2009_11_20

Page 1

di e h c a n cro

91120

Come tutti i deboli,

dava un’importanza esagerata al fatto di non cambiare idea W. S. Maugham

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 20 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Secondo l’Istituto internazionale, la disoccupazione crescerà fino all’8,7%. Napolitano: «Vedo un Parlamento in difficoltà»

Il vero nodo è il “declino breve” Continuano le risse sui processi di Berlusconi, ma l’Ocse ci avvisa: senza interventi strutturali l’Italia rischia molto già dal 2010. E Montezemolo: «Il governo in crisi perché non fa le riforme» Silvio affida ai Club della libertà la revanche contro i finiani

Nasce la “Gladio”di Fi: il Pdl ormai non c’è più LE VERITÀ NASCOSTE

Se la maggioranza esiste ancora, inizi a governare

di Errico Novi

ROMA. Ad essere spietato

Sale il debito pubblico, aumenta la disoccupazione, scende il Pil, calano i consumi, le tasse stanno sempre lì e se fossi un dipendente o un operaio che guadagna 1500 euro al mese mi chiederei dove vanno a finire i soldi che mi tolgono per le tasse. I numeri dell’economia italiana sono dell’Ocse, mentre la considerazione sull’operaio e i 1500 euro mensili è di Luca Cordero di Montezemolo. Dovendo tradurre tutto sul piano dell’azione di governo si deve dire: e le riforme?

stavolta è Napolitano. È lui a dire che «oggi ci sono grosse difficoltà da parte delle Camere, sulla operosità come sulla densità e la bontà dei prodotti legislativi». D’altra parte, le difficoltà della maggioranza sono sotto gli occhi di tutti: il Pdl è spaccato e alle intemperanze dei finiani adesso si aggiunge la “Gladio”dei fedelissimi di Berlusconi, i Club della libertà di Mario Valducci resuscitati per sostenere il premier. Fin dalla manifestaizone del 5 dicembre.

a pagina 5

a pagina 4

di Giancristiano Desiderio

Il futuro è globale, ecco perché la Fiat deve inseguirlo

La sfida di Karzai: «Cinque anni per un Paese sicuro»

Non si placano le polemiche dei sindacati e delle forze politiche sul destino di Arese e Termini Imerese.

Kabul, atto terzo. Ieri il presidente dell’Afghanistan ha giurato per la terza volta, di fronte a Hillary Clinton.

Gianfranco Polillo • pagina 6

di Francesco Pacifico

ROMA. Per una volta, sembra che i numeri facciano politica. Ma le cifre sono oggettive e quelle dell’Ocse sull’economia italiana non sono buone: la disoccupazione è destinata a crescere almeno fino al 2011, quando arriverà all’8,7%, un recordo per gli anni recenti. Secondo l’organismo internazionale, la politica economica del governo italiano rischia di mostrare la corda nel medio periodo: il deficit è troppo alto e occorrono riforme strutturali. Le stesse che chiede ancora una volta Luca Cordero di Montezemolo che stigmatizza l’immobilismo del governo. a pagina 2

«Fermeremo solo l’1% dei processi» Alfano difende la riforma. Ma i magistrati non ci credono.

I QUADERNI)

Il presidente americano esce a mani vuote dal G2 con la Cina. Ma in Corea alza la voce contro Teheran: «Siamo pronti a nuove sanzioni sul nucleare»

Il fallimento e la minaccia

Marco Palombi • pagina 7

alle pagine 14 e 15

Giornata di trattative (e lunghi coltelli) per la presidenza Ue e per Mr Pesc

La Ashton batte D’Alema

Il Pse candida all’unanimità la commissaria inglese di Enrico Singer on era il candidato di un governo socialista: questo è stato il commento di Martin Schulz, presidente del gruppo socialista in Europa per giustificare l’uscita di Massimo D’Alema dal palcoscenico di Bruxelles. E poiché il governo socialista più “potente” d’Euorpa è quello britannico, il Pse alla fine ha candidato l’inglese Catherine Ashton alla carica di Mr Pesc. Anzi Mrs Pesc. Il cambio di strategia in casa socialista suona un po’ come uno schiaffo a D’Alema e all’Italia: d’altra parte lo sapevano tutti che Gordon Brown voleva tornare a casa dal vertice di ieri con qualcosa in mano. Il Pse gli ha dato una mano. Poi il summit dei capi di Stato, nella notte, ha fatto il resto. a pagina 8

N

Antonio Picasso • pagina 16

se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

BILANCIO DEL TOUR DI OBAMA

• ANNO XIV •

NUMERO

230 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 20 novembre 2009

prima pagina

Declino/1. Il numero degli italiani che perderanno il lavoro crescerà fino al 2011: per invertire la tendenza servono riforme

Il processo breve dell’Ocse Costi, deficit, ma soprattutto disoccupazione: i dati internazionali condannano la linea Tremonti. Montezemolo: «Il governo è immobile» di Francesco Pacifico

ROMA. Sul breve termine la promozione dell’Italia è piena. La caduta è stata arrestata tanto che il Pil calerà quest’anno del 4,8 per cento contro le stime più prudenziali che fino a qualche mese fa parlavano di un -5 o di un -5,2 per cento, mentre l’inflazione tra dodici mesi non dovrebbe salire oltre lo 0,9.

Sul medio termine invece il giudizio è ribaltato: la disoccupazione salirà al 8,5 per cento nel 2010; un anno dopo il debito sfondera il livello del 120 per cento del Pil. Nelle pagine dell’ultimo Economic Outlook dell’Ocse dedicate al Belpaese si legge una rappresentazione perfetta – e perciò impietosa – dell’azione di Giulio Tremonti per fronteggiare la congiuntura più negativa dell’era moderna. Ci sono i frutti di un rigorismo ormai maniacale, che ha per-

Il debito salirà al 120 per cento nel 2011. L’inversione passa per una riduzione netta del fabbisogno messo all’Italia di blindare i saldi e vedere andare a buon fine le aste dei Btp. Che in questa fase sono richiesti più dei bund. Nel rapporto ci si rallegra quasi che, «a causa dell’alto debito pubblico, l’Italia non abbia introdotto stimoli su larga scala». Jorgen Elmeskov, capoeconomista dell’organizzazione, ha spiegato che Roma «ha fatto il meglio che si poteva fare, quando ha deciso di non spendere di più per dare stimolo all’economia, ma di riallocare la spesa pubblica». Ma le luci finiscono qui. Ci sono anche i timori che lo Scudo fiscale faccia da apripista a una serie innumerevole di condoni. E soprattutto si intravadono i limiti di una politica che non è andata oltre la stabilità dei finanze pubbliche, che non ha fatto le riforme. È il conto a tanto attendismo si presenterà tra un anno con il boom della disoccupazione, tra due con la crescita massiccia del debito pubblico. Era stato proprio Mario Draghi, nelle sue ultime Considera-

Giampaolo Galli di Confindustria commenta i dati: «Tagliare spesa e tasse»

«È vero, ci vorrà molto tempo per tornare a crescere» ROMA. Di fronte a una ripresa dai contorni incerti, come ha sancito l’Ocse, l’opinione di Giampaolo Galli è netta. «Bisogna fare tutto quello che si può», spiega a liberal il direttore generale di Confindustria, «per sostenere le imprese ed evitare che siano costrette a ridurre il loro personale». Siamo di fronte a un biennio non meno complesso di quello appena passato? Intanto c’è di positivo che dall’Ocse arrivi una revisione verso l’alto delle previsioni di crescita per il 2010 e il 2011. Un’ulteriore conferma che a livello mondiale e anche in Italia la ripresa è in atto. Ma ci vorrà molto tempo per tornare ai livelli precedenti alla crisi. Saranno anni difficili? Ci sono aspetti sui quali, verosimilmente, vedremo miglioramenti. Per esempio sui livelli di attività. Ci sarà sicuramente un peggioramento, almeno temporaneo, per l’occupazione. E crescerà il debito pubblico. Centrale è la ripresa delle imprese. Dall’inizio della crisi l’industria ha avuto una caduta nella produzione mediamente del 20 per cento. Con una ripresa che l’Ocse definisce lenta e incerta, questi livelli, molto bassi, difficilmente saranno sostenibili per molto tempo. Cosa fare per dare una svolta? Nell’immediato le misure non possono prescindere dalla liquidità e dal credito: quindi il pagamento alle imprese dei debiti delle amministrazioni. O quello dei crediti d’imposta per la ricerca: ne possono usufruire 29mila aziende, ma di queste 22mila rischiano di rimanere escluse da questo beneficio per mancanza di risorse. C’è da potenziare il fondo pubblico di garanzia sui prestiti bancari alle Pmi: riteniamo che servano almeno 500 milioni invece dei 200 stanziati dal governo. E nel medio termine? Premesso che ogni azione, per andare in porto, deve partire subito, spero che il fondo per la patrimonializzazione delle imprese sia operativo al più presto. Ma non meno importante è “Industria 2015” come tutte le attività che riguardano ricerca e innovazione. Per non parlare delle misure, come l’avvio delle infrastrutture, che hanno logica di lungo periodo e possono dare un sostegno nell’immediato.

Per l’immediato avevate anche chiesto un taglio dell’Irap, che è sempre più lontano. Confindustria ha chiesto una riduzione della spesa improduttiva contemporaneamente alla riduzione di Irap e di Irpef per i lavoratori dipendenti. Non pensiamo certo di creare disavanzo pubblico. Delusi? Prendo atto delle riflessioni che si fanno nel governo, ma continuiamo a ritenere un nostro dovere richiamare chi governa all’opportunità di contenere la spesa pubblica sia per evitare la crescita del debito sia per ridurre la pressione fiscale. Ci sarà da fare i conti con una disoccupazione in forte crescita. Come evitare una crisi sociale? Intanto sono essenziali le misure già prese per migliorare gli ammortizzatori. Vanno rafforzati tutti gli istituti per l’orientamento e la riqualificazione dei lavoratori. Mi sembra positiva l’iniziativa del ministero del Lavoro di dare un incentivo alle società di ricerca di personale in ragione delle persone che sono state riqualificate e ricollocate. L’Ocse ci chiede di intervenire su un debito pubblico che va verso il 120 per cento del Pil. Non sarebbe l’ora di riformare le pensioni? È forse vero che questo non è il momento più adatto perché si rischia di creare ulteriore incertezza nelle persone e anche di frenare i consumi. Ma il tema dell’età pensionabile è ineludibile. Aggiungo che ci sono altre voci sugli oltre 800 miliardi di euro spesa pubblica, che possono essere razionalizzate o contenute. Non è nemmeno grave che si siano fermate le liberalizzazioni. Nel decreto sugli obblighi comunitari si registrano passi avanti, per quanto parziali, come quello sui servizi pubblici. Ma accanto ci sono preoccupanti passi indietro. Quali? Vorrei sottolineare le norme sulle professioni forensi, che introducono un’esclusiva a favore dei professionisti iscritti all’albo nella conciliazione, nell’arbitrato e persino della consulenza. Questo sì che (f.p.) mi sembra grave.

zioni, il primo a prevedere che gli anni successivi saranno per l’Italia più duri di quelli della crisi. E non se ne sorprenderà lo stesso Giulio Tremonti, che ieri a Pechino davanti agli allievi della scuola di formazione del Pcc ha spiegato: «La crisi è stata fermata, ma non risolta, dagli interventi della politica e dei governo». E che al netto dell’ottismo ostentato in pubblico, ha sempre saputo che con la ripresa dell’attività, anche il debito pubblico italiano sarebbe tornato a essere un problema. E lo sarà perché i nostri più diretti competitori riprenderanno a correre gravati di minori deficit strutturali. Nell’Economic Outlook diffuso ieri l’Ocse mette nero su bianco che «a livello globale è in atto una ripresa largamente inaspettata solo sei mesi fa». Spiegando però che seppure ha rivisto a rialzo le previsioni di crescita per i prossimi anni, la ripresa «sarà complessivamente moderata». Infatti il Pil dei Paesi più industrializzati calerà nel 2009 calerà del 3,5 per cento, per risalire dell’1,9 dodici mesi dopo (contro lo 0,7 precedentemente stimato). Dodici mesi ancora ed ecco consolidarsi la ripresa con un rialzo del 2,5 per cento. Anche in Eurolandia la recessione si concluderà prima del previsto: il Pil passerà dal -4,0 per cento nel 2009 al +0,9 nel 2010 e al +1,7 nel 2011.Numeri che spingono i funzionari di Parigi a pianificare exit strategy dalle politiche di aiuti, «anche se la loro implementazione dovrà essere graduale».

L’Italia, dopo un calo del 4,8 per cento a fine anno, vedrà salire il suo Pil dell’1,1 nel 2010 e dell’1,5 nel 2011. Su questo percorso l’Ocse non nasconde i suoi dubbi. «La durata e la forza del rimbalzo restano incerte», si legge nell’outlook. Proprio per questo da Parigi consigliano Roma di non lesinare in «sforzi importanti di risanamento a partire dal 2011 quando la ripresa tornerà». Quando l’aumento all’attività seguirà anche quello della


prima pagina

20 novembre 2009 • pagina 3

La casa di proprietà ormai è una certezza per l’80% degli italiani

C’è la crisi, le famiglie scappano dal mattone L’Istituto europeo valuta nel 6,7% la diminuzione del mercato immobiliare nel nostro Paese di Alessandro D’Amato

Giulio Tremonti è stato di fatto “sconfessato” dai dati dell’Ocse. Nella pagina a fianco, Giampaolo Galli, il direttore generale di Confindustria. Nella foto piccola, Luca Cordero di Montezemolo spesa. Il debito pubblico salirà di 100 punti base già quest’anno arrivando a quota 115 per cento del Pil, per poi toccare nel 2011 la soglia del 120. Il deficit/Pil registrerà dal 2009 al 2011 rispettivamente un livello del 5,5 per cento, del 5,4 e del 5,1.

Proprio la crescita lenta consiglia all’Italia, che studia proroghe alla sanatoria, di mostrarsi rigorosa sullo Scudo. «Dovrà essere vista dai cittadini come una misura straordinaria, nell’ambito dell’impegno generale alla trasparenza sugli scambi di informazioni sulle tasse recentemente concordato a livello internazionale, altrimenti i contribuenti potrebbero arrivare alla conclusione che sono probabili altri condoni fiscali». Poca cosa, comunque, ai rischi che porterà con sè l’allarme disoccupazione. Che essendo un indicatore ritardato, farà conoscere gli effetti della stasi impietosa del primo semestre 2009 dodici mesi dopo. E si continuerà così se non arriveranno misure di accompagnamento alle imprese più dinamiche e forme di ricollocamento più efficaci di quelle attuali. A fine anno salirà al 7,6 per cento (dal 6,8 del 2008) il numero di italiani che hanno perso il lavoro. Livello che nel 2010 raggiungerà quota 8,5 per cento e

nel 2011 l’8,7. E poco importa che in Eurolandia, già tra dodici mesi, la disoccupazione avrà sfondato il muro del 9. Per descrivere il male dell’Italia Elmesekov mette assieme le difficoltà di finanza pubblica e l’altissima tassazione. Due fardelli che, con il suo +1,5 per cento nel 2011, pongono l’Italia al terzultimo posto nella classifica della crescita. Soltanto Spagna (+0,9 per cento) e l’Irlanda (+1) fanno peggio di noi. Nota Elmesekov: «L’Italia deve fare sforzi per ridurre il debito pubblico. Lo si può fare con una maggiore efficienza della spesa e una rigorosa selezione delle necessità di ogni singola area».

In questa chiave la riforma per eccellenza resta l’innalzamento dell’età di pensionamento. Sulla necessità di dare una scossa all’Italia è intervenuto anche Luca Cordero di Montezemolo. In Italia, dice il presidente della Fiat, «c’è un clima da curva Sud, con opposte tifoserie, non più parti politiche: per questo di riforme istituzionali condivise non si parla piu». Per concludere che le elezioni anticipate «sarebbero un’umiliazione rispetto a un governo che ha una maggioranza enorme, ha i numeri in Parlamento ed è d’accordo sul programma».

ROMA. L’immobiliare scricchiola. In Italia l’Ocse calcola che i prezzi delle case sono calati dell’1,7% nel 2008 e addirittura del 4,7% nel quarto trimestre di quell’anno. E, sempre secondo i dati dell’istituto di Parigi, il calo è ancora più visibile se si guardano i numeri dell’edilizia: nelle costruzioni residenziali e non, il calo nel 2009 è arrivato al 6,7%, e nel quarto trimestre di quest’anno si prevede un -3,1%. A preoccupare di più sono gli immobili non residenziali, che l’Ocse prevede in calo anche nel 2010 (-0,6%), e in ripresa soltanto con l’anno successivo (+2,9%). Meno problemi sui residenziali, in crescita l’anno prossimo dell’1,4% e del 4% nel 2010. E i dati Ocse non sono nemmeno quelli più allarmanti sul settore edilizio. Il rapporto dell’ associazione dei costruttori Ance riporta la vera è propria ”gelata” degli investimenti del 2009: 9,5% sull’ anno precedente in termini reali. Un crollo che è “collegato all’ andamento dei permessi a costruire che sono in progressiva riduzione dal 2006” spiegano i tecnici dell’associazione. Le abitazioni progettate sono passate da 305 mila nel 2005 alle 187 mila del 2009, cioè allo stesso livello dell’ inizio degli anni ‘90.

lia, gli operatori immaginano che prima che il settore riprenda ai ritmi degli anni precedenti ci vorrà molto tempo. Ma non credono al rischio “bolla”, per lo meno di tipo americana o cinese: «Vero è che c’è stata molta speculazione, ma non ai livelli di altri paesi: rischia di meno, il mercato nella sua interezza; qualche singolo magari di più».

Anche se invece sull’altro fronte – le banche – c’è chi parla di ripresa già in atto. Leggendo i dati riportati dall’Associazione bancaria nel “Monthly Outlook” di novembre su economia e mercati finanziari e creditizi emerge una dinamica in controtendenza rispetto a quanto si sta registrando negli altri sistemi bancari europei. A trainare il comparto italico sono proprio i mutui per l’acquisto di abitazioni. Il rapporto mensile dell’Abi rileva che il tasso sui mutui ipotecari di ottobre - che sintetizza l’andamento dei fissi e dei variabili - è sceso al 3%. Vale a dire -6 punti base rispetto al mese precedente, toccando il minimo storico. E di certo ha inciso in maniera determinante sull’aumento delle domande di mutui anche il ribasso inarrestabile dell’Euribor. Il tasso interbancario a tre mesi, base di riferimento per gran parte dei mutui variabili, continua a restare sui minimi storici, intorno allo 0,71%.

Per molti osservatori la “colpa” è delle banche che non concedono mutui. Ma l’Abi nega: «Il tasso ormai è al minino»

Con queste premesse anche il 2010 sarà negativo: «Il calo produttivo per la nuova edilizia abitativa si colloca fra il 12,4% e il 14,1%» è la stima dell’Ance. Una forbice ampia determinata dall’ efficacia del piano casa e della sua applicazione nelle varie regioni. Più che sulle nuove abitazioni costruite da zero le agevolazioni previste dal governo dovrebbero «sostenere la nuova edilizia derivante dalle attività di ampliamento, di demolizione e ricostruzione». Il vero punto dolente però è il mercato ”normale” quello delle famiglie che comprano abitazioni con l’aiuto di un mutuo: qui il credito si è completamente prosciugato, secondo l’Ance. E quindi il rischio di una crisi prolungata sembra esserci tutto: anche considerando le previsioni di crescita del Pil in Ita-

Ma va anche considerato il fattore rinegoziazione: sicuramente una quota non trascurabile dei nuovi mutui stipulati e’ di fatto riconducibile alla possibilità che hanno i mutuatari di rinegoziare i vecchi contratti, sostituendoli con soluzioni più flessibili e anche meno costose. In ogni caso, l’Abi non vede nero: «Il mercato delle abitazioni si sta muovendo un po’, non tantissimo ma meglio di prima» e questo perché «in Italia non c’è stata una vera bolla immobiliare e c’è un’esigenza di diversificazione del risparmio da parte delle famiglie». È «sostenuta», infatti, all’interno dei finanziamenti, la dinamica dei mutui per l’acquisto di abitazioni, che nel Belpaese in settembre e’ stata di oltre il 4,5% (-0,5% nel settembre 2008).


prima pagina

pagina 4 • 20 novembre 2008

Declino/2. Si consolida l’organizzazione di Valducci, che i colonnelli provenienti da via della Scrofa vorrebbero vedere sciolta

La “Gladio” di Forza Italia

Silvio si affida anche ai Club della libertà per ristabilire gli equilibri con l’ex An Intanto Napolitano non fa sconti: «Camere in difficoltà, producono poco» di Errico Novi

ROMA. Ad essere spietato stavolta è il presidente della Repubblica. È lui a dire che «oggi ci sono grosse difficoltà da parte delle Camere, sulla operosità come sulla densità e la bontà dei prodotti legislativi». Anche se «sembra che qualcosa si stia muovendo» sul terreno delle riforme, Giorgio Napolitano pone un sigillo inappellabile. Promette di intervenire ancora sulla produttività del Parlamento, e di infliggere così nuovi dispiaceri a una maggioranza in pessime condizioni di salute. Difficile che il riscatto possa arrivare in tempi rapidi: la bussola della coalizione sembra impazzita, e non pare destinato a produrre particolari effetti il richiamo di Fabrizio Cicchitto sulla «fine della ricreazione». È l’ex Forza Italia ad essere troppo priva d’iniziativa politica, più che la pattuglia finiana – a cui il capogruppo alla Camera del Pdl si è rivolto – a uscire dal seminato. Lo sa bene Silvio Berlusconi che verifica l’ingovernabilità del suo partito, spezzato in almeno due tronconi ed egemonizzato dalle sortite degli ex An. Anche per questo il premier punta a ricostruire un nucleo forte di fedelissimi all’interno del Pdl, in grado di frenare la deriva anarchica e ripristi-

nare un minimo di equilibrio tra la componente vicina al presidente della Camera e l’ex Forza Italia.

