di e h c a n cro
91117
Sono così strani gli uomini: tendono a voler conoscere ciò che li farà soffrire Alexandre Dumas (padre)
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 17 NOVEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dalle denuncia di Ban Ki-moon allo show di Gheddafi, un’assemblea dimezzata approva un documento pieno solo di parole
La Terra può attendere Muoiono 17mila bambini al giorno, ma il vertice sulla fame è paralizzato dall’impotenza. E la prossima conferenza sul clima di Copenhagen si rivela già un fallimento annunciato RAPPORTO SUL SUMMIT FAO DI ROMA
L’APPELLO DI BENEDETTO XVI
Che bel mondo, diviso fra tiranni e Don Chisciotte
«Le risorse ci sono, il peccato è lo spreco»
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Luigi Accattoli
Roma e Copenhagen sono unite da un saldo legame di impotenza. Mentre i grandi del mondo girano come trottole impazzite per summit e conferenze e incontri, 17mila bambini muoiono ogni giorno di fame, come ha ricordato Ban Ki-moon. E il clima globale continua a deteriorarsi.
L’umanità deve riconoscere e regolamentare il diritto di ogni uomo al cibo e all’acqua: è la terza volta che il Papa rivolge questo appello lungo gli ultimi sette mesi. Da una parte lo “scandalo” della fame e della sete, dall’altro l’insostenibile spettacolo «dell’opulenza e dello spreco».
a pagina 2
a pagina 4
INCONTRO CON GLI STUDENTI A SHANGHAI
QUATTRO PROPOSTE DI WASHINGTON
Censura e diritti in Cina, Obama rompe il tabù
«Calma, sull’ambiente non tutto è perduto»
di Pierre Chiartano
di Hillary Rodham Clinton Gli Usa hanno preso misure importanti per cambiare radicalmente il modo con cui utilizziamo la nostra energia. E abbiamo ritrovato il nostro posto al tavolo dei negoziati internazionali sul clima. E ora useremo la conferenza di Copenhagen per andare avanti su questa strada.
«I diritti umani dovrebbero essere garantiti a tutti, anche alle minoranze etniche e religiose. E la libertà d’espressione è un diritto inalienabile». Nessuna risposta ufficiale del regime cinese alle provocazioni di Obama su libertà e diritti davanti agli studenti di Shanghai. Il Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf
a pagina 6
L’acqua ai privati È cominciata la grande guerra In Parlamento il decreto con cui lo Stato cede la gestione della fornitura
Bersani boccia il lodo costituzionale: «E il Pdl ritiri la legge sul processo breve»
«Le regole si cambiano insieme» Fini insiste: «Le riforme non si fanno a proprio piacimento» di Errico Novi
Lottieri • pagina 10
Il Cavaliere e la strategia finiana: parla Alessandro Campi
ROMA. Continua la sfida a di-
Gli antagonisti mettono Di Pietro sotto assedio Esecutivo-fiume per l’IdV con De Magistris all’attacco del leader Insardà • pagina 11
a pagina 5
«Ma le elezioni sono inutili. Soprattutto per il premier»
stanza tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Alla “fretta” del premier di modificare le regole della giustizia per liberarsi dall’incombenza dei processi, il presidente della Camera ha risposto con un’affermazione inequivoca: «Le regole vanno riscritte in modo condiviso perché riguardano tutti, perché le istituzioni sono di ogni italiano, le maggioranze non possono cambiare le regole a proprio piacimento». a pagina 8
seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
di Riccardo Paradisi
ROMA. «Berlusconi è già stato legittimato da un ampio voto popolare, che cosa cambierebbero le elezioni anticipate se non gli equilibri interni alla maggioranza? Che cosa cambierebbe della situazione giudiziaria del premier? Del suo rapporto con le 227 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
istituzioni, con la magistratura, con la Corte costituzionale. Dando argomenti a chi magari pensa a un governo di tipo istituzionale?». Parla Alessandro Campi, direttore scientifico della finiana Fare futuro. a pagina 9
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 17 novembre 2009
Summit/1. Un’assemblea dimezzata dall’assenza dei grandi, approva solo un documento pieno di buone intenzioni
Dittatori & Don Chisciotte Il vertice Fao si apre con una dichiarazione di impotenza sulla fame. In attesa che a Copenhagen il mondo getti la spugna sull’ambiente di Vincenzo Faccioli Pintozzi oma e Copenhagen sono unite da un saldo legame fatto di impotenza. Mentre i grandi del mondo girano come trottole impazzite per summit e appuntamenti, G8 e G20, conferenze e incontri, 17mila bambini muoiono ogni giorno di fame. E il clima continua a deteriorarsi, in una folle corsa all’inquinamento dettato da un bisogno disperato di produzione. Roma e Copenhagen, dunque, sede rispettivamente del vertice Fao sulla crisi alimentare e del summit internazionale sui cambiamenti climatici, dovrebbero essere i luoghi della speranza per l’umanità. E invece si riducono a delle colazioni di lavoro, dove sfilano dittatori e utopisti e si firmano carte senza senso.
R
Gli obiettivi irragionevoli
Clima e cibo in sette punti (senza senso) ome si sconfiggono la fame e l’inquinamento? Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la ricetta risolutiva per questi problemi esiste, anche se al momento in fase embrionale. Anzi, sostiene l’augusto consesso, «soltanto unendo le due problematiche in un unico calderone si potrà trovare la quadratura del cerchio». Lo ha detto proprio ieri il Segretario generale dell’Onu, il coreano Ban Ki-moon, che ha rilanciato: «Senza accordo sul clima, non si potrà garantire in alcun modo la sicurezza alimentare». E questo binomio, secondo le Organizzazioni internazionali, può essere soddisfatto con sette semplici punti. Che, per quanto riguarda il clima, sono due: un patto di riduzione del 25-40 per cento rispetto ai livelli di emissioni del 1990 entro il 2020 per i Paesi avanzati, e del 15-30 per i Paesi in via di sviluppo, da rivedere ogni 5 anni per aggiornare le aspettative al progresso tecnologico. Mentre per la fame sono cinque, che vedremo meglio più avanti ma che in concreto dicono: investiamo sulle economie locali mentre regaliamo cibo. Davanti a questo assunto viene il lecito dubbio che, a guidare il carrozzone dell’interventismo mondiale, sia un novello don Chisciotte. Oppure una banda di scaltri politicanti, che sopraffatti dall’enormità dei problemi che colpiscono il pianeta, ha scientemente deciso di gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica per nascondere un sostanziale immobilismo. Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha ammesso: «Non saranno stanziati nuovi capitali per combattere
C
la fame nel mondo». E tanti saluti a quei 44 miliardi di dollari all’anno che il grand commis dell’Onu ha chiesto nei giorni scorsi. Ci sarà invece la “Dichiarazione finale di Roma”: 41 paragrafi e cinque principi chiave per sconfiggere la fame. Questi sono: sostenere la re-
sponsabilità dei governi nazionali e la necessità di investire in piani di sviluppo country-owned; raggiungere un maggiore coordinamento tra strategie nazionali, regionali e globali; un approccio a due direzioni (rispondere all’emergenza alimentare immediata, ma preparare anche misure di sviluppo di medio-lungo termine per affrontare le cause di fondo di povertà e malnutrizione); vigilare affinché il sistema multilaterale giochi un ruolo centrale. In questo punto viene affrontata anche la questione della riforma della Fao, un organismo che molti Paesi vorrebbero meno elefantiaco e spendaccione; garantire un impegno sostenuto e sostenibile da parte di tutti i partners ad investire nell’agricoltura e nella “food security” in maniera tempestiva e affidabile, con la messa a disposizione delle risorse necessarie nel quadro di piani e programmi biennali.
La fede secondo Gheddafi
Il cabaret romano del Colonnello emi senza alcun dubbio pieni di buon senso, impegni che - se assunti - potrebbero dare una svolta decisiva. Ma anche, per l’ennesima volta, parole senza senso e senza applicazione pratica; se non altro, perché a parlarne non sono coloro che possono spingere i bottoni giusti. Roma doveva essere una sorta di enorme brain-storming. E invece, nella pratica, si è trasformata di nuovo in una passerella su cui far sfilare leader più o
T
meno dittatoriali, figure governative di secondo piano e sherpa affamati. Come si poteva pensare, infatti, di ottenere un qualche risultato concreto vista l’assenza degli attori principali di quel dramma che è il mercato internazionale e le sue ingiustizie? È possibile, all’alba del 2010, pensare di poter fare qualcosa senza Stati Uniti, Cina, Giappone? Barack Obama è impegnato nelle stesse ore del summit a discutere con Hu Jintao, il padre-padrone di Pechino, e non ha neanche lontanamente pensato di rimandare il suo incontro bilaterale per partecipare alla kermesse italiana. ll leader cinese, che ha convenuto con l’americano sulla necessità di affossare Copenhagen, si sposta raramente e quasi mai entra alla Fao. Di conseguenza, è quasi naturale che alle luci della ribalta si presenti il colonnello Muhammar Gheddafi, dittatore libico senza alcuna carica (ufficiale, of course), che ha pensato bene di lanciarsi nella sua solita retorica anti-imperialista. Contornando il tutto con dei corsi di islam usa-e-getta a favore di avvenenti, ma coperte, fanciulle a lui destinate (ironia della sorte, per uno dei Paesi più censori nel campo di Internet) proprio da un sito di hostess. Niente amazzoni adoranti per questa seconda gita nella Città Eterna, ma 600 prezzolate giovinette a cui spiegare che il Cristo morto in croce era un sosia dell’originale. Per il resto, l’incontro di Roma ha riservato poche emozioni: lo sciopero della fame di un giorno cui hanno partecipato Ban Ki-moon, il sindaco della capitale italiana Alemanno e lo stesso Diouf; un interessante discorso di apertura, pronunciato da Benedetto XVI, che però per ovvi motivi non propone soluzioni concrete. Certo, il Papa ha ricordato al mondo che il pianeta su cui camminiamo è in grado di sfamarci tutti; ma, nel lecito esercizio delle sue funzioni, non ha voluto sottolineare che questo stesso pianeta è
di proprietà al 90 per cento di una piccola fetta di popolazione. Che ne fa quello che vuole: senza leader di peso in grado di smuovere veramente le acque, è molto difficile che le multinazionali decidano di improntare i loro bilanci in nome della compassione. E quindi lo sfruttamento delle risorse e la voluta incapacità dell’Africa di rialzarsi rimarranno lì dove sono. Al grado zero dello sviluppo, con tutto quello che ne consegue.
Alla fiera dell’ipocrisia
Tutte le bugie dal Protocollo di Kyoto in poi a questione climatica anima da almeno un decennio il dibattito politico e sociale di buona parte del pianeta. LiveAid, Kyoto, Greenpeace, Fao, Onu, climate change sono soltanto le prime sigle che vengono in mente se si parla di riduzione delle emissioni di carbonio. Ma cosa sono le emissioni di carbonio (o Co2)? A cosa servono, perché sono così indispensabili da divenire irrinunciabili? Forse vale la pena fare un piccolo riassunto, prima di andare avanti. I cosiddetti “gas serra”sono quelli in grado di alterare il clima: nello specifico parliamo di anidride carbonica, Metano, Ossido di azoto, Idrofluorocarburi, Perfluorocarburi ed Esafluoro di zolfo. Il mondo scientifico parla di tutti questi gas in termini di “Co2 equivalenti”. La Co2 è cioè il metro di misura con cui si regolano le alterazioni ambientali. Per fermare la scalata alle vette di questi gas tossici, nel dicembre 1997 a Kyoto è stato firmato il Procollo che ne porta il nome. Si trattava, nelle ambizioni degli organizzatori, di un accordo tra i Paesi di tutto il mondo per ridurre globalmente le emissioni di gas serra entro il 2012. Le emissioni di gas serra, sostengono gli ambientalisti, sono responsabili del surriscaldamento globale e dei disastrosi eventi climatici sempre più frequenti. Fra coloro che non hanno firmato il Protocollo vi erano Stati Uniti e Cina, ovvero i due Paesi più inquinanti al mondo. La non firma nasce da due motivi diversi. Washington temeva, e teme ancora, di perdere i proventi che le derivano dall’estrazione ed esportazione del carbone: il Pil statunitense poggia su questa industria. Pechino invece sostiene di voler ridurre le emissioni, ma pretende che a pagare per prime siano le nazioni sviluppate. A inquinare di più sono infatti le centrali produttrici di corrente elettrica, raffine-
L
prima pagina
17 novembre 2009 • pagina 3
che sforna il Palazzo di Vetro. Diamo i nostri soldi a chi ne farà buon uso, perché l’Onu è morto con l’interventismo nei Balcani. Creando una sorta di “sigillo di garanzia”per le Ong titolate a ricevere i nostri aiuti, si potrebbe dare una spinta reale a chi lavora con dei risultati. L’effetto sarebbe proficuo, immediato e logico. Non ha senso creare ogni volta, come fanno i burocrati di New York, delle Commissioni ad hoc per ogni crisi che colpisce il mondo: meglio dar credito a chi in quelle crisi sa come muoversi ed ha idee e sostegno interno per risolverle. È l’unico modo per dare nuova vita alla comunità internazionale.
L’assenza di leadership
Se Obama rinuncia a se stesso ra i grandi assenti all’incontro di Roma sulla fame del mondo c’erano i leader. Qui per leader non si intende far riferimento ai capi di Stato o di governo in altre faccende impegnati, ma all’idea che genericamente si ha di un leader. Inteso come guida, carismatica e credibile, in grado di guardare negli occhi la comunità internazionale e spronarla a fare ciò che è giusto per l’equilibrio del mondo. Di esempi alle spalle ne abbiamo talmente tanti che sarebbe sciocco cercare di farne una classifica. Ma basti ricordare gli ultimi grandi leader - quelli dell’America post-bellica e della Russia sovietica persone che nel bene o nel male potevano trascinare la loro gente a sforzi e sacrifici in grado di sventare guerre e distruzioni. Quello che colpisce di piùgli osservatori meno cinici, in occasioni di questi farraginosi appuntamenti internazionali, è proprio la mancanza del carisma. Barack Obama era partito con il piede giusto, e non è detto che non prenda sicurezza una volta percorso un tratto di strada. Resta però agli atti che del cambiamento di cui ha fatto il proprio cavallo di battaglia ancora non si hanno tracce. Degli altri, meglio non parlare. La stessa Europa di De Gaulle e Churchill ora ha dato lo scettro a figure di secondo piano, in grado sì e no di tenere a bada i propri concittadini quel tanto che basta per non essere spodestati quando escono dal territorio nazionale. Persone non in grado di chiamare il mondo a una nuova visione, statisti soltanto per mancanza di prove contrarie. Roma e Copenhagen, si diceva all’inizio, sono accomunate dal medesimo destino: il fallimento, senza appello e pronunciato persino prima del loro battesimo. Il loro destino avrebbe potuto essere diverso, se alla guida di una delle tante nazioni occidentali o orientali ci fosse un capo con delle idee e con la forza per sostenerle. Ma in questo mondo, di queste figure si sente la mancanza. Saranno le guerre in corso, che bloccano e delegittimano in un certo senso gli Stati Uniti, o l’arcaica chiusura che rende la Cina ostica al resto del pianeta: fatto sta che gli obiettivi ambiziosi, che abbiamo definito irragionevoli, si sono già raggiunti nel corso della storia della specie. Manca la volontà (politica e civile) di stringere i denti per regalare un mondo migliore a chi lo vive oggi e a chi lo vivrà domani.
F
rie, acciaierie e cartiere. In altre parole, tutte quelle fabbriche che sostanziano il ruggito del dragone asiatico con la loro produzione industriale. La differenza fra i due Paesi è di tipo strutturale: mentre gli Usa emettono altisonanti dichiarazioni a favore dell’ambiente, la Cina ha sempre detto di essere contraria. E, in ogni caso, sono stati Barack Obama e Hu Jintao che ieri - insieme - hanno accettato di decapitare prima della nascita l’incontro di Copenhagen. In una dichiarazione congiunta, per realismo o ipocrisia, i due hanno definito «inattuabile» un accordo vincolante da firmare i primi di dicembre.
Presentato il rapporto
La mappa del dolore: in testa l’Etiopia he sia chiaro: il problema della fame è spaventoso. E se in questa sede si attacca la Fao, e per derivazione diretta l’Onu, è soltanto perché li si ritiene organismi inadatti a compiere quello sforzo di mediazione politica ed economica fondamentale per porre un freno a uno dei più grandi scempi del nostro tempo. La persistenza della malnutrizione e il suo aggravarsi nel corso della recente crisi economica è sotto gli occhi di tutti, e sottolinea la necessità di una governance internazionale che sostenga la lotta alla fame. Somalia, Eritrea, Etiopia, Burundi, Corea del Nord sono soltanto alcuni dei testimoni dell’impotenza dell’homus politicus davanti all’evidente squilibrio nella distribuzione della ricchezza. Secondo il Rapporto emesso proprio dalla Fao in occasione del suo incontro si legge: «L’attenzione che al
C
momento viene concentrata sull’insicurezza alimentare globale dovrebbe essere utilizzata per combattere le cause che sono alla radice della fame. Si può mostrare una via per evitare crisi future: questi obiettivi richiedono un’azione coerente e coordinata sul lungo termine». Belle parole, iniziative sacrosante. Che secondo le Nazioni Unite si possono raggiungere tramite le donazioni effettuate dalle nazioni ricche a favore di quelle povere. Peccato che, come lamentano le Organizzazioni non governative presenti sul territorio, questi soldi non arrivino quasi mai a chi sono destinati. Quando anche raggiungono il Paese giusto, spariscono nel nulla: nel migliore dei casi, persi nei budget di governi corrotti che li destinano ad altro uso. Nel peggiore dei casi, finiscono a rifornire il commercio di armi o stupefacenti. Un altro fenomeno interessante che riguarda questo modo caritatevole di fare, sostengono gli attivisti per i diritti mani, riguarda invece le promesse da marinaio che l’Occidente ogni volta pronuncia - mano sul cuore, occhio lacrimoso e tono di voce tremolante - davanti al piccolo bambino malnutrito. In pratica, quando sparano lo fanno a salve. Stesso fenomeno si ripete per le grandi tragedie internazionali, che smuovono catene telefoniche e milioni di sms con i quali donare un euro ai sopravvissuti allo tsunami, alle popolazioni terremotate, agli alluvionati. Sostituendo l’impegno in prima persona con la carità virtuale, la comunità internazionale si è lavata la coscienza con il minor sforzo possibile. Soltanto che, anche qui, spuntano sciacalli e furbissimi della cooperazione. Un esempio fra tutti può essere quello del disastroso tsunami che ha colpito India,Thailandia, Sri Lanka e Indonesia il 26 dicembre del 2004. Davanti a 300mila morti quasi in mondovisione - data l’altissima presenza turistica nell’area dell’Oceano Indiano - si scatenò una delle migliori prove di umanità fornite dalla nostra razza. Una catena di
solidarietà avvolse in ogni forma conosciuta le popolazioni colpite dal disastro, che a vedere gli aiuti stanziati dovrebbero oggi avere una ripresa economica simile a quelli di Utopia. Purtroppo, nemmeno a questa favola è stato concesso il lieto fine: i soldi in buona parte sono stati promessi e poi tenuti nel borsello. Lì dove sono arrivati (quando sono arrivati) sono finiti nelle mani di governi militari o corrotti che non hanno certo pensato a ricostruire.
Dobbiamo puntare sulle Ong
Le prove dell’incapacità dell’Onu uando è stata l’ultima volta che, davanti a un problema di proporzioni mondiali, abbiamo in buona fede pensato: «Ora arriva l’Onu e risolve la situazione?». Semplicemente, mai. È un problema di impostazioni, di burocrazia, di indecisione cronica: i mali che avvolgono il carrozzone che dà vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ecco perché si deve cercare una soluzione alternativa. Per combattere la fame, ad esempio, non si può semplicemente pensare a un invio caritatevole di cibo: si deve pensare a re-indirizzare le economie locali, cercando di dar loro uno sviluppo che porti nel tempo all’auto-sufficienza. Ma questo l’Onu non è in grado di farlo. Affidiamoci invece a quella straordinaria rete di cooperazione internazionale che porta il nome di Organizzazioni non governativa, un network mondiale, in molti casi già interconnesso al suo interno, che opera sul territorio e conosce bene le realtà che affronta. Basta con le migliaia di rapporti e documenti pomposi
Q
prima pagina
pagina 4 • 17 novembre 2009
Summit/2. Il Pontefice si scaglia contro l’impotenza della politica e della diplomazia al vertice della Fao
Undicesimo: non sprecare Appello accorato di Benedetto XVI al summit di Roma: «Se i ricchi impareranno ad essere meno ricchi, i poveri saranno meno poveri» di Francesco Capozza
ROMA. «Ho accolto con grande piacere l’invito del Signor Jacques Diouf, direttore generale della Fao, a prendere la parola nella sessione di apertura di questo vertice mondiale sulla Sicurezza alimentare». Così Benedetto XVI ha aperto ieri il suo intervento al vertice sulla sicurezza alimentare in corso a Roma. «Desidero rinnovare - in continuità con i miei venerati predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II - la stima per l’azione della Fao, a cui la Chiesa Cattolica e la Santa Sede guardano con attenzione ed interesse per il quotidiano servizio di quanti vi lavorano. Grazie alla vostra generosa opera, sintetizzata nel motto Fiat Panis, lo sviluppo dell’agricoltura e la sicurezza alimentare rimangono fra gli obiettivi prioritari dell’azione politica internazionale. E sono certo che questo spirito orienterà le decisioni di questo vertice, come pure quelle che saranno adottate nel comune intento di vincere quanto prima la lotta alla fame e alla malnutrizione nel mondo».
