di e h c a n cro
91119
La felicità è esigente
come una sposa legittima Jean Giraudoux
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 19 NOVEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Le pressioni di Letta (e del Quirinale) avrebbero spinto il premier a intervenire
Uno Stato di confusione
Dopo il flop del vertice Fao
La mia idea per battere la fame nel mondo «Il problema non è la sostenibilità ma la produttività. Ci vuole una nuova rivoluzione verde a favore dei piccoli proprietari» di Bill Gates assioma è molto semplice: tre quarti delle persone più povere del mondo ricavano da mangiare e da vivere coltivando piccoli appezzamenti di terra. Se riuscissimo a rendere l’agricoltura di questi piccoli proprietari più produttiva e più redditizia, potremmo ridurre i numeri della fame, della nutrizione e della povertà. Mi spingo oltre: assieme a mia moglie Melinda sono certo che l’incremento dei raccolti e la conseguente apertura di un mercato sia la leva più potente che abbiamo per battere la fame nel mondo. L’idea che un miglior uso dell’agricoltura possa vincere questa sfida epocale non è nuova: e chi l’ha inventata Norman Ernest Borlaug - ci ha vinto un Nobel. Sto parlando di quella Rivoluzione Verde che ha aiutato a contrastare la carestia, salvare centinaia di milioni di vite e risollevare interi paesi dalla povertà. È stata una delle grandi conquiste del Ventesimo secolo. Ma non è arrivata abbastanza lontano. Non è arrivata in Africa. Il Continente Nero è l’unico al mondo in cui i raccolti pro capite di cereali sono fermi da 25 anni.
L’
Berlusconi smentisce Schifani: «Mai pensato al voto» Un sondaggio di liberal tra i maggiori politologi italiani: qual è la via per uscire dalla paralisi istituzionale sulla giustizia? E invece Perfetti punta tutto sulle riforme
LA NOTA DI PALAZZO CHIGI
Ma c’è ancora la maggioranza?
Le elezioni le vincerebbe Berlusconi con il suo centrodestra, dice lo storico Francesco Perfetti, commentatore di Libero, ma per lui la soluzione migliore per il premier sarebbe far partire finalmente la stagione delle riforme.
di Enrico Cisnetto on c’è bisogno di ricorrere alla pur proverbiale abitudine, così si dice, di Silvio Berlusconi a dire le bugie per giudicare la sua smentita di volere le elezioni anticipate, anzi di non averci mai neppure pensato. Certo, so bene che nei giorni scorsi sono state molte le indiscrezioni, cui il premier non ha ritenuto di rispondere, che gli attribuivano quantomeno degli “sfoghi” che evocavano il ricorso alle urne, e io stesso su liberal di sabato scorso gli ho apertamente attribuito questa intenzione. Ma poco importa. Perché, verità o balla che sia, la dichiarazione del Cavaliere è prima di tutto un clamoroso errore politico a suo danno. E in entrambi i casi. Supponiamo che Berlusconi per davvero non sia interessato alle elezioni anticipate: ebbene, gli sarà difficile spiegare tutto quello che è successo in questi giorni.
N
segue a pagina 12
Battisti può essere estradato dal Brasile Sì del Tribunale, adesso la parola passa a Lula Gabriella Mecucci • pagina 6 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
segue a pagina 2
Per Pombeni la strada è un governo elettorale Subito un governo istituzionale con la missione di cambiare la legge elettorale. Questo chiede Paolo Pombeni del Messaggero. E chiede una legge senza premio di maggioranza e con le preferenze.
Folli contesta l’illusione del voto La situazione è bloccata, per Stefano Folli, anche perché per un nuovo Lodo c’è poco margine: occorre moderazione.
Le urne, il male minore per Francesco Forte
Torniamo al Lodo dice Luca Ricolfi
Il commentatore della Stampa ribadisce che le elezioni di sicuro non metterebbero Berlusconi al riparo dai processi: ecco perL’economista Francesco Forte, commenta- ché l’unica vera soluzione è puntare su un tore del Giornale, è convinto che il pre- Lodo costituzionale da approvare subito, mier debba difendersi dalla pressione dei come ha chiesto Pier Ferdinando Casini. giudici, anche andando alle elezioni.
Pasquino: l’argine adesso è Napolitano Gianfranco Pasquino legge la frenata di Berlusconi come il frutto delle pressioni del Quirinale e di una vecchia legge: le urne non premiano chi provoca le crisi.
Sabbatucci al premier: «Fai pace con Fini»
Due solo le soluzioni possibili per Giovanni Sabbatucci: un governo tecnico o una tregua. Ma la prima è impraticabile perché produrrebbe tensioni troppo forti nel Paese, come ai tempi di Scalfaro.
Una volta era una legge, invece ora l’accoglienza provoca solo scontri
Bossi-Fini: adesso è una guerra Insulti sull’immigrazione. Mentre Cosentino resta candidato di Errico Novi
Gli ordini del giorno sulla fiducia
ROMA. La polemica è scoppiata come una bomba a orologeria proprio nel giorno della tregua: la finiana Flavia Perina e Walter Veltroni hanno firmato insieme una legge per dare il voto agli immigrati. Apriti cielo! Bossi ha tuonato alla lesa maestà e ha gritdato: «Gli immigrati vadano a caso, altro che alle urne». «Gli anatemi non servono a risolvere i problemi», gli ha risposto Gianfranco Fini con la durezza che gli è propria in questi giorni. In margine, nuove polemiche vengono dalla decisione di Nicola Cosentino di mantenere viva la sua contestata candidatura a presiedente della Regione Campania. a pagina 8
Il governo va sotto sette volte
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
229 •
WWW.LIBERAL.IT
di Francesco Pacifico Alla fine è andato tutto come previsto, l’ennesima fiducia è stata votata dalla maggioranza a sostegno del governo, ma per sette volte, sugli ordini del giorno, il governo è stato battuto. Nulla di importante, tecnicamente: ma il segnale politico è chiaro. a pagina 9
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 19 novembre 2009
La nota del premier che smentisce Schifani, ”Libero” e “Il Giornale”
Tra bugie e verità è sparita la maggioranza di Enrico Cisnetto segue dalla prima Ossia il motivo per cui molti autorevoli esponenti del suo partito – last but not least nientemeno che il presidente del Senato, Schifani, seconda carica dello Stato – così come i due quotidiani che più lo appoggiano, Giornale e Libero, abbiano reiteratamente e, col passare dei giorni, sempre più chiaramente evocato il ricorso alle urne come risposta a quei distinguo e a quelle prese di posizioni in seno alla maggioranza di governo – in particolare di Gianfranco Fini – che il comunicato di palazzo Chigi di ieri finalmente rubrica, come è corretto dire, quale «dialettica interna che accentua le capacità ideative». Tutti sprovveduti? Se così fosse, il premier farebbe bene a far seguire alla sua smentita di ieri un sonoro richiamo – stavo per dire licenziamento, ma mi sono ricordato che la politica non è (non dovrebbe essere) un’azienda – a coloro che quelle parole hanno speso. Sono però pronto a scommettere che non succederà.
Supponiamo, invece, che il premier abbia detto una bugia “necessaria”, come spesso capita in politica (e non c’è da strapparsi le vesti). Cioè che abbia davvero intenzione di rimandare gli italiani a votare dopo soli 19 mesi (tre mesi meno del disastroso governo Prodi!), ma che per ragioni di opportunità voglia lasciare agli atti che lui questa scelta poco comprensibile, non fosse altro per la maggioranza parlamentare di cui Pdl-Lega dispongono, non la voleva, ma semmai che ad essa sarà costretto per colpa dei “disfattisti” che lo vogliono eliminare dalla scena politica. Ebbene, proprio perché le elezioni anticipate sarebbero spiegabili agli italiani con non poche difficoltà – tanto più in una fase dell’economia in cui potrebbe essere finita la recessione (?) ma certo non è partita la ripresa, né partirà facilmente – e ottenibili con molti affanni politici e istituzionali, averle escluse poco prima di quando dovrebbe decidersi a chiederle certo non aiuterebbe nell’intento. E che ci sia poco tempo per ottenerle lo dice il fatto che esse hanno senso, se mai ne hanno uno, se sono abbinate con le regionali di fine marzo.
Le ferite istituzionali prodotte in questa fase renderanno il premier (ma anche il suo governo) ancora più debole
Insomma, comunque la si giri, l’uscita di ieri del presidente del consiglio assomiglia molto ad un autogol. La verità è che il tema “torniamo alle urne”è andato troppo avanti per poterne uscire indenni, sia che effettivamente si vada a votare sia in caso contrario. Perché se si voterà a marzo anche per le politiche – immagino trasformando il voto in un vero e proprio referendum pro o contro Berlusconi, della serie “o vita o morte”– quelle elezioni Berlusconi dovrà pur vincerle. Sapendo che il rischio è quello, preventivo, di mettere in conto non solo la diaspora di Fini – che lui stesso ha cercato, come motivo che giustifica le elezioni – ma anche il rifiuto di Casini alle sue profferte, sulle quali sono pronto a scommettere, e perfino un distacco della Lega, che non ha nessun interesse al voto anticipato, salvo che il Cavaliere non le ponga il ricatto sui suoi candidati alle regionali. Insomma, è proprio sicuro il Cavaliere di poterle vincere anche se dovesse rimanere da solo, quelle elezioni? Non sarebbe comunque una sconfitta certificare che, essendo stato a palazzo Chigi 79 degli ultimi 101 mesi, non è riuscito a cambiare il paese ed è costretto, per salvarsi, a ricorrere ancora una volta al mestiere che sa fare meglio di qualunque altro e di chiunque altro, prendere i voti? D’altra parte, se alle elezioni anticipate non si andrà – vuoi perché Berlusconi non oserà rischiare, vuoi perché non riuscirà ad ottenerle pur volendole – è certo che le lacerazioni politiche e istituzionali che si sono prodotte in questa fase, renderanno il premier (e il suo governo) ancora più debole di quanto non sia apparso fin qui, esponendolo maggiormente ai colpi di quella magistratura che, come lui dice, lo “vuole morto”, e facendo esplodere dentro e intorno al Pdl tutte le contraddizioni e le pulsioni sul “dopo”che peraltro sono già abbondantemente emerse negli ultimi tempi, in cui negli ambienti politici la parola più usata era “successione”. Come si vede, la partita è complicata. E, quel che è peggio, è tutta giocata sulla pelle del Paese. (www.enricocisnetto.it)
Sondaggio. I politologi italiani di fronte alla crisi istituzionale
Quali vie d’uscita dalla nuova paralisi italiana Serve una mediazione a oltranza oppure un governo elettorale di Francesco Capozza, Franco Insardà e Riccardo Paradisi
1) A Berlusconi converrebbero o no le elezioni anticipate? Davvero le vincerebbe? 2) E quale sarebbe il costo istituzionale di un ritorno anticipato alle urne? 3) Ci può essere un’alternativa a questo scontro istituzionale?
prima pagina STEFANO FOLLI
Per i processi il voto non basta
La situazione è bloccata e non c’è spazio per un nuovo lodo ndare a elezioni anticipate sarebbe un rischio altissimo per Silvio Berlusconi. Lui ne è consapevole e, infatti, nella nota diffusa ieri è stato molto chiaro». Per Stefano Folli, editorialista del Sole 24Ore, non c’è possibilità che il quadro politico possa modificarsi. «Il ricorso alle urne non sarebbe compreso dalla maggioranza del suo elettorato, formato prevalentemente da moderati. Il Cavaliere ha avuto successo quando ha interpretato l’anima del ceto medio. Non sarebbe credibile e lui, che non è uno sprovveduto, è consapevole che con la crisi economica che preoccupa tutti gli italiani, sarebbe da pazzi trascinare il Paese alle elezioni per una resa dei conti con Fini. Sarebbe incomprensibile per una colazione che ha una maggioranza così schiacciante».
«A
Evidentemente il problema che assilla il Cavaliere è un altro. «Riguarda, soprattutto, i suoi processi, ma quelli non si cancellano con le elezioni anticipate. Si ripresenteranno il giorno dopo il voto e caratterizzeranno anche la campagna elettorale». Berlusconi, quindi, utilizza questo spauracchio, ma si guarda bene dall’arrivarci. Secondo Folli «è un’arma che usa contro coloro che gli si mettono di traverso e che vorrebbero tentare di logorarlo. Ai finiani e agli altri paventa la possibilità che, nel caso di ritorno alle urne, potrebbe non ricandidarli. Anche i suoi fedelissimi sono molto preoccupati, perché non c’è la certezza che si possa ripetere un risultato positivo come quello del 2008. Insomma Berlusconi da una parte minaccia, fa scrivere, fa dichiarare a quelli che gli sono vicini certe cose, dall’altra, siccome è un uomo prudente e attento, non si sbilancia. Anche perché è molto logorato dalle vicende che lo riguardano più da vicino». La possibilità che possa esistere un’alternativa a un governo guidato da Berlusconi viene esclusa categoricamente da Folli: «In questo momento non c’è. Sulla carta tutto è possibile, ma in termini politici non mi pare che ci sia spazio. Così come il Cavaliere ha difficoltà a spingere per elezioni anticipate, allo stesso modo sarebbe difficile ipotizzare un governo tecnico in presenza di una maggioranza che rivendica con forza la sua esistenza. Se, poi, qualcosa sfugge di mano e fra due mesi cambia la scena se ne potrà riparlare». La stessa possibilità che la vicenda processuale del presidente del Consiglio possa risolversi con la riproposizione del Lodo Alfano, in versione legge costituzionale, sembra complicata. «È un’ipotesi ragionevole, ma Berlusconi non è molto favorevole perché l’iter
parlamentare rischia di essere lungo e, poi, l’eventuale referendum rischierebbe di vanificare il tutto». In un clima del genere il rischio di scontro istituzionale è, per l’editorialista del Sole 24Ore, ancora più evidente. «Occorre molto senso della misura e non è facile trovare una soluzione a questa vicenda legata soprattutto ai processi del premier».
FRANCESCO FORTE
Le elezioni sarebbero il male minore Il premier deve proteggersi dai colpi della giustizia
e elezioni anticipate non convengono a nessuno, evidentemente. Però potrebbero diventare l’ultima ratio, la conseguenza di uno stato di necessità in cui verrebbe messo il premier se la maggioranza non firma quei decreti sulla giustizia che sono in Parlamento. E che garantiscono una salvaguardia processuale per mettere al riparo il governo da colpi di coda». Francesco Forte, economista, editorialista del Giornale e animatore della fondazione Riformismo e libertà, «tra i due mali del logoramento della maggioranza con il boicottaggio interno del pacchetto sulla giustizia e le elezioni anticipate» sceglie quello che definisce «il male minore nel medio termine»: le elezioni anticipate appunto. Un via d’uscita oltre l’assedio esterno e interno che «un governo largamente maggioritario nel Paese sta subendo in Parlamento e fuori». Insomma «Se questa maggioranza – sostiene Forte – ha componenti interne poco convinte che sia necessario e urgente uno scudo per il premier, per consentirgli di governare senza interferenze di tipo extrapolitico, allora è evidente che non si crede più nel progetto con cui si sono vinte le elezioni e a cui tutti, compreso l’attuale presidente della Camera Gianfranco Fini aveva aderito».
«L
Detto questo, prefigurato lo scenario peggiore della rimessa del mandato di Berlusconi del voto anticipato, Forte si dice convinto che non si arriverà a tanto. Non solo perché Berlusconi, come ha detto ieri, non ha mai pensato a un’ipotesi del genere – anche se tutto il suo stato maggiore per due giorni ha parlato di questa ipotesi – ma perché verrà trovato un compromesso onorevole su questo pacchetto di proposte sulla giustizia che magari non è perfetto nella sua scrittura. Un miglioramento del disegno di legge che metterà d’accordo tutti e che porterà alla firma del presidente Napolitano». La via d’uscita è questa dunque per Forte, che non vede all’orizzonte nessun paventato scontro istituzionale, considerando che la sua previsione è che Napolitano firmerà il ddl. «Il presidente della Repubblica è già rimasto scottato dalla bocciatura del Lodo Alfano che lui si aspettava venisse invece approvato dalla Corte costituzionale.
Se al suo tavolo arriverà una proposta razionale perché dovrebbe respingerla?». Certo, Forte non ha molta fiducia nella competenza di molti giuristi italiani: «Finora si sono scritte delle autentiche sciocchezze a proposito delle funzioni e dei ruoli delle figure istituzionali. Si è detto che il presidente del Consiglio è uguale agli altri ministri mentre nella nostra Costituzione – nella Costituzione! – c’è scritto chiaramente che c’è il presidente del Consiglio e ci sono ministri». Insomma andare a elezioni anticipate, anche se dovessero essere vinte, sarebbe comunque una battuta d’arresto, è la firma di un decreto «che eviterebbe al Paese lo stillicidio di due anni di processi che stanno per andare in prescrizione», la via regia lungo la quale secondo Forte la maggioranza e il Paese usciranno dal cul de sac.
Se così non sarà, «è l’economia italiana, che pure sta segnando timidi punti di ripresa, a rimetterci. Diventeremmo oggetto di campagne di discredito internazionali, la nostra immagine verrebbe gravemente danneggiata». Forte a questo proposito ricordava nei giorni scorsi come «La richiesta del Times, che Berlusconi si dimetta, dopo la bocciatura del Lodo Alfano costituisce un attacco all’economia italiana di estrema gravità che interviene proprio mentre emergono dati da cui risulta che la nostra industria è in rilevante ripresa. E presenta, assieme alla Francia, ma più di questa, miglioramenti superiori alla media dei Paesi dell’Ocse e a quella della eurozona. Dati che danno fastidio ai competitori che sono in difficoltà». La morale dell’economista è che «Interrompendo il governo, si interromperebbe questa ripresa».
GIANFRANCO PASQUINO
Napolitano non starà a guardare
Il voto non favorisce mai il leader che apre la crisi apolitano sta dalla parte della Costituzione, e questo penso si sia capito da tempo. Sicuramente non credo abbia gradito le varie prese di posizione di questi ultimi giorni sul tema dello scioglimento anticipato delle Camere» dice a liberal Gianfranco Pasquino, docente presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Bologna. Ma il professore aggiunge, sempre sullo stesso tema e non senza una battuta tagliente: «Lo scioglimento non può essere concesso su richiesta, che questa venga dal presidente del Senato, dal premier o da Gasparri…». «D’altronde – ricorda Pasquino – le elezioni anticipate non le concesse neppure Scalfaro, sia quando a chiederle fu lo stesso Berlusconi nel 1995, sia quando a farlo fu Romano Prodi, nel 1998». Ma alla domanda se secondo lui è vera l’indiscrezione in base alla quale il presi-
«N
19 novembre 2009 • pagina 3
dente del Consiglio avrebbe smentito Schifani perché raggiunto, a mezzo Gianni Letta, da un messaggio del Quirinale, il professore bolognese risponde categorico: «Questo andrebbe chiesto al Quirinale, non a me. Di sicuro, ma questa è una mia opinione conoscendo il profondo rispetto che il capo dello Stato ha per le sue prerogative costituzionali, l’uscita di Schifani non deve avergli fatto grande piacere».
Ma se non è stato, come tutto sembrerebbe far credere, un intervento di Giorgio Napolitano (che in questi giorni è in visita di Stato in Turchia) a provocare la retromarcia del presidente del Consiglio, che cosa può averlo spinto a rompere il silenzio auto impostosi da diversi giorni? «io credo – è la tesi di Pasquino – che sia più plausibile un’altra chiave di lettura, e cioè quella secondo cui qualcuno abbia fatto capire al premier che il gioco al massacro contro il presidente della camera Gianfranco Fini, poteva nuocere più a lui che all’avversario». Lei crede professore? «Credo proprio di sì, anche perché a mio avviso, ma mi dicono che circolino anche dei sondaggi in tal senso (e forse sono arrivati anche sulla scrivania di Berlusconi), Fini è molto più forte tra l’elettorato che in Parlamento». Cioè? «Mi spiego meglio: è vero che Berlusconi può contare sul sostegno di gran parte degli ex An, e che in Parlamento molti che un tempo erano considerati di stretta osservanza finiana oggi sarebbero pronti al voltafaccia pur di essere rieletti, ma a conti fatti Fini gode di grande popolarità nell’elettorato e non solo di centrodestra». Per Pasquino «di questo se n’è accorta la Lega ancor prima di Berlusconi e non è da escludere che il campanello d’allarme sia giunto al premier dal Carroccio più che da altre parti». «Infine – conclude il professore – non c’è da sottovalutare un fatto: agli italiano non piace troppo essere chiamati continuamente alle urne, e questo per il premier non è un dato da sottovalutare».
FRANCESCO PERFETTI
La soluzione? Puntare tutto sulle riforme Ma alle urne Berlusconi rivincerebbe a mani basse
i parla da giorni di un premier furibondo, tentato dall’ipotesi di far saltare la legislatura e tornare alle urne. Davvero, secondo il professor Francesco Perfetti (storico e editorialista di Libero) converrebbero al presidente del Consiglio le elezioni anticipate? «Diciamo che questa ipotesi di cui si sente molto parlare (soprattutto sui giornali, c’è da dire), ma formalmente smentita dal premier, certamente consentirebbe a Berlusconi di archiviare certi malumori e certe presenze critiche che nella sua attuale maggioranza indubbiamente ci sono», ci risponde.
S
pagina 4 • 19 novembre 2009
E aggiunge: «Sarebbe ridicolo negarlo. Se si andasse alle urne in questo momento è altamente probabile che il centrodestra le rivincerebbe a mani basse, pertanto il premier potrebbe avere tutto l’interesse nei confronti di uno scioglimento anticipato. Anche perché sarebbe l’occasione per compattare la maggioranza eliminando proprio quegli elementi, diciamo, un po’“inquieti”». Martedì pomeriggio il presidente del Senato Schifani non ha escluso l’ipotesi di scioglimento anticipato della legislatura. Il suo omologo alla Camera, Gianfranco Fini, ha gettato acqua sul fuoco e qualcuno vocifera che ritenga questa uscita solo un tranello. Tutto questo mentre si narra che al capo dello Stato, in visita ufficiale in Turchia, la sortita di Schifani non sarebbe affatto piaciuta. Tanto che il premier ha sentito l’obbligo di smentire le voci di voglia di elezioni. C’è all’orizzonte uno scontro istituzionale? Secondo Perfetti, «il presidente del Senato non ha evocato o auspicato uno scioglimento anticipato delle Camere, ma ha detto – e a mio avviso ha perfettamente ragione – che di fronte all’ipotesi di una maggioranza non coesa sarebbe preferibile tornare a chiedere il parere degli elettori. Sullo scontro istituzionale mi sento di dire che non credo sia uno scenario possibile. Napolitano gode della stima, più o meno rimarcata, di tutti e non penso che nessuno, nemmeno i presidenti delle Camere, metterebbe mai in dubbio le sue prerogative costituzionali, tra le quali spicca l’impegno di cercare, prima di sciogliere anticipatamente una legislatura, una maggioranza alternativa di governo».
