segnano la trasformazione definitiva del Pd

Pci-Pds-Ds, a volte ritornano Bersani comincia a proccuparsi per l’emorragia al centro

ROMA. Il riassetto politicoculturale del nuovo Pd è assai significativo, più di quanto si vorrebbe dare a vendere. L’uscita di Francesco Rutelli, in simultanea con l’ingresso di Pietro Folena produce, una mutazione del dna del partito che trasforma sensibilmente il progetto iniziale. Era già tornato Gavino Angius, vent’anni fa contrario a quella svolta della Bolognina di cui in questi giorni ricorre l’anniversario; si appresta a tornare Fabio Mussi, che aveva guidato la fronda a Fassino nel quarto e ultimo congresso di Firenze dei Ds (aprile 2007) contro la chiusura del partito e la nascita del Pd. “Ritorni” che già dalla parola dicono tutto: ma il Pd non era un partito nuovo - secondo la formula cara a Scoppola che chiudeva con le esperienze precedenti? La parola ”ritorni” dà piuttosto l’idea che il Pd sia l’ennesima sigla dietro cui si organizza, in una data fase storica, la vecchia sinistra italiana. Quello che accade al suo dna è, in termini di identità e cultura politica, semplice da spiegare. Mentre i geni liberaldemocratici di Rutelli e Lanzillotta abbandonano l’organismo democratico, quelli socialisti di tradizione comunista entrano a rafforzare il suo corredo genetico principale. Uno spostamento del baricentro del partito a sinistra, che ne ridefinisce radicalmente la sua funzione sociale. Questo movimento esterno verso sinistra è accompagnato da uno specula-

enfatizzare il cambiamento in corso e quasi neppure dichiararlo. Seguendo una tradizione di antichi silenzi.Tuttavia il dna democratico è in trasformazione e le sue modificazioni produrranno un riassetto complessivo del quadro politico-istituzionale. Il realismo che spinge Rutelli, Lanzillotta, Tabacci e altri a dare vita all’ultimo soggetto centrista, prende avvio proprio dai cambiamenti in corso e in rapporto ad essi presenta la propria mission. L’ingresso

Il rischio di ritrovarsi con un partito ridotto agli ex-Ds con una componente cristiano-sociale più folta, è dietro l’angolo delle regionali re riposizionamento interno delle anime del partito, che ricolloca al centro del Pd chi - la componente dalemiana - nella stagione veltroniana era stato spinto a sinistra proprio da quel movimento originario fondativo del partito, che puntava, invece, al centro.

Si può sottovalutare quanto sta accadendo al Pd in due modi: o capendo poco di politica, oppure sottovalutarlo volontariamente perché in sintonia col riposizionamento del partito, che prevede di non

coacervo di evasori fiscali. Con Calearo il Pd fecondava la sua constituency, aprendosi a settori della società a cui la sinistra non aveva mai parlato, se non per insultarli. L’uscita del rampante imprenditore rafforza la modificazione genetica dell’organismo democratico. Per un Calearo che esce, un Visco che torna in primo piano: tertium non datur.

di Antonio Funiciello

dell’imprenditore Calearo nella nuova formazione rutelliana è, in tal senso, emblematico. La candidatura dell’imprenditore vicentino, già presidente appassionato di Federmeccanica, esprimeva un proposito fondamentale nella fisionomia innovativa assunta nella fase nascente dal Pd e della sua offerta politica al paese alle elezioni del 2008. Il tentativo, cioè, di cominciare a parlare ad una fascia di popolazione, il ceto produttivo del nordest, per anni additato al pubblico ludibrio come un

E Rutelli lascia il Copasir: «Il Pd indichi il nuovo presidente» ROMA. Francesco Rutelli lasciala presidenza del Copasir. Lo ha annunciato ieri mattina alla riunione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica lo stesso Rutelli: «Reputo opportuno che per mia decisione si determinino le condizioni per cui le rappresentanze parlamentari del Pd possano indicare nuovamente, nel corso di questa legislatura, il candidato presidente del Copasir». La mossa di Rutelli fa seguito alla decisione di lasciare il Pd, tra le cui fila è stato eletto in Parlamento e in nome del quale era stato candidato alla presidenza dell’organismo, per dare vita alla nuova aggregazione centrista Alleanza per l’Italia. «Io continuerò - ha sottolineato - a essere parte dell’oppo-

sizione, come prescrive la legge 124/2007 a proposito del presidente del Comitato; regole e prassi codificate di Camera e Senato garantiscono la stabilità delle funzioni che noi svolgiamo, anche nei casi di mutamenti nelle appartenenze politiche». Immediate le reazioni: ricevuta la notizia, il presidente del Senato, Renato Schifani, e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, hanno espresso a Rutelli il loro apprezzamento «per la sensibilità politica e istituzionale da lui dimostrata». Critico invece il ministro dell’Attuazione del programma di governo Rotondi, che ha giudicato la decisione di Rutelli «da respingere: egli resta un senatore di opposizione e, dunque, ha titolo a restare dov’è».

È probabile che, vista la rapidità con cui si sono scatenate nel Pd le forze centrifughe che hanno portato al lancio di Alleanza per l’Italia, nel breve periodo seguiranno altre uscite. La stessa spaccatura tra Franceschini e Fioroni non aiuta a tenere dentro al partito tutto il pezzo moderato, parte del quale non si riconosce nell’asse culturale catto-comunista. Anche un ricompattamento della componente popolare di Quarta fase, d’altro canto, non sembra poter rappresentare da sola una diga abbastanza robusta per l’impoverimento in corso. Il rischio di ritrovarsi con un Pd ridotto, grosso modo, ai vecchi Ds con una componente cristiano-sociale più folta, è dietro l’angolo delle regionali. Se nella prossima primavera la partita elettorale amministrativa dovesse consegnare un Pd appenninico, che resiste nelle roccaforti rosse e si sbriciola nel resto d’Italia, sarà molto complicato invertire il trend d’uscita dei moderati dal partito. Anche perché i ”popolari” che stanno già con Bersani possono difficilmente rappresentare punti di riferimento stabili per il mondo moderato. Non lo è certo Rosy Bindi, interprete di un nobile solidarismo cattolico che è da solo molto più a sinistra del socialismo emiliano del neo segretario Bersani. Il quale potrà forse affidarsi al suo vice Letta per arginare le perdite verso il centro, anche se finora non si intravedono direttive di lavoro in tal senso. In questo modo il Pd vedrà ridursi drasticamente il suo bacino elettorale potenziale, rosicchiato al centro dalle sue emorragie moderate e a sinistra dalla volontà di resuscitare le formazioni radicali. Verso una grande alleanza contro Berlusconi che riporta lo spettro dell’Unione nei sogni del popolo del Pd.


società

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Saggi. Il teologo statunitense analizza i limiti di uno Stato che rigetta la religione in nome di un’eccessiva razionalità

La Croce della democrazia C’è una bussola per orientarsi nei problemi della laicità: Alexis de Tocqueville di Michael Novak 11 ottobre scorso, su invito dell’ex Presidente della Repubblica Ceca Václav Havel, ho tenuto un discorso programmatico nell’ambito del Forum 2000, conferenza organizzata annualmente a Praga per tastare il polso al processo di globalizzazione e per porne in risalto tanto gli aspetti positivi quanto i pericoli derivanti da un mondo sempre più interconnesso. Il tema del Forum 2000 di quest’anno era “La Democrazia e la Libertà nel mondo multipolare”. In sintesi,“La Democrazia dopo il 1989”.

L’

Tale tema è troppo complesso per poter essere analizzato nella sua integrità in un così breve spazio. Tuttavia, una delle drammatiche differenze tra il 1989 ed il 2009 è sicuramente rappresentata dalla nuova rilevanza di quasi tutte le religioni del mondo su tematiche concernenti la democrazia. Come scrisse Jürgen Habermas dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, l’idea che il mondo sia laico, e che lo stia diventando sempre di più, non è aderente alla realtà. Infatti, in seguito agli

eventi dell’11 settembre, il secolarismo appariva a Habermas come una minuscola isola, circondata dal mare in tempesta della religione. Conformemente a tale visione, desidero analizzare quattro punti circa il legame tra religione e democrazia.

In primo luogo, il grande pensatore francese Alexis de Tocqueville ci ha insegnato che la religione conferisce alla democrazia due compiti di estrema importanza: il porre in essere quei principi fondativi in virtù dei quali i diritti dell’individuo sono tutelati di fronte a qualsivoglia sconvolgimento; e l’insegnare quei “costumi del cuore” che con-

pratica nella sfera pubblica? Vivere secondo principi di democrazia significa vivere in una condizione di elevata moralità.Per sua natura, il principio di laicità non tende verso norme generali o morali, bensì individuali. Inizia con la “tolleranza”, e scivola inevitabilmente verso il relativismo. La decadenza culturale - in primis tra le élite dell’intrattenimento, e quindi tra i giovani vittime di un costante processo di omologazione - cresce come un fungo sul volto della democrazia. La silenziosa artiglieria del tempo sconvolge le consuetudini del passato. Per tale ragione, la democrazia necessita di costanti risvegli di coscienza, spesso di tipo

Nel modello anglo-americano di repubblica, i cittadini sono riconosciuti sia come esseri religiosi che come esseri politici. Il primo aspetto non può essere meccanicamente disgiunto dal secondo sentono alla democrazia di operare a livello fattuale: l’onestà, l’esame e la padronanza di sé, la tradizione di libera associazione con i nostri simili ed un senso di fratellanza universale con tutte le donne e gli uomini in terra. Se gli individui non apprendono l’usanza dell’autogoverno nella propria vita privata, come potranno concretizzare tale

religioso, al fine di perdurare come meravigliosa e degna conquista: come conquista morale. O la democrazia è intrisa di moralità, oppure non è affatto democrazia. La religione insegna alle persone umili che esse sono preziose e nobili, amate dal proprio Creatore, uguali ad ogni altro essere umano.

Essa ci insegna altresì che le esistenze personali di semplici idraulici o carpentieri tanto quanto quelle dei professori o dei drammaturghi - e di tutti gli uomini e le donne sono dense di significato, moralmente sensazionali, e plasmate ad immagine e somiglianza di Dio in quanto co-

Dopo l’11/9 è Habermas il giusto erede del francese Secondo Jürgen Habermas (che ne ha scritto in maniera esaustiva dopo gli attacchi di al Qaeda agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001), l’idea che il mondo sia laico, e che lo stia diventando sempre di più, «non è aderente alla realtà». Infatti, in seguito proprio all’odio scatenato dal terrorismo islamico, il secolarismo appariva a Habermas «come una minuscola isola, circondata dal mare in tempesta della religione». Sul tema era intervenuto, molto tempo prima, anche il grande pensatore francese Alexis de Tocqueville che, secondo Novak, «ci ha insegnato che la religione conferisce alla democrazia due compiti di estrema importanza: il porre in essere quei principi fondativi in virtù dei quali i diritti dell’individuo sono tutelati di fronte a qualsivoglia sconvolgimento; e l’insegnare quei “costumi del cuore”che consentono alla democrazia di operare a livello fattuale».


società re. Nessuna religione può costringere le coscienze degli individui a rispondere sì o no. Di fronte a Dio, ognuno di noi è libero di rispondere in coscienza. In tutto ciò lo Stato non può interferire. L’inalienabile responsabilità dell’uomo davanti a Dio costituisce il fondamento dei suoi inalienabili diritti nei confronti dello Stato.

I n t e r z o l u o g o , è ormai diffusa a livello mondiale la fallace opinione secondo cui esista un solo tipo di Stato laico: quello fiorito nel continente europeo. Il modello che affonda le proprie radici nella spietata irreligiosità della Rivoluzione Francese del 1789. Lo Stato secolare affermatosi nell’Europa continentale è virtualmente chiuso all’apporto della religione. Esso tenta di imprigionare la religione nel profondo della vita privata, lontana dalla sfera pubblica. Tuttavia esiste invero un altro modello di Stato laico. Mi riferisco a ciò che potremmo definire come modello anglo-americano. In esso i cittadini sono riconosciuti sia come esseri religiosi che come esseri politici. Il primo aspetto non può essere meccanicamente disgiunto dal secondo. Similmente, le istituzioni della natura religiosa dell’uomo, e le istituzioni della sua natura politica – la Chiesa e lo Stato – devono essere distinte in quanto Cesare e Dio sono distinti. Nondimeno, la religione sgorga necessariamente nelle coscienze politiche, ed in genere le coscienze politiche si inseriscono in credenze pre-politiche sulla natura ed il destino dell’uomo. I due aspetti generano una reciproca commistione. Il Comunismo è stato spazzato via non solo dalla moralità laica, ma anche dalla coscienza religiosa che il Cielo ha inteso donarci.

creatori. Questo è il primo legame tra Religione e Democrazia. Il secondo legame è costituito dal principio antitotalitario. L’uomo non può dare a Cesare ciò che appartiene a Dio, come non può dare a Dio ciò che appartiene a Cesare. Cesare non è Dio. Ogni Stato è in sé limitato. Molti aspetti dell’esistenza umana non concernono lo Stato: la coscienza, l’indagine, le arti creative, il sacro ed inalienabile dovere di ogni individuo nei confronti del proprio Creatore.

La libertà di dire un sì o un no. Allo stesso modo, nessuna religione osa indirizzare dall’alto le decisioni di Cesa-

P e r t a n t o , l o S t a t o non interferisce nella nostra coscienza religiosa, e la religione istituzionale non deve interferire con l’operato di Cesare.Dobbiamo pervenire a positivi adattamenti mediante constanti tentativi. Il mondo occidentale deve ancora prestare ascolto alle rinnovate riflessioni sulla libertà, sui diritti umani, sulla democrazia e sul rapporto più appropriato tra Cesare e Dio, provenienti dalle altre grandi religioni del mondo: l’islam, l’induismo ed il buddismo (per citare quelle che raccolgono ognuna più di 500 milioni di fedeli). Il lungo ed impervio viaggio della libertà e della religione attraverso i secoli non è ancora giunto a conclusione. Abbiamo ancora molto da apprendere.

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L’appello di monsignor Bagnasco alla fine dell’Assemblea della Cei

«Ora sul crocefisso si esprima l’Europa» di Massimo Fazzi

ASSISI. Un «pronunciamento da parte degli organismi europei in merito alla questione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane, che metta ordine in una situazione che va in una direzione sbagliata». È quanto auspica il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, nel corso del suo intervento conclusivo di ieri presso l’Assemblea generale della Cei riunita ad Assisi. Dopo la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha imposto al governo italiano di rimuovere il simbolo cristiano dai luoghi pubblici. Spero, ha detto il porporato, «che sia l’Europa, nei suoi organismi, a fare una riflessione seria, perché questo è un segnale che va in una direzione sbagliata. Spero in un pronunciamento da parte degli organismi europei preoposti, sul merito e sul metodo». La sentenza di Strasburgo, ha ribadito l’arcivescovo di Genova, «è surreale, ideologica, e mostra che chi ha sentenziato forse non conosce niente della nostra storia. Sentenziare in modo così avulso, non è buon servizio a quel cammino europeo in cui - con le debite differenze istituzionali - come Chiesa crediamo profondamente, ma che deve avere un’anima spirituale, perché la politica, l’economia e la finanza non possono costiture l’anima di un popolo, di una nazione o di un nuovo soggetto come può essere l’Europa». Ma il capo dei vescovi italiani ha voluto esprimere la sua opinione anche su un altro tema dominante, relativo all’insegnamento della religione nella scuola. Per monsignor Bagnasco, riguardo all’ora di islam «il problema non è quello della libertà religiosa, che è un diritto indiscutibile, ma la titolarità dell’ora di religione nella scuola laica di Stato. Le finalità quali sono? Il problema è questo: a che titolo si insegna religione all’interno di una scuola pubblica e laica». Infatti, spiega ancora il presule, l’ora di religione cattolica «è cosa diversa dal catechismo che si fa in parrocchia: è stato riconosciuta la presenza della religione cattolica nella nostra cultura e storia, il che significa che senza una conoscenza del fatto della religione cattolica è difficile comprendere la nostra stessa cultura italiana».

