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Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pensa Victor Hugo
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 26 NOVEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il dominio franco-tedesco ormai è totale: tra le vittime illustri ci sarebbe anche Mario Draghi, in corsa per il vertice Bce
L’Italia cancellata dall’Europa Dopo le bocciature di Mauro e D’Alema ci sarà anche quella di Tremonti all’Eurogruppo (resta Juncker) e il no alla promozione di Tajani. Una vera e propria Waterloo per il governo di Enrico Singer
Giornata nera anche in Italia per il SuperGiulio
Un saggio del filosofo americano
Diciamolo: per la politica estera italiana è un vero smacco. Dopo il no a Mario Mauro che correva per la presidenza di Strasburgo; dopo il no a D’Alema che correva per la nuova poltrona di responsabile degli Esteri; dopo la mancata promozione di Tajani, che è stato confernato solo alla Commissione Trasporti, l’Ue si prepara a dire no a Tremonti che aspirava alla presidenza dell’Eurogruppo. La decisione sarà ufficializzata entro il primo dicembre, ma la notizia circola già a Bruxelles dove viene data per scontata la riconferma di Jean-Claude Juncker (nella foto a fianco). E anche le chances di Draghi alla Bce sono in discesa.
Il nuovo attacco di Brunetta, il nuovo avviso di Fini Il ministro: «Non sei un economista». E il presidente della Camera annuncia: «Sulla Finanziaria non accetterò fiducie su testi blindati». Intanto saltano i tagli di Irpef e Irap ROMA. La faida interna alla maggioran-
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za prosegue senza soste. Ieri Brunetta ha insolentito Tremonti dichiarando con sprezzo che «non è un economista» e che perciò non sa fare riforme senza spendere «come io faccio da un anno e mezzo». Gianfranco Fini, poi, ha lanciato un avvertimento: «Niente fiducia né maxiemendamenti sulla Finanziaria».
Concorso esterno alla mafia Palazzo Chigi: non vogliamo abolirlo
Francesco Pacifico • pagina 3
Marco Palombi • pagina 4
Voci, polemiche e smentite, ieri, sul coinvolgimento del premier in un’inchiesta a Palermo
Mossa a sorpresa di Washington per forzare la mano sia al Congresso sia all’Asia
Obama: «Taglierò le emissioni» A Copenhagen una riduzione unilaterale Usa del 17% di V. Faccioli Pintozzi
ROMA. Colpo di scena nella politica ambientale Usa. Ieri Barack Obama ha annuciato che intende proporre alla Conferenza di Copenhagen una riduzione unilaterale del 17% delle emissioni di gas serra entro il 2020, del 30 per cento entro il 2025 e del 42 per cento entro il 2030. In sostanza, il presidente, senza il consenso del Congresso, anticipa le conclusioni del dibattito che si sta svolgendo negli Usa intorno alla nuova legislazione sull’ambiente. a pagina 8 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
Aspettando l’apertura della conferenza
Solo Bruxelles non ha ancora detto che cosa vuole fare di Osvaldo Baldacci
ROMA. Obama riduce le emissioni, Hu Jintao promette di farlo (quando e come non si sa ancora con precisione), Singh ha detto che la sua India ha poco da ridurre: solo l’Europa non ha ancora parlato. La ragione è che i governi del Vecchio Continente arriveranno a Copenhagen il 7 dicembre in ordine sparso, ciascuno con un sogno nel cassetto (far fallire ogni proposito di riduzione dei gas serra) e una bandiera da esporre (l’impegno ambientalista). a pagina 9 I QUADERNI)
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NUMERO
234 •
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• CHIUSO
Libertà e bene comune Una teoria per guidare le democrazie moderne di Michael Novak re dei concetti a cui si fa più frequentemente riferimento nella dottrina cattolico sociale ed ora, più in generale, in buona parte delle riflessioni di stampo laico - sono giustizia sociale, bene comune e libertà individuale (o personale). Tali termini vengono molto spesso utilizzati in modo approssimativo ed evasivo. Non sono pochi gli autori che preferiscono non definirli compiutamente, come se si supponesse che questi non necessitino definizione alcuna. Ho attinto a molti volumi riguardanti la giustizia sociale (ad esempio quelli di Calvez e di Perrin), senza però trovare una definizione precisa. Cerchiamo dunque di delineare brevemente e con precisione ognuno di questi punti.
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1. Giustizia sociale. Probabilmente anche voi avrete chiesto ai vostri colleghi o a degli studenti ad un seminario, o a dei dipendenti di associazioni benefiche di stampo cattolico, o anche ad un vescovo, una definizione di giustizia sociale. Come recitava (e parafraso) un necrologio pubblicato di recente sulle pagine del Delaware Catholic, Sorella Maurine ha donato tutta la sua vita di religiosa alla realizzazione della giustizia sociale. Il necrologio ci riferisce che Sorella Maureen, missionaria in Africa per 46 anni, insegnò ai giovani e portò assistenza ai sofferenti ed ai poveri. segue a pagina 11
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Diplomazie. Bruxelles scombina i piani di Berlusconi: martedì prossimo Jean-Claude Juncker sarà confermato “mister Euro”
Una Waterloo italiana
Dopo il no a D’Alema, l’Ue pronta a stoppare la candidatura di Tremonti all’Eurogruppo. Ma nemmeno per Tajani ci sarà una promozione di Enrico Singer er l’Italia è in agguato un’altra Waterloo in Europa. La candidatura di Giulio Tremonti alla presidenza dell’Eurogruppo potrebbe saltare già martedì prossimo, primo dicembre, con il rinnovo dell’incarico al lussemburghese JeanClaude Juncker. Anzi, fonti molto attendibili e bene informate di Bruxelles ne sono sicure. Non solo. Per Antonio Tajani, appena confermato da Berlusconi come commissario italiano nell’esecutivo Barroso-bis, non ci sarà una poltrona più pesante ed anche il rafforzamento di quella che già occupa – i Trasporti – con l’aggiunta di nuove deleghe è ancora da conquistare per la resistenza di chi non vuole farsele sfilare. Insomma, dopo il no a Massimo D’Alema e quello – che non va dimenticato – a Mario Mauro come presidente del Parlamento europeo, si annunciano nuovi, imbarazzanti stop. Senza contare che l’ipotesi di lanciare
P
ANTONIO TAJANI Il commissario italiano sperava di ottenere nuove deleghe, sottraendole a quelle del suo collega dell’Industria che oggi è il tedesco Verheugen
Mario Draghi nella corsa alla successione di Jean-Claude Trichet, nel 2011, alla presidenza della Banca centrale europea non trova credito a Bruxelles dove si considera scontata l’investitura del tedesco Axel Weber, attuale presidente della Bundesbank. E, ancora una volta, dietro la nuova ondata di nomine c’è la regia incontrastata dell’asse Berlino-Parigi che, con la triangolazione di Londra, plasma i vertici istituzionali della Ue a sua immagine e somiglianza. Concedendo il minimo indispensabile agli atri. Che si tratti dei nuovi entrati nel club europeo – la Polonia ha avuto, con Jerzy Buzek, la presidenza dell’Assemblea di Strasburgo – o di chi ha maturato il diritto a qualche compensazione, proprio come Juncker che era in ballottaggio per la presidenza del Consiglio Ue e avrà la conso-
lazione di rimanere almeno “mister euro”. Il problema è che anche l’Italia era – o credeva di essere – in credito con Bruxelles. Tutta la vicenda D’Alema era stata condotta da Berlusconi con la speranza di incassare comunque dei punti importanti. A quanto si dice nei piani alti dei palazzi del potere europeo, la strategia prevedeva due sbocchi. Il primo – il meno probabile, visti i rapporti di forza – avrebbe comunque marcato un successo perché la doppia poltrona di rappresentante per la politica estera e di vicepresidente della Commissione sarebbe andata a un italiano con l’appoggio ufficiale e bipartisan del governo. Il secondo – quello segretamente auspicato e che, poi, si è verificato – avrebbe trasformato il no a Massimo D’Alema da parte di Berlino, Parigi e Londra in una specie di jolly da giocare nelle partite future: la redistribuzione degli incarichi nella Commissione Barrosobis e la scelta del presidente dell’Eurogruppo.