Berlusconi, quasi volendo smorzare i toni della polemica, ieri ha detto di non aver mai pensato ad elezioni anticipate; a questo punto qual è l’alternativa possibile per sedare quei mal di pancia che anche lei ha ammesso esserci nella maggioranza? L’idea di Francesco Perfetti è chiarissima: «Secondo il mio parere Berlusconi dovrebbe mettere il piede sull’acceleratore delle riforme, magari cercando di coinvolgere pure le opposizioni. Subito dopo le elezioni dello scorso anno si era tanto parlato di questa come di una legislatura per fare le riforme, quasi costituente. Sarebbe ora, dopo un anno e mezzo, che quelle riforme che tra l’altro il pdl aveva messo nel programma di governo, fossero messe sul tavolo. Solo così l’opinione pubblica e quella politica potrebbero compattarsi attorno all’idea che questa legislatura deve continuare a vivere e arrivare alla sua scadenza naturale. Oltre tutto ne gioverebbe anche l’immagine personale del premier».
PAOLO POMBENI
Subito un governo istituzionale
Cambiare la legge elettorale: preferenze sì, premio no aolo Pombeni, professore di Storia dei sistemi politici europei a Bologna e commentatore del Messaggero, ritiene che in questo momento la partita politica si
P
prima pagina gioca alle prossime Regionali. «Bisognerà capire se il Pdl riuscirà a mettersi d’accordo con la Lega per l’appuntamento di marzo. Se questo accordo, come sembra, non si riuscisse a fare allora si spiegherebbero anche le minacce di elezioni anticipate. Appuntamento che si trasformerebbe in una sorta di referendum su Silvio Berlusconi e smonterebbero le tensioni interne al Pdl sulle candidature alle Regionali, al di là delle fantasie su eventuali disgusti per gli accerchiamenti». L’eventuale referendum sulla figura di Berlusconi nel quale, secondo il professor Pombeni, si trasformerebbero le eventuali elezioni anticipate potrebbe avere un risultato sorprendente perché «si sta perdendo il contatto con l’opinione pubblica profonda del Paese, che non è fatta tutta di pasdaran. L’impressione è che la gente si senta molto lontana da questa politica gladiatoria». L’incertezza sugli orientamenti elettorali è grandissima e va tenuta nella debita considerazione: «Ci potrebbe essere una forte astensione che non sarebbe facile stabilire chi favorirebbe, oppure l’elettorato potrebbe indirizzarsi verso le forze di Centro. Certo le elezioni anticipate fungerebbero da acceleratore per certe dinamiche politiche. La situazione, come è evidente, è molto confusa».
L’eventualità di uno scontro istituzionale legato a una vittoria di Berlusconi passa, secondo Pombeni, per una serie di condizioni: «Prima di tutto bisogna tenere presente che la decisione di sciogliere le Camere non è nelle mani di Berlusconi, ma del presidente della Repubblica, ma non soltanto nelle sue mani. Dal momento che anche il capo dello Stato è tenuto a verificare la possibilità che ci sia una maggioranza alternativa. Le esperienze del passato, Prodi in testa, ci insegnano che, quando si arriva al dunque, le maggioranze sono difficili da costruire. Ammettendo anche che si arrivasse al voto anticipato e alla vittoria del Cavaliere, nascerebbero due problemi grandissimi. Prima di tutto ci troveremo di fronte a una maggioranza di un solo uomo al comando, con una coalizione di sostenitori del premier. Una condizione unica nel suo genere che si è verificata soltanto nella Francia di De Gaulle. L’altro elemento fondamentale è che si aprirebbe una condizione di delegittimazione del nostro sistema parlamentare di pesi e contrappesi, distrutto, un po’ per colpa di tutti. Affidando tutto alla pronuncia populista dell’elettorato». Le manifestazioni di piazza del 5 dicembre, pro e contro Berlusconi, non fanno certamente stare tranquilli e sono le conseguenze di «un certo comportamento irresponsabile della magistratura, di certi atteggiamenti leggeri da parte di istituzioni che non ritenuto opportuno mantenere sotto controllo i conflitti. E tutto questo si trasferisce nello scontro di piazza che va benissimo per Di Pietro e il suo modo irresponsabile di fare politica, ma a un Paese come il nostro non penso che faccia bene. Ogni azione provoca una reazione e non ci si potrà lamentare se all’interno del Pdl i pasdaran acquistano sempre maggiori poteri e sono sempre più numerosi». In una situazione del genere anche lo stesso Berlusconi ha escluso il ricorso a elezioni anticipate, ma esiste un’al-
Sconfessata la presa di posizione di Schifani sulle elezioni
Napolitano e Letta frenano Berlusconi
Nota ufficiale del premier: «Mai pensato al voto anticipato: solo dialettica interna» di Francesco Capozza
ROMA. Alla fine è intervenuto lui, Silvio definire quelle del presidente del SenaBerlusconi, in silenzio stampa da due settimane, a tentare di chiudere le polemiche. «Mai pensato ad elezioni anticipate», e ancora: «il nostro impegno è a governare per cinque anni e il 60 per cento degli italiani è con noi». Snocciola sondaggi - tanto per cambiare - il presidente del Consiglio. Elezioni anticipate sì, elezioni anticipate no. È questo il tema che avvince molti esponenti del centrodestra, coinvolgendo addirittura le più alte cariche dello Stato e imbarazzando, e ci mancherebbe altro, il presidente della Repubblica in visita ufficiale in Turchia. «La maggioranza è solida, al di là di una dialettica interna, che comunque ne accentua le capacità ideative» dice il premier, aggiungendo che «completeremo le riforme». Berlusconi ha riacquistato il dono della parola per sementire il presidente del Senato, Renato Schifani che aveva parlato apertamente di elezioni.
Perché il premier non poteva non sapere che il“suo”uomo sul più alto scranno di palazzo Madama avrebbe pronunciato quelle parole. Per alcuni, anzi, Schifani sarebbe stato nient’altro che il megafono di Berlusconi e proprio questo avrebbe spinto il capo dello Stato a
to come «valutazioni strettamente politiche». Di più, fonti autorevoli del seguito quirinalizio confermano che Giorgio Napolitano, raggiunto ad Ankara dalla notizia della dichiarazione di Schifani, sarebbe stato «stupefatto», per alcuni addirittura «sconcertato». Sconcerto amplificato dal fatto che in questo momento, come ha ricordato ieri il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, le parole di Schifani rappresentano «un’anomalia istituzionale» perché, come detta la Costituzione, in assenza del presidente della Repubblica l’inquilino di palazzo Madama svolge le funzioni di “supplenza”. Insomma, Schifani, che temporaneamente ricopre la massima autorità della Repubblica, manda un messaggio politico – neppure troppo velato – su suggerimento, o quanto meno in accordo, con il presidente del Consiglio, ad alcuni esponenti della maggioranza, in particolare al suo omologo a Montecitorio, quel Gianfranco Fini che da tempo non manca occasione di far irritare il premier. Un bel pasticcio istituzionale che per uno come Casini, che presidente della Camera è stato, altro non è che uno sgarbo istituzionale nei confronti del capo dello Stato. E questo è il nocciolo della questione: perché
prima pagina come si dice a via dell’Umiltà – tra le molte cose che si dicono – si pensasse, nel caso di scioglimento anticipato delle Camere, di celebrare le elezioni regionali insieme alle politiche? «In questo caso, secondo Ricolfi, le cose cambierebbero molto. Ma se scegliesse questa via il centrodestra deve rompere gli indugi molto presto e andare a elezioni. Il centrodestra è più forte nelle elezioni politiche rispetto alle amministrative, avrebbe molte possibilità di vincere». Ma stiamo parlando di convenienza immediata, di convenienza elettorale. Non è questo però l‘obiettivo di Berlusconi, o almeno l’unico, quello cioè di rafforzare il suo consenso. Certo, con le elezioni il premier ridimensionerebbe il problema che per lui oggi costituisce Fini con la sua fronda interna. Ma dal punto di vista giudiziario cambierebbe poco. Si troverebbe sempre a far passare il disegno di legge sul processo breve e superare il vaglio della presidenza della Repubblica.
Berlusconi si è preso la briga di smentire il presidente del Senato? Cosa è accaduto ieri che ha spinto il premier a fare una brusca retromarcia e dipingere la sua maggioranza come fosse la casa del Mulino Bianco, dove la serenità regna sovrana?
Le versioni che circolavano insistentemente ieri pomeriggio tra i commentatori sono principalmente due. Da una parte c’è chi scommette sul fatto che Gianni Letta, ombra e consigliere fidato del premier abbia puntato i piedi e minacciato, nel vero senso della parola, di sbattere la porta e lasciarsi alle spalle 15 anni di grattacapi. Dall’altra, che secondo una fonte autorevole dell’esecutivo sarebbe quella più plausibile, nella mattinata di ieri lo stesso Letta avrebbe ricevuto una telefonata da Ankara: dall’altro capo della cornetta, Giorgio Napolitano. A dare questa versione dei fatti è, come si diceva, un membro del governo, pure abbastanza vicino al presidente del Consiglio. «Ieri mattina il presidente della Repubblica ha chiamato Gianni Letta e ha chiesto una presa di posizione ufficiale da palazzo Chigi sulla polemica riguardante l’eventualità di elezioni anticipate» ci ha detto il ministro in questione, che ha aggiunto: «È del tutto evidente che da parte del presidente del Consiglio si è resa necessario un intervento sia per svelenire il clima degli ultimi giorni, sia per non alimentare ulteriormente le voci sulla presunta freddezza nei rapporti con Napolitano». Freddezza, aggiungiamo noi, che tanto presunta non è dato che la scorsa settimana il premier e il capo dello Stato, riuniti allo stesso tavolo al Quirinale con i vertici del consiglio supremo di Difesa, non si sono rivolti parola. E ancor meno presunta appare se ha spinto Berlusconi a rompere il silenzio che si era ripromesso di mantenere al meno fino a venerdì, dopo il vertice che potrebbe mandare Massimo D’Alema a Bruxelles.
ternativa per superare questa situazione di stallo e di scontro, soprattutto all’interno della maggioranza? Secondo il professor Pombeni l’unica strada possibile sarebbe «un governo istituzionale di pacificazione a cui bisognerebbe dare due anni di tempo per fare le riforme importanti, quella della giustizia e la legge elettorale su tutte. Vanno eliminati sia il potere dei partiti di nominare i parlamentari sia il premio di maggioranza, una sorta di forzatura estrema al sistema. A quel punto, con un clima svelenito, si potrebbe andare a una verifica elettorale seria. Ma in questo momento mi sembra molto difficile che possa verificarsi un’ipotesi simile».
Ricolfi conviene con questa riflessione e come via d’uscita diversa dal voto anticipato, a cui Berlusconi ieri ha detto di non aver mai pensato, immagina un’altra ipotesi. Più corretta. «Un modo più pulito di uscire dall’impasse sarebbe, secondo Ricolfi, quello di pensare a un lodo Alfano per via costituzionale che potrebbe essere fatto camminare grazie a un’alleanza con Casini». Una mossa che secondo il sociologo, volendo ragionare all’interno delle logiche della maggioranza, ridurebbe oggettivamente il potere di veto di Fini se queste sono le intenzioni di Berlusconi. Una via d’uscita istituzionale dunque. Come Ricolfi ha già detto «se fosse passato il Lodo Alfano l’unico effetto tangibile sarebbe stata la non procedibilità del presidente del Consiglio». Con il “processo breve” è diverso. «La sfida di Berlusconi alla Giustizia fa un salto di qualità. Perché se passerà questo disegno di legge sul processo breve che è stato presentato verrà arrecato ulteriore danno alla macchina della giustizia» .
LUCA RICOLFI
GIOVANNI SABBATUCCI
Un Lodo costituzionale subito
Una tregua tra Fini e Berlusconi
Le elezioni non lo salvano, meglio seguire Casini
Un governo tecnico produrrebbe nuove tensioni
e convengono a Berlusconi le elezioni anticipate? «Beh dipende – ragiona il sociologo Luca Ricolfi sentito da liberal sul dilemma “voto si voto no” che sta impegnando le giornate dello stato maggiore del Pdl. «Le previsioni che si fanno su un tracollo del Pd alle prossime regionali sono dubbie. Io ho l’impressione, confermata anche da dati che non sono solo impressioni, che invece la sinistra andrà bene, il centrodestra no. Per questo domandarsi se a Berlusconi convenga andare ad elezioni ora significa domandarsi in quale momento scegliere di farlo. Dopo le regionali potrebbe non convenirgli più dal punto di vista elettorale». E se,
e elezioni anticipate potrebbero convenire a Silvio Berlusconi, anche se ritengo l’ipotesi improbabile». È questa l’opinione del politologo Giovanni Sabbatucci, dopo l’invito del presidente del Senato Renato Schifani per un ritorno alle urne nel caso in cui la maggioranza non dovesse ritrovare una sua unità. Secondo il professore «quando si disegnano questi possibili scenari futuri ci si dimentica il tipo di legge elettorale che abbiamo». Il nostro sistema, infatti, prevede un premio di maggioranza e, quindi «per vincere basta prendere un voto in più del secondo per ottenere il premio di maggioranza». Nel ca-
S
«L
19 novembre 2009 • pagina 5
so in cui partito del premier si sfasci e che Berlusconi vada alle urne con un partito tutto suo «l’unico antagonista sarebbe il Partito democratico che dovrebbe ottenere più voti del Pdl, seppur depurato dai dissidenti. Questa possibilità, sinceramente, mi sembra di difficile realizzazione. Per non parlare del ruolo del presidente della Repubblica e di tutte le procedure da adottare prima di giungere a nuove elezioni».
Se Berlusconi fosse tentato da questa strada, con questa legge elettorale, si arriverebbe, secondo il politologo «alla formazione di un Parlamento su misura del Cavaliere che, ovviamente sfrutterebbe l’altra caratteristica del sistema di voto, quello cioè di scegliere i futuri parlamentari. Siccome Berlusconi è un giocatore potrebbe essere tentato dal correre questo rischio e trovare una qualche convenienza. Per lui, ovviamente, non per il Paese. Sarebbe un azzardo, ma potrebbe riuscire». Uno scenario sicuramente non edificante, «anzi scandaloso. Con una maggioranza che si auto affonda per poi ricostruirsi a uso e consumo del premier». Tutto questo chiaramente metterebbe Berlusconi nella condizione di poter gestire ogni cosa a suo piacimento e l’Italia sarebbe «affidata esclusivamente alla sua moderazione e al suo controllo», osserva Sabbatucci. In quest’ottica ci sarebbe il pericolo di uno scontro istituzionale. Anche se la mossa successiva comporterebbe un redde rationem tra il premier e la magistratura. «Lo scopo principale dell’operazione, è senza dubbio questo, mi sembra altrettanto grave che sia la maggioranza a volere il ritorno alle urne, senza verificare l’esistenza di un’alternativa parlamentare. Se ciò accadesse si riproporrebbe una situazione simile a quella dell’inizio del ’95, ma molto più accentuata dal difficile ruolo del Capo dello Stato, dalle accuse di ribaltone e da tutte le polemiche che ne conseguirebbero». L’alternativa di un governo tecnico o istituzionale non è «una soluzione facile da realizzare, anche perché bisognerebbe prima accertare l’esistenza di una maggioranza disposta ad appoggiarla. Il fatto stesso che la si cerchi piuttosto che andare subito alle urne, sarà fonte di tensioni come ai tempi di Scalfaro. Tensioni che aumenterebbero nel momento in cui un governo del genere pensasse a una modifica della legge elettorale. Potrebbe essere auspicabile trovare una forma di accomodamento all’interno della maggioranza, senza arrivare alla soluzione estrema del ritorno al voto che presenta rischi per Berlusconi, ma soprattutto per gli altri». In un clima del genere si paventa il rischio di scontri di piazza, dopo la chiamata in campo da una parte dell’Italia dei Valori e dall’altra dai fedelissimi berlusconiani per il prossimo 5 dicembre, ma il professor Sabbatucci è meno preoccupato «non mi sembra che ci siano truppe organizzate. Tra i manifestanti ci sono gruppi di estrema sinistra che si muovono anche a prescindere dagli altri partiti. Al momento la situazione non mi sembri desti allarme, ma in questi frangenti le cose possono modificarsi».
diario
pagina 6 • 19 novembre 2009
Il caso. Secondo il Tribunale Supremo il terrorista può tornare in Italia. Ma occorre ancora un pronunciamento
Battisti, sì all’estradizione
Via libera dai giudici brasiliani. Ora la parola al presidente Lula ROMA. Applausi in aula, alla Camera dei deputati, alla notizia del “via libera”brasiliano all’estradizione di Cesare Battisti. A comunicarlo ai colleghi, il deputato Pdl Massimo Corsaro, al termine di una giornata frenetica in cui si sono rincorse voci e indiscrezioni. Alla fine, però, la buona notizia è arrivata: il Tribunale Federale Supremo del Brasile ha dato parere positivo (per cinque voti contro quattro) all’estradizione verso l’Italia di Cesare Battisti, condannato in Italia a quattro ergastoli e attualmente in sciopero della fame. Il voto decisivo è stato quello del presidente dell’Alta Corte, Gilmar Mendes. «Dò il mio voto per l’estradizione», ha detto Mendes prima di sospendere la seduta per un intervallo, «Non si può attribuire ai fatti di sangue commessi in forma premeditata lo stesso carattere di un reato politico». La decisione del tribunale non farà partire automaticamente Battisti per l’Italia. Dopo l’intervallo i giudici hanno infatti discutere se la competenza per la concessione dello status di rifugiato politico è esclusiva dell’esecutivo oppure se l’ultima parola spetti ai giudici. Una decisione che dovrebbe essere arrivata ieri notte (ora italiana).
L’affaire Battisti ha avuto come epicentro la Francia. È lì che il terrorista si rifugiò, scappando dal nostro paese dove aveva commesso ogni sorta di crimine: fra cui quattro omicidi, in due dei quali fu lui a sparare alla vittima, rapine, banda arma-
Antonio Santoro ad Udine nel 1978 e Andrea Campagna a Milano nel 1979. Fece invece da palo nell’omicidio del macellaio di Mestre, Lino Sabbadini. Per il quarto assassinio, quello di Pierluigi Torregiani in cui rimase gravemente ferito e ridotto a vivere in carrozzella anche il figlio di quest’ultimo, fu condan-
Decisivo il voto del giudice Mendes: «Non si può attribuire ai fatti di sangue premeditati lo stesso carattere di un reato politico» ta e altro. Mentre in Italia veniva condannato all’ergastolo, a Parigi era accolto, in nome della dottrina Mitterrand, che dava ospitalità ai terroristi pentiti. La scelte che fece l’ex presidente socialista francese si poggiavano su un presupposto sbagliato e cioè che in Italia negli anni di piombo si fossero svolti processi senza garanzie. È questa un’ipotesi persino insultante nei confronti di un paese dove il terrorismo ha fatto 349 morti e 750 feriti. Quanto al processo a Battisti, le sentenze sono state confermate da tre gradi di giudizio. Riguardano crimini fra i più odiosi. Ha ucciso direttamente sparandogli in testa e alle spalle due agenti di custodia:
è stato scritto da un giornalista francese, Guillaume Perrault un libro dal titolo: Generation Battisti. Come un turista della politica, l’autore si avventura fra i luoghi comuni sorti e alimentati intorno alla figura di un crudele assassino: si parla del tutto a sproposito di “affaire Dreyfus” e si arriva a citare il Jean Valjean dei Miserabili. Una mistura di mitologie e di leggende difficile da trangugiare.
di Gabriella Mecucci
nato per esserne coideatore e coorganizzatore. Gli ultimi due furono uccisi perché avevano reagito durante una rapina.
Il gruppo di Battisti, “Proletari armati per il comunismo”, teorizzava e praticava l’omicidio politico come metodo di lotta. Eppure, incredibile a dirsi, un simile criminale ha trovato in Francia difensori eccellenti fra i migliori intellettuali di sinistra: valga per tutti il nome di Bernard Henri Levy che ha persino sostenuto di leggere nei libri di Battisti – nel frattempo diventato scrittore – il suo pentimento. Il terrorista italiano è diventato un autentico fenomeno, tanto che
La storia giudiziaria del latitante
Rapine, omicidi, evasioni In Italia Cesare Battisti è stato condannato come responsabile di quattro omicidi: tre come concorrente nell’esecuzione, uno coideato ed eseguito da altri. Il primo è quello di Antonio Santoro (6 giugno 1978), maresciallo della Polizia penitenziaria, di cui fu accusato dal pentito Pietro Mutti che poi si assunse la responsabilità diretta dell’azione. Il secondo è quello del macellaio di Mestre Lino Sabbadini (16 febbraio 1979): Battisti fece da “copertura armata” all’esecutore materiale Diego Giacomin. Sabbadin si era opposto con le armi al tentativo di rapina del suo esercizio commerciale. Poi, sempre il 16 febbraio 1979 a Milano, Battisti è stato il co-ideatore e co-organizzatore dell’omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani, nel quale venne coinvolto anche suo figlio Alberto, che da quel giorno vive paralizzato su una sedia a rotelle. Infine l’assassinio di Andrea Cam-
pagna (19 aprile 1979), agente della Digos. Battisti è stato condannato come esecutore materiale dell’omicidio. Nel 1979 Battisti viene arrestato nell’ambito di un’operazione antiterrorismo di vaste proporzioni e detenuto nel carcere di Frosinone, ma il 4 ottobre 1981 riesce ad evadere e a fuggire in Francia. Durante la clandestinità parigina conosce la futura moglie, con la quale si trasferisce in Messico. Durante la sua latitanza, i giudici italiani lo condannarono in contumacia all’ergastolo perché giudicato responsabile dei quattro omicidi e di varie rapine. Nel 1990, torna a parigi e inizia l’attività di scrittore. Nell’aprile 1991 Parigi lo dichiara non estradabile, ma la magistratura italiana richiede nuovamente l’estradizione nel 2004, che stavolta viene concessa. Battisti lascia allora la Francia. Viene arrestato a Copacabana, in Brasile, il 18 marzo 2007.