Il papa, che è a tutti gli effetti un capo di Stato come gli altri convenuti a Roma, è entrato subito in temi di stretta attualità: «La comunità internazionale - ha sottolineato - sta affrontando in questi anni una grave crisi economico-finanziaria. Le statistiche testimoniano la drammatica crescita del numero di chi soffre la fame e a questo concorrono l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, la diminuzione delle disponibilità economiche delle popolazioni più povere, il limitato accesso al mercato e al cibo.Tutto ciò mentre si conferma il dato che la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti. Infatti, sebbene in alcune regioni permangano bassi livelli di produzione agricola anche a causa di mutamenti climatici, globalmente tale produzione è sufficiente per soddisfare sia la domanda attuale, sia quella prevedibile in futuro». Per il Pontefice, questi dati «indicano l’assenza di una relazione di causa-effetto tra la crescita della popolazione e la fame, e ciò è ulteriormente pro-
Non è la prima volta che Benedetto XVI parla del diritto al «pane quotidiano»
La bestemmia dell’indifferenza di Luigi Accattoli umanità deve riconoscere e regolamentare il diritto di ogni uomo al cibo e all’acqua: il Papa ne ha parlato ieri nel discorso alla Fao ed è la terza volta che rivolge questo appello lungo gli ultimi sette mesi. Da una parte lo “scandalo” della fame e della sete, dall’altro l’insostenibile spettacolo «dell’opulenza e dello spreco». È su questo tema che si viene appuntando, con sempre maggiore decisione, la predicazione sociale di Benedetto XVI.
L’
Negli annali del Pontificato il 2009 verrà ricordato – tra l’altro – come l’anno del riequilibrio, nel magistero papale, tra la materia teologica e quella sociale. Papa Ratzinger in precedenza era stato percepito come più attento alle tematiche teologiche e meno disponibile a occuparsi di quelle sociali, ma i due registri del suo insegnamento sono venuti acquisendo una pari dignità a partire dalla seconda metà dello scorso anno, prima in risposta alla crisi economica, poi con il viaggio in Africa (maggio) e l’enciclica Caritas in Veritate (luglio), infine con
l’impegnativo discorso di ieri al Vertice mondiale sulla Sicurezza alimentare. Il cuore del messaggio di ieri è dove Benedetto ha affermato la necessità che la comunità internazionale maturi «una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni». A seguire ha sostenuto l’urgenza di una «regolamentazione adeguata» di quel diritto «fondamentale». Il Papa non ha indicato le modalità di una tale «regolamentazione». Essa non può che essere oggetto di una deliberazione politica e la Chie-
sa – ha specificato – «non pretende di interferire nelle scelte politiche» ma sollecita un’azione «solidale, programmata, responsabile e regolata» di tutte le componenti della comunità internazionale e si impegna a «sostenerla con le parole e con le opere».
Nell’enciclica sociale pubblicata in luglio aveva affermato l’esigenza che venga promossa una «autorità politica mondiale» al fine di assicurare una serie di obiettivi essenziali per il futuro dell’umanità, tra i quali aveva elencato quello della «realizzazione della sicurezza alimentare». Ma forse la parola più audace in materia di cibo e di acqua il Papa teologo l’aveva pronunciata il 4 maggio scorso, parlando all’Accademia delle Scienze sociali: «Per i cristiani che ogni giorno chiedono a Dio “il pane quotidiano” è una tragedia vergognosa che un quinto dell’umanità soffra ancora la fame». Questa era una parola sferzante rivolta alle Chiese e subito dopo ne aveva indirizzata un’altra a tutti gli uomini, qualificando come «diritti umani non negoziabili e che sono fondati nella legge divina» quelli al cibo, all’acqua e alle fonti energetiche indispensabili alla sopravvivenza. Aveva cioè usato per il cibo e le altre risorse essenziali la stessa qualifica di «non negoziabili» che altre volte aveva attribuito al diritto alla vita e al ruolo della famiglia. Ieri non ha ripetuto quell’affermazione, ma ne ha riformulato il contenuto attribuendo ai diritti al cibo e all’acqua la qualifica di fondamentali, universali, senza distinzioni, senza discriminazioni. Potrà avere qualche efficacia questa insistenza del Papa? È arduo rispondere e tutti siamo tentati di ritenere che l’opinione pubblica mondiale dopo un momento di plauso rituale lascerà cadere le sue calde parole nel cesto della buone intenzioni. Egli stesso ne è parso cosciente in un altro passo del discorso di ieri, quando ha accennato alla tendenza dell’umanità a negare la stessa “percezione” del dramma della fame, finendo con il ritenerla un fenomeno “strutturale”, oggetto di “sconforto” e di “indifferenza”: «Non è così, e non deve essere così!» Possiamo stare certi che Benedetto continuerà a gridare il suo allarme per scuotere il mondo del benessere, ancora incerto sul destino della propria crisi e dunque ben deciso a distogliere lo sguardo da chi muore di stenti. www.luigiaccattoli.it
vato dalla deprecabile distruzione di derrate alimentari in funzione del lucro economico. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho osservato che la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato».
Poi un invito alla cooperazione e alla sussidiarietà: «La debolezza degli attuali meccanismi della sicurezza alimentare e la necessità di un loro ripensamento sono testimoniati, in un certo senso,
“
La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale
”
dalla stessa convocazione di questo vertice. Di fronte a paesi che manifestano necessità di apporti esterni, la Comunità internazionale ha il dovere di partecipare con gli strumenti della cooperazione, sentendosi corresponsabile del loro sviluppo, mediante la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto». «Tuttavia ha precisato il Papa - sebbene la solidarietà animata dall’amore ecceda la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro, essa non è mai senza la giustizia, che induce a dare all’altro ciò che è “suo” e che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso, infatti, donare all’altro del “mio”, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Se si mira all’eliminazione della fame, l’azione internazionale è chiamata non solo a favorire la crescita economica equilibrata e sostenibile e la stabilità politica, ma anche a ricercare nuovi parametri necessariamente etici e poi giuridici ed economici - in grado di ispirare l’attività di cooperazione per costruire un rapporto paritario tra Paesi che si trovano in un differente grado di sviluppo». Benedetto XVI ha voluto anche rimarcare come l’alimentazione
prima pagina
17 novembre 2009 • pagina 5
L’intervento della Clinton durante la visita in Indonesia
«Ecco cosa si può fare dopo Copenhagen» Il segretario di Stato americano fissa i 4 “paletti” per recuperare una Conferenza già fallita di Hillary Rodham Clinton Pubblichiamo un estratto dell’intervento di Hillary Rodham Clinton alla conferenza dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) di giovedì scorso, in cui il segretario di stato si occupa del meeting sul clima di Copenhagen e delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Indonesia. orrei dire qualcosa a proposito della sfida globale su cui ci concentreremo nelle prossime settimane in vista della Conferenza di Copenhagen. Abbiamo avuto una fruttuosa discussione sui cambiamenti climatici. Gli Stati Uniti hanno preso misure molti importanti, nell’ultimo anno, per cambiare radicalmente il modo con cui utilizziamo la nostra energia nelle case. E abbiamo ritrovato il nostro posto al tavolo dei negoziati internazionali sul clima. Crediamo che tutte le nazioni abbiano il dovere di rispondere a questa urgente sfida globale e siamo preparati ad assumerci la nostra fetta di responsabilità. Per il futuro, siamo impegnati nel raggiungere l’obiettivo di un accordo sul clima che sia globale e legalmente vincolante. E continueremo a lavorare intensamente con il resto della comunità internazionale verso questo obiettivo. Se tutti garantiamo lo stesso, massimo sforzo e abbracciamo la giusta miscela di pragmatismo e idealità, credo che possiamo essere in grado di uscire dal meeting di Copenhagen con un risultato forte. E questa sarebbe una pietra miliare verso un accordo che sia totalmente vincolante sotto il profilo legale. Non possiamo permettere che l’inseguimento della perfezione ostacoli la via del progresso, ma ci sono chiare misurazioni attraverso le quali ci sarà possibile valutare i risultati di Copenhagen. Primo, ogni accordo deve riguardare un’azione globale immediata in cui tutte le nazioni si assumono la loro fetta di responsabilità. Non possiamo permetterci ulteriori ritardi.
V
“
includere un impegno per una forte riduzione delle emissioni, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. E si deve trattare di una riduzione significativa, rispetto al “business as usual”. Terzo, ogni accordo deve includere l’impegno nel realizzare un sistema che assicuri trasparenza e responsabilità rispetto all’implementazioni delle attività domestiche. Quarto, ogni accordo deve favorire i finanziamenti necessari per assistere i Paesi in via di sviluppo. Siamo preparati a sostenere un fondo per il clima globale che favorisca l’adattamento e gli sforzi dei Paesi in via di sviluppo, identificando i loro bisogni, i metodi migliori per ottenere quello di cui hanno bisogno e le eventuali necessità finanziarie per dare vita e mantenere in piedi un programma di riduzione delle emissioni.
Dobbiamo trovare un accordo “forte”, condiviso anche dai Paesi in via di sviluppo. E non possiamo permetterci ulteriori ritardi, se vogliamo lasciare ai nostri figli un pianeta più verde e più pulito
Josef Ratzinger ieri ha lanciato un appello all’Assemblea della Fao affinché le società opulente non sprechino risorse: solo così, secondo Benedetto XVI, si potrà sconfiggere la fame sia diritto fondamentale della persona: «Non si devono dimenticare i diritti fondamentali della persona tra cui spicca il diritto ad un’alimentazione sufficiente, sana e nutriente, come pure all’acqua; essi - ha sottolineato il Pontefice - rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare da quello, primario, alla vita. È necessario, pertanto maturare una coscienza solidale, che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni».
Infine il Pontefice non ha omesso di sottolineare la “dimensione religiosa” chiave del contributo della Chiesa nella lotta alla fame. «La fame - ha riassunto - è il segno più crudele e concreto della povertà. Non è possibile continuare ad accettare opulenza e spreco, quando il dramma della fame assume dimensioni sempre maggiori. Da parte della Chiesa cattolica ci sarà sempre attenzione verso gli sforzi per sconfiggere la fame; ci sarà l’impegno a sostenere, con la parola e con le opere, l’azione
solidale - programmata, responsabile e regolata - che tutte le componenti della Comunità internazionale saranno chiamate ad intraprendere. La Chiesa non pretende di interferire nelle scelte politiche; essa, rispettosa del sapere e dei risultati delle scienze, come pure delle scelte determinate dalla ragione quando sono responsabilmente illuminate da valori autenticamente umani, si unisce allo sforzo per eliminare la fame. È questo il segno più immediato e concreto della solidarietà animata dalla carità, segno che non lascia spazio a ritardi e compromessi. Tale solidarietà si affida alla tecnica, alle leggi ed alle istituzioni per venire incontro alle aspirazioni di persone, comunità e interi popoli, ma non deve escludere la dimensione religiosa, con la sua potente forza spirituale e di promozione della persona umana. Riconoscere il valore trascendente di ogni uomo e di ogni donna - ha concluso Benedetto XVI - resta il primo passo per favorire quella conversione del cuore che può sorreggere l’impegno per sradicare la miseria, la fame e la povertà in tutte le loro forme».
Secondo, l’accordo deve riguardare tutti i problemi più importanti, inclusi l’adattamento, il finanziamento, la cooperazione tecnologica, la condivisione tecnologica, la protezione delle foreste. Dovrebbe anche
Questi sono i metri di paragone che utiliuzzeremo per misurare l’efficacia dell’accordo. Ma, in ogni caso, Copenhagen non è la fine di questo processo. È soltanto una parte di un impegno collettivo più grande a ritenere noi stessi e gli altri responsabili, per velocizzare la transizione verso un’economia globale non dipendente dal carbone, e per lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti un pianeta più verde e più pulito. Anche dopo Copenhagen, dunque, dovremo essere in grado di proseguire su questa strada, con fretta e determinazione. Vorrei poi parlare brevemente del’incontro che ho avuto con il ministro degli Esteri indonesiano. Abbiamo discusso di molti argomenti, in gran parte relativi alle nostre relazioni bilaterali, ma anche a questioni regionali e globali. Naturalmente i discorsi da fare sarebbero stati ancora molti, ma devo dire che sono rimasto molto impressionato dal ministro degli Esteri. La sua capacità di cogliere il “cuore” dei problemi, il suo approccio onesto e pragmatico, mi fanno sperare di poter presto tornare a lavorare insieme a lui. Stabiliremo un dialogo strategico tra i nostri due Paesi, e credo che vedremo presto l’Indonesia assumere un ruolo di primo piano a livello regionale e globale, come già sta facendo nel G-20. La transizione indonesiana verso la democrazia è, a nostro avviso, di straordinaria importanza per tutta l’Asia.
”
prima pagina
pagina 6 • 17 novembre 2009
Summit/3. Tra piccole aperture e grandi freddezze, prosegue la visita ufficiale del leader di Washington in Asia
A lezione da Obamao
Il presidente americano davanti agli studenti di Pechino parla di censura e diritti umani: le autorità sorridono e cambiano discorso Il presidente americano Barack Obama incontra gli studenti dell’Università di Shanghai. In basso Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama ospite in questi giorni in Italia. Nella pagina a fianco, i leader dell’Apec riuniti a Singapore
di Pierre Chiartano l presidente americano Barack Obama è arrivato ieri a Pechino. Le ruote dell’Air Force One hanno toccato la pista del Capital airport alle 16.45, ora locale, le 09.45 in Italia. Il gigantesco terminal numero tre a forma di dragone ha osservato il presidente Usa sbarcare dalla scaletta. Col cappello in mano, per chiedere ancora una volta che Pechino compri il debito pubblico Usa e riallinei in valore del renmimbi, ma con la schiena meno piegata di quanto si possa pensare. Soprattutto dopo la tappa in Giappone.
I
Il presidente dovrà rassicurare Pechino che gli americani spenderanno meno e risparmieranno di più, chiedendo ai cinesi di fare l’esatto contrario. La visita di Obama in Cina durerà complessivamente tre giorni: dopo la sosta a Shanghai in mattinata, dove ha incontrato gli studenti, resterà due giorni nella capitale cinese, dove fra l’altro vedrà il presidente Hu Jintao. Completata la visita alla Città Proibita lascerà Pechino per recarsi sulla Grande Muraglia. Dopo il viaggio in Giappone con le sue importanti ricadute politiche, non sono mancate altre “sorprese”. Obama, ha infatti difeso la politica di «una sola Cina» – peraltro già manifestata ai tempi di Nixon – esprimendo la propria soddisfazione per il riavvicinamento fra Pechino e il governo di Taiwan. Anche la questione tibetana è rimasta, almeno fino a ieri, in sospeso. «La mia Amministrazione sostiene pienamente la politica di una sola Cina e non ha intenzione di cambiarla: il mio desiderio profondo e la mai speranza è che si continui ad assistere a dei grandi progressi fra Taiwan e la Repubblica Popolare», ha commentato rivolgendosi ad un platea di studenti, nella sala del municipio di Shanghai, prima tappa della visita
di Obama in Cina. Intanto è stata accolta con irritazione in Europa la decisione dei leader dell’Apec (Cooperazione economica Asia-Pacifico), con in testa Usa e Cina, di far slittare il nuovo accordo globale sul clima che avrebbe dovuto essere adottato nel vertice di Copenhagen di dicembre. Lo stesso presidente americano ha dovuto ammettere, domenica, che non c’è tempo per negozia-
re una soluzione condivisa da tutti. Per questo ha appoggiato il nuovo piano in due tempi, presentato dal premier danese Lars Lokke Rasmussen, che ridimensiona le iniziali ambizioni del summit. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, a Londra non è stata accolta bene la frenata imposta da Washington e Pechino, e il segretario per il Cambiamento climatico, Ed Miliband, ha insistito che nel vertice di dicembre ci sia ancora spazio per un accordo di ampia portata, chiedendo la partecipazione di Obama.
Il premier britannico Gordon Brown ha promesso che ci sarà, sostenendo che non ci potrà essere alcun piano B alternativo. Non c’è dubbio che sia l’economia europea – già piena di rigidità – a venire fuori male dal nuovo corso sul clima, che renderà meno vincolati i suoi conpetitor internazionali. Obama è convinto che Cina e Usa non hanno motivo per essere avversari e anzi le relazioni positive fra i due Paesi aprono nuove possibilità per risolvere i problemi globali economici e di sicurezza, portando «pace e prosperità». Lo ha affermato nel suo discorso a Shanghai,
pur non risparmiando critiche al mancato rispetto per i diritti umani e la censura praticata su internet dalle autorità di Pechino. È la prima volta che un presidente Usa partecipa a un forum di questo genere in Cina:
Il Dalai Lama domani da Fini BOLZANO. Visita di due giorni in Trentino Alto Adige da parte di Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, massima autorità spirituale del popolo tibetano, nonché «convitato di pietra» della visita di baraci Obama in Cina in questi giorni. È la terza visita del Dalai Lama in Alto Adige. Oggi il Dalai Lama avrà un colloquio con il presidente della povincia altoatesina Durnwalder, poi prenderà la strada per Trento, dove nel pomeriggio sono previsti ulteriori incontri pubblici a cui si unirà anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai. Domani e giovedì il leader spirituale tibetano sarà a Roma. Parteciperà al V Congresso mondiale dei parlamentari sulla questione tibetana, il cui obiettivo politico «è rafforzare il sostegno internazionale alle istanze portate avanti dal Dalai Lama». Nel pomeriggio di mercoledì, infine, incontrerà a Montecitorio il presidente della Camera Gianfranco Fini. Per il Dalai Lama si tratta della seconda visita a Roma in nove mesi.
non a caso la scelta è caduta sui rappresentanti della generazione più giovane – sebbene accuratamente selezionata – e Obama non ha mancato di citare il web come esempio di censura da evitare. Illustrando di fatto quello che è già stato definito il «G2», ovvero il nuovo asse politico-economico sino-americano, Obama ha anche sottolineato come vi siano pochi problemi globali che possono essere risolti senza un accordo fra Washington e Pechino: «gli altri Paesi guardano a quello che faranno Stati Uniti e Cina, questo è il peso che ci impone la nostra leadership».Obama – che nel tardo pomeriggio di ieri ha visto Hu Jintao – non ha risparmiato elogi alla Cina, ma ha anche ricordato come i diritti umani siano universali e vadano applicati dovunque. Gli Stati Uniti – ha sottolineato – hanno dovuto lottare contro la schiavitù e a favore dei diritti per le donne e le minoranze, ma sono riusciti a superare queste difficoltà perché il Paese accettava quei valori che sono alla base della sua fondazione, fra i quali la «libera espressione e partecipazione». L’America, ha concluso Obama, non vuole imporre alcuna forma di governo agli altri Paesi, ma non rimarrà in silenzio di fronte alle violazioni dei diritti umani.