Commentando i sommovimenti nella scena italiana, Bagnasco ha chiarito che la Cei preferisce tenersi a distanza dalla grandi manovre per ricostruire un partito di centro: «I cattolici italiani possono servire il loro Paese, in qualunque partito politico militino, purché siano coerenti e in grado di esprimere i loro valori».

Il cardinale, di cui si ipotizza un trasferimento alla Congregazione per i vescovi al posto del cardinale Re - ha poi parlato di contatti tra la Chiesa e tutte le formazioni, Lega compresa, e, rispondendo ad una domanda sulle primarie del Pd, ha lodato «la partecipazione democratica avvenuta per eleggere il nuovo segretario». Bagnasco è anche tornato sul suo appello al “disarmo” nella politica italiana ed ha esortato i media «alla responsabilità: ciò non significa censurare le notizie, ma nemmeno affondare il coltello». E per quanto riguarda la nuova formazione politica di

I cattolici italiani, spiega il cardinale di Genova, «possono servire il loro Paese in qualunque partito politico, purché siano coerenti e in grado di esprimere i loro valori»

Quanto al fatto che, però, «gli insegnanti sono approvati dall’autorità ecclesiastica (nello specifico dal vescovo, come previsto dal Concordato), Bagnasco taglia corto: «Non si potrebbe garantire altrimenti che sia insegnata davvero la religione cattolica, richiesta dalle famiglie che liberamente se ne avvalgono, e non le diverse opinioni». Ma la conclusione dell’Assemblea generale, che ha riunito 250 vescovi in quattro giorni di intensi lavori, non delude neanche dal punto di vista politico.

Francesco Rutelli ha aggiunto: «Non è compito nostro dare giudizi o valutazioni particolari di merito, ci sono dinamiche proprie della politica. Auspichiamo, ed esprimo il pensiero dei miei confratelli, che i cattolici là dove sono, ovunque siano, possano esprimere con libertà ed efficacia nel processo democratico le loro convinzioni e valori, per essere a servizio del Paese ovunque siano, con coerenza». Parlando più in generale dei lavori dell’Assemblea, il presidente ha detto: «Sono stati giorni intensi e molto belli, di grande fraternità episcopale e di preghiera, nel clima mariano e di S. Francesco». Rispetto alla logistica romana, ha concluso, «la stanzialità di Assisi ha immerso i vescovi in un’atmosfera di comunità. Siamo stati in grado di parlare di tutto: dal rito delle esequie al documento Chiesa e Mezzogiorno, dalla questione antropologica con il rapporto tra etica della vita e fino alla relazione tra il mondo dei media e la Chiesa».


panorama

pagina 10 • 13 novembre 2009

Rumors. Dopo il “prepensionamento” dalla Protezione civile, tutte le ipotesi sul futuro di Bertolaso

Le tentazioni di San Guido di Valentina Sisti

MILANO. «Visto che dovrò cambiare maglia, l’unica che posso indossare, dopo quella della Protezione Civile, è questa azzurra della Nazionale». Scherzava così, ieri all’Aquila, Guido Bertolaso, confermando così la sua prossima pensione. Vicino al premier, certo, ma non al punto di vestire l’azzurro del suo partito. La decisione ha scatenato pronostici e dietrologie su quel che farà “da grande”: troppo pochi i suoi 59 anni, troppo importante il “bonus” maturato presso l’attuale governo, troppo consistente la popolarità di cui gode. Le sue parole, allora, all’Auditorium di Coppito - circondato dai calciatori della nazionale guidati da Lippi suonano come una richiesta di essere lasciato

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

in pace, in vista delle Regionali, ponendo fine alle voci che l’accreditavano come potenziale candidato, di volta in volta, in Campania, Lazio o Marche.

Tutte candidature - ça va sans dire - ipotizzate per il centrodestra, essendo ormai definitiva la rottura con il centrosi-

piuttosto, spiega chi lo conosce bene, che voglia prendersi una pausa di riflessione e di impegno nel volontariato, aspettando che sbolliscano i problemi che l’hanno lambito nell’inchiesta “rompiballe”, con imbarazzanti intercettazioni nelle quali concorda con i più stretti collaboratori scelte “sbrigative”

C’è chi dice che voglia solo essere lasciato in pace, chi pensa ancora a una candidatura alla guida di una regione, e chi azzarda un salto da vicepremier nistra che lo indicò per primo nel 2006 come commissario per i rifiuti ma poi lo mollò in balìa dei veti dell’allora ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. Ma che farà, allora, Bertolaso? Dai suoi non esce una parola. «Non si tratta di dimissioni - si è limitato a spiegare all’Aquila, qualche giorno fa - mi avvalgo della cosiddetta legge “anti-fannulloni” voluta dal ministro Brunetta, che consente ai funzionari dello Stato di andare in pensione con anticipo». Ora, che Bertolaso voglia farsi “fannullone” grazie alla legge di Brunetta è da escludersi. È probabile,

sui siti e sul conferimento dei rifiuti. Senza trascurare le inchieste su Cosentino e sull’Udeur, che sempre ambiente e rifiuti riguardano e fanno temere nuovi sviluppi. Bertolaso è stanco, insomma, e forse anche un po’ preoccupato. Lo confermano le affermazioni sfiduciate all’esplodere delle due ultime tragedie del fango, a Messina e Ischia. Il top per lui, il capolavoro, fu l’«azzardo riuscito», come lo definì lui stesso, di portare il G8 a L’Aquila. Ma da quel giorno gli fu chiaro che la sua parabola alla Protezione civile aveva raggiunto l’apice e serviva una exit strategy. Ma

Bertolaso - il G8 l’ha confermato - è uno che pensa in grande. Sa che nessuno come lui può mettere insieme la stima di Berlusconi ma anche una popolarità più diffusa, meno “di parte”della sua. Potendo anche vantare saldi legami nella Chiesa, consolidati nel ruolo di sub commissario nel Giubileo nel 2000, il suo primo vero successo maturato nella più grande adunata di massa mai vista in Italia, a Tor Vergata. Una vicenda che consolidò anche gli antichi legami con Francesco Rutelli, allora sindaco di Roma e ora in campo con la sua formazione di Centro. Tutte frecce nel suo arco che potrebbero, in un futuro non troppo lontano, motivarlo al ritorno in campo.

Come vicepremier, magari. O anche senza vice, non si sa mai. Un giorno, a una conferenza stampa sul dopo-terremoto a Palazzo Chigi, Roberto Gasparotti, uomo immagine di Berlusconi, invitò i due a scambiarsi di posto. «Presidente, non le ruberei mai la poltrona», ironizzò Bertolaso a bassa voce. «Magari», si percepì appena, dal labiale, la risposta del premier. Rubare no, ma...

Il monopolio della criminalità organizzata ormai abbraccia tutta la vita quotidiana

La camorra, il capitone e il baccalà fritto Napoli il capitone è il piatto forte del cenone della Vigilia di Natale. Non solo il capitone, in verità. Anche il baccalà fritto: anzi, indorato e fritto e con i peperoni sotto aceto. Una vera prelibatezza. Naturalmente, il primo piatto è il superclassico spaghetto con le vongole. Non possono poi mancare le alici, le triglie e ‘o purp, il polipo o polipetto. A proposito di polipo, ossia di piovra, sapete che la camorra gestisce anche il racket del capitone? La rivelazione è stata fatta da un pentito, Salvatore Giuliano, il quale ha raccontato che il clan dei Mazzarella nel periodo delle feste di Natale impongono ai proprietari delle pescherie di comprare i capitoni da loro rivenditori “fidati”.

A

Il clan Mazzarella ha costruito un impero con i falsi dvd e vi ricavava introiti addirittura superiori al giro del traffico della droga. Ma i falsi dvd - il grande e grandioso mercato del falso o del “vero falso” - non accendono la fantasia di nessuno. Pensare, invece, che anche il signor capitone - una anguilla particolarmente grande che sguscia via dalle mani e che non è per nulla facile bloccare e uccidere - è sotto il diretto controllo della camorra è senz’altro una storia

che accende la fantasia. «I proventi, ripeto notevolissimi - ha raccontato il pentito ai magistrati - derivanti dall’attività della gestione e dell’imposizione del mercato di Cd e Dvd contraffatti, venivano poi investiti, o meglio riciclati, per quanto mi consta, in varie attività. Oltre ai soldi occorrenti per l’acquisto della droga, nell’usura, nell’acquisto di esercizi commerciali e nel mercato del pesce. Inoltre, per quanto riguarda gli investimenti nel settore del pesce, se ne interessava quasi esclusivamente Gennaro Mazzarella e i suoi figli principalmente nella zona cosiddetta sopra le mura. In particolare mi risulta, sempre per conoscenza diretta, che gli stessi Mazzarella fossero titolari di fatto di alcune pescherie, sopra le mura, anche se formalmente intestate a terze persone,

come prestanome, e che riuscissero, inoltre ad imporre anche grazie ad alleanze con il clan di Fuorigrotta i Puccinielli, la fornitura di pesce anche ad altri rivenditori. In particolare è certo che, nel periodo natalizio, il gruppo di Gennaro Mazzarella, riusciva ad imporre in maniera esclusiva sul mercato di Napoli, i capitoni». Insomma, secondo il pentito la camorra avrebbe il monopolio del capitone e l’intero mercato del pesce-anguilla che va a ruba nel periodo natalizio sarebbe controllato dal clan Mazzarella che oltre a creare l’impero dei dvd non avrebbe disdegnato il tradizione lavoro dei pescivendoli. A Napoli il pesce è storia: non a caso Masaniello, il popolano rivoluzionario del Seicento, era un pescivendolo. E, sempre non a caso, Ferdinando di Borbone, il cosid-

detto Re Nasone, amando Napoli e i napoletani - e naturalmente le napoletane - pare che si vestisse di pescivendolo e andasse a vendere il pesce a piazza Mercato. È probabile che anche Ferdinando, in tutto e per tutto un napoletano, quasi un re plebeo, avesse una particolare predilezione per il capitone. Senza disdegnare vongole, baccalà, alici, cozze, triglie, polipi, totani, gamberi. Insomma, una grande insalata di mare.

Il racket del capitone si va ad aggiungere a quello della pizza, del vino, della pasta e dell’abbigliamento. Il camorrista non si fa mancare niente e quanto gli serve se lo prende direttamente. Non lo “compra”, se ne appropria. La camorra è una sorta di mercato parallelo e uno Stato nello Stato in cui non ci sono solo la droga e la prostituzione, gli appalti, il riciclaggio, l’imprenditoria criminale, l’affare dei rifiuti, l’infiltrazione nell’amministrazione, ma anche gli alimenti e gli elementi base dell’esistenza e della tradizione. Il racket del capitone - ma a questo punto non si possono escludere neanche le vongole e tutti i pesci che abboccano o cadono nella rete - ne è l’ultima dimostrazione. La camorra serve a tavola.


panorama

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Proposte. In vista delle regionali, i centristi si schierano dalla parte della soluzione dei problemi, senza alchimie politiche

Legalità e ambiente per far rinascere il Sud di Angelo Sanza a Conferenza programmatica dell’Udc di Puglia avvia un nuovo corso che impone ineludibili discontinuità con le politiche di intervento dell’ultimo decennio. Un nuovo inizio, dunque, che riconosca la persona e la famiglia quali riferimenti valoriali delle politiche di intervento per declinare le priorità che la Comunità richiede, recuperando i principi della Costituzione. Tra questi, la sussidiarietà, la legalità e la terzietà della pubblica amministrazione. Punti di forza questi per rilanciare, insieme alle altre regioni meridionali, la centralità del Mezzogiorno e il metodo della programmazione. La dignità della persona, dal primo vagito all’ultimo respiro, l’accoglienza degli immigrati e la loro integrazione e lo sviluppo delle aree di emigrazione sono punti essenziali di una politica che comprenda l’Udc nella propria maggioranza.

dovrà poi raccordarsi con i processi di programmazione delle altre regioni meridionali al fine di costruire un quadro di riferimento unico per il Mezzogiorno, anche per adempiere alle modalità richieste per le “politiche di coesione” dell’Unione europea.

L

Inoltre, la famiglia fondata sul matrimonio dovrà essere riferimento di una specifica legislazione, che ne esalti il ruolo e che sostenga le proprie potenzialità nel campo educativo, so-

Il caso pugliese è quello più significativo di tutto il Mezzogiorno: l’attenzione alla famiglia sarà banco di prova di ogni possibile svolta futura ciale ed economico. In tale contesto la sussidiarietà dovrà essere autentico architrave delle nuove politiche che andranno a definirsi per sostenere i fattori dello sviluppo e i settori di intervento. La terzietà della pubblica amministrazione, infine, ha assunto nella regione Puglia caratteristiche irrazionali, rendendo il tessuto dirigenziale molto fragile. Un im-

pegno di governo dell’Udc non potrà prescindere da una programmazione come strumento essenziale di sviluppo. Approntare un Piano che sia in grado di attualizzare il contesto socio-economico territoriale della Puglia, per definire le necessarie politiche di intervento da attivare per i fattori dello sviluppo, per i settori, per il territorio. Il “programma regionale”

I punti fondamentali sui quali l’Udc chiede che la nuova amministrazione regionale si impegni sono: a) rivedere innanzitutto la politica sanitaria: passare dalle affermazioni generiche a scelte concrete sul principio di una politica fuori dalla sanità; b) legalità e trasparenza nella pubblica amministrazione: esigere un’amministrazione pubblica di maggiore qualità e non clientelarizzata; c) difesa dell’ambiente con politiche ecologiche adeguate: lotta alla diossina a Taranto, una politica valida per l’acqua, una politica per l’energia che esalti le vocazioni regionali di produzione di energia pulita; d) attenzione alle famiglie con reddito basso; e) lotta alla disoccupazione con programmi di riqualificazione della manodopera; f) valorizzazione dei poli universitari in favore delle medie e pic-

L’analisi. L’edilizia ecosostenibile per far ripartire il Paese ed evitare il dramma dei rischi ambientali

Anche la casa ha il suo “stimulus” di Antonio d’Alì l governo e il presidente Berlusconi si dichiarano pronti all’accelerazione definitiva sul Piano casa. Cogliendo così anche quanto da più parti ci viene ormai da tempo con forza richiesto, e cioè una maggiore e più determinata assunzione di coraggio: ampliamenti, efficienza energetica, sicurezza, incentivi, superando le barriere della esclusività di competenza delle Regioni a tutela del buon diritto di tutti i cittadini a cogliere le eventuali opportunità attraverso norme-quadro chiare, omogenee, semplici. Pertanto molto probabilmente il nuovo impulso del governo andrà verso un nuovo provvedimento sull’intera materia che, lasciata in capo alle Regioni, si è impantanata nei meandri dei parlamentini locali, e che in alcuni casi (Molise, Campania, Calabria e Sicilia) addirittura non ha ancora prodotto alcuna indicazione normativa. In questo ambito, enti locali e operatori tutti dovranno essere in grado di comprendere le indicazioni fornite dal governo e dal Parlamento anche sull’esigenza di arginare i rischi derivanti da un cattivo assetto idrogeologico, attraverso una

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nuova e improcrastinabile attenzione per la regolamentazione, la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio. La messa in sicurezza in particolare passa tanto dalla previsione di attivare su larga scala piani di intervento pubblico-privato con moderni criteri antisismici e di sicurezza del contesto territoriale sul patrimonio edilizio esistente, quanto dall’esigenza di revisio-

Il Piano casa avrà un doppio impatto: benefico sull’economia e salvifico per la sicurezza dei cittadini e per le preziose risorse paesaggistiche nare gli stessi piani regolatori, e di attenzione alle nuove concessioni. L’impegno dovrà inoltre essere volto a una riqualificazione generale del patrimonio edilizio nel senso della massima efficienza energetica e della ecosostenibilità.