La verità è che la difesa di Battisti deriva da una questione corporativa: ha scritto 12 bei libri, è diventato un intellò e quindi merita di vivere tranquillo e in pace anche se ha ucciso. A questo va aggiunto che una parte importante dell’intellighentia di sinistra pecca di ignoranza e di arroganza; non conosce ciò che è avvenuto in Italia e ripete in modo stantio le storie raccontate dai terroristi latitanti, sbarcati a Parigi. Il sindaco della capitale – anche lui socialista – fece nel 2004 un gesto imperdonabile: mise il terrorista sotto la protezione della sua città, per non dire delle campagne a suo favore promosse dal quotidiano Le Monde dove l’unica verità che ha fatto testo è quella di Erri De Luca che ha spiegato ai radical chic francesi che Battisti fa parte «di una generazione di vinti». In realtà l’aver fatto il ’68 autorizza tanti francesi – da loro in realtà non ci furono i morti per terrorismo – a sentirsi il sale della terra. Ha scritto l’ex ambasciatore in Italia Gilles Martinet: «Non potendo fare la rivoluzione nel proprio Paese, si continua a sognarla altrove. Si vuol continuare a mostrare di non aver abbandonato gli ideali della giovinezza e si arriva così a questo abbaglio colossale». Queste campagne di opinione hanno completamente distorto il caso in questione preparando il terreno fertile a ciò che sarebbe accaduto nel 2004 quando il governo Berlusconi chiese l’estradizione del terrorista. La magistratura d’Oltralpe lo lasciò libero consentendogli così di scappare e di arrivare in Brasile. Anche qui il pluriomicida ha trovato una pletora di difensori e la locale magistratura gli ha bonariamente concesso la patente di “rifugiato politico”. L’Italia - sia col governo di centrosinistra che con quello di centrodestra - non ha mai smesso di protestare. Ieri (forse) la decisione definitiva.
diario
19 novembre 2009 • pagina 7
Il Comune di Roma e Arcigay parti civili contro «Svastichella»
Ancora tensioni a Milano davanti al Palazzo di Giustizia
Aggredì due gay: chiesti 10 anni di reclusione
Già liberati i due studenti dell’Onda arrestati
ROMA. Dieci anni di reclusioni
MILANO. Matteo Tunesi e Giammarco Peterlongo, i due studenti ventenni arrestati martedì durante il corteo studentesco di Milano, sono stati liberati: dopo la richiesta avanzata dal pm dell’obbligo di firma per i due ragazzi, il giudice ha concluso l’udienza con una paternale e la speranza che la notte passata in questura sia valsa come esperienza. «Non volevano far male a nessuno», ha detto l’avvocato Mirko Mazzali che difende i due ragazzi: sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Uno ha dato un calcio a un agente, l’altro un pugno: per il poliziotto, sette giorni di prognosi. «Non abbiamo fatto niente, abbiamo
per le accuse di tentativo di omicidio, lesioni aggravate e detenzione di arma impropria: è la richiesta di condanna fatta dal pubblico ministero Pietro Pollidori per Alessandro Sardelli, soprannominato «Svastichella» che il 22 agosto scorso davanti al «Gay Villane» all’Eur, aggredì una coppia di giovani ferendone gravemente uno che rischiò anche di morire. La richiesta è stata fatta al termine di un’udienza davanti al gup dottoressa Rosalba Liso che ha ammesso come parti civili nei confronti di Sardelli il Comune di Roma e l’Arcigay. Il processo proseguirà il 25 novembre prossimo con l’intervento degli avvocati di parte civile per conto del Comune e dell’Arcigay e del difensore. Il fatto, come si è detto, accadde la sera del 22 agosto scorso e suscitò molto scalpore in tutto il mondo perché dava il segno definitivo di uno slittamento di romana verso l’intolleranza omofoba. «Svastichella», arrestato dai carabinieri, sostenne di essere stato aggredito dalla coppia di gay. Ci fu anche un lancio di bottiglie e Sardelli con un frammento di vetro, ferì gravemente Pino G. che, ricoverato in ospedale, rimase degente per lungo tempo. Ieri, nel corso dell’udienza, il difensore di «Sva-
Dalla Sicilia a Milano, operai Fiat in piazza I lavoratori protestano contro il ridimensionamento di Francesco Pacifico
ROMA. I successi americani di Sergio Marchionne non scaldano i cuori delle tute blu italiane. Ieri, a Termine Imerese, 200 operai di Fiat hanno occupato la sede del comune siciliano. Chiedono l’intervento del ministro Claudio Scajola, sperano di salvare 2mila posti di lavoro (in 1.300 sono in cassa integrazione da questa settimana) e la produzione della Lancia Y a Gpl, che Torino vuole mandare in pensione nel 2011.
Nelle stesse ore, a Milano, uno sparuto gruppo di dipendenti dell’Alfa di Arese – per lo più gli autonomi di Cobas e Cub, visto che i sindacati maggiori da tempo considerano persa la battaglia – ha salutato con un presidio davanti alla sede di Assolombarda l’abbandono da parte del Biscione del suo storico stabilimento. In un tentativo disperato, hanno incontrato una delegazione del Lingotto per salvare l’ultimo pezzo di Alfa lasciata in Lombardia: il centro stile e progettazione che con 232 lavoratori è destinato a trasferirsi a Mirafiori. La risposta è stata un no. Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre Sergio Marchionne dovrebbe presentare ai sindacati e al governo il suo piano sulla produzione di Fiat in Italia. Di fronte a numeri già oggi contenuti – tra Mirafiori, Cassino, Pomigliano d’Arco e Termini Imerese non si sfornano più di 460mila vetture all’anno – sono in molti a temere un ripiegamento del Lingotto, sempre più rivolto all’America. E non si cambierà idea neppure di fronte alla riconferma degli incentivi per la rottamazione. Così gli occhi di politici e sindacalisti sono rivolti verso Termini Imerese, che Marchionne ha già fatto sapere di non considerare centrale. Ma se ad Arese si registra un processo doloroso in corso da 15 anni, il futuro dello stabilimento siciliano potrebbe avere effetti devastanti in una delle Regioni più povere d’Italia. Sì, perché accanto a 1.400 operai e 600 amministrativi dell’azienda del Lingotto ci sono altri 400 dipendenti dell’indotto e una serie di progetti infrastrutturali – l’autostrada e il por-
to – che potrebbero far diventare quest’area della provincia di Palermo una importante piattaforma logistica. Nota Gianni Rinaldini, leader dei metalmeccanici della Fiom: «Le manifestazioni sono legate dai segnali di crisi lanciati da Fiat e dalle iniziative unilaterali assunte dalla stessa azienda che mettono in forse il destino di un numero crescente di stabilimenti. Per questo è sempre più evidente l’assoluta urgenza di un incontro convocato dal governo con l’azienda e i sindacati». Gli fa eco Giuseppe Farina, segretario generale delle tute blu della Fim: «Non si capisce perché Fiat, esportando il suo know how in tutto il mondo, conquisti una delle tre sorelle di Detroit e poi non voglia rilanciare la partita in Italia». Ieri mattina, e in maniera pacifica, 200 dipendenti di Termini ha marciato verso il comune della località palermitana. Una volta qui, per «sottolineare l’assenza della politica», hanno eletto un proprio sindaco. Il “fortunato”è stato Michele Russo, 34 anni, dal 1999 operaio della Bn Sud. Che munito anche di fascia tricolore di ordinanza, ha arringato la folla e i giornalisti con un emblematico «qui il problema è tutto politico». Quindi ha chiesto un incontro con Scajola e con il locale vicesindaco, quel Gianfranco Micciché che a Roma è sottosegretario con delega al Cipe.
I lavoratori di Termini Imerese hanno occupato la sede del comune. Proprio questa fabbrica è nel mirino di Marchionne
stichella» Riccardo Radi ha negato che il suo cliente abbia agito per motivi di discriminazione ribadendo che Sardelli reagì a un’aggressione.
Grande soddisfazione nella comunità gay, intanto è stata espressa perché il Tribunale ha accolto la richiesta di costituzione di parte civile di Arcigay Roma: «È la prima volta che questo avviene in Italia: un passo storico per le associazioni e la comunità lesbica, gay e trans. Sardelli ha chiesto scusa e ha detto di essere amico dei gay. Queste parole per noi sono inutili perché si è smentito coi fatti», ha dichiarato il presidente di Arcigay Roma, Fabrizio Marrazzo.
In una nota i responsabili di Fim, Fiom e Uilm – Giovanni Scavuzzo, Roberto Mastrosimone e Vincenzo Comella – hanno spiegato: «Alla Fiat non chiediamo niente di più che il rispetto dell’accordo sottoscritto a Roma tra azienda e sindacati il 9 aprile del 2008». Si prevedevano l’assunzione di 250 persone, investimenti per 550 milioni con la garanzia che il 20 per cento arrivasse da fondi pubblici. Anche per l’Alfa le cose non sono andate diversamente. «La chiusura dell’Alfa», ricorda Corrado Delle Donne dello Slai-Cobas, «è uno sfregio anche perché la Fiat dopo aver incassato 2 mila miliardi per Arese a fondo perduto vuole chiudere tutto».
subìto una carica e ci siamo trovati in mezzo», hanno detto i due aggiungendo di essere «dispiaciuti se qualcuno si è fatto male». Il processo proseguirà il prossimo 25 novembre. I due, che in passato hanno già avuto denunce per reati di ordine pubblico riguardo a manifestazioni non autorizzate, sono usciti dal Palazzo di giustizia di Milano accolti da fumogeni, applausi e abbracci degli oltre 300 studenti che dalle 9 di mattina erano in sitin davanti il tribunale.
Dura la reazione del vice sindaco e assessore alla Sicurezza Riccardo De Corato: «Non avevamo dubbi che i due studenti arrestati sarebbero stati subito liberati. Nonostante i precedenti penali degli accusati, i poliziotti picchiati e l’interruzione di pubblico servizio. Una prassi, quella della scarcerazione facile e dei processi fissati a distanza, che accomuna il trattamento degli affiliati ai centri sociali ai clandestini, puntualmente rimessi in libertà. Sistema che finisce per rendere più difficile la tutela dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine. Che paradossalmente saranno messe sotto accusa, nel classico stravolgimento e deformazione della realtà cui siamo da tempo abituati».
politica
pagina 8 • 19 novembre 2009
Paradossi. Censure agli ex An che vogliono integrare gli immigrati, silenzio su un comune del Bresciano che li espelle al grido di “White Christmas”
La guerra Bossi-Fini La maggioranza litiga sul voto agli stranieri Verso il no alla richiesta d’arresto per Cosentino di Errico Novi
ROMA. C’è una scala di valori chiara, a questo punto, nella maggioranza: è più grave avere un permesso di soggiorno in scadenza che truffare i risparmiatori per quattordici miliardi di euro come hanno fatto gli amministratori di Parmalat, in odore di amnistia grazie al processo breve. Non si può sopportare un immigrato con i documenti non in regola, ma si possono far passare come «fumone di persecuzione» le accuse di collusioni camorristiche a Nicola Cosentino. Così è andata ieri: prima il relatore Antonino Lo Presti (ex An) ha suggerito ai colleghi della giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera di respingere la richiesta d’arresto per il sottosegretario; quindi Umberto Bossi («gli immigrati devono essere mandati a casa loro, non c’è lavoro nemmeno per noi»), ma anche Sandro Bondi e Fabrizio Cicchitto, hanno censurato due deputati finiani del Pdl per aver firmato una proposta di legge sul voto agli stranieri insieme con l’opposizione. E riguardo alla seconda delle due questioni, nessun graduato della maggioranza ha sprecato una sillaba per il più vergognoso degli atti compiuti negli ultimi tempi da propri esponenti: l’iniziativa avviata da un comune del Bresciano, Cocca-
glio, per sottoporre a controlli a tappeto gli extracomunitari del paesino, verificare la regolarità dei loro documenti e ritirare la residenza a tutti quelli che dovessero risultare con il permesso scaduto, tutto accompagnato dalla sconcertante scelta di assegnare all’operazione il nome “White Christmas”.
È l’uso dell’aggettivo white a suscitare indignazione non solo nella presidente democratica
cana». E forse si potrebbe dire di peggio, evocare cappucci bianchi o movimenti neonazisti della Gran Bretagna, perché l’uso dell’aggettivo bianco, declinato in inglese, sembra alludere proprio a una caccia allo straniero, rappresentato metonimicamente, e barbaramente, come un uomo di colore. Farefuturo webmagazine se la cava in modo più che diplomatico, intravede con dotta benevolenza l’evocazione dell’America «profonda e prote-
Il Senatùr: «I clandestini vadano a casa». Il presidente della Camera: «Non è con gli anatemi che si risolve il problema». Pdl e Lega pronti ad “assolvere” il sottosegretario: voto in giunta il 25 Rosy Bindi, che parla di «strumentalizzazione del Natale» e «offesa per la cultura cristiana», ma anche nei laicissimi animatori di Fare futuro. Sulla rivista online della fondazione finiana ci si rivolge ai leghisti («giù le mani dal Natale») e si fa notare che «lo spirito di questa iniziativa, al di là della sua legittimità legislativa, fa discutere per l’appropriazione e la motivazione di una presunta difesa dell’identità» che nel caso specifico «non è né religiosa né culturale», ma ricorda «la cultura wasp ameri-
stante» alla quale «volentieri contrapponiamo quella di Frank Capra e del suo La vita è meravigliosa». Certo il think tank finiano non può trattenersi dall’osservare che «l’idea di cacciare gli immigrati nel giorno di Natale da un anonimo paesino del Bresciano di nome Coccaglio con un’operazione chiamata per giunta “White Christmas” è (per usare un eufemismo) un’offesa al gusto e alla sensibilità dei cristiani. Ma soprattutto un’insopportabile speculazione sul significato del Natale».
L’incredibile sottovalutazione del caso colpisce se confrontata alla sollecitudine con cui Bondi e Cicchitto richiamano all’ordine la deputata e direttrice del Secolo d’Italia Flavia Perina e il collega Fabio Granata, entrambi finiani ed entrambi colti sul fatto: sottoscrivono una proposta di legge che porta anche la firma di Walter Veltroni con cui si vuole riconoscere il diritto di voto alle elezioni comunali agli stranieri regolarmente residenti in Italia da oltre cinque anni. I due parlamentari ex An hanno per giunta la colpa di partecipare alla conferenza stampa di presentazione del testo non solo con l’ex segretario del Pd ma anche con un esponente dell’Italia dei valori, Leoluca Orlando, e uno dell’Udc, Robero Rao. Nel Pdl è scandalo,
con il capogruppo che chiede più disciplina interna (ma non risparmia una stoccatina ai triumviri di via dell’Umiltà, che avevano promesso una riunione sul tema proprio per evitare dissonanze) e il coordinatore Bondi che punta l’indice contro «la saldatura, innanzitutto sul piano culturale tra la sinistra e alcuni esponenti della destra italiana provenienti dalla storia del Msi e poi di An».
Gianfranco Fini rivolge la propria risposta innanzitutto a Bossi e agli esponenti della maggioranza (non solo leghisti ma anche berlusconiani come Deborah Bergamini e Isabella Bertolini) che gli fanno da coro nel deplorare la proposta sul voto amministrativo: «Ci può essere un anatema, una battuta liquidato-
Con un candidato espresso dai lumbàrd alle Regionali, il centrodestra perderebbe l’appoggio dell’Udc
Carroccio in ritirata, in Piemonte avanza Ghigo di Valentina Sisti
MILANO. Da qualche giorno in Piemonte circola uno strano manifesto: l’ex governatore Enzo Ghigo, candidato in pectore per il Pdl, che mette una mano sulla spalla del più giovane Roberto Cota, che dalla Lega è stato indicato ancor prima per la presidenza. Sopra i simboli dei due partiti, uno accanto all’altro, la scritta: «In sinergia con il governo, Piemonte più forte». Un chiaro segnale che sembra fare piazza pulita di qualsiasi altra ipotesi di candidatura nel centrodestra, come quella del sottosegretario azzurro Guido Cro-
setto, che si è ufficialmente tirato indietro con un un’intervista a La Stampa, e di Osvaldo Napoli, ex deputato del Pdl, sindaco di Valgioie dallo scorso luglio. Ma se ufficialmente vuol apparire come una disponibilità da parte dei partiti della maggioranza a sostenersi a vicenda, in attesa che gli equilibri romani facciano chiarezza, in realtà in molti sono convinti che il vero segnale sia destinato agli elettori del Carroccio.
Come a dire: fatevene una ragione, perché la Lega in Pie-
monte difficilmente vince (come confermano recenti sondaggi). «Le richieste del Carroccio sono assolutamente legittime – spiega l’ex governatore – se la scelta dovesse cadere su un candiato leghista siamo pronti a sostenerlo». C’è poi c’è la variabile Udc e Ghigo, dei due, che ha incontrato i centristi lunedì scorso, è l’unico con delle chance per poter chiudere un accordo che rischia di essere decisivo. «C’è un rapporto consolidato in dieci anni di governo in Piemonte - continua il senatore torinese -. Anche se, emerge più
che altro da parte dell’Udc ad allearsi con il centrosinistra». Le uscite, infatti, di Mercedes Bresso sull’Udc e le infiltrazioni mafiose hanno ulteriormente pregiudicato i rapporti con l’attuale giunta.
«Allusioni vergognose», le aveva definite Pier Ferdinando Casini, che non aveva escluso a dire il vero un’alleanza con il centrosinistra proprio in Piemonte, a patto però di una discontinuità che vedesse cadere l’indicazione sull’attuale sindaco di Torino Sergio Chiampari-
politica
19 novembre 2009 • pagina 9
Passa la fiducia al testo. Ma il governo è battuto in sette ordini del giorno
Acqua, il monopolio diventa privato di Francesco Pacifico Roma. I distinguo della Lega si sono risolti in un ordine del giorno. «Non si muore per una legge. Si muore se cade il governo», ha chiarito Umberto Bossi. E così, forse anche per non scontentare Silvio Berlusconi presente in aula, la maggioranza ha approvato la fiducia sul decreto degli obblighi comunitaria. Quello che, tra gli altri provvedimenti, dà una decisa accelerata alla liberalizzazione della distribuzione dell’acqua.
ria, “sì, lasciamoli a casa loro”, ma non risolve il problema». E se il presidente della Camera evita di riattizzare più di tanto il fuoco, la concomitanza della polemica sulla proposta di legge con il caso “White Christmas” scatena il putiferio tra le opposizioni: i senatori del Pd chiedono al ministro dell’Interno Roberto Maroni di venire in aula a riferire sulla vicenda, il capogruppo dell’Udc a Palazzo Madama Gianpiero D’Alia incalza: «È inaccettabile che il sindaco di Coccaglio inauguri la “caccia al clandestino” e usi frasi come “ripulire la città dagli extracomunitari”. Sono termini nazisti che riportano le nostre menti ai periodi più bui della storia dell’Europa. E la cosa piu’ vergognosa», aggiunge D’Alia. Fino al mo-
no. E proprio la questione Udc si potrebbe rivelare decisiva per sciogliere il nodo sulle candidature. La scelta di un candidato leghista, infatti, farebbe cadere del tutto, ogni speranza di alleanza in questa direzione, spingendo definitivamente i centristi verso una corsa solitaria con Michele Vietti.
«I rapporti tra Ghigo e il sottosegretario però non sono dei migliori», confida una voce autorevole del Pdl piemontese. Ma è difficile una decisione sul Piemonte che prescinda da una valutazione che andranno fatte in tutto il Nord. Certo, l’Udc è alleata con il Pdl in Veneto e Lombardia da tempo, anche se è chiaro a tutti che in queste Regionali la Lega non accetterà ruoli da comprimaria. «Ghigo sa che c’è un interesse del Pdl e
mento di mandare in stampa questo giornale non risultano risposte dal Viminale. In compenso Bossi se la prende con il «garantismo a corrente alternata» di Italo Bocchino sulle dimissioni di Cosentino. A parte il botta e risposta tra i due dirigenti del Pdl, il «fumone di persecuzione» evocato dal sottosegretario, che dice di «restare candidato», e il disinteresse sulla sua sorte procamato da Berlusconi («non me ne voglio interessare»), va registrata l’ennesima mozione di sfiducia presentata contro Cosentino dal Pd e i tempi stretti per il voto della giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, fissato per il 25 novembre. In aula si voterà il 10 dicembre, un mese esatto dopo l’arrivo della richiesta dal Tribunale di Napoli.
di Berlusconi a tirar dentro l’Udc – dice il deputato del Pdl (area An) Marco Zacchera, che è anche sindaco di Verbania - e la scelta potrebbe cadere su di lui anche perché porti a termine con successo questa marcia di riavvicinamento». A far pendere la bilancia a favore di Ghigo c’è anche il fatto che è stato per anni un dirigente di PublitaliaFininvest e Silvio Berlusconi ha sempre privilegiato chi è legato a lui da un rapporto personale e “prepolitico”. Ma a non aver sciolto le riserve è anche il Pd piemontese, ancora indeciso scelto tra Sergio Chiamparino e Mercedes Bresso. Insomma, tutti a studiare come agganciare l’Udc, ma non è per niente escluso che alla fine anche in Piemonte i centristi possano scegliere la corsa solitaria.