Rivelatrice è l’affermazione di Guido Podestà, presidente della Provincia di Milano e berlusconiano della primissima ora: «I Club della libertà sono la rinascita di Forza Italia all’interno del Pdl». L’ex direttore di Edilnord se l’è la-

ta rinuncia di Nicola Cosentino, Denis Verdini rischia di piantare poche bandierine. In Campania dovrebbe essere schierato il socialista Stefano Caldoro, nel Lazio Renata Polverini, in Puglia Stefano Dambruoso (e ieri Raffaele Fitto ha negoziato a lungo con Pier Ferdinando Casini sull’eventuale sostegno dell’Udc). Berlusconi non assiste inattivo all’avanzata delle truppe finiane, e si

Con l’uscita di scena di Cosentino,Verdini rischia di piantare poche bandierine alle Regionali. Colpa del miglior radicamento dell’azionista di minoranza. Fitto chiede il sostegno dell’Udc in Puglia sciato scappare qualche giorno fa, durante un incontro organizzato nel capoluogo lombardo da una delle “cellule” che fanno capo a Mario Valducci. Un’esagerazione? Non è detto. E in ogni caso l’urgenza di una riaffermazione di superiorità è molto avvertita, tra gli ex azzurri. A impensierire è il maggior radicamento della controparte aennina, aspetto che alle Regionali rischia di farsi sentire molto. Le candidature emerse finora parlano chiaro: con la quasi cer-

affida anche alla controffensiva movimentista di Valducci.

È una presenza, quella dei Club, piuttosto sottovalutata finora nel partito unico, ma che sembra destinata a farsi parecchio notare nel prossimo futuro. Soprattutto a causa della contro-manifestazione indetta a Roma per il 5 dicembre, il giorno del “No B-Day”. Con evidente spirito di provocazione i Club hanno convocato la loro iniziativa nello stesso luogo

indicato dagli avversari, a piazza della Repubblica. E la sovrapposizione già suscita polemiche: ieri sul sito internet dei Club è stata chiusa l’area destinata al dibattito, a causa degli insulti e delle minacce lasciate da navigatori piuttosto agitati. Ma prima ancora del ruolo di guardia di ferro del leader nello scontro con l’opposizione, per i Club viene lo spirito di revanche forzista, soprattutto rispetto al debordare delle articolazioni post-aennine all’interno del Pdl. Non deve sorprendere che a dare manforte a Valducci nella preparazione del “Sì BDay” sia il più antifiniano dei berlusconiani, ossia il deputato Giorgio Stracquadanio: è lui a rintuzzare quotidianamente le stoccate del presidente della Camera, o dei deputati a lui vicini, sul giornale online Il Predellino. «Spesso i dirigenti nazionali che provengono da An protestano per l’esistenza dei nostri club e ne chiedono lo scioglimento». E invece loro, gli animatori di questa nuova rete, a cominciare da Valducci, non vogliono saperne. Ed evidentemente non vuole saperne neanche Berlusconi, che considera i Club della libertà come una delle poche certezze a cui affidarsi nello scontro in-

Per ora è tregua armata, ma lo scontro si riaccenderà presto su biotestamento e cittadinanza

Così proseguirà la guerriglia di Fini di Riccardo Paradisi astava una scintilla per far esplodere la guerra e mandare all’aria il Pdl. Di giorno in giorno – racconta a liberal una fonte di area moderata del Pdl – gli stati maggiori dei due schieramenti interni rilasciavano alla stampa le loro dichiarazioni di guerra.

B

Il coordinatore Sandro Bondi, il presidente dei deputati Fabrizio Cicchitto, il vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello, addirittura il presidente del Senato Renato Schifani, hanno minacciato in successione il ricorso alle urne. Dall’altra parte i finiani Fabio Granata, Italo Bocchino, il direttore del Secolo d’Italia Flavia Perina e su tutti lo stesso presidente della Camera, alzavano continuamente il tiro, bersagliando di critiche il ddl sulla giustizia, lanciando in tandem con l’opposizione proposte di legge sul voto agli immigrati, ventilando addirittura

il voto insieme all’Idv di Antonio Di Pietro sulla sfiducia a Cosentino. Abbiamo sfiorato lo scontro aperto. Poi è arrivata la dichiarazione di Berlusconi e la distensione. Intendiamoci, non è stata siglata nessuna pace. Siamo ancora dentro lo scenario di una guerra fredda di cui non si vede la fine. Fin qui la ricostruzione di queste ultime settimane. È chiaro comunque che questa battaglia l’abbia vinta Fini. La dichiarazione di Berlusconi fatta nel Transatlantico di Montecitorio – «Mai pensato a elezioni anticipate» – è stata letta come una resa momentanea del cavaliere alle pretese finiane. A Fini del resto il Cavaliere sembra concedere tutto quello che il presidente della Camera chiedeva: nessun emendamento ulteriore al Ddl sul processo breve, la promessa di tre regioni – Lazio, Campania, Calabria – a candidati riconducibili all’area di An, il ritiro della candidatura di Co-

sentino in Campania, il lodo Alfano bis per via costituzionale e i fondi sulla giustizia. Una Canossa insomma, a cui Berlusconi sarebbe stato costretto dalla moltiplicazione di fronti che si aprono contro di lui: l’assedio giudiziario, la sentenza che condanna Mondadori al pagamento di una multa di 75milioni alla Cir, il processo di divorzio con la moglie Veronica Lario, il risiko delle regionali con le pressioni leghiste. Troppe variabili a cui si sarebbe aggiunta l’alea della decisione di Napolitano: sciogliere le camere e mandare il Paese alle urne o incaricare un governo tecnico a cui Fini, questa la preoccupazione di Berlusconi, si poteva rendere disponibile? Insomma la minaccia di elezioni anticipate s’è rivelata

”una pistola scarica” come la definisce Luca Cordero di Montezemolo. Anche per la tenuta del fronte finiano: «Non temiamo le elezioni» ripetevano in questi giorni Fini, Granata, Bocchino. Anche se a veder bene si trattava di una formula da training autogeno, buona a tener alto il morale della truppa. Perché anche gli ex di An hanno temuto, eccome, per il voto anticipato. Che fare in quell’evenienza infatti? Resuscitare An? Era una possibilità visto che si tratta di un partito in sonno, visto che esiste ancora una specie di organigramma operativo vicino a Fini in ruoli chiave dell’esecutivo, ma soprattutto visto che esiste ancora un patrimonio di sedi e un giornale? Ma richiamare in vita An per presentare il simbo-

Quando Berlusconi parla del valore della discussione interna dice che quella pubblica deve finire


prima pagina delle città», con profetico anticipo non solo rispetto alla decisione della Consulta ma anche alle contraddizioni che a questa sono seguite, ivi compresi gli attacchi e le relative mobilitazioni dell’opposizione più chiassosa.

terno con Fini. Un mese e mezzo fa, proprio nelle ore in cui l’attesa per la sentenza sul Lodo Alfano riproponeva l’ipotesi del voto anticipato, i Club della libertà annunciarono attraverso il loro sito di essere «pronti a scendere in piazza a sostegno del nostro leader con i nostri militanti e con tantissimi gazebo nelle piazze

lo alle elezioni? E per prendere quanto? L’altra ipotesi era quella di rendersi disponibili con le forze parlamentari a disposizione – 45 deputati alla Camera e 25 al Senato – per un governo tecnico. E poi? Che fare? La destra del centro? «A quel punto – ecco la riflessione di Alessandro Campi, direttore scientifico della fondazione finiana Fare futuro – addio alla centralità di Fini». Insomma, se ad Atene si piangeva non è che a Sparta si ridesse. Sicchè a nessuno è dispiaciuta la mediazione di Gianni Letta, il vero artefice di questa, per ora riuscita, operazione diplomatica. Ma è stata evitata la conflagrazione del conflitto, non è stato disinnescato la tensione interna del Pdl. In altri termini Fini e i suoi non hanno nessuna intenzione di mollare sui temi che arroventano la dialettica interna al Pdl, dal testamento biologico alla legge sulla cittadinanza passando per il ridimensionamento politico della Lega nord. Fini, continuerà a fare il presidente della Camera di lotta e di governo e a ”mettere il sale nella minestra”. Sicché i prossimi tornanti dove si potrebbe riaccendere lo scontro sono appunto sulla cittadinanza – voto agli immigrati e il

Sempre in quella occasione i ragazzi di Valducci assicurarono: «Se fosse necessario siamo prontissimi a una nuova campagna elettorale». E anche qui si nota il sincronismo tra le aspirazioni proibite del premier e la disponibilità della nuova rete. Non si tratta di una riedizione dei Circoli di Michela Brambilla, concepiti più che altro come partito-ombra in una fase in cui il Cavaliere si sentiva deluso dai suoi stessi uomini di fiducia. Nello stesso tempo l’impostazione della struttura ha un carattere più politico rispetto alla vocazione culturale dei Circoli di Marcello Dell’Utri. «A otto mesi dalla nascita del Pdl va detto che sul territorio l’organizzazione ex Forza Italia sopravvive assai meno bene rispetto a quella di An», fanno notare i giovani dei Club, che rivendicano così la missione assegnata loro nell’auspicio di Podestà. Con l’inasprirsi della tensione sull’asse Berlusconi-Fini la loro presenza è destinata a farsi sentire anche di più. A contribuire all’espansione della rete, oltre allo sguardo attento del triumviro Sandro Bondi, sono d’altronde esponenti del Pdl legati da un rapporto personale, prepolitico con il presidente del Consiglio: è il caso di Valducci, uomo Finivest da metà anni Ottanta, ma anche di Deborah Bergamini, la deputata che viene dallo staff elettorale di Berlusconi e che ha fondato dei club in Toscana, fino agli ex Publitalia Enzo Ghigo (Piemonte), Roberto Tortoli (Toscana) e Maurizio Iapicca (Campania). E quando Silvio raduna chi era vicino a lui prima della discesa in campo è perché ha in mente qualcosa che la rievochi.

testamento biologico. Sulla prima già ci sono gli annunci dello scontro.

La proposta di legge di iniziativa parlamentare presentata alla Camera da Flavia Perina, insieme a Udc, Idv e Pd per estendere il diritto di voto per le amministrative agli immigrati regolari che vivono in Italia da almeno cinque anni fa il paio con quella sulla cittadinanza breve firmata da Granata. Sono iniziative che innescano già notevoli tensioni nella maggioranza a cui si aggiungeranno quelle sul testamento biologico, su gli uomini di Fini stanno preparando una serie di emendamenti. Come reagirà lo stato maggiore berlusconiano? Lo si indovina da un’altra riflessione di Cicchitto: «La ricreazione delle parole in libertà e del fuoco amico è finita. Il chiarimento va fatto nelle sedi di partito, poi, nel caso, votare. Ci può essere una maggioranza e una minoranza, ma si evita l’anarchia e il mucchio selvaggio». Quando Berlusconi parla del valore della discussione interna parla di questo. Insomma il dibattito interno va bene – riassume Giorgio Stracqudanio – non va bene quello esterno.

Nelle foto: in alto Fabrizio Cicchitto, Mario Valducci e Sandro Bondi; nella pagina precedente Fabio Granata, Flavia Perina e Italo Bocchino; sotto Silvio Berlusconi

20 novembre 2008 • pagina 5

La maggioranza litiga mentre il Paese è praticamente fermo

Centrodestra diviso tra due volontà.Anzi tre I fedelissimi del Cavaliere, i finiani e la Lega si muovono sempre più autonomamente di Giancristiano Desiderio ale il debito pubblico, aumenta la disoccupazione, scende il Pil, calano i consumi, le tasse stanno sempre lì e se fossi un dipendente o un operaio che guadagna 1500 euro al mese mi chiederei dove vanno a finire i soldi che mi tolgono per le tasse. I numeri dell’economia italiana sono dell’Ocse, mentre la considerazione sull’operaio e i 1500 euro mensili è di Luca Cordero di Montezemolo.

S

Dovendo tradurre tutto sul piano dell’azione di governo si deve dire: e le riforme? Bisogna girare la domanda a Palazzo Chigi dove, evidentemente, hanno altri pensieri per la testa. Aspettiamo, tutti, il prossimo braccio di ferro tra Berlusconi e Fini: ossia il capo del governo e il capo del partito di opposizione che è nella pancia del partito di governo. Già, perché al governo sembra che siano in due - Pdl e Lega ma in realtà sono in tre, ossia: la Lega, che è il primo partito di governo (non a caso al Viminale c’è Roberto Maroni: e verrebbe quasi da dire meno male), i deputati del Pdl che rispondono alla volontà del presidente del Consiglio e i deputati del Pdl che rispondono alla volontà del presidente della Camera. Sono due volontà che, come ormai sanno non solo gli elettori di quel che resta del centrodestra che fu, ma un po’ tutti gli italiani che danno uno sguardo alle cose della politica, non vanno nella stessa direzione. Tanto per citare

ancora Montezemolo: «I problemi della giustizia non sono un’invenzione del premier». Verissimo. Ciò che è un’invenzione del premier, invece, è lo stallo nel quale ci troviamo ormai non sappiamo indicare neanche più da quanto tempo. L’Italia è praticamente un Paese fermo. Fermo. Non si muove. E non per responsabilità esclusiva della crisi economica e finanziaria che ha investito l’universo mondo. Perché, evidentemente, come testimoniano i dati dell’Ocse, c’è una ripresa che altrove riprende bene e qui da noi riprende alla meno peggio. Dunque? Dunque, siamo ancora alle solite: le riforme che si invocano, ma non si fanno. Chi le invoca? Ecco, qui la cosa diventa ancora più interessante: i principali invocatori sono proprio gli attuali governanti che sono abilissimi nel dire cosa si deve fare quando sono all’opposizione, ma una volta giunti al governo sono assaliti da una botta di amnesia e così il calo delle tasse, la famiglia, il lavoro, tutto passa in cavalleria. Le riforme semplicemente non sono nell’agenda di governo. Infatti, un governo dalle volontà uguali e contrarie è un governo della volontà di impotenza.

Le riforme invocate per anni da chi oggi governa sono sparite dall’agenda di Palazzo Chigi

In questi giorni abbiamo assistito a questa pantomima: i deputati che fanno riferimento alla prima volontà - Berlusconi - chiedevano ai deputati che fanno riferimento alla seconda volontà - Fini - il rispetto del programma di governo; ma, a loro volta, i deputati che fanno capo alla seconda volontà - Fini - rispondevano ai deputati che fanno capo alla prima volontà - Berlusconi - che nel programma di governo non c’è traccia del cosiddetto “processo breve”. Allo stesso modo la volontà numero 1 notava che la “cittadinanza breve” agli immigrati non è prevista in agenda e la volontà numero 2 rispondeva che occorre avere la vista un po’ più lunga e sulle cose non scritte nel programma si chiede di discutere e non di ubbidire solo ai comandi come se si fosse in una caserma. Mentre si mettono d’accordo se sono in una caserma o in una democrazia adulta, chi guadagna non 1500 euro al mese, ma 800/900 euro al mese che cosa deve fare per aspirare a vivere in un Paese con un governo responsabile?


diario

pagina 6 • 20 novembre 2009

Auto. Non si placano le polemiche (spesso pretestuose) sulle scelta di Marchionne di ripensare la produzione italiana

La globalizzazione obbligata La strategia in Sicilia e ad Arese è guidata dal mercato futuro on è la prima volta che le forze politiche e sindacali scendono in campo per difendere un campanile: nel senso di una fabbrica, anche se di notevoli proporzioni, come la Fiat di Termini Imerese. Del problema – di questo specifico problema – si era discusso già in passato, ancor prima della venuta di Sergio Marchionne, quando sembrava tutto perduto e la stessa Fiat esposta ai capricci della finanza americana. Già allora era chiaro che uno stabilimento, collocato nei pressi di Palermo, avrebbe avuto vita difficile a causa dei maggiori costi logistici, cui era sottoposto. Da allora, l’allarme “chiusura” è divenuto permanente togliendo il sonno a migliaia di famiglie. Non solo i 1.300 lavoratori Fiat, ma un indotto ben più consistente.

N

Alle inevitabile proteste che ne sono seguite, Sergio Marchionne ha dato assicurazione, almeno, fino al 2011. Fino ad allora lo stabilimento non sarà toccato, dopo si vedrà. Saranno, cioè, individuati produzioni alternative nella salvaguardia dei livelli occupazionali esistenti. Ma la cosa non ha convinto più di tanto. Si guarda non solo al singolo stabilimento, ma alla strategia complessiva del gruppo Fiat. Nonostante il trend positivo delle vendite, il processo di razionalizzazione deciso dal top management procede con i tempi previsti. Chiude l’Alfa di Arese, per essere trasferita al Lingotto di Torino. Coinvolgerà 345 lavoratori che dal

primo aspetto oppure rintanarci? Nei prossimi anni Sergio Marchionne lo ha detto più volte, facendo seguire i fatti alle parole - nel mondo esisteranno solo quattro o cinque grandi player in grado di produrre le automobili che servono.

La Fiat ha deciso di tentare la partita, uscendo dai confini nazionali e coalizzandosi con altri produttori. Lo ha fatto negli Usa ed ha vinto la scom-

Il Sud non è più soltanto sottosviluppo e assistenzialismo, è anche capitali e speranze: di questo dovrebbero discutere i sindacati milanese dovranno trasferirsi altrove. Qualcosa del genere toccherà ai lavoratori della Powertrain di Stura, anche loro da tempo in cassa integrazione. All’estero invece - ecco il presunto paradosso - Chrysler investirà nel Michigan 179 milioni di dollari, per la produzione dei motori. Insomma il volto di Fiat è sempre più multinazionale e questo spaventa non poco chi è, invece, costretto a fare i conti con il giardinetto di casa propria. Globale e locale: da questa contraddizione non si esce. Dobbiamo privilegiare il

ve e si dichiarano indignati per le sovvenzioni che non solo l’Italia - ma tutto l’Occidente - ha garantito ai grandi fabbricanti di automobili. Chi ha ragione? Dobbiamo capire che la scelta di Marchionne è obbligata. Se non operasse nel modo indicato, se non ragionasse global, la partita sarebbe persa in partenza. Inutile quindi buttare altri soldi nell’industria dell’auto. Meglio chiudere subito – come del resto fecero gli inglesi al tempo della Thatcher – e dedicarsi ad altre cose: il vino, la moda, il made in Italy e così via. Se l’imperativo è restare, invece, il “locale” deve essere affrontato in un’ottica che non sia antagonistica, ma complementare. Per tornare a Termini Imerese e dare concretezza al nostro ragionamento, abbiamo due anni di tempo per pensare a qualcosa di diverso, essendo chiaro che da quello stabilimento non sarà più possibile produrre automobile. Esistono le condizioni per una possibile alternativa? Noi crediamo di sì.

di Gianfranco Polillo

messa. Ci ha provato in Germania, ma i tedeschi hanno preferito - alla faccia dell’Europa - una soluzione pasticciata. Fare scelte di questa portata non poteva non avere conseguenze sugli assetti organizzativi del gruppo. Quindi riconversione di determinati stabilimenti, chiusura di altri e spostamento delle risorse al fine di abbattere i costi di produzione. I sindacati protestano, opponendo le ragioni del “locale”: vale a dire difesa dei posti di lavoro, ma anche dello status quo. Chiedono provvidenze governati-

Scajola sulla produzione a Termini Imerese

«La Fiat rimanga qui» TERMINI IMERESE. Il ministro Scajola continua la sua battaglia per la salvaguardia della quota produttiva italiana della Fiat. Dopo aver inaugurato la nuova linea di produzione delle Acciaierie Duferdofin Nucor a Giammoro (Messina), il ministro dello Sviluppo economico ha spiegato che «la Fiat deve riequilibrare il mercato dell’auto in Italia, aumentando la produzione. Ci sono infatti più immatricolazioni rispetto alla produzione di auto. Sono due gli impianti italiani in questo momento in crisi e per salvare gli stabilimenti bisogna trovare una produzione alternativa sempre nel settore auto». Il ministro ha anche garantito l’impegno del governo a fianco della Regione siciliana per risolvere la crisi di Termini Imprese: nel pomeriggio, infatti, ha incontrato gli operai che occupano il municipio termitano. Agli operai Scajola ha detto: «Credo sia giusto far

capire e far sapere che non intendiamo smantellare nessun comparto industriale dalla Sicilia bensì farli crescere, ma con attenzione perché i comparti industriali devono crescere secondo le attitudini del territorio e secondo la logica del mercato affinché siano produttivi». La risposta al ministro è arrivata da Giovanna Marano, segretaria generale della Fiom Cgil: «L’approccio del ministro Scajola alla vicenda Fiat mi sembra deludente. I lavoratori non cercano rassicurazioni generiche: vogliono piuttosto la certezza che l’accordo dell’aprile 2008 sia rispettato e che lo stabilimento di Termini Imerese continui a produrre auto e abbia un futuro nel comparto. Il nostro è l’unico Paese europeo che concede ecoincentivi consentendo che le produzioni vengano trasferite altrove, come si ipotizza che possa accadere con la Nuova Y».