Solo con queste consapevolezze le previsioni del Piano casa potranno realizzarsi con il doppio impatto, benefico sull’economia, ma anche soprattutto salvifico per la sicurezza dei cittadini e per le preziose risorse paesaggistico-ambientali del nostro territorio. In questo contesto sarà determi-

nante un intelligente utilizzo degli incentivi e a tal proposito non ho esitato a presentare un apposito ordine del giorno nella finanziaria in discussione al Senato, perché il governo valuti la possibilità di estendere la detrazione di imposta del 55% per gli interventi di riqualificazione energetica, ovvero ne consenta il cumulo con le agevolazioni previste storicamente per gli interventi di ristrutturazione, e che queste avvengano nel rispetto delle tipologie abitative e costruttive locali. Il cumulo dei benefici può costituire infatti un elemento di stimolo per i possessori di abitazioni in contesti storici, che li induca a realizzare lavori di ristrutturazione rispettosi delle caratteristiche architettoniche tipiche rivisitandole in chiave di efficienza energetica e di sicurezza. Saldare i nuovi incentivi per la messa in sicurezza antisismica e di difesa dalle criticità legate al dissesto idrogeologico, significherà fare del Piano casa uno dei momenti qualificanti della ripresa economica in assonanza con le più moderne esigenze del miglioramento della qualità della vita dei cittadini.

cole aziende e a sostegno dell’agricoltura, dell’artigianato, del commercio e del turismo. Sulle base di queste considerazioni, l’Udc di Puglia ha il dovere di giocare una partita di grande respiro, non solo per il proprio futuro ma per rispondere alle aspettative di quegli elettori moderati e cattolici, che guardano ad essa con grande interesse.

Il partito, secondo le indicazioni dei leader nazionali, avrebbe come linea tendenziale quella di presentarsi da sola all’attenzione dell’elettorato pugliese, in quanto permane una nostra diffidenza nei confronti di entrambi i poli, in quanto condizionati, l’uno, a destra, dalla lega, e l’altro, a sinistra, dalle formazioni di cultura antagonista. È probabile che sceglieremo, alla luce del documento programmatico che approveremo nel corso della Conferenza, un alleato in grado di garantire l’attuazione dei nostri obiettivi. Deve essere chiaro, però, che ogni alleanza sarà costruita solo su programmi condivisi e affidata ad uomini di assoluta integrità morale e capacità gestionale.


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il paginone

Sei morti in Somalia, cinque in Pakistan, tre in Iraq, Me El Salvador, Indonesia, Iran, Kenya, Madagascar e Venez

Il reporter

entidue giornalisti uccisi in Russia dal marzo del 2000 secondo “Reporter senza Frontiere”. 109 dall’ottobre del 2000 secondo il conto di Radio Radicale, a partire dall’italiano della stessa Radio Radicale Antonio Russo. 220 tra il 1991 e il dicembre del 2007 nella stima fatta alla Cnn da Alexei Simonov, della “Fondazione di Difesa della Glasnost”: e solo cinque delle relative indagini condotte a termine. E 195 tra 1992 e 2009 secondo Wikipedia. Dopo anni in cui il governo di Mosca è sembrato non voler fare niente, facendo spesso anche intendere di poter essere tra i mandanti degli omicidi, alla fine il Ministero delle Comunicazioni ha annunciato che sta creando una “linea calda”per permettere ai giornalisti di denunciare via telefono in tempi rapidi qualunque attacco e minaccia alla libertà di espressione: «per prevenire e porre fine alle pressioni esercitate contro i mezzi di comunicazione, oltre che castigare i colpevoli», spiega il sito web dello stesso ministero. Ma la richiesta dei giornali, fin da quando nell’ottobre del 2006 venne assassinata Anna Politkovskaya, è ormai un’altra: permettere a giornalisti e loro accompagnatori di armarsi. Una “modesta proposta”, cui per il momento però le autorità russe non intendono ancora pronunciarsi.

V

Giornalisti con la pistola? Il problema non è solo russo. 35 sono stati in tutto il mondo i giornalisti uccisi, nel corso del 2009, secondo “Reporter senza Frontiere”: sei in Somalia; cinque in Pakistan; tre in Iraq, in Messico e in Russia; due in Afghanistan, nelle Filippine, nello Sri Lanka e nei Territori Palestinesi; uno in El Salvador, India e Indonesia, Iran, Kenya, Madagascar e Venezuela. Che è pure un miglioramento rispetto al 2008, quando erano stati uccisi 60 giornalisti, un collaboratore della stampa e un blogger. Per non parlare del 2007: 87 giornalisti e 20 loro collaboratori uccisi. O del 2006: 85 giornalisti e 32 loro collaboratori uccisi. Mentre nel 2005 erano caduti sul campo 63 giornalisti e 5 collaboratori. In Russia è ancora solo un’idea, ma un Paese dove i giornalisti già da qualche anno hanno non solo iniziato ad armarsi ma anche ad allenarsi ai poligoni di tiro sono le Filippine. Ed è lo stesso esercito che si è offerto di addestrarli: non solo all’uso delle armi, ma anche alle tecniche di difesa personale. “Armed, Association of the Responsible Media”, è il nome di questa specie di “sindacato armato” di giornalisti per l’autodifesa, nato dopo

che 22 giornalisti erano stati uccisi tra il 2000 e il 2005. In maggioranza giornalisti radiofonici attivi in quelle aree rurali dove più spadroneggiano i narcos ed i ribelli comunisti e islamici. Ma se andiamo ai feriti, quelli si contano a dozzine. Il battesimo del fuoco per “Armed”fu il 18 maggio del 2005, quando il popolare editorialista Pablo Hernandez rispose all’agguato di un pistolero in motocicletta, una tecnica tra le più usate, tirando fuori una mitraglietta Uzi e mettendo in fuga l’aggressore.

Una situazione estrema? In realtà, anche in Italia siamo passati per un momento simile. Principe del giornalismo italiano del XX secolo ma anche exufficiale, decorato di guerra e combattente della Resistenza, un sostenitore della figura del giornalista con la pistola fu, al tempo del terrorismo, Indro Montanelli. Già da un anno prima del famoso attentato delle Br del 2 giugno 1977, l’allora direttore del Giornale si era procu-

Trentacinque morti nel 2009, ma i giornalisti si organizzano: nasce il “sindacato armato” di Maurizio Stefanini venne: «ero armato, ma non ho fatto in tempo a tirare fuori la pistola. Forse questo è stato un bene, perché altrimenti mi avrebbero fatto fuori». Il particolare è spiegato anche nei diari da poco pubblicati col titolo I conti con me stesso. «Aggrappandomi all’inferriata dei giardini pubblici, penso: “Devo morire in piedi!”. Questo pensiero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio, è forse quello che mi salva: cadendo, avrei probabilmente preso l’ultima scarica nell’addome. Solo quando il killer ha finito, cedo al languore che m’invade e scivolo a terra. Potrei

di poter essere trattati da non combattenti. Ma i jihadisti hanno più volte dimostrato di infischiarsene di queste fumisterie della società occidentale, e così negli Stati Uniti a partire dal 2003 si è deciso di iniziare a curare un po’ di più l’incolumità degli inviati in Paesi come l’Iraq o l’Afghanistan.

comodamente uccidere con la mia pistola l’uomo che ora mi volta le spalle per fuggire. Ma ce n’è un altro che lo protegge con l’arma in pugno. Mi limito a gridargli: “Vigliacchi!”». Proprio per non aver reagito, anni dopo Montanelli potrà perdonare i suoi attentatori, ormai pentiti. Franco Bonisoli diventerà addirittura suo amico, fino a essere l’ultimo a lasciare la camera ardente dopo i suoi funerali. «Grazie Indro. Grazie di cuore, di tutto. Con affetto, Franco Bonisoli», lasciò scritto sul registro delle partecipazioni.

caduto alla stessa Cnn, a Bagdad. E non sono mancati appunti i casi, sia pure rari, di giornalisti armati. Il Wall Strett Journal riferì ad esempio di Dexter Filkins: corrispondente del New York Times, che nell’ottobre del 2003 in Iraq scampò per poco a un linciaggio in Iraq assieme a due fotografi, e che a un certo punto aveva iniziato ad andare in giro con la pistola. All’epoca si discusse molto del problema etico che questa scelta aveva sollevato, ma proprio quest’anno le sue corrispondenze hanno valso a Filkins un Premio Pulitzer. Sempre a proposito dell’Iraq, è pure noto che i giornalisti embedded con le truppe Usa avevano ricevuto dal Pentagono il divieto formale di portare armi: ma poi in particolari situazioni di pericolo erano stati gli stessi militari che li accompagnavano a passare loro pistole

Qualche volta si è accontentati di semplici giubbotti antiproiettile. Ma in qualche altra si sono impiegate scorte armate, che hanno finito anche per essere coinvolte in conflitti a fuoco: è ac-

Nel 1944, Hemingway anticipò di qualche ora la liberazione di Parigi guidando, mitra alla mano, un gruppo di partigiani francesi all’assalto delle cantine dell’Hotel Ritz rato un’arma. Egisto Corradi raccontava che un giorno i redattori si erano accorti di quella bretella reggi fondina sotto la giacca, e gli avevano allora chiesto di esaminare quell’arma. «Sì, ma prudenza», aveva raccomandato Montanelli. E allora si era svolta una scena quasi comica. Per quanti sforzi facessero, infatti, la rivoltella non veniva via. Ci provarono in tutti i modi, e alla fine fecero un ultimo sforzo: uno teneva forte la fondina, l’altro tentava di estrarre. Ma niente. Insomma, commentava Tommaso Giglio nell’abbozzo di biografia del 1981 Un certo Montanelli, «se fosse vissuto nel Far West, Montanelli si sarebbe certamente guadagnato l’appellativo di “Lo Smilzo”, per la sua altezza e per la sua andatura dinoccolata. Ma non sarebbe certo stato capace di guadagnarsi l’appellativo di “pistola più veloce del West” perché, prima che fosse riuscito a estrarre la pistola, anche il più inesperto degli avversari avrebbe avuto il tempo di crivellarlo di colpi». Lui stesso a caldo con-

I casi russo, filippino e dell’Italia degli Anni di Piombo, però, riguardano problemi di terrorismo interno e delinquenza comune. Più complesso è il problema dei giornalisti sul fronte di guerra, dove l’essere disarmati dovrebbe costituire una garanzia di imparzialità, e


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essico e Russia, due in Afghanistan, Filippine, Sri Lanka e Palestina, uno in India, zuela. Dopo la mattanza di quest’anno, i cronisti riscoprono il fascino del revolver

r con la pistola

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riali ma a colpi di fucile e mitra fu quella tra che su combatté a Chicago per un paio d’anni tra l’Herald and Examiner di William Randolph Hearst e il Chicago Tribune del colonnello Robert Rutherford McCormick. Qualche storico sostiene che sarebbero state appunto le bande di scherani assoldate dai due rivali, nel momento in cui poi si misero in proprio, a dare origine alla famigerata malavita di Chicago.

Se così andavano le cose negli anni ’20 e ’30 del XX secolo, ci si può figurare che cosa poteva mai accadere nel Far West! Infatti, Giornalismo nel Tennessee è un famoso racconto di Mark Twain in cui si descrive un direttore che corregge un articolo, e «nel bel mezzo del suo lavoro qualcuno gli sparò attraverso la finestra aperta compromettendo la linea del mio orecchio.“Ah”, disse,“è quel mascalzone di Smith del Vulcano morale, doveva venire ieri”. Sfoderò dalla cintura un revolver della Marina e fece fuoco. Smith cadde colpito a una coscia. Il colpo rovinò la mira di Smith che stava proprio per provarci di nuovo e beccò un estraneo. Me. Solo un dito portato via». E poi cade giù una bomba a mano dal tubo della stufa, un mattone rompe la finestra, il collega di un giornale rivale viene a sfidare il direttore a un duello alla pistola, e infine lo stesso direttore se ne va per cena, lasciando le istruzioni al narratore. «Jones sarà qui alle tre: frustalo. Gillespie forse si farà vivo prima: buttalo fuori dalla finestra. Ferguson passerà verso le quattro: ammazzalo. Credo che per oggi sia tutto. Se trovi il tempo, scrivi un articolo tosto sulla poli-

Già da un anno prima del famoso attentato delle Br del 2 giugno 1977, l’allora direttore del Giornale, Indro Montanelli, si era procurato un’arma. E un giorno i redattori gli chiesero di esaminarla...

o granate. D’altra parte, nella storia americana c’è pure il corrispondente di guerra Ernest Hemingway che il 25 agosto del 1944 anticipò di qualche ora la liberazione di Parigi col guidare mitra alla mano un gruppo di partigiani francese all’assalto delle cantine dell’Hotel Ritz. Trincerato in una suote, passò il tempo a sorseggiare e offrire champagne cognac, fino a quando non gli si presentò André Malraux vestito da colonnello, alla testa di un plotone di soldati gollisti regolari.

«Che peccato, non abbiamo potuto contare sulle tue magnifiche truppe quando abbiamo liberato Parigi». «Papà, possiamo fucilare questo coglione», chiese a Hemingway uno dei suoi partigiani. Rivalità letterarie... Su un certo dna del giornalismo americano

Nella pagina a fianco: in alto, il corrispondente del New York Times, Dexter Filkins; a sinistra, Anna Politkovskaya; a destra, Ernest Hemingway. Qui sopra, una scena del film “Blood Diamond”

può d’altronde testimoniare anche il famoso aneddoto di Leonard Jerome: l’agente di cambio che dopo vari saliscendi finanziari sarebbe divenuto proprietario e direttore del New York Times. In attesa che sia figlia Jennie sposasse il figlio di un Duca discendente del famoso Duca di Marlbrough imbattibile generale del ’700, oltre che astro nascente della politica inglese, e diventasse la madre del condottiero di un altro grande conflitto: Winston Churchill.