Il ministro competente, quello alle Politiche europee Andrea Ronchi, fa sapere che «non siamo di fronte a una privatizzazione dell’acqua». Fatto sta che questo chiarimento non è bastato a evitare assenze nel centrodestra. Che pure ha blindato il testo con 320 voti a favore sui 342 a disposizione. Per non parlare di sette bocciature su altrettanti ordini del giorno. Un trend che ha spinto il leghista Brigandì a richiamare in aula i suoi colleghi e l’opposizione a gridare: «Vergongna!». Oggi Montecitorio convertità definitivamente il decreto, ma sono in pochi a credere che d’incanto cesseranno le proteste su una norma che non piace all’opposizione e ai sindacati, spaventa ambientalisti e consumatori, spacca la maggioranza. Quindi, potrebbe essere più breve di quanto si pensa il passaggio dalle proteste di piazza – ieri hanno incrociato le braccia gli operatori ecologici – alla carta bollata. Per ora l’unica certezza è che l’Italia fa un passo in avanti nella liberalizzazione della gestione dell’oro blu, iniziata nel 1997 con legge Galli. Il testo blindato ieri prevede che le gare ad evidenza pubblica diventano la regola per l’affidamento dei servizi da parte delle amministrazioni. Le gestioni in house cessano alla data del 31 dicembre 2010. E i consorzi misti possono mantenere i contratti stipulati fino alla scadenza soltanto cedendo ai privati il 40 per cento del capitale. Paletti meno stringenti per le quotate: hanno tre anni in più per adeguarsi, ma entro il 30 giugno 2015 devono far scendere la quota pubblica al 30 per cento. Ma la norma potrebbe rivelarsi meno efficace sul versante degli investimenti. Il garante Antitrust, Antonio Catricalà, dopo aver chiarito che «l’acqua rimarrà un bene pubblico ma il servizio finalmente viene liberalizzato», ha sottolineato che «rimane da chiarire chi sarà l’Autorità che verificherà e stabilirà standard qualitativi minimi essenziali e che vigilerà sulle tariffe». Sintetizza Maurizio Ronconi, responsabile nazionale enti locali dell’Udc: «Singolare e colpevole approvare con il voto di fiducia la privatizzazione delle gestione dell’acqua e rimandare invece l’istituzione di
una Authority di controllo». Intanto si guarda già al prossimo Milleproroghe come banco di prova per la tenuta della norma. E soprattutto si guarda alla Lega. Che aveva preso le distanze dal provvedimento con un perentorio «non può finire così un bene pubblico», pronunciato dal vicecapogruppo al Carroccio, Marco Reguzzoni. Ieri il suo diretto superiore, Roberto Cota, ha presentato un ordine del giorno, che nonostante il via libera del governo potrebbe creare problemi in sede comunitaria. Si legge infatti nel testo: «Il governo, nell’ambito dei regolamenti attuativi della riforma dei servizi pubblici locali consideri i casi in cui la gestione in house (e dunque con affidamento senza gara) dei servizi pubblici porta a risultati virtuosi visto che l’acqua, anche se la sua gestione viene liberalizzata, resta un bene pubblico, va garantito il diritto alla universalità e accessibilità del servizio». Affilano le armi anche le Regioni. Il governatore dell’Emilia Romagna, Vasco Errani, minaccia il ricorso alla Corte Costituzionale. «Ancora una volta», ha spiegato, «è venuta meno la leale collaborazione e il rispetto delle competenze. Siamo di fronte a una forzatura che non ci convince. La prossima settimana assumeremo, nel merito, una posizione nell’ambito della Conferenza delle Regioni». Sulle barricate anche i Verdi. Secondo il neo segretario Angelo Bonelli «l’unica strada percorribile contro la privatizzazione dell’acqua è quella del referendum. Già dalla manifestazione del 5 dicembre (il No B-day, ndr) cominceremo la raccolta delle pre-adesioni a sostegno delle raccolta firme per i referendum». Le associazioni sono già pronte a fare la loro parte. Anche Ciro Pesacane, presidente del Forum Ambientalista, si darà da fare alla manifestazione: «Siamo alla mercificazione totale, adesso i privati faranno profitti su una risorsa collettiva. Si va in controtendenza rispetto altri Paesi».
La Lega chiede di salvare gli affidamenti “in house” nei Comuni virtuosi. Le Regioni impugneranno la norma, mentre gli ambientalisti minacciano il referendum
Carlo Podda, potente leader degli statali della Cgil, sostiene che «privatizzare acqua e ciclo dei rifiuti è un favore alla criminalità organizzata. Serve una risposta energica e partecipata a chi, negando l’evidenza al Paese, sta svendendo il nostro welfare e la nostra salute». Il Codacons annuncia una stangata «per le famiglie italiane. In tre anni il rischio concreto è quello di un aumento medio del 30 per cento delle tariffe dell’acqua». Riduce le loro paure uno studio di Althesys Strategic Consultants. «Le carenze del settore idrico», si legge, «costano agli italiani fino a 110 miliardi di euro».
panorama
pagina 10 • 19 novembre 2009
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
I segreti del Molise Un’inchiesta sulla piccola casta l Molise. Avete presente? No, forse non l’avete ben presente. Vi fornisco qualche elemento per farvi capire subito. Dunque: è accettabile che una Regione di 320 mila abitanti investa milioni per avere sedi diplomatiche a Roma e Bruxelles? È accettabile che paghi un numero di dipendenti otto volte superiore, in proporzione, a quelli della Lombardia? È accettabile che i politici regionali siano retribuiti più del governatore di uno Stato americano? Ecco, forse adesso avete realizzato meglio che cos’è il Molise. È Il Regno del Molise come recita il titolo di un documentatissimo libro di Vinicio D’Ambrosio che non a caso gode della presentazione di Sergio Rizzo, autore con Gian Antonio Stella, del famoso libro La Casta. Il libro di Vinicio D’Ambrosio, pubblicato dalle Edizioni Il Chiostro di Benevento, passa in rassegna gli scandali e le inchieste giudiziarie dell’isola felice governata da Michele Iorio e della sua personale casta.
I
Il Molise è terra di primati. Per esempio, il numero più alto di dipendenti regionali: 2,79 ogni mille abitanti per il Molise, contro 0,39 della Lombardia, 0,59 del Veneto, 0,64 del Lazio e dell’Emilia Romagna. Totale: 981 dipendenti. Di questi, oltre 300 sono responsabili di ufficio: tutti, prima o poi, diventano capi ufficio. Spropositato il numero dei dirigenti. Un centinaio, più sei direttori generali. La Lombardia impiega 3 dirigenti ogni 100 mila abitanti, il Molise 27. Con un’indennità di risultato, ovvero un premio di produttività, che il Nucleo di valutazione concede nella misura massima praticamente a tutti, dai dirigenti generali in giù. In pratica, sono tutti bravissimi. Sono soltanto alcuni esempi e tantissimi altri se ne potrebbero fare. Come gli incarichi ai familiari, la lista sterminata dei consulenti, i consistenti aumenti degli stipendi e gli stipendi della giunta. Riportare numeri, dati, sprechi non si può perché andrebbe via lo spazio dell’articolo. Avete capito bene l’andazzo. Meglio fare una considerazione. Il libro di Vinicio D’Ambrosio è un concentrato di “qualunquismo e populismo”? In fondo, così vengono liquidati i libri che si prendono il fastidio di denunciare gli sprechi, gli abusi, il malaffare, il clientelismo innalzato a invincibile sistema politico. E dopo una lettura e una indignazione generale il libro passa e nessuno se ne ricorda più. Fino al prossimo libro, al prossimo scandalo e alla tragedia annunciata.
La grande inchiesta de Il Regno del Molise è, invece, un libro da leggere e consigliare per capire sempre meglio qual è la condizione politica e amministrativa del Mezzogiorno che non muta anche se cambiano i colori politici delle giunte regionali. Michele Iorio è un piccolo Antonio Bassolino: in entrambi i casi il potere è diventato un sistema che alimenta il potere e affossa la regione. Non è un caso se sia la Campania sia il Molise sono due regioni in declino che muoiono. Di troppa (pessima) politica.
Il futuro dei Popolari tra Stato e mercato Globalizzazione e ambiente al prossimo congresso del Ppe di Francesco D’Onofrio l Congresso del Partito popolare europeo – che si svolgerà a Bonn il 9 e 10 dicembre prossimi – affronterà in modo specifico il rapporto fra la tradizionale ispirazione del Ppe medesimo – l’economia sociale di mercato – e la crisi economica e finanziaria attuale, con particolare riferimento al cambiamento climatico.
I
Appare particolarmente significativo il fatto che nella sede solenne del suo Congresso, il Partito popolare europeo affronti direttamente il tema del rapporto tra la sua ispirazione tradizionale – l’economia sociale di mercato – con le decisioni – tutte ancora da prendere e non solo in sede europea – concernenti le soluzioni relative alla crisi economica e finanziaria in atto. Per quel che concerne il cambiamento climatico, il Congresso sarà chiamato formalmente a dare una sorta di ultimo avviso, in vista della Conferenza mondiale di Copenaghen sul cambiamento climatico medesimo.Qualora si consideri che durante tutto il percorso del processo di costruzione dell’integrazione europea – certamente durante la guerra fredda – l’economia sociale di mercato ha rappresentato una posizione culturale e politica del Partito popolare europeo contrapposta a quella – tendenzialmente più statalista – del Partito socialista europeo, è di tutta evidenza che il Congresso del Ppe dovrà affrontare proprio la sua specificità, concernente l’economia sociale di mercato alla luce delle sfide che la crisi economica e finanziaria in atto pone non solo all’Europa in quanto tale ma anche al mondo intero.
tica. Occorre pertanto rendere comprensibile il significato profondo del rapporto tra mercato e socialità da un lato, e tra capacità produttiva e cambiamento climatico dall’altro.
Non si tratta più dunque di una riproposizione quasi ritualistica del modello dell’economia sociale di mercato rispetto a modelli o tendenzialmente panstatualistici – come era quello sovietico – o comunque tendenti ad un compromesso tra Stato e mercato, nel quale lo Stato non si limitasse soltanto a porre regole di comportamento economico, ma fosse anche chiamato a gestire vere e proprie attività produttive e finanziarie. Pur avendo presente che il Partito popolare europeo ha rappresentato fino ad ora più una federazione di partiti nazionali che non un soggetto politico distinto da essi, è di tutta evidenza che il cammino che finalmente inizia con il trattato di Lisbona, definitivamente ratificato, apre una stagione culturalmente e politicamente nuova per lo stesso Partito popolare europeo. Vengono in esame – da questo punto di vista – le due questioni di fondo, rispetto alle quali il Ppe è chiamato ad operare una nuova sintesi tra l’ispirazione originaria dell’economia sociale di mercato, che aveva dato vita ad una sorta di equilibrio tra Stato e mercato definibile tendenzialmente liberista e la nuova sintesi che mette chiaramente in discussione proprio i compiti istituzionali dello Stato, inteso quale definitore di regole di comportamento e non più di gestore diretto della stessa politica sociale che ciascuno Stato finisce con l’adottare. Analoga questione viene posta ora in riferimento al cambiamento climatico.
Nel corso del meeting previsto a Bonn il 9 e 10 dicembre, il partito è chiamato a dare un contributo di idee per un modello sociale in grado di garantire l’uscita dalla crisi
Di questa ispirazione diventa pertanto particolarmente significativa la questione del cambiamento climatico per le sue evidenti connessioni con i diversi sistemi economici e sociali vigenti nei Paesi dell’Unione europea. Non si tratta pertanto di una sorta di rituale riproposizione di una identità specifica del Partito popolare europeo rispetto al Partito socialista europeo, perché non siamo più nel contesto della guerra fredda e, pertanto, il Ppe prende atto che l’economia sociale di mercato non è più l’elemento distintivo di una contrapposizione tra Ppe e Pse interna alla parte di Europa che aveva scelto l’Occidente, ma di un profilo identitario dell’intera Europa riunificata all’indomani della caduta del Muro di Berlino, e soprattutto all’indomani del collasso dell’Unione Sovie-
Il processo di globalizzazione sposta pertanto da una sorta di mini fronte europeo occidentale – all’interno del quale l’economia sociale di mercato fu vissuta soprattutto quale alternativa ad una visione accentuatamente statalista – al nuovo e più vasto fronte che in conseguenza della globalizzazione l’Europa che ha dato vita all’Unione europea deve vivere rispetto non solo al tradizionale alleato atlantico, ma anche ai nuovi protagonisti dell’economia mondiale, nessuno dei quali ha vissuto la contrapposizione tra Stato e mercato nei termini in cui questa contrapposizione ha segnato di sé lunghi secoli della storia europea.
panorama
19 novembre 2009 • pagina 11
La difficile strada del partito dell’ex pm verso le elezioni regionali. Tra il “fattore Grillo” e la rivolta della “casta Idv”
Di Pietro, panico da sondaggio Malumori interni e consensi in calo: l’Italia dei Valori rischia un ridimensionamento di Marco Palombi
ROMA. La realtà, per quanto sfuggente sia come categoria, possiede una sua intima coerenza. I fatti, cioè, sono spesso, nella loro concatenazione, necessari. Non si sa se Antonio Di Pietro condivida questa piccola fede nella - per così dire - razionalità del reale, eppure quello che oggi capita alla sua creatura, Italia dei Valori, non ne è altro che una dimostrazione: la pietra della realtà rotola a valle. L’ex pm, in questi giorni, è preoccupato: defezioni di dirigenti moderati, nuovi arrivi molto interessati e poco produttivi in termini di consenso, attacchi da quella parte di opinione pubblica su cui pensava di aver messo il cappello, guerra interna al partito tra gli “esagitati”modello De Magistris (o, anche meglio, Francesco Barbato) e “la casta”(tutti gli altri), sondaggi che cominciano a mostrare crepe dopo l’opa ostile sul Pd lanciata negli ultimi 12 mesi.
lisario, per la prima volta l’avevano attaccato a testa bassa per le continue contumelie che sono costretti a subire dal côté movimentista del partito. Non bastasse la rivolta dei quadri di Italia dei Valori, c’è da rilevare che pure gli“scontenti”, quelli che lamentano il non eccelso tasso di purezza del movimento, sono ormai, sul web come sul territorio, una vera categoria antropologica. Solo che, allergici come sono ai vecchi riti della politica, non conteranno
nulla al Congresso di febbraio: nessuno, per dire, s’era accorto che il tesseramento scade domani. De Magistris - presone atto e vista anche l’incazzatura della“casta” Idv, plasticamente consegnata da Donadi al Corsera - ha deciso di prendere la tessera e appoggiare addirittura la mozione Di Pietro. Solo il solito Barbato va dicendo in giro che presenterà un testo alternativo e chiede più tempo per far iscrivere i suoi sostenitori. In buona sostanza, l’uomo di Montenero di Bisaccia si ritroverà confermato leader con un plebiscito, ma da una platea divisa al suo interno fino all’odio reciproco. Fin quando può reggere un giocattolo congegnato in questo modo? Anche qui si deve tornare al caso Berlusconi. La risposta è: fin quando il consenso resterà alto. E qui si apre il problema che agita i sonni di Antonio Di Pietro, non a caso protagonista di un nuovo attivismo mediatico sui casi Cosentino ed ex Eutelia (la fabbrica romana che l’ex amministratore ha tentato di sgombrare illegalmente). I numeri degli ultimi rilevamenti infatti, quello commissionato dal nuovo Pd di Pierluigi Bersani e altri “informali”che in questi giorni hanno preso a girare nel Palazzo, danno Italia dei Valori in calo contenuto: tra il 5,8% e il 6,5% dipende dalle fonti. Poca roba si dirà, ma non è così. Intanto il trend è negativo - quindi si può pensare ad una ulteriore emorragia di voti nonostante la sini-
L’unico salvagente potrebbe essere quello berlusconiano, se davvero si andasse al voto anticipato in primavera
È l’inizio della fine di Italia dei Valori come soggetto politico di rilievo? In molti cominciano a pensare di sì, anche se - piccola avvertenza metodologica come dimostra il caso di Silvio Berlusconi i tramonti politici possono durare lunghissime stagioni (l’accostamento, peraltro, non è casuale). Cominciamo con le guerre intestine. Lunedì Di Pietro era parecchio abbacchiato: era accaduto che nell’esecutivo del partito i due capogruppo, Massimo Donadi e Felice Be-
stra radicale sia in via di scomparsa e poi il contesto non aiuta. Le prossime elezioni, infatti, saranno elezioni locali: analizzando le serie storiche di Idv si vede come in questo tipo di consultazioni (successe anche nello scorso giugno, quando le europee consegnarono a Di Pietro uno spettacolare 8%) il partito dell’ex pm vede dimezzare i propri consensi.
Il cosiddetto voto d’opinione, cioè, non segue il movimento quando conta il radicamento nel territorio.Tradotto: il nostro rischia di trovarsi il 28 marzo sera con un partito che vale il 3%, ben al di sotto anche del 4,4% delle politiche 2008, e questo solo ammesso che riesca a tamponare la falla aperta nel suo elettorato dalla decisione di Beppe Grillo di presentare liste col suo nome alle Regionali. Non si sa se aiuterà, ad esempio, la decisione di candidare a capolista in Emilia Romagna “Franco Grillini detto Grillo”. L’unico salvagente glielo potrebbe lanciare – e non a caso, anche qui - proprio Silvio Berlusconi: se il premier, al di là delle dichiarazioni di ieri, alla fine dovesse decidersi a trascinare il Paese nell’ordalia del voto, allora Italia dei Valori avrebbe l’occasione per l’ennesimo exploit. Assai più che con Cesare Previti, il Cavaliere e l’uomo che voleva “sfasciarlo” simul stabunt simul cadent.
In Spagna tutta la popolazione avrà diritto a una connessione di un megabit al secondo. Mentre in Italia...
Niente banda larga per il Belpaese di Alessandro D’Amato
ROMA. È notizia di ieri che anche la Spagna includerà l’accesso alla banda larga tra i diritti dei cittadini a partire dal 2011. La connessione a cui tutti avranno diritto sarà di un megabit al secondo, secondo gli impegni presi dal governo Zapatero. Ed è sempre notizia di ieri che il governo francese pensa di finanziare la rete in fibra con un investimento pari a 3 miliardi di euro.
Non è invece notizia di ieri che il governo italiano non ha ancora un piano preciso per rinnovare l’infrastruttura di rete italiana, nonostante le classifiche sul digital divide ci vedano sempre di più agli ultimi posti d’Europa. O meglio, sembra che qualcosa si sia deciso: «Il governo finanzierà il progetto banda larga entro la fine dell’anno», ha detto il ministro della Sviluppo economico Claudio Scajola, intervistato nel weekend su Skytg24. «Riteniamo che sia un investimento prioritario, al pari delle infrastrutture materiali», ha dichiarato Scajola. «Il presidente Berlusconi ne è convinto e io sono convinto che entro la fine dell’anno porteremo in approvazione e finan-
Dalla “rete veloce” è escluso il 39% dei cittadini. Scajola promette, ma ancora i finanziamenti non arrivano
troverà, non tanto per i cittadini (dal “privilegio” di internet veloce è escluso il 39% della popolazione), ma piuttosto per gli interessi di Telecom e i «60mila cantieri da aprire che muovono l’economia», come ha ricordato Scajola. Magari sarà il Lodo Calabrò a spuntarla, con la Cassa Depositi e Prestiti che fornirà la liquidità necessaria salvando capra e cavoli. Per modo di dire, visto che l’Italia investirà per innovare circa un terzo degli altri paesi europei, e non risolverà di certo il nodo principale: quello che vede troppa disparità tra i concorrenti quando uno di essi è prioritario dell’infrastruttura alla quale gli altri devono accedere per fornire i loro servizi.
Insomma, Tremonti, che ha utilizzato i fondi della banda larga in estate per acquistare i vaccini per l’influenza A, adesso non avrebbe nulla in contrario a stanziare i fondi: i soldi però arriveranno se non ci saranno altre esigenze prioritarie. Essendo il Paese dell’emergenza perpetua, non è che rassicuri molto la dichiarazione. Ma alla fine una soluzione si
Si prepara un piccolo passo per l’Italia, un grande passo per Telecom Italia. Nella peggiore delle ipotesi, invece, la banda larga sarà soltanto uno dei tanti temi sui quali i ministri economici del governo Berlusconi si troveranno a litigare. La querelle tra Tremonti e Scajola finisce in rete, e a perderci sarà solo la rete.
zieremo la banda larga nel nostro Paese». Ma non c’è nulla di definitivo, visto che la voce ufficiale dice altro: ovvero, che i fondi sono ancora al Cipe per l’esame tecnico, come ha ribadito l’esecutivo in una nota. Nella quale si precisa anche che il ministero dell’Economia non si è messo di traverso, ma sta aspettando per dare l’ok «nel quadro delle priorità».
pagina 12 • 19 novembre 2009
speciale Terra
Ha creato Microsoft, è l’uomo più ricco del pianeta e da due anni si dedica ai problemi del Terz
La mia rivoluzio Vi spiego perché l’agricoltura sostenibile è centrale per la sicurezza alimentare e perché i contadini più poveri non sono il problema, ma la soluzione di Bill Gates segue dalla prima Il coltivatore medio nell’africa sub-sahariana produce appena mezza tonnellata di cereali per acro (0,4 ettari). Un coltivatore indiano ne produce il doppio; un cinese coltivatore quattro volte tanto e un americano cinque. Il motivo è presto detto: la tecnologia e le nuove tecniche di produzione hanno trasformato l’agricoltura nelle altre parti del mondo e non c’è motivo per cui non possano aiutare anche l’Africa a fiorire. Non domani, ma oggi. Perché questo è il momento. La crisi alimentare che affama oltre un miliardo di persone è una top priority dell’agenda mondiale e dal G8 alla Fao, dalle Ong ai capi di stato africani, assistiamo alla richiesta di un nuovo impegno.
Ma c’è un rischio che, come una spada di Damocle, aleggia su questo sforzo mondiale per aiutare i piccoli contadini: ed è il cuneo ideologico che minaccia di dividere in due il movimento interventista. Questo cuneo separa la scuola tecnologica (che aumenta la produttività) da quella ambientale (che della sostenibilità ha fatto il suo leit motiv). Produttività o sostenibilità ci vengono presentati come due estremi fra cui bisogna scegliere. Si tratta di una falsa e pericolosa contrapposizione, capace di bloccare importanti progressi e alimentare la discordia tra persone che per avere peso e successo devono lavorare insieme. E rende difficile lanciare un programma comprensibile per aiutare le agricolture più misere. La realtà è che abbiamo bisogno sia della produttività che della sostenibilità. E non ci sono ragioni per cui non si possa avere entrambe. Molte voci am-
bientaliste hanno giustamente sottolineato gli eccessi della Green Revolution, mettendo in guardia contro i pericoli di un eccesso di irrigazione o fertilizzazione e paventando il consolidamento di grandi fattorie a discapito dei piccoli proprietari terrieri. Si tratta di critiche importanti, che sottolineano un punto cruciale: la prossima Rivoluzione Verde
Un coltivatore africano produce una tonnellata di cereali per ettaro. Un indiano il doppio, un cinese il quadruplo e un americano il quintuplo
deve essere più verde della precedente. Deve essere guidata dai piccoli proprietari terrieri, adattata alle realtà locali e sostenibile per l’economia e l’ambiente.