Il Mezzogiorno, in generale, e la Sicilia in particolare non sono più quelli degli anni passati. Una realtà immobile e sonnolenta, che solo una pioggia di soldi pubblici poteva, a volte, risvegliare. Oggi, per quanto difficile sia comunque la situazione, qualcosa si è mosso. Il reddito procapite è cresciuto ad un ritmo maggiore del centro-nord. I paesi che si affacciano sul Mediterraneo – dal Marocco fino alla Turchia – hanno compiuto passi enormi lungo la strada dello sviluppo, facendo impallidire, nel confronto, l’intera Europa. Non c’è quindi il muro del sottosviluppo oltre il Mare di Sicilia, ma capitali in cerca di investimento, iniziative da intraprendere, beni da produrre. Due anni di tempo per capire come, quando e dove. Per approfittare delle nuove condizioni geopolitiche, che si stanno creando. Su questi temi dovrebbe esercitarsi la fantasia della politica e del sindacato, piuttosto che tentare di fermare un mondo che corre troppo in fretta. Perché questo non avverrà ed alla fine la Fiat resterà comunque una grande multinazionale – se saprà difendere le proprie condizioni – ed al “locale”non rimarrà altro – se non saprà fare di meglio – che leccarsi le ferite.


diario

20 novembre 2009 • pagina 7

Riaperta a Roma l’inchiesta per il rapimento del 1983

Arrestato a Napoli il killer del bar del quartiere Sanità

Un indagato per il caso di Emanuela Orlandi

Camorra: preso il sicario del video-choc

ROMA. Emanuela Orlandi è morta. Ne è convinta anche la procura di Roma a 26 anni dalla scomparsa. Nel corso di una deposizione al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo insieme con il pm Simona Maisto, la superteste Sabrina Minardi, che era stata legata sentimentalmente al capo della banda della Magliana, Enrico De Pedis, ha riconosciuto la voce del telefonista Mario che il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa della ragazza, chiamò la famiglia Orlandi. Uno degli inquirenti ha affermato che «rispetto al precedente verbale in cui appariva un po’confusa, la Minardi ha coordinato tutto in un racconto articolato». Nella telefonata con lo zio di Emanuela, l’uomo, con un forte accento romano, disse di avere 35 anni. Sosteneva di aver visto un uomo e due ragazze che vendevano cosmetici, una delle quali diceva di essere di Venezia e chiamarsi Barbara. Quando gli viene chiesta l’altezza della ragazza, disse di non saperlo. In sottofondo si sentiva anche una seconda voce. Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della prefettura della Casa pontificia, scomparve in circostanze misteriose il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni. Dopo le dichiarazioni rese da Sabrina Mi-

NAPOLI. Per trovarlo la Procura di Napoli aveva anche diffuso un il filmato particolarmente crudo registrato dalla telecamere poste di fronte al bar del rione Sanità dove si era svolto l’agguato. Ora le forze dell’ordine hanno arrestato a Castelvolturno, nel casertano, Costanzo Apice, 27 anni, ritenuto il sicario che ha ucciso Mariano Bacioterracino l’11 maggio scorso, noto alle forze dell’ordine come rapinatore con la tecnica del “buco”, in passato presunto partecipante all’uccisione del boss di Afragola, Gennaro Moccia, e amico del boss Giuseppe Misso. Apice ha precedenti per spaccio di droga e risiede nel rione don Guanella; alla sua identificazione non si

«Il processo breve non fa male a nessuno» Alfano difende la riforma. I magistrati lo contestano di Marco Palombi

ROMA. L’un per cento dei processi pendenti in primo grado.Tanto vale, almeno a stare all’unico numero fornito dal Guardasigilli Angelino Alfano al Parlamento, la salvezza processuale di Silvio Berlusconi. Un numero dato un po’ a spanne, anzi nella prosa del ministro «senza pretese di definitività», visto che il ministero della Giustizia e il Csm stanno ancora lavorando (sono in fase di “studio preliminare”) sugli effetti del processo breve. Due, sostanzialmente, le novità: Alfano ha in pratica intestato al governo il cosiddetto ddl Gasparri - formalmente, il ministro lo ha accennato, una «iniziativa parlamentare» - e in secondo luogo ha certificato che prima viene il problema del premier e poi, solo una volta stabilito l’escamotage, si passa a vedere se per caso terremota il sistema giudiziario italiano. Peraltro, a stare a quanto sostiene il nostro “non definitivamente”, no: gli effetti saranno trascurabili. «Sorprende non poco – ha scandito il ministro – che siano state formulate previsioni catastrofiche», mentre il governo pensa a «un impatto molto meno traumatico di quanto da più parti, in modo enfatico e intempestivo, è stato prospettato». Alfano si riferisce non tanto all’opposizione politica, quanto a quella giudiziaria: l’Anm, qualche giorno fa, aveva parlato di provvedimento “incostituzionale”e“devastante”perché «mette a rischio decine di migliaia di processi». Insomma «più che di un’amnistia, si tratterebbe - secondo le toghe - di una sostanziale depenalizzazione di fatti di rilevante e oggettiva gravità».

zionale di clandestinità (vale a dire che per comminare cinquemila euro di multa ad un immigrato irregolare si possono impiegare anche dieci anni). È a questo punto che il Guardasigilli ha tirato fuori dal cilindro quell’un per cento, poco prima di dichiararsi aperto a “miglioramenti”del testo e intestare all’esecutivo il ddl: «Come governo riteniamo che sei anni per un processo penale, cioè circa 8 anni con le indagini, siano un tempo sufficiente per tenere un cittadino sotto la giurisdizione dello Stato». Sui numeri di Alfano, però, non c’è affatto condivisione. Antonio Di Pietro lo ha senz’altro accusato di mentire, mentre il presidente dell’Anm Luca Palamara ha parlato di “rosea previsione”: anche se fosse vera, ha aggiunto, «più di 30 mila procedimenti sarebbero estinti. Ciò significa dire a 35 mila vittime di reato che lo Stato rinuncia a fare giustizia».

Il numero che il Guardasigilli ha esibito nell’aula della Camera però, oltre all’incertezza, ha un altro, grave difetto: la genericità. Non solo Alfano non sa con precisione quanti processi andranno al macero, ma soprattutto non sa, o non vuole dire, quali. Col ddl Gasparri si scrive infatti la parola “fine”su processi di grande impatto sociale e mediatico (senza contare, ovviamente, i due del Cavaliere): quello per la Thyssen, i crac Cirio, Parmalat e Finpart, le scalate Antonveneta e Bnl, la corruzione nel caso Eni-Power, i dossier illeciti del tiger team di Telecom e già s’è diffuso l’allarme per dibattimenti di là da venire come quello per il crollo della Casa dello Studente dell’Aquila o per la recente frana di Messina. Quella che la maggioranza si prepara a varare - plasticamente rappresentata dall’esclusione degli immigrati senza permesso - è insomma una grande amnistia per i colletti bianchi e i reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. Alfano la mette ovviamente in modo diverso: già oggi, dice, si chiudono per prescrizione 170mila fascicoli l’anno, adesso smetteremo di spendere soldi, tempo e lavoro «nella celebrazione di processi inutili».

Secondo uno «studio preliminare», solo l’1% dei dibattimenti salterebbe: «Una previsione rosea», dice Palamara

nardi la procura ha dato nuovo impulso agli accertamenti. Gli inquirenti procedono per il reato di omicidio plurimo aggravato dalle sevizie e dalla minore età della vittima e sequestro a scopo di estorsione.

Al magistrato Sabrina Minardi ha fatto un lungo racconto ricostruendo con maggiori particolari e con più logica il racconto che aveva fatto già nel giugno dello scorso anno quando rivelò che a Torvajanica all’interno di un cantiere c’era una betoniera dentro la quale erano stati gettati due sacchi, contenenti due corpi. Secondo il suo racconto uno era quello di Emanuela Orlandi, uccisa dopo il sequestro.

Al 31 dicembre 2008, ha spiegato invece Alfano, “risultavano pendenti al dibattimento di primo grado 391.917 processi di cui circa 94 mila da oltre 2 anni, pari al 24%. A questo numero deve essere sottratto il dato relativo ai recidivi (che non beneficiano del processo breve, ndr), stimabile nella misura del 45% dei soggetti condannati”e quello dei reati per i quali la normativa non è applicabile, cioè quelli con pene oltre i dieci anni e una lista di esclusioni tra le quali, bizzarramente, il reato contravven-

esclude abbia contribuito qualche informatore della polizia nel quartiere di Secondigliano.

Bacioterracino, 53 anni, fu ucciso in un bar del rione Sanità da un sicario a piedi che sparò alcuni colpi di pistola compreso quello di grazia alla nuca in pieno giorno tra avventori dell’esercizio e passanti. La decisione della Procura di diffondere il video aveva portato il 28 ottobre scorso a desecretare le immagini. Già due giorni dopo circolarono le indiscrezioni sull’identificazione del killer da parte della magistratura grazie a una “soffiata”. In una nota, la procura napoletana precisa che il fermo di Apice è stato motivato da indizi che «lasciavano presagire la fuga dell’indagato». Costanzo Apice, 28 anni, nato a Mariano Comese, era stato localizzato e monitorato dagli inquirenti, che però cercavano altri riscontri sul contesto criminale in cui è maturato il delitto. La convalida del fermo spetterà alla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Nella nota, a firma dell’aggiunto Alessandro Penasilico e del procuratore Giovandomenico Lepore, si sottolinea anche che all’identificazione del presunto sicario si è arrivati «anche in virtù della diffusione del filmato che riproduceva la consumazione del crimine».


mondo

pagina 8 • 20 novembre 2009

Nomine. Dal conclave dei Ventisette esce un vertice europeo debole, tra rancori e trabocchetti. Con la regia britannica

Fumo nero di Londra All’ultimo minuto spunta Catherine Ashton e attacca la poltrona di Massimo D’Alema di Enrico Singer

Q

uando leggerete questo articolo, saprete già come si è conclusa la corsa di Massimo D’Alema in Europa. Quando è stato scritto, invece, la partita era ancora in pieno svolgimento. Con un colpo di scena, però, che lasciava ormai immaginare l’esito finale. Un esito negativo: uno stop dell’ultimo minuto. Perché mentre i leader dei Ventisette erano riuniti in conclave al quinto piano de palazzo Justus Lipsius di Bruxelles, il partito socialista europeo annunciava che il candidato del pse era, ormai, la laburista britannica Catherine Ashton, attualmente commissario al Commercio nell’esecutivo di Manuel Barroso. D’Alema, insomma, almeno quando liberal stava chiudendo la sua edizione in tipografia, era fuori gioco. Le regole del giornalismo e la prudenza impongono per questo il condizionale. Ma, comunque sia andata, c’è poco da rallegrarsi. Nel ca-

so del siluramento della candidatura, il perché è sin troppo ovvio. Un no europeo, o meglio, il veto posto da un gruppo di Paesi influenti contro l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri italiano è una bocciatura molto imbarazzante da sopportare. Con un prevedibile corollario di polemiche che potrebbe tenere banco per giorni sulle ragioni di un insuccesso che pesa sul nostro Paese, prima che sull’uomo politico.

Con un fronte internazionale: chi sono i nemici dell’Italia? La Gran Bretagna? Una parte dei Paesi dell’Europa orientale? La stessa Germania di Angela Merkel? E con un fronte interno: il sostegno del governo Berlusconi è stato davvero sincero? O il vero problema è che la candidatura non era sostenibile? Perché anche la famiglia dei socialisti europei lo ha tradito? Nelle risposte a queste domande si può trovare la chiave di un siluramento. Ma, paradossalmente, anche nel caso di successo, sarebbe stato difficile coniugare la parola vittoria – soprattutto se avessimo voluto parlare di vittoria dell’Italia – alla legittima soddisfazione personale che Massimo D’Alema avrebbe potuto avere per la nomina a primo rappresentante della Ue per la politica estera. E non si tratta di voler essere controcorrente ad ogni costo. La verità è che, per come si è delineato il nuovo vertice di questa nostra Europa unita, quelle che dovevano essere le “poltronissime” di presidente stabile del Consiglio e di ministro degli Esteri si sono ristrette in un recinto di ambizio-

ni più limitate e sotto la stretta tutela dalle capitali dei Ventisette che non vogliono perdere - né delegare - potere reale alle istituzioni comuni. La colpa non è di Massimo D’Alema, naturalmente. Che, anzi, aveva tutti i numeri per ricoprire l’incarico. Il problema, semmai, è l’opposto.

L’Europa che conta, oggi, è quella dei governi. E dei governi dei Paesi più grandi e influenti, in particolare. Come dire dell’asse Francia-Germania, della solitaria - ma potente - Gran Bretagna, del blocco degli ex Paesi dell’Est, dell’alleanza mediterranea, di cui l’Italia a tratti cerca di conquistare la leadership. Dopo il fallimento del tentativo di dare all’Unione europea una Costituzione che ne rafforzasse il carattere federale, le capitali - ancora una volta, le più forti - hanno ripreso in mano le redini del comando e quello che non vogliono è proprio creare un specie di potere alternativo che non sia il fedele notaio di decisioni prese lontano da Bruxelles. Davvero c’è ancora qualcuno che crede che Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, Gordon Brown o lo stesso Silvio Berlusconi sono disposti ad accettare che il potere reale sia affidato alle mani di qualche altro politico europeo abdicando, così, alle loro prerogative? Davvero c’è qualcuno che

videre - e quindi indebolire - le deleghe che già esistono. In questo disegno entrano, inevitabilmente, anche gli uomini. Non è un caso che in posti-chiave come quello di presidente della Commissione e di presidente dell’Europarlamento ci siano un portoghese (al suo secondo mandato) e un polacco.

Sono lontani i tempi in cui alla guida dell’esecutivo europeo c’erano personaggi come Jacques Delors o come lo stesso Romano Prodi che cercavano di trattare con i governi nazionali da pari a pari e di imporre soluzioni che rispondessero a un co-

Anche Parigi e Berlino d’accordo perché il potere reale rimanesse nelle mani delle capitali forti. A perdere, alla fine, è stata l’Italia. Il belga Van Rompuy ha corso da solo per la presidenza crede che la politia estera dell’Europa sarà demandata all’Alto rappresentante che s’installerà a Bruxelles dal prossimo primo gennaio, secondo il Trattato di Lisbona, e che l’Eliseo o Downing Street rinunceranno a dire la loro? Lo stesso vale, naturalmente, anche per il presidente stabile del Consiglio che, in più, dovrà vedersela con il presidente della Commissione. Alla moltiplicazione delle cariche e delle poltrone - tra l’altro, c’è anche quella nuova di segretario generale del Consiglio - non corrisponde una moltiplicazione dei poteri. Al contrario. La moltiplicazione serve per ridurre, per di-

mune denominatore europeo, più che gli interessi nazionali dei grandi di turno. Anche in questo caso la colpa non è di Massimo D’Alema - o di Catherine Ashton - ma è evidente che Parigi, Berlino e Londra non gradiscono persone scomode nella cabina di regia di Bruxelles. E allora ecco che entrare a far parte di un ticket di vertice composto da un belga - Herman Van Rompuy ha praticamente corso da solo come presidente stabile del Consiglio - e da un portoghese e un polacco non avrebbe significato per l’Italia aumentare il proprio peso tra i Grandi, ma al contrario essere

retrocessa nel girone dei Paesi che le vere teste di serie dell’Europa considerano di serie B. Auguriamoci che tutto questo possa essere archiviato dai fatti nel libro nero delle previsioni pessimistiche e che l’Europa ritrovi, magari proprio attraverso le persone che ha scelto, lo slancio necessario per ricostruire credibilità attorno alle sue istituzioni e per non perdere definitivamente il treno della storia rinunciando al ruolo che, a parole, rivendica sulla scena mondiale. Se, come ieri sera sembrava ormai deciso, la politica estera sarà affidata all’opaca Catherine Ashton, questo colpo di reni si annuncia non facile da realizzare, mentre si conferma il teorema della distribuzione dei posti di vertice a chi ha già dimostrato – come Manuel Barroso – o prevedibilmente dimostrerà – come Catherine Ashton - di non disturbare i veri manovratori dell’Europa. Un colpo terribile a queste ambizioni lo avrebbe assestato anche la terza ipotesi che ieri sera, al momento di concludere questo articolo, continuava a galleggiare nel campo delle possibilità: un rinvio. Con la necessità di prolungare il conclave a oggi o, addirittura, a riconvocalro ai primi di dicembre. Dopo avere tanto tribolato per approvare il Trattato di Lisbona, non essere capaci di mettersi d’accordo senza troppi drammi sui nomi delle persone, sarebbe stato un pessimo segno. Ma anche i nomi usciti dal cilindro non sono più rassicuranti.


mondo

20 novembre 2009 • pagina 9

Uno studio del 2004 rivelò: l’Europa non interessa ai cittadini. Bisogna cambiare tattica

Suspence e dialettica: la nuova strategia di Bruxelles Come trasformare la noiosa burocrazia del Vecchio Continente in un thriller politico al cardiopalma di Sergio Cantone

BRUXELLES. Come fare dell’Ue una bomba sexy.

Sopra, la Commissaria al Commercio Catherine Ashton indicata dal Pse come unica candidata alla poltrona di Alto rappresentante per la politica estera. Sotto: il premier belga Van Rompuy, Tony Blair e il premier inglese Gordon Brown. A sinistra: D’Alema

Proposito surreale? Forse. C’è però chi ci ha creduto e chi ci crede ancora. Ma interpretando in questa chiave tutto il processo di nomina degli alti incarichi politico-istituzionali dell’Unione Europea si possono comprendere molte scelte “strategiche” di questi ultimi tempi. Dalla creazione della figura del presidente permanente del consiglio Ue fino all’idea di investire, in questo ruolo, lo stregone della comunicazione politica moderna, Tony Blair. Tutto comincia nel 2004 all’alba della sesta legislatura del parlamento europeo e della Barroso uno. La Ue perde terreno di fronte ai cittadini. Nessuno crede più nel verbo europeista, tira una brutta aria per chi ancora crede nell’ineluttabilità dell’integrazione europea. Il trattato costituzionale europeo avrebbe dovuto esser approvato da lì a poco in un clima di grande impopolarità per tutto quello che fosse a stelle dorate in campo blu e che suonasse minimamente a nona di Beethoven. Si sapeva inoltre che il frutto di anni di negoziati, assemblee e conferenze intergovernative avrebbe dovuto passare per le forche caudine di qualche referendum. Ma la stampa britannica aveva già vinto la sua battaglia contro l’establishment di Bruxelles. La strategia si poteva riassumere in poche parole: «se volete vendere l’Unione europea ai vostri lettori parlatene male». Ed ecco che migliaia di penne intinte nell’arsenico cominciarono a infilzare il ventre molle dell’Ue, la commissione europea con i suoi scandali, il suo nepotismo, le sue ottusità burocratiche e qualche ruberia. Anche i giornalisti di altri paesi, soprattutto nordici, francesi e olandesi, cominciaro a denunciare, a picchiare duro. Sicché quella che fino ad allora era stata la copertura giornalistica piuttosto tecnica e noiosetta di una specie di Wto per pochi, divenne improvvisamente la cronaca impertinente degli scandali di un comune di Parigi su scala continentale. Improvvisamente l’Ue si trasformò, agli occhi dei suoi cittadini, in un concentranto di corruzione e grigiore, una specie di Urss occidentale.

zioni e polemiche. Referenda costituzionali andati a catafascio sia in Olanda che Francia. Mai una (re)investitura di un presidente della commissione è stata cosí polemica e politicamente viva come quella del conservatore Barroso l’amerikano, l’irakeno, fieramente ostacolato fino all’ultimo da socialisti, comunisti, verdi e “demo-liberals”al parlamento europeo.

E il trattato di Lisbona offre altro materiale per questo “thriller politico” la nomina dei mitici “topjobs”, che vorrebbe coinvolgere gli europei emotivamente nel gioco delle nomine del primo presidente del consiglio europeo e dell’alto rappresentante per la politica estera comune. Naturalmente non c’è nessun voto a suffragio universale previsto, ma i cittadini potranno trovare in questo ping-pong tra cancellerie su nomi esotici “suspence” e “dialettica”. E funziona, perché la stampa ne parla. Ecco perché

In questi ultimi anni è successo di tutto: allargamento a ventisette, apertura alla Turchia, referendum costituzionali. Sempre a suon di opposizioni e polemiche. Anche per il Barroso bis

Nei corridoi di Bruxelles fu il panico. E reagirono spendendo soldi a più non posso nel tentativo di “comunicare meglio”. E proprio nel 2004 si pensa di strutturare il lustro a venire sulla base di una “migliore comunicazione”.Viene fatto uno studio, da un centro di sondaggi, Gallup Europe e un think tank di Bruxelles,“The Friends of Europe”, il succo è: c’è un deficit democratico e l’Ue è troppo distante dai cittadini. Il deficit democratico è difficile da compensare con sorrisi e volantini, quella è una faccenda istituzionale e i governi sono ben lungi dal voler concedere poteri veri e propri all’eurocamera. Ma per avvicinare i cittadini basta forse prendere una scorciatoia. Lo stesso studio di fatto suggerí che, come in un dramma politico, attorno all’Ue, occorreva creare “suspence” e “dialettica”. E a ben guardare la storia dell’Ue di questi ultimi cinque anni non si può certo dire che sia stata noiosa. È successo di tutto, allargamento a ventisette Paesi, con feroci opposizioni e polemiche. Aperture alla Turchia con feroci opposi-

nessuno se la sente di seppellire la candidature di Tony Blair fino all’ultimo minuto. L’ex premier britannico ha giocato con lo “spinning”più di chiunque altro. Affascina il popolo. Resta memorabile in questo senso il suo discorso di fronte al parlamento europeo alla fine della presidenza britannica dell’Ue di qualche anno fa. Erano stati i tipici sei mesi britannici, immobilismo nell’integrazione e “gratta gratta” per ottenere più “soldi indietro” dal bilancio comunitario. Insomma, ad occhi federalisti un disastro. Eppure alla fine del discorso, Tony ricevette uno scroscio di applausi unanimi e persino il verde iper-europeista Daniel Cohn Bendit si lanciò con tanto di lacrimuccia a stringergli la mano. Proprio a chi qualche mese prima aveva stretto il budget Ue, con la pubblica riprovazione di federalisti doc come il primo ministro lussemburghese Juncker e quello belga dell’epoca Verhofstadt. Perché? Perché il discorso politico di Blair è ammaliante e comprensibile come “She loves you yeah, yeah, yeah…”. E perché tirare tardi fino in zona cesarini le nomine, dato che Tony Blair, Massimo D’Alema e le altre “chicas del monton”non piacciono a tutti, tanto meglio, perché ci sono “suspence”e “dialettica”.Tu chiamale se vuoi, emozioni.


panorama

pagina 10 • 20 novembre 2009

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La realtà passa da Facebook, non dai giornali iviamo l’epoca della lettura elettronica e di facebook e la vecchia cara carta stampata si deve difendere. Potrebbe racchiudersi in questa sintesi approssimativa il rapporto Censis «I media tra crisi e metamorfosi» e, tutto sommato, non sarebbe neanche un cattivo riassunto. Gli ultimi dieci anni, infatti, sono stati il decennio dell’affermazione del web, del cellulare e ora della Tv digitale. Una vera e propria rivoluzione durante la quale più di una volta abbiamo sentito intonare il de profundis per libri e carta stampata. Invece, alla fine dei dieci anni che hanno cambiato il mondo dell’informazione i giornali - e i libri - sono ancora qui a lottare e dare il loro contributo nel mare magnum dell’informazione elettronica che - finora - ha goduto di un non piccolo vantaggio: è gratuita. Dunque, a leggere bene il rapporto Censis ciò che emerge dal mare in tempesta dei nuovi media è un orizzonte in chiaroscuro.