Leonard, dunque, un giorno portò in redazione un carico di fucili e munizioni, avvertendoli che il giornale stava per essere assalito da una folla inferocita intenzionata a linciare tutti quanti: inutile dire che l’assalto fu brillantemente respinto. Un’altra guerra giornalistica che si combatté non solo a edito-

zia: fai vedere i sorci verdi all’ispettore capo. Le fruste sono sotto il tavolo; le armi nel cassetto, le munizioni là nell’angolo, garza e bende laggiù nello schedario. Se ti capita qual cosa vai da Lancet, il chirurgo, al piano di sotto. Si fa pubblicità e ci paga in natura». Invece, saranno i “clienti” a sfogare sul malcapitato, che deciderà di cambiare mestiere. «L’ospitalità meridionale è troppo generosa per un forestiero... Il giornalismo del Tennessee è troppo faticoso per me». Stravolgimenti grotteschi, e barbarie ovviamente yankee. Nella civile Europa direttori e giornalisti si affrontavano invece con i deputati a duello, e il 6 marzo del 1898 il direttore della Gazzetta di Venezia Ferruccio Macola fece fuori il ”bardo della democrazia” Felice Cavallotti, leader del Partito Radicale, con un colpo di sciabola nella carotide. Poi ci fu il Leo Longanesi del periodo fascista, che disegnò redazioni piene di mortai e mitragliatrici. E qualcuno dice pure di aver visto aggirarsi al G8 di Genova un personaggio misterioso in moto con pistola in pugno e pettorina da giornalista. Insomma: dall’arma della critica, alla critica delle armi.


economia

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Nuovi cercatori. Il Novecento è proprio finito: è stato il secolo delle monete, basato sulla fiducia più che sulla concretezza

La rivincita dell’oro La crisi e la politica Usa che deprezza il dollaro ci fanno tornare alle antiche corse alla ricchezza di Carlo Lottieri rmai non fa quasi più notizia il fatto che l’oro segni un record dopo l’altro. Ieri s’è avvicinato a quotare 1.120 dollari a oncia ed è ragionevole attendersi che la fuga verso l’alto non sia ancora finita. Tutto questo deve fare riflettere, perché la “corsa all’oro” registrata su tutti i mercati finanziari è il segno di fenomeni concomitanti sui quali varrebbe la pena di riflettere.

O

Se oggi gli investitori sono ben disposti a cedere dollari in cambio di piccoli lingotti di metallo giallo, l’insegnamento che dobbiamo ricavarne è semplice. Nonostante tutte le chiassose fanfare che risuonano da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico, la crisi è ben lungi dall’essere finita. Tipicamente, l’oro è un“bene rifugio”: è considerato un investimento che, in

periodi difficili, è destinato a vedere aumentare il proprio valore, contrastando il malessere dell’economia produttiva. In qualche modo, l’idea è che il mondo attorno a me può anche crollare, ma se ho da parte qualche lingotto posso stare sicuro che la mia ricchezza non sva-

la sua stessa civilizzazione. In fondo, la desiderabilità delle monete auree era soprattutto legata al peso (una volta accertato che fossero davvero e integralmente di quel metallo) e questo sottraeva in larga misura ai sovrani il controllo sulla circolazione monetaria. Certa-

In periodi di recessione, il vantaggio cruciale del metallo prezioso è che può aumentare la propria quantità solo se si trovano altre miniere o si potenzia lo sfruttamento di quelle esistenti nirà nel nulla. Anzi. Per giunta, l’oro è stato la moneta per secoli. A dispetto delle varie fogge che assumeva e nonostante le differenti certificazioni, la valuta aurea è stato lo strumento monetario internazionale che ha permesso e favorito lo sviluppo economico dell’Europa e

mente, per quello che riguarda gli scambi interni, gli Stati fecero tutto il possibile per trarre ogni beneficio dal monopolio e dal diritto di signoraggio (perché solo le monete con l’effige del sovrano avevano corso legale), ma questo discorso non valeva più a livello globale.

Previsioni di crescita in rialzo, ma per la banca europea occorre calmierare i costi

Ora grandi riforme per il lavoro Nuovo allarme della Bce: «Cambiare il mercato per la ripresa» di Alessandro D’Amato

ROMA. Il rischio è la disoccupazione strutturale. La Banca Centrale Europea nel suo bollettino mensile usa per la prima volta un aggettivo pesante, che è allarmante proprio per il suo significato intrinseco: vuol dire che anche quando passerà definitivamente la crisi e il prodotto interno lordo ricomincerà a crescere, questo non si tradurrà automaticamente in nuovi posti di lavoro, visto che dalla ristrutturazione in atto nel settore produttivo rimarranno in vita i più forti, senza che però necessariamente la loro occupazione di quote di mercato lasciate libere dalla concorrenza permetta il riassorbimento della manodopera in eccesso.

Per questo, aggiornando le stime del Pil al rialzo, Francoforte raccomanda soprattutto di dare «importanza cruciale a politiche che mirino a favorire l’occupazione, al fine di prevenire una disoccupazione strutturale molto più elevata nei prossimi anni». Gli esecutivi però non devono sussidiare e basta: allo stesso tempo, i governi «devono rendere note e attuare tempestivamente strategie di uscita dalle misure di stimolo e strategie di riequilibrio dei conti pubblici che siano ambiziose», altrimenti si «potrebbe rischiare seriamente di compromettere la fiducia dei cittadini nel-

la sostenibilità delle finanze pubbliche e nella ripresa economica». E Trichet, sposando la linea del rigore – cosa che non piacerà a Francia e Germania – dice anche no alle riduzioni delle tasse nell’immediato: «Gli sgravi fiscali dovrebbero essere considerati solo nel medio periodo, una volta che i Paesi avranno recuperato un sufficiente margine di manovra dei bilanci». Anche la Bce conferma i primi segnali di lenta uscita dalla crisi, tant’è vero che diverse previsioni di crescita vengono riviste al rialzo. Gli ultimi dati «continuano a segnalare un miglioramento dell’attività economica nella seconda metà dell’anno». Senza che questo porti a un aumento dei prezzi: le aspettative di inflazione a medio-lungo periodo «rimangono saldamente ancorate in linea con l’obiettivo de Consiglio direttivo di mantenere i tassi di inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio periodo».

Pertanto, le aspettative di crescita dell’Eurozona per il 2010 e 2011 vengono anch’esse riviste al rialzo, rispettivamente di 0,7 e 0,1 punti percentuali e si collocano all’1,% e all’1,6%. E poi, appunto, permane l’allarme occupazione, anche se vengono leggermente migliorate le stime: il tasso di disoccupazione per il 2009 e il 2010 è rivisto al ribasso di 0,2 e 0,3 punti percentuali e si colloca


economia Per molto tempo la “non moltiplicabilità” del bene-oro ha posto limiti assai severi alla possibilità dei governi di sviluppare una loro politica monetaria e, di conseguenza, manipolare la moneta. È per questo motivo che nel corso del Novecento, il “secolo breve” dominato dallo Stato, l’oro è stato un po’ alla volta ridimensionato nella sua funzione e, alla fine, definitivamente accantonato. È il 15 agosto del 1971 quando il presidente repubblicano Richard Nixon abbandona del tutto la parità oro-dollaro, che era stata decisa nel 1944 in occasione degli accordi di Bretton Woods. La decisione di Nixon ha cambiato il volto dell’economia globale. Con l’abbandono del sistema dei cambi fissi, la moneta poteva essere un bene artificiale: una realtà integralmente di “carta” che la banca centrale moltiplicava a proprio piacere. L’espansione inflazionistica che gli Usa e il mondo hanno conosciuto a seguito di quella scelta cruciale non furono allora fenomeni casuali, ma discesero direttamente da quella scelta strategica. Come ha spiegato Duccio Basosi in un volume apparso tre anni fa (Il governo del dollaro, edito da Polistampa), la decisione di “affrancare” la moneta americana fu il risultato di una lunga analisi e rifletté la volontà americana di usare la propria valuta entro una logica egemonica. Secondo Basosi, “l’operato di Nixon non fu casuale, né obbligato, ma frutto di una decisione politica. Naturalmente egli

rispettivamente al 9,5% e al 10,6%. Per il 2011 il tasso di disoccupazione si colloca al 10,4%, rivisto al ribasso di 0,2 punti percentuali. Il motivo del pessimismo sul mediolungo periodio è spiegato dal Bollettino. Le aspettative di crescita più a lungo termine (nel 2014) sono rimaste invariate all’1,9%. Nel motivare la revisione al rialzo delle attese di crescita dell’Eurozona per il 2009, 2010 e 2011, i 56 previsori intervistati hanno fatto riferimento alla ripresa del commercio mondiale (sospinta dai mercati emergenti), al contributo positivo delle scorte e agli effetti delle misure di politica economica adottate dai Governi e dalla Bce. Ma a preoccupare sono i diversi fattori che potrebbero invece frenare la crescita.Tra questi, un inasprimento delle condizioni creditizie e un basso tasso di utilizzo della capacità produttiva con conseguente impatto avverso sugli investimenti, un apprezzamento dell’euro penalizzante per le esportazioni, un deterioramento delle prospettive del mercato del lavoro in termini di alta disoccupazione e ulteriore rallentamento della crescita dei salari che porti a sua volta a una riduzione del reddito reale e dei consumi. Alcuni intervistati, segnala la Bce, hanno sottolineato che la crescita potrebbe perdere slancio nella prima metà del 2010 con il progressivo esaurirsi di vari pacchetti di stimolo fiscale.

Un altro record: 1123,38 dollari LONDRA. Restano orientati al rialzo i prezzi dell’oro, che ieri hanno segnato l’ennesimo picco tra l’effetto combinato della perdurante debolezza del dollaro e l’arresto della corsa al rialzo dei mercati azionari, da cui possono provenire liquidità in cerca di altri canali di investimento. Negli scambi elettronici sul New York Mercantile Exchange i futures sull’oro hanno segnato un massimo a 1121,3 dollari l’oncia, fino a quando, sul mercato di Londra, l’oncia ha raggiunto il nuovo record di 1123,38 dollari. Il tutto mentre il prezzo del petrolio sembra invece stabile.

non aveva la coscienza esatta di tutte le conseguenze che ne sarebbero seguite, però le affermazioni dei protagonisti della manovra americana dimostrano una loro piena coscienza d’azione”. Mentre le regole più liberali che connettevano strettamente oro e dollaro lasciavano poco spazio al finanziamento di questa o quella iniziativa nel mon-

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do, quando la moneta finisce per dipendere dalla semplice decisione di un piccolo numero di persone, quello che si apre dinanzi a Washington è uno straordinario spazio di manovra. Oggi, però, la realtà torna a dettare la propria legge. E infatti il dollaro crolla proprio mentre l’oro cresce, dal momento che gli investitori sono spaventati dalle politiche adottate dall’amministrazione Obama, la quale prima ha salvato le banche, poi ha licenziato il suo pacchetto di “stimoli” e, infine, si appresta a rivoluzionare la sanità statunitense con la creazione di un’agenzia che elargirà coperture assicurative a basso costo.

Il vantaggio cruciale dell’oro è che esso può aumentare la propria quantità solo se si trovano altre miniere o si potenzia lo sfruttamento di quelle esistenti. E non è facilissimo. Viceversa, la moneta fiduciaria di Stato è soltanto carta: essenzialmente, banconote e prestiti. Ma proprio per questo motivo il rischio è che, presto, tutto ciò diventi carta straccia, come già avvenne in quella Germania degli anni Venti che aprì la strada a Adolf Hitler. Onestamente, c’è di che preoccuparsi.

menti rappresenta il dato più preoccupante: perché se non ripartono, molto difficilmente ripartirà l’occupazione.

E tutto questo suona anche come monito per il governo italiano: «Non basta la cassa integrazione», ha detto il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, ma il problema è che la ricetta della Bce non piacerà mai al sindacato rosso, visto che nel suo Bollettino di novembre sottolinea che sono ”indispensabili” la moderazione salariale e una sufficiente flessibilità del mercato del lavoro, e avverte anche che servono «efficaci incentivi all’occupazione». Invece per il segretario confederale della Uil, Antonio Foccillo, «non è più rinviabile la ricerca di una “exit strategy” complessiva, date le ancora troppo poco convincenti relazioni tra l’economia reale e il settore finanziario a discapito delle fasce più deboli ed in vista di un probabile prossimo rialzo dei tassi d’interesse. Questi dati, ai quali si aggiungono anche quelli della Banca d’Italia, e riguardanti la valutazione delle famiglie in difficoltà, fanno emergere i veri problemi da affrontare, e cioè la difficoltà delle famiglie, in particolare quelle a basso reddito, di ripagare prestiti, mutui e credito al consumo e più in generale di creare domanda». Il continuo indebolimento del potere d’acquisto, conclude Foccillo, «penalizza oltre misura i redditi da lavoro dipendente e le pensioni mentre l’attuale finanziaria non sembra occuparsene, per questo chiediamo con forza al Governo una detassazione di questi redditi ad iniziare dalle prossime tredicesime». Due ricette assolutamente discordanti, ma in Italia non c’è né l’una né l’altra.

In Italia, il primo a commentare la ricetta di Trichet è Guglielmo Epifani per il quale, comunque, servono interventi complessivi: «La cassa integrazione non basta più»

Riguardo alle stime sull’inflazione, molti previsori hanno detto di aspettarsi che l’ampio ’output gap’e il sottoutilizzo della capacità produttiva esercitino pressioni al ribasso sull’inflazione, che in base alle attese dovrebbe rimanere al di sotto del 2% nel medio termine. Per la

maggior parte degli intervistati, i principali rischi al rialzo per l’inflazione sono gli aumenti dei prezzi del petrolio e delle materie prime. Insomma, anche se non lo dice chiaramente, la Bce capisce che il rischio sta tutto nell’esaurirsi della spinta propulsiva che ha frenato la crisi. E che se questo accadesse la maggior parte degli Stati non potrebbe permettersi un’altra serie di sovvenzioni all’economia, anche perché i nuovi bilanci non sarebbero in ordine. In questa situazione, la stagnazione degli investi-


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Afghanistan. Il presidente Usa prende tempo sull’aumento delle truppe a decisione del presidente Usa, Barack Obama, di tenere ancora in stand by tutti i progetti per l’incremento di truppe in Afghanistan lascia intendere che il governo statunitense sia sempre più deciso a respingere le richieste di un nuovo incremento di truppe da inviare al fronte. Del resto, le anticipazioni nei giorni precedenti erano tutte orientate in tal senso. Dal vice presidente, Joe Biden, al segretario di stato, Hillary Clinton, passando per il senatore Kerry - forse il membro del Congresso più direttamente coinvolto nella questione - l’opzione di un consistente aumento di uomini era stata criticata e osteggiata sulla base di una lunga serie di motivazioni. Ultimo e forse ancora più incisivo è stato l’intervento dell’Ambasciatore Usa a Kabul, Karl Eikenberry, anch’egli contrario all’invio di altri soldati. Peraltro l’opinione del diplomatico deve essere stata valutata con maggior valore a Washington rispetto a quella di chiunque altro, in quanto è giunta da un osservatore diretto della guerra che è anche un ex generale. Facile pensare, quindi, che quello di Eikenberry sia stato accolto come un giudizio inappellabile.Tuttavia la scelta della Casa Bianca non va vista come un pollice verso nei confronti del generale Stanley McChrystal, comandante in capo delle forze straniere in Afghanistan. L’alto ufficiale statunitense, al contrario dei suoi interlocutori a Washington, aveva più volte perorato la causa di un maggior contributo, in risorse di uomini e mezzi da mettere a sua disposizione. La surge che il Pentagono gli aveva ordinato di rea-

L

Obama avvisa Karzai: l’aiuto non è per sempre Senza una vera lotta alla corruzione e al terrorismo, non c’è surge che tenga di Antonio Picasso

La scelta della Casa Bianca non va vista come un pollice verso nei confronti del generale McChrystal, ma come un monito a Kabul lizzare, sull’esempio di quella irachena, avrebbe richiesto ben oltre le 40mila unità - scese poi a 30mila - che il governo gli aveva promesso.