L’ultima cosa che dovremmo fare è alimentare una catena di guadagni pronti ad esaurirsi nel breve periodo: gli agricoltori ne uscirebbero traumatizzati, perché non è garantendogli un raccolto che abbiamo risolto il loro problema. Il raccolto deve essere costante nel tempo e capace di supportare le aspettative di crescita di una famiglia. Ecco perché la Fondazione Gates non solo lavora a stretto contatto con gruppi di agricoltori locali, ma promuove un approccio sostenibile vero, come la coltivazione basata sul principio di “non-lavorazione”, la raccolta dell’acqua piovana, l’irrigazione per gocciolamento e la fissazione biologica dell’azoto. C’è anche un altro fattore da considerare: la protezione dell’am-
biente. Quando la produttività è troppo bassa, la gente comincia a coltivare i terreni da pascolo, a tagliare fle oreste, a usare nuove superfici su cui produrre cibo. Quando la produttività è alta, la gente non ha bisogno di deforestare intere aree. Ciononostante è ancora forte il coro di chi ha una visione ideale dell’ambiente separata dai bisogni della gente e dalle realtà in cui vive. Questo coro ha cercato di limitare la diffusione della biotecnologia nell’africa sub-sahariana senza considerare quanta fame e povertà avrebbero potuto ridurre e gli stessi desideri dei contadini. Queste persone si comportano come se non ci fosse alcuna emergenza, sebbene nelle regioni più povere e affamate della Terra la popolazione stia aumentando più velocemente della produttività e il clima stia camSecondo biando. uno studio della Stanford University pubblicato lo scorso anno su Science, se gli agricoltori dell’Africa meridionale pianteranno nel 2030 la stessa varietà di mais che piantano oggi, le condizioni più dure dal cambiamento climatico ne ridurranno la produttività di oltre il 25 per cento. I raccolti in calo, in una regione con milioni di persone sotto la soglia del livello di povertà, significano una condanna a morte.
La nostra sfida è chiara: dobbiamo sviluppare raccolti che possano crescere in siccità, sopravvivere a un’inondazione, resistere a parassiti e malattie. Abbiamo bisogno di raccolti più rigogliosi da coltivare sugli stessi terreni usati oggi e in condizioni climatiche più avverse. E non riusciremo mai ad averli senza una ricerca scientifica costante e quanto mai urgente. Dunque lo dico forte e chiaro: la nostra Fondazione sta collaborando con alcuni partner di ricerca privati (come il Cgiar) per mettere a punto dei piani di agricoltura nazionali e favorire la coltivazione di nuove varietà di raccolti. Non siamo fautori di alcun metodo scientifico particolare. Siamo sostenitori di una gamma di tecniche agricole che non escludono un approccio transgeni-
speciale Terra
19 novembre 2009 • pagina 13
zo mondo. Ecco la ricetta di Bill Gates per battere la fame
one verde co quando riteniamo che esso sia utile a far fronte alle sfide dei contadini più velocemente e più efficacemente rispetto alla sola agricoltura convenzionale. Naturalmente, queste tecnologie devono essere soggette a rigorosi esami scientifici per assicurare che siano sicure ed efficaci. È responsabilità dei governi, dei contadini e dei cittadini - ovviamente informati e messi nella condizione di capire - scegliere il modo migliore e più sicuro per sfamare i loro paesi. Ma non possiamo far finta di non vedere che per l’Africa è essenziale adottare un tipo di mais capace di resistere alle temperature più estreme e alla siccità.
Questo cereale è la principale fonte di nutrizione per più di 300 milioni di africani. Quando non arrivano le piogge, i contadini e i loro figli soffrono la fame. Io non riesco a girarmi dll’altra parte del letto la notte. Ci penso. Ecco perché sto finanziando un privato affinché metta a punto questo seme. E a scanso di equivoci, né la mia Fondazione né il mio partner privato prenderanno alcuna royalty sulla semente. Non ci saranno costi aggiuntivi che i governi dovranno pagare e i distributori saranno scelti dagli africani. Se i semi faranno bene il loro lavoro, i contadini africani potranno aspettarsi una produzione di mais superiore a 2 milioni di tonnellate in un anno di siccità moderata. Ma per i più poveri dei poveri, troppa acqua può essere tanto devastante quanto poca. Per sostenere i contadini nelle aree soggette alle inondazioni - e ce ne sono milioni in India e Bangladesh - stiamo aiutando a sviluppare una varietà di riso che può sopravvivere sott’acqua per due settimane. Gli agricoltori conoscono da tempo una varietà di riso indiano capace di tollerare questo flagello. Un primo esperi-
L’uso degli Ogm nei Paesi in via di sviluppo non deve essere un tabù. Si rischia di diventare idealisti (e ipocriti) sulla pelle della gente
mento venne testato durante gli anni Ottanta, ma oltre a non avere successo mostrò delle caratteristiche indesiderate. Il progetto venne congelato per molti anni e solo da poco è stato ripreso in mano, sfruttando una tecnica chiamata Marker-Assited Selection.
Grazie a questa è stata sviluppata una nuova varietà di riso -Swarna Sub 1, già testata in Bangladesh. Poco dopo averla piantata, è arrivata l’inondazione. Quando l’acqua si è ritirata, del normale raccolto di riso ne rimaneva solo il 10 per cento, ma il riso Sub 1 cresceva rigoglioso: era sopravvissuto al 95 per cento. Il mais e il riso capaci di sopportare siccità e inondazioni sono fondamentali per migliorare la resa in condizioni climatiche avverse. Ma anche questo, da solo, non basta. Perché bisogna immaginare una strategia di difesa anche contro le malattie capaci di seccare un raccolto indipendentemente dal tempo. Ad esempio siamo impegnati a fermare un veloce ceppo di ruggine del frumento che minaccia il raccolto mondiale di questo cereale. Tutte le varietà esistenti sono a rischio e i nostri partner di 15 istituti di ricerca stanno testando una varietà di frumento che offra ai contadini una protezione duratura. Insomma, io credo si debba trarre completo beneficio da queste tecnologie emergenti per sviluppare nuove varietà di raccolti sani e si debba rendere disponibili i semi ai piccoli agricoltori che ne hanno bisogno. Spero che il dibattito sulla produttività non rallenti la distribuzione di questi semi. E spero anche che il dibattito non oscuri una lezione fondamentale dal passato: sviluppare sementi più produttive è solo un elemento di una strategia efficace. Questa massima è alla base del nostro lavoro ed è il motivo per cui i nostri investimenti in agricoltura sono guidati da due principi: i piccoli imprenditori e il lungo termine, inteso come un valore. Il primo principio è alla guida di ogni nostra decisione.Vediamo ogni nostro investimento con gli occhi dei più poveri: condurrà al miglioramento del rendimento, del terreno, dello stile di vita, della vita? I nostri approcci sono personalizzati per raccolti diversi, climi diversi e piccoli appezzamenti di terra. Il secondo principio - un investimento di lungo periodo - guida la strategia nostra globale. I contadini hanno bisogno di nuovi semi, naturalmente. Ma ci dicono anche che hanno bisogno di strumenti e formazione, di accedere a nuovi mercati per
vendere i prodotti in surplus e di organizzazioni più forti che possano rappresentare i loro interessi. Negli anni Novanta in Etiopia la spinta ad aumentare la produttività provocò abbondanti raccolti di cereali negli altipiani, ma i contadini non riuscirono a portare i loro raccolti ai mercati a valle. La conseguenza fu che nei mercati locali i prezzi crollarono e i contadini ne soffrirono, mentre negli altri, in cui c’era poco cibo, i prezzi schizzarono alle stelle e i poveri patirono la fame. L’accesso ai mercati mantiene l’equilibrio dei prezzi e in Occidente questa basilare lezione di economia è ormai acquisita.
In passato, l’approccio mondiale agli aiuti alimentari comprendeva l’acquisto del surplus dai paesi ricchi per trasportarlo nei paesi poveri e negli ultimi anni è stato acquistato cibo anche dai grossi commercianti dei paesi poveri. Adesso stiamo entrando in una terza fase: con il World Food Programme compriamo i raccolti dei piccoli contadini per immetterli nel mercato locale. In questo modo sviluppiamo un’economia e aiutiamo gli agricoltori a vendere in proprio sia al Wfp che ad altri compratori. L’Africa però non deve limitarsi ad aspettare gli aiuti: deve anche aiutarsi da sola. Nel 2004 i capi di stato del Continente decisero a Maputo di destinare il 10 per cento del proprio Pil all’agricoltura. Etiopia, Malawi e Ghana lo hanno fatto e i risultati si vedono. I loro raccolti, in cinque anni, sono cresciuti del 5 per cento. Ma la maggioranza ancora non ha mosso un dito e questo non è possibile. Allo stesso modo, però, la Fao, la Banca Mondiale, il G20, devono essere chiari. A L’Aquila si è deciso uno stanziamento di 22 milioni di dollari. Quando si potrà cominciare a spenderlo? Ci si può contare? Queste risposte dovrebbero arrivare. Vorrei infine fare un esempio e citare un uomo chiamato Chrispus Oduori, che proprio l’anno scorso si è laureato in un centro che sosteniamo in Sud Africa, l’African Centre for Crop Improvement, che forma agronomi specializzati. Con la sua laurea, Chrispus è l’unico orticoltore in tutta l’Africa che abbia una specializzazione sul miglio africano, una varietà che
viene coltivata principalmente dai piccoli contadini e consumata da più di 100 milioni di africani e che dal 1960 ad oggi non ha mai dato grandi risultati in termini di produzione. Ad oggi, l’aspettativa di raccolto di un coltivatore di miglio africano è tra i 500 e i 700 chili per ettaro. Sui campi in cui Chrispus ha con-
La mia sfida è chiara: sviluppare raccolti capaci di crescere durante una siccità, sopravvivere a un’inondazione e alle malattie stagionali
dotto la sua ricerca, usando semi migliorati e fertilizzanti, si ottengono tra i 2500 e i 3mila chili per ettaro: da 4 a 6 volte di più.
Non c’è motivo per cui così tanti contadini siano condannati alla povertà, alla fame e alla denutrizione. Gli agricoltori indigenti non sono un problema da risolvere: sono la soluzione. Se i contadini riescono a ottenere quello di cui hanno bisogno per nutrire le loro famiglie e vendere il loro surplus, centinaia di milioni tra i più poveri al mondo potranno costruirsi una vita migliore. Ci vorrà passione, concentrazione e costanza. Bisognerà mostrare disponibilità e flessibilità, mettere da parte le vecchie divisioni e lavorare assieme, uniti, per questa causa. Abbiamo gli strumenti. Sappiamo quello che occorre fare. Possiamo essere la generazione che assisterà alla realizzazione del sogno di Borlaug: un mondo senza fame. Co-presidente (assieme a sua moglie Melinda) della Gates Foundation, Bill Gates ha letto questo testo in occasione del World Food Prize 2009
speciale Terra
pagina 14 • 19 novembre 2009
Alla fine del 2009 i prezzi saranno del 16% inferiori rispetto a quelli del 2008. E le politiche della Ue aggravano la situazione
L’Italia senza terra
Al nostro Paese manca una strategia sull’agricoltura in grado di ribaltare un andamento negativo del settore che dura da anni di Calogero Mannino er il terzo anno di seguito l’agricoltura italiana fa un salto indietro. I prezzi alla fine del 2009 potrebbero segnare un 16% in meno rispetto al 2008, già contrassegnato da un analogo andamento negativo. Un’impresa su tre è a forte rischio. Tutti i comparti sono in gravissima difficoltà. Nel 2007 è avvenuto l’inimmaginabile. La produzione mondiale dei cereali è stata insufficiente ed i prezzi sono egualmente crollati. E da lì sempre più in giù. Si stima che nella prossima stagione delle semine almeno 100mila ettari non verranno coltivati a cereali. A voler procedere ad uno scandaglio sull’andamento dei vari comparti si registrano andamenti e tendenze semplicemente preoccupanti per l’elevato rischio di irreversibilità. I prezzi spuntati non coprono i costi. Questi ultimi nel corso degli ultimi dieci anni hanno visto un incremento superiore al 300%. Le difficoltà delle aziende a conduzione diretta condiziono il loro stesso futuro. Infatti i giovani non rimarranno a lavorare la terra. Ma quel che si deve registrare è che la crisi non è meramente congiunturale, legata alla crisi mondiale ed alle particolari conseguenze che si sono abbattute sul sistema Italia con gli effetti relativi anche al livello dei consumi, ma ha una portata più complessiva che si rifà al quadro della politica comunitaria. Questo è il punto fondamentale da mettere a fuoco.
P
La politica agricola dell’Ue nel corso degli ultimi dieci anni ha subito almeno tre riforme radicali. Con la prima del 1992 è stata operato un vero e proprio rovesciamento delle strategie, nel senso che gli obbiettivi fondamentali del Trattato, mercato unico per i prodotti agricoli, sicurezza come autosufficienza alimentare, convergenza delle diverse aree e regioni, sono stati messi da parte. Questi obiettivi postulavano, cosi com’è avvenuto dal 1958 al 1992, politiche di mercato che invece, in omaggio all’apertura al mercato mondiale, sono state abbandonate. Con qualche retorica è stata elaborata la teoria del
primo e del secondo pilastro con il semplice risultato di lasciare, nel caso dell’Italia, il mercato agricolo allo sbando. La riduzione dell’armamentario d’intervento alla esclusiva categorie delle quote ha consolidato storture che pesano anche all’interno della stessa Unione. Il caso più eclatante è quello delle quote latte. Dovevano servire a contenere le produzioni nei limiti storici e cioè originari al tempo della loro istituzione ed invece hanno avuto un corso che da risultati aberranti.
L’Italia produce soltanto il 40% del latte che lavora e consuma, la pretesa dei produttori è proiettata agli sconfinamenti, questi vengono sanzionati e l’Italia paga le multe, magari con i soldi del Fas. A questo punto sarebbe bene eliminare la quota-latte che peraltro ha istituito una sorta di rendita - giuridicamente dubbia - ma se così avvenisse la concorrenza di Francia e Germania (e non soltanto) sarebbe irresistibile e travolgerebbe la produzione italiana. Che fare? Con le quote non si può più, oltretutto la ricorrente uscita dalla normalità e cioè dalla legalità diventa un argomento controproducente e senza le quote il mercato è affidato ad corso della domanda e dell’offerta senza vincoli, limitazioni o regole. A questo punto partendo dall’esperienza del latte ci si deve fare una domanda: è possibile in Agricoltura affidarsi al semplice gioco del mercato mondiale? Se si ritiene di si, la scelta da ribadire è quella liberista. All’Agricoltura come ad ogni altro settore e da ogni altra produzione non può es-
Un’impresa su tre è a forte rischio. E molti comparti sono in grande difficoltà. Centomila ettari non verranno coltivati a cereali nella prossima semina
cuzione di episodi e talora di prassi fraudolente, ha modellato un nuovo concetto della politica agricola. Intanto l’Unione si è allargata ed il fronte cosidetto continentale ha consolidato le posizioni di Germania ed Olanda con l’oscillante rapporto con la Francia che hanno imposto una Pac caratterizzata da una profonda distorsione.
sere offerta protezione alcuna. Ma quale paese al mondo fa una politica agricola priva di ogni protezione e di ogni necessario strumento d’intervento anche sul versante delle garanzie di prezzo?
Prima la totalità dei prodotti mediterranei, poi, anche, i prodotti cerealicoli, lattierocaseari ed i semi oleosi - per un’agricoltura come quella italiana - sono stati cacciati in una strettoia. È un quadro preoccupante perché può determinare una vera e propria smobilitazione e comunque effetti profondamente negativi anche per quei comparti che negli ultimi anni avevano conquistato posizioni forti sul mercato. Si faccia il caso della vitivinicoltura, per la quale il vero strumento di tutela - aldilà degli interventi di mercato discutibili come le varie forme di ritiro dal mercato per la
Neppure gli Stati Uniti d’America, campioni negli ultimi 25 anni di liberalizzazioni assolute, hanno mai rinunciato a tutelare il loro mercato agricolo con restrizioni alle importazioni, con la pretesa di abbattimento delle restrizioni altrui. Questo indirizzo è stato fatto proprio dall’Ue a partire dal 1992. Il controllo della spesa, anche per impedire la prose-
distillazione - era affidato allo strumento della protezione di origine. Francia ed Italia da sempre avevano svolto un’azione convergente che assicurasse la priorità della valenza delle leggi nazionali di tutela: Aoc per la Francia e Doc-Docg per l’Italia. Si assiste ad una provocazione che sa anche di ridicolo: in un fascicolo distribuito dagli uffici della Ue (La politica agricola e rurale) sotto la guida della commissaria Mariann Fischer Boel, si legge testualmente: «Per effetto (nel quadro della riforma del settore vitivinicolo) delle modifiche apportate alle regole di etichettatura oggi i consumatori possono comprare i vini europei identificati soltanto dalla varietà del vitigno e dall’annata (ossia senza le etichettature Doc o Igt) Questa modifica mette i produttori europei su un piano di parità con i loro concorrenti che per molti anni hanno beneficiato di questa facilità». C’è da non credere a se stessi in questa lettura. In pratica i produttori del “Brunello di
speciale Terra
19 novembre 2009 • pagina 15
Nord, invece che mantenere secondo tradizione un rapporto con Francia e Germania, dagli interessi a volte diversi e contrastanti, ma con i quali proprio il passato ci dice che è possibile elaborare una linea di azione più efficace, proprio perché articolata sulle differenze. In questi giorni Sarkozy ha dato un saggio della volontà di procedere anche fuori dal coro dell’Unione, con interventi di portata finanziaria di grande rilievo.
Peraltro l’Italia se vuole salvaguardare la sua agricoltura non può non prendere decisioni di politica nazionale, in specie relative alle precondizioni dello sviluppo dell’agricoltura, che vanno dal costo del lavoro ed alla sua disciplina, al credito, al sistema infrastrutturale ed al passaggio decisivo dell’organizzazione della filiera. Occorre in altri termini una politica con strategia, in cui l’agricoltura non sarà centrale come nell’economia di altri tempi, ma rimarrà decisiva per un equilibrio delle produzioni e dello sviluppo economico con riguardo anche alla gestione del territorio e dell’ambiente. L’agricoltura è, alMontalcino” saranno avvantaggiati rispetto ai loro concorrenti soltanto perché in etichetta dovranno indicare il vitigno “Sangiovese” invece che le indicazioni della disciplina delle denominazioni di origine. È semplicemente allucinante. Le ragioni dell’omologazione del mercato mondiale travolgono le specificità della vitivinicoltura italiana. Eppure è questo che che porterà al debellamento del sistema delle denominazioni di origine che hanno rappresentato la condizione non formale ma sostanziale di garanzia di un prodotto in ragione delle diversità specifiche.
Ha senso dire Malbec d’Argentina non ha senso dire Sangiovese di Toscana, quando è consolidata la storia e l’immagine del Chianti, di Montalcino. L’omologazione mondiale ha deteriorato la concezione della politica agricola dell’Unione, che si è privata di ogni strumento di tutela e d’intervento efficaci al fine di mantenere in vita produzioni che nel mercato mondiale potrebbero essere soppiantate. Ma è poi vero che il mercato mondiale potrà dare derrate agricole a prezzi concorrenti? E la crisi cerealicola del 2007 non è forse un campanello d’allarme che richiama l’attenzione degli Stati non già a tornare indietro verso politiche di chiusura dei propri mercati, ma a ricercare - con le compatibilità possibili - un livello equilibrato tra apertura al mercato mondiale, liberalizzazioni e protezione finalizzata al
Si è concluso ieri a Roma il summit sulla lotta alla fame
Vertice Fao, bilancio amaro (con le lacrime di coccodrillo di Jacques Diouf) Sono amare e sanciscono il fallimento che era sotto gli occhi di tutti. Le parole di Jacques Diouf, direttore generale della Fao, a conclusione della tre giorni di vertice a Roma sulla sicurezza alimentare, non lasciano dubbi: «La dichiarazione finale del summit non contiene nessun obiettivo qualificato e non indica nessuna scadenza precisa. Avrei auspicato che tutti i Paesi presenti al Vertice fossero rappresentati dai loro leader, la loro assenza ha ridotto la discussione al solo livello tecnico, mentre la lotta alla fame «è un problema sociale economico e finanziario e oserei dire culturale». Una critica che forse avrebbe avuto un’eco maggiore se Diouf, che della Fao è il padre padrone dal 1994 quindici anni di fila - non si fosse autoassolto per il flop. Dicendo: «Io ho fatto il mio mestiere: ho promosso questo vertice e trovato da solo i fondi per organizzarlo». Le sue hanno il sapore di vere e proprie lacrime di coccodrillo, visto che sotto il suo lungo mandato Diouf ha portato la Fao al tracollo. E poi, in linea con il Vertice delle Vanità a cui abbiamo assistito, lancia pure una provocazione e fa un confronto da eterno secondo della classe: «Pensate al G8 dell’Aquila, che ha concordato di mettere a disposizione dai 20 ai 22 miliardi di dollari: per ora si tratta solo di parole e bisognerà vedere se questi fondi si materializzeranno». Insomma, la chiosa del Vertice è stata grottesca, tanto quanto il balletto dell’impotenza che ci hanno propinato e la passerella del despota dello Zimbabwe, Mugabe, e del Colonnello Gheddafi attorniato da 300 ragazze. Ha fatto dunque bene Oxfam, il gigante delle Ong , una vera e propria confederazione del settore che si estende su tre continenti, a dare un tre in pagella al summit romano. «Mentre i delegati fanno le valigie senza aver affrontato molte delle più grandi sfide della sicurezza alimentare, il vertice lascia in eredità un solo motivo di ottimismo: tutti i paesi hanno deciso di avviare un processo di riforma della governance alimentare globale» ha detto Gawain Kripke, portavoce del colosso. «Bisogna però vedere se manterranno fede alla promessa». Come dire: in periodi di magra, meglio accontentarsi delle briciole.
mantenimento dei livelli necessari dell’agricoltura anche per i profili della salvaguardia ambientale e territoriale.