V

Il dato più significativo è quello della cosiddetta “utenza abituale” ossia il lettore di quotidiani che passa in edicola almeno tre volte la settimana. Ebbene, qui si passa dal 51,1 per cento del 2007 al 34,5 per cento del 2009. Il lettore abituale, in sostanza, “passava” in edicola tre volte la settimana, mentre ora ha perso o comunque rivisto questa sua abitudine. «Questo significa che, prima della crisi, la metà degli italiani aveva un contatto stabile con i quotidiani, mentre adesso questa porzione si è ridotta a un terzo», dice il Censis, «se si pensa che in questa quota sono compresi anche i quotidiani sportivi, si può capire quanto la crisi abbia reso ancora più marginale il ruolo della carta stampata nel processo di formazione dell’opinione pubblica nel nostro paese». In realtà, l’ultima osservazione del rapporto Censis ha a che fare più con il mondo delle interpretazioni piuttosto che con quello delle percentuali. Se è vero, infatti, come è vero, che le abitudini dei lettori sono cambiate, è altrettanto vero che gli stessi giornali si sono “aggiornati” puntando più e meglio sugli approfondimenti inchieste, focus, interventi - e affiancando alla carta stampata la “carta elettronica”. L’esempio più significativo, in proposito, è quello di Repubblica e della sinergia tra stampa e web nel caso politico delle escort. I lettori, in questa fattispecie, sono aumentati o diminuiti? C’è, inoltre, un’altra considerazione da fare. Se la carta stampata ha resistito al decennio terribile del ciclone di Internet e della telefonia mobile tutto lascia pensare che il prossimo decennio non ci sarà la scomparsa del classico quotidiano, bensì la creazione di una diversa generazione di lettori che metterà insieme il web e la stampa. Anche il vantaggio del “tutto gratis”, del resto, sembra avere gli anni contati e, si sa, dopo la tempesta torna sempre il sereno. Alla fine ciò che conta è l’aumento dei lettori e tutto lascia pensare che dopo la trasfusione dalla stampa al web ci sarà la naturale onda di riflusso. È nell’ordine delle cose.

Il Natale dello Spirito e quello dei «lumbard» Le ragioni razziste del «White Christmas» della Lega di Pier Mario Fasanotti inalmente so in quale paese italiano non andare mai. Si chiama Coccaglio. È in provincia di Brescia ed è governato dai leghisti. La notizia sta sui giornali già da qualche giorno: lì, settemila abitanti tra cui 1500 stranieri, è scattata l’«Operazione bianco Natale». Forse è inutile spiegare, ma lo faccio: il giorno 25 dicembre se lo vogliono passare in santa pace, tra bianchi. I neri li controlleranno uno a uno: devono essere in regola, altrimenti «fôra di ball», come dice il pragmatico e violento dialetto lombardo. Il sindaco Franco Claretti scivola in una vergognosa dichiarazione, di stampo nazista: «Da noi non c’è criminalità, vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia». Quale? Quella etnica?

F

gue alla testa. Mi sono vergognato d’essere nato in Lombardia, mi ha consolato (ma poco) il fatto che abito frequentemente a Roma: pare ormai che i valori cristiani, o genericamente i valori universali, sopravvivano sotto il Po. E io voglio stare sotto quel fiume, paganamente e ridicolmente venerato da Bossi e accoliti muniti di ampolle. Entrando nella casa di riposo di mia madre mi sono vergognato anche perché il mio sguardo si è posato sulle infermiere e sulle assistenti di colore, sulle loro mani bellissime, affusolate, morbide, amorevoli, sui loro sguardi filiali, sulla loro pazienza verso gli sradicati nella vita (gli anziani), loro che sono sradicati nel territorio non nativo. Il paese Coccaglio andrebbe “scomunicato” dalla Santa Romana Chiesa, andrebbe additato come luogo moralmente funebre anche a persone dotate di solo buonsenso. Lo sdegno mi ha fatto immaginare, e desiderare, un boicottaggio economico e turistico del Bresciano. Quel boicottaggio che il mondo intero avrebbe dovuto attuare contro la Germania nazista, contro quei gruppi di fanatici adoranti occhi azzurri e pelle chiarissima, nudi e pagani in certi ritrovi, costretti a copulare con nordiche per generare la razza “eletta”, mentre matti e minorati venivano sterminati negli ospedali segreti.

Lo sdegno per questa vergognosa igniziativa del Comune di Coccaglia fa venir voglia di immaginare una sorta di boicottaggio economico e turistico del Bresciano

A delineare la mentalità leghista, se ce ne fosse ancora bisogno, ci sono le parole dell’assessore alla Sicurezza: «Per me il Natale non è la festa dell’accoglienza, ma della tradizione cristiana, della nostra identità». Magari ha letto e mandato a memoria Bibbia e Vangeli, senza però averne capito il senso profondo.Vuole il Natale “ariano”. Probabilmente volta lo sguardo se in chiesa c’è un delinquente o un mafioso. L’importante è che l’uomo o la donna con la pelle scura debba avere il permesso di soggiorno in regola. Il sindaco aggrava la sua posizione culturale e spirituale (sic!) dicendo: «Io sono credente, ho frequentato il collegio dei Salesiani. Questa gente dov’era domenica scorsa? Io a Brescia dal Papa». «White Christmas»: quindi si capisce meglio perché il Ku Klux Kan americano qualche giorno fa ha elogiato l’Italia per la sua “fermezza” contro gli stranieri (e di colore). Ho letto del bando di Coccaglio mentre andavo a trovare mia madre (novantenne) in una casa di riposo. Mi è venuto il san-

A Coccaglio c’è “il sonno della ragione”, si sbandiera impunemente la grande offesa al Cristianesimo: che è solidarietà, accoglienza, tolleranza, amore per gli umili e i diseredati. Ma il sindaco sa che il Pontefice la vigilia di Natale lava i piedi dei poveri? Sì, anche i piedi di pelle scura: perché non c’è alcuna differenza e perché solo alcuni idioti hanno tentato di accostare il colore della pelle al contenuto del cervello e dell’anima. Quando sono uscito dalla casa di riposo, ho visto una donna di colore accarezzare le spalle ossute di mia madre. Con naturalezza, con trasporto affettuoso. Un grazie a lei e a tutte le sue colleghe, con quegli occhi profondi e a volte tristi, con quelle mani delicate che sono protesi di anime generose.


panorama

20 novembre 2009 • pagina 11

I rapporti a sinistra tolgono il sonno al segretario: tutta la strategia del Pd passa attraverso i conflitti con l’ex magistrato

Bersani ha un incubo: Di Pietro Dal «No-B Day» alle Regionali: per il partito democratico resta il nodo delle alleanze di Antonio Funiciello

ROMA. Da quando Luigi De Magistris ha creato la sua corrente dentro l’Italia Dei Valori, Tonino Di Pietro ha un bel da fare a tenere a bada i mille malumori che serpeggiano nel suo partito. Non sono bastate le uscite di parlamentari verso l’Alleanza per l’Italia di Rutelli per chetare le inquietudini che percorrono l’Idv, rafforzate dall’esterno dal cartello di Micromega che preme, in vista delle regionali, per condizionare le scelte del partito. Già, le regionali. Per Di Pietro, visto l’andazzo interno, finiscono davvero per essere il vero banco di prova della sua leadership. È lui che sceglierà i candidati ai vari consigli regionali dell’Idv, lui selezionerà i contesti più favorevoli per l’elezione dei più fedeli e, più in generale, a lui spetterà l’ultima parola sulla composizione di tutte le liste dell’Idv. Se non dovesse puntellare il suo partito a dovere, attraverso l’elezione di suoi fedelissimi nei consigli regionali, la struttura piramidale su cui ha costruito il suo movimento potrebbe franare.

la prossima primavera. Di Pietro, che in quanto a naso non è secondo a nessuno, ha fiutato l’aria e ha favorito la promozione della manifestazione antiBerlusconi del prossimo 5 Dicembre da parte di un gruppo di blogger di sinistra. Non avrebbe potuto organizzare lui direttamente l’ennesima marcia anti-Cavaliere, perché sarebbe stato contestato all’interno del suo partito, mostrando segni di debolezza all’esterno.

Niente di più facile che mettere il cappello sulla manifestazione partita on line per tornare all’attacco del suo nemico di sempre. Che, s’intenda, non è affatto il presidente del Consiglio. Ma risponde al nome di Partito Democratico. Sia Veltroni, Franceschini o Bersani, il segretario democratico, per Di Petro cambia poco: la sua Idv vive della luce riflessa che gli regalano i tentennamenti e gli errori del suo maggiore alleato. È nei confronti del Pd che Di Pietro calibra la sua offerta politica, che consiste sempre in un rifugio sicuro per lo zoccolo duro dell’anti-berlusconismo democratico. Per quanto il Pd tenti oggi di rianimare i cespugli che prendevano posto alla sua sinistra, Di Pietro resta il più titolato per attirare anche quel particolare tipo di consenso, tutto borghese, che confluiva su quei soggetti. Lo ha fatto caricando nel partito e candidando alle politiche e alle europee pezzi dell’intellighenzia della vecchia sinistra italiana. Continua a farlo abbracciando battaglie come quella del referendum contro la privatizzazione della gestione dell’acqua o la crociata anti-Cosentino. Una strategia che ha ben reso alle scorse elezioni europee e che s’incarica di rispondere con pari successo alle regionali. Il Pd incassa e soffre. Il leit motiv dei suoi due anni di vita sta proprio nel rapporto burrascoso con l’Idv. Quello che a

La teoria di Veltroni secondo la quale l’Idv sarebbe stata la Lega del Pd, alla fine non ha funzionato

Al giro successivo, Di Pietro potrebbe ritrovarsi a dover scegliere i candidati al parlamento con metodi più collegiali, seguendo l’articolazione interna all’Idv delle correnti. I rapporti di forza che garantiscono la sua leadership risultano così legati a doppio nodo alla scadenza elettorale del-

tutti appare oggi un errore mastodontico, l’alleanza siglata da Veltroni con Di Pietro per le politiche perse nel 2008, aveva una sua logica. Veltroni era convinto che il suo Pd potesse essere competitivo col Pdl e che l’Idv potesse, al contempo, neutralizzare la Lega.

La somma del distacco che il Pd e l’Idv scontarono dal diretto avversario, rappresentò seccamente l’entità della sconfitta di Veltroni. L’illusione o, più semplicemente, la cattiva valutazione sulle effettive possibilità per il Pd di giocarsi la vittoria - in realtà minime, se non nulle suggerì l’utilità di un’alleanza che rafforzò solo Di Pietro. Che difatti il giorno dopo la sconfitta, pur avendo sottoscritto un accordo per gruppi parlamentari comuni, ottimizzò il suo risultato sganciandosi subito dai democratici. Oggi le cose sono addirittura più complicate. Il Pd che punta ad organizzare una grande alleanza di centro-sinistra, da Casini a Vendola, non può certo fare a meno di Di Pietro; ancor più se intende tenere fuori i comunisti di Ferrero. Un recupero dell’Idv è indispensabile per non sbilanciare troppo verso il centro la futura coalizione contro Berlusconi ed evitare che il Pd di Bersani perda voti a sinistra.

Il personaggio. Silvia Ferretto ha chiuso con la destra succube del Carroccio e ha scelto il Centro

Una pasionaria lombarda anti-Lega di Valentina Sisti

MILANO. «Consigliere regionale precario in esilio nel gruppo 9103», si legge nel sito di Silvia Ferretto Clementi, bionda e pasionaria consigliere regionale lombarda, che vanta nel curriculum un esordio da giovanissima studentessa con una tesi sulle foibe, che gli ha fatto ottenere anche un premio letterario, e «il 99,23 delle presenze» sugli scranni della Regione. Espulsa da An con cui era stata eletta, per aver chiesto le dimissioni dell’assessore Romano La Russa, per incompatibilità con l’elezione al Parlamento europeo, dopo un periodo nel gruppo Misto, ha aderito ai Circoli Liberal e alla Costituente di Centro. L’esilio è terminato? L’esilio è terminato, ma continuo a considerarmi una precaria della politica. Guai a considerare il proprio mandato come un diritto e non invece un patto da rispettare con i cittadini, che devono essere liberi ogni volta di giudicare il nostro operato. Cosa ne pensa delle tensioni all’interno del Pdl? C’è un problema comune della scelta della

classe dirigente. Purtroppo la maggior parte dei nostri politici non viene scelta per merito ma per «agilità dorsale», come sosteneva Cyrano de Bergerac. Ho sempre preferito non inginocchiarmi davanti ai padroni della politica, pagandone spesso le conseguenze in prima persona. Aspetterà la fine della legislatura per aderire ufficialmente all’Udc? Ho ricevuto molte offerte, ma ho accettato l’invito ad aderire ai Circoli Liberal e al progetto politico di Costituente di Centro, perché ne condivido i valori e i programmi. Rispetterò quindi la fine del mio mandato e se l’Udc riterrà di candidarmi, accetterò di buon grado. Ritiene chiusa la vicenda con i fratelli La Russa? Non ci siamo più riconciliati. Sono stata cacciata da An senza alcuna spiegazione. Ho vissuto questa vicenda come una grave ingiustizia. Le vicende giudiziarie che stanno investendo la Giunta rischiano di consegnare la Lombardia alla Lega?

Il centrodestra in Lombardia subisce i continui ricatti della Lega, che continua a evocare lo spauracchio della secessione. Sono stata l’unica a chiedere che nello statuto regionale si facesse riferimento all’unità nazionale. Sul piano giudiziario, poi, bisogna distinguere tra chi è solo indagato e chi è invece è stato già condannato. Non mi piace quando la politica la fanno i giudici. Pensa che il futuro dell’Udc lombardo sia legato alla candidatura di Roberto Formigoni? La forza dell’Udc è proprio quella di non cedere ai ricatti della Lega. È un partito in forte crescita, in grado d’intercettare tutti quegli elettori che sono stufi che si parli solo di problemi di giustizia che investono il premier e non invece dei problemi reali del Paese. E l’Udc ha sempre dato dimostrazione di seguire i principi e la propria indipendenza più che la logica delle poltrone. Il problema delle alleanze e delle candidature si pone in un secondo momento.


pagina 12 • 20 novembre 2009

ono molte le iniziative in occasione dei vent’anni della scomparsa di Augusto Del Noce. Tra queste va senz’altro segnalato il convegno organizzato dal Cnr e dall’università di Cassino oggi a Roma e domani a Cassino. Contributi utili per comprendere meglio il pensiero di un grande maestro ancora non abbastanza valutato. Si cercherebbe invano nel pensiero di Augusto Del Noce una teoria generale della politica. La politica di cui Del Noce si occupa è la politica del Novecento, o, più in generale, la politica successiva al 1785 in quanto in essa vengono maturando le premesse ed i principi della politica del Novecento. Potremmo iniziare la spiegazione dal punto di vista delnociano con la Rivoluzione Francese e con l’analisi che ce ne ha lasciato il suo critico più acuto, il De Maistre. Per De Maistre la rivoluzione francese si differenzia da tutte le altre che la hanno preceduta. Molte volte nella storia un popolo si è ribellato ad una ingiusta oppressione ed un regime tirannico è stato sostituito da un altro più amato dal popolo e più attento a rispettare i diritti e promuovere la libertà del popolo. Completamente diversa è la struttura della rivoluzione francese. Almeno nella sua ala estrema giacobina ciò che viene rigettato è l’intera tradizione precedente. La rivoluzione assume il significato di un radicale cambiamento della stessa natura umana.

S

La rivoluzione genera un uomo nuovo che non dipende né da una natura né da una storia che lo precede. L’uomo nuovo, a sua volta, genera un mondo nuovo. È Rousseau ad enunciare questo programma. I giacobini tenteranno di realizzarlo. Questo programma rivoluzionario implica l’opposizione al cristianesimo. Non solo il cristianesimo appartiene al passato che deve essere distrutto per permettere l’emergenza del mondo nuovo, ma è per di più essenziale nel cristianesimo l’idea di un Dio che crea l’uomo e creandolo lo inserisce in un ordine naturale, che l’uomo ha l’obbligo di rispettare. Qui invece è l’uomo il creatore dell’ordine e del mondo. La natura e la storia precedenti sono il male che deve essere annullato. La Rivoluzione acquisisce dunque un significato ed un valore filosofico. La politica rivoluzionaria diventa il banco di prova di una posizione filosofica. Nel Problema dell’Ateismo Del Noce illustra questa posizione nella forma matura che essa assume in Karl Marx. Del Noce si sofferma soprattutto sui passi in cui Marx spiega la ragione del proprio ateismo. Marx, che di filosofia certo ne capiva più che non alcuni odierni apologeti di un evoluzionismo ingenuo, spiega che l’uomo naturalmente si pone una domanda sull’origine: da dove vengo io? Genitori, antenati, “scimmia originaria” sono solo inizi relativi, nessuno di essi costituisce un inizio assoluto. Così naturalmente si impone all’intelletto umano l’idea di Dio come inizio assoluto. Dobbiamo dunque rassegnarci a restare dentro quello che Derrida chiamerebbe l’orizzonte onto/teologico? No, dice il giovane Marx. Semplicemente la prova della non esistenza di Dio deve essere una prova storica, pratica e politica. La prova della verità dell’ateismo è la costruzione di un mondo nuovo che sia totalmente e integralmente fatto dall’uomo e nel quale la originaria creazione divina sia totalmente obliterata. Questa prova pratica dell’ateismo, a rigore, non dimostra che Dio non c’è. Dimostra però che non ne abbiamo bisogno. L’uomo vecchio è naturalmente religioso; l’uomo nuovo comunista è invece naturalmente irreligioso.

il paginone

A vent’anni dalla sua morte, il grande filosofo italiano viene ricordato in un doppi

Oltre Gentile, olt È Del Noce il vero padre della modernità politica: i suoi studi sulla Rivoluzione francese, il marxismo e il fascismo restano di straordinaria attualità di Rocco Buttiglione Da Platone in poi la filosofia ha pensato che la verità fosse prova di se stessa. La verità permane anche se i potenti, coloro che dominano la prassi, la reprimono e la mettono a morte. Per Marx, invece, eliminata la visione interiore, la verità coincide con il potere. L’uomo è interamente riassorbito nel divenire della storia, non la trascende. Una conseguenza di questo approccio è la fine dei diritti naturali dell’uomo. L’uomo, anzi, propriamente, non esiste più. Nella visione platonica (e anche, pur se con alcune diversità, in quella cristiana) l’uomo sta in una relazione diretta con la verità divina. Il senso e il valore della vita dell’individuo non dipende dal suo successo mondano ma dal suo rapporto con la verità. Nella prospettiva marxiana, invece, «l’uomo non è altro che un insieme di relazioni sociali», è cioè interamente assorbito nella società e nella storia.

L’ingresso del marxismo nella storia del mondo impone un ripensamento anche a tutte le altre forze spirituali presenti nella storia europea. L’avversario primo del marxismo è il nazionalismo che emerge dalla Rivoluzione Francese. Il nazionalismo non è semplicemente l’amore naturale per la propria patria. Nel nazionalismo post/Rivoluzione Francese la nazione prende il posto di Dio e sostituisce la Chiesa, o, meglio, la Chiesa viene riassorbita nella nazione. L’interesse nazionale diventa criterio ultimo di verità. Il liberalismo, almeno nella sua forma continentale, cede al nazionalismo pensando in tal modo di opporsi meglio alla espansione del marxismo. La I Guerra Mondiale sarà la guerra dei nazionalismi, qualitativamente diversa da tutte le guerre precedenti. Solo la voce di Benedetto XV si levò per condannare l’inutile strage. Lenin, al contrario, spiega agli operai e ai contadini russi che, una volta rotto il tabù contro il versamento del sangue, tanto valeva fare la guerra civile contro i propri capitalisti piuttosto che la guerra internazionale contro gli operai ed i contadini degli altri paesi.

La grande guerra europea inizia come guerra dei nazionalismi ma continuerà poi, nella sua seconda fase del ‘39/’45, come guerra delle ideologie. È in conseguenza della grande de-sacralizzazione della vita umana del 1914/1918 che si spiega il trionfo dei totalitarismi fra le due guerre. È a causa della guerra che il leninismo si impone in Russia e costituisce l’Unione Sovietica. È a causa della guerra e come reazione al comunismo che insorgono il fascismo in Italia ed il nazismo in Germania, pur con le differenze fra loro che proprio Del Noce ha evidenziato.