Al contrario, questo “no!”così secco è in realtà un messaggio rivolto al presidente afgano, Hamid Karzai, appena confermato nel suo ruolo di leader del Paese, in seguito all’annullamento del ballottaggio con lo sfidante Abdullah Abdullah. Washington pretende che il governo di Kabul impiegi il proprio apparato di sicurezza e di Polizia per la pacificazione del paese. Tracciando un bilancio approssimativo, dopo otto anni di guerra, l’intervento di Isaf e della Nato in Afghanistan è sostanzialmente negativo. Gli Usa da so-

li hanno perso 830 uomini in combattimento. L’Italia ha pagato con oltre 20 caduti il prezzo di questa difficile operazione di peacekeeping. Da un punto di vista della lotta al terrorismo e di minaccia talebana - le motivazioni originarie che portarono all’ingresso dei soldati occidentali nel Paese - i risultati sono tristemente contenuti. Questo ha attribuito alla guerra in Afghanistan un’aurea di impopolarità. Obama, dal canto suo, si è impegnato a risollevare le sorti del conflitto, facendo pressione - sia a livello di opinione pubblica interna sia sul fronte di guerra - affinché questo riacquisti l’identità iniziale e non venga sovraccaricato di ulteriori problematiche. Come invece è accaduto. Nel 2001, gli

Usa e i loro alleati entrarono in Afghanistan per sgominare alQaeda e abbattere il regime talebano che ospitava la cupola di questa organizzazione terroristica. Entrambi gli obiettivi furono raggiunti solo parzialmente e poi nuovamente perduti. Le criticità proprie del Paese - corruzione, narcotraffico, rivalità tribali che fanno parte del gene culturale afgano - ebbero il sopravvento. Ma, effettivamente, non rientravano nelle competenze della missione di peacekeeping. L’Occidente, al contrario, auspicava che il nuovo governo nazionale di Kabul, guidato da un leader come Karzai, democraticamente eletto e accettato a livello trasversale dalla maggior parte delle etnie e tribù, avrebbe potuto contribuire con uomini e mezzi nella pacificazione del Paese. In questo modo, si sarebbero potute suddividere le mansioni. I contingenti militari stranieri si sarebbero concentrati nel combatte-

re i mujaheddin e i guerriglieri islamici. Le forze di sicurezza nazionale, a loro volta, avrebbero contrastato i signori della guerra, i trafficanti di droga e qualsiasi altra presenza armata sul territorio. Si trattò, in questo caso, di una valutazione quanto mai esclusiva, che non considerava la possibilità di un ben più complesso intreccio fra tutti gli avversari.Al punto che oggi si è giunti alla conclusione di non sapere effettivamente quale sia l’identità del nemico contro cui si sta combattendo.

Con questa proroga, invece, Obama ha voluto far sapere che, al di là di tutti gli errori di valutazione compiuti soprattutto dagli Usa, è necessario tornare alle origini del conflitto e fare in modo che la distribuzione dei compiti definita otto anni fa venga realizzata oggi. Karzai, appena confermato alla presidenza, ha promesso di contrastare la corruzione e il traffico di droga, ma non ha detto come interverrà e con quali misure. Ha promesso di affiancare le forze occidentali con quelle nazionali a sua disposizione. Ma sappiamo che queste necessitano di un lungo corso di addestramento che soltanto gli uomini della Nato possono fornire. Inoltre, ha invitato i talebani a un tavolo di trattative, per capire se sia possibile definire un accordo di pace. Tuttavia, non è chiaro con quali capi talebani Karzai intenda confrontarsi, se con quelli più disponibili, o anche con il nucleo più intransigente che fa capo al Mullah Omar, il quale difficilmente vorrà trattare con un “uomo dell’Occidente” come è classificato il presidente afgano. È sulla base di queste debolezze del programma di Kabul che la Casa Bianca ha rinviato la decisione di mandare altri ragazzi al fronte. In questo senso, pretende che Karzai si assuma le proprie responsabilità e dia il suo contributo alle operazioni di pacificazione. Del resto l’Afghanistan non manca né di aiuti e né di sostegno da parte della comunità internazionale. La recente dichiarazione del Giappone di investire altri 5 miliardi di dollari nei progetti di ricostruzione, per esempio, conferma che Kabul non verrà abbandonata a se stessa. Anche se non dovessero arrivare altri soldati stranieri. Nell’ottica degli Stati Uniti, affinché il Paese cominci a camminare con le proprie gambe, è necessario che i suoi sostenitori d’oltre confine concentrino gli sforzi in settori alternativi a quello della sicurezza. Perché quest’ultimo dovrà diventare, nei tempi più brevi possibili, di esclusiva competenza del governo afgano.


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Nelle mani dei pirati ancora 300 ostaggi. Tutti nel Puntland

Ieri l’annuncio: ma i voli serviranno solo Jeddah in Arabia Saudita

Somalia, ucciso giudice che condannò pirati e shebab

“Re Ramzan” diventa generale e apre l’aeroporto ceceno di Grozny

NAIROBI. Aveva condannato moltissimi pirati somali e di recente anche quattro persone accusate di essere esponenti del terrorismo islamico somalo. E non gli è stato perdonato. Mercoledì, Sheikh Mohamed Abdi Aware, il giudice “colpevole” di aver fatto il suo dovere in un terra, la Somalia, dove la legalità non esiste, è stato ammazzato. A Bosasso, importante porto e principale città del Puntland, regione semiautonoma nel nordest della Somalia, rifugio dei nuovi predoni islamici del mare. Il giudice Aware, presidente dell’alta corte del Puntland, è stato finito con una scarica di colpi di pistola alla testa all’uscita della moschea, dove si era recato come ogni giorno a pregare, da un gruppo di killer mascherati che poi si sono dati alla fuga. Secondo le autorità locali, tre persone sono state arrestate per l’assassinio. In questi giorni tra la Spagna e le autorità somale è in corso un negoziato sulla possibile consegna a Mogadiscio di due pirati somali detenuti in Spagna. E non è escluso che l’esecuzione sia da leggersi anche come un’intimidazione su questo fronte. Le coste del Puntaland sono la Tortuga della pirateria somala: attualmente vi si trovano ancorate almeno una quindicina di navi sequestrate (due prese ieri), con complessivamente circa 300 membri degli equipaggi. Sempre mercoledì è stato assassinato nella capitale regionale, Garowe, un deputato del locale Parlamento, Ibrahim Elmi Warsame. Stando agli osservatori, i due omicidi, quasi simultanei, sono ascrivibili non tanto alla tensione politica crescente e violenta che si registra in Puntland, ma al terrorismo di al Shabaab, che non ha mai nascosto un’alleanza tattica con la pirateria. Il gruppo integralista al Shabaab è ritenuto il braccio armato somalo di al Qaida (le 4 persone condannate dal giudice assassinato ne erano esponenti) che già controlla buona parte della Somalia e di Mogadiscio e che da tempo sta cercando di infiltrarsi anche nella regione autonoma del nord-est.

GROZNY. È cosa nota: quando “Re Ramzan”entra nel suo ufficio di Grozny ha l’aria di un uomo con il mondo ai suoi piedi. Ramzan è il nome di battesimo del primo ministro ceceno Kadyrov, 33enne amico di Putin, con una reputazione temibile tanto quanto quella del suo “padrino”. Già Eroe della Russia, massima onorificenza militare russa, da ieri è anche insignito del grado di generale di polizia. Glielo ha dato il presidente Medvdev in persona «per i grandi meriti nell’organizzare e condurre operazioni speciali contro la guerriglia e le formazioni armate e terroristiche». Insomma, combatterebbe il terrorismo di matrice islamica, quello stesso che - secondo

Yemen, la guerra nel cuore dell’Islam L’Iran tesse le fila del conflitto per egemonizzare la regione di Emanuele Ottolenghi ontano dalle telecamere internazionali, in un’area remota delloYemen, è in corso da tempo una guerra tra il governo centrale di Sa’na e i ribelli Houthi di fede sciita Zaydi - una variante rispetto alla fede sciita prevalente in Iran e Iraq. Nei giorni scorsi, la guerra ha subito un’escalation, con l’intervento diretto dell’aviazione saudita contro gl’insorti, cui ha fatto seguito una dura messa in guardia contro i “paesi confinanti”(solo Oman e Arabia Saudita confinano con lo Yemen) a interferire da parte dell’Iran. Mercoledì poi il ministro degli esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, ha offerto la propria mediazione al governo yemenita. Molti osservatori hanno sottolineato l’elemento settario di questo conflitto - gli Zaydi vivono prevalentemente nel nord montagnoso del paese e sono da sempre in conflitto latente con le tribù Sunnite che popolano la parte meridionale del paese. Questo elementeo certamente è stato accentuato dall’interferenza di sauditi e iraniani a sostenere le rispettive comunità. Ma la realtà è molto più complicata che un nuovo episodio della guerra tra sciiti e sunniti. In fondo, il presidente yemenita appartiene alla stessa setta che combatte contro il governo centrale. E del resto difficilmente si può spiegare l’intervento saudita solo in chiave anti-sciita, anche se non c’è dubbio che per i sauditi almeno l’elemento settario conta. Il vero nodo della discordia in realtà è un altro: lo scontro in corso è tra l’Iran, che con il sostegno ai ribelli yemeniti punta ad affermare un ruolo egemonico nella regione, e l’Arabia Saudita che quel ruolo egemonico teme. L’intera regione è attraversata da sussulti conflittuali dove la mano iraniana è sempre più visibile. E per l’Iran poco importa se il suo sostegno va a sciiti o sunniti. Conta il fine - guadagnare influenza e destabilizzare regimi ideologicamente avversari. In fondo, l’Iran non è solo lo sponsor principale delle organizzazioni sciite di Hezbollah in Libano e dell’Armata del Mahdi in Iran, ma anche di Hamas, filiale palestinese del movimento (sunnita) della Fratellanza Mussulmana. L’Iran ha da anni solidi rapporti

L

con il Sudan sunnita. Fu l’Iran a inviare in Sudan Imad Mughniya - l’architetto sciita libanese del terrore di Hezbollah morto in un’autobomba a Damasco nel 2008 - per addestrare i guerrieri sunniti di al-Qaeda negli anni Novanta, prima che Osama Bin Laden tornasse in Afghanistan. In quest’ottica spregiudicata, l’alleato non è necessariamente sciita - vedi Hamas e il Sudan - né necessariamente mussulmano - vedi Hugo Chavez in Venezuela.

L’Iran aspira a diventare una superpotenza sovversiva, vuole indebolire l’influenza e la presenza americana nella regione, e aspira a farsi paladino delle istanze terzomondiste grazie al prestigio che acquisterebbe se riuscisse a diventare la potenza egemonica in Medio Oriente. Sfrutta quindi conflitti esistenti alimentandoli per rendersi indispensabile alla loro soluzione. È il caso delloYemen, dove l’Iran, dopo aver giocato il ruolo di piromane (armando gl’insorti e addestrandoli) ora si fa avanti come volontario per fare il pompiere. La crisi in Yemen è un altro pezzetto del puzzle che Europa e America non devono perdere di vista in Medio Oriente nella loro partita a scacchi con Teheran. L’Iran oggi non ha solo un ruolo sovversivo in Iraq, Libano e Gaza. Fornisce armi ai talebani in Afghanistan per mantenere la pressione sui governi occidentali e rendersi indispensabile in quel paese. Ha creato una testa di ponte in Eritrea ad Assab, dove le Guardie Rivoluzionarie hanno stabilito una base permanente per addestrare i ribelli yemeniti (e per convogliare armi ad Hamas). Aiuta il regime sudanese e ne ottiene assistenza per usare il Sudan come transito per le medesime armi. E foraggia le forze islamiste in Somalia in chiave antioccidentale. Tutto questo ha poco a che fare con lo scontro sciiti-sunniti, ma si delinea come una strategia sovversiva tesa a mettere un’ipoteca iraniana sullo strategico tratto di mare che va da Bab el Mandes - l’accesso marittimo dall’Oceano Indiano al Mar Rosso - fino al Canale di Suez, e che darebbe ulteriore sostegno alle ambizioni iraniane di controllare la regione.

A Teheran poco importa sostenere sciiti o sunniti. Conta il fine: destabilizzare i regimi ideologicamente avversari

molte altre organizzazioni occidentali - invece sviluppa e addestra. Per festeggiare, il presidente Kadyrov, fervente musulmano che ha già introdotto la poligamia, vietato l’alcol e il gioco d’azzardo, e avallato la lapidazione per le adultere, ha annunciato al mondo di essere pronto ad aprire la capitale Grozny al traffico aereo internazionale. C’è anche una data: il 16 novembre. Come riferisce la Itar-Tass, a inaugurare l’attività internazionale dell’aeroporto sarà uno Yak-42 della compagnia Grozny-Avia diretto a Gedda, in Arabia Saudita, dove condurrà un gruppo di pellegrini diretti alla Mecca. Il vicedirettore generale della compagnia aerea, Vladimir Burak, ha detto che per ora sono in programma voli verso la Turchia, la Siria e l’Arabia Saudita con una cadenza di due volte a settimana, mentre verso il Kazakhstan due volte al mese. Grozny-Avia possiede due aerei Yak-42 e ne affitta altri quattro dello stesso tipo. Il presidente ceceno, annunciando l’abolizione delle limitazioni sui voli internazionali, ha sottolineato che l’aeroporto di Grozny dispone di tutto il necessario per garantire ogni comfort, ma non ha fatto cenno di voler aprire lo scalo verso altre destinazioni.


cultura

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Rievocazioni. Gulag, Kgb, spie, controllo del consenso: si sa molto degli orrori dell’Unione sovietica, ma lo storico Orlando Figes aggiunge molti dettagli

La felicità (per legge) Com’era la vita quotidiana in Urss ai tempi di Stalin? Terrore e consumismo: un libro rivela tutti i particolari di Pier Mario Fasanotti oloro che conoscono bene i russi dicono che sono gente riservatissima e conformista. Non è assolutamente da escludere che questo tratto caratteriale sia stato rafforzato dalla dittatura staliniana. Lo storico russo Mihail Gefter argutamente annota che «il potere reale e il retaggio durevole del regime di quel periodo non risiedono nelle strutture statali, e nemmeno nel culto del capo, ma nello stalinismo insinuatosi dentro ognuno di noi». In altre parole un esempio, unico e terribile, di come la politica che evita e mette al bando la distinzione tra vita privata e vita pubblica può cambiare comportamenti e mentalità. Si è scritto molto sui Gulag, sul tentacolare Kgb, sulle spie, sul controllo della popolazione, sulla propaganda martellante e penetrante. Molto poco sulla vita privata dei “sudditi”del regime. Anche perché le fonti trovate sono prevalentemente orali vista la paura di ogni russo a tenere in casa un diario, che era poi la prima cosa che sequestravano e usavano come capo d’accusa negli pseudo-tribunali del popolo. A raccontare il lato intimo, familiare e psicologico dei russi ci ha pensato uno storico inglese, Orlando Figes, di cui Mondadori ha tradotto il suo ponderoso Sospetto e silenzio (580 pagine, 38 euro).

C

L’autore racconta di un paese «addestrato a parlare sottovoce». Non è un caso che la lingua russa abbia due parole per definire chi parla a voce bassa: una indica «chi sussurra per paura di essere udito» (sepcuscij) e un’altra «chi fa l’informatore o parla alle spalle del prossimo» (septun). È, questa, una distinzione che trae origine dal lessico degli anni di Stalin, quando l’intera società sovietica era costituita da «sussurratori» di un tipo e dell’altro. Stalin assunse il controllo della direzione del partito nel 1928 e lo mantenne fino alla sua morte, nel 1953.