Rispondendo a una domanda sull’assegnazione del premio Nobel per la Pace, Obama ha affermato che il Comitato per il Nobel è stato ispirato dal popolo americano, dicendo di voler accettare l’onore «con grande umiltà» sebbene non ritenga di meritarlo; un premio che è tuttavia un simbolo del cambiamento nella politica mondiale che la sua amministrazione intende promuovere: «tutti noi abbiamo degli obblighi per cercare di portare la pace nel mondo». Il Presidente ha poi sottolineato come un accesso illimitato alle risorse della Rete costituisca un punto di forza e come un aperto scambio di informazioni sia a vantaggio di tutti i Paesi. Tutte le società traggono beneficio dal poter navigare sulla rete, condividere opinioni e disseminare informazioni, utilizzando strumenti quali i social network come Twitter; la libertà di discussione rende i governi responsabili, ha ribadito Obama, scherzando sul fatto
prima pagina
17 novembre 2009 • pagina 7
Miracolo diplomatico a Tokyo Il successo inaspettato del vertice di Barack con il premier giapponese Hatoyama di Wei Jingsheng a prima tappa del tour dell’Asia in quattro nazioni per il presidente Obama è stato il Giappone. La visita è stata ridotta a un solo giorno a causa della sua partecipazione alla commemorazione di Fort Hood, ciò nonostante è stata una giornata molto produttiva. L’alleanza tra Giappone e Stati Uniti, che aveva preoccupato molti, ha raggiunto una conclusione soddisfacente. Dopo l’incontro tra il presidente Obama e il nuovo primo ministro giapponese Yukio Hatoyama, entrambe le parti si sono ripromesse di rafforzare l’alleanza. Il primo ministro Hatoyama ha addirittura proposto che l’alleanza panAsiatica per la quale stava spingendo sia realmente un’alleanza basata sull’alleanza Giappone-Stati Uniti. Questo era al di fuori delle aspettative di molti osservatori. Esaminando questo viaggio in Asia del presidente Obama, molti osservatori prevedono che la strategia diplomatica estera degli Stati Uniti ritornerà verso l’Asia. La visita di Obama è una dichiarazione dell’inizio di questa strategia. Si tratta di un ottimo inizio.
L
Gli Usa non hanno prestato sufficiente attenzione ai loro alleati asiatici per lungo tempo. Nel corso degli ultimi vent’anni, per interessi economici e per combattere il terrorismo, gli Stati Uniti hanno offerto al regime comunista cinese lo stesso status economico privilegiato degli altri alleati e anche accomodamenti diplomatici. Così facendo, hanno incoraggiato una diplomazia aggressiva da parte del Partito comunista cinese, mentre altri paesi dell’Asia orientale perdevano la loro fiducia negli Stati Uniti. Anche l’alleato principale degli Stati Uniti in Asia che a volte preferirebbe che non vi fosse tanta libertà per non dover ascoltare le critiche alle sue politiche: ma le critiche, ha concluso, fanno di lui un dirigente migliore e rendono la democrazia più forte per-
orientale, il Giappone, sentiva che gli Stati Uniti non erano affidabili. Questa sfiducia si è diffusa in Giappone per molti anni e infine quest’anno è diventato un argomento importante per le elezioni giapponesi. Proprio sotto lo slogan di liberarsi di un disuguale rapporto Giappone-Stati Uniti, il partito democratico del Giappone, principalmente composto da giovani, sotto la leadership di Yukio Hatoyama ha ricevuto il sostegno della maggioranza giapponese ed è quindi salito al potere.
È vero che i giapponesi vogliono realmente liberarsi della loro alleanza con gli Stati Uniti? Le “gioventù patriottiche”in Cina sono entusiaste, il che riflette l’augurio della leadership del Partito Comunista Cinese (Ccp). Anche i media neutrali internazionali sono preoccupati. Se fosse vero, incoraggerebbe enormemente il Ccp ad espandere il suo potere e conquistare la leadership in Asia, accaparrandosi sia la politica che i suoi scenari economici. Ciò nonostante, le persone più obiettive possono dire che l’amministrazione Hatoyama ha solo attuato una strategia per costringere gli Stati Uniti a riconoscere la situazione, e per questo motivo ha pronunciato parole così allarmanti. Come direbbero i cittadini cinesi comuni: «se vuoi aprire delle finestre, devi affermare che fa così caldo da dover smantellare il tetto». Allora, l’altra parte accetterebbe molto più facilmente la conclusione di dover aprire le finestre (o lo suggerirebbe essa stes-
ché gli impongono di riflettere sulle sue azioni. Infine, rispondendo alla domanda di uno studente in merito alla diversità, Obama ha sottolineato come proprio la diversità sia uno dei punti di forza degli Usa: «alle
sa). L’approccio da parte di Hatoyama di costruire un’alleanza con il partito comunista cinese era una strategia per costringere gli Stati Uniti a riconoscere la situazione e quindi tornare in Asia. Ora il risultato è qui. In verità gli Stati Uniti hanno abbassato la loro posizione e hanno revisionato l’alleanza nippo-statunitense nel ruolo di partner uguali. Questo cambiamento farà tornare l’alleanza tra Giappone e Usa al suo ruolo di fulcro per lo sviluppo democratico ed economico asiatico, mentre si esclude la possibilità di egemonia per il Ccp in Asia. Questo invito ad allentare le briglie piuttosto che a stringerle da parte di Hatoyama in verità ha avuto successo. Immediatamente ha capovolto gli anni di tendenza discendente dei paesi democratici in Asia. Molti media cinesi d’oltremare sono rimasti sconvolti da questo colpo sorprendente di Hatoyama e continuano a chiedersi «come lo spiegherà ai cittadini giapponesi che lo hanno eletto?» e «come ha potuto fare il contrario di quello che aveva promesso?». In verità, la maggior parte degli giapponesi ha un’opinione simile a quella di Hatoyama.
In un solo giorno, il presidente Usa è riuscito a ricucire il rapporto (complesso) con l’alleato orientale
Il Giappone non poteva permettersi di rimanere il fratello minore degli Stati Uniti, ma nemmeno potevano tollerare di rompere con il suo alleato storico. L’alleanza con un paese comunista come la Cina potrebbe realmente intimorire il cittadino medio giapponese. Quindi, rendere l’alleanza tra Giappone e Stati Uniti una partner-
nostre riunioni familiari sembra di essere alle Nazioni Unite», ha scherzato ricordando come egli sia figlio di una bianca del Kansas, sposata con un nero del Kenya, con una sorella per metà indonesiana e sposata
ship eguale nell’essenza invece che solo a parole è il risultato che la maggior parte dei giapponesi aspetta da molto. Il governo degli Stati Uniti ha saggiamente accettato l’avviso da parte del governo giapponese ed ha prontamente ricalibrato la sua strategia in Asia.
Questo adeguamento non solo garantirà i suoi stessi interessi in Asia ma garantirà il normale sviluppo economico e politico in Asia per i prossimi decenni. Si tratta di una delle poche grandi conquiste che siano mai state raggiunte in una visita di un giorno.Rivedendo l’itinerario del presidente Obama per i prossimi giorni, si può dire qualcosa sull’ambizione statunitense per questa sua nuova strategia in Asia. Dopo aver ricevuto la fiducia e la garanzia di alleanza dal Giappone, Obama si unirà all’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (Asean) e incontrerà tutti i dieci leader di questi Paesi. Questo aiuterà a recuperare la fiducia di questi Paesi dell’Asia orientale e dell’Asia sudorientale nei confronti degli Stati Uniti e a rafforzare lo status dell’alleanza fra Giappone e Stati Uniti. Senza una solida alleanza, la sola supremazia o del Giappone o degli Stati Uniti non compenserebbe l’ombra dell’egemonia del Ccp o la fiducia di questi paesi dell’Asia sudorientale. Questa situazione è dovuta al fatto che gli Stati Uniti hanno ignorato l’Asia per gli ultimi 30 anni. La nuova amministrazione Hatoyama ha incoraggiato gli Stati Uniti a ripensare la propria strategia e correggere i propri errori del passato. Si tratta di un miracolo nella storia diplomatica. E la formazione di questo nuovo modello avrà una significativa influenza sul processo di democratizzazione in Cina.
con un sino-canadese. La diversità però ha un limite: gli Usa rispettano le altre culture e le altre tradizioni, ma difenderanno quei principi che ritengono importanti e universali, come quelli delle donne e dei
bambini: proprio l’istruzione femminile è uno dei criteri che misurano il successo di un Paese, ha concluso Obama invitando gli studenti a migliorarsi e «non accettare supinamente le opinioni tradizionali».
politica
pagina 8 • 17 novembre 2009
Alter ego. L’ex leader di An fa anche un’arringa sul protezionismo. Alfano ripudia il suo Lodo, il leader del Pd dice no alla piazza dipietrista
Fini, lotta continua «Sulle regole, la maggioranza non può fare da sé»: prosegue l’attacco al premier di Errico Novi
ROMA. È un dato di fatto: men-
Fini interviene proprio nelle
tre Silvio Berlusconi sospende le comunicazioni, Gianfranco Fini si impadronisce della scena. Lo fa ogni giorno, da ogni palco utile, e vale fino a un certo punto la coincidenza con la pubblicazione del nuovo libro. Al Comune di Prato, per esempio, il presidente della Camera interviene per celebrare i 720 anni dalla fondazione di un Consiglio comunale tra i più antichi d’Italia. Parla di riforme istituzionali, come forse si conviene in una ricorrenza così significativa nella protostoria della nostra democrazia, ma dà per l’ennesima volta la netta sensazione di proporre una leadership alternativa nella maggioranza. È proprio alla sua parte politica d’altronde che si rivolge: chiede di evitare che «ogni maggioranza modifichi a proprio piacimento le regole del vivere civile». Le istituzioni della Repubblica «sono le istituzioni di ogni italiano» e quindi la ridefinizione del loro funzionamento «deve essere quanto più possibile condivisa».
stesse ore in cui il ministro della Giustizia chiama fuori il governo da una ripresentazione del lodo Alfano sotto forma di ddl costituzionale, e lascia quindi aperta solo la via del processo breve riformato a maggioranza. È dunque un profilo nettamente diverso, quello che l’ex leader di An disegna per il proprio partito. Diverso, alternativo e sempre più caratterizzato. A furia di indicare una linea concorrente rispetto a quella del premier, Fini infatti finisce per muovesi su terreni insoliti, e completare così la sua offerta politica. Davanti ai consiglieri di Prato difende «l’industria manifatturiera italiana» minacciata «dal mercato senza regole che diventa anarchia e produce ingiustizie anziché ricchezza». Un argomento tipicamente tremontiano – evocato non a caso nel distretto dove più che altrove l’imprenditoria impiantata dai cinesi mette in ginocchio quella indigena – e declinato con stentorea chiarezza: niente ellissi diplomatiche quando si tratta di prendersela con il «dumping sociale, lo sfruttamento selvaggio del lavoro». Senza pretendere in modo esplicito «anacronistici protezionismi» Fini reclama però un’azione forte dell’Italia «per far rispettare a tutti le regole comunitarie e far valere le ragioni dei marchi italiani» davanti all’aggressione «dei furbi e dei disonesti».
Il processo Mediaset
A gennaio il Cavaliere in tribunale MILANO. Dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta, arriva il primo slittamento del processo che vede imputato Berlusconi a proposito di una serie di truffe e irregolarità sulla compravendita di diritti cinematograficie televisivi da parte di Mediaset. I giudici della prima sezione del tribunale di Milano hanno rinviato al 18 gennaio prossimo l’udienza che vede imputati, oltre al premier, alcuni manager Mediaset. I giudici hanno di fatto accolto la richiesta di deduzione di legittimo impedimento di Berlusconi ad essere in aula fino, appunto, al 18 gennaio, sulla scorta di una lettera del segretario della Presidenza del Consiglio. Hanno inoltre disposto che le udienze proseguano, poi, per tutti i lunedì successivi. Qualora si dovessero presentare nuovamente legittimi impedimenti da parte del premier l’udienza si terrebbe al sabato della stessa settimana. Se il 18 gennaio saranno svolte in aula attività istruttorie rilevanti «il presidente ci sarà» ha commentato il più celebre dei legali di Berlusconi anche in questo processo, Niccolò Ghedini. Il quale ha spiegato che «non vi è alcuna volontà dilatoria nel processo», tanto che oggi, poiché si svolgeva solo attività organizzativa, la difesa ha rinunciato al legittimo impedimento. «Il Tribunale - ha sottolineato Ghedini - ha ritenuto corretta l’indicazione fornita sulle date in cui il presidente del Consiglio è disponibile a presentarsi».
Un modo semplice per dire che le ragioni della destra identitaria e la critica sulla globalizzazione possono coniugarsi con i diritti degli immigrati. Nella versione proposta in Toscana peraltro il presidente della Camera li rappresenta come inseparabili dal rispetto della legalità: se essa manca, dice non può esserci nemmeno l’integrazione. Così il profilo del leader va definendosi meglio: moderato nel rapporto con le opposizioni e con gli altri poteri dello Stato ma rassicurante sulle questioni che affliggono particolarmente l’elettorato di centrodestra. Nulla a che vedere con il complotto per deporre Berlusconi, piuttosto un instancabile contrappunto, una continua battaglia per affermare una vocazione moderata del Pdl. La netta differenza di linguaggio si nota in passaggi come quelli in cui Fini sconsiglia l’esposizione delle riforme al rischio referendario (possibilità invece assai vagheggiata negli ultimi giorni dal premier) e
suggerisce di «cercare il confronto, evidenziare quello che può unire mettendo in secondo piano o in disparte tutto ciò che può dividere». Subito il Pd intravede l’assist: Anna Finocchiaro approva il discorso, Pierluigi Bersani può trarne buoni auspici per dirsi disponibile a discutere di riassetto delle istituzioni, «a partire dalla bozza Violante», e anche di giustizia, ma a condizione che non si tratti delle «incombenze semestrali» di Berlusconi.
Non è una giornata semplice, per il segretario democratico, che parla al termine della direzione nazionale e deve bilanciare due tendenze: quella che lo porta lontano dalle piazze «convocate da altri», cioè dal “No B. day” dipietrista, giacché sulle manifestazioni si decide guardando «alle loro parole d’ordine», con l’inevitabile disappunto dell’elettorato più giustizialista. È in nome di questo equilibrismo che Bersani suscita la delusione di Paolo Bonaiuti e individua una exit strategy piuttoPIER LUIGI sto frettolosa sulBERSANI l’appello di Pier Ferdinando Casini per «Sul Lodo la riproposizione Alfano del lodo Alfano cola Consulta me legge costituzioha sollevato nale. Il leader deleccezioni che l’Udc ricorda che vanno ben «le furberie non seroltre la sola vono, né da parte procedura. dell’opposizione E la legge sul che si deve assumeprocesso breve re la propria reva ritirata» sponsabilità né da parte della maggio-
politica
17 novembre 2009 • pagina 9
Il tema della consultazione anticipata resta nell’agenda politica
«Le elezioni sono inutili Anche per Berlusconi» «Le urne non risolverebbero i problemi della giustizia»: Alessandro Campi risponde al premier che minaccia il voto di Riccardo Paradisi erlusconi è già stato legittimato da un ampio voto popolare un anno e mezzo fa, che cosa cambierebbero le elezioni anticipate se non gli equilibri interni alla maggioranza? Che cosa cambierebbe della situazione giudiziaria del premier? Del suo rapporto con le istituzioni, con la magistratura, con la Corte costituzionale. Dando argomenti a chi magari pensa a un governo di tipo istituzionale?». Alessandro Campi, direttore scientifico della fondazione Fare futuro, ragiona con freddezza da politologo sull’attuale situazione di stallo del quadro politico. Che dopo quindici anni sembra essere tornato a un punto di cristallizzazione nel rapporto tra potere politico e magistratura. Un cul de sac da cui secondo Campi non si esce col ricorso alle urne, l’ipotesi che tenta sempre di più lo stato maggiore del Pdl berlusconiano. «Facciamo tutte le ipotesi possibili – dice Campi – «immaginiamo che si vada a elezioni e che Berlusconi le perda. È un’ipotesi possibile. È quello che del resto è accaduto a Chirac, che ha sciolto l’assemblea nazionale ed è stato bocciato dalle urne. Fine partita. Un suicidio determinato da una fretta insana. Ipotesi due: puoi pareggiare. È già accaduto, ed è lo scenario peggiore, perché in questo caso il Paese precipiterebbe nella paralisi. Terza possibilità: vinci le elezioni. Bene. Ma anche in questo caso, insisto, perché la situazione di Berlusconi dovrebbe essere diversa da quella che è ora? In questo scenario a ben guardare l’unico a guadagnarci davvero sarebbe Umberto Bossi. Il premier rischierebbe di averlo al 15% avendogli giù consegnato Piemonte eVeneto nel patto politico in vista delle elezioni. Dopo di che cosa hai risolto dei tuoi problemi giudiziari? Sei esattamente al punto di partenza, hai utilizzato uno strumento che non ti risolve nulla».
«B
BENEDETTO DELLA VEDOVA
Schifani, che subito rilancia l’appello di Fini sulle riforme «La nostra idea condivise e ricorda è quella di una «il tempo prezioso» “soft law” perso finora nella leche dica no gislatura: «Tutti i all’eutanasia, no partiti dovrebbero all’accanimento avere un sussulto di terapeutico volontà». Dipende ma che lasci in quale direzione lo la definizione si intende: in un Pdl della materia piuttosto frastornacaso per caso» to sul fronte berlusconiano, oltre al discorso di Alfano si ranza», nel senso che «se il lodo nota l’intervento del ministro costituzionale è un modo per degli Esteri Franco Frattini, che evitare la porcheria non è che si nella sua rubrica sul Velino fa 11 può fare anche la porcheria». considerazioni sulla questione Pensateci bene, dice Casini, e giudiziaria e in conclusione deinvece Bersani procede in mo- finisce il processo breve come do precipitoso, «mi pare che la «la risposta netta di cui abbiaCorte costituzionale abbia po- mo bisogno». Fini a parte, il sto un problema che non ri- «lungo respiro» invocato da guarda l’iter di quel provvedi- Giorgio Napolitano scarseggia, mento e quindi non starei a di- prevale il rancore dei fedelissiscuterne», dice. Dimentica che mi di Berlusconi nei confronti di proprio la Consulta ha chiarito Fini opposto al movimentismo come simili guarentigie vadano che invece anima i parlamentaassegnate per via costituziona- ri vicini all’ex presidente della le, in modo da non ricadere nel Camera: Benedetto Della Vedocono d’ombra dell’articolo 3. E va deposita un emendamento aggiunge che «che adesso c’è sul testamento biologico sostanuna proposta sul processo bre- zialmente incompatibile con il ve non accettabile». Davanti ai testo Calabrò che la Camera componenti della direzione di- vorrebbe riadottare. No all’eutace «non potabile», e con metico- nasia ma anche all’accanimento loso equilibrio usa lo stesso in- terapeutico, una «soft law» che solito aggettivo a proposito del- lascia a medici e familiari la le manifestazioni. scelta per i pazienti in stato vegetativo. Con l’ex radicale c’è la Lo scarso protagonismo del maggior parte della pattuglia fipremier fa scivolare in secondo niana a Montecitorio, pronta a piano l’ansia di uno shodown, punzecchiare anche su questo che pure nella maggioranza trema la propria coalizione, copersiste. Prova a superarla il me se non bastasse da solo il presidente del Senato Renato fronte della giustizia.
“
si tratti di riforma universitaria o di riforma dell’ordine dei giornalisti o di riforma della magistratura – «devi andare a toccare interessi organizzati e corporativi che ci si guarda bene dallo sfidare». Insomma il difetto principale di Berlusconi sarebbe quello «di evitare il dissenso momentaneo con un pezzo forte di opinione pubblica, di cercare sempre il consenso a tutti i costi».
Ma questo consenso generalizzato, di cui Berlusconi parla sempre, non è di per sé un titolo di merito. «I grandi modernizzatori, quelli che hanno lasciato una traccia, sono quelli che si sono messi di traverso anche rispetto a certe attese rassicuranti della società, che nei suoi istinti è sempre contraria ai cambiamenti sociali. Kohl ha unificato la Germania contro il volere dei tedeschi dell’occidente. Però Kohl riteneva che quella era una scelta politica che andava fatta. La Tatcher ha fatto la stessa cosa. Perché Berlusconi non trova il coraggio di fare un’azione incalzante e dirompente sui vecchi equilibri?» A partire da una riforma della giustizia vera, di ampio respiro: «che è diventata per il centrodestra quello che il conflitto di interessi è per il centrosinsitra. Invece di prendere di petto il problema si è pensato di poterlo utilizzare come merce di scambio in una logica di mediazione continua». Nel Pdl c’è però chi dice che una parte della maggioranza non si assume la responsabilità di fare corpo difensivo col premier senza equivoci. «Non ci sono equivoci – replica Campi – C’è piuttosto la necessità di trovare un punto di mediazione virtuoso che salvaguardi certi equilibri. Che ti consenta di ottenere il risultato pagando il prezzo politico minore. La via della prescrizione avrebbe risolto in teoria i problemi di Berlusconi ma avrebbe avuto un impatto sociale devastante. E d’altra parte come si può pensare che Napolitano l’avrebbe firmata se è in forse il suo placet anche al processo breve?». Campi auspicherebbe anche un dialogo con la sinistra per una riforma seria e condivisa. Se non fosse che «anche Bersani si è messo in testa che conviene attendere la resa di Berlusconi magari proprio per via giudiziaria. Questa idea per cui si lascia cuocere Berlusconi in attesa che scoppino le contraddizioni interne al Pdl è però un’idea che dà la misura di come la sinistra riformista, nel suo soggiacere al ricatto massimalista di Di Pietro, abbia abdicato a un minimo di capacità di progettualità politica. Senza rendersi conto che, come è già accaduto, la prossima vittima della tracimazione del potere giudiziario potrebbe di nuovo essere lei».