Il primo sgambetto arriverà dall’Eurogruppo. Certo, se Jean-Claude Juncker fosse stato scelto per occupare la poltrona di primo presidente stabile del Consiglio Ue - quella affidata all’oscuro premier belga Herman Van Rompuy la strada di Tremonti sarebbe stata spianata. Ma poiché Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno preferito un potere centrale debole per rimanere padroni del gioco, il credito che Berlusconi credeva di poter conquistare è passato di diritto a Juncker che potrebbe essere confermato nel suo attuale incarico già il primo dicembre. In realtà, il premier
- e ministro delle Finanze - lussemburghese avrebbe ancora quasi un anno del suo vecchio mandato da completare e la partita della sua successione potrebbe avere tempi più lunghi con-
che l’idea di Tremonti e di Berlusconi era esattamente quella opposta: giocarsi i galloni di “mister euro” proprio in chiave elettorale, magari insieme al tante volte promesso taglio delle tasse - che secondo Bruxelles MASSIMO D’ALEMA potrebbe essere possibile con la Finanziaria del La nomina 2012 - e con un miglioramancata dell’ex mento delle pensioni. La premier, parte europea di questa secondo strategia, però, sembra Berlusconi, destinata a cadere nel doveva essere trabocchetto che sta per un jolly scattare a Bruxelles. da spendere per ottenere Il caso Tajani è diverso altri incarichi perché l’attuale commisdi prestigio sario e vicepresidente
sentendo altre grandi manovre. Ma con l’entrata in vigore nel Trattato di Lisbona, la carica di presidente dell’Eurogruppo passa dagli attuali due anni a due anni e mezzo: la stessa durata di quelle di presidente del Consiglio Ue e del responsabile per la politica estera. Ecco, allora, che già martedì prossimo Jean-Claude Juncker potrebbe essere confermato, con la benedizione dell’asse Berlino-Parigi, fino alla metà del 2012. Per Giulio Tremonti sarebbe la fine della corsa. Una fine senza tempi supplementari perché la carica di presidente dell’Eurogruppo è l’unica che si somma a quella nazionale di ministro dell’Economia (soltanto un ministro in carica può dirigere il consesso dei suoi colleghi dei sedici Paesi che hanno finora adottato la moneta comune) e a metà 2012 la scadenza naturale delle elezioni politiche del 2013 in Italia sarebbe così vicina da rendere impresentabile la candidatura di una personalità che potrebbe anche non fare parte del futuro governo. Inutile dire
dell’esecutivo Barroso è stato confermato dal governo subito dopo la bocciatura di D’Alema che, in caso di successo, gli avrebbe tolto il posto dal momento che a ciascuno dei 27 Paesi della Ue spetta una sola poltrona. Tajani, quindi, è al riparo da qualsiasi sgambetto. Le regole europee, però, prevedono che la scelta di chi mandare a Bruxelles spetti ai governi nazionali, ma a decidere gli incarichi e le deleghe è il presidente della Commissione, cioè il portoghese Manuel Barroso che ha dimostrato nei cinque anni del suo primo mandato, di essere molto sensibile alle volontà dell’asse Berlino-Parigi e a Londra. Sempre in nome del credito rivendicato dall’Italia, una delle ipotesi - già scartate - era quella di una promozione di Antonio Tajani a un incarico di prima fascia. Come dire, il Commercio, la Concorrenza, l’Economia, l’Industria, il Bilancio, il Mercato interno o la Giustizia. I Trasporti sono un portafoglio improtante e Tajani - che subentrò a Franco Frattini diventato ministro degli Esteri del governo Berlusconi nel 2006 - fu ben contento di scambiarlo proprio con quello della Giustizia che occupava il suo predecessore perché allora era aperto il fronte del grande piano dei trasporti europei con i fondi per il ponte sullo Stretto e il problema dell’alta velocità ferroviaria in Val di Susa. Tuttavia, mantenere questo portafolglio (oltre alla carica di vicepresidente della Commissione che spetta anche ad altri commissari dei grandi Paesi) non è una promozione.Tantomeno può essere considerato un risarcimento per il no a D’Alema. Il piano, allora, è quello di allargarte le deleghe del
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Tra le vittime c’è anche, suo malgrado, il governatore di Bankitalia Mario Draghi per il quale si parlava di una possibile candidatura al vertice della Bce dove invece andrà Axel Weber commissareio ai Trasporti anche al turismo, l’industria dell’auto, dei treni e degli aerei. Nell’ottica della politica come business, sarebbe un buon colpo. Ma queste deleghe ora sono nel portafoglio del commissario per le Imprese e l’Industria che attualmente è il tedesco Günter Verheugen, che probabil-
MARIO MAURO Il capogruppo del Pdl in Europa puntava alla presidenza del Parlamento di Strasburgo ma è stato battuto dal polacco Jerzy Buzek
mente passerà a un francese - Michel Barnier - entrambi ben decisi a non mollare pezzi del loro potere.
La partita di Draghi , poi, è non solo lontana perchè il mandato di JeanClaude Trichet alla presidenza della Bce scadrà soltanto nel novembre del 2011: è anche una specie di boomerang. In realtà, l’accordo tra Berlino e
Parigi risale addirittura ai giorni della scelta dell’ex governatore della Banca di Francia come primo presidente della Banca centrale europea. Allora fu stabilito che il suo successore sarebbe stato un tedesco e l’investitura di Axel Weber è fuori discussione. Tra l’altro, il più infastidito dalle voci sul suo nome è proprio Mario Draghi che non ha alcuna voglia di finire in questo frullatore di nomi - più o meno - eccellenti che sembra fare a pezzi ogni candidatura italiana. Visto da Bruxelles, l’errore che si commette a Roma è quello di «illudersi di poter fare e disfare l’organigramma europeo come fosse quello di uno spettacolo di veline in tv». Gli altri, invece, fanno sul serio. La Germania chiederà probabilmente per l’attuale primo ministro Cdu del Baden-Wurttemberg, Günter Oettinger il portafoglio del Commercio. E la stessa, piccola Danimarca piazzerà Connie Hadegaard, che sta svolgendo un ruolo chiave nella preparazione della conferenza di Copenhagen, come primo commissario Ue per il Clima.
Giornata nera per Tremonti che incassa nuovi insulti dalla maggioranza sulla politica del governo
L’attacco di Brunetta, l’avviso di Fini
Il ministro: «Giulio non è un economista». E il presidente della Camera: «Sulla Finanziaria non accetto fiducia blindata». Irpef e Irap: niente tagli ROMA. Il taglio dell’Irap e dell’Irpef come la cedolare secca sugli affitti si allontanano. Ma se la maggioranza non si è ancora messa d’accordo sui suoi contenuti, Gianfranco Fini non ha esitazioni nel bocciare la Finanziaria. «Il presidente della Camera», ha fatto sapere l’ex leader di An, «sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia fosse chiesta non sul testo che esce dalla Commissione, ma su di un maxiemendamento che venisse proposto dal governo». Come è ormai prassi parlamentare. Emettendo la sentenza Fini ha premesso di stare facendo «una considerazione ipotetica». Ma in pochi ci hanno creduto visto che qualche ora prima Renato Brunetta era tornato all’attacco del collega: «Sono più rigorista di Tremonti, ma anche nel rigore si può fare sviluppo. Queste cose le conosco bene, perché io sono un economista e Tremonti no». Nel precedente passaggio a Montecitorio della manovra Fini aveva costretto il ministro Tremonti a fare suoi par-
di Francesco Pacifico te degli emendamenti delle commissioni Bilancio e Finanze. Ieri un salto di qualità nella sua personale battaglia per difendere le prerogative del Parlamento e – perché no – per limitare lo strapotere di via XX settembre.
Stando alle categorie di Giulio Tremonti Fini entrerebbe gioco forza nel partito della spesa. Sdegnato, il presidente della Camera ha chiarito di non rimpiangere «i tempi dell’assalto alla diligenza: era uno spettacolo poco dignitoso nel rapporto tra Parlamento e governo». Per aggiungere: «Il rapporto tra esecutivo e Parlamento va equilibrato. Il maxi emendamento potrebbe anche essere fatto di concerto con la maggioranza, ma poi metterebbe le Camere in condizione di non poter intervenire». Dal Tesoro si fa notare che mai un presidente della Camera si è mostrato favorevole all’uso della fiducia. Eppure è
La Russa: «se la Camera seguirà l’indirizzo del governo, il Tesoro rispetterà le commissioni»
forte il timore che Fini, dopo aver dato manforte politico nel passaggio al Senato agli emendamenti di spesa di Mario Baldassarri, possa continuare la sua guerriglia allungando i tempi della manovra. Tremonti, comunque, non commenta. Risponde indirettamente a Fini Ignazio La Russa: «Il ministro sarà rispettoso di quello che farà il Parlamento. Il Parlamento avrà un indirizzo dal governo». Aggiunge Gaetano Quagliariello: «Se il partito farà un buon lavoro, faciliterà quello delle commissioni». Questo almeno lo schema garantito dal responsabile dell’Economia ai vertici del Pdl, nella prima seduta della Consulta economica di via dell’Umiltà. Anche in questo consesso Tremonti è riusci-
to a blindare il suo testo, spiegando che le uniche risorse disponibili sono i 4 miliardi dello scudo fiscale. Dei quali un terzo servirà per coprire lo slittamento al 2010 dell’acconto Irpef. Non a caso il della relatore manovra alla Camera, Massimo Corsaro, ha fatto sapere: «Interverremo su misure di sviluppo, per il welfare e per gli enti locali. Non escludiamo che i tagli all’Irap, all’Irpef e agli affitti possano essere oggetto di un nuovo dibattito nel 2010».
Oggi i gruppi di Pdl si vedranno per studiare un unico emendamento da presentare poi in Commissione. Ma i problemi per Tremonti non sono finiti. Se Fini ha annunciato vita dura in Parlamento, Brunetta, con il suo nuovo attacco, ha fatto intendere che il partito dello sviluppo non si accontenterà delle briciole.
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politica
Sospetti. Il “Giornale” rivela che la Procura di Palermo starebbe per coinvolgere il premier in un’inchiesta sulla criminalità
Mafia, il giallo del concorso Palazzo Chigi smentisce con durezza: «Non intendiamo abolire quel reato». E si riparla del “lodo costituzionale” come unica soluzione di Marco Palombi
ROMA. Si vuole qui proporre una tesi ardita e paradossale: il più berlusconiano di tutti, in realtà, è Gianfranco Fini. Non nel senso, ovviamente, del trasporto quasi religioso che agita alcuni tra i più assidui a corte, ma per quanto riguarda il “vero bene”di Silvio Berlusconi, la sua salvezza dai processi: il presidente della Camera è infatti finora l’unico che tenti di offrire al Cavaliere una via d’uscita sensata dal cul de sac politico-giudiziario in cui continua a cacciarsi per merito suo e dei suoi produttori di leggine. Fini offre al premier l’arma inutilizzata della politica, del discorso nelle aule parlamentari invece che in televisione, gli chiede di essere un uomo di Stato invece che un eversore di momentaneo successo.