Si calcola che circa 25 milioni di cittadini subirono la repressione del governo sovietico. Quei 25 milioni rappresentavano nel 1941 più o meno un ottavo della popolazione (era di circa 200 milioni). Ma le cifre non comprendono le vittime della carestia e della guer-

Il lungo saggio, pubblicato da Mondadori, racconta numerose storie significative e terribili di cittadini umiliati

ra. Chi usciva, se usciva, dal gulag faceva fatica a rientrare nel nucleo familiare: dopo tanti anni di internamento i legami erano sovente spezzati o comunque diventati labili. Non c’era una vita normale da poter riprendere.

Drammaticamente singolare è la vicenda di Antonina Golovina. Aveva otto anni quando venne confinata, assieme alla madre e a due fratelli minori, nella regione siberiana dell’Altaj. Durante la collettivizzazione del suo villaggio, nella Russia settentrionale, suo padre fu arrestato e spedito per tre anni in campi di detenzione in quanto «Kulak», ossia contadino ricco. L’intera famiglia si disgregò: i fratelli di Antonina fuggirono, altri parenti non tornarono mai più dal gulag. Anche dopo la liberazione, nel 1934, Antonina conservò sulla pelle il marchio infamante di kulak, che equivaleva a «nemica di classe». Un giorno l’inse-

gnante la punì dicendole di fronte all’intera classe che «la sua razza» era quella dei «nemici del popolo, i maledetti kulak». E urlò: «Di certo avete meritato la deportazione, e spero che qui vi sterminino tutti!». L’unica salvezza possibile era quella di imparare a tacere. Portandosi con sé, per tutta la vita, il senso della paura, s’impegnò accanitamente negli studi ed entrò addirittura nel Komsomol, l’Unione della gioventù comunista. Antonina voleva essere accettata. Ma fece altro: nascose le proprie origini e si procurò dei documenti falsi per poter accedere alla facoltà di Medicina. Lavorò per 40 anni all’Istituto di Fisiologia di Leningrado e non parlò mai della sua famiglia, per proteggere la quale si iscrisse persino al Partito. Non solo: mai parlò con i suoi due mariti di ciò che era capitato a se stessa e ai suoi familiari. Salvo poi scoprire per caso che Georgij, il primo marito, era nipote di un ammiraglio zarista giustiziato dai bolscevichi. Fino a quel momento non seppe di aver convissuto con un uomo che, come lei, aveva trascorso l’infanzia nei campi di lavoro. La stessa cosa capitò col secondo marito, l’estone Boris, proveniente da una famiglia di «nemici del popolo». Sia con il primo sia con il secondo coniuge Antonina si confidò dopo 40 anni, all’incirca nel 1995. E solo allora rivelò alla figlia che suo nonno era un kulak, fedele ai valori cristiani. Di doppie vite come quella della signora Golovina ce ne furono centinaia di migliaia, anzi milioni. Ai bambini era insegnato a tenere la lingua a freno, a non parlare con nessuno della propria famiglia e a non giudicare o criticare quel che vedevano fuori casa. Racconta la figlia di un funzionario bolscevico: «C’erano certe regole sull’ascoltare e parlare che noi bam-

La piazza Rossa di Mosca addobbata per una manifestazione sovietica sotto gli occhi di Stalin. Sotto, una banconota degli anni Trenta, nella pagina a fianco, Lenin e il Cremlino negli anni Quaranta bini dovevamo imparare». Un’altra donna: «Venivamo educati a tenere la bocca chiusa….mamma mi diceva che chiunque poteva essere un informatore…temevamo i nostri vicini, e soprattutto la polizia…ancora oggi se vedo un poliziotto comincio a tremare di paura».

Per quanto riguarda il sistema di vita, pubblica e privata, la grande svolta cominciò all’inizio degli anni Trenta quando l’apparato sovietico rivalutò l’idea della felicità - sempre secondo i canoni comunisti - e permise di coniugare consumismo e socialismo. Era certamente un’in-

versione a U rispetto all’etica del sacrificio a tutti i costi, della dedizione umiliante verso il regime, dell’odio verso qualsiasi manifestazione borghese, dal gusto per l’estetica e

il decoro, all’ambizione di possedere «qualche gallina» che non fosse «statale» (parole pronunciate da Stalin nel 1935). Il segnale forte lo diede il piano economico quinquennale, quello più vistoso lo fornì la riedificazione di Mosca che nei programmi doveva diventare la nuova Mecca del socialismo mondiale, con cinque milioni di abitanti. Opere faraoniche a detrimento di interi quartieri medievali o settecenteschi distrutti dalle ruspe per far posto a strade da utilizzare per le parate, a palazzi governativi. Si pensò addirittura di abbattere la cattedrale di San Ba-

silio per consentire a quelli delle parate di sfilare di fronte al Mausoleo in formazione unica, senza interruzioni. Mosca voleva diventare capitale imperiale, come lo era stata Pietroburgo all’epoca degli zar. Fiore all’occhiello la


cultura

Metropolitana, arredata come se fosse un palazzo zarista. Gli scavi cominciarono nel 1932, con 75 mila persone impegnate, tra ingegneri e operai molti dei quali provenivano dalle campagne e dai gulag. Ben 250 mila detenuti furono utilizzati per la costruzione del canale di collegamento tra la Moscova e il Volga. Migliaia di uomini morirono di fatica e i loro corpi furono sepolti nelle fondamenta del canale. La città monumentale si ergeva grazie agli schiavi. Nel frattempo si assistette a un cambio nella classe dirigenziale: la vecchia classe dirigenziale tecnica non era considerata affidabile politicamente (nel 1928 solo il 2 per cento degli ingegneri era iscritto al partito). Si formò dunque una nuova borghesia alla quale si concedevano privilegi economici (dacia, negozi pieni di articoli, arredo gratis, auto ecc.) in cambio di assoluta fedeltà.Tutti verso la nuova felicità socialista? No: gli archivi di stato sono pieni di lettere e petizioni scritte da operai e contadini indignati per le difficoltà provocate dal piano quinquennale. Quello russo non era un popolo ancora rassegnato: dappertutto c’erano insurrezioni e scioperi. In molte città, le scritte antisovietiche erano quasi altrettanto numerose di quelle propagandistiche. Nelle zone rurali la protesta si manifestava con gli

stornelli (castuski). Nel ’32 un dirigente industriale scrisse: «Ma dove siamo arrivati? Qui non si respira più. Quei bastardi, più incapaci sono, più sparlano dei compagni. Certo, l’epurazione del vostro partito non è affare mio, ma penso che il suo effetto sarà quello di eliminare le poche persone perbene che rimangono».

Stalin affrontò con mano dura l’opposizione interna. Arresti, deportazioni, fucilazioni. Nel libro La rivoluzione tradita, Trockj notò l’esistenza di un’enorme «piramide amministrativa» composta da 5-6 milioni di burocrati, da cui discendeva il potere di Stalin. Ma il dittatore si vantava del nuovo benessere: aumentò la produzione dei beni di consumo, milioni di bambini cresciuti in quell’epoca ricordano d’aver ricevuto il primo paio di scarpe. La propaganda faceva sapere che nei magazzini Eliseev si potevano trovare 38 tipi di salsicce, tre formaggi (Camembert, brie e Limburger), 200 tipi di dolci e paste, «addirittura 50 tipi di pane». Nel ’34 Stalin dichiarava: «Il socialismo non significa povertà e privazioni, ma l’eliminazione della povertà e privazioni e l’organizzazione di una vita e di una cultura ricche per tutti i membri della società». E nel ’35: «Compagni, la vita è diventata migliore, la vita è di-

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ventata più gioiosa, e quando c’è gioia si lavora bene». Anche se molte persone faticavano ad avere una pagnotta di pane, si aprivano molte scuole di danza, profumerie. L’homo sovieticus doveva vestirsi bene, la donna doveva profumare. Giro di vite, e forte, sui “valori” familiari tradizionali. Basta con la libertà sessuale e il libertinaggio, le leggi sul divorzio divennero più restrittive, omosessualità e aborto furono dichiarati illegali. Il buon socialista, secondo Stalin doveva essere monogamo e attaccato alla famiglia. Viva, insomma, quel focolare borghese che all’inizio della Rivoluzione d’ottobre si voleva demolire come residuo di una società aristocratica o capitalista. Una società che produceva ricordi felici? Ma quando mai! C’erano i privilegiati, poi c’era la maggioranza.Nel 1930 a Mosca lo spazio medio abitativo a disposizione di una persona era di soli 5,5 metri quadri, che il decennio seguente scesero a 4. Nel ’35 nella città di Magnitogorsk una famiglia operaia viveva in un appartamentino che concedeva 3,2 metri quadrati pro capite. La maggior parte degli operai, inoltre, viveva in camerate annesse alle fabbriche, dove le famiglie conducevano un’esistenza “da separati”, oppure in dormitori dove l’unica forma di riservatezza era una tenda intorno al tavolaccio su cui dormire. Rare le docce, i bambini dovevano fare lunghe code per avere acqua. Sempre Trockj accusò il regime di aver tradito lo spirito originario della Rivoluzione socialista che doveva prevedere la liberazione delle donne dalla schiavitù. Tra il ’23 e il ’34 le moglie dedicavano ai lavori domestici il triplo del tempo rispetto ai mariti, nel ’36 il quintuplo. Per le donne non era sostanzialmente cambiato nulla: molte ore passate in fabbrica e poi ad accudire i figli, a pulire la casa, a restare sole in casa mentre i mariti si dedicavano ad attività politiche e culturali. Scriveva Torckj: «Disunione e distruzione delle famiglie sovietiche….il marito, membro del partito, ha acquisito nuovi gusti, mentre la moglie, oppressa dalla famiglia, è rimasta al

suo vecchio livello…è un capitolo, questo, molto drammatico del libro della società sovietica. Il cammino di due generazioni della burocrazia sovietica è segnato dalle tragedie di donne rimaste indietro e abbandonate. Lo stesso fatto si osserva oggi nella giovane generazione. Si troverà senza dubbio più grossolanità e più crudezza nelle sfere superiori della burocrazia, dove i “parvenus” poco colti, che considerano che tutto è loro permesso, costituiscono un’elevata percentuale. Gli archivi e le memorie riveleranno un giorno veri crimini commessi contro le loro vecchie spose e contro le donne in generale dai predicatori della morale familiare e delle “gioie” obbligatorie della maternità, intoccabili dal punto di vista della giustizia». Parole che rimasero per molto tempo nella testa di un oppositore anomalo. Sappiamo che fine abbia fatto.

Aria cattiva anche nell’intellighenzia sovietica. Un tirapiedi di Stalin, Aleksandr Fadeev, alcolizzato, ricoprì la carica di direttore dell’Unione degli scrittori. Nel ’54 fu destituito. Soffriva da tempo di depressione, il peggio arrivò con lo shock per la morte del dittatore rosso. A un amico confidò di essere «in bancarotta come scrittore» e di rinunciare a terminare l’ultimo suo romanzo che doveva narrare della lotta del partito contro il sabotaggio industriale, insomma un pastone da realismo socialista. Dopo il ’53 Fadeev iniziò una sua personale “redenzione” battendosi per la liberazione e la riabilitazione di colleghi condannati ai lavori forzati. Voleva che il controllo ideologico si allentasse. Di lui dissero: «Uno stalinista irrecuperabile». Nel ’56 si sparò un colpo in testa. Questo l’ultimo suo scritto: «Non vedo nessuna possibilità di continuare a vivere, perché la causa dell’arte (sovietica), cui ho dedicato la mia vita, è stata distrutta dalla direzione arrogante e ignorante del partito. I nostri migliori autori sono stati sterminati o sono morti prima del tempo per la criminale connivenza di quanti erano al potere…».


cultura

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ROMA. «Walter, Walter ricorda: Hai la “w” nel nome quindi sei doppio, ma ancora peggio hai il latino nel nome, alter, il secondo dei due, un altro, e insegui sempre altri libri» Con questo aneddoto sul suo nome ci accoglie Walter Pedullà, professore emerito della Sapienza di Roma, critico letterario da quasi mezzo secolo e, come sottolinea con l’ironia che lo contraddistingue, «libridinoso» da sempre. Esce in questi giorni per la casa editrice Ponte Sisto il suo nuovo libro, Il vecchio che avanza. Una raccolta di saggi letterari, un viaggio tra politica, letteratura e critica militante (morta?). Attraverso favole, metafore, racconti, ma soprattutto la semplicità della cronaca dell’attualità, svela le contraddizioni di un’epoca, raccontandola con i toni della satira e di una politica sempre in bilico tra farsa e tragedia. A cominciare dal titolo. Nell’introduzione lei stesso nota l’ambiguità e la polisemia del titolo del suo libro Il vecchio che avanza. Ce lo vuole spiegare? Che cos’è (o chi è) il vecchio che avanza? È un gioco di parole. Per esempio, io sono un vecchio professore e un vecchio critico letterario: quello che avanza di un professore che fa il critico da cinquanta anni, da quando c’era un mondo che sembrava morto e che ora pare tornato. Per esempio con la disoccupazione galoppante dei giovani, con una nuova povertà che somiglia alla vecchia, con antichi soprusi e privilegi che ci parevano debellati. Avanza molto altro vecchio: per esempio, il papa, evidentemente un nostalgico che condurrebbe la storia indietro, per esempio dal Concilio Vaticano II al Concilio Vaticano I. Avanziamo verso il passato, come su cerchio. E con qualcuno che ci dice: il mondo ha girato sempre così, ma i nuovi padroni forse sono peggiori dei vecchi. Avanza insomma la restaurazione, e non saremo mai più uguali come ci sembrava d’essere diventati. Di nuovo, c’è che abbiamo perso ogni illusione di grandezza. Si sostiene da più parti all’interno del volume la morte della critica militante. Ce ne può dare una definizione e dirci che futuro ne immagina? Quali le buone ragioni per militare? È vero, è morta, ma non perché non se ne scrive più di buona come quella di una volta. Il fatto è che non la legge quasi più nessuno per farsi aiutare a capire un testo al di sotto della banale impressione di lettura per cui basta un divo televisivo. Banalità per banalità, si dica que-

L’intervista. Parla Walter Pedullà, nelle librerie con “Il vecchio che avanza”

«Sogno una nuova rivoluzione culturale» di Livia Belardelli sta: morta una critica, se ne fa un’altra, con un altro linguaggio, con altra idea, con altra storia, scienza e filologia. Impossibile prevedere il futuro, non si tratta di fare profezia. Potrebbe valere il consiglio di Pizzuto: il

tiva? E qual è il suo giudizio sulla narrativa attuale? Semplice, libri tutti uguali, di facile uso, veloce deperibilità, bassissimo costo di produzione. Libri così fatti si scrivono anche in Italia, su richiesta del merca-

punta sulla Ferrari, sull’alta moda e sul prodotto unico. La narrativa attuale è dominata dai “cinesi” ma circola qualche romanzo o racconto Ferrari o Versace. Forse non meno che in epoche cui guardiamo con am-

Purtroppo oggi stiamo andando incontro al passato, verso un’ennesima restaurazione. Bisognerebbe al più presto far rinascere la critica militante di un tempo, attraverso le avanguardie, il fantastico, l’assurdo... mondo non è opaco, siete voi incapaci di vederne la luce, cambiate punto di vista. Se siete sordi, non dite che il mondo ha finito la musica. Ecco, si milita a favore della musica e della luce, perché non possiamo farne a meno. Cosa desideriamo lo capiremo più tardi, ma oggi diciamo che questo che abbiamo non ci basta. Che cosa intende per «cinesizzazione» della narra-

to. La “cinesizzazione” ovviamente non si riferisce al giallo in quanto genere letterario diffuso in milioni di copie. L’opposto è la politica economica che In alto a sinistra, Walter Pedullà. In alto a destra, la copertina del suo nuovo libro “Il vecchio che avanza” (Edizioni Ponte Sisto). Al centro, un disegno di Michelangelo Pace

mirazione e rimpianto. Una volta, quando era viva la critica militante era più facile riconoscerli. Si è anche equivocato, circolava anche nel passato merce contraffatta. Ebbene, la critica militante serve a denunciare il falso, mostrando come è fatto un libro e rivelandone lo stile. I “cinesi”, che fanno libri per campare, non hanno stile. I grandi scrittori ce l’hanno sempre, sono uomini unici.