La sinistra sbaglia a cercare la rivincita per via giudiziaria. La prossima vittima del protagonismo delle toghe potrebbe essere di nuovo lei
Questa idea palingenetica delle elezioni anticipate deriva, secondo Campi, dell’idea che l’impossibilità di agire di Berlusconi origini sempre dalle colpe degli alleati. Ma è un alibi. E quali sono allora le responsabilità di Berlusconi al di là delle proiezioni? «Siamo di fronte a un’inversione rispetto all’inizio dell’avventura politica del Cavaliere, il Berlusconi modernizzatore, il Gulliver che liberava il paese da lacci e lacciuoili. Il problema è che a quindici anni di distanza, le oligarchie, i gruppi di potere, le corporazioni son tutte rimaste li. Il grande rimescolamento non c’è stato, gli interessi forti, organizzati, che fanno blocco, non sono mai stati toccati, a dispetto di tutte le istanze di modernizzazione». Perché? Perché per fare quel tipo di riforme – che
”
diario
pagina 10 • 17 novembre 2009
Rivoluzioni. Potentati economici, bene comune ed efficienza nel servizio: tre nodi che il decreto del governo non affronta
Inizia la guerra dell’acqua
Il Parlamento discute la privatizzazione, una soluzione a metà
Q
uella della privatizzazione dell’acqua è una vera ossessione della sinistra italiana. Alcune settimane fa, sul Corriere della Sera, la scrittrice Dacia Maraini – che solitamente non si occupa di servizi “in rete”– ha portato un durissimo attacco al governo Berlusconi, accusato di sottrarre un bene tanto primario come l’acqua al suo legittimo proprietario, il popolo. Toni perfino più accessi ha usato uno dei campioni della sinistra no-global, padre Alex Zanotelli, che quando parla di questo tema sembra davvero perdere la testa. In una lettera sempre al Corriere, il padre comboniano ha chiesto il massimo dell’impegno di «tutti, al di là di fedi o di ideologie, perché “sorella acqua”, fonte della vita, venga riconosciuta come diritto fondamentale umano e non sottoposta alla legge del mercato». Amen.
In realtà, purtroppo sta succedendo ben poco su questo delicato tema, e quindi non c’è davvero ragione di scaldarsi in questa maniera. Il progetto governativo firmato da Fitto e Calderoli non prevede alcuna privatizzazione dell’acqua – il che vorrebbe dire, ovviamente, dei sistemi di gestione e distribuzione – e non è in alcun senso rivoluzionario. Ma è di questo che bisognerebbe lamentarsi. Come qualunque altro servizio, la distribuzione dell’acqua può essere meglio realizzata quando si abbandonano le logiche di monopolio e si entra in un quadro competitivo. Nella Sicilia di oggi l’acqua sarà anche pubblica, cioè gestita da enti
soggetti politici, cui è affidato il compito di regolare la gestione dell’acqua e che hanno quindi anche il compito di determinare i costi che devono gravare sui cittadini. Un’autentica privatizzazione e liberalizzazione dell’acqua, insomma, è ancora lontana: e non in primo luogo per ragioni tecniche, ma per le fortissime resistenze che l’idea incontra.
Per giunta, quello di cui si discute in Italia è solo se la gestione di acquedotti e reti debba essere lasciata in mano ai monopolisti attuali op-
Nella Puglia di Nichi Vendola si pensa di tornare all’antico: rimunicipalizzando l’acquedotto regionale che era stato trasformato in una Spa in un modo o nell’altro controllati da burocrati e uomini di partito, ma questo non impedisce alla rete di essere un colabrodo. Perché in tali ambiti si possa avere un vero mercato bisognerà fare molti passi: e se nel 2008 qualcosa si è iniziato a fare con la legge 133, il cammino è ancora lungo. Basti pensare al problema dei prezzi e al fatto che le tariffe sono decise dagli Ato, che sono in sostanza
sistenze, dato che se davvero ci si aprisse, anche timidamente, al mercato si finirebbe per mettere in discussione una serie di situazioni cristallizzate. L’acqua di Stato garantisce ai politici un bel numero di posti nei consigli d’amministrazione, insieme a notevoli opportunità di clientelismo. Senza dimenticare ciò che è già successo, negli anni scorsi, ossia che la costituzione degli Ato abbia finito per espropriare della loro autonomia decisionale una serie di realtà, anche molto piccole, che si erano attrezzate per amministrare in maniera autonoma la gestione dell’acqua.
di Carlo Lottieri
pure se essa debba essere affidata tramite gara. Si tratta insomma di vedere se quello che c’è oggi va bene (come sembrano dirci i difensori dello status quo), oppure se non vi siano imprese disposte a farsi avanti per proporre una gestione dell’acqua potabile e delle fognature con standard qualitativi più alti e prezzi inferiori. Il contrasto è essenzialmente culturale, ma rinvia a enormi re-
Il Pd: «Il decreto non è costituzionale»
Battaglia alla Camera ROMA. È cominciato alla Camera l’iter parlamentare del decreto legge sugli obblighi comunitari che contiene, all’articolo 15, la privatizzazione della gestione dell’acqua. In sostanza, se il decreto sarà approvato, il servizio idrico potrà essere affidato a un privato tramite gara pubblica o, in via straordinaria, senza gara ma col parere favorevole dell’Antitrust. Secondo molti commenti, si tratta di un provvedimento che porta alle conseguenze estreme la privatizzazione leggera varata negli anni Novanta con la legge Galli e rivoluziona totalmente la storia municipalizzazione degli acquedotti voluto un secolo fa da Giovanni Giolitti. Ed è per questo che sono molte le resistenze all’approvazione del decreto che – comunque - non garantisce alcun intervento sull’efficienza della rete idrica, vero buco nero della gestione dell’acqua nel nostro Paese. Immediata, dunque, la reazione dell’opposizione di centrosinistra all’iniziativa: «Il Pd alla Camera farà un’opposizione netta e intransigente – ha annunciato Marina Sereni, vi-
cepresidente del Pd - affinché il decreto 135 venga fermato e modificato. È del tutto inaccettabile che ancora una volta il Governo in maniera frettolosa e pasticciata tenti di affrontare un tema complesso e articolato come quello delle risorse
idriche e dei servizi pubblici locali in un decreto che si occupa di infrazioni rispetto alle normative comunitarie. Ecco perchè come Pd abbiamo presentato una pregiudiziale di costituzionalità»: ha concluso Marina Sereni, augurandosi che anche tra i deputati del centrodestra ci sia un sussulto di buon senso: si stralci l’articolo 15 e si affronti la materia con il tempo e gli approfondimenti necessari».
In verità, e una volta di più, ci si trova schiacciati tra un ideologismo vetero-collettivista che giunge a definire l’acqua un “diritto umano” (cosa vuol dire? serve a far gestire meglio le reti idriche? aiuta ad assicurare che i costi non saranno esorbitanti?) e la furbizia di chi vuole aprire il mercato, ma solo in parte, perché ha già i propri progetti e intende cogliere in tal modo la facile opportunità di costruire una rendita: usando il privato per fare i profitti e la regolazione pubblica per evitare la competizione. Padre Zanotelli e Dacia Maraini possono evitare di agitarsi: in un modo o nell’altro, l’acqua resterà gestita dal grande Soviet di Stato e da tutte le sue articolazioni. Al massimo vedremo apparire qualche “oligarca” locale che si appoggerà al Pubblico per realizzare, alle solite, privatissimi guadagni. C’è anche chi, nella Puglia di Nichi Vendola, sta pensando di tornare all’antico: rimunicipalizzando l’importante acquedotto regionale, che era stato trasformato in una società per azioni. Quanti amano l’acqua di Stato, insomma, possono dormire sonni tranquilli. Quelli che però dovrebbero preoccuparsi sono i cittadini, dal momento che in tal modo è difficile che si possano avere investimenti, ristrutturazioni e l’adozione di migliori tecnologie, e che quindi insomma si possa avere una qualità migliore a un prezzo più basso. In questa situazione, la cosa probabile è che molti rubinetti, anche la prossima estate, continueranno a restare del tutto asciutti.
diario
17 novembre 2009 • pagina 11
Gli alimentari spingono in su il livello del costo della vita
Si presume sia sangue. Intanto il 23 verrà riesumata la salma
Continua la corsa dell’inflazione: +0,3 per cento
Caso Cucchi: scoperta una macchia sui jeans
ROMA. La lenta risalita dell’inflazione va avanti anche a ottobre. Ieri l’Istat ha confermato le prime stime campione e certificato un aumento dello 0,1 per cento sul mese di settembre. Dato che a livello tendenziale sale fino a +0,3 per cento.
ROMA. Ancora novità sulla tra-
Questi numeri sono in parte in controtendenza rispetto al Vecchio Continente: per l’inflazione nell’Eurozona Eurostat ha rilevato a ottobre un -0,1 per cento su base annua, con un rialzo congiunturale dello 0,2. Il centrostudi Cerm guidato da Fabio Pammolli ha stimato che in Italia «se, come è probabile, dovesse continuare la serie di variazioni positive sia in congiuntura sia in tendenza, il 2009 chiuderebbe con un inflazione attorno al +1 per cento». Alla base del dato di ottobre la crescita su base mensile dei prezzi dei servizi (+0,2 per cento), temperata da una leggerissima riduzione dei prezzi dei beni (meno 0,1 per cento). Proprio su questo versante i prodotti energetici segnano un -1,3 per cento, mentre gli alimentari e gli altri beni rispondono, rispettivamente, con un +0,1 e +0,2 per cento. Questi ultimi numeri spingono il Codacons ha lanciare un campanello d’allarme in pro-
Di Pietro e De Magistris siglano una pace armata L’europarlamentare firmerà la mozione del leader di Franco Insardà
ROMA. «Sì, ho deciso di aderire all’Italia dei valori e lo sbocco è arrivato con la partecipazione alla vita del partito». Resa o armistizio che sia, sentendo le parole di Luigi De Magistris Antonio Di Pietro ieri ha tirato più che un sospiro di sollievo. Così l’ex pm – abbandonato con pochi riguardi dai “neo rutelliani” Pino Pisicchio, Aurelio Misiti e Giuseppe Astore – è riuscito per ora a fronteggiare la fronda interna capeggiata proprio dall’europarlamentare napoletano. Ma il prezzo è stato comunque salato: concedere al gruppo che fa capo all’ex pm della procura di Catanzaro una gestione più collegiale del partito. Qualcosa di impensabile fino a qualche giorno fa, visto che nella breve storia della rondine alata nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere in dubbio il binomio Italia dei valori uguale Antonio Di Pietro. Ieri la pace è stata siglata in un esecutivo del partito.Talmente teso che è durato più del previsto, quasi sette ore. Di conseguenza non deve sorprendere che la conferenza stampa, fissata per le 17, sia poi slittata alle 18. Proprio davanti ai giornalisti De Magistris ha sottolineato in più riprese di voler «sottoscrivere con Di Pietro una mozione e farla approvare, una mozione che porta al consolidamento dell’azione del partito. E Di Pietro per i prossimi anni guiderà questo grande processo».
vana Mura. Il congresso servirà anche a decidere se confermare la leadership o cambiare. Propio a questo proposito Di Pietro ha precisa che non si svolgeranno primarie stile Pd «l’Italia dei valori è convinta che la partecipazione deve essere la più democratica possibile, ma la classe dirigente deve essere individuata tra coloro che si riconoscono nei valori del partito e che quindi ad esso sono iscritti. Le primarie aperte ai non iscritti lascerebbero spazi a gruppi organizzati provenienti da altri partiti». L’ex pm ha chiarito, insomma, che «chiunque si può candidare alla presidenza Idv, ma prima deve iscriversi al partito e le candidature si presenteranno tramite mozioni». Regole che De Magistris ha, appunto, dichiarato di voler rispettare.
I due, nel corso della conferenza stampa, ci hanno tenuto a ribadire che «non c’è nessun problema all’interno del partito» e che, anzi, come ha sottolineato Di Pietro, «l’Idv si sente più unito che mai e non c’è nessuna voglia di divisione. Vogliamo lavorare e ci impegniamo per non cadere nel tranello degli avversari che vogliono dividere il partito perché lo temono. Al nostro interno nessuno ha voglia di rottura. Nessun rimorso e nessun rancore nei confronti di chi vuole lasciare il partito. Sono molte - ha concluso Di Pietro - le persone che si sono avvicinate e si stanno avvicinando a noi. Nell’insieme questo partito esce più rafforzato». Di Pietro ha anche chiarito che alle prossime elezioni regionali, l’Italia dei Valori «farà alleanze, ove possibile, solo con il centrosinistra. Le liste regionali dell’Idv saranno aperte anche a soggetti esterni al partito». Anche il capogruppo alla Camera, Massimo Donadi, ha voluto sottolineare l’unità del partito: «Non ci sono diverse accentuazioni, abbiamo avuto un confronto molto bello e positivo e alla fine siamo stati tutti d’accordo sugli aspetti fondamentali».
L’esecutivo durato sette ore ha deciso: congresso a febbraio con la promessa di una gestione più collegiale del partito
spettiva del Natale e a chiedere un anticipo dei saldi: «Le famiglie italiane avranno una stangata», si legge in una nota dell’associazione, «e per mangiare spenderanno, a fine 2009, 328 euro in più rispetto al 2008. Si tratta di un dato preoccupante, visto che l’inflazione è salita nonostante siano diminuite le voci trasporti, abitazione, energia e combustibili che solitamente fanno da traino». Secondo gli economisti del Cerm, «in queste condizioni, sicuramente specchio di una insufficiente concorrenza nella distribuzione commerciale e al dettaglio, sarebbe opportuno liberalizzare completamente i saldi di stagione, uno dei passi non compiuti dalla recenti riforme Bersani».
gica morte di Stefano Cucchi, il giovane deceduto il 22 ottobre al “Pertini”di Roma dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti il 15 ottobre scorso. Il primo nuovo elemento all’esame dei periti incaricati dai pm di svolgere gli accertamenti medico-legali è una macchia, che si presume sia di sangue, trovata sui jeans che il 31enne indossava quando fu ricoverato in ospedale e che alcuni giorni fa sono stati restituiti alla famiglia. L’indagine, affidata alla dottoressa Vecchiotti dell’Istituto di Medicina legale della Sapienza, potrà cominciare il 23 novembre, giorno in cui sarà riesumata la salma per consentire poi ad un’altra équipe di 4 periti di ap-
Concetto – obtorto collo – fatto proprio anche dal leader dell’Idv. Il quale ha persino allungato di un giorno il congresso nazionale di Roma, il primo, che si terrà dal 5 al 7 febbraio prossimi. «E sarà un congresso vero, aperto, trasparente. Il momento in cui sarà approvato il programma-progetto dell’Italia dei valori, che non può più essere un contenitore indistinto ma che deve diventare un contenitore di progetto», è stata la sua promessa al di De Magistris, dei capigruppo parlamentari Massimo Donadi e Felice Belisario, del portavoce del partito Leoluca Orlando e della tesoriera Sil-
profondire gli accertamenti autoptici. Sembrerebbe anche che, qualche ora prima dell’arresto, Stefano fosse in una palestra in zona Anagnina. La documentazione è stata recuperata dagli avvocati che assistono come parte civile i familiari della vittima: tra i carteggi, anche un certificato di sana e robusta costituzione richiesto dai titolari della palestra per accettare l’iscrizione di Cucchi.
A sollecitare la consegna dei documenti sono stati i titolari della palestra per dimostrare che al momento dell’ingresso nella loro struttura, pur avendo un’esile corporatura, Cucchi non aveva patologie evidenti. Inoltre, il 6 novembre scorso, 925 grammi di hashish e 133 di cocaina sono stati trovati in un appartamento saltuariamente occupato da Stefano Cucchi e di proprietà della sua famiglia. A rivelare l’esistenza della droga al magistrato sono stati gli stessi congiunti di Cucchi. E ora la sostanza è stata sequestrata dagli agenti della Squadra Mobile di Roma. Su questo fatto è stato ascoltato come testimone il padre. Secondo i legali, questo comportamento è indice della volontà dei genitori di prestare la massima collaborazione agli investigatori.
pagina 12 • 17 novembre 2009
nell’Italia del pieno Rinascimento che l’idea di città si salda indissolubilmente con l’istanza di bellezza: un connubio che in forme e modalità diverse si manifesta e si rinnova in tutta la penisola, da Trento a Messina, da Venezia a Torino, da Pesaro a Mantova. Nell’Italia del Rinascimento maturo la città non è più solo il rifugio da una natura insidiosa, il luogo sicuro e protetto dagli attacchi nemici: essa diventa il teatro delle sontuose nozze tra la Magnificenza e l’Utile.Allora e lì, il manufatto architettonico dismette la sua natura cristallina; cessa di essere un oggetto perfettamente definito e in sé concluso: diventa cellula vivente di un sistema spaziale, che esso stesso contribuisce ad attivare, e da cui riceve ragione e senso. Da allora l’edificio vive e si giustifica in quanto segmento organico di una parte di città, che tende all’opera d’arte.
È
Quando in Italia il potere assoluto di antico regime si guarda allo specchio, non vede un esercito agguerrito né una flotta potente, ma vede una città, con strade ampie e diritte, con piazze lastricate, con nobili palazzi, chiese solenni e fontane turbinanti di statue. È necessario partire da questa premessa per valutare storicamente il processo di consapevole ricerca della bellezza in architettura e la sua ricaduta sulla qualità dello spazio urbano: un’attitudine che lascia tracce ancora brucianti nel pensiero contemporaneo. Fin dalle prime riflessioni storiche emerge il doppio registro che ha soprinteso, a partire dal Cinquecento, la rinascita della città italiana, originata da sconfinate ambizioni di prestigio e di autoaffermazione che, inversamente proporzionali al potere e all’estensione territoriale dei minuscoli Stati, trascina in irresistibili slanci edificatori i Signori della Penisola.Al servizio delle smanie costruttive e dei sogni urbanistici dei principi italiani si pongono da un lato una sofisticata elaborazione teorica, ampiamente divulgata dai trattati, dall’altro prescrizioni giuridico-normative che, a fronte di impianti urbani medievali minutamente parcellizzati, orientano e disciplinano, in conformità con lo spirito della trattatistica, la rifondazione della città italiana, in termini tal-mente persuasivi da imporla come modello all’intera Europa. Molte ipotesi tecniche e ideologiche relative all’architettura e alla città, elaborate nel XV secolo, confrontandosi con la molteplicità dei casi reali, sono allora messe in crisi e costrette a rivedere le proprie premesse concettuali. Nel Cinquecento le società europee vivono mu-tamenti irruenti e radicali: la diffusione della stampa ha ampliato la base interessata alla cultura e alle arti, che possono avvalersi di tecniche sperimentate, alle quali non occorre necessariamente l’invenzione creativa ed estemporanea del singolo.Tramite i trattati, la cultura architettonica precisa e sistematizza i propri principi formali, riconducendoli a un linguaggio genericamente classicista, che assurge a fonte primaria e a garanzia di qualità del manufatto edilizio. Pertanto la proliferazione dei trattati e la diffusione delle tavole che ne illustrano i principi, testimoniano l’esigenza di qualità architettonica avvertita da larghe fasce sociali e impugnata come arma di propaganda politica dalle signorie e dai principati. Si moltiplicano le versioni di Vitruvio che, variamente illustrate e commentate, nel 1556 sono sbaragliate dalla formidabile edizione di Daniele Barbaro, commentata dalle tavole di Andrea Palladio (1508-80). Ai Libri del Serlio, un repertorio ricco quanto eterogeneo a cui attingere per formulazioni aggiornate si affianca la Regola delli cinque ordini (Roma 1562) di Jacopo Barozzi da Vignola (1507-1573). Il maggior successo editoriale di sempre: non un vero trattato, ma
il paginone
Strade ampie e diritte, piazze lastricate, nobili palazzi, chiese solenni, fontan i borghi non sono più soltanto il rifugio per l’uomo da una natura insidiosa, m
Torniamo al Rin È la vera rivoluzione architettonica del Cinquecento: l’edificio che diventa opera d’arte, integrandosi nel tessuto urbano. Una via che bisognerebbe ripercorrere di Claudia Conforti appunto una “regola” per disegnare e proporzionare con semplicità gli ordini architettonici, illustrati da tavole limpide e sontuose, nitidamente incise su pregiato rame. Alla Regola segue il trattato più amato della storia: i Quattro libri dell’architettura di Palladio (Venezia 1570) che, se cede al Vignola
per la qualità grafica (le tavole sono ancora incise su legno), lo sopravanza per genialità compositiva e dispiegamento di esempi. La divulgazione a stampa dei trattati di architettura, se denuncia una diffusa richiesta di qualità e di aggiornamento da parte di larghe fasce di committenza, abitua tutti ad apprezzare l’aderenza dell’edificio a un sistema consolidato di regole riconosciute, capace di coniugare scelte formali, coerenza co-
Nel Cinquecento le società europee vivono mutamenti irruenti e radicali. E molte ipotesi tecniche e ideologiche, confrontandosi con la molteplicità dei casi reali, sono messe in crisi struttiva e rappresentatività sociale. Su queste basi si stratifica un’idea condivisa di bellezza, fondata sul dialogo tra edificio privato e ruolo pubblico, tra funzione residenziale e fasto cerimoniale, tra norma e licenza. Proprio l’esuberanza di modelli ed esempi mes-
si a disposizione dai trattati fa sì che la prassi edilizia privilegi la variazione sul tema, l’ingegno combinatorio piuttosto che la scrittura nuova. La crescente ambizione sociale vede il palazzo privato competere con le chiese e con le opere pubbliche nella qualificazione degli spazi urbani. Questi si configurano come prodotto di processi fondiari, immobiliari, economici e culturali complessi e stratificati, direttamente orchestrati dal potere, dove l’interesse del singolo deve sapersi accordare con le esigenze funzionali e le istanze simboliche della collettività, incarnata dal Principe.