La giornata di ieri è stata una sorta di plastica dimostrazione del delirio impolitico e irrazionale che agita quei trecento carneidi che scambiano Arcore per le Termopili: Il Giornale lancia allarmi sul patrimonio del leader del Pdl messo a rischio dai pm siciliani che stanno per indagarlo per concorso esterno in associazione mafiosa (con relativo sequestro dei beni); qualcuno assai vicino a Berlusconi lascia intendere alla stampa che si sta quindi per agire sul 416bis nato col maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino per “tipizzarlo”, in realtà per renderlo sostanzialmente inutilizzabile; buona parte dello stesso Pdl reagisce con imbarazzo – non solo i finiani, anche Gaetano Pecorella ha detto pubblicamente un secco no – e alla fine, dopo un incontro tra Berlusconi e il Guardasigilli Angelino Alfano, palazzo Chigi emette una nota per smentire tutto il più nettamente possibile: «Circolano voci false, originate da alcuni giornali, in merito alla volontà del presidente del Consiglio di modificare la norma che ha consentito di arrivare al concorso esterno in reati di mafia». Di più: «Ci troviamo di fronte ad un comportamento molto pericoloso, perché si basa su voci inventate sì, ma che potrebbero addirittura favorire il fenomeno criminale. Queste falsità sono tanto più gravi se rivolte contro un governo che ha fatto della lotta alla criminalità mafiosa uno dei punti qualificanti della sua attività». Nel frattempo, nell’officina degli stregoni della procedura si continuano a proporre leggine a getto continuo in un delirio paranoide che immagina lo show down nascondersi dietro ogni angolo. Ora l’Armageddon è previsto per l’inizio di dicembre: il 3 Annozero sui rapporti tra il Cavaliere e la mafia, il 4 la deposizione a Palermo del pentito Gaspare Spatuzza, il 5 il «No B day». Nell’officina quindi si lavora
E la giunta per le autorizzazioni della Camera nega l’arresto
Cosentino: il Senato respinge le mozioni di Pd e Idv sulle dimissioni di Ruggiero Capone
ROMA. L’Aula del Senato ha respinto le due mozioni presentate dall’opposizione che chiedevano le dimissioni del sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, nei cui confronti la procura di Napoli ha emesso una richiesta di autorizzazione per l’esecuzione di una misura cautelare con l’accusa di concorso esterno in associazione camorristica. La mozione del Pd, che aveva come primo firmatario il vicecapogruppo Luigi Zanda, ha ottenuto 116 voti favorevoli, 165 contrari e 2 astenuti. Quella di Italia dei Valori, che aveva come primo firmatario il capogruppo Felice Belisario, ha ottenuto 95 voti favorevoli, 170 contrari e 17 astenuti. Il voto del Senato è arrivato dopo che, in mattinata, la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera aveva respinto la richiesta di arresto nei riguardi del sottosegretario. Contro l’arresto hanno votato 11 deputati. In 6 si sono espressi a favore del provvedimento giudiziario, mentre il radicale Maurizio Turco si è astenuto. Ad esprimersi definitivamente sulla richiesta della magistratura sarà l’aula di Montecitorio tra un paio di settimane. Diverse sono state le motivazioni dei singoli gruppi. «I componenti della Giunta per le Autorizzazioni a procedere dell’Udc hanno ricevuto dal gruppo parlamentare il mandato di votare secondo coscienza sulla richiesta di arresto del sottosegretario Cosentino - ha dichiarato Michele Vietti (presidente vicario dei deputati dell’Unione di Centro) - L’Udc invece ha chiesto con una propria mozione le dimissioni del sottosegretario dal Governo per manifesta incompatibilità». Il relatore in commissione autorizzazioni, Nino Lo Presti (Pdl), aveva proposto di respingere la richiesta della magistratura di arresto di Cosentino: la sua relazione è stata votata dal Pdl e da Domenico Zinzi dell’Udc. L’altro esponente dei centristi, Pierluigi Mantini, ha invece votato per l’arresto del sottosegretario, e come lui il Pd (compreso il
presidente della Giunta Pierluigi Castagnetti) e l’Idv. Il radicale Turco ha detto d’essersi astenuto per “motivi tecnici”.
«Io sono contrario all’arresto di Cosentino - ha spiegato Turco - ma per ragioni diverse da quelle della maggioranza. L’astensione mi permetterà di poter svolgere in aula una relazione di minoranza e di spiegare la mia posizione». Invece il centrista Mantini ha sottolineato «la sussistenza di forti indizi di colpevolezza, che comportano la custodia cautelare obbligatoria». La deputata Flavia Perina (finiana del Pdl) ha detto ad Omnibus (in onda ieri mattina su La7) che «Cosentino non fa bene ad insistere nel candidarsi alla guida della regione Campania: in tutto il centrodestra è opinione diffusa che sarebbe più utile un passo indietro di, che alla fine credo ci sarà». Di diverso avviso i forzisti del Pdl. «È evidente che per Di Pietro e qualche altro l’unica linea possibile è quella della manette - ha affermato Fabrizio Cicchitto (capogruppo Pdl alla Camera) - La maggioranza dei componenti della Giunta per le Autorizzazioni è stata di diverso parere ed ha rilevato l’esistenza di un fumus persecutionis; non per questo va insultata e aggredita. C’é chi sta cercando di creare un pessimo clima nel nostro Paese. Va in questo senso anche la sollecitazione di chi a livello politico sostiene che tutto ciò che i magistrati affermano o deliberano va accettato a scatola chiusa». Per il procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore, che la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera abbia respinto la richiesta di arresto nei riguardi di Nicola Cosentino «non è affatto una sconfitta, soprattutto non è un blocco alle indagini» E mentre le indagini continuano, la vicenda Cosentino blocca per il momento le decisioni del Pdl sulle candidature regionali.
con molta lena e assai meno senno: intanto bisogna rimettere mano al “processo breve”, il cui impatto sui dibattimenti in corso continua a crescere nelle parole del ministro della Giustizia (dai 9mila a cui aveva alluso in Parlamento, ai 40mila ammessi a Ballarò). Bisogna rimetterci mano perché troppi, a giudizio degli stessi membri della Consulta sulla giustizia del Pdl (una riunione era prevista ieri sera alle 21, mentre questo giornale era già in stampa), sono i profili di incostituzionalità del provvedimento: la lista dei reati ammessi o no e l’applicazione solo ad alcuni processi, i più vistosi.
Ma non è finita, la fucina è sempre in funzione: Guglielmo Picchi, deputato fiorentino del Pdl, dirigente di banca con la passione del diritto, ha annunciato la presen-
Guglielmo Picchi, del Pdl, ha annunciato la presentazione di un cavillo interpretativo che renda impossibile perseguire la “corruzione susseguente”: proprio quella del caso Mills tazione di una norma interpretativa che renda impossibile perseguire la “corruzione susseguente” su cui la Cassazione ha una giurisprudenza discordante. Se ne parlava da qualche tempo nell’officina delle leggine e si tratta, in sostanza, di chiarire che non è reato promettere e/o dare soldi a qualcuno dopo averne ricevuto benefici: quello, per intederci, che avrebbe fatto Berlusconi con l’avvocato Mills. In attesa di altre diavolerie, da ieri negli uffici di Montecitorio circola anche un testo sul “legittimo impedimento” firmato Michaela Biancofiore, bolzanina eletta in Campania, imprenditrice del welness ma laureanda in giurisprudenza: l’idea è che essendo il premier impegnato a fare il premier non possa partecipare ai processi, quindi questi si sospendono finché esiste il “legittimo impedimento”.
Quest’ultima soluzione peraltro è quella che, nel linguaggio ossessivamente ripetitivo delle cronache politiche, è più nota come “lodo Casini”, sponsorizzato dal leader dell’Udc con la formula «meglio dire che si fa una norma per Berlu-
politica
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Il governo risponde negativamente all’interrogazione «tripartisan»
A chi i beni di Cosa nostra? Ai mafiosi che li ricomprano Il relatore della Finanziaria Corsaro boccia la richiesta di rendere pubblici gli immobili confiscati ai criminali di Riccardo Paradisi
ROMA. «La norma del Senato che prevede la vendita dei beni confiscati alla mafia e che mette a disposizione del ministero dell’Interno e della Giustizia i proventi è inamovibile». Massimo Corsaro, relatore sulla Finanziaria alla Camera, non sente ragioni e difende la misura prevista dall’emendamento che prevede la messa in vendita dei beni sequestrati alle organizzazioni criminali. Emendamento che un fronte trasversale composto da deputati Pdl, Udc, Pd e Idv aveva tentato di bloccare chiedendo che il patrimonio sottratto alle mafie restasse un bene pubblico.
no all’unanimità le legge 109/96… Oggi quell’impegno – prosegue Don Ciotti – rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato dalla legge finanziaria prevede infatti la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. È facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case, terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all’intervento dello Stato». Su questa posizione come si diceva convergono esponenti di culture e formazioni politiche differenti di centro, sinistra e destra Ma per Corsaro gli esponenti del suo partito che contrari alla norma – Fabio Granata, Angela Napoli, Mario Pescante ed Elena Centemero – sono «vergini vestali affette da sottomissione psicologica verso la sinistra», gente che secondo l’esponente del Pdl dovrebbe «interrogarsi sull’appartenenza al Pdl». Corsaro concede che si può studiare la possibilità di rendere ancora più trasparente la procedura di gara prevedendo il meccanismo delle prelazioni per alcune categorie tra cui le forze dell’ordine ma più di questo non si chieda.
«È facile immaginare – dice Don Ciotti – grazie alle capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville e terreni appartenuti ai boss»
sconi che sfasciare il sistema giustizia». Ed è qui che si torna al paradossale «berlusconismo repubblicano» di Gianfranco Fini: il Cofondatore tenta appunto in questi giorni di “vendere”al Fondatore il legittimo impedimento condito col contestuale incardinamento in Parlamento di un ddl costituzionale che reintroduca l’immunità parlamentare formato 1948, guarda caso il testo presentato martedì da Silvano Moffa (e firmato poi da 150 deputati di maggioranza) dopo l’esplicito imprimatur del presidente della Camera. Il legittimo impedimento, infatti, è ancora una norma a rischio cancellazione da parte della Consulta, ma potrebbe servire utilmente da ponte fino al ripristino dell’autorizzazione a procedere. Se questo fosse il percorso – condito da un discorso “alto”del premier alle Camere – Fini potrebbe allora anche concretizzare le chiacchiere fatte ultimamente con Udc e (parte del) Pd: l’immunità pre-1993 potrebbe infatti essere inserita tra le riforme istituzionali “espresse” della “bozza Violante” che l’ex leader di An è tornato a citare martedì. Non è un caso che anche Nicola Latorre, dalemiano in purezza, ne parli esplicitamente in un’intervista uscita ieri. L’unico problema ora è convincere Berlusconi ad essere berlusconiano.