Un ripensamento delle scelte compiute che hanno portato ad accentrare a Bruxelles, come avviene,peraltro, per la totalità delle questioni e delle materie, ogni potere decisionale, ogni competenza, va compiuta. La prospettiva della “rinazionalizzazione” non può essere esor-
cizzata con la memoria di cattive esperienze; va invece sottoposta ad un accertamento e ripensamento critico, che salvi l’indirizzo comunitario, ma affidi ad ogni singolo Stato possibilità e poteri d’intervento anche sul mercato, non soltanto in chiave anticongiunturale, ma soprattutto strutturale. Le diseguaglianze vengono esaltate e ricondotte a logiche aberranti, se non vengono affrontate in modo distinto e poi convergente. Il dominio burocratico è privo di strategia. L’Italia in questo periodo che va dal 1992 è andata a rimorchio. Addirittura ha anche curato un’alleanza ( questa sì molto innaturale) con i paesi del
La crisi del 2007 è un campanello d’allarme che richiama gli Stati a cercare un equilibrio tra apertura al mercato mondiale e protezione lora, una questione politica. Non può essere un argomento a parte, peraltro, marginale. Alle origini del Mercato europeo comune, l’agricoltura ha avuto una valenza strategica che ha conseguito molteplici obiettivi tutti indispensabili all’edificazione di una nuova Europa. Ma in quella stagione l’Italia, attraverso il primo e il secondo “Piano verde”, avviò una trasformazione ed un nuovo sviluppo dell’agricoltura, che ha anche rappresentato la base evolutiva dell’economia e della società italiana. Le forze politiche del tempo, e segnatamente la Democrazia Cristiana per la sua natura di partito popolare, condussero politiche caratterizzate dal privilegio da assegnare all’agricoltura. Al ministero dell’Agricoltura furono impegnati gli esponenti di maggior spicco: Fanfani, Segni, Rumor, Ferrari Aggradi, Medici e poi Marcora ed altri ancora. Non è esercizio altro che d’intelligenza comprendere come una nuova politica per un nuovo sviluppo del Paese deve anche fondarsi su una nuova politica agricola. Quella di oggi è senza strategia.
quadrante
pagina 16 • 19 novembre 2009
Equilibri. Un nuovo asse tenuto a battesimo sulla Grande Muraglia alla Grande Muraglia, ultima tappa finalmente informale della sua visita in Cina, Barack Obama, con le mani in tasca per proteggersi dal freddo tagliente, ha lanciato un messaggio in perfetto stile confuciano. «Da qui c’è la giusta prospettiva su molti dei nostri problemi di tutti i giorni. Si capisce quanto siano piccoli di fronte alla storia e quanto breve sia il nostro tempo sulla terra che, proprio per questo, dobbiamo sfruttare al meglio». È un riconoscimento della grandezza - non solo passata della potenza della Cina e un invito a non sprecare le occasioni del presente. Gli scettici diranno che, in fondo, il primo viaggio del presidente americano a casa del suo principale antagonista politico ed economico non ha fruttato alcun accordo concreto e che la questione più spinosa la reale valutazione dello yuan rispetto al dollaro che pesa come un macigno sulla bilancia commerciale bilaterale - non è stata sciolta. Tutto vero. Ma il compito di affrontare in dettaglio questi capitoli non spettava a loro. Quello che hanno fatto Barack Obama e Hu Jintao, in realtà, è molto più importante. Hanno riconosciuto che «problemi globali come la recessione mondiale, la difesa del clima e la proliferazione nucleare possono essere risolti soltanto insieme dagli Stati Uniti e della Cina», per usare le parole dell’ambasciatore americano a Pechino, Jon Huntsman. Che suonano come l’ufficializzazione della nascita del G2. Ci sarà tempo per gli accordi. Quello che conta è che, dopo decen-
D
Tra Usa e Cina a perdere è l’Europa Obama e Hu Jintao inaugurano il G2 Pochi gli accordi, ma l’intesa è di fondo di Enrico Singer
posizione, naturalmente. E con la mano tesa alle vecchie e nuove tigri dello sviluppo, che siano asiatiche come il Giappone o l’India o latinoamericane, come il Brasile. E con l’Europa, ancora una volta, retrocessa.
Il governo mondiale, certo, è un’immagine evocativa più che una realtà. Perché sui problemi concreti - come quello dei cambiamenti climatici che sarà affrontato nel vertice Onu di Copenhagen, per esempio - si formano e si disfano alleanze che superano le dimensioni di qualsiasi G2, G8 o G20. Ma è innegabile che il peso specifico dell’Europa si è ulteriormente ridotto con l’ingresso della Cina nel club dei veri potenti. L’Europa, fino a qualche tempo fa, s’illudeva di trattare da pari a pari con l’America e con la Russia. Si considerava la terza forza capace di giocare il ruolo di ago della bilancia, s’immaginava in grado di spostare gli equilibri globali. Rischia, invece, di ritrovarsi fuori dalla stanza dei bottoni dove si è installata saldamente la Cina. Dietro questo sorpasso c’è, di sicuro, la vitalità dell’economia cinese che con-
«Senza di noi impossibile risolvere i problemi globali». Vertici regolari e un telefono rosso ni di contrapoposizione diretta e di cauti avvicinamenti inaugurati ai tempi di Nixon con la diplomazia del pingpong, Usa e Cina si dichiarano - e reciprocamente si riconoscono - «indispensabili» per governare le crisi globali.
Valgono i simboli più che la dichiarazione congiunta. L’orchestra dell’Esercito di Liberazione che, durante la cena ufficiale, suona l’inno patriottico America the Beautiful e la promessa di Obama di tornare, la prossima volta, anche con la moglie Michelle e le figlie Malia e Sasha, come fa di solito nelle viste nei Paesi amici.
E valgono quelle intese che servono a costruire una cornice bilaterale stabile nei rapporti futuri: una linea telefonica diretta sul modello di quella che già esiste da tempo con Mosca e un calendario di incontri prefissa-
Ma Barack scivola nei sondaggi Continuano a scendere, in patria, gli indici di gradimento del presidente Barack Obama. Ieri, per la prima volta nelle rilevazioni compiute da Quinnipiac University, il presidente è sceso al di sotto della soglia del 50 per cento: secondo l’istituto di ricerca del Massachusetts (storicamente uno dei più favorevoli a Obama), soltanto 48 americani su 100 approvano l’operato del presidente. A luglio, il job approval secondo Quinnipiac era stabilmente intorno al 60 per cento. E i numeri di Obama scivolano verso il basso anche per gli altri sondaggisti, con poche eccezioni (secondo il Washington Post è ancora al 56 per cento). Per Rasmussen Reports, l’indice di approvazione di Obama è al 47 per cento, mentre il Presidential Approval Index (la differenza tra chi ha un giudizio “molto positivo” e chi lo ha “molto negativo”) è al 14 per cento, minimo assoluto dal giorno delle elezioni presidenziali. Minimo assoluto, anche se al 50 per cento, anche nel tracking quotidiano di Gallup.
ti (l’anno prossimo sarà Hu a recarsi alla Casa Bianca) con un elenco di temi da affrontare, anche a livello di ministri, che spazia dall’agricoltura alla sanità, dall’esplorazione del cosmo fino alla lotta ai narcotrafficanti. Nell’ultima tornata di colloqui, Barack Obama e Hu Jintao si sono scambiati molti complimenti: «Vediamo con favore un ruolo maggiore della Cina negli affari mondiali», ha detto il presidente americano e quello cinese ha dato atto che «l’America promuove stabilità, pace e sviluppo». Il summit appena concluso, insomma, ha prodotto un patto di partnership fra l’economia più ricca e quella che cresce più velocemente. A fondamento delle intese c’è il comune interesse a «raggiungere una crescita globale più stabile e bilanciata» che si accompagna al «rafforzamento del G20 e all’impegno per la riforma del sistema finanziario», come ha osservato Hu. Ma, di fatto, Washington e Pechino si considerano ormai il nuovo motore del gruppo allargato dei Grandi: un G2 nel G20. Con la Russia in terza
tinua a crescere nonostante la crisi generale. Ma se l’Europa sta perdendo posizioni, grande parte della colpa è tutta sua. È l’effetto delle sue divisioni interne: a Bruxelles possono nascere tutte le nuove istituzioni previste dal Trattato di Lisbona, come nasceranno già stasera nel conclave che dovrebbe chiarire il destino di Massimo D’Alema e trovare il nome del primo presidente del Consiglio della Ue. Ma, poi, quando si tratta di fare business o alleanze strategiche, i Ventisette tornano a giocare in proprio. Con la Cina, per esempio, c’è la Germania che ha trattato affari miliardari, compresa la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria, e altri che sono al palo o che - come l’Italia - si accontentano delle briciole, per quanto di lusso, dei prodotti di nicchia. Che siano le Ferrari o l’alta moda. La debolezza dell’Europa tra i Grandi è proprio la mancanza di coesione. E non è davvero un caso se nel G8 o nel G20 una parte dei Paesi dell’Unione (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Spagna) sono presenti a titolo nazionale al fianco della Ue come istituzione comune.
quadrante
19 novembre 2009 • pagina 17
A Kabul è allarme sicurezza per “i vip”: attesa Hillary Clinton
Spiragli sul clima al vertice Ue-Russo di Copenhagen
Afghanistan, oggi l’investitura (blindata) di Hamid Karzai
Medvedev: pronti al taglio delle emissioni nocive
KABUL Ci sono pattuglie ad
COPENHAGEH. Vertice Ue-Russia ieri nella capitale danese con il capo dello Stato Medvedev. Secondo il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, la Russia sarebbe pronta a impegnarsi a ridurre le proprie emissioni di gas serra fra il 20 e il 25 per cento alla conferenza Onu sul clima che comincia fra due settimane nella capitale danese, in cui si cercherà di approvare un nuovo accordo internazionale in sostituzione del Protocollo di Kyoto dopo la sua scadenza nel 2012. Durante la conferenza stampa congiunta con il presidente Dmitri Medvedev alla fine del vertice Ue-Russia di ieri a Copenaghen, Barroso ha salutato con favore «la proposta
ogni angolo, controlli a tappeto e piani di evacuazione segreti. Kabul è pronta per la cerimonia di investitura di Hamid Karzai alla presidenza dell’Afghanistan e si presenterà, oggi, blindata più che mai. Sono circa 800 gli invitati in rappresentanza di 42 Paesi, e fra essi 300 ministri, funzionari e diplomatici stranieri. Hillary Clinton ha annunciato la sua partecipazione: il segretario di Stato è già arrivato nel Paese asiatico, dove ha in agenda anche una serie di incontri a margine della cerimonia. Per l’Italia ci sarà il ministro degli Esteri Franco Frattini. La grande attesa è tutta per il discorso programmatico di Karzai, che dovrebbe confermare il suo impegno forte nella lotta alla corruzione. La cerimonia si svolgerà all’interno del palazzo presidenziale: la sicurezza è stata rafforzata e controlli severi sono previsti anche per le delegazioni che assisteranno all’evento. Il governo, intanto, ha dichiarato la giornata di domani festività nazionale ed ha chiesto ai civili di restare a casa per non intasare le strade e agevolare l’afflusso dei cortei dall’aeroporto internazionale della capitale. Allo scalo di Kabul, per l’occasione, verranno cancellati
D’Alema: tutti gli ostacoli al traguardo di Mr.Pesc Berlino e Parigi alla finestra, puntano a Bce ed Eurogruppo di Alvise Armellini meno di 24 ore dall’avvio del vertice decisivo, la schiarita sul totonomine europeo non arriva. Massimo D’Alema resta il favorito dei bookies inglesi per la carica di Alto rappresentante per la politica estera Ue, insieme al premier belga Herman Van Rompuy, candidato alla presidenza del Consiglio europeo. Ma la partita non è conclusa. L’ex leader dei Ds si deve preoccupare dell’Inghilterra, che insistendo su Tony Blair presidente dei Ventisette, impedirebbe ad un altro socialista come D’Alema di occupare la poltrona di ”Mr Pesc”. Londra potrebbe cedere all’ultimo, ma riproponendo un altro britannico per il ruolo di ”Mr Pesc” come il ministro degli Esteri David Miliband, malgrado le sue smentite. Inoltre D’Alema deve guardarsi dal governo di Madrid, ormai smarcato dalla posizione ufficiale del Partito socialista europeo, unito fino alla settimana scorsa sul nome del nostro ex ministro degli Esteri. Lunedì il capo della diplomazia spagnola, Miguel Moratinos, ha rilanciato ufficiosamente la candidatura alla presidenza Ue dell’ex premier Felipe Gonzales, che da socialista sbarrerebbe la strada a D’Alema allo stesso modo di Blair. Martedì, invece, il premier Zapatero ha indicato per la prima volta che lo stesso Moratinos potrebbe aspirare alla carica di Alto rappresentante, augurandosi però che resti al suo posto a Madrid. Ieri il diretto interessato ha negato tutto: «Sono felice di essere il ministro degli Esteri spagnolo. È vero che si è parlato di me, ma non sono candidato e non desidero quell’incarico». Smentita vera o solo tattica? Il dubbio resta, per Moratinos come per Miliband. Fonti diplomatiche indicano inoltre che Zapatero avrebbe posto altri ostacoli alla volata di D’Alema: in primis contestando la ripartizione delle poltrone tra Ppe e Pse, con la presidenza ai primi e l’Alto rappresentante ai secondi, e in secondo luogo reclamando l’assegnazione della poltrona riservata ai socialisti all’esponente di un governo in carica.Tagliando fuori dai giochi, ancora una volta, il candidato italiano, che nella cena dei Ventisette di questa sera a Bruxelles dovrà essere sostenuto da un leader di centrode-
A
stra come Silvio Berlusconi. «Nessuno sa – ha scritto maliziosamente El Pais – se si tratti di un appoggio di facciata o se faccia parte di un’intesa per ricostituire l’apparato giuridico dell’immunità che è stato smantellato dalla Consulta». Nella famiglia socialista si sta cercando di ricomporre la frattura creata da Zapatero: il presidente del Pse, Poul Nyrup Rasmussen e il capogruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento, Martin Schulz, si incontreranno con i sette capi di Stato e di governo nel pomeriggio, prima dell’inizio del vertice. Ma è chiaro che una volta dentro le mura del Consiglio europeo, tutti gli accordi politici preventivi tra Ppe e Pse potrebbero saltare. A coordinare i lavori ci sarà il premier svedese Fredrik Reinfeldt, presidente di turno Ue, ancora alle prese con le consultazioni. «Se provate a mettervi in contatto giorno e notte con 27 capi di Stato e di governo, che hanno molte altre cose da fare... buona fortuna!», ha scherzato ieri Reinfeldt, tornando a minacciare un voto a maggioranza qualificata per risolvere il rebus.
La partita per esteri e presidenza Ue non si è ancora conclusa. Per D’Alema ostacoli anche dai socialisti europei
tutti i voli civili. Forti restrizioni alla circolazione imposte anche ad alcune aree all’estrema periferia di Kabul: alcune sono state completamente chiuse al traffico, fatta eccezione per le ambulanze e i mezzi di soccorso. Il colonnello Sanam Gul, comandate del Quarto battaglione dell’esercito afghano ha confermato che le sue truppe, al fianco di quelle Usa, saranno impegnate in posti di blocco e pattugliamenti: le misure antiterrorismo prevedono anche perquisizioni a sorpresa di auto e mezzi sospetti diretti dalla periferia al centro della capitale. «Il nemico sta provando a entrare a Kabul per rovinare la cerimonia di insediamento», ha detto l’ufficiale afghano. «Abbiamo rafforzato la sicurezza dentro e attorno Kabul, e fuori dalla città», ha confermato.
I candidati dovranno ottenere il gradimento anche del presidente della Commissione europea, José Barroso, e del presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek. Entrambi hanno chiesto una presenza femminile ai vertici dell’Unione. Sul tema hanno manifestato ieri una ventina di eurodeputate ”travestite” da uomini, minacciando di bocciare la nuova Commissione Barroso (in cui ”Mr Pesc” sarà vicepresidente) se non avrà almeno otto rappresentanti del gentil sesso. Per la presidenza Ue e l’Alto rappresentante i candidati femminili – come la lettone Vaira Vike-Freiberga – hanno poche chance, ma a chiudere i giochi potrebbe essere una donna. Ovvero il cancelliere tedesco Merkel, che ieri ha promesso una decisione con la Francia, che come Berlino si è tenuta fuori dalla corsa delle cariche, puntando a portafogli economici in Commissione europea e alle presidenze in scadenza per la Bce e l’Eurogruppo.
del presidente Medvedev di porre un obiettivo di riduzione delle emissioni per la Russia, fra il 20 e il 25 per cento», secondo quanto riferisce il servizio stampa dell’esecutivo comunitario. «Ho dato istruzioni ai funzionari Ue – ha affermato il presidente della Commissione -–di lavorare in stretto contatto con i colleghi russi su tutti i dettagli, perché durante la nostra discussione stamattina abbiamo convenuto pienamente che questo è un negoziato cruciale e che dobbiamo condurlo a fine con successo a Copenaghen. Sia l’Unione europea che la Russia hanno responsabilità di leadership nella lotta al cambiamento climatico, e dobbiamo fare tutto quel che possiamo per conseguire l’obiettivo di non superare un aumento della temperatura globale superiore ai 2 gradi centigradi», ha aggiunto Barroso. E ha concluso: «ho fiducia che si possano ancora ottenere dei risultati significativi a Copenaghen». L’Europa è alla ricerca costante di un salvataggio in extremis della prossima confernza sul clima, che la decisione poltica di Washington e Pechino avevano ridimensionato. Durante il summit dell’Apec, Obama e Hu Jintao avevano affermato: poco tempo per trovare un accordo entro dicembre.
cultura
pagina 18 • 19 novembre 2009
Ritratti. A vent’anni dalla sua morte, Leonardo Sciascia resta un inarrivabile esempio di impegno civile e qualità letteraria
Memorie di un onorevole Nei suoi romanzi sfilano le pagine nere del Belpaese: dalla mafia al caso Moro di Matteo Marchesini er capire la cultura e la società italiana del 2000, pochi fatti sono più utili dell’ambigua fortuna postuma che è toccata a Leonardo Sciascia. Lo scrittore di Racalmuto morì esattamente vent’anni fa, appena una manciata di giorni dopo la caduta del muro di Berlino. All’analisi dell’universo politico che con quell’evento iniziava a sgretolarsi aveva dedicato tutta la vita: giudicandolo ora sotto forma di farsa teatrale e ora sotto forma di apologo romanzesco, ora nei brevi saggi eruditi e ora nei diari in pubblico. In questa composita opera letteraria, amalgamata da una costante vena polemica e satirica, l’Italia del terzo millennio ha tracciato un confine silenzioso.
P
poi sempre dalle accuse di chi vi vede un vezzo: e con parole significativamente simili a quelle spese a proposito della presunta tendenza caricaturale di Brancati. Dell’autore del Bell’Antonio, Sciascia dirà che non fa altro che disegnare gobbi i gobbi; e di se stesso che gli tocca scrivere «nero su nero» cioè stendere pagine cupe per rappresentare una verità altrettanto cupa. Un lustro dopo l’uscita delle Parrocchie, questa verité noire inizia a depositarsi nella forma privilegiata di un giallo al quadrato – un giallo metafisico e strutturalmente
La sua sconfitta davanti alle complicità politiche isolane e romane sembra ancora riscattabile: e nel finale del libro si respira quella stessa aria malinconica e irreale, che non a caso pervade altri pur diversissimi romanzi coevi (La ragazza di Bube, La nuvola di smog).
È infatti il momento in cui il boom sta cancellando l’Italia contadina e resistenziale durata fino agli anni ’50; il momento, cioè, in cui la nuova potenza industriale rimuove senza risolverli i difetti atavici del Belpaese, lasciandoli mutare sottopelle come virus. Eppure Bellodi, rincasando da una festicciola parmense a metà tra Antonioni e Dino Risi, promette che sulle magagne sicule «ci si romperà la testa». Circola insomma, nel romanzo, un giovanile ottimismo della volontà. Irreversibilmente sinistro è invece A ciascuno il suo (1966). Come ha detto Claude Ambroise, a questa altezza lo scacco descritto dall’autore è agli antipodi di quello che agitò il suo Pirandello: qui non si tratta di cogliere la costitutiva doppiezza del reale, bensì di riportare alla luce la prosaica verità dei fatti, occultata da una trama di sofismi e ombre barocche. La verità è lì davanti, in una lettera rubata alla Poe che quasi tutti vedono: e solo chi è troppo “intellettuale” per cogliere subito la sua banalità continua ad anfanarle dietro, credendo che dopo averla trovata potrà rompere il muro omertoso. Illusione puerile. Il re è già nudo, la catena dei fatti ovvia. Ma niente è dicibile, se non a costo di toccare quegli equilibri troppo consolidati che soli permettono a un
Non si limitava a cogliere la costitutiva doppiezza del reale: sapeva riportare alla luce la prosaica verità dei fatti, occultata da un velo
Esiste oggi uno Sciascia inglobato nel senso comune – l’autore del Giorno della civetta e di Una storia semplice, tanto per segnare i confini estremi della sua produzione “poliziesca” – ed esiste uno Sciascia rimosso: che corrisponde poi al castigatore della retorica italiana, sia quella di Chiesa, Comunismo o Antimafia poco importa. Ma se questa battaglia contro il più tipico e più sottovalutato vizio nazionale si è molto inasprita negli anni ’80, le sue ragioni vengono da lontano. E risalgono almeno ai tableaux siciliani delle Parrocchie di Regalpetra (1956), apertamente debitori al Brancati di I fascisti invecchiano. Nelle Parrocchie, oltre ai topoi dell’arida e immutabile provincia isolana – il casino dei nobili e il cattolicesimo pagano, la mafia e l’eredità littoria, la Dc e la famiglia come Stato – il lettore trova già la forma più congeniale a Sciascia (un ibrido manzoniano tra saggio e racconto) e il suo inconfondibile, acre tono di saturnino. Tono che lo scrittore difenderà
incompiuto. La serie parte col Giorno della civetta, primo romanzo sulla mafia dove l’investigatore Bellodi è significativamente uno straniero, cioè un carabiniere emiliano e già partigiano.
re nudo di rimanere impunemente sul trono. Parlare in pubblico di una simile nudità è quindi atto da suicida o da «cretino», come suona lo spietato epicedio del professor Laurana che chiude A ciascuno il suo. In questa morale stanno i presupposti del poliziesco degli anni ’60, gli anni del centrosinistra e del pre-68.Tutt’altri, invece, sono quelli su cui s’imperniano le detections del decennio successivo, segnato dal piombo di Stato e Antistato, dal settarismo ideologico e dal compromesso storico. Adesso Sciascia sceglie la via della sotie, della farsa, ispirandosi alle stenografie romanzesche di André Gide. Dall’uscita di A ciascuno il suo passa un altro lustro, ed ecco apparire nel 1971 Il contesto. In un paese immaginario solo per convenzione e per agilità poetica, l’ispettore Rogas indaga su una catena di delitti intorno a cui si coagulano tutte le opacità della vita nazionale. Ogni pista è un depistaggio; e l’unica verità che importi è la corruzione endemica non tanto dei costumi quanto dell’intelletto. In questo paese immaginario, cioè nell’Italia degli anni ’70, il fantasma del complotto con cui sempre si tenta di colmare un difetto di razionalità diventa un’arma per spegnerla del tutto, per provocare e saldare in una trama dapprima inesistente alcuni at-
tentati singoli. E proprio sotto il peso di questa opaca follia l’ispettore Rogas soccombe. Così come, nel successivo Todo modo (1974), i potenti riuniti all’Eremo di Zafer per gli esercizi spirituali di don Gaetano soccomberanno sotto i colpi di una invisible hand le cui impronte digitali restano irrilevanti, perché non rappresenta altro che la legge economica della loro patologica amministrazione della realtà. Da queste farse appare chiaro come per lo scrittore siciliano la mafia costituisca il caso particolare di un più generale modello dei rapporti sociali: per analizzare il quale va elaborando una vera e propria metafisica del potere, e una sorta di filologia civile parallela a quella di Pasolini (come lui oscillante tra comunisti e radicali). Più il regime italiano si cristallizza, più Sciascia tende a unificare i suoi diversi tavoli di lavoro e a mettere in primo piano un’ispirazione spuria. Ora la tecnica mista fonde in un solo volume pamphlet e giallo, ricostruzione storica e divagazione biografica. Ogni cosa confluisce verso ciò di cui il poliziesco non era che l’allegoria: un’analisi dei linguaggi che accompagnano il crimine politico.