La Publica Commoditas, obbiettivo conclamato delle provvidenze edilizie e urbane dell’assolutismo, condiziona in termini stringenti anche la volontà edificatoria del privato, che si misura con provvedimenti normativi espressamente varati nel corso del Cinquecento e messi in esecuzioni da magistrature preposte. L’esigenza di ordine e di controllo della società, che ha nel Concilio di Trento (1545-1563) l’apice di riorganizzazione religiosa e sociale, coinvolge concretamente l’architettura e la città, dove si manifesta come istanza di razionalizzazione del tessuto urbano: certo in funzione di un suo migliore controllo militare, economico, so-
il paginone
ne e statue. Da Trento a Messina, da Venezia a Torino, da Pesaro a Mantova, ma si trasformano nel teatro delle sontuose nozze tra la Magnificenza e l’Utile
nascimento Sopra “La città ideale” attribuita a Laurana; in basso, da sinistra: Palazzo Piccolomini a Pienza; il frontespizio dei “Quattro libri dell’architettura” di Palladio; l’illustrazione di Vitruvio con il Duomo di Milano di Cesare Cesariano
La divulgazione a stampa abitua anche nobili e plebei ad apprezzare l’aderenza di un palazzo a un sistema di regole capace di coniugare scelte formali e rappresentatività sociale
ciale e religioso, ma anche e soprattutto di una sua massima persuasività simbolica, finalizzata all’esaltazione del potere.
Tra i più precoci ed efficaci provvedimenti normativi che vanno in tal senso si attesta la cosiddetta “legge del Comodo”emanata il 28 gennaio 1551 da Cosimo I de’Medici duca di Firenze. Il decreto intende favorire chi vuole «edificare di nuovo palazzi, o case, o vero ampliare e riformare le già fatte», contribuendo “all’ornamento et bellezza”di Firenze e delle città del dominio. A chiare lettere la legge fiorentina istituisce una corrispondenza biunivoca tra la qualità del singolo manufatto edilizio e la bellezza della città: un attributo che sta tanto a cuore al potere
da intaccare, tramite l’esproprio, l’integrità del diritto di proprietà privata. Un diritto, fino allora, eccezionalmente sospeso solo in presenza di un’urgenza bellica legata alla difesa. Ma la città, lo abbiamo anticipato, è divenuta depositaria privilegiata dell’immagine del potere e della sua persuasività simbolica: per questa via essa si è tramutata in opera d’arte. Il tessuto edilizio delle città to-
scane, frammentato in lotti medievali stretti e lunghi, oppone resistenza alla costruzione dei palazzi moderni, che i trattati prescrivono ampi, con cortili ariosi, loggiati e giardini, e il cui insediamento esige appezzamenti estesi. Il provvedimento di Cosimo pertanto è rivolto proprio a favorire coloro che, aspirando a “far bello et comodo edifitio”, per raggiungere lo scopo, devono acquisire i terreni confinanti. Il decreto impone allora la vendita forzosa degli appezzamenti contigui a vantaggio di chi vuole costruire. Quest’ultimo però è obbligato a comprare l’intero lotto limitrofo, con tutte le case che vi insistono, e non la sola parte che gli servirebbe per la nuova costruzione. Il prezzo, stimato da tre periti nominati rispettivamente delle due parti in causa e dagli ufficiali di Monte, la magistratura preposta, viene aumentato d’ufficio del 10% a compenso dell’obbligo di
17 novembre 2009 • pagina 13
vendita. L’acquirente è inoltre tenuto a completare i lavori nei tempi e nei modi che ha preventivamente concordato con la magistratura preposta, pena la confisca del terreno e dell’edificio in costruzione. La nuova fabbrica poi deve costare una cifra almeno dieci volte superiore a quella sborsata per l’esproprio. Per questa via si inducono costruzioni sontuose che, per eguagliare il valore prescritto dalla legge, sono rifinite con costose cornici in pietra, statue e basamenti bugnati; mentre i terreni acquisiti in misura esuberante rispetto al bisogno, vengono sistemati a giardini, che rendono più salubre e rarefatto il denso tessuto medievale. Nella legge del Comodo la qualità architettonica e la qualità urbana sono tanto intimamente congiunte, che qualora gli aspiranti costruttori siano due, viene privilegiato quello il cui progetto edilizio consegua “maggiore ornamento alla Città”, secondo il giudizio insindacabile degli ufficiali di Monte.
Un provvedimento analogo per finalità e modi, viene deliberato anche a Roma alcuni decenni più tardi, nel 1574, da papa Gregorio XIII Boncompagni: esso è noto come Costituzione edilizia o, dalle prime parole del testo, “Quae Publice Utilia”. Un complesso di ventitre norme che, oltre a costituire il presupposto giuridico della straordinaria fioritura della città barocca, condizionerà l’edilizia romana fino al 1870. La bolla gregoriana raccoglie e sistematizza le delibere “ad ornatum Urbis” emanate dai precedenti pontefici e riconosce la preminenza della pubblica utilità, anche in relazione alle costruzioni private, rispetto all’egoistico interesse del singolo. Con la fiorentina “legge del Comodo” la bolla romana condivide la facilitazione degli espropri e delle vendite forzose a vantaggio di chi intende costruire nuovi palazzi che contribuiscano alla magnificenza della città. A questo stesso obbiettivo è finalizzato l’obbligo fatto ai privati di recintare con alti muri le aree abbandonate e gli edifici in rovina, in modo che dalle strade i pellegrini ricevano comunque l’immagine di una città regolata e ordinata. Immagine a cui concorrono anche le strade ampie, tendenzialmente diritte e con gli edifici rigorosamente ben allineati: per conseguire questi assetti la bolla prevede espropri e adeguate demolizioni. Vistosi sono i rettifili aperti, grazie alla bolla gregoriana, a Roma da Sisto V Peretti (1585-90), fondati su una maglia stellare che conduce gli sguardi e i passi dei pellegrini dritto verso le basiliche maggiori, segnalate da obelischi e fontane. Anche a Roma, chi intenda costruire beneficiando dei vantaggi degli espropri contemplati dalla costituzione gregoriana, è obbligato da Maestri delle Strade, che con il Camerlengo sono preposti al rispetto della legge edilizia, a fissare e a rispettare la cifra di denaro preventivata per la costruzione; la data di inizio dei lavori e quella di completamento. Pena sanzioni pecuniarie e confische. In conseguenza della Costituzione Edilizia, a Roma la razionalizzazione delle infrastrutture (strade, acquedotti, fognature) procede di pari passo con la riduzione della frammentazione medievale, favorendo la fusione dei lotti, a vantaggio dei palazzi aristocratici, degli edifici pubblici, e soprattutto degli insediamenti religiosi degli antichi ordini mendicanti (domenicani, benedettini, francescani) e degli ordini secolari di nuova istituzione (gesuiti, teatini, oratoriani, etc.), che monopolizzano isolati urbani sempre più estesi e che, nel cuore di Roma, sperimentano stupefacenti sistemi di relazioni spaziali tra città secolare e edilizia religiosa.
mondo
pagina 14 • 17 novembre 2009
Turchia. Strategico ma rischioso. Tutti i dubbi sull’ingresso turco nel club di Bruxelles, mentre Napolitano media con Erdogan
L’incognita della Mezzaluna Interlocutore privilegiato su Islam, gas, Medioriente, Af-Pak: ecco la dote di Ankara di Stefano Silvestri Unione Europea deve affrontare una situazione del tutto nuova. Gli ultimi allargamenti hanno portato la sua popolazione a circa 450 milioni, le sue frontiere terrestri sono ora lunghe circa 6mila chilometri e quelle marittime oltre 85mila. Questo mutamento di“dimensione”, sia geografica che economica e politica, la obbliga ad affrontare i mutamenti in corso della sicurezza internazionale, dedicando la sua attenzione sia alle minacce “asimmetriche” del terrorismo internazionale e della criminalità organizzata, sia ai problemi di instabilità e insicurezza di vaste aree ai suoi confini, da cui per di più dipende per la sua sicurezza energetica, e dove crescono le minacce legate alla proliferazione di vecchie e nuove armi di distruzione di massa. L’Ue, che si è considerata sinora soprattutto un attore“civile”, dalle aspirazioni politiche “regionali”, deve fare i conti con una “regione” che ormai include paesi come la Russia e l’Ucraina, aree come il Caucaso, il Caspio, fino all’Afghanistan, l’intero Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa e con crisi che richiedono una molto maggiore presenza e attività internazionale e spesso anche interventi armati. È in questo contesto che si è inserito un dibattito un po’ fumoso sui “confini dell’Europa” volto a ricercare un’identità insieme geografica e culturale di questa nostra penisola dell’Asia, mescolando tradizioni sociali, culturali e religiose, in un insieme tanto ambizioso quanto in genere inconcludente. L’Europa cristiana, che comunque include popola-
L’
zioni islamiche (in crescita, anche grazie all’immigrazione e all’estendersi dei confini dell’Unione) o quella greco-romana (che peraltro include buona parte dell’attuale Turchia e che ha avuto per oltre mille anni la sua capitale nella attuale Istanbul) sono solo alcuni dei parametri “identitari”che vengono utilizzati di volta in volta per cercare di non affrontare l’inevitabile e cioè la commistione di Europa e di Asia che è sempre esistita, sin dalle migrazioni preistoriche che hanno popolato la penisola europea, e che caratterizza oggi in particolare regioni chiave come quelle dei Balcani e della exUnione Sovietica.
In questa confusione si inserisce il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione. Si tratta di un grande Paese alla giuntura tra Europa ed Asia, i cui abitanti sono per lo più di religione islamica, economicamente ancora in via di sviluppo (anche se, col passare del tempo, il suo mercato e le caratteristiche della sua economia appaiono sempre più facilmente assimilabili nel grande mercato europeo), che nella sua lunga storia si è trovata anche ad essere la sede e il centro di un grande Impero antagonista di molte grandi potenze europee, e che ha tentato nel passato di impadronirsi sia dell’Europa centro-orientale (arrivando sino a Vienna), sia del Mar Mediterraneo: una ex-grande potenza che a lungo ha costituito il potere di riferimento dei paesi della riva meridionale di questo mare, che ha sfidato la Russia sul Mar Nero, bloccando la sua spinta verso Sud e che è stata a lungo un fat-
A destra, una foto evocativa dell’islamizzazione crescente e della condizione femminile in Turchia. Sotto, Ahmadinejad, presidente iraniano, con cui Erdogan ha ottimi rapporti tanto da tentare una mediazione sul nucleare proprio in queste ore, e la costruzione del gasdotto Nabucco. A destra: un carcere turco e l’incontro fra Erdogan e Napolitano
Membro dell’Alleanza Atlantica dal 1952, il Paese negli anni della guerra fredda è stato il vero bastione della Nato contro l’espansionismo sovietico verso il Mediterraneo e il Medioriente tore importante degli equilibri europei e un partner commerciale di tutto rispetto. La Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica sin dal 1952, e, negli anni della Guerra Fredda, è stata il bastione essenziale della Nato contro l’espansionismo sovietico verso il Mediterraneo ed il Medio Oriente, oltre che l’anello più forte di una catena di contenimento che, per un certo periodo, aveva incluso anche l’Iran e il Pakistan. Successivamente la situazione era mutata, dando spazio soprat-
tutto ai fattori di rischio, instabilità e insicurezza che affliggevano quell’area, dalla conflittualità con i curdi (che suscitava forti tensioni anche con la Siria, l’Iraq e l’Iran) al terrorismo, alla criminalità, agli scontri con la Grecia sull’Egeo e alla questione di Cipro, senza però rimettere mai in discussione il ruolo strategico del paese negli equilibri Est-Ovest. La situazione è mutata di nuovo alla fine della Guerra Fredda, anche se non tutte quelle problematiche hanno trovato una solu-
zione (basti pensare alla questione di Cipro, che ancora ostacola la piena normalizzazione dei rapporti tra Bruxelles e Ankara, o alla rinnovata importanza strategica della cosiddetta Af-Pak, la regione dell’Afghanistan e del Pakistan).
Soprattutto è cambiata la percezione europea dei fattori di insicurezza, molto più ampi e globali di quanto si pensasse inizialmente, mentre è molto cresciuta, almeno dal 1992, la
mondo cooperazione tra Ue e Turchia nel campo della sicurezza e della gestione delle crisi: da quella data infatti la Turchia ha partecipato a quasi tutte le operazioni militari e di polizia condotte sotto l’egida dell’Ue. Ad esse si aggiungono naturalmente quelle condotte in ambito Nato. In particolare la Turchia si è persino offerta di partecipare ad un “gruppo di combattimento” (battle group) dell’Ue assieme con Italia e Romania ed è interessata a partecipare all’Agenzia Europea di Difesa. Infine, sembra realizzarsi una crescente convergenza tra le scelte di politica estera della Turchia e quelle dell’Ue, ultima riprova la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia, accompagnata da significative riforme che tendono ad allineare il sistema giuridico, politico ed istituzionale turco agli standard europei. La Turchia ha così aderito alle dichiarazioni europee sul terrorismo e sulla non proliferazione, anche se non ha sottoscritto il Trattato per l’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale, e spesso le sue posizioni politiche, in particolare sulle crisi medio orientali sono state significativamente più in linea con quelle di Bruxelles che con quelle di Washington.
Altrettanto significativo è il ruolo turco nella questione energetica. La Turchia è un territorio privilegiato di passaggio per il petrolio ed il gas provenienti dall’Asia Centrale, dal Caspio e potenzialmente anche dall’Iran. Già oggi ospita uno dei pochi oleodotti Est-Ovest che non transita per la Russia e partecipa al programma per la costruzione del gasdotto Nabucco, che vorrebbe accrescere la diversificazione delle fonti energetiche europee. Di grande importanza è il ruolo turco nell’area del Mar Nero e dei Balcani (da cui passerà, con South Stream e con Nabucco, un’altra buona parte degli approvvigionamenti energetici europei). La politica turca è stata molto attiva, promuovendo l’istituzione, nel 1992, della Black Sea Economic Cooperation (Bsec) tra i rivieraschi Turchia, Bulgaria, Georgia, Romania, Russia e Ucraina e i non rivieraschi Albania, Armenia, Grecia, Moldova e, dal 1994, la Serbia e il Montenegro. Benché sino ad oggi la Bsec non sia stata molto attiva, l’allargarsi progressivo dell’Ue in quest’area è destinata ad accrescerne il significato, specie se andranno in porto le varie iniziative legate alla politica energetica. In ogni caso, la cooperazione della Turchia è un fattore importante di stabilità sia per la regione del Caucaso che per gli stessi Balcani (basti pensare alle importante minoranze turcofone che abitano la Bulgaria e la Macedonia). Né bisogna sottovalutare il capitolo delle crisi mediorientali. La Turchia, che ricono-
17 novembre 2009 • pagina 15
sce Israele con cui mantiene importanti legami politici e militari (sia pure con alti e bassi periodici) ha anche condotto negli ultimi anni una politica di ripresa della collaborazione e del dialogo con il mondo islamico, a cominciare dai paesi più vicini, come la Siria e l’Iraq. La Turchia di oggi persegue una continua apertura verso il mondo arabo ed islamico (ne è prova la ripresa a piena forza dei rapporti con la Siria) senza tuttavia, almeno sino ad oggi, aver rinunciato a mantenere i suoi rapporti con Israele, né tanto meno i suoi legami atlantici ed europei.
Esistono dunque importanti ragioni che spingono a guardare positivamente alla prospettiva di una maggiore integrazione della Turchia, in tempi non eccessivamente lunghi, nel contesto europeo, malgrado le resistenze politiche ed ideologiche di una parte dei nostri elettorati. Esse si incentrano sulla grande importanza strategica della collocazione geografica e politica della Turchia e includono argomenti disparati quali la lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo e la politica di sicurezza energetica. Più in generale, l’ingresso della Turchia consentirebbe all’Unione di impostare una politica complessiva nei confronti della regione del Mar Nero e probabilmente anche del Caucaso. Nel Mediterraneo, l’ingresso turco sposterebbe l’intero arco settentrionale del Mediterraneo all’interno dell’Ue, creando un’unità istituzionale ed economica che va dall’Atlantico all’Asia Centrale e che potrebbe divenire uno degli assi portanti della politica europea, accrescendone significativamente l’importanza globale, oltre che regionale. Infine, l’ingresso a pieno titolo nell’Ue di un Paese islamico di questa importanza metterebbe fine una volta per tutte ai miti sulla “diversità” dell’Islam e infligge-
rebbe una sconfitta strategica, forse definitiva, ai piani di coloro che puntano alla prospettiva di una “guerra di civiltà”. Tuttavia il raggiungimento di questi obiettivi non può essere demandato solo alla speranza di una conclusione positiva del processo negoziale in corso. È necessario preparare e favorire l’integrazione della Turchia in Europa attraverso un più deciso e marcato insieme di conver-
Paese) e che verrà certamente accresciuto dal negoziato circa la progressiva accettazione, da parte della Turchia, di tutto l’acquis comunitario (che comprendono anche gli aspetti cruciali della democrazia e dei diritti umani). È invece un processo ancora troppo lento proprio si punti di maggiore interesse strategico dell’Europa, e cioè la sicurezza, la difesa e la politica estera. Un forte svilup-
Ankara persegue una continua apertura verso il mondo arabo ed islamico (ne è prova la ripresa delle relazioni con la Siria) senza tuttavia rinunciare a mantenere i suoi rapporti con Israele
Esce oggi in edicola l’ultimo numero di Risk, la rivista di geostrategia da cui è tratto l’articolo di Stefano Silvestri che qui anticipiamo. Dedicato alla Turchia e al suo possibile ingresso nella Ue ospita, fra gli altri, contributi di: Arpino, Davutoglu, de Mattei, Margelletti, Nativi, Ottaviani e Urso
genze che in qualche modo spostino in secondo piano i problemi ancora aperti (da Cipro alla questione armena, dal trattamento delle minoranze curde alle divergenze sui diritti umani) rendendo meno drammatico il loro superamento.Tali convergenze dovrebbero altresì preparare progressivamente l’opinione pubblica europea a considerare positivamente l’adesione della Turchia e a “normalizzare” l’immagine di questo Paese. Si tratta di un processo già in atto da tempo per quel che riguarda l’economia (si pensi ad esempio ai crescenti investimenti europei in quel
po in questi campi potrebbe in ultima analisi fare la differenza tra successo o fallimento.