Sopra, Silvio Berlusconi che ieri è stato al centro di una ridda di voci e di smentite su un possibile intervento sulla legislazione antimafia. A destra, l’arresto del killer mafioso Giovanni Brusca. Nella pagina a fronte, Gianfranco Fini e Nicola Cosentino
Perché i primi a riacquistare i beni confiscati sarebbero proprio i mafiosi. «Da tempo tutti coloro che si occupano di contrasto alle mafie, nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nelle amministrazioni pubbliche, nella società civile – si legge nell’interrogazione firmata tra gli altri da Laura Garavini (Pd) Ferdinando Adornato (Udc), Fabio Granata (Pdl), Leoluca Orlando (Idv) – sono d’accordo nel sostenere che il sequestro dei beni, la loro confisca e il loro riutilizzo sono lo strumento più temuto dai mafiosi, persino più della detenzione». Un percorso virtuoso dunque quello della confisca dei beni mafiosi e del loro riutilizzo pubblico che la messa in vendita prevista nella finanziaria potrebbe interrompere. Corsaro liquida questa ipotesi con molta sbrigatività, «quanto viene detto da chi vuole la cancellazione della norma, e cioè che i beni verrebbero riacquistati dalla mafia, è una bufala clamorosa. Se fosse così - prosegue il relatore - allora in Italia si dovrebbe sospendere immediatamente qualunque transazione immobiliare». L’esponente del Pdl rileva che «questi beni oggi sono di proprietà dello Stato che deve pagarne i costi. E chi utilizza fino ad oggi, in tempi di ristrettezza economica, come i professionisti dell’associazionismo d’autore, potrebbe una volta tanto essere chiamato a pagare il canone di locazione». Chissà se tra questi professionisti dell’associazionismo Corsaro include anche l’associazione “Libera” di Don Ciotti che ha lanciato un appello ondine, sottoscritto da oltre ventimila cittadini dal titolo Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra». Nell’appello Don Ciotti ricorda che «tredici anni fa oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche che votaro-
La reazione più dura alla netta chiusura della maggioranza è di Laura Garavini, capogruppo in commissione parlamentare Antimafia del Pd che parla addirittura di “un favore fatto ai boss della mafia”. «Non si capisce perché ci dovrebbe essere nelle procedure di gara un diritto di prelazione riconosciuto alle forze dell’ordine se già queste possono accedere ai beni confiscati nella fase precedente all’asta. Il diritto di prelazione ha senso solo se tutti i beni, indistintamente, verranno messi all’asta. In realtà è proprio questo il vero obiettivo del Governo e sarebbe un indiscutibile favore ai boss». Ma secondo l’opposizione l’inamovibile posizione del governo rivelerebbe un’altra delle intenzioni del Pdl: impedire l’accesso ai beni confiscati proprio a quella società civile che li ha resi segni evidenti della sconfitta delle mafie, o in ogni caso far loro pagare l’affitto. Ma anche all’interno della stessa maggioranza si registrano reazioni di dissenso. Santo Versace imprenditore e deputato del partito di Silvio Berlusconi, per esempio, interviene a sostegno del finiano Fabio Granata, che nei giorni scorsi aveva parlato del rischio che il berlusconismo cancelli l’identità di chi crede nei valori della legalità e dell’antimafia.
diario
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Concorrenza. Il ministro chiede una nuova Authority. Il presidente dell’Antitrust: «Bastano quelle che già esistono»
Chi controllerà le acque?
Botta e risposta tra Fitto e Catricalà dopo la “privatizzazione” di Alessandro D’Amato
ROMA. Il governo annuncia l’authority, l’Antitrust gliela boccia. Il provvedimento sulla privatizzazione dell’acqua contenuto nel decreto Ronchi ha scatenato una bagarre politica, oltre che nell’opposizione, anche nella maggioranza. Dove dai settori più “popolari” (ex An e Lega) sono giunti mugugni, che era necessario tacitare. Ed ecco allora la fuga in avanti dell’esecutivo: «Il governo sta valutando l’ipotesi di istituire una autorità sull’acqua per la
rafforzamento dei poteri di controllo del ministero dell’Ambiente in raccordo con il potere autonomo delle Regioni e degli enti locali», ha spiegato Fitto intervenendo a una conferenza di Business International. Il ministro ha anche confermato che varerà entro l’anno il regolamento attuativo del decreto Ronchi anti infrazioni Ue recentemente approvato dal Parlamento. «Le ipotesi sono diverse - ha detto -: sostanzialmente tre. E cioè una nuova autorità indipen-
«Non creiamo un nuovo carrozzone: lasciamo lavorare le autonomie locali», ha detto il Garante dopo l’uscita del ministro quale sono sul tappeto varie opzioni», ha detto ieri il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto. «In queste ore c’è una riflessione nel governo sul tema della regolamentazione. Si pensa se possa essere una autorità indipendente o il rafforzamento di una autorità preesistente o il
dente, un rafforzamento dell’autorità del gas, un rafforzamento dell’attuale Coviri».
Ma sulla proposta di Fitto è arrivata la sonora bocciatura di Antonio Catricalà, presidente dell’autorità Antitrust, ascoltatissimo a Palazzo Chigi. Intervenendo
Dietro alla polemica sulla nuova agenzia ci sono molti vizi tipici della nostra economia
Al mercato non servono altre autorità a dura polemica tra Raffaele Fitto e Antonio Catricalà ci rivela qualcosa di interessante a proposito di mercato e monopoli. Dopo che il primo aveva annunciato un’autorità apposita per regolare la gestione dei sistemi idrici, il secondo è entrato a gamba tesa, dicendosi perplesso. Può sembrare curioso, perché lo stesso Catricalà proprio nei giorni scorsi aveva rilevato come fosse da chiarire «quale sarà l’autorità che verificherà gli standard di qualità minimi e vigilerà sulle tariffe». Ora sappiamo verso quale ipotesi egli si muoveva, dato che nella sua polemica con Fitto ha invitato a sfruttare l’esistente, appogiandosi pure sulle autonomie locali.
L
Tutto induce a ritenere che il responsabile dell’Antitrust non veda bene il proliferare di agenzie, che fatalmente tolgono spazio a quella che egli presiede. E non gli si può dare torto. In generale, l’Italia ha bisogno di semplificare il proprio sistema normativo e regolamentare, e quindi non ha certo necessità di una moltiplicazione di authority. Per giunta, nell’ambito dei servizi idrici già esistono le Autorità d’ambito territoriale ottimale, le quali organiz-
alla stessa conferenza qualche minuto dopo il ministro, il Garante per la Concorrenza ha espresso perplessità sulla nuova Authority invitando il governo a riflettere prima di creare “un nuovo carrozzone”. «Sull’Autorità per i servizi idrici e in generale per i servizi pubblici locali siamo molto perplessi. Pensiamo che il sistema delle Authority debba essere ridotto nel numero e che le funzioni debbano tornare alla politica, questo sicuramente per i servizi pubblici», ha detto Catricalà. Secondo l’Antitrust potrebbe essere il Coviri, il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, a definire tariffe e standard di qualità. «Sfrutterei l’esistente Coviri, un comitato presso il ministero dell’Ambiente che è fatto di gente competente, che esprime pareri sulle tariffe che possono essere tradotti in Dpcm con procedure di garanzia per le autonomie locali». Toccherebbe poi agli Ato, organismi locali che devono definire per legge l’organizzazione del servizio idrico, verificare il rispetto dei contratti di servizio e, nel caso, ai prefetti. «Non creiamo un nuovo carrozzone, lasciamo lavorare le autonomie locali», ha concluso il Garante.
di Carlo Lottieri
Quanto alle polemiche
zano e controllano la gestione degli impianti. Va anche sottolineato che quante più agenzie di controllo esistono, quanto più facili sono i conflitti tra loro. Con tutti i problemi che ne derivano. Moltiplicare le agenzie, fino al punto di avere un’agenzia per ogni settore (energia, telecomunicazioni, privacy, ecc.), finisce poi per favorire i rapporti tra controllore e controllato. Ne consegue un ordine legale opaco, viziato da ogni genere di lobbismo e dall’azione delle clientele organizzate. Quando da più parti si parla di un processso di “feudalizzazione” della società, è anche a questo che ci si riferisce. Per giunta le authority sono istituzioni assai curiose. Come tra gli altri non si stanca di sottolineare Alessandro De Nicola (presidente dell’Adam Smith Society), le autorità di controllo sono strutture giuridiche bizzarre, che paiono perfino ignare di tanti secoli di civiltà giuridica. Come egli ha scritto in un recente articolo, «le autorità assommano la funzione di pubblico ministero, giudice e legislatore attraverso la creazione di legislazione secondaria». Per giunta, in realtà sono apparati burocratici (sostanzialmente, di nomina partitica) che per più di un motivo tendono troppo spesso a far prevalere
sul rischio dell’aumento delle tariffe, secondo Fitto si tratta di «una polemica strumentale e priva di contenuti perché arriva da chi ha provato a fare negli anni scorsi la stessa cosa senza riuscirci. La critica principale che mi sento di respingere è quella collegata al rischio di un aumento delle tariffe, alla mancanza di gestione di regole nel settore. Basta vedere la differente situazione oggi esistente tra le tariffe nel nostro Paese fra Regioni e Regioni, fra territori e territori per comprendere come il rischio a cui si fa riferimento è la fotografia attuale e non certo quello derivante da una riforma seria che punta a creare in settori fondamentali per il cittadino un sistema di sana competizione, che consentirà sia al pubblico, laddove efficiente, che al privato, di poter partecipare per migliorare la qualità dei servizi».
le logiche populiste sulle ragioni del diritto. Anche se in molti casi dell’azione di un’autorità non si sente affatto l’esigenza e di fronte a molte di tali realtà la cosa più saggia consisterebbe nella semplice liquidazione dell’intera struttura, vi sono comunque casi in cui una loro azione è necessaria. Questa parzialissima “liberalizzazione” (molto tra virgolette) dell’acqua esige certo qualcuno che agisca da garante, dal momento che non abbiamo una concorrenza“di”mercato (con varie imprese che competono dinanzi agli stessi consumatori), ma invece quella che viene chiamata una competizione “per”il mercato: un sistema di gare grazie alle quali ottenere la gestione di un monopolio.
In tale situazione, un soggetto che vigili sul rispetto degli impegni assunti è indispensabile. Ma che per ottenere questo risultato si debba procede alla moltiplicazione degli enti è tutto da dimostrare. Come ebbe a scrivere Guglielmo da Ockham, “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” (non bisogna moltiplicare gli enti più del necessario). Probabilente questo vale anche quando si parla di acqua, reti idriche e fognature.
diario
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L’ennesima trovata di Buonanno, il sindaco leghista di Varallo
«Un problema anche culturale di dimensioni mondiali»
Cartelli “stradali” in arabo per vietare burqa e niqab
Violenze sulle donne, Napolitano lancia l’allarme
ROMA. Cartelli, tradotti anche
ROMA. «Molto resta da fare in
in arabo, che vietano su tutto il territorio comunale di Varallo, nel vercellese, l’uso del burqa e del niqab perché impediscono o rendono difficoltoso il riconoscimento della persona. È l’ultima trovata del sindaco del paese Gianluca Buonanno, deputato della Lega Nord. «Nella nostra città viviamo bene - ha spiegato ieri Buonanno all’agenzia di stampa Adnkronos siamo cittadini ordinati e a posto e vogliamo mantenere questo trend. Questi cartelloni sono tesi sia a difendere gli extracomunitari presenti sia a far capire quali sono le regole». E oltre ai cartelli che dicono “no” al burqa e al niqab ci sono quelli che ricordano il divieto di attività a “vu’ cumprà” e mendicanti.