In questo senso, il vero spartiacque della fantasia è costituito dall’ Affaire Moro (1978). Ma
cultura
19 novembre 2009 • pagina 19
Lo scrittore di Racalmuto annotò alcuni testi dell’autore romano
Quel filo segreto che lo legò al Belli
Nello scrittore come nel poeta c’è la stessa attenzione al grande mistero dell’imperscrutabilità di Dio di Sabino Caronia i Leonardo Sciascia, recentemente commemorato a Roma in occasione del ventennale della morte alla presenza del presidente della Repubblica, un aspetto poco noto è il rapporto con la figura e l’opera di Giuseppe Gioachino Belli.
D
la poetica spuria di Sciascia non deriva solo da una vocazione personale. Gli scrittori nati negli anni ’20 hanno attraversato nel breve corso di una vita almeno tre o quattro periodi storico-culturali: cresciuti in mezzo all’ermetismo e alla prosa d’arte, hanno bruciato con rapidità la fase neorealista; si sono ritrovati, ormai maturi, a fronteggiare un nuovo formalismo montante e un polemico rifiuto della letteratura; e sono invecchiati nelle atmosfere postmoderne degli anni ’80. Come Calvino, Sciascia percorre una strada che va da Cecchi a Borges. A partire dagli anni ’60, la narrazione di entrambi si prosciuga in apologo: e la realtà, nel loro stile rarefatto e apodittico, affiora in termini quasi araldici. Ma gli apologhi di Sciascia tendono alla satira storica, alla farsa metafisica; mentre gli apologhi di Calvino sono umoristici, fumisti e fiabeschi. Differenza omologa a quella del loro “illuminismo”: che in Calvino è ridotto a maneggevole buon senso, mentre in Sciascia (come ha osservato il suo maggior critico, Massimo Onofri) è sempre contraddetto dalle «enigmatiche correlazioni» di una realtà che si lascia decifrare solo attraverso i simulacri di essenze imperscrutabili. E il contrasto si specchia fin nel ritmo della prosa: specie nell’ossessione per l’inciso, che
Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace dedicata a Leonardo Sciascia (a sinistra, nella foto) testimonia del coatto introvertirsi dello sguardo nel momento stesso in cui si proietta in avanti. Questa dialettica si fa poi addirittura tormentosa quando Sciascia usa una tale prosa per ricostruire storie di individui torturati o rinnegati da una Inquisizione sempre rinascente sotto nuovi panni. L’eretico fra Diego La Matina, protagonista di Morte dell’inquisitore, e la serva Caterina Medici bruciata come fattucchiera di cui si parla in La strega e il capitano; monsignor Angelo Ficarra vescovo di Patti e il prigioniero Aldo Moro, di cui i colleghi s’ostinano a fraintendere le lettere: sono questi gli emblemi della più intelligente e appassionata rivolta contro l’abuso di potere e il fanatismo che la Storia della colonna infame abbia ispirato a uno scrittore italiano del ’900.
Ma Sciascia ha strappato all’oblio le loro vicende senza la calma di Manzoni: lo ha fatto anzi con l’accanimento febbrile di un Sisifo privo di teodicee. Era infatti convinto che tutti i nodi vengono al pettine solo «quando c’è il pettine». Caso in Italia molto raro.
Presso il fondo Falqui della Biblioteca Nazionale è conservata una copia del Fiore della poesia romanesca con dedica autografa di Mario dell’Arco a Enrico Falqui. Lo stesso Mario Dell’Arco, come noto, si era occupato due anni prima della pubblicazione delle Favole della dittatura presso l’editore Bardi. L’antologia, curata da Leonardo Sciascia, ha una premessa di Pier Paolo Pasolini, che aveva già recensito le Favole della dittatura dell’autore siciliano in La libertà d’Italia del 9 marzo 1950. Falqui recensirà il volumetto curato da Sciascia in uno scritto ora raccolto in Novecento letterario italiano, giudicando severamente la scelta di limitare l’antologia a soli quattro autori - Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco - e soprattutto la tendenziosità del criterio di scelta, documentato dalle presentazioni, quasi che «i quattro realmente grandi fossero da ridurre a due». A proposito di Dell’Arco, dopo averlo indicato come quarto grande della poesia romanesca e aver sottolineato come «scavalca Pascarella e Trilussa, e s’immerge nel Belli», Sciascia scrive: «E guardate come dalle prime poesie alle poesie più recenti il suo linguaggio acquista di concitazione, di onomatopeica forza, di cruda luminescenza». La presentazione di Belli si apre con le parole di quel D’Annunzio («Il nostro Belli immortale») che diceva di non passare un giorno senza leggere almeno un sonetto del poeta romanesco. Tra tante note è importante segnalare quello che si può considerare il passo più significativo anche alla luce degli sviluppi che avranno le idee esposte nella successiva produzione del romanziere siciliano. Scrive a un certo punto Sciascia a proposito della fortuna del Belli: «È venuto infatti il momento belliano: il crollo del fascismo ha strappato dalla grande poesia del Belli quel mouchoir de tartuffe che la ricopriva ed è certo che Belli, come non è poeta da educande, non è poeta da dittature e guardate, per esempio, come la storia si ripete. Muore un papa, e un pover’uomo va a finire in galera perché canta un’innocente e vecchia canzone. Ma sentite da Belli: Sta in priggione, gnorsì, povero storto! / Io da l’abbile ce faria la bava. / Sta in priggione: e perché? perché cantava / ier notte: ”Maramao, perché sei morto?”/ Ebbè? si è morto er papa? e che c’entrava / de dì che
cojonassi er su trasporto? / E che! tieneva l’insalata a l’orto / er Santo-padre?E che! forse magnava? / Teste senza merollo: idee brislacche. Un secolo dopo muore un “quadrunviro della rivoluzione” e un altro povero diavolo va in gabbia per la stessa innocente e vecchia canzone. Curiose coincidenze: aveva forse letto Belli l’anonimo che, alla morte di Bianchi, tirò fuori questo “canto provìbbito”? Crediamo di no; ma è sicuro che tante anticamere di monsignori somigliano a quelle dei gerarchi; tanti tribunali pontifici, tanti posti di gendarmeria, tante spie, tanti prebendari a quelli che noi abbiamo fatto in tempo a conoscere».
Ripensiamo alle pagine iniziali di Todo modo. C’è un gruppo di notabili democristiani che si riunisce per gli esercizi spirituali nell’albergo di un sacerdote - imprenditore. Un pittore miscredente capita per caso lì e, a un certo punto, assiste all’arrivo di quattro vescovi: «Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un cardinale: e lo distinsi, con scarso rispetto, debbo ammetterlo, per il ricordo di un verso del Belli, «se levò er nero e ce se messe il rosso»: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo, e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro, «un prete che si metamorfosa in cardinale: con grande confusione del brigadiere». È il problema dell’imperscrutabilità di Dio, sottolineata in Belli da Gnoli, che interessa Sciascia. Non si può non riconoscere in Todo modo la linea Pascal-Kierkegaard secondo cui l’uomo è sempre in torto davanti a Dio, che costituisce il punto di più evidente affinità tra Belli e Sciascia. Che esista o no, Dio non è più padre. E forse il dio “ingiusto” di Morte dell’inquisitore e tutte le sue successive incarnazioni, fino al dio dell’Affaire Moro attraverso il Dio del Contesto, «il dio che acceca gli uni e illumina gli altri, il dio che si nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto». In questo senso non si può non sottolineare la coincidenza nella lettura che Sciascia e Belli fanno dell’opera del Manzoni, soffermando la propria attenzione sul capitolo XXXII dei Promessi sposi e su quella pietra d’inciampo che fu per entrambi la Storia della colonna infame. In conclusione, bisogna ricordare che il richiamo a Belli ritorna più volte, sia per un raffronto con Verga, come in Pirandello e la Sicilia, sia per il richiamo diretto dei sonetti romaneschi, come il già citato Er bordello scuperto in Todo modo.
I vescovi di ”Todo Modo” sono un omaggio alle figure descritte dall’autore dei celebri sonetti
cultura
pagina 20 • 19 novembre 2009
Incontri. Il presidente dell’Institut du Monde Arabe, Dominique Badis, racconta vent’anni di attività al servizio dell’integrazione
Parigi mette l’Islam in vetrina di Cristiana Missori
n ventidue anni di attività, l’Institut du Monde Arabe (Ima) di Parigi ha compiuto appieno la sua missione: fare conoscere la cultura e la civiltà dei Paesi arabi ai francesi e ai tanti turisti stranieri che ogni stagione affollano le sue sale.
I
È un bilancio “eccellente” quello di cui parla il presidente dell’Istituto, Dominique Baudis, che nei giorni scorsi è volato a Roma per presiedere la giuria del Concorso ufficiale del Medfilm Festival. «Se, infatti, l’idea era quella di fare dell’Istituto una vetrina, un polo culturale da cui proiettare in Francia e in Europa l’immagine della cultura e della civiltà araba, la missione è stata compiuta», ha detto Baudis a margine della cerimonia di chiusura del Festival del cinema del Mediterraneo. «Perché a parlare – ha rimarcato – malgrado venti anni di dissesti finanziari, sono innanzitutto i numeri: circa un milione di visitatori l’anno».Voluta da Valery Giscard d’Estaing già nei primi anni del suo settennato, e realizzata nel 1987 sotto la presidenza di Francois Mitterand – l’Ima è una struttura di cui oggi fanno parte 22 Paesi arabi e che all’epoca denotò una certa lungimiranza politico-diplomatica da parte della Francia.«All’epoca – afferma Baudis, ex corrispondente dal Libano e dal Vicino Oriente per la radio e la Tv francese Tf1, poi passato alla politica prima come sindaco di Tolosa per l’Udf, oggi eurodeputato dell’Ump – nessun altro Paese europeo ebbe la stessa lucidità nel capire cosa sarebbe accaduto poi nei rapporti tra Occidente e Islam». «Negli anni ’80 – ricorda – la cultura e le relazioni internazionali erano questioni estremamente distanti tra loro». Di dialogo interculturale, insomma, non si parlava affatto. Dopo l’11 settembre, però, il ruolo dell’Ima si è rafforzato: «Il nostro lavoro si è andato intensificando, organizzando dibattiti e incontri. La nostra missione è stata anche quella di fare capire che amalgamare il terrorismo all’Islam è una aberrazione». Oggi in merito al dialogo tra Occidente e Islam, dice Baudis, «esistono altrettante ragioni per disperare che per sperare. Quel che è certo è che non si può rimanere con le mani in mano. Dobbiamo cercare
di evitare il peggio». Un esempio, prosegue l’eurodeputato, «ce lo dà anche un festival come quello del cinema del Mediterraneo. Trent’anni fa una manifestazione come questa sarebbe stata inconcepibile». Pellicole, quelle proposte al pub-
blico romano che trattano tematiche dure, veri e propri pugni nello stomaco. «Il Mediterraneo è pieno di conflitti, vive immerso in molteplici problemi: dal fanatismo religioso all’immigrazione, alla sperequazione tra Nord e Sud. Un motivo in più per parlare di queste problematiche».
Il Mare comune, sostiene Baudis, può essere una linea di frattura Nord-Sud o, al contrario, può trasformarsi in un luogo di sinergie e di reciproco riconoscimento.Attualmente esistono entrambi gli aspetti». Ogni giorno, però, continua Baudis, «vedo migliaia di persone entrare nell’Istituto. L’80 per cento di loro non è arabo o musulmano. Si tratta di persone che hanno curiosità e voglia di conoscere l’altro, il mondo arabo. E questo fa ben sperare». Nonostante questi risultati del tutto lusinghieri, la Francia sta vivendo un momento di smarrimento e confusione, in cui da più parti ci si Nella foto grande, l’Institut du Monde Arabe che ha sede a Parigi, presieduto da Dominique Badis (qui accanto nella foto)
«La nostra missione è stata quella di far capire che assimilare il terrorismo alla cultura musulmana è una aberrazione» chiede cosa significhi essere francese. «Il modello di assimilazione non funziona più – replica Baudis – perché era più semplice integrare gli immigrati che tra la fine dell’800 e la metà degli anni’50 dalla Spagna, dal Portogallo e dall’Italia, venivano a lavorare in Francia. Si trattava di europei. Altro è stato dovere assimilare l’enorme quantità di persone provenienti dal Maghreb e dell’Africa post-coloniale». Chiedersi cosa significhi essere francesi in una nazione così meticcia è giusto, prosegue l’eurodeputato. Per questo motivo, dice Baudis, il dibattito in atto lanciato dal ministro per l’Immigrazione Besson appare molto interessante. «Dobbiamo individuare quale sia il collante che oggi tiene unita la nazione francese». Essere francesi negli anni 2000, infatti, è molto diverso dall’esserlo stati ai primi del ’900. L’Ima non è soltanto un luogo d’arte, ma svolge anche una missione pedagogica: oltre all’insegnamento della lingua araba e a una libreria con circa 25mila ti-
toli a disposizione, l’Istituto ospita un museo di tre piani che a breve diventerà unicamente museo della civiltà araba multimediale, vista anche l’impietosa concorrenza con il nuovo dipartimento di Arte islamica del Louvre. «Stiamo rinnovando le sale del museo e puntiamo, grazie all’interattività, più ad attirare i più giovani, che ad avere un museo di Belle arti». Realizzato da un gruppo di architetti, nel corso degli anni l’edificio situato nel V arrondissement, ha ospitato decine di mostre. Tra le esposizioni più preziose, soltanto per citarne alcune tra le più recenti, vale la pena di ricordare: “Venezia e l’Oriente”, che attraverso l’esposizione di oggetti di uso quotidiano, ha documentato il grande flusso di scambi avvenuti tra l’Oriente e l’Europa a partire dall’828, data in cui due mercanti veneziani trafugarono le reliquie di San Marco da una chiesa copta di Alessandria, e il 1797, l’anno in cui Napoleone entrò in Egitto, che portò ad un forte legame fra le due culture. In quell’epoca, l’Islam non era politicizzato, non fungeva da vessillo di ideologie totalitarie e intolleranti. Mentre Venezia, la più orientale delle città occidentali d’allora, era il grande emporio in cui confluivano le merci e le arti provenienti dal mondo islamico. Era una frontiera “liquida”, aperta, una passerella, una cerniera fra due civiltà. Le religioni erano fonti di produzioni artistiche, non di conflitti. Unica, invece, per quantità di reperti e inedita per i materiali è stata la mostra dedicata al Sudan e alla storia della XXV dinastia faraonica, quella nota con il nome dei faraoni neri, che costruirono le piramidi a Meroe vicino a Karthoum e che governarono l’Egitto 2500 anni fa. La loro terra era conosciuta come il Regno di Kush, poi diventato Regno di Meroe.
O ancora, l’esibizione dedicata alla raffinata arte equestre dell’Islam, che ha visto raccolti insieme quasi 400 tra i più bei pezzi provenienti da Turchia, India e antica Persia e appartenenti alla collezione privata della Furusiyya Art Foundation. O l’omaggio rivolto alla madre di tutti gli arabi con l’esposizione-spettacolo riservata alla cantante Oum Kalsoum. E non poteva mancare una mostra su Bonaparte e l’Egitto, l’uomo che segnò con la sua Campagna in Oriente la nascita dell’egittologia.
spettacoli
19 novembre 2009 • pagina 21
Foto grande, a sinistra i due protagonisti del film che ha vinto il premio Amore e Psiche al MedFilm festival Foto piccola, una scena dei ”Eyes Wide Open”, opera prima di Haim Tabakman In basso, il logo del festival che si è da poco chiuso a Roma
cchi bene aperti sul cinema israeliano e su un tema difficile da raccontare. Ci riesce invece bene il regista Haim Tabakman, al suo esordio con un lungometraggio che ha vinto il premio Amore e Psiche del concorso ufficiale del MedFilm festival 2009. Eyes Wide Open (Eynaim pkohot) è una storia lieve, con uno soggetto povero di dialoghi, ma dal forte impatto emotivo. Sostenuto da una colonna sonora dai vaghi richiami alle melodie di American Beauty, parente anche nei contenuti. Sì, ma quali sono i temi del film? Uno è l’amore omosessuale all’interno di una comunità religiosa ortodossa ebraica. L’altro è quello del diritto negato alla felicità che spesso le regole vincolanti di una comunità molto chiusa provocano. La difficoltà della trama è questa: parlarne senza provocazione. Ma il regista la supera brillantemente, dimostrando un’ottima conoscenza delle regole del racconto cinematografico e del mezzo.
O
Primi piani, piani americani, sequenze e stacchi rispettano le regole della divisione tra protagonisti e antagonisti. La macelleria di Aaron, uomo di mezza età sposato a una giovanissima donna e con una numerosa prole cui badare, è la location principale del film. È qui che incontra il giovane e affascinante Ezri. In cerca di lavoro e senza casa, dopo un breve impegno in una scuola ebraica (Yeshiva). Ma è successo qualcosa e ha dovuto andarsene. Ora tra fettine e quarti d’agnello macellati secondo la regola, minaccia la stabilità emotiva di Aaron. Fino a farlo cedere. Galeotta fu l’immersione purificatrice fatta in un piccolo specchio d’acqua. Poco fuori Gerusalemme. «Da
Cinema. Una “Brokeback Mountain” ebraica al MedFilm festival di Roma
Da Israele gli amori poco ortodossi di Pierre Chiartano quanto tempo non esci dal tuo quartiere?» domanda Ezri. La risposta è lenta. E liberatoria è la scoperta di Aaron di una sessualità negata, nascosta, misco-
gonisti in divisa. I vestiti scuri, in ossequio alla tradizione ashkenazi del XVII secolo, i cappelli a larghe falde, le capigliature maschili con i peyot, i riccioli laterali. Le frange del talet katan che spuntano sotto la giacca. La lunga chioma femminile obnubilata da un hijab, solo dal nome diverso. Il rabbino Weizmann che cerca di salvare l’anima di Aaron. Le chiaccherate davanti al Pentateuco (la Torah). Le missioni “punitive”in casa dei peccatori. La tentazione, lo scenario religioso come cornice, la battaglia interiore, il peccato, la catarsi e la redenzione. Solo che stavolta non esiste una vera redenzione. «Potremo defi-
è probabilmente finita nel fondo limaccioso di quelle acque. Il MedFilm Festival, che festeggia quest’anno 15 anni di storia con una edizione speciale, una sorta di Grand Tour che dalle sponde del Mediterraneo ha esplorato i nuovi territori dell’Europa. Molti gli ospiti internazionali con un programma di lungometraggi, corti e documentari, circa 150 titoli per la maggior parte in anteprima. Molti i punti forti del Festival che si sposta in diverse location romane - dal Palazzo delle Esposizioni a via Nazionale, dal Nuovo Cinema Aquila a via l’Aquila, da Villa Medici a Trinità dei Monti -, con un denso cartellone di eventi. Molte proiezioni inedite, tra gli eventi collaterali sono state riproposte le Giornate professionali italo-
Molti ospiti internazionali, alla kermesse del cinema, con un programma di lungometraggi e corti, circa 150 titoli quasi tutte anteprime. Premio Koiné a Tahar Ben Jelloun e Nuovi Talenti all’attrice marocchina Saana Alaoui nosciuta in ossequio alle leggi e alle convezioni. Un prezzo da pagare alla sicurezza, alla protezione che ti fornisce una comunità, chiusa nelle sue regole tetragonali, che garantiscono una forte identità. Una tranquillità sociale pagata a caro prezzo per il protagonista del film. Nella storia scattano tutti i meccanismi del racconto di formazione. Una realtà che sembra immutabile, con dei prota-
nirlo un Brokeback Mountain ebraico» commenta il noto giornalista americano, Dennis Redmont, che incontriamo all’uscita dalla proiezione. La scena finale vede il macellaio tornare a immergersi, da solo, dopo aver allontanato il giovane amante, nel piccolo specchio d’acqua dove è cominciata la sua avventura emotiva. La legge degli uomini è tornata a dominare la sua vita, la felicità
mediterranee, serie di incontri rivolti a produttori e distributori dell’area e finalizzate alla promozione e circolazione dei prodotti audiovisivi e alla realizzazione di coproduzioni. Obiettivo dell’iniziativa infatti è lo sviluppo dei rapporti commerciali tra professionisti del settore audiovisivo, alla ricerca di nuovi interlocutori e nuovi mercati per la co-produzione, la promozione e la distribuzio-
ne dell’audiovisivo del Mediterraneo. Ospiti d’onore dell’edizione 2009 il Marocco e la Francia: esempio di una cinematografia giovane che si sta imponendo anche come modello produttivo il Marocco, e di un’industria cinematografica che ha saputo farsi laboratorio e fucina creativa per i talenti del Sud del mondo la Francia. Si rinnova inoltre per il nono anno consecutivo il Progetto Methexis, una diretta emanazione del Festival, che rende parte attiva della manifestazione gli studenti delle scuole nazionali di cinema dei Paesi aderenti al progetto, i futuri protagonisti del cinema europeo e mediterraneo.