È a causa della guerra e come reazione al comunismo che insorgono il fascismo in Italia ed il nazismo in Germania, pur con tutte le loro differenze Nel campo della interpretazione del marxismo Del Noce è stato protagonista in Italia di una vera e propria rivoluzione. La cultura italiana tendeva a vedere il comunismo come una rivendicazione di giustizia sociale ed a partire da questo si teorizzava l’incontro fra cristiani e marxisti sul terreno della difesa dei diritti del pove-

Oggi a Roma, domani a Cassino Il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università degli Studi di Cassino, in collaborazione con la Fondazione Centro Studi “Augusto Del Noce” di Savigliano (Cn), ricordano il pensiero e l’opera di Augusto Del Noce nel Convegno nel ventennale della sua morte che si tiene oggi a Roma (ore 9.00, Cnr, Aula Marconi, p.le Aldo Moro, 7) e domani sabato 21 a Cassino (ore 10.00, Rettorato Università di Cassino, Aula Pacis, via Marconi 10). Tra i relatori Roberto de Mattei, vice presidente del Cnr, Rocco Buttiglione, vice presidente della Camera dei Deputati, Salvatore Azzaro dell’Università di Cassino, Teresa Serra del Comitato nazionale per il centenario della nascita di Augusto Del Noce, Francesco Perfetti dell’Università Luiss-Guido Carli, Gianfranco Lami dell’Università La Sapienza di Roma, Vittorio Mathieu e Marcello Veneziani.

ro. Nel suo libro Il Problema dell’Ateismo Del Noce dimostrò la centralità dell’ateismo nella metodologia e nella dialettica marxista, ancor più nel suo ulteriore sviluppo leninista. Mostrò anche il lato non umanista o antiumanista del marxismo. Ateismo, antiumanismo e totalitarismo sono elementi intrinseci al marxismo. Negli anni ’60, ’70 e ’80 la costruzione teoretica di Del Noce diventava automaticamente, senza nulla cedere del proprio rigore e anzi proprio a causa di esso, un intervento politico di prima linea. Esso ostacolò e contribuì ad impedire la alleanza di cattolici e comunisti. Nel dibattito su questi temi interno alla Chiesa Cattolica il libro di Del Noce sul problema dell’ateismo fu un essenziale testo di riferimento. Egualmente importante fu l’apporto di Del Noce agli studi sul fascismo. Negli anni ’60 e ’70 dominava in Italia una visione del fascismo come fenomeno reazionario. Il fascismo sarebbe stato l’ultima reazione delle potenze del passato contro il mondo nuovo, in cui l’uomo riprende in mano il proprio destino. L’opposizione al fascismo avrebbe dunque unificato tutte le forze positive e progressive della storia europea: i liberali, i cattolici ed i comunisti. Non solo essi avevano dovuto allearsi contro il fascismo, ma quella alleanza avrebbe dovuto provocare una reciproca compenetrazione, dare vita ad una sintesi nuova. Ognuno di essi avrebbe dovuto abbandonare il proprio integralismo. Convenivano in questa prospettiva gli azionisti, i dossettiani ed i comunisti gramsciani alla ricerca di una nuova ricetta per la rivoluzione in Occidente.

Il concetto di fascismo veniva trasposto dall’ambito storico/politico a quello metafisico. Il fascismo era il male assoluto. Di conseguenza tutte le forze contrarie al fascismo dovevano essere buone e l’unità antifascista da fenomeno storico causato dalla opposizione ad un comune nemico diventava anch’essa un concetto metafisico. In questo processo, evidentemente, anche il comunismo doveva essere buono, depurato dagli eccessi. Anche il cattolicesimo avrebbe dovuto subire un’altra e più radicale purificazione per potere inserirsi nella modernità. Il cattolicesimo avrebbe dovuto separarsi dall’integrismo, dalla resistenza alla modernità che lo aveva portato ad opporsi al comunismo ed a cedere al fascismo. Negli anni ’60 il Concilio fu visto da molti esattamente come l’inizio di quella purificazione che avrebbe dovuto preludere all’incontro fra cattolici e comunisti in nome della unità antifascista.


il paginone

20 novembre 2009 • pagina 13

io convegno organizzato dal Cnr e dall’Università di Cassino

tre Gramsci

turalistici che spiegano e giustificano la sua connessione con Engels. Ciò che residua una dialettica pura, scevra di qualunque tratto materialistico. Una simile dialettica è però necessariamente impolitica e lontana dalla pratica. Questa preliminare operazione di svuotamento della dialettica del suo contenuto materialistico è preliminare alla individuazione di un nuovo e diverso soggetto del divenire storico. Questo soggetto è la nazione. L’idea di nazione Gentile la deriva dal risorgimentalismo italiano e, primariamente, da Gioberti e Rosmini. Per Rosmini (come prima per Vico e poi per il Concilio Ecumenico Vaticano II) l’uomo è un essere che realizza compiutamente se stesso attraverso un libero dono di sé. In altre parole l’uomo è un essere strutturalmente comunitario. La prima comunità che emerge da questa logica del dono è la famiglia. La seconda è la nazione. In Rosmini, però, come in San Tommaso, l’uomo non appartiene alla comunità politica secundum se totum (con tutto se stesso). La persona, che è il diritto sussistente, ha un rapporto diretto con Dio per mezzo della coscienza. Per potere assegnare alla nazione il ruolo che nella originaria dialettica marxista apparteneva alla classe sociale è necessario ricondurre ad immanenza il concetto rosminiano.

I suoi primi studi sul Ventennio sembravano “eretici” e furono la ragione primaria del’isolamento a cui fu condannato

In quel contesto gli studi di Del Noce sul fascismo dovevano necessariamente apparire come eretici e furono infatti ragione primaria del’isolamento intellettuale a cui per molti anni il nostro autore fu condannato. Del Noce era stato antifascista negli anni del fascismo per ragioni soprattutto morali, cioè per il rifiuto del primato della forza. Subito dopo la Liberazione, però, Del Noce spiega la necessità di un riallineamento dei fronti della lotta ideale e politica. Il nuovo nemico della libertà è il comunismo e la alleanza conclusa contro il fascismo si esaurisce una volta raggiunto il suo scopo. In questo Del Noce anticipa e prepara la svolta degasperiana che si realizza con la esclusione dei comunisti

dal governo. Quando poi si occuperà direttamente del fascismo il nostro autore partirà, in un certo senso, da una riflessione di Croce, secondo cui il fascismo non andava trattato come un male metafisico ma come un male storico, ed ogni male storico è pur variegato di un qualche bene. La prima cosa che Del Noce mette in chiaro nella considerazione storica del fascismo è che il fascismo non è un fenomeno politico reazionario. Basta uno sguardo superficiale alla biografia politica di Mussolini ed alla concezione che il partito fascista aveva di se stesso per vedere che il fascismo appartiene alla storia del fenomeno rivoluzionario. Il fascismo vuole rompere con la totalità della storia prece-

dente e vuole creare un uomo nuovo e, in particolare, un nuovo italiano. Il fascismo si differenzia dal comunismo perché ritiene di offrire una forma rivoluzionaria superiore a quella comunista e più adatta ad una nazione di elevata civiltà come l’Italia. In questo senso le ambizioni del fascismo hanno una forte somiglianza con quelle dell’eurocomunismo. La rivoluzione italiana non può ripetere quella russa ma deve essere ulteriore a quella russa. Per comprendere adeguatamente la natura di questa ulteriorità bisogna rifarsi a Giovanni Gentile, il filosofo che ha effettivamente pensato il fascismo. Gentile separa nettamente Marx da Engels e purifica Marx da tutti gli aspetti na-

A questa riduzione, per la verità, Gioberti si presta assai meglio di Rosmini. Gentile riconoscerà dunque a Gioberti un primato su Rosmini e rileggerà il libro famoso di Gioberti sul Primato morale e civile degli italiani come se fosse piuttosto il “Primato politico e militare degli italiani”. La prova della verità delle idee, infatti, una volta abbandonato il concetto platonico di verità, è l’efficacia pratica, il successo nella storia. Questa lettura del pensiero di Gentile spiega anche il rapporto del fascismo con la religione cattolica. In quanto elemento costitutivo della tradizione nazionale italiana il cattolicesimo deve essere rispettato ma deve essere anche integrato e superato all’interno del fascismo stesso. Il fascismo (e più in generale la teoria dello stato moderno) viene visto da Gentile come la secolarizzazione del cristianesimo. Il cristianesimo nella sua forma cattolica deve essere preservato come prima forma in cui le masse vengono educate al trascendimento dell’egoismo individuale, ma deve poi cedere, quanto meno nella educazione delle élites, al fascismo come lettura immanente, filosofica e non religiosa, del divenire della storia. I due libri di Del Noce su Gentile e su Gramsci corrono su binari strettamente paralleli ed il comunismo all’italiana sarà, nel dopoguerra, il vero erede del pensiero di Gentile. Questo spiega anche le ragioni del passaggio in blocco, nel dopoguerra, di tanta parte degli intellettuali fascisti nel partito comunista. Anche la mano tesa ai cattolici, che caratterizza la politica comunista in Italia, è l’equivalente del tentativo gentiliano di incorporazione/superamento del cattolicesimo nel fascismo.


mondo

pagina 14 • 20 novembre 2009

Stati Uniti. Per l’ex ambasciatore Sergio Romano la stella del presidente Usa non si è offuscata. Perchè la sua visione è solida

Obama brilla ancora «Il viaggio in Asia non è stato un insuccesso e il G2 è una bufala inventata dai media» di Pierre Chiartano on bisognerebbe mai giudicare un viaggio come quello di Obama, sulla base delle aspettative e delle presunzioni di coloro che scrivono sui giornali, attribuendo ai protagonisti delle intenzioni che probabilmente non hanno». Come sempre è chiarissima l’analisi che fa a liberal Sergio Romano scrittore, editorialista ed ex diplomatico di rango. Per lui l’equazione cinese non è una di quelle semplici da risolvere, ma è meno complicata da capire di quello che sembra. Un gigante dai piedi d’argilla legato ad un altro gigante, più solido «è ancora una superpotenza con cui tutti devono fare i conti», ma col fiato corto. «I cinesi oggi conoscono meglio le intenzioni degli americani e della nuova presidenza e Obama sa meglio i limiti e le intenzioni dei cinesi. Pechino ha un programma di lavoro a suo modo molto ragionevole e pragmatico. Hanno puntato - spiega Romano - sullo sviluppo, ma sono consapevoli di non essere una grande potenza. Desiderano mantenere il massimo d’indipendenza e sovranità nazionale e si può contare sulla loro collaborazione soltanto se compatibile con questi interessi».

«N

La Repubblica Popolare Cinese è ormai una potenza «ma con interessi economici globali e ambizioni politiche a livello regionale», membro insieme agli Stati Uniti del cosiddetto G2 che per Romano «sostanzialemnte non si è palesato», nonostante molti l’avessero pronosticato. «La storia del G2 è la classica invenzione mediatica che tutti finiscono per assecondare e accettare come una realtà. E su questa realtà si costruiscono ipotesi.Troppo diversi gli interessi della Cina, che sono prevalentemente economici, eccetto che in Asia. Non si può giudicare quindi su di un errore di analisi». La Cina è anche, come si usava dire una volta della Germania, un gigante dai piedi d’argilla. È potente anzitutto perché è il maggiore creditore degli Stati Uniti. «Washington sa che i cinesi non hanno alcun interesse a vendere i loro bond e a de-

«È dai tempi di Gerald Ford che non si assisteva a un flop simile»

Carta stampata e tv: La luna di miele è finita di Fred Barnes ai tempi di Gerald Ford nessun presidente Usa ha mai avuto minor successo diplomatico in un suo viaggio oltreoceano di Barack Obama. Ci ho pensato e ripensato, ma è proprio così. Obama si è lanciato nel suo tour di otto giorni in Asia, fitto fitto di appuntamenti, esponendosi all’umiliazione di una coreografica quanto grottesca discussione con i giovani membri della Lega Comunista cinese. E ha sopportato senza battere ciglio la conferenza stampa di trenta minuti con il presidente cinese Hu Jintao in cui non erano ammesse domande dai media. Ma c’è dell’altro: i presidenti di solito rientrano dalle visite all’estero con delle “dichiarazioni” di commento sugli accordi siglati.Tutto quello che Obama ha riportato è una lista di cose che gli Stati Uniti e la Cina dovrebbero fare nel futuro. Ebbene, c’è un termine per questo: canovaccio diplomatico. Ovvero tutto quello che andrebbe fatto prima di una visita. I collaboratori e gli addetti stampa di Obama insistono sul fatto che il presidente non fosse alla ricerca di risultati immediati, ma volesse sviluppare delle relazioni migliori tra America e Cina a beneficio del futuro.

D

Sarà, ma dico io, avrà pur provato imbarazzo a ricevere una ramanzina dai cinesi sul suo protezionismo! Nessuno dei suoi predecessori è mai stato sottoposto a tutto questo. La Cina manipola la sua valuta come le pare ed è più che protezionista rispetto al suo mercato. Ma Obama non ha potuto rispondere all’accusa perché la sua amministrazione ha stroncato le tariffe sugli import di pneumatici e tubi cinesi. Non contento, ha rifiutato di favorire la ratifica di un trattato di libero commercio, negoziato dall’amministrazione Bush, con la Corea del Sud. Voleva che la Cina facesse pressioni sull’Iran affinché ammorbidisse la sua posizione sul nucleare: non c’è stato modo. Sperava che la Cina iniziasse a impegnarsi con delle misure con-

crete contro il riscaldamento mondiale: ancora una volta, ha riportato un ampio fallimento. Si augurava che la Cina cominciasse a rafforzare la sua moneta: su questo ha ottenuto l’ennesima promessa vuota, ammesso che ci sia stata. Poi è stato il turno dei diritti umani. Anche su questo punto, nessun progresso.

Non è tutto. Anche prima dell’arrivo di Obama in Cina, gli Stati Uniti sono stati criticati per eccesso di protezionismo al Forum per la Cooperazione Economica AsiaPacifico dalla Russia, dal Messico e dalla Cina. Il meglio che Obama è riuscito a offrire (e ottenere) è stata la disponibilità a negoziare una possibile partecipazione statunitense a un patto commerciale (s)conosciuto come Trans-Pacific Partnership. Si è poi autodefinito «il primo presidente Pacifico americano», e accontentato di fuffa in merito a Copenhagen. Un vertice che adesso non sarà altro che l’ennesimo gradino verso un futuro Trattato contro i gas serra. E poi il paradosso: con la Cina che lo ha attaccato per l’indebolimento del dollaro. Tutto questo riserva un’altra sorpresa: la copertura mediatica di questo viaggio. Che non è stata clemente con Obama. Critiche e attacchi sono arrivati dal New York Times, dal Washington Post e dal Los Angeles Times per la pochezza dei risultati raggiunti. «In Cina il famoso potere persuasivo di Obama ha fatto cilecca» ha scritto Barbara Demick del Los Angeles Times. Ha ragione: Per Obama la luna di miele con la stampa sembra finita.

prezzare drammaticamente il valore dei propri risparmi», tuttavia non può ignorare che gran parte del debito Usa è nelle mani di un Paese che può all’occorrenza creare al debitore seri fastidi. Quindi, in questa fase, Washington non potrà fare nulla contro Pechino per risollevare le sorti della propria economia, debilitata dalla crisi finanziaria mondiale. La Cina dal canto suo ha inventato «una macchina che non può fermarsi, un sistema che crea inevitabili diseguaglianze sociali e può evitare di esserne travolto soltanto se distribuisce ogni anno un po’ più di ricchezza a tutti i suoi cittadini».

Se Obama non ha ottenuto ciò che voleva dal viaggio in Cina e su questo punto Romano dissente - neanche Pechino può dirsi soddisfatta. Lo status di partner strategico cui ambiva non l’ha ottenuto. Per cui se proprio non si può parlare di matrimonio fra le due potenze, almeno possiamo affermare che si tratta di un fidanzamento. «Il viaggio non può essere considerata una sconfitta per

In alto, Barack Obama assieme al presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao; sotto, in senso orario: l’inchino (che ha suscitato molte critiche) all’imperatore del Giappone Akihito; l’incontro con i giovani della Lega Comunista, sapientemente “selezionati” dal regime; il presidente sudcoreano Lee Myung-bak con Obama e il generale del Myanmar Thein Sein. Nel riquadro: Sergio Romano. A destra: un impianto atomico dell’Iran


mondo no ha fatto orecchio da mercante su di una rivalutazione del renmimbi «la forza nostra valuta è uno degli strumenti che ci ha salvato dalla crisi finanziaria» aveva affermato il viceministro degli Esteri He Yafei, potrebbe supportare futuri interventi Usa a difesa dei propri interessi in Asia. L’accordo di cooperazione investirà i settori dell’aviazione, dell’industria aerospaziale e della tecnologia ambientale.

I fatti sono questi: da oggi esiste una sorta di gemellaggio internazionale tra il grande debitore e il grande creditore

Obama» e solo il tempo potrà giudicare quale poltica poteva essere migliore di ciò che sta facendo la Casa Bianca. «La politica estera funziona con obiettivi di medio lungo termine e sono convinto che il presidente Usa non si aspettava da questo viaggio tutto ciò che i commentatori gli attribuivano alla vigilia».

L’accordo annunciato martedì, lascia aperte molte questioni, ma sostanzialmente sembra essere una riedizione di quello degli anni Settanta. Un’intesa che portò ad una partnership antisovietica e all’inizio dell’afflusso di capitali stranieri nel Chung Kuò. La Cina non si opporrà agli interessi strategici americani in Asia, riconoscendo di fatto gli Usa come potenza del Pacifico. «Ma non c’era bisogno del viaggio di Obama per questo tipo di riconoscimento. Il fatto che lo abbiano affermato chiosa l’ex ambasciatore - più esplicitamente è utile e anche opportuno. Ma non ho mai avuto dubbi sull’intelligenza dei cinesi». Dunque, se Pechi-

Settori in cui la tecnologia può avere un duplice uso, civile e militare. Potrebbe voler significare che Washington si prepara a revocare l’embargo sulle armi imposto alla Cina nell’89 dopo Tiananmen. «È un’ipotesi possibile, ma credo che inquesto momento Obama debba stare molto attento a non inimicarsi quei settori della società americani che l’accusano di essere troppo conciliante» quelli che lo vorrebbero chiamare ”Obamao” «di aver ceduto verso altri Paesi. ragione per cui questo potrebbe non essere il momento migliore per la revoca dell’embargo. È pur sempre possibile collaborare su tecnologie con ricadute militare». In passato, suggerisce Romano, «anche se meno visibile» questo tipo di collaborazione ci sarebbe già stata. Sul tema ambientale occorre essere chiari «la Cina non vuole prendere impegni in questo momento. Obama ne è consapevole e dal canto suo sa che la sua politica nel settore è invisa a molti ambienti legati alla vecchia amministrazione. Se il grande inquinatore cinese non prende impegni, non servono accordi. Però, sia Pechino che Washington, pur rifiutando vincoli, stanno concretamente facendo politiche ambientali che non attuavano solo qualche anno fa». Il gigante cinese essendo soggetto a catastrofi naturali che possono essere ricondotte ai cambiamenti climatici ha un interesse primario ad intervenire «ma con i modi e i tempi che gli sono congeniali». Visto anche che «la crisi ha avuto pesanti ricadute sull’economia cinese. Le industrie che vivevano di esportazioni hanno perduto buona parte dei loro mercati occidentali e molte di esse hanno dovuto chiudere. Il numero di nuovi disoccupati creati da questa contrazione di attività produttive ammonta a circa 30 milioni». Un modo per dire che siamo tutti sulla stessa barca ormai. «Qualche anno fa il Wall Street Journal scriveva che il 70 per cento dei prodotti commercializzati da Wall-mart la grande catena di distribuzione Usa provenivano dalla Cina. Pechino con i soldi guadagnati dalle esportazioni ha comparto il debito americano». E da oggi esisterebbe una sorta di «gemellaggio internazionale» tra il grande debitore e il grande creditore.

20 novembre 2009 • pagina 15

Avvisata anche la Corea del Nord: «Basta con le provocazioni»

Iran, nucleare e sanzioni monito Usa e gelo russo Oggi a Bruxelles il vertice del gruppo 5+1, ma Mosca avvisa: non è ancora l’ora della linea dura di Osvaldo Baldacci ucleare, no grazie. Si conclude con un monito a Iran e Corea il viaggio asiatico di Barack Obama. Il presidente statunitense che ha fatto della politica del dialogo il suo marchio stavolta lancia un altolà alle troppo spregiudicate Teheran e Pyongyang. Lo fa dopo aver visitato le maggiori potenze asiatiche e, forse, dopo aver ottenuto dalla recalcitrante Cina la promessa di una maggior collaborazione in materia. O forse alza la voce proprio per mascherare la mancanza di sostegno cinese e per ammorbidire le critiche ricevute per la troppa accondiscendenza. Comunque non è un caso che l’avvertimento sia partito da Seul, ultima tappa del suo viaggio e capitale di quella Corea del Sud che forse è il paese al mondo più minacciato da armi nucleari. Preoccupa infatti l’imprevedibilità del regime nordcoreano, che ha già effettuato due test di armi atomiche. Barack Obama ha intimato a Pyongyang di evitare «ulteriori provocazioni» (di pochi giorni fa persino una battaglia navale nei mari coreani).

N

Non sono mancate aperture: «Se la Corea del Nord è pronta ad assumere passi concreti per adempiere ai suoi obblighi ed eliminare il suo programma nucleare, gli Stati Uniti la sosterranno economicamente e contribuiranno alla sua piena integrazione nella comunità internazionale», ha detto Obama al termine del suo incontro con il presidente sudcoreano Lee Myung-bak, annunciando inoltre che manderà un proprio inviato, Stephen Bosworth, a Pyongyang l’8 dicembre per convincere il regime a tornare al tavolo dei colloqui a sei (Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia e le due Coree). Ma stavolta i due presidenti hanno anche mostrato di conoscere le carte della Corea del Nord e di non intendere proseguire a cadere nel gioco portato avanti finora: occorre «rompere con l’atteggiamento mostrato in passato, con la Corea del Nord che prima si comporta in modo provocatorio e poi chiede di tornare ai negoziati e questo porta a ottenere ulteriori concessioni». E intanto annuncia che la Corea del Sud non sarà denuclearizzata. Un monito che ha molti punti di contatto con la situazione iraniana, ancor più viva ed attuale. Obama ha minacciato Teheran di nuove sanzioni se non collaborerà con la comunità internazionale. L’Iran ha tirato per le lunghe i negoziati con il gruppo 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza insieme alla Germania) sulla possibilità di arricchire all’estero l’uranio per le proprie centrali civili e infine ha fatto arrivare un no. Proprio oggi a

Bruxelles i sei si riuniranno per discutere quali misure prendere nei confronti dell’Iran dopo il rifiuto dell’accordo proposto a Ginevra dall’Aiea. Obama ha detto che stanno valutando nuove sanzioni (e la Russia ha fatto imemdiatamente sapere di essere contraria) anche se ha sottolineato come rimanga ancora aperta la porta del negoziato, o quanto meno la possibilità per Teheran di fare marcia indietro e accettare l’accordo. La risposta iraniana però assume toni che sembrano andare in ben altra direzione: il presidente Ahmedinejad, in un discorso alla tv di Stato ha detto che il suo paese è pronto ad avere migliori rapporti con gli Stati Uniti se e quando verranno accettati i diritti iraniani sui programmi nucleari. E tanto per non farsi mancare nulla ha anche chiesto di sbloccare gli averi iraniani congelati 30 anni fa, lanciando anche un

Non è un caso che l’avvertimento sia partito da Seul, ultima tappa del suo viaggio e capitale della Corea del Sud, il paese del mondo forse più minacciato da armi nucleari ammonimento contro “la furbizia delle grandi potenze”. Intanto il ministro Mottaki ha definito le eventuali sanzioni «letteratura di altri tempi, esperienza passata e fallita che gli occidentali non vorranno ripetere».