La chiave della cooperazione nel campo della Difesa si situa però in primo luogo all’interno della Pesc: sono le grandi scelte politiche che guideranno le prossime mosse dell’Unione e che determineranno la possibilità di accrescere il ruolo e la partecipazione della Turchia. Purtroppo, mentre esistono alcuni collegamenti istituzionali (sia pure incompleti e insufficienti) tra la Turchia e la Pesd, non esistono meccanismi equivalenti per quel che riguarda la
Pesc, che invece dovrebbero essere urgentemente sviluppati. Le scelte strategico-militari della Turchia, come del resto quelle dell’Ue, saranno determinate dalle posizioni che verranno assunte su alcuni grandi dossier internazionali quali ad esempio:1. l’opportunità di sviluppare un approccio strategico complessivo nei confronti dell’area del Mar Nero; 2. l’adozione da parte europea di una politica complessiva di sostegno alla stabilizzazione del quadro politico e conflittuale iracheno e a quello israelianopalestinese; 3. una maggiore convergenza sulla necessità di gestire e ridurre la conflittualità nel Caucaso, aiutando a promuovere un dialogo costruttivo, in primo luogo con i governi dell’Armenia e dell’Azerbaigian; 4. l’elaborazione di una politica complessiva sulla sicurezza energetica; 5. il dossier Iran e proliferazione nucleare; 6. ed infine, ultimo ma non meno importante, una più avanzata cooperazione euroturca sul grande scacchiere dell’Af-Pak. Tutti argomenti di grande importanza e centralità politica e strategica che possono solo profittare di una maggiore considerazione europea del ruolo potenziale della Turchia e di una maggiore reciproca convergenza.
quadrante
pagina 16 • 17 novembre 2009
Web. Su 300 milioni di persone che parlano l’idioma, solo l’1% dei siti è nella loro lingua petta all’Egitto il primato per aver creato il primo dominio internet con caratteri arabi. Alla fine del mese di ottobre, il board dell’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers, meglio noto ai più per la sua sigla“Icann”ha liberalizzato l’utilizzo di caratteri non appartenenti all’alfabeto latino per i domini sul web. Per intenderci: con questo via libera dell’organo internazionale di controllo delle registrazioni degli indirizzi on line, è possibile creare siti internet il cui nome nella striscia dell’indirizzo non debba essere esclusivamente composto con i caratteri dell’alfabeto latino. Finora, tutti i siti potevano mantenere la propria lingua originale e relativo alfabeto nei testi all’interno delle singole pagine: dall’italiano all’arabo come dal cinese al russo.Tuttavia, il dominio (“.it”,“.eg”, oppure “.ru”) e quindi l’indirizzo non potevano essere se non con i nostri caratteri alfa-numerici. Un limite, questo, per tutti coloro che non parlano, scrivono o non leggono i nostri idiomi. Adesso, invece, si è giunti alla possibilità di registrare siti con lettere in arabo, piuttosto che in cirillico, ma anche con gli ideogrammi delle numerose lingue dell’Asia centrale e dell’Estremo Oriente. L’obiettivo dell’Icann è, in nome di una globalizzazione multimediale ancora più diffusa, raggiungere e coinvolgere nella rete quelle fasce sociali che appunto non conoscono il nostro alfabeto. Si tratta quindi di un’internazionalizzazione con risvolti prettamente nazionali, nel rispetto e nella preservazione delle differenze culturali e linguistiche.
S
Rivoluzione internet al via domini in arabo A battere sul tempo ogni concorrenza è stato l’Egitto di Mubarak
L’estensione scelta per mandare in cantina l’alfabeto latino è “.masr”. La rete è a una svolta L’utente di internet arabo, per esempio, che non parla inglese o qualsiasi altra lingua occidentale, potrà usufruire del web senza alcun impedimento di idioma. L’agevolazione viene ulteriormente supportata dalle tastiere in commercio da sempre con il doppio alfabeto: caratteri latini affiancati a quelli della lingua di cui si sta facendo riferimento. In termini generali, l’iniziativa di Icann offre un’ulteriore apertura del mercato. In particolare, per le società di
di Antonio Picasso
web-design e web-master si aprono sbocchi di ricavi senza precedenti. Si possono prevedere infatti investimenti per la creazione di nuovi siti o restyling di quelli già esistenti, sopratutto nei Paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti. Si pensi che di fronte a 300 milioni di persone che parlano gli idiomi arabi, solo l’1% dei siti on line è a disposizione nella loro lingua. La nascita di domini con alfabeti locali confermerà internet come il mezzo più veloce e soprattutto completo per la diffusione delle informazioni. Nel caso specifico dell’Egitto, l’entusiasmo del governo del Cairo è dato da una serie di motivazioni, in parte legate alla decisione dell’Icann, ma anche di tipo po-
litico. Il primo dominio del Paese arabo avrà come l’estensione dell’indirizzo “.masr”, in caratteri arabi, la cui traduzione è semplicemente “.egitto”. Il governo di Mubarak può ragionevolmente cantare vittoria in quanto ha battuto sul tempo partner arabi, sia pubblici sia privati, che di internet hanno notoriamente una maggiore dimestichezza. Pensiamo ai governi del Paesi del Golfo, dove gli investimenti nel settore sono fra i primi al mondo. Da sottolineare, in questo caso, l’esempio del canale televisivo qatariota, al-Jazeera, un soggetto all’avanguardia a livello internazionale per quanto riguarda l’informazione multimediale e di multisupporto. La tv araba offre on line, infatti, contenuti di ogni tipo (testi scritti, video, foto, messaggi vocali, blog e social forum). Queste caratteristiche rendono la rendono tra gli organi di informazione più aggiornati
del mondo. Peraltro, visto che molti giornalisti anglosassoni, con una precedente esperienza alla Bbc piuttosto che alla Cnn, hanno accettato di far parte di questa testata, è plausibile che le risorse economiche siano altrettanto solide. Tuttavia questa volta, il suo sito, che a suo tempo era stato uno dei primi a essere pubblicato contemporaneamente in arabo e in inglese, non è riuscito a registrare per primo il nuovo dominio con i caratteri arabi. L’iniziativa egiziana, d’altra parte, ha sollevato un’accesa eco di polemiche tra chi classifica il governo del Cairo come un regime schiettamente contrario ai principi della libertà di stampa e, di conseguenza, all’utilizzo di internet per veicolare le informazioni. Effettivamente, le regole della censura governativa sono estremamente rigide, in Egitto quanto in tutti i paesi mediorientali.
Esclusi Israele e Libano. I blogger di dissidenza e i siti dei movimenti di opposizione extraparlamentare sono stati spesso oscurati e i loro redattori messi in carcere. Gli esempi degli oppositori in Iran, dopo le elezioni del 12 giugno sono solo i più recenti ed estremi. Da qui le accuse di “Repoters sans Frontières”, nei confronti del regime egiziano, di strumentalizzare l’iniziativa dell’Icann, non tanto per agevolare la liberalizzazione della rete e la sua fruibilità, bensì per controllarla con maggior rigore ed evitare che, attraverso l’alfabeto arabo, sicuramente più diffuso presso la popolazione di quello latino, vengano trasmessi messaggi anti-governativi. Secondo queste accuse, i 15 milioni di utenti internet egiziani correrebbero il rischio di essere sottoposti a un “grande fratello” informatico ancora più insidioso di quanto già sia ora. Effettivamente, va detto che il dominio “.masr” ha messo in scacco sia la disponibilità finanziaria di alJazeera sia la forza comunicativa e propagandistica della Fratellanza musulmana, altro soggetto arabo che sa sfruttare internet per le proprie attività politiche. Volendo spezzare però una lancia in favore delle autorità egiziane, si può ricordare che il loro primato facilita un maggior controllo del web per quanto riguarda anche le attività terroristiche. Al-Qaeda e tutti i gruppi ad essa affiliati potranno essere individuati già dal dominio del loro indirizzo. Mentre le loro attività di proselitismo e reclutamento potranno essere ancora più contenute. Un intervento nell’ambito della sicurezza globale non di scarso valore.
quadrante
17 novembre 2009 • pagina 17
Il piano sarà presentato durante la cerimonia d’insediamento
Frattini sconfessa Brunetta sull’appoggio a D’Alema
Corruzione, Karzai promette una “mani pulite” all’afghana
Nomine Ue: in lizza ancora venti nomi. Il verdetto giovedì
KABUL. I ripetuti moniti formulati dall’Occidente prima e dopo la sua riconferma alla presidenza in Afghanistan, sembrano avere avuto successo. Ieri il ministero dell’Interno ha annunciato a Kabul l’avvio in tempi brevi di un ambizioso piano di lotta alla corruzione. Le grandi linee del progetto sono state rivelate alla stampa ad appena tre giorni dalla cerimonia con cui giovedì Karzai comincerà ufficialmente un quinquennio in cui, secondo gli auspici delle potenze occidentali, dovrà rafforzare le istituzioni, afghanizzare il conflitto e, soprattutto, mettere fine alla corruzione che investe il paese. Il ministro dell’Interno Hanif Atmar ha illustrato il piano a grandi linee, rivelando che presso il ministero della Giustizia nascerà un dipartimento specifico anticorruzione che sorveglierà l’attività (e l’onestà) dei membri del governo. Nel timore che la nuova unità non sia più efficace di quelle che l’hanno preceduta e che si risolva soprattutto in uno strumento per attaccare rivali politici del governo, questo gruppo di funzionari saranno formati da esperti americani, britannici ed europei e disporranno di mezzi e sofisticate tecnologie, potendo utilizzare anche la macchina della verità. «Il presidente Karzai - ha detto solennemente il ministro Atmar - intende consacrare il suo quinquennio alla lotta alla corruzione». Il lavoro di repressione di questo specifico crimine non si limiterà però al presente e al futuro, ma riguarderà anche il passato, in una sorta di Mani Pulite all’afghana. Un pool di magistrati infatti raccoglierà le denunce ed esaminerà i dossier più delicati che potranno riguardare indistintamente tutti quanti in passato hanno collaborato nell’azione governativa di Karzai dal 2001 ad oggi. Tutti d’accordo comunque che il primo segnale delle intenzioni del capo dello Stato sarà la composizione del nuovo governo che, negli auspici generali, dovrà essere formato da personalità dalla moralità ineccepibile.
BRUXELLES. A tre giorni dal vertice straordinario che deciderà le sorti della Ue, sono ancora venti i nomi in lizza per i due posti di vertice creati dal trattato di Lisbona: Mr. Europa e Mr. Pesc. E mentre perdura il pressing delle commissarie Ue a Bruxelles affinché vengano prese in considerazione anche nomi femminili, da Londra Gordon Brown insiste: «per noi Blair è l’unico candidato sostenuto per la carica di presidente della Ue». Una nomina che farebbe naufragare la candidatura a Mr. Pesc di Massimo D’Alema. Intanto, fra le tante divisioni interne alla maggioranza del governo Berlusconi, se ne aggiunge una forse marginale nella sostanza ma che esprime comunque sia il cli-
La Russia si rifà la flotta con le navi di Sarkozy È la prima volta che un Paese Nato vende armi a Putin di Stranamore avi da guerra fabriqué en France per la marina Russa? L’ipotesi si sta facendo sempre più concreta e non è un caso se la nave d’assalto anfibio Mistral della Marine Nationale è attesa nel porto di San Pietroburgo, tra pochi giorni. È proprio la Mistral, 200 metri e 16.500 tonnellate di nave da guerra, con la capacità di portare 16 elicotteri, 60 mezzi blindati, 450 fanti di marina, 4 grossi mezzi da sbarco ad interessare Mosca. La Russia non è in grado di realizzare in tempi e costi ragionevoli una nave specializzata così sofisticata. Ed allora sta pensando di acquistarla in Europa. Il conto potrebbe aggirarsi sui 3.500 milioni di Euro. Mosca acquisirebbe una capacità operativa fondamentale per la proiezione di potenza, senza i consueti “disastri” che caratterizzano i programmi militari nazionali. Naturalmente una sola nave non basta, il primo ordine sarebbe solo un assaggio, se ne dovrebbero poi costruire almeno altre 3 o 4. Quanto siano importanti navi del genere è evidente: basta pensare a cosa avrebbe potuto fare la Flotta del mar Nero contro la Georgia disponendo di un paio di Mistral pronte a sbarcare due reggimenti di fanteria di marina. Del resto una volta che un paese acquista un sistema d’arma poi è libero di farci quel che crede. E le navi grigie servono a fare la guerra. Parigi è ben disposta nei confronti della Russia: ha già esportato in quantità equipaggiamenti elettronici per unità navali e per mezzi corazzati. Inoltre le versioni “export” dei sistemi d’arma Russi sono spesso equipaggiate con apparati elettronici francesi (ma anche indiani o talvolta israeliani). Ma passare dall’elettronica ad una nave da guerra completa rappresenta un bel salto di qualità, il superamento di un tabù, con rilevanti conseguenze politiche e strategiche. Significa anche aprire alle industrie della difesa occidentali il mercato della difesa russo. La Francia ne è consapevole e sta cercando di “annacquare” il contenuto dell’eventuale contratto, che ha nei mesi scorsi ottenuto il via libera del presidente Sarkozy, il quale si sta af-
N
fermando come il miglior venditore di sistemi d’arma transalpini degli ultimi 150 anni. Parigi vuole ridurre al minimo il trasferimento di tecnologia: le navi dovrebbero essere costruite nei cantieri francesi e consegnate con un minimo di dotazione elettronica, l’allestimento sarebbe quindi completato in Russia con sistemi locali. Per giustificare il contratto, Parigi sostiene che Mosca non ne fa una questione ideologica: se le navi francesi non saranno disponibili si rivolgerà ai cantieri spagnoli o a quelli olandesi. E in tempi di crisi nera per la cantieristica le commesse militari, nazionali o export, sono l’unica ancora di salvezza per i costruttori europei afflitti da una colpevole sovracapacità produttiva.
Una volta “saltato” ogni residuo pudore è probabile si scateni una corsa al mercato russo. Specie se Mosca potrà di nuovo contare su ricche plusvalenze per la vendita di idrocarburi e gas. Il che è relativamente “normale”, tanto più considerando la scriteriata dipendenza strategica di troppi paesi europei dalle fonti energetiche russe. In questo scenario in movimento l’Italia, nonostante vanti ottimi rapporti con Mosca, resta un po’in secondo piano. Il perché è evidente: la relazione privilegiata con gli Stati Uniti. Stati Uniti che rappresentano il terzo mercato “domestico”per il colosso della difesa nostrano, il gruppo Finmeccanica. I russi chiedono da tempo a Roma tecnologia militare di ogni tipo, ma fino ad oggi è prevalsa la prudenza: solo piccole cose. Apparati per le comunicazioni protette, sistemi per la sicurezza ferroviaria, magari qualcosa per il controllo delle frontiere marittime, servizi satellitari, radar civili per il controllo del traffico aereo, assemblaggio su licenza di elicotteri commerciali/paragovernativi. La Francia, che negli Usa può vendere ben poco è molto più disinvolta. Tuttavia se si afferma il principio per cui vendere armamenti alla Russia non è più peccato, allora questo vale per tutti i paesi Nato. E a quel punto anche l’Italia potrebbe entrare in gioco.
Quanto sia importante la Mistral per Mosca è evidente: basta pensare a cosa avrebbe potuto fare contro la Georgia
ma da “tutti contro tutti” che regna nel governo sia (e questa forse è la vera novità) l’incapacità ormai provata di Berlusconi di tenere a freno i suoi ministri nella loro costante, spasmodica rincorsa a un briciolo di visibilità in più, anche a costo di polemizzare gli uni con gli altri. Ebbene, per il ministro degli Esteri Frattini «il sostegno alla candidatura di Massimo D’Alema a rappresentante europeo della politica estera è nell’interesse nazionale italiano». L’affermazione è opposta a quella fatta ieri l’altro dall’altro ministro Renato Brunetta, che aveva accusato D’Alema di essere ancora «un comunista e non un socialdemocratico» e perciò di non meritare il sostegno del governo italiano. «Quelli fra Brunetta e D’Alema sono questioni personali» ha chiosato Frattini, forse alludendo alla stizza (personale, appunto) di Brunetta nei confronti di D’Alema che con grande raffinatezza dialettica, ma con la scarsa eleganza che gli è propria da sempre, lo definì «energumeno tascabile» nel corso di una trasmissione televisiva. Insomma, dopo la lite dei giorni scorso con il ministro Tremonti (quando addirittura era stato minacciato fisicamente dal titolare dell’economia), Brunetta si conferma il più costante e ineffabile urlatore del governo.
cultura
pagina 18 • 17 novembre 2009
Esposizioni. Fino al 31 gennaio 2010, al Museo dell’Ara Pacis, l’archivio di materiali recuperati nel fondo dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi
Ai confini dell’estetica Una mostra a Roma celebra il connubio tra l’arte e il design attraverso la “storia dell’invenzione” di Angelo Capasso isegno e Design è la nuova mostra di design all’Ara Pacis (fino al 31 gennaio 2010), uno spazio espositivo che si conferma, dopo le mostre dedicate a Munari, Valentino e Mendini, come la sede principale per le mostre di design a Roma. Su questo fronte c’è però una novità: la mostra in realtà anticipa una nuova sede per il design che la capitale si appresta ad ospitare nel Palazzo della Civiltà Italiana, all’Eur, dove la Fondazione Valore Italia installerà l’Esposizione Permanente del Made in Italy e del Design Italiano. Disegno e Design è una mostra da leggere in prospettiva “produttiva”in quanto nasce in seno a una iniziativa del ministero Attività produttive da cui il progetto è scaturito, nel 2005, e dalla cui iniziativa ha preso forma il progetto dell’Esposizione Permanente.
D
Disegno e design quindi visti soprattutto nell’ottica industriale. È una mostra che propone un archivio di materiali recuperati nel fondo dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi presso l’Archivio Centrale dello Stato, dove si trova una storia dell’invenzione che a volte si intreccia con la storia del design italiano. Si tratta più della storia del Made in Italy, che, è bene precisarlo, non corrisponde necessariamente al design. La storia dei brevetti racconta la storia di oggetti, di invenzioni, soluzioni, “utensili” che, come racconta la curatrice Alessandra Sette, vanno dalla storica Nuova bottiglia denominata Educata, del 1901, «caratterizzata da un dispositivo salvagoccia che impediva di sporcare la tavola», alla Touring Caramel cara-
mella dei turisti…, del 1903, fino alla Vespa Piaggio e oltre. Tutte testimonianze di una lunga storia di invenzioni protette dal brevetto. Cos’è il brevetto? Come recita lo stesso ufficio, «con il brevetto si ottiene il diritto di produrre e commercializzare in esclusiva un oggetto o un sistema sul territorio dello stato in cui viene richiesto». In Italia esistono due tipi di brevetto, a cui si affianca la registrazione del modello o disegno, che riguarda
In queste pagine, alcuni degli oggetti di design Made in Italy esposti nella mostra capitolina “Disegno e Design” (fino al 31 gennaio 2010) al Museo dell’Ara Pacis
Si tratta più propriamente della storia del Made in Italy, una sorta di viaggio che racconta la nascita di oggetti, soluzioni e “utensili” vari esclusivamente la forma o il “design” di un prodotto. L’invenzione è la forma di protezione più forte che viene concessa a «quei trovati che hanno un alto grado di innovazione, ma che, soprattutto, rappresentano una soluzione nuova ed originale ad un problema tecnico». Per vent’anni (rinnovabili) il brevetto tutela l’inventore della propria invenzione. Non sono brevettabili però «le scoperte, le teorie scientifiche, i metodi matematici, i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuale, per gioco o per attività commerciali, i programmi di elaboratori, le presentazioni di informazioni».
I confini di ciò che è brevettabile è molto ampio, come si dice nello statuto del fondo brevetti, «comprendere che cosa possa essere brevettabile come invenzione, richiede molto studio e molta pratica, anche se in modo sintetico si è soliti dire, con una definizione che soddisfa ben poco, che l’invenzione rappresenta una soluzione
innovativa ad un problema tecnico, mentre il modello di utilità rappresenta una modifica migliorativa di oggetti esistenti». Ma davvero il design può classificarsi nel regno delle in-
venzioni? Il design secondo un’accezione molto più attuale, il progetto ha una qualità molto più ampia, che si articola culturalmente nel tempo. In altre parole, il progetto non si limita a essere una invenzione, ma una creazione che contraddistingue la cifra stilistica di un un designer, e per questo, reiterata nel tempo, al pari di altri settori della cultura: la letteratura, l’arte, il teatro. Con il termine “disegno industriale” (dall’ingle-
cultura
se industrial design, che significa progettazione industriale) si intende quel processo di progettazione che ha come scopo una futura produzione industriale. Nel corso del Novecento il termine ha assunto differenti significati sociali e include al suo interno numerose discipline legate al mondo della produzione industriale, ovvero una filiera di operazioni (dal concept fino alla produzione, e poi al marketing e alla vendita).