“Cinquant’anni di recensioni”è il titolo di un capitolo del volume. Da cinquant’anni lei fa il mestiere di leggere e seppure «ben venga il piacere della lettura» lei dice: «Ma cerco sempre altro». Che cosa ha cercato? E che cosa cerca oggi? Francis Bacon disse che da vecchio dipingeva quadri che erano più belli di quelli giovanili, e tuttavia «non funzionavano». Ecco, anch’io non mi limito a cercare libri belli, voglio quelli che funzionano. Con la visione, con la scoperta, con la novità scandalosa, con la parola che suggerisce più di quanto dice. Alcune volte ho trovato senza cercare e spesso non ho trovato quel che cercavo. In questi cinquant’anni di insegnamento universitario e di critica militante sono diventato diverso, e con me l’ha fatto la comunità dei cittadini. Provo ad essere un cittadino migliore e questo mi auguro che succeda pure a loro. Siano consapevoli di quello che fanno e leggano i libri che gli piacciono, purché leggano. Se non il cambiamento della realtà, almeno la conoscenza dello stato reale delle cose: questo cerco, per cominciare. Nel suo libro c’è una grandissima ironia, un’acuta comicità che scorre lungo tutto il volume. Che peso ha per lei? Che ruolo dà all’ironia? Da giovane ero più incline a fare la tragedia, ora sono più bravo a fare la commedia. Ogni grado di comicità, la condizione psicologica di chi ha smesso di aver paura di qualcosa che prima lo terrorizzava. Con l’ironia, che sta a metà strada fra il riso e il tragico, mi difendo dalla vita e dalle sue illusioni, che continuo a coltivare, con ironia, o col paradosso, la figura retorica con cui la conoscenza procede per salti. Sono un gradualista, sono un riformista, ma in fatto di cultura preferisco le rivoluzioni, le avanguardie, il fantastico, l’assurdo. Nel secolo scorso la letteratura ha avuto la visione vincente prima della scienza e della filosofia... mi fermo, sento avanzare il vecchio...


cultura

13 novembre 2009 • pagina 21

Il caso. Giuliano Amato presenta un docu-film su Giovanni Treccani e Giovanni Gentile, mentre continuano le polemiche sull’Enciclopedia

Il mecenate e il filosofo di Rossella Fabiani

l dibattito sul futuro della fondazione Treccani e del Dizionario biografico degli italiani ha invaso nei giorni scorsi le pagine di tutti i quotidiani. La questione ha portato alla creazione di due schieramenti intellettuali fieramente contrapposti. C’è chi, come Giuliano Amato, vorrebbe abbassare i costi gestionali del Dizionario affidando la realizzazione delle voci non più alla redazione e a un ristretto numero di studiosi selezionati, ma a dei “volontari” che comporrebbero i lemmi, sottoposti, poi, soltanto a un eventuale controllo. C’è, invece, chi ritiene che un’opera culturale assolutamente fondamentale, che consente di tramandare la memoria degli italiani illustri, vada portata avanti con l’aiuto dello Stato, senza preoccuparsi troppo del passivo che produce. Passivo che, per altro, è appena di 630mila euro all’anno. Una cifra non certo impressionante per un Paese che, tutto sommato, è uno delle grandi potenze economiche del Pianeta e che ha, nella sua tradizione culturale, una immensa risorsa potenziale. Chissà che cosa direbbe Giovanni Treccani degli Alfieri di fronte a questa polemica che, in fondo, si riduce a una mera questione economica: lui che ha dato vita all’Enciclopedia investendo, e senza risparmio, i suoi soldi.

Il film racconta tutto questo sfogliando le foto di famiglia e ascoltando le testimonianze non soltanto di grandi intellettuali, ma anche di parenti e gente comune, operai dell’industria tessile e giardinieri. L’intuizione fu di fondare un’istituzione culturale in divenire e non un prodotto finito per sempre. Senza mai perdersi d’animo, Giovanni Treccani degli Alfieri impiegò molte delle sue risorse finanziarie a sostegno degli studi; era infatti convinto che l’unico modo per rendere accettabile il capitalismo fosse quello di restituire una parte di quanto guadagnato a favore dei più. E quando il filosofo idealista (e fascista) Giovanni Gentile gli propose il progetto di enciclopedia nazionale, la cosa gli sembrò assolutamente naturale. Durante il suo periodo di studi in Germania, infatti, Treccani aveva potuto notare come i giovani tedeschi facessero già uso di enciclopedie e dizionari, mentre mancava nel panorama culturale italiano un’enciclopedia nazionale.

I

Proprio in questi giorni è uscito - in un dvd - il diario inedito di Giovanni Treccani che racconta la storia partico-

quarant’anni e attraverso documenti storici dell’epoca, filmati pubblici e privati, testimonianze. Ma, soprattutto, narra la straordinaria avventura del primo sponsor culturale self made manager. Tipo pragmatico, nato a Montichiari, Giovanni Treccani degli Alfieri non era affatto ricco né nobile. Il cognome Treccani, infatti, era comunissimo a Montichiari e la famiglia si distingueva dalle altre con l’aggiunta degli Alfieri perché aveva portato la bandiera nell’esercito e nei riti religiosi del Paese.Treccani lavorò come operaio alla Lanerossi e diventò poi proprietario

La pellicola racconta un pezzo di storia e di cultura del nostro Paese attraverso il diario “Nel cammino della mia vita”, che lo stesso Treccani degli Alfieri scrisse nell’arco di 40 anni lare dell’Enciclopedia Italiana: 14 anni di lavoro insieme a Giovanni Gentile che la diresse, 36 volumi, 60mila voci principali e 240mila secondarie per un totale, nel 1937, di 36mila pagine. Curato da Andrea Prandstraller e da Andrea Treccani, nipote che ha stretto la mano del nonno da piccolo, il film documentario Treccani e Gentile: il mecenate e il filosofo è stato presentato a Roma, a Palazzo Mattei, da Giuliano Amato, presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Tullio Gregory, accademico dei Lincei, e Roberto Cicutto, direttore di Cinecittà Luce. In sala c’era anche l’amministratore delegato della Treccani, Francesco Tatò. Il film racconta un pezzo di storia e di cultura del nostro Paese attraverso il diario Nel cammino della mia vita, che lo stesso Giovanni Treccani scrisse nell’arco di

del Cotonificio Valle Ticino, che trasformò in una delle più floride aziende italiane. «Fu da sempre sostenitore convinto degli studi e delle istituzioni culturali», racconta Gregory. Nel ’21 venne in aiuto dell’Accademia dei Lincei, allora in condizioni molto critiche, nel ’23 acquistò a Parigi per 5 milioni di lire la famosa Bibbia di Borso d’Este, restituendola poi allo Stato italiano.

Nel 1924 il filosofo Giovanni Gentile gli propose un progetto di enciclopedia nazionale che suscitò il suo interesse. Fu l’inizio di tutto. «Ma dovette fare i conti con l’influenza del Vaticano - Pio XII rifiutò di ricevere in dono l’opera - e con la prepotenza fascista che voleva appropriarsi del progetto. Senza riuscirci», dice il presidente Amato.

Qui sopra, dall’alto: Giovanni Treccani e Guglielmo Marconi. Sotto, Giovanni Gentile

E allora, inserendosi con la sua capacità imprenditoriale nello scenario degli altri tentativi enciclopedici (Martini-Volterra, Formiggini), fondò il 18 febbraio 1925 l’Istituto Giovanni Treccani, divenendo l’elemento determinante nella successiva realizzazione dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti. La direzione dell’Istituto venne affidata a Giovanni Gentile che la mantenne dal 1925 al 1943 e proprio al filosofo si deve l’organizzazione scientifica dell’enciclopedia e il suo carattere di indipendenza e di obiettività rafforzato dalla presenza nel corpo redazionale di intellettuali laici come lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni, che per primo mise in discussione il concetto di monoteismo. Le difficoltà finanziarie dell’impresa spinsero Giovanni Treccani degli Alfieri, nel 1931, a costituire con le case editrici Bassetti e Tumminelli e Fratelli Treves la società Treves-Treccani-Tumminelli. In seguito si impegnò affinché l’impresa perdesse il suo carattere temporaneo e si consolidasse con l’aiuto dello Stato. E il 24 giugno del 1933, con reale decreto legge numero 669, venne costituito l’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani presieduto da Guglielmo Marconi, di cui Treccani fu nominato, insieme allo stesso Gentile, vicepresidente e poi, nel 1954, presidente onorario. Carica che mantenne fino alla sua morte, nel 1961.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Haaretz” del 12/11/09

Follia omicida in Israele di Ze’ev Sternhell ufficio del procuratore distrettuale di Gerusalemme, giovedì scorso, ha rinviato a giudizio il presunto terrorista ebreo Yaakov (Jack) Teitel. L’uomo è accusato di due omicidi, tre tentati omicidi e altri atti di violenza. «È stato un piacere e un onore servire il mio Dio», ha affermato Teitel davanti al tribunale di Gerusalemme. «Non ho alcun rimpianto e non c’è dubbio che Dio lo ha apprezzato» ha aggiunto l’uomo davanti a una corte perplessa.

L’

Teitel ha anche smentito le notizie che, recentemente, lo davano come legato ai servizi israeliani. Si diceva che avrebbe operato sotto copertura, come agente dello Shin Bet (il servizio segreto interno, ndr). Teitel, 37 anni, è nato in Florida, ma è residente dal 1997, nella parte nord del West Bank (Cisgiordania) nell’insediamento di Shvut Rahel. È stato arrestato il mese scorso per un presunto omicidio e per il suo ruolo – ancora da provare – in una serie di complotti sfociati in alcuni tentati omicidi. Questi i contorni giudiziari, secondo i dettagli rivelati da un’inchiesta diventata di dominio pubblico dopo che l’ordine di secretazione degli atti sul caso è stato revocato. L’ uomo è stato arrestato il 7 ottobre e la polizia ha affermato che l’imputato ha confessato la maggior parte delle accuse contro di lui. A Teitel è stato contestato anche il reato di contrabbando di arma da fuoco. Una pistola sarebbe stata smontata, quando il sospetto risiedeva ancora negli Stati Uniti, nel 1997, e poi nascosta in un videoregistratore e spedita in Israele. L’arma sarebbe poi stata utilizzata per uccidere il tassista, Samir Akram Balbisi, nel giugno dello stesso anno. Secondo l’accusa, nel mese di

agosto del 2007, Teitel avrebbe assassinato Issa Jabrin, un pastore palestinese di Susya. Dopo l’episodio di sangue sarebbe fuggito in Israele, dove è poi stato arrestato. L’atto di rinvio davanti alla corte israeliana delinea anche il piano di Teitel che avrebbe accompagnato la sua folle attività per più di un decennio. Un elenco di vittime delle sue violente attenzioni in cui troviamo appartenenti alla comunità araba, gay e lesbiche, membri della sinistra politica, agenti di polizia ed ebrei messianici. Un panorama umano piuttosto variegato. Teitel aveva ammesso, tra gli altri reati, l’invio di un pacco regalo in occasione della festività ebraica del Purim (che ricorda un episodio della comunità ebrea nell’antica Persia, ndr). Il pacco indirizzato ad una famiglia di ebrei messianici di Ariel, conteneva del materiale esplosivo che aveva ferito gravemente il figlio adolescente, Ami Ortiz.

Un altro episodio raccontato davanti ai giudici è stato quello ai danni del professor Ze ’ev Sternhell. Un tubo-bomba sarebbe stato nascosto nella residenza di Gerusalemme dell’accademico, che è rimasto leggermente ferito dall’esplosione. In questa fase del processo, tuttavia, a Teitel non verrà addebitato l’omicidio di due poliziotti. Un

episodio avvenuto circa otto mesi fa nella Valle del Giordano. Mentre la polizia sospetta che sia coinvolto anche lui in questo delitto, non ha ancora raccolto prove sufficienti per formulare l’accusa e portarlo in giudizio. All’inizio della settimana la Corte di giustizia di Petah Tikva ha esteso il periodo di custodia cautelare di altri tre giorni. Per la prima volta dal suo arresto, il 7 ottobre,Teitel è apparso in tribunale per l’udienza. Il servizio di sicurezza dello Shin Bet aveva vietato la presenza dell’imputato nelle precedenti audizioni per la custodia cautelare. Durante l’udienza, l’avvocato di Teitel ha protestato, denunciando le difficili condizioni della sua prigionia, affermando che fosse incatenato al letto ventiquattro ore al giorno. Il giudice ha ordinato allo Shin Bet di verificare la consistenza della denuncia.

L’IMMAGINE

Caso Cucchi: sacrilegio infierire sui cadaveri Ricordiamolo al “cattolico” Giovanardi I legislatori devono essere persone equilibrate, dice il sottosegretario alla lotta alle tossicodipendenze e tutela della famiglia, Carlo Giovanardi. Quindi, ben vengano i test antidroga per i parlamentari. Le dichiarazioni del sottosegretario Giovanardi, però, sul caso Cucchi ci fanno venire dei dubbi: è solo la droga che crea squilibrio oppure anche chi non fa uso di stupefacenti può avere comportamenti squilibrati? Ci sembra che le affermazioni di ,Giovanardi appartengano al secondo dubbio. Comprendiamo lo stress di sottosegretario, dopo il flop alla lotta alle tossicodipendenze testimoniato dalla recente “Relazione annuale 2009 dell’Osservatorio europeo delle droghe” e dall’inutilità di ergersi a difensore della famiglia, visti i comportamenti degli italiani e dei maggiori esponenti del suo centrodestra, ma definire larva e zombie un morto è fuori dall’agire del consesso civile e nulla ha a che vedere con la pietas che dovrebbe essere pratica cristiana.

Primo Mastrantoni

MA CHI È L’ANIMALE? La scorsa notte, alcuni attivisti di 100%animalisti hanno affisso due grandi striscioni e manifesti anticaccia sulla soglia e sui muri delle macellerie “Lobba”nel centro di Thiene (Vicenza). Un blitz della polizia provinciale ha scoperto nella cella frigorifera della macelleria del “signor” Lobba, infatti, ben 5900 uccelli congelati, tra cui specie non cacciabili o non commerciabili. Nell’abitazione del Lobba, a Carrè, gli agenti hanno sequestrato 100 uccelli vivi, destinati a esser venduti come richiami per i cacciatori. Inoltre sono stati sequestrati strumenti chirurgici e farmaci usati per “sessare” gli uccelli: è questa una pratica barbara, usata dagli allevatori, che consiste nell’incidere il fianco sinistro dell’uccellino (vivo) ed en-

trare con una sonda, per determinare se sia maschio o femmina. Il Lobba è stato denunciato alla magistratura per vari reati.

Centopercentoanimalisti

BUONA NOTIZIA PER LE DONNE L’elezione di Rosy Bindi alla presidenza del Pd è una buona notizia per tutte le donne. Seria e preparata, non potrà che lavorare per il suo partito e per il Paese. La sua nomina è l’ennesima conferma che le donne, in condizioni di democrazia e trasparenza, non hanno bisogno di scorciatoie, e nemmeno di investiture del capo.