A un anno dalla sua elezione, quindi, in politica internazionale Obama deve fare i conti con due sfide aperte alla sua politica del dialogo. Il tempo corre e trovarsi di fronte al dato di fatto di due nuove potenze nucleari, ostili, sarebbe un fallimento. Per Obama si tratta di scegliere la linea per impedire o almeno governare questo fenomeno.Valutare se il dialogo, pur nascosto da facce feroci, possa davvero cambiare gli scenari dell’est e dell’ovest dell’Asia, o se al contrario occorrerà mostrare una linea più dura, come già più volte preannunciato a parole. C’è poi una terza possibilità, apparentemente impensabile: se non può o non vuole fermare i programmi nucleari, Obama deve almeno pensare a rendere meno ostili i regimi di Teheran e Pyongyang, per non apparire come uno sconfitto.


quadrante

pagina 16 • 20 novembre 2009

Afghanistan. Un discorso di 20 minuti per il giuramento del terzo mandato arzai atto terzo. Ieri, Hamid Karzai ha giurato per la terza volta come presidente dell’Afghanistan. Di fronte a 42 personalità governative e politiche internazionali, fra cui il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, il presidente pachistano Asif Ali Zardari e il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, il Capo dello Stato afgano ha presentato il suo nuovo programma di governo. Come anticipato al momento della sua proclamazione, ha ribadito l’impegno a riportare la pace e la sicurezza nel Paese, nonché a debellare la corruzione dilagante nella società nazionale. La cerimonia di insediamento si è svolta in una Kabul dalle sembianze lunari. Per ragioni di sicurezza, le autorità di polizia avevano imposto il coprifuoco, impedendo la circolazione dei veicoli e lasciando così deserte le strade della capitale. Una precauzione che però non ha risparmiato il resto del Paese da altri attentati. Nella provincia meridionale dell’Uruzgan, infatti, un attacco suicida ha provocato più di dieci vittime. Si conclude così il tortuoso capitolo delle elezioni presidenziali, cadenzate da tensioni pre e post elettorali. E comincia il terzo mandato per il leader pashtun. In una situazione di normalità, quando un uomo politico viene confermato al potere significa che l’elettorato è soddisfatto di quanto ha compiuto e che gli accorda la fiducia per una nuova legislatura. Tuttavia, mai uno scenario simile si è dimostrato tanto lontano dalla realtà.

K

L’Afghanistan di cui Karzai è stato nominato nuovamente presidente sta attraversando la fase più complessa del conflitto. Sia nel 2001 sia nel 2004, anni in cui Karzai aveva assunto la guida del Paese, la guerra presentava due fronti contrapposti sostanzialmente omogenei: da una parte Isaf e Nato, insieme alle forze afgane filo-governative, dall’altra i talebani. Oggi i nostri avversari sembrano essersi frammentati in tante piccole realtà, che molto probabilmente esistevano già prima, solo che dal nostro punto di vista erano tutti da sintetizzare nel movimento talebano, jihadista e vicino ad al-Qaeda. Signori della guerra, narcotrafficanti, gruppi etnici e tribali stanchi di avere sul loro territorio le truppe straniere viste come forze di occupazione e infine componenti di mujaheddin che hanno imbracciato il kalashnikov secondo un’interpretazione distorta del Corano. Questo è l’odierno assemblaggio di avversari che il governo di Kabul, Isaf e Nato fronteggiano ogni giorno con estrema fatica. La

La sfida di Karzai che piace alla Clinton La promessa: «Cinque anni per avere un Paese sicuro e con meno corruzione» di Antonio Picasso

pacificazione dell’Afghanistan, obiettivo che è stato richiesto a Karzai e per il quale gli stata concessa la continuità di governo sembra una meta molto lontana da raggiungere.Tanto più se aggiungiamo il fatto che la sua vittoria elettorale, a differenza di quella nel 2004, sarà ricordata per i brogli, le tensioni con gli altri candidati che per poco non sono sfociate in scontri violenti e l’annullamento del ballottaggio. Per quanto la commissione elettorale avesse deciso, in prima istanza, di riconoscere Karzai vincitore, un successivo riconteggio dei voti aveva stabilito che il presidente eletto avrebbe dovuto confrontarsi in un testa a testa con il primo dei candidati sconfitti, Abdullah Abdullah.

Ma tutto ciò non è avvenuto in seguito all’accusa, da parte di quest’ultimo, che l’intero andamento dei voti presentasse vizi di illegalità. Sul Karzai presidente insediatosi ieri, quindi, gravano le ombre di una vittoria elettorale decisamente lontana dalla trasparenza democratica auspicata

dai governi occidentali. Un neo che rischia di diventare uno strumento di delegittimazione in futuro. Colui che agli occhi dei denigratori continua a essere il “sindaco di Kabul” potrebbe passare anche per un usurpatore. Quale linea politica verrà intrapresa allora da un presidente tanto debo-

l’impunità». Ma si è ben guardato dal ricordare la sospetta collusione di suo fratello Walid con il narcotraffico e la criminalità a questa legata.

Così come non ha ammesso che la corruzione resta un problema congenito nella cultura nazionale del paese. “Un capo

L’invito alla pace e alla riconciliazione ad Abdullah è stato già rifiutato. «Non entrerò mai nel governo», ha detto il suo nemico le? Ieri il presidente afgano ha ribadito i buoni propositi espressi due settimane fa, al momento della sua proclamazione. Ha sottolineato la necessità di intervenire per contrastare la corruzione, per riportare la sicurezza e quindi attribuire un’immagine di normalità politica e stabilità al suo paese. Promesse per le quali sia gli Usa sia molti governi occidentali avevano già manifestato le proprie perplessità. Karzai ha detto di «aver imparato dagli errori passati» e si è impegnato a mettere fine alla «cultura del-

tribù afgano non si compra. Si affitta”. È un proverbio locale che lascia intendere quanto sarà complesso intervenire per sradicare il sistema di prebende tipico di tutta l’Asia centrale. Sul fronte della riconciliazione nazionale, la mano tesa verso il candidato sconfitto Abdullah appare come un gesto propositivo. Peccato che da quest’ultimo sia già arrivata la risposta a poche ore dal giuramento: «non entrerò mai nel governo». Viene da chiedersi, quindi, che tipo di disponibilità al dialogo possa giungere dall’opposizione,

o se al contrario nasconda un risentimento insanabile. Stesso discorso per la proposta della convocazione di una Loya Jirga - un assemblea dei capi tribali tipica della regione - in cui si discuta la pace per il paese. Cosa significa questo? Karzai è convinto di poter trattare con i talebani e le altre forze combattenti? Perché? Per firmare una pace o un compromesso le cui condizioni difficilmente verrebbero accettare dai governi stranieri che lo sostengono e che lo hanno confermato, obtorto collo, alla presidenza? Reticenza, questo è il comportamento di Karzai nel passaggio del suo discorso. Va detto peraltro, che una fazione vicina al mullah Omar non ha perso tempo nel respingere questa proposta. Altrettanta inconsistenza è stata riscontrata sul fronte della droga. Anzi, Karzai non lo ha nemmeno affrontato. Quando invece sappiamo che, nell’ambito della ripresa economica e della stabilità sociale del Paese, il narcotraffico è ben più radicato rispetto alla presenza talebana.

Stesso discorso per la questione dell’addestramento delle forze di sicurezza nazionali. «Speriamo che queste possano assumere il controllo del Paese entro i prossimi cinque anni». Parole che potrebbero far pensare a un passaggio di consegne tra le truppe straniere e quelle afgane da realizzarsi entro il 2015. Questo vorrebbe dire che un eventuale piano di exit strategy di Isaf e Nato, dovrebbe essere messo a punto e cominciare concretamente nel futuro più immediato. Ma, stando al bollettino di guerra che quotidianamente giunge da Kabul, tutto ciò appare poco plausibile. Silenzio assoluto infine sulla politica estera. Per quanto al cospetto del suo omologo pakistano, Karzai non si è soffermato sulle relazioni con i paesi vicini, India, Iran e Pakistan in particolare. Né tanto meno con le repubbliche ex sovietiche a nord e con la Cina. Tutti soggetti regionali interessati per non dire impazienti - alla pacificazione dell’Afghanistan. Di fronte a questa serie di omissioni suonano come un duro monito le parole della Clinton a margine della cerimonia. «La comunità internazionale è disposta a sostenere il nuovo governo afgano, ma si aspetta che questo fornisca benefici tangibili alla popolazione». Insomma, per Karzai, tanto volenteroso a parole, i margini di manovra sono più che ridotti. O dimostra agli alleati stranieri e al suo Paese di voler governare, oppure gli errori passati emergeranno nuovamente e decreteranno il suo definitivo fallimento politico.


quadrante

20 novembre 2009 • pagina 17

Un best seller il libro dell’ex governatrice dell’Alaska

Ma dalla Duma avvisano: «La Russia è spaccata in due»

Mamma,papà, energia e greggio le parole chiave di Sarah Palin

Medvedev, slitta a gennaio la ratifica contro la pena di morte

ANCHORAGE.

a Pena di morte non tornerà in vigore in Russia dopo il primo gennaio, quando scadrà la moratoria sulle esecuzioni capitali. La Duma promette ora di ratificare il sesto protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta l’esecuzione, ma non a dicembre. E anche la la Corte costituzionale, da San Pietroburgo, fa capire di essere in piena sintonia con il parlamento. Va ricordato che Mosca per aderire al Consiglio d’Europa ha firmato la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il presidente Dmitri Medvedev è si era detto a favore dell’abolizione graduale della pena di morte in Russia. Tuttavia, il proto-

Se non avete voglia di leggere per intero le 432 pagine dell’ultimo libro di Sarah Palin basta scorrere le parole chiave di Going Rogue per capire i pilastri culturali della nuova destra americana, che si riconosce ancora nell’ex governatrice dell’Alaska. “Famiglia”, “bambini”, “mamma” e “papà”sono i termini che trionfano nel manuale dei conservatori del terzo millennio, ancora in cerca d’identità dopo la vittoria elettorale di Barack Obama. Ma la ex candidata vicepresidente cita moltissimo anche “Todd”: il nome del marito. L’Associated Press grazie al computer ha calcolato le parole che ricorrono di più nel libro, scritto senza peli sulla lingua nello stile diretto dell’autrice, e uscito da poche settimane negli Usa dove è subito divenuto un caso politico nonché un bestseller: la “regina della destra” è in copertina sul numero di Newsweek di questa settimana. La campionessa dell’indipendenza energetica che da sempre chiede di trivellare a destra e a manca per gli Stati Uniti in cerca del vecchio e caro petrolio cita per ben 250 volte i termini “greggio” e “energia”. L’ex candidata alla

L

Battaglia a Bucarest per una presidenza in crisi Domenica il Paese (sull’orlo del baratro) va alle urne Mihaela Iordache vent’anni dalla caduta del regime comunista la Romania è stata travolta da una campagna elettorale (si vota domenica prossima) dominata da toni accesi che rasentano le ingiurie piuttosto che dalle proposte dei 12 candidati alla presidenza. Eh si che, a fronte di una crisi economica senza precedenti, gli argomenti non mancano di certo. I romeni, invece, hanno udito solo attacchi personali tra i principali candidati e questo mentre “subiscono”un governo ad interim che da ottobre è stato sfiduciato dal parlamento e quindi non è in grado di proporre politiche forti contro la crisi. Il presidente Traian Basescu ha continuato a giocare il suo poker politico rifiutando le proposte dell’opposizione per la nomina di un nuovo primo ministro, optando prima per Lucian Croitoru - un consigliere del governatore della Banca Nazionale Romena, poi respinto dal parlamento - e poi per Liviu Negoita, il sindaco del settore tre della capitale. Nelle accese diatribe tra il presidente e tutti i partiti romeni (tranne il Partito democratico liberale, da lui stesso guidato nell’ombra), la Romania ha perso per strada, almeno per il momento, anche i finanziamenti promessi dalle istituzioni finanziarie internazionali per uscire dalla crisi. Stanchi dei giochetti politici di Bucarest, gli esperti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Unione europea hanno lasciato la capitale romena, annunciando che torneranno quando le acque si saranno calmate e il paese avrà un governo con l’appoggio del Parlamento.

A

condo gli analisti la popolazione pagherà in più 100 milioni di euro, la differenza del tasso d’interesse proposto dalle istituzioni finanziarie internazionali e quello di mercato. Intanto è prevista entro la fine dell’anno una diminuzione degli stipendi del 30% e per l’anno prossimo si parla di licenziamenti massicci. Nonostante il quadro fosco e dipinto come apocalittico dalla stampa, i romeni dovranno trovare la forza di sperare in un futuro migliore e recarsi alle urne domenica 22 per eleggere il nuovo presidente.

Chi verrà eletto guiderà il paese nei prossimi 5 anni. Tutto verosimilmente verrà però deciso il 6 dicembre prossimo, data fissata per il ballottaggio. Secondo un sondaggio della Ccsb (Compagnia di Ricerca Sociologica e Branding) l’affluenza alle urne non arriverà al 50%, perché l’interesse dei romeni per le elezioni presidenziali sembra essere scemato nell’ultimo periodo. Secondo lo stesso sondaggio Traian Basescu - ex capitano di marina mercantile e appoggiato dal Partito democratico che ha fatto la sua fortuna con un eloquio particolarmente diretto e la denuncia della corruzione dilagante nel paese - otterrebbe il 34% dei voti; Mircea Geoana - presidente del partito social-democratico, diplomatico, ex ambasciatore romeno negli Usa - il 30%, Crin Antonescu - presidente del partito liberale, professore di storia - il 18%, Sorin Oprescu candidato indipendente, medico chirurgo nonché sindaco della capitale - il 14%, Corneliu Vadim Tudor - europarlamentare e presidente del Partito estremista nazionalista Romania Grande - il 3%. Basescu andrebbe dunque al ballottaggio, ma probabilmente poi perderebbe. Nulla però va dato per scontato, soprattutto nel caso si arrivi ad un ballottaggio tra l’arancione Traian Basescu e il rosso Mircea Geoana. Quel che è certo, e che se Basescu vincesse la maggioranza attuale non collaborerebbe con lui e si andrebbe ad elezioni anticipate.

Stanchi dei giochetti politici di Basescu, gli esperti del Fmi, della Banca Mondiale e della Ue hanno lasciato la Romania

vicepresidenza per il partito repubblicano è in piena campagna promozionale per il libro con il quale conta di occupare la scena politica nei prossimi mesi in attesa delle prossime elezioni presidenziali, dove tutti la danno come uno dei nomi da battere nelle primarie della destra. Il termine “campagna elettorale”è infatti quello che trionfa tra i vocaboli politici del suo libro. Palin ha finito la stesura nelle settimane in cui si dimetteva dal governo dell’Alaska per dedicarsi una volta per tutte alla politica nazionale. Non tutti però hanno preso sul serio la nuova carriera da scrittrice di Palin. Persino Barack Obama, noto divoratore di libri di ogni genere, ha risposto a chi gli chiedeva se si apprestasse a leggere il testo: «Credo proprio di no».

Una prospettiva che sembra ancora lontana. Mentre nominava alla carica di premier Liviu Negoita, pur sapendo che non avrebbe mai ottenuto la maggioranza in Parlamento, e mentre annunciava che gli esperti del Fmi se ne erano andati, il presidente Basescu ha però rassicurato i romeni sul fatto che salari e pensioni verranno comunque pagati. Ad un prezzo caro, ovviamente. Il governo dovrà infatti indebitarsi con le banche private. Se-

collo numero 6 relativo all’abolizione della pena di morte, deve ancora essere ratificato. L’ultima volta che è stata comminata la pena capitale in Russia, è stato nel settembre 1996, a Mosca. Poi l’allora leader del Cremlino BorisYeltsin firmò un decreto «per la riduzione graduale della pena di morte». Il 2 febbraio 1999 venne introdotta la moratoria dalla Corte Costituzionale, che non trova ancora applicazione nella martoriata Cececnia. Ma dal Cremlino fanno trapelare che ci sono piani per introdurla anche nella repubblica caucasica con effetto dal prossimo primo gennaio. Il paese però è spaccato in due: secondo il vice presidente del Comitato per la sicurezza della Duma, Mikhail Grishankov, il problema non è tanto legale, quanto politico: «Un sufficiente numero di nostri concittadini è favorevole alla pena di morte. Mentre ci sono avvocati che ritengono tale istituto a risolvere il problema della criminalita. Si tratta di una questione di consenso sociale e di soluzioni politiche». Ma la reintroduzione della pena capitale di fatto comporterebbe un passo indietro sui diritti umani della Russia e porrebbe un grosso punto interrogativo sulla presidenza Medvedev e sulla reale volontà di difendere lo stato di diritto.


cultura

pagina 18 • 20 novembre 2009

Temi. Il filosofo astigiano parla di “Miracoli e traumi della comunicazione”, suo nuovo libro dedicato al secondo ’900

L’abuso dei piaceri Mario Perniola: «Sesso e potere politico sono opposti: un vero leader sa dominarsi» di Anna Camaiti Hostert el libro Miracoli e traumi della comunicazione (Torino, Einaudi, 2009) Mario Perniola affronta la difficoltà di fare la storia durante gli ultimi quarant’anni attraverso quattro capitoli sui quattro avvenimenti chiave che hanno caratterizzato questo periodo (Sessantotto, rivoluzione iraniana, caduta del muro di Berlino e attentato dell’11 settembre 2001). Ogni capitolo è a sua volta diviso in tre paragrafi rispettivamente dedicati alle trasformazioni politico-sociali, alla sessualità e alla cultura. In questo piccolo saggio di 136 pagine il filosofo presenta un provocatorio quadro del presente originale e allo stesso tempo senza speranze. Con lui ci siamo soffermati particolarmente sul tema della sessualità trascurato nelle interviste precedenti, invece assai rilevante per comprendere il tempo che stiamo vivendo. Patrizia Valduga le ha recentemente rimproverato sulla Repubblica delle donne (24.10.2009) di trovare noioso Sade, che invece sarebbe uno dei più grandi e divertenti degli illuministi. In Sade il piacere e il dolore, il desiderio e la paura, il sublime e l’abietto si confondono l’uno con l’altro. Sade ha applicato all’ambito del sesso la poetica settecentesca del sublime: l’istinto di conservazione è inseparabile dal desiderio di autoannientamento. Il risultato è proprio l’opposto di quello che sembra a prima vista: è desessualizzante. Perciò anticipa la società della comunicazione, nella quale gli opposti vengono meno e ogni cosa si confonde con l’altra. Quindi non sono io che lo trovo tale e la questione non può essere sbrigata come se fosse un gusto personale, un «affare mio», come dice Patrizia Valduga. Alcuni filosofi, soprattutto Pascal e Heidegger hanno sostenuto che la noia ha una dimensione che va al di là dei gusti soggettivi; essa è una dimensione impersonale (e oggi direi sociale), che accomuna tutto in una totale indifferenza. Perché ci sia sessualità è necessaria l’esistenza di un tónos, di una tensione. Certamente c’è molto “divertimento” nella società di oggi, perché essa è regredita allo stadio dell’infantilismo. Quando colloca questo stadio e cosa accade quando si verifica questa tendenza ?