Proposta di legge di Giuliano Cazzola e Tiziano Treu
Buonanno lancia anche l’idea
di Francesco Pacifico
ogni parte del mondo per sradicare una concezione della donna come oggetto di cui ci si può anche appropriare»: è l’appello lanciato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio diffuso in occasione della Giornata internazionale contro la violenza alle donne. «La Giornata internazionale contro la violenza alle donne deve rappresentare – ha aggiunto Napolitano - un’occasione per riflettere su un fenomeno purtroppo ancora drammaticamente attuale, individuando gli strumenti idonei a combatterlo in quanto coinvolge tutti i paesi e rappresenta una vera emergenza su scala mondiale. La conferenza su questo tema tenuta a Roma in occasione del G8 ha fornito dati che – ha ricordato il capo dello Stato valutano in più di 140 milioni le donne vittime di violenze di ogni tipo. Matrimoni forzati che coinvolgono anche bambine, mutilazioni genitali, stupri generalizzati in contesti di guerra non devono apparirci lontani e a noi estranei. Il dolore di quelle donne, di quelle bambine riguarda tutti noi, anche perché la barbarie della violenza contro le donne non è stata estirpata neppure nei paesi economicamente e culturalmente avanzati».
di un «contratto», in inglese e arabo, da sottoporre agli extracomunitari residenti perché si impegnino a rispettare le regole, le leggi, la tradizione e la cultura di Varallo: solo se lo firmeranno potranno ricevere aiuti comunali, in caso contrario niente sussidi. Come spiega il sindaco, l’iniziativa è allo studio e potrebbe essere messa a punto già la prossima settimana. «Chiediamo agli extracomunitari residenti di firmare questo “contratto” che, solo se accettano il nostro modo di vivere e le nostre regole, gli darà diritto ad aiuti», spiega Buonanno. Al centro di questo “patto” la legalità, il rispetto delle leggi, della tradizione e della cultura, del modo di vivere locale ma anche del Crocifisso nelle aule. Secondo il sindaco leghista, si tratta di una strada «per integrare ancora meglio. Noi in sette anni abbiamo aiutato oltre 500 extracomunitari. Qui il 5 per cento degli immigrati assorbe il 50 per cento degli aiuti comunali per buoni mensa, scuolabus o per pagare il metano. La vera integrazione è dove cerchi di dare una mano, ma se vengono troppi extracomunitari salta il meccanismo».
Asse bipartisan per dare la pensione ai precari ROMA. Il progetto di Giuliano Cazzola e Tiziano Treu è a dir poco ambizioso: garantire una pensione ai precari. Gli stessi che, attraverso salatissime aliquote, hanno messo in sicurezza i conti dell’Inps. E quindi dato un equilibrio alla previdenza italiana. Con spirito bipartisan l’ex segretario confederale della Cgil e l’ex ministro del Lavoro – oggi rispettivamente senatore del Pdl e deputato del Pd – si accingono a presentare un disegno di legge per introdurre quello che si potrebbe definire a tutti gli effetti “un minimo pensionistico”, destinato a chi vedrà calcolata la pensione secondo il sistema contributivo.
Lo schema di partenza è quello dell’integrazione al minimo. Spiega Cazzola: «Nel sistema retributivo questa viene garantita a chi non arriva a circa 500 euro di pensione. Nel contributivo non c’è nessuna misura di questo tipo. La nostra idea è quella di garantire una migliore tutela ai giovani che hanno rapporti di lavoro saltuari e buchi contributivi attraverso una pensione base finanziata dal fisco, d’importo uguale all’assegno sociale». Di conseguenza, una cifra quindi vicina ai 400 euro. Se il disegno di legge sarà approvato, questa agevolazione dovrebbe scattare per chi entra nel mondo del lavoro (e iscrive a una gestione previdenziale) nel 2011. Per chi invece ha iniziato la sua attività dopo il 1996, ed è soggetto al sistema contributivo, è prevista a fine carriera una maggiorazione del 20 per cento del montante contributivo. «Altra novità», aggiunge Cazzola, «sarà parificare per tutti i lavoratori (subordinati, parasubordinati e autonomi) l’aliquota contributiva, portandola al 28 per cento». Oggi invece oscilla tra il 33 e il 20. Questo progetto ricalca una proposta fatta negli anni scorsi dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Il quale in diverse occasione ha ammesso che le pensioni dei precari siano un’emergenza di portata biblica. «L’aumento dei contributi sui co.co.co», ha dichiarato 48 ore fa dopo la diffusione dell’ulti-
mo bilancio Inps, «è stata una cinica operazione per finanziare l’anticipo della pensione». Indipendentemente da una carriera lavorativa passata come subordinato o trascorsa quasi interamente nei ranghi del precariato, è stato calcolato che i futuri coefficienti garantiranno assegni molto bassi. Pur raggiungendo i 40 anni di contribuzione il tasso di sostituzione non raggiungerebbe neanche il 60 per cento. Va da sé che un precario, con entrare minori e meno stabili di un dipendente, difficilmente raggiungerà un monte contributi accettabile. E che in ogni caso la differenza tra l’ultimo stipendio e l’assegno di quiescenza sarebbe di quasi la metà. Una cifra che si potrà integrare soltanto con la previdenza integrativa. Al riguardo spiega Cazzola: «Quella della gestione separata sono pensioni supplementari, erogati nella grandissima parte a lavoratori in qualità di collaboratori». La prova che il conto pagato dai parasubordinati è più salato del dovuto sta tutta nell’ultimo bilancio di previsione dell’Inps, quello approvato 48 ore fa dal Consiglio di indirizzo e di vigilanza. Nel documento si stima un avanzo finanziario anche nel 2010, anche se inferiore a quello registrato nel 2009: 4.145 milioni di euro contro i 7.961 nel bilancio di assestamento. Tra dodici mesi, tra l’altro, sono previste entrate complessive per 279.409 milioni (+1 per cento sul 2009) e uscite per 275.264 milioni di euro (+2,4 per cento rispetto all’assestato 2009).
L’idea è di allargare l’integrazione al minimo a chi è soggetto al contributivo. Nel 2009 i conti Inps salvati dai co.pro.co
A dare un differenziale positivo sono proprio i contributi pagati co.pro.co. Il fondo parasubordinati – quello destinato a collaboratori, amministratori, associati in partecipazione, venditori a domicilio, titolari di borsa di studio – nel 2010 vedrà salire il proprio attivo da 8 miliardi a 8,3 miliardi di euro. Una crescita che, complice la crisi e i suoi impatti sull’occupazione, non si registrerà nelle altre gestioni. Quasi tutte in perdita. Ma salvate dai precari, che sono 1,6 milioni sui 18,7 lavoratori iscritti all’Inps. Neanche un decimo del totale.
Anche in l’Italia purtroppo si contano innumerevoli episodi di violenza contro le donne: «È triste dover ricordare – ha detto ancora Napolitano - che anche in Italia, nonostante la recente introduzione di norme opportunamente più severe, i casi di violenza, i soprusi e le intimidazioni sono in aumento. Ai necessari interventi di tipo repressivo, da esercitare con rigore e senza indulgenza, si debbono affiancare – ha concluso il presidente - azioni concrete per diffondere, in primo luogo nella scuola e nella società civile, una concezione della donna che rispetti la sua dignità di persona».
mondo
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Clima. Il leader Usa parteciperà (con Berlusconi) al vertice di Copenhagen dopo aver ritirato il Nobel per la pace a Oslo
Obama: «Taglio il Co2» Il presidente americano fissa gli obiettivi: «Meno 17% per il 2020 e il 42% per il 2030» di Vincenzo Faccioli Pintozzi lla fine, Barack Obama ha deciso: parteciperà alla controversa Conferenza internazionale sui mutamenti climatici prevista per il prossimo 7 dicembre a Copenhagen. E porterà con sé una proposta ambiziosa e quasi irrealizzabile: il taglio del 17 per cento delle emissioni di carbonio entro il 2020 e addirittura del 42 per cento entro il 2030. Tutto questo a pochi giorni dagli attacchi alla stessa Conferenza sferrati proprio dal presidente americano, coadiuvato dal suo omologo cinese, nel corso della visita ufficiale in Cina. Il leader democratico sarà dunque nella capitale danese, ma vi arriverà da Oslo, dove è atteso per ritirare il Premio Nobel per la Pace. Quindi la sua presenza è prevista per il 9 dicembre, un giorno dopo l’inizio ufficiale dei lavori. Secondo la Casa Bianca, il presidente partecipa all’incontro organizzato dalle Nazioni Unite «per aiutare i partecipanti a raggiungere degli scopi concreti contro l’inquinamento».