Tra le menzioni della giuria ricordiamo la pellicola Amours voilées (Hijab el hob) del regista marocchino, Aziz Salmy. Un’altra bella storia su come riuscire a conciliare la vita sentimentale con quella religiosa, la modernità con il conservatorismo della società. Mentre tra i premi speciali, quello Koinè a Tahar Ben Jelloun, uno dei maggiori poeti e scrittori franco-marocchini. È l’autore del best seller Le racisme expliqué à ma fille (1998) e vincitore, nello stesso anno, del Global Tolerance Award, ricevuto dalle mani dell’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. Ben Jelloun è anche membro della giuria del Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese. Il premio Nuovi talenti è invece andato all’attrice marocchina Saana Alaoui che ha lavorato già in diverse produzioni, tra Marocco, Francia, Messico e Spagna. Per il cinema, ha lavorato con registi quali Rachid Benhadj con Il pane nudo - El khoubz el hafi, del 2005, Abdelkader Lagtaâ con Yasmine et les Hommes, del 2007, Irene Cardona con Un novio para Yasmina, del 2008; premio del pubblico al Festival di Montpellier.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”The Indipendent” del 17/11/09
L’ultimo proiettile di Leonard Doyle ncora in aumento il numero di suicidi tra i militari americani. È il dato più alto degli ultimi 26 anni. In novembre si è già raggiunta la quota totale del 2008. Secondo i rapporti dei militari Usa, più di un quarto dei soldati che si sono tolti la vita lo hanno fatto mentre erano in servizio in Iraq e in Afghanistan.
A
I suicidi sono avvenuti nel momento in cui molti soldati segnalavano disturbi da stress post-traumatico. Sintomi come flashback e altre gravi reazioni ne erano le prime avvisaglie. L’esigenza di ottenere risultati sul campo aveva aumentato il carico di lavoro dei reparti, soprattuttodi quelli impegnati in Iraq durante la passata amministrazione Usa. Le turnazioni dei contingenti sui fronti più difficili si erano accorciate notevolmente. Lo studio del Pentagono rivela che, nel 2006, i suicidi tra il personale in zone operative erano stati 99, contro gli 88 dell’ano precedente. Il dato più alto dal record che si era avuto nel 1991: con 102 decessi volontari.Tra questi 28 erano in servizio in Iraq e Afghanistan. Nel rapporto si sottolinea come fra le donne in divisa il numero delle morti raddoppi nei teatri di conflitto, rispetto a quelli di militari senza il dito sul grilletto.Tra le motivazioni che emergono dall’analisi le forze armate americane inseriscono argomenti di natura «occupazionale e operativa», così come la rottura di una relazione sentimentale, oppure problemi legali e finanziari. Un ventaglio di avversità che, a seconda della psicologia di chi le subisce, possono produrre anche una scelta irreparabile. Non sorprende quindi che non emerga nello studio alcun legame con la recente caduta del morale delle truppe combattenti, impiegate in Iraq e Afghani-
stan. E soprattutto delle sconfitte militari subite in quei teatri. Il Pentagono afferma che non ci sarebbero «prove evidenti» che un ripetuto impiego su fronti di guerra possa aver provocato un aumento del fenomeno. Impegnata al limite delle proprie capacità, in due guerre negli ultimi sei anni, l’amministrazione militare ha dovuto aumentare la durata dei turni nelle operazioni più impegnative all’estero. Passando da 12 a 15 mesi la ferma in Iraq e Afghanistan e inviando gli stessi contingenti più volte sullo stesso fronte. Se i freddi numeri hanno un senso quando si parla di vite perdute, lo Us Army registrava nel 2006 17,3 suicidi ogni 100mila soldati attivi, rispetto ai 12,8 dell’anno precedente. Nel 2008, trenta dei 99 decessi, confermati come volontari, sono avvenuti in zone di guerra, così come nel 2009 – dati aggiornati a novembre – sono stati 44 i militari che si sono tolti la vita, dei quali 17 col fucile in mano in Iraq e in Centrasia.
I dati dei suicidi seguono l’andamento dell’aumento dei disordini mentali che nascono durante il servizio militare in tutte le specialità delle forze armate. Secondo molti studi – e anche secondo le valutazioni dello stesso Pentagono – ai militari non viene fornita un’adeguata assistenza psicologica. Circa il 35 per
cento degli uomini e delle donne in servizio hanno espresso la necessità di avere un aiuto che gli faccia superare problemi di ordine psichico, entro un anno dal loro rientro dai teatri di guerra. Lo Us Army di routine, una volta all’anno, manda al fronte dei team medici per verificare le condizioni mentali e il morale dei soldati in prima linea.
Le forze armate a stelle e strisce, che sono state fortemente criticate per la carenza di strutture cliniche dedicate alla cura dei reduci, hanno dichiarato di aver rivisto i programmi d’addestramento e aver migliorato l’azione preventiva contro il fenomeno dei suicidi. Sono stati incrementati del 25 per cento gli specialisti sanitari nel campo delle malattie psicologiche e mentali. Sono stati istituiti dei corsi per i militari, per riuscire a fare un autonalisi dei sintomi del disagio mentale e riconoscerli e nei commilitoni. Un incoraggiamento a chiedere aiuto, prima di premere il grilletto dell’ultimo colpo.
L’IMMAGINE
Categorigo no alla riconversione degli zuccherifici in centrali a biomasse Una delle tante assurdità di questa Italia in piena crisi è data dalle proposte di riconversione degli zuccherifici in centrali cosiddette a biomasse; oltre ai danni alla salute e l’attacco ai diritti dei cittadini, tali proposte presentano il paradosso di non portare alcun vantaggio sostanziale alle economie locali e ai territori. Di recente ho partecipato al convegno “La salute non ha colore” e ciò che più mi ha sorpreso è stato che tutti i presenti si siano trovati d’accordo nell’affermare il loro no a questa proposta scellerata e alla devastazione del territorio che ne deriverebbe. Prezioso il contributo di Massimo Gianangeli, vice presidente del comitato per la Tutela della salute e dell’ambiente della Vallesina e di Adriano Mei, coordinatore comitati regionali Marche rifiuti zero e dei tanti consiglieri comunali.Tutti hanno rinnovato il loro impegno a votare contro questa iniziativa.
Domenico
VANDALISMO A ROMA «Spaccarotella pisceremo sulla tua tomba». È la scritta che è apparsa sull’intonso casotto dell’Atac in piazza Vescovio a Roma. Luigi Spaccarotella è il poliziotto che sparò da un’area di servizio all’altra dell’autostrada del Sole e uccise il tifoso della Lazio, Gabriele Sandri. Il 1 giugno scorso, a proposito dell’imbrattamento dell’Ara Pacis, scrivevamo al sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Il muro, di un candore abbagliante, era un bersaglio ambito dall’imbecille di turno che si diverte, a spese del contribuente, a sporcare monumenti, mura, saracinesche, edicole, autobus, barriere acustiche e quant’altro. Non se ne può più». Eppure qualche indizio sui responsabili di questo
scempio possono essere individuati: sono i circoli partitici e quelli dei tifosi di questa o quella squadra di calcio che operano impunemente. Il sindaco, Gianni Alemanno, sa a chi ci riferiamo, specialmente in certi quartieri. Occorre provvedere. Il 14 agosto dello scorso anno lo stesso Alemanno dichiarava: «Con il ministro Maroni abbiamo allo studio forme alternative di punizione per i graffitari: chi viene preso a sporcare i muri, dovrà cancellare i propri graffiti, ma anche altri dieci». È passato quasi un anno da quelle dichiarazioni. La situazione è peggiorata e ora lo sfregio finale. I romani direbbero: «Alema’, datte’ na’ mossa, fa’ quarcosa!!!». Siamo alle minacce mentre il quartiere Vescovio è letteralmente
Acqua azzurra, ma non chiara Qualcuno ha dato una ripulita al Tamigi? Niente affatto! Questo non è l’azzurro delle acque cristalline, ma il colore delle 200mila paperelle da bagno che hanno “gareggiato” nel fiume londinese. La competizione si chiama “The great british duck race” (la grande gara di papere) nella quale vince la paperella che riesce a farsi trasportare meglio dalla corrente
riempito di scritte. Non c’è edificio pubblico o privato, palina dell’autobus, saracinesca di negozio che non sia sporcata da vernici degli imbrattatori. Sollecitiamo ancora una volta il sindaco Alemanno ad un intervento risolutore
Romani di piazza Vescovio
FUMETTI CONTRO MELONI Piena solidarietà a Giorgia Meloni, per delle vignette insultanti che falsano la realtà di una donna che, piaccia o no, è diventata ministro per le sue qualità e capacità. È un peccato quando la satira a sinistra si fa condizionare da becere litanie che ormai sono solo la rappresen-
tazione di un antifascismo di maniera. Resta comunque la convinzione che la satira politica, da qualunque parte venga, debba avere come unico confine solo quello del buon gusto, anche se aspro, che però in questo caso, mi pare completamente assente.
Pia Locatelli
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Non giocano più a nascondino con lo Spirito Mary cara, ho perso mio padre. È morto nella vecchia casa dove era nato sessantacinque annifa. Le sue due ultime lettere mi fanno piangere amaraente ogni volta che le leggo. Mi ha benedetto, prima che arrivasse la fine: così mi hanno scritto gli amici. Ora so, amatissima Mary, che riposa in seno a Dio; e tuttavia non posso fare a meno di sentire le fitte del dolore e del rimpianto. Non posso fare a meno di percepire la mano pesante della morte sulla mia fronte. Non posso fare a meno di scorgere la vaga, malinconica ombra dei tempi andati, quando lui e mia madre e mio fratello e la mia sorellina vivevano e ridevano dinanzi al volto del sole. Dove sono adesso? Sono da qualche parte in una regione ignota? Stanno insieme? Ricordano il passato come noi? Sono vicini a questo nostro mondo o sono lontano lontano? So, cara Mary, che sono vivi.Vivono una vita più reale, più bella della nostra. Sono vicini a Dio più di noi. Non si frappone più lo schermo a sette veli tra i loro occhi e la verità. Non giocano più a nascondino con lo Spirito. Io sento tutto questo e tuttavia non posso fare a meno di avvertirne le fitte del dolore e del rimpianto. Ti bacio la mano, chiudo gli occhi ed ecco ti vedo, amica amatissima. Kahil Gibran a Mary Haskell
ACCADDE OGGI
TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE VERSO IL NON-MERCATO Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, al primo incontro informale per la costituzione del comitato promotore della Banca del Mezzogiorno ha invitato tutti: industriali, sindacati, associazioni di varie categorie, banche. Le Poste spa hanno già spianato davanti a sé un futuro di affidamento della gestione. Si parla di rapporti privatistici, in cui lo Stato dovrebbe facilitare i processi e le iniziative per aumentare la capacità di offerta del sistema bancario e finanziario del Mezzogiorno, sostenere le iniziative imprenditoriali meritevoli di credito e canalizzare il risparmio vero iniziative economiche che creino occupazione nel Mezzogiorno. Intanto, già ufficialmente è previsto un conflitto di interessi: lo Stato - ufficialmente solo facilitatore - sarà invece presente tra i soci fondatori attraverso società a partecipazione pubblica. E non è un problema da poco, perché se il soggetto interessato a erogare credito a chiunque per il bene di una zona dell’Italia, dovrà poi decidere se erogarlo a se stesso... qualcosa non torna. Non solo, ma perché le Poste spa dovranno poi gestire questa nuova banca? Non si tratta forse di una società privata il cui capitale è dello Stato? A questi interrogativi fondamentali aggiungiamo solo una considerazione. La vecchia Cassa del Mezzogiorno perché fu chiusa? I 140 miliardi di euro che questa Cassa ha erogato nel Sud dal 1951 al 1992 se fossero serviti alla bisogna (colmare il gap tra Nord e Sud del Paese), oggi non sa-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
19 novembre 1954 Sammy Davis jr perde il suo occhio sinistro in un incidente automobilistico a San Bernardino 1959 Ford motor company annuncia la fine della produzione della Edsel 1969 Pelé realizza su rigore al ’34 della partita fra il Santos (in cui milita) e il Vasco da Gama il suo millesimo goal 1977 Il presidente egiziano Anwar Sadat diventa il primo leader arabo a recarsi in visita ufficiale in Israele 1978 Dopo 46 anni, si stabilisce il congresso a Madrid del partito comunista spagnolo 1979 L’Ayatollah Ruhollah Khomeini ordina il rilascio di 13 donne e neri americani tenuti in ostaggio nell’ambasciata statunitense di Teheran 1984 Una serie di esplosioni nel deposito di prodotti petroliferi della Pemex a San Juan Ixhuatepec innesca un gigantesco incendio 1985 A Ginevra, il presidente Reagan e il segretario generale del Pcus Gorbachev, si incontrano per la prima volta
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
remmo qui a riproporla pressocché identica. E non c’è da credere che si tratti di qualcosa di diverso rispetto al passato perché tutte le categorie e associazioni economiche e sindacali hanno manifestato il loro interesse in una sorta di unità nazionale sudista: nella miseria i disgraziati sono disposti a tutto foss’anche solo per lenire di poco la loro condizione. E disgraziati non sono solo coloro che oggi a Sud riescono ad ottenere meno credito rispetto a chi sta al Nord, ma lo sono anche coloro che, incapaci di essere nel mercato con proposte allettanti e capacità di esserne attori per innovazione e interesse della loro produzione o dei loro servizi, si buttano a capofitto per attaccarsi alle mammelle della mucca/Stato che viene loro offerta. Tutto questo è premessa di non-mercato, assistenzialismo e gestione da parte dei centri di potere partitico, industriale e sindacale. Ne riparliamo fra qualche anno, anche se già nei prossimi mesi, dalla composizione e le decisioni del comitato promotore, crediamo sarà chiaro il bagno di soldi e di non-credibilità dello Stato che sta per essere avviato.
Vincenzo Donvito
LA YAMAHA IN CRISI Molta gente in Yahama si è ritrovata in cassa integrazione da un momento all’altro e adesso si chiede quale sarà il suo futuro. È il sistema economico classico che non garantisce più una unilaterale soddisfazione dei bilanci. Occorre una riforma epocale.
IL CROCEFISSO E IL PECCATO ORIGINALE La recente sentenza europea ha rilanciato il tema dell’esposizione del Crocefisso nelle aule. Sul tema infatti convergono sentimenti tra loro contrastanti.Tra i contrari “militano”gli integralisti islamici e di altre religioni, le posizioni radicali di sinistra e i laici anticlericali per pregiudizio.Tra i favorevoli si trovano compagni di strada tradizionalisti per partito preso o per paura, parte della cultura di destra che della tradizione fa un valore assoluto e chi teme gli effetti dell’immigrazione nella loro vita quotidiana, a cominciare dalla concorrenza sul lavoro per arrivare al problema della sicurezza. Forse è il caso di ricondurre la questione alla sostanza del tema. Ovvero il ruolo di Dio, e dei suoi simboli. Ignoriamo il periodo del Risorgimento, che fu denso di religiosità quanto di antipapismo per i noti motivi, e il Ventennio fascista, dove la religione cattolica fu religione di Stato in coincidenza della perdita di cittadinanza della religione della libertà. Nella fase costituente il tema del richiamo esplicito a Dio nella Carta fu molto dibattuto.Al punto che si poteva risolvere in una profonda frattura imprevedibile nelle sue conseguenze. All’interno della componente più liberale, stazionavano eccessi di anticlericalismo, nella componente cattolica si temeva che il richiamo a un Dio generico aprisse la possibilità che in Italia non fosse necessariamente quello cattolico e così via. La Pira propose di inserire un preambolo che contenesse la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”e un’invocazione a Dio, allo scopo di dare un fondamento alla priorità della persona rispetto allo Stato, diversamente dal fascismo (e comunismo aggiungo io), «perché la natura dell’uomo è spirituale e trascende quindi tutti i valori del tempo». Togliatti sapeva che la posizione di La Pira aveva trovato l’opposizione del Vaticano e della gerarchia cattolica sfavorevole ad ogni richiamo al relativismo religioso. Chiese a La Pira di non insistere, di non arrivare ad un voto, perché in modo trasversale l’assemblea su questo tema si sarebbe divisa. E così avvenne. La Costituzione non ebbe il richiamo a Dio e quindi al fondamento religioso della libertà ma la Chiesa mantenne il crocefisso nelle scuole. Forse oggi, con una Costituzione diversa, non si discuterebbe del Crocefisso, perché evidente richiamo non solo ad una religione ma alla religione della libertà a cui solo gli stupidi si possono opporre. I tempi sono cambiati per tutti: il muro di Berlino è crollato, perché non porre rimedio a questo peccato originale? Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 GIOVEDÌ 26 - ORE 19 - NAPOLI HOTEL RAMADA - VIA G. FERRARIS 40 Incontro-convegno dei Circoli liberal della Campania. 150 anni di Storia: “dall’Unità d’Italia al Partito della Nazione”. Introduce: Vincenzo Inverso. Conclude: Ferdinando Adornato, presidente dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
BR
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO La storia. Gli Usa impazziscono per la «Uss New York»
Una nave porta per il mondo i resti d’acciaio di Velia Majo
uando George E. Pataki, a quel tempo governatore dello Stato di New York fu informato, dopo gli attacchi dell’undici settembre, che la marina americana voleva usare parte dell’acciaio del World Trade Center per la costruzione di una nave, non esitò a dare il suo consenso. E fu proprio su richiesta dello stesso Pataki che “il vessillo” si sarebbe poi chiamato Uss New York. Un’eccezione concessa solo in memoria delle vittime perché, per tradizione, solo i sommergibili della marina americana portano nomi degli Stati del’Unione.
Q
La nave venne commissionata con lo scopo di avere un’unità che portasse il nome della città di New York nell’ambito della lotta globale al terrorismo. L’acciaio proveniente dalle macerie delle Torri Gemelle fu spedito nel cantiere navale di Northrop ad Avondale, in Louisiana e fu selezionato e fuso, con la “reverenza riservata alle reliquie religiose”, da una squadra di lavoratori di una fonderia locale il 9 settembre 2003. Alcuni lavoratori ritardarono persino l’inizio della pensione per non sottrarsi a questo onore e a questa responsabilità, quella di “trasformare”qualcosa di veramente triste e doloroso in una nave che fosse impegnata e servisse per la lotta al terrorismo. L’acciaio fu fuso e trasformato solo due anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle anche per mettere a tacere le voci sul fatto che il materiale proveniente dal World Trade Center fosse stato fatto sparire in tutta fretta. Nel 2005 il cantiere dove era in costruzione la nave, sopravvisse al disastro dell’uragano Katrina, permettendo a molte maestranze rimaste senza casa, di non perdere il lavoro. Da allora il fatto che una nave dedicata ad una grande tragedia ne abbia affrontata e in questo caso evitato un’altra, superando indenne le conseguenze dell’uragano Katrina, ha contribuito a creare intorno alla USS New York un alone di leggenda.
po aver attraversato il Verrazzano Bridge, passare per poi fermarsi difronte al World Trade Center con i marinai sull’attenti sul ponte della nave. Ventuno colpi di fucile a salve sono esplosi per salutare il suo ingresso nel porto di Manhattan. Sono sette e mezzo le tonnellate di acciaio recuperate dal sito del World Trade Center utilizzate nella costruzione della prua. Ma se si pensa che la nave ha un dislocamento di circa 25000 tonnellate, l’acciaio proveniente dale Torri Gemelle ne rappresenta solo una piccola parte: un importante tributo simbolico, dunque. Quando il vessillo stava per avvicinarsi a New York il sindaco Michael Bloomberg è salito a bordo ed ha trascorso la serata con l’equipaggio a guardare i New York
marrà a New York fino al Veteran Day, fará poi ritorno al suo porto di Norfolk, in Virginia per un anno di formazione del personale ed anche per le esercitazioni. Nello scudetto della nave sono raffigurate le Twin Towers e i colori dei dipartimenti di polizia e vigili del fuoco che per primi risposero alle chiamate di soccorso dell’undici settembre. Varata il 1 marzo 2008, la Uss New York è la quinta di una nuova classe di navi militari (la classe San Antonio) lunga 208.5 metri e larga 31.9. È capace di recare a bordo mezzi anfibi ed elicot-
dell’11/09/01
E lo scorso 2 novembre la Uss New York è arrivata nel porto di New York per il suo viaggio inaugurale. I soccorritori e le famiglie delle vittime dell’attacco dell’undici settembre, si sono raccolte su uno dei moli di Manhattan, per vedere la Uss New York scivolare lungo il fiume Hudson do-
teri per un’ampia gamma di missioni compresa la caccia ai terroristi. Può imbarcare aeromobili tra cui convertiplani MV-22B Osprey ed elicotteri CH53E Super Stallion, Ch-46 Sea Knight, Ah-1 SeaCobra e UH-1 Iroquois. Inoltre può trasportare circa 700 marines e 14 veicoli da sbarco anfibi. È in grado di superare i 22 nodi di velocità (41km/h). Il 13% dei marines che saranno a bordo per servire la nave provengono dallo Stato di New York proprio per sottolineare l’importanza che questa nave ha per la città.
Nel 2005, il cantiere dove era in costruzione sopravvisse al disastro dell’uragano Katrina, permettendo a molte maestranze rimaste senza casa, di non perdere il lavoro. Anche per ciò, questo colosso è contornato da un alone di leggenda Yankees giocare con i Philadelphia Phillies impegnati nella Baseball’s Word Series, ricordando all’equipaggio che la Uss New York è una nave forte proprio come furono forti i cittadini di New York in quella circostanza.
La Uss New York (Uss sta per United States Ship) è stata ancorata al molo 88 di Manhattan all’altezza della 48 strada e ri-
Altre due navi della Marina Militare della stessa classe saranno chiamate con nomi che ricordano gli attentati delle Torri Gemelle. La Uss Arlington è stata chiamata in questo modo per onorare le vittime che morirono al Pentagono di Arlington, in Virginia. La Somerset Uss commemora la contea in Pennsylvania dove fu dirottato il volo della United Airlines 93. E quando la USS New York lascerà Manhattan e prenderà il largo, le acque di ogni mare che attraverserà si apriranno, come d’incanto, al passaggio di una tanto imponente e “speciale” prua.