N

Tra i primi a rilevare questa tendenza della società contemporanea è stato il pensatore spagnolo José Ortega y Gasset che già nel testo La disumanizzazione dell’arte del 1925, partendo da una considerazione dell’arte d’avanguardia osservò che la poesia e la musica, che fino a poco prima erano state attività di un’enorme importanza, cominciavano a perdere di serietà e a volteggiare con leggerezza, libere da ogni formalismo. Per Ortega non vi era dubbio che l’Europa era entrata nella fase della puerilità. Interrotto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, questo processo ha ripreso forza negli anni Sessanta del Novecento, che costituiscono il punto di partenza dell’analisi del mio libro. Chi ha esperienza della vita sotto l’aspetto del miracolo e del trauma non raggiungerà mai la maturità. C’è chi vede in internet la principale causa dell’ottundimento e di una “nuova ignoranza”, che sommergendo la società con una quantità infinita di informazioni e di sollecitazioni, la rende incapace di distinguere l’importante e l’essenziale dall’irrilevante e dal futile. Io invece tendo a pensare che questo fenomeno abbia radici molto più profonde, che devono

Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. A sinistra, in basso, il filosofo Mario Perniola, che nel suo nuovo saggio “Miracoli e traumi della comunicazione” riflette su alcuni eventi che hanno segnato il secondo ’900

«Nella società di oggi è molto diffusa l’idea che quello che ancora non c’è, sia per definizione migliore di ciò che già esiste. Chiamerei questo fenomeno “l’oscurantismo del nuovo”. essere ricercate nell’idea che quello che ancora non c’è, sia per definizione migliore di ciò che già esiste. Chiamerei questo fenomeno “l’oscurantismo del nuovo”. In questa fase di infantilismo della società come si va definendo il rapporto tra sesso e potere? La questione può essere affrontata secondo molte angolazioni. In primo luogo, sesso e potere politico sono opposti tra loro, come ci hanno insegnato gli antichi Greci. Infatti l’esercizio del potere implica una completa padronanza di se stessi e dei propri desideri, perché solo chi sa dominare se stesso può dominare gli altri. Lei scrive che «il mondo dell’azione sessuale non é un inferno, né un paradiso, ma un purgatorio» perché è temporaneo come l’arte del sedurre: come si rapporta il sesso

con il potere della seduzione? Mi sembra un potere più difficile da gestire, perché richiede un grande esprit de finesse, una capacità di penetrare nell’anima della persona che si vuole sedurre e di coglierne le più segrete richieste, che per lo più non sono di carattere sessuale, ma connesse al bisogno di riconoscimento. Rimaniamo sul tema baudrillardiano della seduzione. La deregolamentazione sessuale, lei scrive, invece di ridurre la distanza tra uomini e donne «non fa che accrescerla perché esclude la possibilità della seduzione». Cosa intende? Baudrillard ha un’idea della seduzione che è connessa con la trasgressione e l’affermazione di una personalità soggiogante. Per me invece essa è inseparabile da una specie di ascesi, con un farsi nulla e nessuno, che lasci spazio all’altro di manifestarsi e di venire allo scoperto. L’orientamento che ha prevalso va invece in una direzione opposta: verso l’affermazione di identità femminili e maschili. In altre parole, si cerca una rassicurazione in ciò

che è prossimo e simile: si ha paura del differente. Da qui il successo del transessualismo, che è in fondo un affare di uomini con uomini e di donne con donne. In questa notte in cui tutte le vacche sono nere si assiste a una sorta di destabilizzazione della cultura e dell’intellettuale che lascia il posto al tecnico e al pubblicitario. Cosa sta succedendo? Entriamo nella questione più attuale: quella dell’apprezzamento e del disprezzo. Mentre negli anni Ottanta, il postmoderno aveva destabilizzato completamente la vecchia gerarchia dei valori, nel corso dell’ultimo decennio prevale la tendenza opposta: creare valutazioni arbitrarie, tendenziose, demagogiche e populistiche, basate sui sondaggi, gli indici di ascolto, le statistiche. È impressionante la diffusione e l’applicazione aberrante in internet di parole come reputation, authority, pertinency, relevance, rank, impact, scrutiny e simili. A questo punto anche il tecnico e il pubblicitario sono superati da un dispotismo informatico che non è affatto neutrale, e tantomeno oggettivo. Scontiamo l’errore fatale del Sessantotto, quello di confondere l’autoritarismo con l’autorevolezza, col bel risultato che oggi ci si trova in una falsa alternativa: da un lato è impossibile restaurare il


cultura

20 novembre 2009 • pagina 19

Dalla caduta del Muro all’11 settembre: un saggio per rileggere il presente

Al di là del vero e del falso «L’ossessione del presente ha cancellato la memoria» di Matteo Marchesini ome quasi tutti i libri di Mario Perniola, anche questo Miracoli e traumi della comunicazione ha il pregio di definire in modo sintetico un problema percepito come urgente da chiunque rifletta sulle proprie credenze e scelte individuali all’interno della società di oggi. Nel caso, il problema è quello dell’indecifrabilità della Storia postmoderna. Perché, si chiede l’autore, intere generazioni invecchiano senza riuscire a inquadrare in una trama razionale e condivisa gli eventi accaduti dopo il 1945?

C

mondo di prima, dall’altro la critica e l’antagonismo vengono risucchiati da reazioni anarcoidi, spontaneiste, oscurantiste e incivili che risultano del tutto controproducenti. Tutto sommato, la Cina che dal 1966 al 1976, ha conosciuto quella contestazione violentissima del suo passato nota sotto il nome di “rivoluzione culturale”, sembra avere imboccato, dal 1980 in poi, con la riabilitazione del confucianesimo, una via d’uscita da questo vicolo cieco meglio dell’Occidente, che oscilla tra nichilismo e fondamentalismo. Dunque. Lei critica il Sessantotto e quella che viene comunemente definita “la rivoluzione sessuale” che a esso seguì. Ho molta difficoltà ad adoperare la parola “rivoluzione” per parlare delle vicende dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, perché mi sembra che non sia capitato nulla di veramente importante e decisivo dal punto di vista del controllo politico-militare del pianeta, tuttora in mano alle cinque potenze vincitrici di quella guerra. Per quanto riguarda i costumi sessuali, una traformazione è avvenuta dieci anni prima del Sessantotto, con la Nouvelle Vague. Ma in fondo essa è stato il riemergere temporaneo della cultura erotica moderna, le cui origini vanno ricercate nell’amour-passion del Seicento e del Settecento.

Per rispondere, Perniola allinea subito quattro di questi eventi, tanto clamorosi quanto spettrali: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del ’79, la caduta del muro di Berlino dell’89, l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Si tratta di fatti imprevedibili, miracolosi o traumatici a seconda della posizione di chi li osserva. Ma soprattutto, si tratta di fatti meno importanti per la «verità effettuale della cosa» che per il loro impatto comunicativo. E qui sta il punto. Perniola ci ricorda che gli assetti internazionali sono ancora simili a quelli usciti dalla seconda guerra mondiale. Ma in questa cornice esplodono di tanto in tanto straordinari fuochi d’artificio che acquistano un peso mediatico in grado di retroagire misteriosamente sulla storia “materiale”. Il filo che veicola la memoria del passato s’è inabissato in un «presentismo» che sospende le tradizionali capacità di capire, di sentire e di agire. Ciò comporta la fatale agonia dei paradigmi storiografici e narrativi: la ricerca si fa aneddotica o investigativa, il romanzo si blocca nelle labirintiche descrizioni borgesiane. La società della comunicazione rende qualitativamente più dubbia l’essenza dei fatti, delle loro “cause”e “conseguenze”. La comunicazione è al di là del vero e del falso: un carattere che gli antichi attribuivano al teatro, allo spettacolo. Il presentismo sfocia in una dipendenza tossica, nel rapido oblio dello spettacolo di ieri e nella riduzione alla futilità delle stesse questioni di vita e di morte. Perniola cita da una parte le speranze irrealizzate di Jan Palach e dei suoi emuli, dall’altra gli attentati dei gruppi terroristici tedeschi, italiani e giapponesi. Se poi atti del genere, pur politicamente inefficaci, ottengono almeno la vittoria di Pirro della visibilità mediatica, ogni progetto che scommetta su poste meno apocalitticamente sanguinose o trash di quelle che esigono i media, è invece spazzato via come un germoglio troppo esile: così accadde alla perestrojka di Gorbaciov. Di questo inarrestabile processo di presentificazione mediatica, l’autore traccia una breve storia a tappe: dopo l’«età della comunicazione» (1968-78) distingue quella della «deregolamentazione» (1979-89), della «provocazione» (1989-2001) e della «valutazione» (2001-2009). Negli anni ’80 le rivendicazioni estetiche e anarchiche degli intellettuali moderni vengono fatte proprie dal capitalismo post-taylorista: «il manager creativo si pone come l’erede dell’artista bohémien». Gli anni ’90, invece, evocano «le categorie opposte dell’osare e dell’abiezione»: e sono caratterizzati dal «ritorno della guerra come un’opzione comunicativa possibile, la quale è insieme falsa affermazione miracolosa della volontà di potenza e terribile trauma che non giunge mai a essere una vera tragedia». Di qui si arriva al delitto perfetto degli anni 2000: «se nei decenni precedenti è stato possibile far credere qualsiasi cosa, ora è possibile far subire qualsiasi cosa». La comunicazione ha inglobato il suo opposto: «l’infinito, il permanente, il valutativo». La tecnologia adesso sostituisce i sensi; e la società mediatica, ignara di

ogni vero sentire e autorevolezza, li rimpiazza compulsivamente con le top ten. Ma in chiusura, Perniola segnala il limite invalicabile di questo totalitarismo: «la comunicazione, appropriandosi della morte, ha preteso di abolire la storia»; e tuttavia non si può «trasformare la morte in un presente». Come si vede, il saggio è pieno di spunti; e merita d’esser problematizzato con la stessa nettezza apodittica di cui si fa carico. Certo: Perniola ritiene che, magrado tutto, sia ancora possibile raccontare – scegliendo e gerarchizzando – gli attuali processi storici. Ma appunto nell’organizzazione della materia sta il problema. Sul libro, infatti, incombe qua e là proprio la “riduzione mitica”della storia e della cultura che vi si denuncia. Perniola stigmatizza il suo effetto disastroso sulle università. Il peso attribuito alle dichiarazioni spesso capziose di Foucault o Derrida, di Deleuze o Baudrillard, non contiene però l’implicito riconoscimento del fatto che proprio là dove accademia e mass media hanno puntato i riflettori si sarebbe svolta la vera storia intellettuale degli ultimi decenni? Questi personaggi, in realtà, hanno usato le posizioni e i blasoni ottenuti nel regime di storicità precedente – quello che legava ragione e azione – per spenderli spregiudicatamente nel mondo dei media. Né, come Perniola afferma senza però fare esempi, si salvano gli artisti: i quali, sempre più spesso, utilizzano la nozione biforcuta di postmoderno per propagandare sia la fine della Storia sia la progressione lineare degli stili moderni. E lo fanno per poter vincere su due tavoli senza giocare su nessuno: per avere l’alibi dell’anything goes, ma al tempo stesso la pubblicità assicurata solo se si occhieggia all’ultima tradizione riconosciuta e congelata dai media, quella delle neoavanguardie. Insomma: Perniola rischia a volte di collocarsi sulla stessa linea di doppiezza che coglie nel mondo attuale. Quando, ad esempio, traccia il confine tra l’età della provocazione e quella della valutazione nella strage di Columbine e negli attacchi kamikaze della seconda intifada, dove sta più la differenza tra il racconto di un fatto emblematico, di uno spettacolo orribile, e del suo effetto su storia e vita quotidiana? Tra la descrizione di un contesto mediatico e l’assunzione di un evento a indice sociologico o addirittura teoretico resta una penombra troppo ambigua. Non sarà che qui l’autore si sottopone proprio a quella rincorsa degli eventi in cui si svaluta se stessi «ponendosi in rivalità mimetica con le sfide dei propri nemici»? La verità è che le scelte intellettuali e pratiche più rigorose sono oggi quasi del tutto sommerse da un universo comunicativo in cui la visibilità coincide con la mitizzazione di eventi e cornici teoriche. Si tratta infatti di scelte che rendono precario lo status pubblico: e proprio per timore di perderlo i filosofi francesi più in vista si sono mossi nella direzione opposta.

La società della comunicazione rende più dubbia l’essenza dei fatti: li trasforma in spettacolo

Ebbe invece il coraggio di “perdersi” un intellettuale che qui avrebbe meritato almeno una citazione: quel Nicola Chiaromonte che proprio agli albori del «presentismo» delineò magistralmente i rapporti tra credenze, individuo e storia contemporanea. Come in Perniola, anche nel rimosso Chiaromonte compaiono l’estrema azione moderna di Malraux, la questione arendtiana della durevolezza su cui sola può fondarsi una comunità, e quella della fusione mediatica tra pubblico e privato. Il fondatore di «Tempo presente», col suo Credere e non credere, ci lasciò in eredità un libro che andrebbe letto in sequenza con Miracoli e traumi della comunicazione; e che, malgrado i quarant’anni di distanza, risulta ancora più radicale.


cultura

pagina 20 • 20 novembre 2009

Libri. Esce per Moretti & Vitali “Riflessi da un paradiso”, volume che raccoglie le recensioni di Attilio Bertolucci

Un poeta nei mari del cinema di Nicola Vacca ttilio Bertolucci amava il cinema quanto la poesia. Il grande poeta vedeva nella settima arte il racconto della vita attraverso lo scorrere dei volti e di luoghi nel flusso del tempo. Come la sua poesia, Bertolucci concepiva il cinema come narrazione ininterrotta del divenire. La scoperta del grande schermo appartiene all’adolescenza del poeta di Parma. Bertolucci mise in pratica questo suo grande amore collaborando come critico cinematografico alle pagine culturali della Gazzetta di Parma. Le sue recensioni sono finora rimaste un episodio marginale della sua vita d’artista.

A

quello che ho sempre cercato e sempre cercherò sia al cinema che in letteratura o nella musica, sono questi momenti lirici, apparentemente comuni, ma così profondamente carichi di poesia. Insomma è la presa di coscienza improvvisa, la Rivelazione dell’intima qualità delle cose attraverso il sus-

Un volume raccoglie la parte più significativa degli scritti giornalistici di Bertolucci sul cinema. Riflessi da un paradiso (a cura di Gabriella Palli Baroni ,Moretti &Vitali, 507 pagine, 25 euro) dà ampio conto della passione cinefila del poeta che con grande esperienza e competenza affidava alla pagina le sue note suggestive e appassionate. Quando nel 1945 inizia la sua attività critica sulla Gazzetta il sonoro era già arrivato, e Bertolucci sa perfettamente che il cinema è arte moderna e risponde a questo fine soprattutto quando è vivo e pregno di contemporaneità. Per questo motivo avverte i suoi lettori che lui non ama i film a tesi che trasformano il linguaggio cinematografico in «insipida calligrafia». Al critico importa la sostanza delle parole, parole che lasciano parlare le cose per poter commuovere intimamente attraverso le immagini. Nelle sue brevi note cinematografiche, Bertolucci usava poche parole ma tanto acume interpretativo per rivelare al lettore i nodi cruciali del film. Quando sulla Gazzetta di Parma del 10 maggio 1946 recensisce Sciuscià di Vittorio De Sica, Bertolucci è fulmineo, ma efficace nel rimproverare al regista un eccesso di scuri nel tono generale dell’ambientazione, un peccato d’intelligenza che il critico attribuisce all’influenza francese. A Bertolucci servono poche parole per parlare del cinema che ama, ma soprattutto non rinuncia, nel passare in rassegna una pellicola, al piacere sublime di cercare l’epifania. Bertolucci Nel disegno grande, confessa al suo pubun ritratto blico il suo modo di di Attilio Bertolucci assistere a un film: «Mi accorgo che (qui sopra e in alto, in foto)

seguirsi di istanti nei quali il dramma stesso acquista una sua vita artistica assoluta, in uno stato di grazia che permette prima all’autore e poi allo spettatore di elevarsi al di sopra delle contingenze e delle miserie dell’esistenza». Con questo spirito assoluto il poeta Bertolucci si sedeva sulla poltrona del cinema e aspettava che le luci si spegnessero per lasciarsi andare all’estasi dello spet-

tacolo cinematografico che successivamente avrebbe raccontato ai suoi lettori, non tralasciando affatto nessun aspetto emotivo. Il poeta scriveva per frammenti, ma sapeva cogliere la forza figurativa, il chiaroscuro, la dissolvenza,

il campo lungo con la pazienza artigiana che richiede l’intima necessità del vero di ogni sequenza.

mo per cogliere in ogni sequenza la magia della vita, che altro non è che pensiero poetante. Con grande eleganza e naturalezza la prosa cinematografica di Bertolucci è densa di intuizioni sull’espressione del volto di un attore, o sulle intenzioni nascoste del regista. Gli schizzi che Bertolucci scriveva per la Gazzetta di Parma lasciano un segno per la capacità di sintesi aforistica che era in grado di cogliere in pochissime righe l’essenza dell’opera con i suoi pregi e i difetti. In poche parole estemporanee Bertolucci parlava dei suoi autori preferiti. Le sue recensioni sono folgoranti illuminazioni che avrebbero molto da insegnare alla critica cinematografica di oggi, che molto spesso si occupa dell’intreccio di un film senza mai soffermarsi sui piccoli dettagli significativi che invece hanno lo scopo di rivelare il cuore segreto della pellicola. Attilio Bertolucci, con una prosa estrosa, calda, appassionata, impertinente, è riuscito a raccontare il grande cinema del secondo Novecento con un linguaggio universale che teneva conto delle emozioni del racconto, delle evocazioni e del respiro poetico delle immagini. Ogni sua parola ferma le cose, rivela la loro essenza e verità. «Il vero cinema è quello carico di luce–tempo come una pagina di Marcel Proust, così come più avanti nel film l’avanzare e il curvare di un tram in città, con i due protagonisti di campagna abbagliati, storditi dalla novità della vita urbana, con il passaggio della gente, la meraviglia delle vetrine specchianti, erano pure epifanie nel senso del Joyce negli stessi anni da me scoperto nei bellissimi racconti di Gente di Dublino». Gli scritti cinematografici di Bertolucci risentono dell’influenza dei formalisti russi e del «piacere del testo» di Roland Barthes. Furono queste suggestioni che gli fecero capire la grande novità del cinema.

«Mi accorgo che ho sempre cercato, in letteratura o nella musica, questi momenti lirici, apparentemente comuni, che fanno grandi i film»

Il cinema influenzò la poesia di Bertolucci. La camera da letto è un racconto sul tempo nel quale le passioni non possono non esistere. L’esigenza del racconto ispira la penna di Attilio Bertolucci critico cinematografico che nel film cerca l’evocazione della memoria. Il respiro poetico delle immagini che scorrono sullo schermo conta moltissi-

Ma la cosa più bella che questa importante raccolta mette in risalto è il suo originale modo di raccontare il cinema. Attraverso le sue recensioni, Attilio Bertolucci ci insegna ad amare, a vedere e a sognare la settima arte con la grande emozione delle parole. D’altronde, chi vive e pensa con un cuore da poeta non poteva descriverci meglio di così il grande spettacolo del cinema con tutte le sue meraviglie epifaniche.


spettacoli

20 novembre 2009 • pagina 21

ROMA. Lucio Dalla fa il suo in-

amore nasce libero e malato». E il tema della libertà viene affrontato anche in Broadway dove la vita degli esseri umani del ventunesimo secolo viene sottoposta allo sguardo straniante degli animali, in particolare da quelli di uno zoo di Broadway appunto.

gresso urlando quasi come se non riuscisse a contenere l’entusiasmo di essere lì di fronte ai suoi fans. È in questo modo che il cantautore bolognese ha affrontato sabato scorso alla Fnac di Porta di Roma la presentazione al pubblico del suo nuovo lavoro, Angoli nel cielo, uscito il 6 novembre a due anni di distanza da Il contrario di me. In questo disco Dalla crede tantissimo e non ne fa mistero. Lavorare sui dieci nuovi inediti è stato per lui è un vero e proprio divertimento e non una fatica. Più che il frutto di una strategia commerciale quest’album è la risposta che il cantautore bolognese ha dato alla sua necessità di esprimere quello che sentiva.

E questo è evidente ad esempio in «Fiuto», la chicca dell’album, canzone cantata un po’ in italiano e un po’ in napoletano in coppia con l’attore Toni Servillo, l’Andreotti de Il Divo. L’effetto è comico, anche per la citazione di Marameo perché sei morto del Trio Lescano, eppure il tema affrontato è tutt’altro che leggero perché riguarda l’emergenza rifiuti a Napoli. La canzone può essere considerata, infatti, un atto di amore incondizionato verso una città

Il brano più curioso è «Fiuto», interpretato a due voci con Toni Servillo e dedicato all’emergenza rifiuti di Napoli problematica ma piena di risorse. Una città che, purtroppo, ha spesso avuto dei governatori poco responsabili che non hanno fatto niente per risolvere i suoi problemi. Una canzone d’amore quindi ma anche di protesta sospesa tra il serio e il faceto. E così Dalla dimostra che si può far riflettere la gente dandogli modo, allo stesso tempo, di sorridere. Forse è proprio questo il segreto per farsi ascoltare distinguendosi dal vociare costante e assordante dei media e dei messaggi dai quali veniamo bombardati tutti i giorni: non prendersi sul serio. Mai. E in questo Dalla è un vero maestro. Quando fa la sua comparsa viene voglia di sorridere. È così buffo che sembra un folletto scappato dal bosco incantato o un alieno che è stato abbandonato dalla sua astronave qui sulla Terra.

Eppure del cuore umano ha scoperto ogni più recondito se-

Musica. Un album di inediti, «Angoli nel cielo», per il grande cantautore

Lucio Dalla e le favole che diventano incubi di Matteo Poddi greto come dimostra nel primo singolo estratto dall’album Puoi sentirmi. In questa canzone il cantautore si domanda «di cosa è fatto un cuore» e per scoprirlo decide di chiedere direttamente a lui, al suo cuore. “Puoi sentirmi? Puoi capirmi? Puoi scordarti di me?» sono solo alcune delle domande che il cantautore rivolge al suo cuore senza purtroppo avere risposta. La delusione è forte, tanto che il cantante dichiara «Io stasera faccio a meno anche di te». Ma poi ci ripensa e decide di riappacificarsi con quello che è, in fin dei conti, il suo più caro amico. Canzone poetica come la dolcissima e malinconica title track Angoli nel cielo caratterizzata da un pianoforte sfiorato con delicatezza e da un’atmosfera sognante. Nevica e «passano le nuvole e gli uccelli. Sono i sogni che non tornano». Sembra davvero «di essere nel finale di un film» come recita il testo. In Questo amore, invece, viene descritta una storia d’amore che nasce e poi muore quasi come se la parole “fine” fosse stata scritta già nel momento della nascita del sentimento. D’altronde «Ogni

Lucio Dalla ha appena pubblicato un nuovo album di inediti, intitolato «Angoli nel cielo» (in alto l’immagine della copertina). Sotto, gli altri più celebri e venduti cd del cantautore bolognese

Dalla intavola una discussione paradossale con le scimmie dello zoo che gli dimostrano quanto siano libere nonostante le gabbie. Viene davvero da chiedersi se la modernità, la tecnologia e la civiltà in generale non abbiano rinchiuso l’uomo in una gabbia ben più stretta di quelle degli zoo. Dorata magari ma pure sempre una gabbia. «Siete già in troppi soprattutto a Broadway» dicono gli animali e il celebre quartiere di New York diventa così la metafora della società in cui viviamo che spettacolarizza ogni aspetto dell’esistenza e che forse ci fa perdere di vista i valori più importanti come appunto la libertà. Come in una favola di Esopo anche in questa canzone gli animali sono usati come degli alter ego degli uomini in grado di mettere a nudo tutte le loro fragilità. La morale c’è ma il tono è leggero perché in fondo si tratta di un divertissement in grado però di insinuare il dubbio nella testa di chi ascolta. È un po’come una lampadina che si accende all’improvviso come quella descritta ne La lucciola che per il cantautore è quell’idea fulminante che ci fa capire come contrastare «l’aria di tempesta» che avvertiamo e quindi come superare le difficoltà della vita. Vorrei sapere chi è, invece, si sofferma sul tema del destino. È una ballata malinconica caratterizzato da un ritornello trascinante. Il ritmo si fa più sincopato e martellante in Cosa mi dai per poi rallentare in Gli anni non aspettano una canzone che rappresenta un tuffo nel passato del cantante che esprime qui la nostalgia dell’infanzia e di un tempo in cui tutto sembrava più facile. Controvento chiude l’album rivolgendo a tutti noi l’invito a non lasciare mai il timone della nostra vita perché la nostra esistenza è un po’come una barca che non va lasciata in balia dei venti, soprattutto di quelli avversi. Angoli nel cielo è un disco che non passa inosservato in quanto non è omologato. Un disco controcorrente come l’artista che l’ha prodotto che si conferma uno dei principali cantautori italiani. La dimostrazione chela sua vena artistica, in questi quasi cinquant’anni di carriera, non si è esaurita.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Wall Street Journal” del 19/11/09

La firma può attendere di Julien Barnes-Dacey opo avere cercato per anni di raggiungere un accordo per un trattato di libero scambio commerciale con l’Unione europea, la Siria oggi sembra ripensarci. Proprio alla vigilia della firma dell’accordo con Bruxelles, Damasco tentenna. Sono gli attori economici locali ad aver espresso timori per la concorrenza che subirebbero dalle merci europee. Comunque il blocco europeo è già di fatto il principale partner commerciale della Siria.