A
Eppure, parole di Obama e Hu Jintao, «è impossibile trovare un accordo politico e vincolante sulla questione». Dunque una visita che si preannunciava come di facciata è divenuta in corso d’opera in un certo senso sostanziale. D’altra parte, l’amministrazione statunitense ha più volte sottolineato nel corso delle ultime settimane che la presenza di Obama era condizionata «dalla
possibilità di raggiungere qualche scopo utile». E i funzionari della Casa Bianca hanno spiegato con dovizia di particolari che di questi scopi utili «il presidente si è convinto dopo i colloqui con i leader di Cina e India, avvenuti negli scorsi giorni». Le due nazioni asiatiche sono senza ombra di dubbio le tigri dello sviluppo industriale mondiale. Ma, al contempo, sono anche fra le più inquinanti: le giustificazioni addotte da Delhi e Pechino per il loro rifiuto di accettare riduzioni alle emissioni sta nella loro qualifica di “Paesi in via di sviluppo”. Perché, si chiedono indiani e cinesi, «dobbiamo essere noi, appena arrivati sulla scena mondiale, a pagare per i danni compiuti dalle nazioni industrializzate da secoli?». In pratica, che senso ha mettere sullo stesso piano chi cerca di emergere e chi è già ben stabile sui mercati? Una posizione che, senza troppe sorprese, aveva trovato nel tempo a Washington un alleato stabile. Per quanto si ricordi con perseveranza che fu Bush junior a rifiutare con costanza di affrontare l’argomento, si tende a sottostimare le posizioni del precedente democratico alla Casa Bianca. Quel Bill Clinton che, davanti al Protocollo di Kyoto del 1997, decise di non presentarlo nemmeno davanti al Congresso degli Stati Uniti. Sapeva bene, senza bisogno di conferme, che sarebbe stato bocciato appena avesse toccato il tavolo dei deputati americani. E questo perché l’economia interna degli Stati Uniti deve al carbone - e alle sue esportazioni - una buona fetta del suo Prodotto interno lordo. Almeno cinque degli Sta-
La decisione della Casa Bianca contrasta con le dichiarazioni fatte nella visita presidenziale a Pechino di una settimana fa: «Non c’è tempo per un accordo vincolante su un tema così delicato» ti più economicamente saldi degli Usa devono la loro fortuna all’oro nero e, più in generale, alle fonti energetiche. I tagli proposti da Obama faranno saltare il battito cardiaco a più di un governatore. Eppure, sostengono i consiglieri presidenziali, il leader americano «è ottimista. Con la sua presenza, a Copenhagen si potranno raggiungere dei risultati sostanziali per bloccare il cambiamento climatico. Anche se questo non sarà, con ogni probabilità, legalmente vincolante». Attenzione a quest’ultimo inciso, che non è una precisazione da giuristi ma con ogni probabilità il vero nocciolo della questione.
Se si arriva a un summit internazionale con una proposta così ambiziosa, si dovrebbe quanto meno pensare di poterla poi tramutare in realtà. Invece, soprattutto se si rappresentano gli Stati Uniti, una riduzione di questo tipo è quanto meno irraggiungibile.
Le lobby ambientaliste americane e internazionali hanno pressato Obama da tempo: la sua partecipazione al summit garantirà almeno visibilità all’evento, che ha bisogno di tutta la pubblicità possibile per poter almeno fare rumore. Quindi, il dubbio è lecito, ci troviamo di fronte ad una opera-
mondo zione di marketing. L’inquilino della Casa Bianca sa di non poter fare quasi nulla per l’ambiente, ma non vuole perdere l’appoggio di una parte considerevole dell’opinione pubblica che - da anni - dimostra di preferire l’utopia al realismo. Sedersi al tavolo con la proposta più grossa darà all’amministrazione americana una cassa di risonanze di enormi proporzioni, amplificata ancora di più da quel Nobel per la Pace ancora fresco di consegna. Poi, firmate tutte le carte possibili, si tornerà a casa allargando le braccia: «Purtroppo, non possiamo fare altro». Senza contare poi che sul meeting di Copenhagen pesa come un macigno lo scandalo recentemente esploso che riguarda il Centro incaricato di
zione alla mancanza di riscaldamento ed è una finzione che non possiamo permetterci», scriveva poco più di un mese fa Kevin Trenberth, del National Center for Atmospheric Research di Boulder in Colorado, in una discussione sulle recenti variazioni atipiche della temperatura. Ancora, nel 1999, Phil Jones, ricercatore della Climate Unit a East Anglia, ammetteva in un messaggio al collega Michael Mann, della Pennsylvania State University, di aver usato un «trick», un accorgimento per «nascondere il declino» registrato in alcune serie di temperature dal 1981 in poi. Mann ha cercato di sminuire il significato del termine «trick», spiegando che è parola spesso usata dagli scienziati per rife-
Gli analisti internazionali puntano il dito sull’influenza positiva di Singh, primo ministro indiano. Che però non ha alcuna intenzione di ridurre l’inquinamento prodotto dalle sue fabbriche fornire i dati grezzi sul global warming. Un hacker è riuscito a rubare le e-mail dei dirigenti scientifici del Centro e le ha pubblicate: una serie infinita di trucchetti, manovre di depistaggio e imbrogli che puntavano a manipolare i dati con cui sostenere che il globo terracqueo si sta riscaldando. «Il fatto è che in questo momento non possiamo dare una spiega-
rirsi a «un buon modo di risolvere un determinato problema» e non indica una manipolazione. Nel caso specifico, erano in discussione due serie di dati, una che mostrava gli effetti delle variazioni di temperatura sui cerchi dei tronchi degli alberi, l’altra che considerava l’andamento delle temperature atmosferiche negli ultimi 100 anni. Nel caso dei cerchi degli alberi,
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l’aumento della temperatura non è più dimostrato dal 1960 in poi, mentre i termometri hanno continuato a farlo fino a oggi. Mann ha ammesso che i dati degli alberi non sono stati più impiegati per individuare la variazioni, ma che «questo non è mai stato un segreto».
Per tornare al vertice di Copenhagen, per l’Italia sarà presente il premier Silvio Berlusconi. Il ministro dell’Ambiente della penisola, Stefania Prestigiacomo, ha detto nel corso di un’audizione in Commissione Ambiente: «Ritengo che il presidente del Consiglio sarà presente a Copenaghen. La presenza dei capi di Stato è prevista per il 16 dicembre, e questo significa che il negoziato si deve concludere prima di quella data». Il ministro si è poi detto «molto fiduciosa, perché ci potrà essere un risultato importante anche con un accordo in due tempi». L’Italia, osserva Prestigiacomo, «farà il suo ruolo ma non accetterà un protocollo di Kyoto 2, con alcuni Paesi vincolati legalmente e altri soltanto politicamente». Che però sembra essere proprio il risultato sperato da Washington: una nuova utopia con cui salvare capra e cavoli. Almeno in questo caso, Pechino sembrerà più onesta.
Le dichiarazioni di Washington saranno anche propaganda, ma si scontrano con l’assordante silenzio del Vecchio Continente
Parole, non fatti. E l’Ue resta a guardare di Osvaldo Baldacci fatti dopo le parole? Forse dopo un anno di presidenza e due di promesse il presidente statunitense Barack Obama potrebbe mettere in pista dei fatti concreti in materia di clima per sostanziare la sua leadership. E con abilità mette in ombra un’Europa che stavolta si mostra più retorica e meno concreta del leader americano. Certo, un marchio dello stile obamiano non manca neppure nell’ultimo colpo di scena del presidente più bravo a farsi amare. Obama aveva cominciato la sua avventura alla Casa Bianca puntando moltissimo sull’economia verde anche come volano contro la crisi oltre che contro i cambiamenti climatici. Poi aveva un po’ trascurato il tema e anzi aveva dato l’idea di tradire le aspettative sulle sue promesse verdi. Negli ultimi giorni aveva lasciato che si desse ormai per fallito il vertice mondiale di Copenhaghen sulla lotta ai cambiamenti climatici. Mostrando così ancora una volta la marginalità delle decisione europee. Ieri all’improvviso il colpo di scena: l’annuncio della presenza di Obama al vertice Onu, e soprattutto quello di una proposta concreta da parte dell’Amministazione di Washington. Un taglio delle emissioni del 17% sotto i livelli del 2005 entro il
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2020, del 30% entro il 2025, del 42% entro il 2030 e dell’83% delle emissioni entro il 2050, sempre rispetto al 2005. A guardar bene non è moltissimo, rispetto alle roboanti richieste europee, anche perché era il più basso livello del 1990 quello che la comunità internazionale usava come riferimento. Ma si nota ancora una volta il tocco comunicativo della squadra di Obama: di fronte alla certezza del fallimento del vertice di Copenhagen che aleggiava fino a ieri mattina, la proposta concreta e fattibile che Obama porterà in Danimarca sa di tisana miracolosa, qualcosa che
davanti a sé anni di governo, e quindi sarà responsabile di qualsiasi impegno preso. Gli annunci di Obama hanno preso di sorpresa l’Europa, che subito si è allineata, nella speranza di raccogliere alcune briciole da presentare ai suoi cittadini dopo la grancassa suonata in questi anni e lo spettro di un fallimento. Ieri il negoziatore dell’OnuYvo de Boer ha affermato che fissare gli obiettivi di riduzione delle emissioni nocive da raggiungere entro il 2020 sarebbe il risultato principale della conferenza in programma dal 7 al 18 dicembre. De Boer ha omesso di specificare quali obiettivi di riduzione, lasciando capire che qualsiasi impegno è meglio di nessun impegno. Ci sono poi i fondi da stanziare per rendere effettive le strategie di contrasto ai mutamenti climatici: anche in tema di cifre tutti schiamazzano ma nessuno vuol mettere mano al portafoglio. Sempre ieri il progetto Peseta del Centro comune di ricerca ha presentato un rapporto europeo sui costi del riscaldamento globale per i Paesi Ue: se nel 2080 ci sarà lo stesso trend climatico di oggi, il prodotto interno lordo della Ue subirebbe riduzioni annue tra i 20 e i 65 miliardi di euro, a seconda che l’aumento della temperatura oscilli tra i 2,5 e i 5,4 gradi.