Quindi il design è una complessità, in cui l’ideazione (o l’invenzione) non è che il punto di partenza, e non necessariamente deve essere registrata da un ente apposito, in quanto diventa riconoscibile in relazione ad altri prodotti, oggetti, soluzioni. Il design, molto semplicemente, è un linguaggio espressivo che entra in diretta relazione con il mondo industriale; è una critica all’industria di cui mette in rilievo le potenzialità, le aporie, i difetti. È, come intendeva Peter Berhens, un modo per «dare ordine al visibile». È quindi una
filosofia del vedere e dell’integrare le soluzioni del vivere al modo con cui possono essere recepiti, fruiti, vissuti. Si trat-
ta di declinare un pensiero nello spazio e nel tempo, anzi proporlo come sintesi tra lo spazio (il luogo, domestico, privato, esterno, pubblico) e il tempo (il presente, il suo divenire e progredire nelle necessità e nelle condizioni). Il design, quindi, pur accedendo nell’origine dal termine “disegno” (forma primaria e archetipica della progettazione per gli architetti) implica processi di lavoro complessi che, nell’evoluzione della tecnologia, si sono articolati e strutturati fino a coinvolgere fasi più vicine alla filosofia (intesa come discorso strutturato) che all’invenzione. Il design vive nella mente, nel pensiero creatore e creativo, ma anche nella sua capacità di essere gestito in tutte le sue fasi, dal cucchiaio alla città, come si diceva alla Bauhaus, in ogni piccolo dettaglio, di cui la registrazione resta forse la maggiore debolezza, ovvero un’idea di proprietà esclusiva, che nel mondo ormai totalizzante della società globale trova difficoltà a essere riconosciuta. La mostra di per sé quindi presenta un aspetto del design che ha certamente un valore sostanziale, che potremmo riassumere nella “responsabilità”, ovvero quel modo per tracciare l’origine dell’idea cui si legano i destini positivi (o negativi) e cui si riconoscono le qualità dell’ingegno e dell’invenzione. Ma la “responsabilità” stessa, che distingue il design dall’arte, ha assunto nel tempo un grado ampio di letture, all’interno delle quali i designer si muovono scelte proponendo che condizionano il vivere nel presente, trasformando lo spazio neutro in ambiente (privato, domestico, pubblico), luogo (di lavoro, di studio, di divertimento) dove ogni gesto trova una sua spiegazione proprio sulla base della spinta creativa e visionaria che è in grado di mettere in moto. A questo punto, l’associazione del disegno al design propone un parallelo che inevitabilmente ci riporta all’arte. Cosa avvicina l’arte al design? Nel suo libro Art, pubblicato per la prima volta nel 1914, Clive Bell poneva l’attenzione sull’arte come oggetto: nella sezione dal titolo “L’ipotesi estetica”, sostiene che «alcuni og-
17 novembre 2009 • pagina 19
getti creati dalle mani dell’uomo sono stati dotati, qualche che sia la ragione, del potere di produrre un’emozione estetica in osservatori sensibili». La differenza che distingue Arte e Design, secondo “l’ipotesi estetica” di Clive Bell, è che l’Arte sia una forma significante, più significante di altre, capace di produrre un’emozione estetica. «Ci deve essere qualche qualità senza la quale un’opera d’arte non può esistere; e possedendo la quale, anche al minimo grado, nessuna opera è del tutto priva di valore. Che cosa è questa qualità? Che qualità è condivisa da tutti gli oggetti che provocano le nostre emozioni Secondo estetiche?». Bell, la forma significante si sostituisce al principio della rappresentazione e dell’emozione quali valori sensibili dell’arte connotanti il suo essere. Le qualità formali dell’oggetto arte rientrano nel suo trovarsi immersa all’interno di un campo significante, dove le sue peculiarità formali si fondono con altre specificità meno evidenti, da ricercare nel contesto culturale, sociale, estetico. La questione posta da Bell nel ’14 è perfettamente coeva alla
questione aperta da Marcel Duchamp che identifica nel ready made il nuovo oggetto delle meraviglie, sia nel caso del famoso scolabottiglie o dell’orinatoio (quindi oggetti di uso comune assorbiti nell’arte dalla scelta dell’artista), l’oggetto industriale viene sottoposto a un processo di rianimazione che lo rapisce dal ciclo industriale e lo priva della sua funzione d’uso per divenire un oggetto pure del pensiero, in quanto sintesi di pensiero visivo. In altre parole, la differenza tra design e arte non è nella storica questione posta da Benjiamin attorno alla «riproducibilità tecnica» di quest’ultima.
Lo conferma Andy Wahrol. Con la sua Factory ha aperto un canale strettissimo tra Arte e Design identificandolo con un senso ottimistico del lavoro collettivo proprio delle Industrie d’arte (di cui la Bauhaus è la versione ultima più avanzata), in un’idea orizzontale che fonde lo spirito dell’artista in quello della Factory stessa, dove secondo una gioia di partecipazione collettiva Warhol & Co. rispondevano a principi intuitivi, creativi, o naif, del fare arte proprio per celebrare l’arte nella sua vitalità naturale e selvaggia: «Facevamo tutto male, ma cercavamo di farlo nel migliore dei modi» sostiene Warhol, e questo Manifesto si presenta con un’idea di lavoro lontana miglia da quella della Bauhaus, dal razionalismo, dalla riproducibilità tecnica, non solo nei precetti e negli intenti, anche nei progetti. Certo, perché al fondo di tutto, anche della serigrafia più colorata, restava sempre un errore prodotto dal fattore umano di quel processo e il disegno o progetto, che dir si voglia, rimaneva sempre un “fatto mentale”. Ancor oggi, su questo fronte si gioca la sfida del Design, e la vera relazione tra Disegno e Design: arte, progetto, teoria, visione. Il fronte avanzatissimo della tecnologia ha liberato da ogni peso formale e aspetto burocratico la creatività, lasciandola sempre più libera nella sua potenzialità di esprimersi come sintesi delle forme, o meglio sintesi del pensiero visivo che rispondono solo al sogno, e alle necessità della vita quotidiana.
cultura
pagina 20 • 17 novembre 2009
er un po’, con la letteratura, Andrej Longo sembra essercisi soprattutto divertito. Non che al tempo dei primi due libri non l’abbia considerata una cosa seria, ma magari un modo d’affacciarsi al mondo col quale poter anche divertirsi e divertire, questo sì. Poi, però, tra la seconda e la terza pubblicazione passano quattro anni e mezzo, durante i quali succede qualcosa - deve essere successo qualcosa, perché lo sguardo di Longo su Napoli e sulla sua gente, argomento di tutte le sue opere, vira al nero cupo di un’omelia funebre da cui sono bandite speranza e redenzione, e il divertimento, se e quando c’è, accentua per contrasto il tono generale di irredimibile sconfitta. L’ora del titolo del suo esordio, Più o meno alle tre (Meridiano Zero, 2002), è quella, in Italia, dello schianto del Volo 11 sulla Torre Nord di Manhattan, ovvero dell’inizio del più importante evento storico recente dopo la caduta del Muro di Berlino. E mentre tutti, da lì in avanti, si affannano a ricordare e a far sapere agli altri in quali mirabili azioni erano indaffarati al momento degli attentati, Longo apre il racconto iniziale così: «Io, più o meno alle tre, mi stavo facendo una sega». Che è un modo intelligentemente spiazzante per introdurre il tema di tutto il libro - l’osservazione della piccola umanità napoletana impegnata a vivere episodi, decisivi o banali che siano, della propria esistenza qualunque, mentre oltreoceano succede l’inimmaginabile: gli Stati Uniti attaccati sul loro suolo. Ma che è anche un modo, iconoclasta, di giocare con la letteratura, specie quella alta che si occupa, come la sua, degli oppressi, ma che, a differenza della sua, lo fa ricorrendo alle astrattezze del poema lirico invece che a un linguaggio che ne esprima veramente l’essenza.
P
Sì, perché quell’incipit, riveduto e corretto, altro non è se non quello famosissimo (o famigerato, fate voi) di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini: «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori». In Più o meno alle tre trovano posto il marito felice, che dopo una bella giornata al mare viene lasciato all’improvviso dalla moglie senza una parola di spiegazione; la protagonista della telenovela campana, che chiede allo sceneggiatore di far morire il suo personaggio perché ormai non distingue più tra realtà e finzione; i killer della camorra, che bevuto con calma il caffè escono a “lavorare”. Uno sguardo sul e dal basso, come una lente d’ingrandimento che amplifica piccole storie comuni mentre altrove si scrivono i destini del mondo. Col successivo Adelante (Rizzoli, 2003), le cose si fanno al contempo più serie e più ludiche. Più serie perché l’ambiente della camorra, con la sua
Il personaggio. Le rivoluzioni stilistiche e tematiche di Andrej Longo
L’uomo che gioca con la letteratura di Alfredo Marziano
Nel tempo, lo sguardo su Napoli (oggetto di tutte le opere) vira al nero cupo di un’omelia funebre da cui è bandita la speranza capacità di degradare e far marcire anche gli spiriti più semplici, entra con molta maggior forza nella narrazione, anticipando l’aria irrespirabile di Dieci; più ludiche perché in questo suo primo romanzo Longo punta su toni eccessivi, caricaturali, con malavitosi che abbattono l’abitazione dei riva-
li con i colpi sparati dal carro armato che tengono parcheggiato nel capannone dietro casa, o strappano cuori dal petto a mani nude. Poi, dicevamo, passano più di quattro anni prima che esca Dieci, stavolta per Adelphi, e il tono è radicalmente cambiato. Lo scrittore di Ischia torna alla costruzione a mosaico di Più o meno alle tre, con frammenti di vite che talvolta si intersecano lungo l’arco dei racconti (dieci appunto, come i comandamenti che li ispirano), ma la Napoli di Andrej Longo all’altezza del 2007 è un inferno in terra in cui, direttamente o meno, le spire della violenza e del degrado raggiungono ogni angolo e corrompono ogni esistenza. Come quella
Qui sopra, lo scrittore Andrej Longo. A destra, le tre copertine dei suoi libri “Adelante”, “Più o meno alle tre” e “Chi ha ucciso Sarah?”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
di Papilù, giovane coscienzioso che non vuole finire ogni tre mesi a Poggioreale come il padre, ma che è costretto dalle circostanze ad accettare l’aiuto del Dio locale, Giggino Mezzanotte; o quella di Saverio, cantante neomelodico che non si accontenta di esibirsi a cresime e matrimoni, e finisce a fare il killer per pagare i debiti con gli spacciatori; o ancora quella di Rosa, tredicenne che abortisce illegalmente dopo esser stata stuprata dal padre. E non è certo un caso che più Longo scende con il suo sguardo nelle profondità dell’assurda quotidianità del capoluogo campano, più la sua lingua si avvicini alla parlata della gente, che quell’assurda quotidianità riflette in maniera inequivocabile: come a sancire un rapporto inscindibile tra il luogo, le persone e le parole, e un male(ssere) senza soluzione. Nel 2009, Longo torna al romanzo con Chi ha ucciso Sarah?, ancora pubblicato da Adelphi. È il romanzo di formazione, sotto forma di giallo d’inchiesta, del giovane poliziotto
Acanfora che, tutore dell’ordine quasi senza volerlo, visto il carattere mite e l’atteggiamento bonario, preferisce rinchiudersi in ufficio a compilare scartoffie piuttosto che uscire a pattugliare i vicoli della città.
Quando però si imbatte nel corpo senza vita della coetanea Sarah, le cose per lui cambiano: da quel momento, col procedere delle indagini per scoprire il colpevole, l’occhio imbambolato con cui ha guardato a Napoli e ai suoi abitanti, accettandone passivamente anche i comportamenti più deteriori, inizia a cedere il passo a una consapevolezza amara del mondo che lo circonda. Col suo percorso individuale, con la sua crescita, con l’acquisito rifiuto dello status quo, Acanfora rappresenta in sostanza la speranza di redenzione di tutta la sua gente: ma è davvero così? La risposta, purtroppo, è no: perché Chi ha ucciso Sarah?, ad oggi il miglior libro di Longo, è anche un capolavoro di finezza narrativa: tutto ciò che vi si racconta avviene nel ’94, quando le cose, per quanto difficili e compromesse, non lo erano come lo sono adesso, dopo 15 anni in cui la situazione sotto il Vesuvio non solo non è migliorata, ma è enormemente peggiorata. E quelle stesse parole che lo scrittore, in senso orizzontale, utilizza per raccontare una storia di speranza, valgono al contrario, in verticale, come testo scolpito sulla pietra tombale di Napoli, di chi vi abita, delle sue chances di riscatto.
spettacoli
17 novembre 2009 • pagina 21
Musica. Nel nuovo doppio cd “Live At The Olympia”, rivive il rockettaro concerto dei R.E.M. eseguito a Dublino nel 2007
Il Ritorno Eccentrico (del) Mito A fianco e in basso, due immagini della storica band americana dei R.E.M., di nuovo nelle classifiche internazionali con il nuovo doppio cd “Live At The Olympia”, che ripropone il concerto eseguito dal gruppo nel 2007 a Dublino
di Alessandro Marongiu his is not a show». «Questo non è uno sta spettacolo», scritto dietro al palco dell’Olympia Theatre di Dublino dove i R.E.M., è il luglio del 2007, testano davanti al pubblico le canzoni destinate all’album prossimo venturo, Accelerate. «This is not a show», ribadisce ripetutamente ad alta voce il bassista Mike Mills pochi attimi prima che la band si lanci nel primo pezzo in scaletta, la furibonda Living Well Is The Best Revenge. È un esercizio al trapezio senza rete, una corsa in auto senza freni. O, per dirla con Michael Stipe, un «esperimento nel terrore».
«T
I R.E.M si mettono a nudo, vanno allo sbaraglio. Improvvisano, sbagliano, confabulano tra loro, correggono: ne viene fuori un evento memorabile, intenso ed elettrico, umano e vitale, che il nuovo doppio cd dal vivo, Live At The Olympia, fotografa fedelmente: è l’istantanea di un gruppo molto presente a se stesso e in bilico tra passato e futuro, un solido fusto d’albero attaccato alle sue radici e proteso verso nuove fronde. È una sorpresa, un benefico shock, un salutare ritorno all’essenzialità: batteria, basso e chitarra (due chitarre, anzi) degli esordi. Certo, oggi gli ex ragazzi di Athens sono molto più scafati, smaliziati, sofisticati. Stipe è un’icona androgina dell’intellighenzia Usa e una coscienza lucida dell’America che osteggiava Bush e inneggia ad Obama, un raffinato artista multimediale e carismatico che ha perso i ricci, i brufoli e la timidezza cronica di quel ragazzotto che sussurrava nel microfono testi enigmatici e il più delle volte incomprensibili (ci torna spesso sull’argomento, sul palco dell’Olympia, prendendo bonariamente in giro se stesso e quelli che su Internet trascrivono a orecchio parole da lui mai cantate). A Dublino, in quei cinque giorni d’estate, i R.E.M. si rimettono in gioco e si riavvicinano, non solo fisicamente, ai fan: ribaltando per una volta la frusta routine promozionale tra dischi e tournée, gettando in pasto al pubblico le nuove canzoni a cui stanno lavorando, recuperando da polverosi scaffali pezzi che non eseguivano dal vivo da dieci, venti, a volte venticinque anni.Trentanove canzo-
ni spalmate su cinque serate, e in Live At The Olympia ci sono tutte: qualche inedito rimasto perso per strada (Staring Down The Barrel Of The Middle Distance e On The Fly, peccato soprattutto per la seconda), qualche altro che nel frattempo ha cambiato titolo e sembianze (Disguised è il bozzolo embrionale di Supernatural Superserious), e poi una
Man On The Moon o Everybody Hurts, niente Shiny Happy People o The One I Love. Ecco invece i R.E.M. freschi, ingenui, febbrili dei primi anni Ottanta, quelli di Reckoning e di Fables Of The Reconstruction, che ripropongono quasi per intero l’Ep d’esordio Chronic Town datato ’82 (Gardening At Night, Carnival Of Sorts, Wolves, Lower e
ritmo sostenuto e tintinnanti arpeggi jingle jangle che centrifugano i Byrds di Roger McGuinn con il college rock americano d’allora, il folk rock dei Sixties con i fermenti new wave. Ci eravamo quasi dimenticati di che pasta fossero fatte Secong Guessing e Disturbance At The Heron House, Maps And Legends e Cuyahoga, These Days e Sitting Still. I R.E.M.,
In quell’esibizione, la band americana testò davanti al pubblico le canzoni destinate al successivo album “Accelerate”. Improvvisarono, sbagliarono, confabularono tra loro. Il risultato? Un evento memorabile pioggia di schegge dal passato remoto. Nessun pezzo da Out Of Time, il loro best seller assoluto, e pochissimi hit: niente Losing My Religion, niente
1,000,000, quattro quinti del programma originale) e riesumano dimenticati lati b di 45 giri come Romance: molti uptempo e poche ballate, elettricità,
lo si percepisce, si divertono un mondo a riportarle in vita anche se a volte è un arrampicarsi sui vetri, uno scivolare sul sapone, Stipe che inforca gli occhiali per leggere le parole stampate su fogli di carta o impresse sullo schermo del computer portatile. Le nuove canzoni sono più dure, più secche, più sintetiche, eppure c’è un filo robusto che le lega a quelle antiche, un ponte sospeso che qui passa sopra il rock da stadio di Green (il disco del contratto miliardario con la Warner) e di Out Of Time, l’elettronica introversa di Up!, l’intimismo malinconico di Reveal, il pop esangue e spompato di Around The Sun (il punto più basso in carriera, da lì recuperano soltanto The Worst Joke Ever). Sembrava il malinconico declino, invece con Acce-
lerate e con questo live arriva il colpo di coda. I R.E.M. si guardano indietro ma non si cullano nella nostalgia. Vogliono piuttosto farci capire che in fondo non sono mai cambiati. Che, come scrive nelle note di copertina il giornalista Andy Gill, il gruppo «è rimasto essenzialmente inalterato, nelle sue ambizioni e nelle sue instancabili urgenze creative». Invece di stupire con effetti speciali, con astuzie di marketing e con trovate spettacolari si propongono con irresistibile e disarmante semplicità invitando il pubblico a partecipare a un esperimento in vitro, in un continuo feedback tra chi sta sopra e sotto il palco. Il loro successo, scrive ancora Gill ricordando un antico concerto a Newcastle in epoca new romantic e di immagine imperante, «si basava interamente sulla forza magnetica di attrazione della musica, non sugli abiti, sull’impianto luci o le altre cose secondarie».
È ancora così, anche se oggi Stipe sfoggia compiaciuto sul palco gessati eleganti. La loro è un’eleganza interiore e ancora molto casual: quanto il Live di due anni fa era compatto, scintillante, lucidato a puntino, così i concerti all’Olympia sono esuberanti e un po’ arruffoni, happening semi improvvisati come si conviene a delle prove aperte al pubblico. I R.E.M. non sono mai stati degli esecutori impeccabili, e qui non si smentiscono: ci sono gli errori, le false partenze, le chiacchieratine inconcludenti, un po’ di ruggine sugli strumenti e una patina di raucedine nella voce di Stipe. Imperfezione ed energia, sporcizia e passione, cuore e coraggio. Quel che si chiama rock’n’roll.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Le Figaro” del 16/11/09
Edf a dieta col calo dei consumi di Frédéric de Monicault olpo dopo colpo la crisi economica mondiale ha cominciato a incidere anche sui consumi energetici. Il consumo globale di energia elettrica e di gas sta raggiungendo i suoi minimi storici. Parliamo, per il 2009, di una riduzione del 3,5 per cento sulla bolletta elettrica globale e meno 3 per cento su quella dei consumi di gas.