Pia

SANITÀ IN CARCERE. IL SEGNO DEL DEGRADO Proprio nel momento in cui la vicenda Cucchi mostra come un ca-

Fidanzato in arrivo Va bene essere trafitti dalla freccia di Cupido, ma così è troppo! Eppure, questo doloroso rito con l’amore ha a che fare. Il piercing portato dalle giovani single è un tradizionale segno di devozione da esibire durante il Festival dei Carri, una processione religiosa in onore di alcune divinità indù che si svolge ogni anno presso il tempio dello Sri Mayurapathy Paththirakaali, a Colombo

so di malasanità in condizioni di detenzione possa portare alla morte nel giro di pochi giorni, il Senato ha dato una brutta prova di indifferenza istituzionale. È stata istituita un’indagine conoscitiva sullo stato della sanità in carcere congiunta delle commissioni igiene e sanità e giustizia, anche per monitorare lo stato di avanzamento e di passaggio della sanità

penitenziaria dalla giustizia al Ssn e alle Asl. Questa indagine istituita e autorizzata il 18 novembre 2008, si è riunita il 4 dicembre 2008 dove si è stabilito di costituire un comitato ristretto che si è riunito solo una volta e non si è deciso niente. La convocazione dei giorni scorsi è andata disertata, con l’unica lodevole eccezione del senatore Di Giacomo. Il vice-

presidente della commissione Gramazio non ha potuto far altro che prendere atto che la seduta si scioglieva per mancanza del numero legale. Sappiamo come il diritto alla salute è spesso incompatibile con lo stato di detenzione, ci sarebbe piaciuto che finalmente le commissioni sanità e giustizia si occupassero di quel diritto.

Donatella


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non ho mai sognato di conquistarvi Adesso carissima, tenterò di scrivere quel poco che mi riesce, in risposta alla vostra lettera - e per prima cosa devo pregarvi, ora più che mai, di aiutarmi e comprendere dalle poche parole i sentimenti ad esse sottesi. Ho letto e riletto la vostra lettera: vi dirò: - no, non a voi, ma a un’altra persona immaginaria, che dovrebbe sentire ciò che mi accingo ad affermare; a quella persona direi con la massima sincerità che non vi è una sola particella di fatuità, se così posso chiamarla, in tale affermazione; non può esservi visto che fin dall’inizio e sino a questo momento non mi sono mai sognato di conquistare il vostro amore... A malapena riesco a scrivere questa parola, tanto sembra assurda e impossibile, tale è il cambiamento nei ranghi che essa implica - né, oltre a ciò, benché molto dopo, prenderei il posto, se potessi, di uno qualunque degli affetti che so essere radicati in voi - quel grande e solenne affetto, per esempio... Penso che se potessi farmi rifare, divenendo d’oro, nemmeno allora vorrei essere più della mera montatura di quel diamante che dovete sempre portare: la considerazione e la stima che ora mi concedete, è tutto ciò che posso prendere con estremo imbarazzo, facendo uso di tutta la mia gratitudine. Robert Browning a Elizabeth B. Barrett

ACCADDE OGGI

GARIMBERTI DISPERATO SI APPELLA A CHI NON VUOLE E NON PUÒ SENTIRE Il presidente della Rai, Paolo Garimberti, ha rivolto un appello alla politica e al governo, perché si recuperi quel presunto 25-30% di canone imposta Rai che sarebbe evaso... altrimenti i conti continueranno a non tornare e continueranno ad usare gli introiti pubblicitari per pagare il servizio pubblico. In alternativa - dice Garimberti - non potremo abbassare l’imposta per le fasce più deboli e dovremo ridurre drasticamente qualità e innovazione. Stendiamo un velo pietoso sulla minaccia di continuare a non applicare ciò che è già legge dello Stato da due anni (agevolazioni per gli over 75 anni). Non entriamo nel merito sulla riduzione della qualità - immaginiamo non tecnica ma contenutistica. Ci fermiamo solo sull’aspetto economico. Il nostro Garimberti o è o ci fa. Vogliamo credere che sia, e non si renda conto che sta chiedendo qualcosa a chi non vuole e non può ascoltare. Non vuole ascoltare perché se dovessero far pagare l’imposta/canone a tutti gli salterebbe l’intero sistema di consenso economico (oltre un miliardo di euro abbiamo calcolato come evasione da parte delle aziende... altro che contribuenti che, per il fatto stesso di esistere, non avendo dichiarato il possesso di un apparecchio tv sono considerati evasori). Non può ascoltare perché il loro sistema di potere -governo o opposizione è la medesima cosa - si basa sulla spartizione della Rai così com’è, perché, se quand’anche fosse un’azienda come

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

13 novembre 1970 Un ciclone tropicale colpisce l’area densamente popolata del delta del Gange nel Pakistan orientale, uccidendo circa mezzo milione di persone 1971 La sonda americana Mariner 9 raggiunge Marte 1974 Muore in una cittadina de l’Ile de France, il grande attore italiano Vittorio De Sica 1974 Ad Amityville, Ronal DeFeo Jr. stermina a colpi di fucile la sua famiglia 1982 Inaugurazione a Washington del memoriale dei veterani del Vietnam, dopo una marcia sul posto di migliaia di veterani della guerra del Vietnam 1985 Il vulcano Nevado del Ruiz erutta, seppellendo Armero (Colombia), e uccidendo circa 23.000 persone 1990 Viene scritta la prima pagina conosciuta del world wide web 1994 Gli elettori svedesi decidono di entrare nell’Unione europea con un referendum 2002 La petroliera Prestige affonda al largo della costa della Galizia provocando un disastro ambientale

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

un’altra, certi costi e certi investimenti servirebbero solo per mettere in galera i vari responsabili, fino al presidente medesimo. Gli appelli di Garimberti hanno il sapore di complicità, di voce declamante nel deserto per lavarsi la coscienza. Perché se così non fosse, si tratterebbe di prendere decisioni molto semplici, forcaiole o meno, comunque semplici: militarizzare la riscossione del canone/imposta per tutti, mettendosi contro contribuenti e associazioni aziendali varie; abolire il canone e privatizzare la Rai mettendola sul mercato al pari dei suoi attuali finti concorrenti. Per fare questo, però, Garimberti dovrebbe smettere di fare questi appelli ed entrare in conflitto con chi lo ha messo lì dov’è...

Vincenzo Donvito

BENE RIFORMA DELLA GIUSTIZIA MA SENZA RETROATTIVITÀ Che si parli di una riforma della giustizia, è cosa giusta e sacrosanta, ma a una sola condizione: che le nuove norme non siano retroattive. Se riguardassero i processi in corso, si inquinerebbe qualunque discussione e anche norme di per sé giuste, diverrebbero intollerabili perché si finirebbe per parlare dei processi di Berlusconi. A pensare male si fa peccato, però è davvero curioso che si pensi di accorciare i termini di prescrizione e non la durata dei processi ma, soprattutto, che l’unica riforma che questo governo si sforza davvero di fare sia proprio quella della giustizia.

STATI GENERALI UDC-BARI (I PARTE) Su convocazione del segretario regionale Angelo Sanza, siamo stati chiamati ad esprimere la nostra volontà sulle scelte che il partito dovrà effettuare alla prossima tornata elettorale per l’elezione del nuovo consiglio regionale pugliese. Detto in questi termini, sembrerebbe una questione semplice, se non banale, ma in realtà i passi che il partito compierà in questi mesi saranno significativi per la sua stessa esistenza. Il rischio che si corre, infatti, è quello di implodere in una deflagrazione che farebbe dell’Udc uno “spezzatino” per i nostri avversari. Rischio questo che si tenta di evitare seguendo ben tre opzioni: a) tornare al primo amore ed allearsi con il Pdl; b) accordo programmatico con il Pd, previo uso della ghigliottina sulla testa dell’attuale governatore; c) da soli. Chi conosce il passato conosce il futuro e, pertanto, la risposta dovrebbe essere da soli, ma perché? 1) Perché andando da soli si rafforzerebbe quel centro moderato che sta catalizzando l’elettorato tradizionale e quello deluso dai due cosiddetti poli; 2) perché alleandoci con gli uni o con gli altri subiremmo la diaspora da parte di chi non si rivede con Pd o Pdl (vedi Tabacci; 3) perché tale scelta, già sperimentata alle ultime politiche ed europee, è risultata vincente al punto che, oramai, la gente vede in Pier Ferdinando Casini l’unica vera alternativa ad un bipolarismo che, generosamente, viene definito imperfetto. È chiaro che da questo ragionamento occorrerà discendere a quel pragmatismo che vede nel conseguimento delle cariche l’esercizio del potere, e quindi della possibile realizzazione degli uomini e del partito, senza però trascurare le ragioni fondative che devono albergare negli uomini di partito: i programmi e le idee (sanità, politiche per la famiglia, lavoro per i giovani, la sicurezza, la cristianità e le nuove sfide tecnologiche e ambientali). Anche qui, però, siamo di fronte ad un bivio e cioè se ragionare in termini di potere, e quindi, comunque di presenze nelle istituzioni, magari con incarichi di maggioranza, oppure in termini più squisitamente politici e generazionali, proseguendo quel percorso intrapreso dal presidente Casini. Francesco di Feo C O N S I G L I E R E PR O V I N C I A L E UD C D E L L A B T

APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 OGGI E DOMANI BARI - DOMINA CONFERENCE PALACE Conferenze programmatiche regionali “Nasce dal Centro la Puglia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, Ciriaco De Mita e Savino Pezzotta. Conclude: Pier Ferdinando Casini. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lettera firmata

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Intelligence. La storia della Stasi nei documenti e nel modernariato di una galleria di cimeli

Il museo delle spie di Pierre Chiartano agdalenestrasse a Berlino è una delle tante fermate della ragnatela che la u-bahn disegna nel sottosuolo della capitale tedesca. Lungo la Frankfurter allee, dove corrono i muri di un blocco di edifici dai colori grigi e rosso stinto. Anonimi, cupi ma ben conosciuti da chi abita in quei pressi. Non è facile avere informazioni per trovare un museo che, nel 2009, è l’unico simulacro di ciò che è rimasto della sede centrale del Ministerium fur staatssicherheit (Mfs). Meglio noto come Stasi. Una freccia rossa dipinta su di un muro scrostato ti porta all’interno di una selva di edifici di varia fattura. Una area molto vasta con un piccolo parco a dividerla lungo la Ruschestrasse. L’ingresso lo devi cercare con pazienza. Nessun cartello ti accompagna. Qui è conservato anche il preziosissimo archivio del servizio segreto che poteva annoverare più di 100mila informatori e 90mila impiegati, sparsi ai quattro angoli del mondo. Molti in Patria, come ben descritto nella pellicola Le Vite degli altri. Un deposito della memoria per tradimenti e inganni, che ancora avvelenano il presente di molti Paesi europei. Oggi il museo appare come una raccolta di modernariato da spie, che poco racconta della vera natura di quello che fu uno dei più temibili ed efficienti apparati di intelligence della guerra fredda. Fondato l’8 febbraio del 1950, il suo primo direttore fu Wilhelm Zaisser, poi venne l’era della trasformazione. Nel 1955, Erich Mielke divenne capo della Stasi e Markus Wolf prese le redini del dipartimento di spionaggio estero. Il museo occupa i primi piani di un edificio, dove ci sono anche uffici di associazioni e aziende commerciali. L’arredamento delle stanze è anni Sessanta. Le tende e le moquette, le sedie e le poltrone, la carta da parati a disegni geometrici dai colori spenti, come i telefoni parlano del regime che fu. Il parquet a spina di pesce delle grandi sale riunioni, racconta degli apparatnik russi che vegliavano sul servizio “fratello”. Fino ad arrivare alla stanza del ministro, scrivania in legno chiaro con un piccolo tavolo per dattilografi attaccato, sedie rivestite di tessuto azzurro. Una enorme cassaforte alle spalle. La parte apicale di un’organizzazione vastissima, divisa per dipartimenti. Dal Abteilung 26 per il controllo linee telefoniche all’Abteilung XI, il servizio di decodifica, alla sezione XIV, quella per interrogatori e detenzione. Poi ancora l’Ag Bkk per il coordinamento commerciale e Arbeitsgruppe (Agm) il servizio a disposizione dei ministri. Fino alle unità speciali Agm/U e Agm/S «compiti speciali» (codice Nato, Sky marshal) che si occupava della sicurezza sui voli aerei. E gli Hauptabteilung I per il controllo del personale della Volkspolizei – i vopos – e della polizia di frontiera. E l’Hauptabteilung II, il controspionaggio.

M

Tra i visitatori qualche turista e molte persone anziane, per lo più tedeschi. Fra loro, molti curiosi, di quelli che probabilmente hanno vissuto il clima sinistro e cupo che la Stasi aveva fatto calare sulla Ddr e qualche ex-funzionario. Di quelli che non avevano mai avuto accesso ai piani alti. La curiosità non ha prezzo, anche dopo tanti anni. La comunicazione in un museo, però, paga lo scotto alla nuova Germania, per cui sono mostrati molti particolari in sintonia con ciò che la gente si aspetta da un’organizzazione di spioni. Piccoli furgoni per rapimenti, con tendine orlate di bianco ai finestrini e orribili cubicoli di contenzione all’interno. Non mancano oggetti di vero modernariato, come una macchina fotografica con obiettivo a bottone e telecomando a pompetta per tasca. Insomma, roba che avrebbe fatto impazzire l’ispettore Clouseau. Ma accanto a cose che fanno sorridere, ce ne sono altre meno gradevoli. Le stanze di detenzione e tanti oggetti costruiti per togliere la vita. Poi molti documenti, fo-

di BERLINO

to e cimeli, come i drappi delle manifestazioni, quelle del Neus Forum, l’organizzazione clandestina nata da un gruppo di giovani avvocati che guidò la grande «rivoluzione pacifica» che condusse alla caduta del muro, il mauerfall. Uno degli aspetti più importanti dell’Mfs era il reclutamento. Oltre a basarsi su criteri, quali capacita intellettuali, competenze tecniche e doti di carattere fisico, l’affidabilità e l’ideologia

politica giocavano un ruolo centrale. Non di rado, per questo motivo, si sceglievano figli di membri ed ex membri della Stasi o della Freie deutsche jugend (Fdj), l’organizzazione della gioventù comunista. Gente indottrinata politicamente e con un contesto familiare che li influenzava in modo ”positivo”. Un ruolo di primo piano aveva l’educazione di stampo socialista ed è probabile che molte di quelle migliaia di famiglie i cui membri lavoravano nella sede centrale della Stasi nel quartiere di Lightenberg, abitino ancora in quella zona.

Il Ministerium fur Staatssicherheit impiegava più di 100mila informatori. La sede centrale, un complesso di numerosi di edifici, era situata lungo la Frankfurter allee nel cuore della zona Est. Ora ci sono solo oggetti e archivi

Lì, tra quella classe di piccoli ex-privilegiati di Stato, la Ostalgie – il rimpianto per il regime comunista – forse si sente ancora. Il 29 dicembre 1991, il Bundestag approvò la Stasi-Unterlagen-Gesetz, che permise l’apertura di tutti i dossier in mano all’Mfs. I singoli cittadini poterono accedere a dossier che l’Mfs aveva stilato al riguardo della loro vita privata. Molto però è andato perduto durante l’assalto alla sede, il 16 gennaio del 1990, fatto da una popolazione inferocita. E grazie anche all’opera di qualche opportuna “manina”.


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