La Russia si è impegnata a un taglio delle emissioni del 25 per cento; il Brasile, quarto inquinatore mondiale, ha annunciato un taglio del 40. Da Bruxelles nessuna notizia non solo verrà ingoiata di malavoglia, ma anzi sarà presentata come un grande successo. E d’altro canto non si può negare che ci siano elementi davvero importanti nella decisione della Casa Bianca. Primo fra tutti la stessa adesione degli Stati Uniti a un accordo internazionale sulla lotta ai cambiamenti climatici. Negli anni di Bush Washington se ne era sempre tenuta fuori, e se Clinton aveva sottoscritto Kyoto era solo per un fatto di immagine, avendo messo la firma nella notte in cui lasciava la presidenza. Obama invece ha
Un buon motivo di preoccupazione per l’Europa, e anche una spinta a stanziare fondi che quindi non sarebbero persi. Ma il Vecchio Continente deve arrendersi davanti ai fatti: qualunque sua affermazione è poco sostanziata senza il contributo degli altri grandi Paesi del mondo. La Russia si è impegnata a un taglio del 25%, e non è male; il Brasile, considerato quarto inquinatore mondiale, in collaborazione con la Francia ha annunciato un taglio del 40% delle emissioni al 2020 con un grande sforzo di lotta alla deforestazione; Sudafrica, Messico, Corea e altri Paesi in pieno sviluppo non vogliono vedere tarparsi le ali e accusano proprio l’Europa delle maggiori responsabilità, e propongono una soluzione che non piace ai Paesi industrializzati, cioè il taglio di CO2 in rapporto alla popolazione. Dall’India nessuna notizia. Dalla Cina invece notizie cattive, ma anche qualche speranza: Pechino ha ribadito il suo no a “dichiarazioni prive di contenuti”, nonché a sacrifici che non vuole pagare. Ma la speranza è che la proposta di Obama abbia tenuto conto del viaggio asiatico. Anche allora le prime notizie in vista di Copenhagen erano pessime, tali da preparare la strada a un sospiro di sollievo per il poco di positivo effettivamente poi messo sul piatto. Forse Obama a Copenhagen riuscirà a tenere dentro la Cina. L’Europa, ben che vada, si accoda.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Più tasse per tutti Se il governo cambia slogan ul tema delle tasse il governo è diviso. Giulio Tremonti è a capo del partito del rimando: le tasse potranno scendere solo al termine della legislatura. Claudio Scajola è a capo del partito dell’ora e qui: le tasse vanno tagliate ora. Hanno ragione entrambi e, di conseguenza, torto entrambi. Intanto noi - come il classico Totò di 47 morto che parla che dice al suo cameriere tuttofare Carlo Croccolo «e io pago, e io pago» - paghiamo. Entro il 30 novembre bisogna versare il solito acconto sulle tasse del prossimo anno. Non abbiamo ancora fatto in tempo a riprenderci dal salasso fiscale delle tasse 2008 che già sono in arrivo le tasse 2009. Anzi, bisogna versare in anticipo poi, dopo, se ci dovessero essere cambiamenti nei nostri guadagni e ricavi si procederà ad un riequilibrio tra entrate e uscite. Intanto si versa.
S
Tremonti ha le sue ragioni. Lo sappiamo tutti. Anche i suoi stessi avversari politici, sia esterni sia interni alla maggioranza e al governo (anzi, da questo punto di vista i veri avversari del ministro dell’Economia sono quelli interni). I conti pubblici italiani sono sempre sul chi va là e basta un nonnulla per non far quadrare il bilancio. Tremonti è uno specialista del settore e per quanto sia stato accusato di “finanza creativa” è comunque un buon ministro dell’Economia. Dunque, niente riforma fiscale? Anche Scajola ha le sue ragioni. E non perché interpreti le istanze e le necessità delle imprese, ma semplicemente perché il peso fiscale che grava su tutti gli italiani - tutti, non solo imprenditori, autonomi e operai, ma proprio tutti - è eccessivo e prima o poi, a furia di caricare, il gambe del ciuccio si piegheranno e la povera bestia - noi - ci rimarrà sotto. Del resto, anche Tremonti, che ora subisce un po’ il fascino di Quintino Sella e mira a stabilizzare la politica di bilancio, è stato fino a qualche tempo fa un fautore del taglio delle tasse. Anzi, diciamola tutta. Proprio Tremonti è stato il principale artefice del «meno tasse per tutti» che è da sempre, senza mai essere realizzato, il tema vincente del Pdl e della Lega. Perché, allora, le tasse non calano mai e, anzi, crescono? Le ragioni e i torti dei due ministri non possono essere la vera causa delle riforma fiscale del governo: sia che si faccia sia che non si faccia. La decisione della riforma fiscale, con il conseguente taglio consistente delle tasse e il respiro degli italiani, compete direttamente la presidenza del Consiglio. Se Tremonti ha le sue ragioni e i suoi torti, se Scajola ha le sue ragioni e i suoi torti, è invece Silvio Berlusconi ad avere solo torti. Certo, dipendesse unicamente dalla sua volontà abbasserebbe subito le tasse. Ma, di grazia, se non dipende dal suo volere, da chi mai deve dipendere una decisione del genere? È evidente: il tema fiscale - «meno tasse per tutti» - è stato tolto dall’agenda di governo. Ogni tanto ritorna a galla sulla scia di questa o quella polemica o perché qualcuno avanza la proposta per venire incontro ai propri elettori. Ma il tema autentico, ossia la riforma fiscale non a fini clientelari, è semplicemente sparito.
La nuova segreteria? L’Opa di D’Alema sul Pd Tra i ”giovani” di Bersani, molti fedelissimi dell’ex premier di Andrea Ottieri
ROMA. Quello che colpisce del nuovo corso bersaniano del Pd è la fatica a definire assetti e responsabilità interne a più di un mese dall’elezione del neo segretario. È vero che la gestione plurale è una complicazione ulteriore nella composizione dell’organigramma di un partito. Quando si sceglie il manuale Cancelli ci si complica sempre la vita. Ancor più se il partito in questione è il Pd, che viene da una gestione passata decisamente poco brillante. Eppure l’idea del governo ombra, realizzata nel peggiore dei modi possibili da Veltroni, dava una qualche indicazione nella direzione interna del partito. C’erano i ministri ombra, che erano anche i capi dei dipartimenti, da cui discendeva tutta l’articolazione interna. Poi Veltroni non ebbe la forza di imporre ai gruppi parlamentari la collaborazione col gabinetto ombra e appesantì il tutto, in corso d’opera, con la riedizione del democristiano caminetto. Si sa come è finita. Ma visto il modo in cui Veltroni aveva diretto i Ds, nessuno ha mostrato neppure un accenno di sorpresa.
forum sulla finanza privata Matteo Colaninno e quello della finanza pubblica Enrico Morando. Un’esplosione di incarichi che certo non aiuta, soprattutto in una fase difficile per la maggioranza di governo, in cui un Pd all’attacco sui temi dell’economia potrebbe ottenere più di un risultato.
La stessa segreteria non si incarica di dare un contributo in tal senso. I dodici nomi selezionati, sempre col bilancino un po’ ossessivo delle componenti interne, dicono già tutto di come funzionerà la macchina al Nazareno. Col coordinatore dalemiano Maurizio Migliavacca (già coordinatore di segreteria nei Ds) faranno blocco Matteo Orfini (collaboratore di D’Alema), Fassina (vedi alla voce Visco) e Nico Stumpo, uno dei più solidi quadri dei Ds, da sempre in coppia con Migliavacca e responsabile organizzazione della mozione Bersani. Si tratta di quattro nomi che presidieranno il Nazareno con una capacità di tenuta da vecchia scuola comunista. Pretoriani veri, non come quelli a dir poco inadeguati che hanno difeso con clamoroso insuccesso le due ultime segreterie. Gli altri nomi faranno da decoro. Anche quando sono di valore, come quello del capogruppo Pd nel Consiglio provinciale meneghino, il penatiano Matteo Mauri. È evidente che continuerà a fare il suo mestiere a Milano e scenderà a Roma per le riunioni di segreteria quando i suoi impegni istituzionali glielo permetteranno. La scelta più incomprensibile e a tratti ridicola è, però, quella della mozione Franceschini che in segreteria ha scelto di contrapporre al blocco da peso massimo dalemiano tre pesi piuma. La fassiniana consigliera comunale Francesca Pugliesi legatissima alla senatrice Serafini, moglie dell’ex segretario dei Ds; la veltroniana Stella Bianchi, intelligente donna staff di Veltroni prima al Campidoglio poi al Nazareno; la popolare Anna Maria Parente, cislina dai contorni evanescenti. Tre donne che in vita loro non hanno mai diretto nulla e che non sono in grado di contrastare il blocco dalemiano della segreteria bersaniana. Dimostrazione lampante che l’Area Democratica di Franceschini non esiste e non ha alcuna intenzione futura di cominciare ad esistere.
Il nuovo organigramma dimostra chiaramente che l’«area» di Dario Franceschini non esiste e non ha alcuna intenzione di nascere
Stupisce, invece, che l’efficientismo emiliano di Bersani stia facendo addirittura peggio. I luoghi di decisione del partito da due sono diventati tre: i vecchi ministri ombra (già cancellati da Franceschini) sono evoluti nei nuovi capi dei dipartimenti, rinominati forum con un colpo di vernice a buon mercato; a questi responsabili d’area si giustappongono poi i dodici membri della segreteria, i quali grosso modo bisseranno le competenze dei primi; infine, Bersani nominerà il suo caminetto, ribattezzato ufficio politico, che avrà dentro i leader veri del Pd e finirà per essere l’unico organismo a contare qualcosa. Intanto le caselle interne si moltiplicano senza senso, suscitando non pochi dubbi su questa rinnovata gestione del partito. Un esempio significativo. Prima di diventare segretario del Pd, Bersani era il suo responsabile dell’Economia (con Veltroni era il ministro ombra). Oggi che è segretario, è difficile capire chi è il contro canto di Tremonti. In segreteria di economia si occuperà Stefano Fassina, il delfino di Vincenzo Visco. Ma a lui va aggiunto il capo del forum economico, professore di economia politica alla Sapienza, Paolo Guerrieri; qundi quello del
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Come uscire dalle bugie e dalle contraddizioni del XX secolo
LIBERTÀ & BENE COMUNE
Il benessere della persona e l’equilibrio sociale: il segreto delle democrazie è farle andare d’accordo. Una teoria per riuscirci di Michael Novak segue dalla prima obbiamo pertanto concludere che la giustizia sociale costituisca semplicemente un sinonimo del far emergere lo splendore delle Beatitudini? Ed ancora, una volta udii un giovane docente all’Università Cattolica di Ruzomberok, in Slovacchia, affermare che egli intendeva la giustizia sociale più come «un’ideale disposizione della società, in cui la giustizia e la carità si manifestano nella loro pienezza. Fino a quel momento, non potremo dire di aver realizzato la giustizia sociale». Ciò sembra indicare che la giustizia sociale sia un’ideale sociale attraverso cui si misura la realtà, e verso il quale si tende progressivamente al fine di migliorare la società.