C
La maggior parte dei gestori sono stati costretti a ridurre i volumi di distribuzione. È uno dei dati principali emersi dallo studio dell’Osservatorio europeo sui mercati dell’energia, appena pubblicato. «Nel breve termine ciò potrebbe portare le aziende a ridurre – se non addirittura ad annullare – i progetti d’investimento infrastrutturali nel settore, mentre cominciano le cessioni d’attività» ha affermato Colette Lewiner, direttore internazionale energia di Capgemini (società di consulenza, ndr). Edf (uno dei maggiori distributori al mondo di energia, con un fatturato di circa 59 miliardi di euro nel 2006, ndr) è un buon esempio. Dopo un risultato nel 2008 molto buono e una politica molto aggressiva – compresa l’acquisizione di British energy per 14 miliardi di euro– oggi l’obiettivo principale del gruppo francese è quello di ridurre il debito. Il gruppo cercherà, nel primo trimestre del 2010, di completare la vendita della rete di distribuzione inglese e recuperare così 4 miliardi da scalare dal debito. E non è assolutamente l’unica società a voler crescere in maniera più leggera. L’analisi dell’osservatorio rileva come il deficit accumulato dalle prime dieci società del settore energetico fosse pari a 213 miliardi di euro nel 2008. Ciò equivale a un incremento del 113 per cento rispetto solo ai dati
del 2006. E non è probabile che la situazione migliori nei prossimi mesi. Il calo dei consumi e dei prezzi dovrebbe improntare le società a un atteggiamento cauto. In questa fase sono penalizzate anche gli investimenti e lo sviluppo delle energie rinnovabili. Lo studio sottolinea come in Europa, già nel 2008, gli investimenti in questo settore e nell’efficienza energetica erano cresciuti ad un passo molto lento, solo del 2 per cento, rispetto al 56 per cento degli anni precedenti. «Nel secondo trimestre del 2008 gli investimenti nelle rinnovabili sono calati del 14 per cento rispetto al secondo trimestre del 2007, scendendo a un totale di 21,2 miliardi di euro. (Ricordiamo, per fare un raffornto in ambito europeo, che nel 2004 le fonti rinnovabili di energia hanno contribuito complessivamente al consumo interno lordo italiano per una percentuale di poco superiore al 7 per cento. Come si leggeva dal rapporto ’’Energia e Ambiente 2005’’ dell’Enea, ndr).
Come sarà possibile prendere un po’ di fiato? Accanto a un pacchetto di misure, da attuare sul breve periodo, per ridare fiducia agli investitori, lo studio sottolinea come i fornitori d’energia dovranno adattarsi ai cambiamenti della legislazione europea in materia. Tra questi spicca per importanza il cosiddetto pacchetto energia e clima. Aumentare la conversione degli impianti di produzione a basso rilascio di anidride carbonica e allo stesso tempo migliorare il consumo d’ener-
gia. Un lavoro quest’ultimo che si può portare a termine ottimizzando tecnologie come i contatori di nuova generazione e le reti di distribuzione “intelligenti”. Sullo sfondo di questo nuovo approccio industriale, si presenta la sfida della creazione di un nuovo rapporto con i clienti.
In attesa che la crescita economica riprenda e possa incidere anche sul calo dei consumi, gli operatori energetici saranno costretti a rivedere le loro strategie. «Quella dell’energia è un’industria pesante, e fa investimenti sul lungo periodo» spiega Lewine. La sicurezza degli approvvigionamenti richiede che si continuino a spendere soldi su reti e infrastrutture per il trasporto del gas. Parliamo di navi gasiere, metanodotti e impianti di stoccaggio che dovranno continuare ad essere realizzati. Così dovrà essere anche per l’esplorazione e la produzione nel Mare del Nord e nell’area dell’Artico.
L’IMMAGINE
Sconfiggere la fame forse è possibile: con programmi razionali e di rigore Jacques Diouf, direttore generale della Fao, ha dichiarato: «Sconfiggere la fame non è un’utopia». È vero, questo triste e avvilito tempo di sperequazioni, di colossali ingiustizie sociali, esige coraggio. I potenti della terra hanno un’opportunità: dimostrare al prossimo vertice Fao che l’etica della responsabilità non è una semplice astrazione filosofica. Hanno l’obbligo di sanare sanguinolente ferite, di colmare drammatici divari: i diseredati, gli sconfitti, gli ultimi, gli invisibili del mondo vogliono tutele, un umano e civile soccorso e una politica del “risarcimento”, della “riparazione”, che pongano fine a secoli e secoli di piattaforme di spoliazione, perpetrate da noi occidentali fagocitatori nei confronti dei paesi più poveri. Sconfiggere la fame forse è possibile: con programmi razionali e di rigore, si può edificare una civiltà più giusta. E anche se l’impegno profuso fosse una dolce utopia, ben vengano i sogni rosa sospesi a mezz’aria, se poi ci aiutano a essere uomini migliori, uomini di buona volontà.
Marcello Buttazzo - Lequile
DECODER. SE NON LO COMPRI NON VEDI PIÙ NIENTE Se non compri il decoder non vedi più niente. Questa la pubblicità a piena pagina sui quotidiani romani relativa al passaggio al digitale terrestre nel Lazio da ieri. Sembra, quindi, che chi non sia in possesso di un televisore con un decoder non potrà vedere i programmi televisivi. Non ci risulta che sia così perché coloro che sono abbonati a Sky potranno continuare a vedere i canali satellitari. Per ulteriori informazioni abbiamo provato a digitare i siti internet riportati nella pubblicità: www.laziodigitale.tv e www.decoder.comunicazioni.it. Il primo continua sulla stessa linea della reclame; leggiamo che «per poter continuare a ricevere le trasmissioni, è necessario che
ogni televisore sia collegato ad un decoder». Il secondo sito, del ministero dello Sviluppo Economico, ci lascia perplessi. Infatti, se si passa attraverso un motore di ricerca (Google) compare la scritta «Il contenuto di questa pagina richiede una nuova versione di Adobe Flash Player»; cliccando sulla icona si accede al programma di istallazione che però ha l’avvertenza «questo tipo di file può danneggiare il computer», il che induce a non proseguire. Se invece si clicca direttamente l’indirizzo www.decoder.comunicazioni.it si accede al sito dove non c’è l’icona di Adobe Flash Player e quindi non c’è necessità di scaricare la nuova versione. Insomma, l’informazione impera, la chiarezza pure e il cittadino ha, sempre più, la
Bella ammaliatrice Cercate di non fissare troppo a lungo gli occhioni di questa raganella della Costa Rica. Azzurri e screziati come sono infatti, rischiereste di rimanere ipnotizzati! Ma lo sguardo magnetico non è l’unica caratteristica del piccolo anfibio. La ranocchia è anche famosa per avere la pelle del ventre traslucida e semitrasparente, che lascia intravedere gli organi interni
sensazione che delle istituzioni è bene diffidare.
Primo Mastrantoni
IN RICORDO DI FALCONE E BORSELLINO Da quando Falcone e Borsellino hanno lasciato per sempre la terra grulla e assolata dell’amata Trinacria, il loro ricordo è diventato il primo monito al non mollare nella
lotta per la mafia. Sono stati studiati nelle scuole, si sono fatti dei film, dei dibattiti, delle trasmissioni televisive e radiofoniche, perché sono delle icone della giustizia buona. Non approvo nel contempo l’equivalente mostra dei soggetti mafiosi che avviene sugli stessi media, perché essi non rappresentano dei totem di nessuno, neanche della gente più efferata; perché
reputo che un esempio negativo va scordato e cancellato. Oggi un altro successo dello stato nell’arresto di un superboss del trapanese, che era latitante da ben 15 anni e che era mensionato come uno dei successori a Totò Riina nei vertici di Cosa Nostra: è la dimostrazione che l’esempio di Falcone e Borsellino è presente.
Gennaro Napoli
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Non mi impietosisco sulla sorte delle classi operaie Quante ne ho sentite, misericordia! Quante ne ho subite l’anno scorso di queste magnifiche dissertazioni sulla tromba marina di Monville! «Perché è successo? Come accade? È mai possibile concepirtlo? È l’elettricità dall’alto o quella dal basso? In un secondo tre fabbriche rovescjate e 200 uomini uccisi! Che orrore!». E le stesse persone che dicevano queste parole, parlavano uccidendo ragni, schiacciando lumache o, solo per respirare, assorbivano forse inspirando con le radici miriadi di atomi animali. (Monville, vedi, è stato un malanno per me; ho visto tutto ciò troppo da vicino, ne ho sentito parlare, dissertare e sbavarci sopra per un intero inverno, non ne posso più). La proclamazione di Schamil, è vero, può essere una cosa curiosa. Io vivo per la curiosità e ho una profonda ripugnanza per i giornali, cioè per l’effimero, il passeggero, quello che è importante oggi e non lo sarà domani. Non è insensibilità. Solo che io simpatizzo altrettanto, e forse più, con le miserie scomparse dei popoli morti a cui nessuno pensa, con tutte le grida che hanno lanciato e che non si sentono più. Non mi impietosisco sulla sorte delle classi operaie attuali più diquanto, o altrettanto, lo faccia sugli schiavi antichi che giravano la macina. Gustave Flaubert a Louise Colet
ACCADDE OGGI
GENETICAMENTE INNOCENTE Primo caso in Italia: una sentenza della Corte d’Assise di Trieste riduce la pena di un anno a un cittadino algerino, perché «vulnerabile geneticamente». Boyout Abdelmalek aveva accoltellato nel 2007 un ragazzo boliviano, che l’aveva offeso riguardo l’abbigliamento religioso. Ne era nata una colluttazione che era costata la vita a Novoa Perez. L’assassino è ora recluso nel carcere di Verona, ma sulla vicenda gravano ombre inquietanti. La prima domanda che dobbiamo porci è: a quale meccanismo fisico è riferito il test genetico, se ancora non esiste alcun esame medico in grado di riconoscere univocamente un comportamento? Persino il giudice Santosuosso parla di «parziali evidenze scientifiche», ma nonostante ciò ritiene che «possano essere utilizzate per calcolare la pena». Il giudice sta parlando della tesi espressa da un documento inglese del consiglio Nuffield sulla biotetica, punto di riferimento su comportamento e caratteristiche genetiche, intitolato: “Genetica e comportamento umano: il contesto etico”. Su esso si basa la perizia del prof. Giuseppe Sartori e Pietro Pietrini. La conclusione è che l’imputato sia «più incline all’aggressività per colpa di alcuni geni». Ma se davvero è più aggressivo degli altri, perché diminuirne la pena invece che aumentarla? Altra domanda senza risposta: se ognuno di noi sapesse a priori di essere “innocente geneticamente”, si prenderebbe ancora responsabilità per le proprie azioni? Dobbiamo infine chiederci quale reale contri-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
17 novembre 1969 Guerra Fredda: i negoziatori sovietici e statunitensi si incontrano a Helsinki per dare il via ai negoziati Salt I, che mirano a limitare il numero di armi strategiche da entrambe le parti 1970 Douglas Engelbart riceve il brevetto per il primo mouse 1973 Insurrezione degli studenti del Politecnico di Atene contro il regime militare in Grecia. È considerata una delle più importanti ribellioni al regime dittatoriale e, oggi, è festa nazionale in Grecia 1979 Il leader iraniano Ruhollah Khomeini ordina il rilascio di 13 ostaggi americani dell’ambasciata statunitense di Tehran (le donne e le persone di colore) 1983 Viene fondato l’esercito zapatista di Liberazione nazionale 1985 Esce il primo numero di Phrack 1988 I Paesi Bassi diventano la seconda nazione ad essere connessa ad Internet 1989 Guerra Fredda: inizia la Rivoluzione di velluto
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
buto dia la psichiatria forense, quando l’unico loro strumento sono le opinioni e quando quattro differenti psichiatri darebbero quattro differenti verdetti. Thomas Szasz è chiaro in proposito: «L’introduzione di considerazioni psichiatriche nell’amministrazione del codice penale, per esempio il verdetto d’incapacità di intendere e di volere, e così via, corrompe la legge e vittimizza la persona che si dovrebbe proteggere». I giudizi dovrebbero dunque essere motivati da fatti o prove, non da opinioni. Tanto meno dovrebbero essere espressi sulla base del patrimonio genetico, perché la vita ha certamente molti più colori e sfumature di quelle contenute in uno sterile codice.
Davis Fiore
SENSIBILIZZAZIONE AL CLIMA I miracoli sul clima nessuno li ha voluti, e l’assieme convenuto ha preferito rimandare l’operatività al successivo appuntamento. Eppure ogni giorno che passa ci accorgiamo ciò che sta succedendo sulla terra e non ci rendiamo conto che il nostro intervento in merito, ormai, è come un farmaco ma è l’unico: ovvero nessuno può assicurarci che una azione comune sia la soluzione, ma almeno è qualcosa. L’ambiente è un bene anche da destra, perché è da rifare la mappa intera delle modalità di sfruttamento dell’energia stessa, per ristabilire l’equazione dell’equilibrio sulla terra. C’è molto da studiare, ma il problema è come sempre di sensibilizzazione al problema.
Bruno Russo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
UDC: UN PARTITO, UN PROGETTO PER LA NAZIONE La Conferenza programmatica regionale dell’Unione di centro, che si è conclusa il 14 novembre con l’intervento del presidente Pier Ferdinando Casini, è stata una tappa decisiva della costruzione del progetto politico di centro. Un grande meeting di discussione, dopo quello nazionale di Chianciano, proposto non solo a chi già aderisce all’Unione di centro, ma a tutti coloro che avvertono l’esigenza di far cambiare pagina alla politica italiana. Esigenza sentita da sempre un maggior numero di persone. Le due tornate elettorali del 2008 e del 2009, affrontate in brillante solitudine dall’Unione di centro, confermano che la bontà dell’intuizione, lanciata dalla Fondazione liberal con il “manifesto di Todi”, dal quale origina la scommessa politica. Il bipartitismo Pd-Pdl è un castello di carta, destinato a dissolversi. Il futuro, pertanto, non si costruirà intorno agli attuali schieramenti i quali ormai, tra l’altro, riconoscono apertamente come l’Unione di centro sia decisiva per governare, a livello locale come a livello nazionale. Le prossime elezioni regionali costituiscono un impegno di grande rilievo politico e, proprio per questo, assai insidioso. La Conferenza programmatica svoltasi a Bari costituisce una sorta di “apertura” del percorso che ci porterà alle regionali. Un’apertura che parte dai programmi e dai valori: dalla centralità del Mezzogiorno, non come questione ma come condizione all’interno di una cornice nazionale, dalla centralità della famiglia e delle politiche sociali. Dalla riscoperta della solidarietà come fattore indispensabile per uno sviluppo sostenibile. Dalla cultura che solo riesce a radicare e a salvaguardare lo Stato nel profondo, nella coscienza dei singoli cittadini e nella coscienza collettiva. Il tema delle alleanze è sicuramente importante ma è ancor più importante è ribadire l’assoluta indipendenza del progetto politico dell’Unione di centro che è quello di costruire la nuova casa dei moderati italiani. Il prius oggi non è più il partito e la sua struttura organizzativa, ma la funzione alla quale esso è chiamato; cioè il valore tutelato non è più il partito pesante del Novecento ma la partecipazione politica dei cittadini. La partecipazione alla vita politica è la vera scommessa da vincere. Perché attraverso la partecipazione si premia la democrazia, attraverso la partecipazione si selezione una nuova classe dirigente che sia capace di costruire un progetto di reale modernizzazione del Paese. Ignazio La Grotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. L’Australia chiede perdono alle migliaia di bambini maltrattati negli orfanotrofi fra il 1930 e il 1970
L’incubo globale dei figli di Gabriella Mecucci n Parlamento intero che applaude piangendo calde lacrime, non è un’immagine consueta. Kevin Rudd, primo ministro australiano, ha pronunciato le storiche scuse degli australiani per le deportazioni, i maltrattamenti, le sevizie inflitte a centinaia di migliaia di bambini. I mille eletti del popolo, convenuti a Canberra, hanno seguito il discorso del premier con commossa partecipazione. Quello che ha scosso il Paese è il ricordo di una delle tante storie terribili che hanno costellato il Novecento. Fra il 1930 e il 1970 circa 30mila bambini britannici vennero esportati verso Sydney. Erano tanti Oliver Twist che, approdati nel nuovissimo mondo, diventavano vittime di ogni tipo di sfruttamento: dai lavori forzati, agli abusi sessuali. Il premier ha parlato di «cordoglio nazionale» per questi «piccoli dimenticati che spero - ha detto - da ora in poi siano austrialiani ricordati». Gli inglesi per la verità non rifornirono solo il “mercato”australiano, ma anche quello canadese, neozelandese, sudafricano, rhodesiano. In tutto, le piccole vittime di Sua Maestà britannica furono 130mila. E nei prossimi giorni arriveranno per loro anche le scuse di Gordon Brown.
U
Kevin Rudd aveva fatto atto di contrizione anche l’anno scorso: questa volta per i 500mila bambini aborigeni che vennero strappati alle famiglie e ai luoghi di origine perché si riteneva che fosse più opportuno allevarli «in ambiente bianco». Finirono negli orfanotrofi o in famiglie che vivevano in remote zone rurali. Le lacrime, il sincero pentimento di un intero paese non possono che far bene alla democrazia di quel paese e di tutto il mondo. Le drammatiche verità “riconosciute” costituiscono un antidoto, una sorta di vaccinazione perché quei crimini non si consumino “mai più”. Il “secolo breve”, che papa Giovanni Paolo secondo identificò anche come il più terribile, rende indispensabile che l’umanità tutta sia capace di guardare dentro se stessa e di riconoscere di che cosa sia capace l’uomo. Una dolorosa introspezione, una denuncia delle proprie colpe che gli australiani hanno fatto dando il buon esempio. Non è questa la prima volta che un popolo mette a nudo i propri crimini. Indimenticabile fu il gesto di Willy Brandt al ghetto di Varsavia. Il cancelliere tedesco si inginocchiò davanti al monumento alle vittime ebree: il governo di Bonn riconosceva così le sue terribili responsabilità di «un passato che non passa». Da allora la Germania ha più volte dato voce e gesti al suo pentimento: da ultimo è toccato ad Angela Merkel riconoscere la “colpa”per aver scatenato la seconda guerra mondiale e aver perseguito “la soluzione finale”. Ma se la Shoah ha una sua unicità, non è certo il solo genocidio. Basta spostarsi nel tempo e nello spazio per incontrare quello degli indiani di America, di cui il congresso Usa chiese scusa nel 2000. O quello dei Maori neozelandesi per il quale la regina Elisabetta riconobbe nel 1995 le responsabilità britanniche. Giovanni Paolo secondo fece più volte pubblica ammenda per i comportamenti della Chiesa: dalle Crociate all’Inquisizione. Esiste però anche chi non riconosce con arroganza e pertinacia le proprie colpe, negando talora che quei fatti siano realmente accaduti. È il caso del governo turco che non vuol fare i conti con l’olocausto armeno, quando fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento furono sterminate oltre due milioni di persone per riuscire ad annientare un intero po-
di NESSUNO
In questa pagina una serie di immagini di «bambini dimenticati» negli orfanotrofi ai quali il governo australiano ha chiesto scusa con una commovente cerimonia pubblica tenuta a Canberra polo. E come dimenticare la protervia con la quale i giapponesi hanno sempre negato «lo stupro di Nanchino»? Era il 1937 quando l’esercito nipponico “prese” l’allora capitale cinese e, in poco più di una settimana, uccise trecentomila persone. Una capacità ed efficienza nel dare la morte addirittura superiore a quella tedesca. Ma da Tokyo non una parola, non un gesto di pentimento.
E per venire alle tragedie a noi più vicine: Putin ha distrutto un paese come la Cecenia, i cinesi fanno strage in Tibet, per non dire della tragedia birmana, mentre l’Aja riconosceva le responsabilità dei caschi blu olandesi nel non aver impedito il massacro di Sebrenica. A dimostrazione che il moto della storia non è lineare. E la presa di coscienza non è un cammino imboccato per sempre. C’è una scia di dolore, una linea rossa di sangue che sembra non volersi interrompere. Come se non fosse possibile sconfiggere “la banalità del male”. Eppure i gesti come quello del governo australiano sono passi in avanti, fari che illuminano i punti più bui della storia. Quelli contro i bambini sono fra i crimini più orribili: fra gli innocenti sono loro i più innocenti di tutti. E mentre da Canberra e fra qualche giorno da Londra partono messaggi di riscatto, il presidente americano Barak Obama ha fatto un annuncio di straordinaria importanza: andrà a visitare Hiroshima e Nagasaki. La bomba atomica sulle due città provocò una tale tragedia che per decenni se ne continueranno a vedere e sentire le conseguenze sui corpi dei giapponesi. Quella decisione non è paragonabile ad una deportazione di bambini né ad un genocidio. Eppure, se da Washington si alzerà una voce per chiedere scusa anche di quella scelta, sarà un fatto altamente positivo, che rafforzerà, davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, chi chiede a Teheran di abbandonare il proprio piano atomico. La democrazia non può essere disarmata, ma deve scegliere la via della mitezza e della responsabilità.
La cerimonia, che si è svolta a Canberra, ha gettato nuova luce su una delle numerose tragedie del Novecento, di quelle che, come la strage di Nanchino o la Shoah, hanno rappresentato una vera e propria frattura nell’umanità