D

Il trattato permetterebbe la riduzione delle tariffe doganali e il più facile afflusso sul mercato siriano dei ricercati prodotti continentali. Un altro piccolo segno della recente riabilitazione internazionale del Paese. Era il 2004 quando si parlò, per la prima volta, di un possibile accordo di libero scambio tra Damasco e l’Unione europea. Un processo che si era arenato negli ultimi anni a causa del peggioramento dei rapporti con molte cancellerie europee. Tra le accuse di Washington di appoggiare gli “insorgenti” in Iraq e i sospetti sul ruolo di Damasco nell’omicidio del premier libanese Rafik Hariri nel 2005, il processo di ratifica si era bloccato. Quest’anno invece erano rinate le speranze di arrivare a una felice conclusione quando, in ottobre, la Ue aveva invitato la Siria a siglare il cosiddetto association agreent. Un accordo che permette una cooperazione più stretta a livello politico ed economico. Anziché cogliere al volo l’occasione, Damasco ha tentennato, lasciando perplessi i diplomatici europei che pensavano che la Siria fosse ansiosa di chiudere la trattativa. I siriani ora affermano di volere più tempo per poter riflettere, soprattutto per fare un’attenta valutazione dei possibili effetti di un trattato di libero scambio sulle

varie ramificazioni della propria economia, che è in una fase di trasformazione profonda (soprattutto per la sua dipendenza dall’economia libanese, ndr). Aperture commerciali avvenute di recente con i mercati di altri Paesi sono state gradite dai siriani. Ma hanno provocato qualche danno alle industrie locali. Molti imprenditori del settore manifatturiero si sono lamentati di non essere più in grado di competere con i prodotti di migliore qualità che ora arrivano dalla Cina, dalla Turchia e dagli altri Paesi del mondo arabo. «Dobbiamo prendere tempo per verificare l’impatto che il trattato avrebbe sulla nostra agricoltura e sull’industria. Quando avremo completato il nostro studio informeremo gli europei» ha dichiarato il viceprimo ministro, Abdullah Dardari, in una recente intervista. Gli industriali siriani stanno facendo una forte attività di lobbing contro l’accordo con l’Europa. Affermando che la competizione con le merci europee potrebbe avere effetti devastanti sull’economia locale. Nella fabbrica di cioccolato Badr, nella periferia meridionale della capitale, la sfida commerciale da affrontare è abbastanza chiara.

Vecchi e ansimanti macchinari sfornano cioccolatini che avrebbero poche chance di competere con quelli provenienti dall’Europa, i cui prodotti sono già di facile reperimento in Siria. Sono comunque

molto costosi, un vantaggio per l’industria locale, che verrebbe eliminato nel caso i dazi venissero cancellati dall’accordo. «È come se io producessi un modello d’automobile del 1945 e tu mi chiedessi di competere con auto del 2010» afferma Adnan Dakhakhni, proprietario della fabbrica di cioccolato e membro del parlamento siriano.

Il settore industriale del Paese starebbe ancora digerendo le conseguenze del trattato di libero scambio firmato con Ankara nel 2007. Una lunga lista di aziende hanno dovuto chiudere i battenti, provocando una reazione pubblica contro la politica di liberalizzazioni economiche, imposte dal regime autoritario di Bashar Assad. Il viceprimo ministro, Dardari ha sottolineato come il governo sia ancora coinvolto nell’attuazione in una serie di riforme: «la competizione è salutare, alla fine dei conti, è un fattore positivo anche per l’economia».

L’IMMAGINE

Pensioni: bisogna preparare un assetto più giusto alle attese delle nuove generazioni Al posto del ministro Tremonti non sarei tanto tranquillo sulla tenuta e la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Basta andare a rileggere il Dpef per accorgersi che il picco dell’incidenza della spesa sul Pil, atteso in misura del 15,5% intorno al 2030, si presenterà in anticipo già dal prossimo anno. Quanto al bilancio dell’Inps, il suo attivo è determinato dalla gestione delle prestazioni temporanee e da quella dei lavoratori parasubordinati. Sono gli avanzi di queste gestioni che vanno a colmare i disavanzi delle gestioni pensionistiche. L’Inps è un ente complesso, con una trentina di gestioni che erogano prestazioni pensionistiche, previdenziali, attinenti al mercato del lavoro e assistenziali. Non si può fare confusione tra i risultati complessivi del bilancio e l’andamento della spesa pensionistica. Quanto meno si dovrebbe tener conto che l’Inpdap ha un saldo passivo di 7 miliardi di euro, destinato a salire. Inoltre, bisogna preparare un assetto più giusto ed adeguato alle attese delle nuove generazioni.

G. C.

SÌ AL MINISTERO DELLA SALUTE L’Anaao Assomed approva la decisione del Governo che ha ripristinato il Ministero della Salute, riconoscendo in tal modo che esso svolge un ruolo insostituibile per affrontare gli urgenti problemi che gravano sul Ssn e che chiedono immediate soluzioni. Questo il commento di Carlo Lusenti, Segretario Nazionale dell’Anaao Assomed al disegno di legge approvato in via definitiva ieri alla Camera che scorpora il dicastero della salute da quello del Lavoro. L’Anaao Assomed, che ha sempre manifestato la sua contrarietà all’accorpamento dei Ministeri del lavoro, della salute e delle politiche sociali - prosegue Lusenti - ritiene che il ritorno di un ministero con piena autonomia possa contribuire a garantire

al Servizio sanitario nazionale il suo carattere di unitarietà. In un Paese in cui le differenze tra i vari servizi sanitari regionali tendono ad ampliarsi determinando disuguaglianze sempre più evidenti, è sempre più necessario mantenere un organismo che funga da baricentro, per assicurare il coordinamento programmatorio e di salvaguardia dei criteri di uniformità assistenziali ed evitare pericolose derive che negano il riconoscimento del diritto alla salute su tutto il territorio nazionale. Questi obiettivi richiedono, però, la piena autonomia e autorevolezza del nuovo dicastero, caratteristiche che, purtroppo, il testo licenziato dal Parlamento non gli attribuisce. Ci auguriamo che dopo aver riconosciuto la necessità di un ministero della

Via la gobba con lo yoga Per non ingobbirsi troppo da anziani è meglio darsi allo yoga. Secondo uno studio dell’università della California, infatti, chi pratica questa disciplina anche in età avanzata, ha più probabilità di evitare l’ingobbimento. L’esperimento è stato condotto su un centinaio di 75enni ingobbiti che dopo 6 mesi di yoga, hanno riscontrato una riduzione della curvatura dorsale del 5%

salute a se stante se ne riconoscano anche poteri e indipendenza a vantaggio del buon funzionamento del Servizio sanitario nazionale.

Silvia Procaccini

COME UN CAMPO MINATO Non si dica che l’esecutivo non ha reagito bene alla vicenda di Co-

sentino, perché non sono avvenute da parte del governo larvali indignazioni o difese fini a se stesse, ma due differenti richieste. Una che porterebbe il caso per l’appunto all’ente competente e quindi l’Antimafia, e l’altra che richiederebbe di mettere sotto indagine la procura di Napoli, un luogo

molto oscuro dove da tempo avvengono fatti strani. Mi sembrano due vedute forse differenti ma non antitetiche, che devono tenere conto della situazione del governorato campano e delle prospettive di modifica future che appaiono sempre minate.

Lettera firmata


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

C’è qualcosa di maledettamente artistico in te Caro fratello, ho ricevuto la tua lettera con i 100 franchi acclusi e te ne ringrazio sentitamente.Voglio scriverti subito in quanto ritengo sia bene spiegarti alcune cose e in tutta serietà, perché è importante che tu le conosca e capisca bene. Domattina torno all’ospedale e potrò dormire tranquillo sapendo che sei informato di tutto.Vorrei ancor più che tu fossi qua.Voglio dirti che quel brano della tua lettera che mi descriveva Parigi di notte mi ha molto commosso. Perché mi ha richiamato alla mente l’epoca in cui io pure vidi «Parigi tout gris» e venni colpito da quel particolarissimo effetto con la figura in nero e il cavallo bianco caratteristico che valorizzava in pieno la delicatezza di quel grigio non comune. Quella piccola nota scura e quel bianco non abbagliante sono la chiave dell’armonia. Ma per caso, mi colpì molto un artista che descrive con mano maestra questa «Parigi tout gris». In Une page d’amour di Zola ho trovato dei quadri della città superbamente dipinti o disegnati, proprio nello stato d’animo di quelle semplici frasi della tua lettera. E quel libriccino mi spinge a leggere tutto di Zola. C’è qualcosa di maledettamente artistico in te, fratello; coltivalo, lascia che si radichi bene e poi lascialo germogliare. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

IL FUTURO DI ROMA Il sindaco Alemanno si trova di fronte a due scelte di sviluppo della città in totale contrasto tra loro.Vuole far proprie le proposte sulla riqualificazione delle periferie dei deputati Fabio Rampelli e Marco Marsilio, che riguardano il riuso e la sfida di una micro-chirurgia urbana a scala di quartiere, per cercare di dare una identità culturale ai tessuti informi, i non-luoghi, delle periferie della città, che è quanto chiedono da tempo gli abitanti di quelle aree? Vuole valorizzare le straordinarie presenze archeologiche, storiche e ambientali di quel territorio, oggi lasciate prive di risorse? Bisogna salvare quello che resta dell’agro romano e non bisogna consumare più altro territorio. Ma le proposte dei due deputati si scontrano con le scelte dell’assessore all’Urbanistica Marco Corsini che ha annunciato ben 30 convenzioni, un piano casa di cui non si conoscono le aree da edificare, l’avvio delle nuove “centralità”del piano regolatore che non hanno, tra l’altro, le infrastrutture necessarie.Tra le 30 convenzioni vi sono certo quelle che stanno per produrre in ogni quartiere colate di cemento alle quali si erano opposti gli abitanti. Molti avevano avuto assicurazione dal sindaco Alemanno, durante la sua campagna elettorale, di volerle ridiscuterle con i cittadini. L’assessore, inoltre, si dichiara convinto di «migliorare l’aspetto della città anche con l’aiuto degli archistar”. Anche in merito alla tutela dell’Agro Romano, Corsini non è certo d’accordo, considerando la sua dura ed inaccettabile posizione contraria alla volontà di porre una

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

20 novembre 1975 Spagna: Juan Carlos di Borbone diventa capo dello stato provvisorio 1989 L’assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia 1992 Un incendio scoppia nella cappella privata del Castello di Windsor, divampa per 15 ore e danneggia gravemente la parte nordoccidentale dell’edificio 1995 Javier Solana conclude i negoziati per un Trattato di associazione tra Unione europea e Stato di Israele 1998 Una corte dell’Afghanistan controllato dai talebani dichiara Osama bin Laden «un uomo senza peccato» in relazione agli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania 2003 Michael Jackson viene arrestato dalla polizia con l’accusa di molestie su minori 2007 Francesco Rutelli, quale ministro dei Beni Culturali ed ex-sindaco di Roma, annuncia il ritrovamento del Lupercale sotto il Colle Palatino

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

tutela paesistica sull’agro da parte del ministero dei Beni Culturali. Alemanno continuerà la politica urbanistica del suo assessore o finalmente darà un segno di discontinuità con il passato appoggiando le scelte che gli propongono i suoi due deputati?

Lettera firmata

L’INVIDIA Non una satira pungente effettuata in un programma tv o radiofonico, bensì un intero libro di vignette oltraggiose soprattutto sul ministro Meloni e su Alessandra Mussolini. E poi dicono che l’informazione non è libera! Se si permette tutto ciò è perché la tanto odiata censura non esiste più, se si può liberamente dipingere stampine che recano didascaliche male parole e insulti da fogna. Le origini dell’opera sono note ma ciò non serve a nulla, in quanto una nefandezza se passa, passa e basta. Non si può andare avanti così, perché oltre all’integerrima posizione professionale svolta dalla Mussolini, resta il fatto che la Meloni, che non ha bisogno di difendersi, ha sempre svolto dalla sua militanza nella formazione giovanile di An, un lavoro a favore delle aperture, dei giovani, della modernità e delle donne soprattutto. Evidentemente ciò conta poco quando si devono distruggere le rappresentanze femminili in un governo di destra, che proprio in proposito ha dimostrato quanto sia fresca e partecipativa anche al femminile, la verve moderna che caratterizza il nostro esecutivo.

DICHIARAZIONE DI CRISI DELL’AGRICOLTURA: FALLIMENTO DELLE POLITICHE REGIONALI Lo Stato non è il pozzo di S. Patrizio. Impegnare lo Stato sulle questioni nodali del Sud è una cosa seria ma chiedere soldi allo Stato è molto discutibile quando nelle casse della Regione ci sono disponibilità economiche ingenti non spese. Oltre 600 milioni di euro inattivi. La dichiarazione dello stato di crisi dell’agricoltura di Basilicata rileva “negativamente”come sono state praticate le politiche di sviluppo dell’agricoltura in Basilicata in questi ultimi anni. In tempi non sospetti, con serietà abbiamo evidenziato la crisi dell’agricoltura. Abbiamo presentato documenti, mozioni: ad oggi il confronto tra le parti è stato sempre rinviato. Alla fine, il governo regionale dichiara lo stato di crisi del comparto agricolo chiedendo aiuto allo Stato, mentre giacciono ingenti risorse nei cassetti della Regione. Basta allora con le dispute verbali presenti sugli organi di informazione che non giovano all’agricoltura. Il mondo associativo è confuso, mentre la crisi avanza in modo irreversibile. Gli agricoltori hanno bisogno di provvedimenti urgenti e ad oggi i 600 milioni di euro a disposizione della Regione restano bloccati nei tiretti del dipartimento Agricoltura. Coloro che, nel passato, avevano chiesto il cambio di passo nella gestione del comparto agricolo si sentano appagati dalla loro “infelice intuizione”. Il tempo è galantuomo! Sarebbe stato serio attivare i tavoli verdi per concertare azioni di medio respiro e portare il confronto nel consiglio regionale. Appuntamento chiesto insistentemente da mesi. Intanto la crisi avanza! In modo irreversibile! Il latte viene gettato. I produttori del settore guadagnano cifre irrisorie. Il prezzo del pane e della pasta sale nell’indifferenza generale. Le associazioni agricole fanno quello che possono fare. L’agricoltura è a pezzi. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 GIOVEDÌ 26 - ORE 19 - NAPOLI HOTEL RAMADA - VIA G. FERRARIS 40 Incontro-convegno dei Circoli liberal della Campania. 150 anni di Storia: “dall’Unità d’Italia al Partito della Nazione”. Introduce: Vincenzo Inverso. Conclude: Ferdinando Adornato, presidente dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Carolina Salerno

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. La rivista “Forbes” pubblica l’elenco dei personaggi morti che producono maggior fatturato

Se il caro estinto diventa di Marco Ferrari on è che ho paura di morire. Solo che non voglio esserci quando accadrà». La massima di Woody Allen calza a pennello per noi semplici mortali, figuriamoci per un personaggio del jet set che ha raggiunto la fama internazionale. Andarsene significa perdere tanti privilegi ma soprattutto lasciarli agli altri, a parenti serpenti, a sconosciuti cugini di terzo grado, ai figli che si contenderanno sino all’ultima goccia di denaro e, come nel caso degli eredi Agnelli, ai figli che oseranno sfidare la madre e i mandatari del patrimonio del defunto, mors tua vita mea.

«N

un AFFARE

Talvolta morire, per una celebrità, significa guadagnare anche più di quando si era in vita. La rivista Forbes, ad esempio, ha stilato una classifica molto particolare riguardante la hit parade degli introiti di chi sta nella tomba. E il 2009 ha

La celebrità che “guadagna” di più dopo la scomparsa è Yves Saint Laurent. Ma vanno forte anche Michael Jackson, il grande Steve McQueen e J.R.R. Tolkien

segnato parecchie sorprese. Michael Jackson, che sembrava il favorito per il clamore della sua improvvisa dipartita e le modalità che la hanno accompagnata, è stato battuto abbondantemente, quasi stracciato, dallo stilista Yves Saint Laurent che invece era scomparso dopo una lunga malattia, un tumore al cervello, nella sua casa di Parigi il 1 giugno del 2008 all’età di 72 anni senza troppo rumore. Cremato, le sue ceneri sono state disperse in un giardino botanico di Marrakech, in Marocco. Il leggendario creatore di moda francese continua a macinare soldi: ha infatti guadagnato 350 milioni di dollari grazie a una fortunata asta postuma da Christiès. Al secondo posto si sono piazzati i compositori di musical Richard Rodgers e Oscar Hammerstein con 235 milioni. I due viaggiano insieme anche nell’aldilà per il semplice fatto che il primo era un musicista ed il secondo era uno scrittore paroliere, dunque continuano a dividere i diritti di autore, anche nelle celesti sfere, degli stessi brani di memorabili e sempiterni musical come Oklahoma!, South Pacific e The Sound of Music che gli valsero, in vita, ben 35 Tony Awards.

Jackson si deve invece accontentare della medaglia di bronzo con 90 milioni di dollari, grazie ai ricavi sui diritti d’autore oltre agli incassi del

«Forbes», la prestigiosa rivista che ogni anno pubblica la lista dei più ricchi del mondo, ha celebrato Saint Laurent, Michael Jackson e Tolkien in quanto hanno prodotto le maggiori ricchezze dopo morti film This Is It, appena uscito nelle sale di tutto il mondo. Secondo gli analisti post mortem sia Saint Laurent che Jackson avranno però difficoltà a continuare a tenere le posizioni nella lista per l’eccezionalità degli eventi che li han-

no contraddistinti quest’anno, l’asta per il povero (si va per dire) Yves e il decesso per l’indimenticabile Michael. Basta infatti un solo importante elemento – un film, una pubblicità, una biografia, una vendita esclusiva, una scoop giornalistico – per riportare a galla personalità sparite dalla classifica – oltre che dal pianeta terra – ma abitualmente nella top ten come Marilyn Monroe, Steve Mc Quinn, Paul Newman, James Dean, ancora oggi soggetti da venerazione. Ad esempio il bello e dannato Steve Mc Quinn quest’anno ha ricevuto una bella riesumazione grazie alla campagna pubblicitaria di Liu Jeans, ai giubbotti celebrativi messi in vendita dalla Triumph Motorcycle, ai Dvd della collana “Film Cult” venduti nelle edicole. Inoltre Triumph e la maison d’orologérie Tag Heuer hanno voluto ricordare il compianto attore e pilota, collezionista di oltre cento tra auto e moto, tributandogli la realizzazione di un pezzo unico, un nuovo modello della motocicletta Bonneville destinato ai grandi spazi americani. Insomma, un vero e proprio tour de force per l’instancabile Steve che, anche nei cieli, continua ad avere una vita spericolata, come ci rammenta Vasco Rossi. Il tutto senza muovere un dito!

E i letterati come se la cavano? Al quinto posto troviamo sir John Ronald Reuel Tolkien, re del fantasy, l’autore della trilogia Il Signore degli Anelli, glorificato dalla serie cinematografica di grande successo e della presenza dei suoi libri nelle classifiche. Nella mitica Terra di Mezzo, dove la sua anima avrà certamente posto il nuovo domicilio celeste, avrà ritrovato gli elfi e gli hobbit che popolano la sua dimensione fantastica. La sua modesta tomba, invece, si trova nel cimitero di Wolvercote, vicino ad Oxford, dove insegnò in vita. Come segno di attaccamento alle sue imprese letterarie e come presagio delle sue eterne avventure fece scolpire sulla lapide della moglie il nome di Luthien e sulla sua il nome di Beren, protagonisti della romantica storia del Silmarillion.Sempre in campo editoriale non se la passa male (è un modo dire, ovviamente) Charles Schulz, settimo nello score internazionale, grazie alla tenuta di Charlie Brown e dei suoi inseparabile amici nel fumetto e nei cartoni animati. John Lennon è solo nono e continua a scendere, anche se in un sospirato amen canoro guadagna milioni di dollari grazie anche ad un paio di battaglie legali vinte dagli eredi contro la Apple e la Emi. Dietro di lui sonnecchiano Albert Einsten, Michael Crichton, Jimi Hendrix, Andy Warhol e Matthew Miller. Purtroppo Warhol non potrà tanto godere della recente vendita record della monumentale opera dal titolo “200 One Dollar Bills”(200 biglietti da un dollaro), aggiudicata a un’asta di arte contemporanea di Sotheby’s a New York per 43,7 milioni di dollari né potrà inserirla a vantaggio della sua classifica poiché il quadro apparteneva ad un collezionista privato . Tredici icone dei paradisi (fiscali o no, questo non è dato sapere) che raggranellano nell’oltretomba qualcosa come 886 milioni di dollari l’anno. Chissà che feste dall’altra parte del cielo!


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.