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Karol Wojtyla da ragazzo: il pensiero “personalista” di Giovanni Paolo II è uno dei principali riferimenti culturali del saggio di Michael Novak
Il socialista statunitense Irvring Howe una volta scrisse che «Socialismo è il nome del nostro sogno». Egli anelava ad un sogno di giustizia, di eguaglianza e (per lui) di democrazia. È giustizia sociale anche il nome di un sogno, ma non precisamente di quello socialista? A quale genus appartiene la giustizia sociale? È essa una virtù? È una visione di una società perfettamente giusta? È un orizzonte ideale per le politiche governative? È una teoria? Una pratica? La giustizia sociale rappresenta forse un concetto laico, non religioso? Molti sociologi laici e filosofi politici declinano tale concetto in quest’ottica, tentando di legarlo il più strettamente possibile al concetto di uguaglianza (nell’accezione francese di égalité = l’eguale segno). O è forse giustizia sociale un termine religioso, di ispirazione evangelica? Chi fu il primo scrittore ad utilizzare il termine
“giustizia sociale”? In quale contesto scriveva? Quale crisi sociale aveva di fronte ai propri occhi? La giustizia sociale si è per caso tramutata in un’etichetta ideologica, la quale ha favorito (nel contesto americano) i progressisti sui conservatori, i Democratici sui Repubblicani, gli operatori del sociale rispetto ai dirigenti aziendali?
Uno studioso afferma che il primo scrittore ad utilizzare il termine sia stato, nel 1883, un religioso italiano,Taparelli D’Azeglio, nel suo libro dal titolo Diritti Naturali da un punto di vista storico. È qui che Leone XIII (1878-1903) lo incontrò per la prima volta. Il contesto descriveva una tra le più imponenti trasformazioni sociali della storia umana: la fine dell’era agraria, la quale aveva avuto inizio ben prima dell’avvento di Cristo, e l’ingresso quantomeno brusco nell’età delle invenzioni, degli investimenti, della crescita degli agglomerati urbani, della produzione e dei servizi. Le famiglie non godettero più di un tetto sopra le loro teste ereditato dagli antenati e di cibo fornito dalla terra quotidianamente coltivata. Tutto ciò fu sradicato, ed i nuclei famigliari furono costretti a fare affidamento su alloggi cittadini, sulla disponibilità di lavoro e sull’iniziativa personale. I tradizionali tessuti sociali furono fatti a pezzi. Le associazioni di un tempo furono consegnate alla storia. Inoltre, nel corso di quel periodo cominciarono ad essere propagandati due ideali sociali completamente antitetici; da un lato, il socialismo di Marx ed i suoi affini, dall’altro l’individualismo radicale di pensatori quali Bentham e Mill. Nel complesso, il Continente si avvicinò al primo e si allontanò dal secondo.
A quale “genus” appartiene la giustizia sociale? È una virtù, una visione oppure un’ipotesi?
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ella sua Rerum Novarum (1891), Sua Santità Leone XIII espresse la propria volontà di tendere ad entrambi gli obiettivi. Papa Leone comprese che la nuova epoca richiedeva risposte altrettanto nuove. Il vecchio ordine sociale stava rapidamente svanendo per lasciare spazio ad un ordine nuovo, ma non era ancora chiaro quale forma esso avrebbe assunto. Il Santo Padre affermò che, dato che la famiglia aveva da sempre costituito l’istituzione privilegiata e maggiormente intima attraverso cui tramandare la fede, le nuove fratture e sollecitazioni all’interno del nucleo famigliare obbligavano la Chiesa a prendere posizione al fine di plasmare il futuro. Leone XIII osservava come nuove istituzioni e nuove virtù per gli individui sarebbero state necessarie nella nuova epoca. Egli temeva lo Stato Socialista (per ragioni specifiche che indicò con precisione), e temeva altresì l’individualismo radicale che, a suo dire, avrebbe condotto l’individuo indifeso sotto la custodia dello Stato.
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È altamente istruttivo rileggere la Rerum Novarum alla luce degli eventi del 1989 e del loro XX anniversario. Nel 1991, questi erano sicuramente ancora freschi nella mente di Papa Giovanni Paolo II, mentre ribadiva avvertimenti vecchi di un secolo circa un crescente Stato Socialista: «Secondo la Rerum Novarum e l’intera dottrina sociale della Chiesa, la natura sociale dell’uomo non si realizza completamente nello Stato, bensì si sublima in varie aggregazioni intermedie, a cominciare dalla famiglia, per poi sfociare in gruppi economici, sociali, politici e culturali che affondano le proprie radici nella stessa natura umana e godono di propria autonomia, con in mente sempre il bene comune. Ciò è quanto ho definito come “soggettività” della società la quale, assieme alla soggettività dell’individuo, venne cancellata dal Socialismo Reale (Centesimus Annus, 13)». Come sarà capitato anche a molti di voi, so, per via dell’esperienza vissuta dalla mia famiglia nel corso delle ultime quattro generazioni, quanto incisive siano state le grandi trasformazioni. La maggior parte dei testi gospel si fondano su metafore del mondo preindustriale - sementi, raccolti, cereali, pecore, terre, alberi da frutto - e riecheggiano l’ordine economico di buona parte della storia umana sino al secolo scorso. La mia famiglia lavorava come servitù nella grande tenuta del Conte ungherese Czaky, il cui antenato respinse eroicamente i turchi da Budapest nel 1456. Essi erano stati soggetti alla dominazione dell’Impero austro-ungarico e, a quanto so, sino agli anni ’20 del XX secolo non furono in grado di possedere un proprio appezzamento di terra. Per motivi di tassazione, il bestiame, le pecore, le capre ed altri capi venivano conteggiati annualmente assieme agli uomini, alle donne ed ai bambini. Ai miei antenati venne insegnato ad accettare la propria sorte. I loro doveri morali erano abbastanza semplici: «pregare, pregare e obbedire». Ciò che facevano e ciò che guadagnavano era determinato in buona misura dall’alto.
Quando i sudditi diventarono cittadini In America i miei antenati conobbero la libertà, ma anche la responsabilità partire dal 1880, quasi due milioni di persone provenienti dalle province orientali della Slovacchia iniziarono ad emigrare verso gli Stati Uniti (o verso molti altri luoghi), uno dopo l’altro, lungo catene di collegamento con famiglie e con gli abitanti del proprio villaggio. Le aziende agricole non erano più in grado di sostenere l’aumento della popolazione. Di solito i figli erano i primi a partire; in seguito sarebbero tornati a prendere le mogli. Quella rappresentò una delle più grandi - e più insolite - migrazioni di massa nella storia; una migrazione non di intere tribù, bensì di individui.
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In aggiunta, in America i miei nonni non vennero più considerati come sudditi, bensì come cittadini. Se l’organizzazione sociale non si rivelava equa, era loro dovere (ed una necessità umana) organizzarsi e modificarla. Essi diventarono liberi, ma furono altresì investiti di responsabilità personali circa il loro futuro. Avrebbero dovuto apprendere nuove virtù, presiedere alla creazione di nuove istituzioni, ed assumersi la responsabilità di tutelare quelle istituzioni che avevano ereditato dai geni fondatori d’America. In tale contesto, il ter-
mine giustizia sociale può essere definito con considerevole precisione. Giustizia sociale indica una nuova virtù nella panoplia delle virtù storiche, un insieme di nuove abitudini e capacità che devo-
Quella iniziata alla fine dell’Ottocento rappresentò una delle più grandi (e insolite) migrazioni di massa nella storia. Una migrazione non di tribù, ma di individui
no essere apprese, perfezionate e tramandate, nuove virtù con risvolti sociali potentissimi. Questa nuova virtù viene definita “sociale” per due motivi. Innanzitutto, il suo scopo o proposito è di accrescere il bene comune della società nel suo insieme, in particolar modo al di fuori del nucleo famigliare, forse su scala nazionale o internazionale, ma sicuramente nell’ambito di una serie di istituzioni sociali maggiormente coinvolte nel nostro vissuto quotidiano.
Un villaggio o un quartiere possono aver bisogno di un nuovo pozzo, o di una nuova scuola, o persino di una chiesa; i lavoratori possono aver bisogno di associarsi in un sindacato, ed unirsi ad altre organizzazioni sindacali; dato che le ragioni della ricchezza delle nazioni sono l’inventiva e l’intelletto, nuove scuole ed università devono essere fondate. In America, i nuovi immigrati crearono circoli di atletica per i giovani; per i maschi adulti, circoli per poter giocare a dama, a carte o al lancio del ferro di cavallo; per le donne, associazioni per occuparsi delle necessità del vicinato. Dato che buona parte degli uomini lavorava fino a 12 ore al giorno, nelle miniere o nelle fabbriche, le donne amministravano molte delle faccende
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È l’individuo il nemico dello statalismo Leninismo, stalinismo, fascismo e nazismo esaltarono il bene collettivo i dovrebbe poi sottolineare come tale definizione sia ideologicamente neutrale. La giustizia sociale viene messa in pratica tanto dalla sinistra quanto dalla destra. Vi è più di un modo per immaginare il bene della società futura. Gli individui di qualsivoglia convinzione bene fanno ad esercitare un controllo sulla nuova virtù sociale che li assiste nel definire e nell’operare con gli altri verso la loro visione del suddetto bene. In sintesi, il crollo del vecchio ordine ha imposto nuove abitudini al fine di costruire nuovi organismi sociali – le associazioni – per far fronte a nuovi bisogni. Ciò spiega perché tale nuova virtù sorse solo nel XIX secolo. Ciò getta altresì luce su uno dei più insigni soprannomi di Leone XIII: «Il Papa dell’associazionismo».
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ma anche il Fascismo ed il Nazismo esaltarono il bene collettivo al di sopra di quello individuale, e sacrificarono gli obiettivi individuali in virtù del futuro collettivo del Comunismo, del Fascismo o del Nazismo. Persino alcuni dei miei primi eroi intellettuali, i personalisti, passarono sotto il regime di Vichy al fine di evitare che la
2. Il Bene Comune Un uso improprio del termine bene comune squarciò le nuvole come una cima della Alpi quando, alla Commissione sui Diritti Umani a Berna, spronai la delegazione sovietica a riconoscere il diritto delle coppie sposate i cui due coniugi provenissero da nazioni diverse a condividere la residenza in nel paese da loro prescelto. I sovietici resistettero tenacemente, nel nome del bene comune. Essi insistettero sul fatto che l’Unione Sovietica avesse investito grandi somme di denaro e avesse compiuto grandi sforzi per fornire un’istruzione ad ogni cittadino sovietico, ed il bene comune esigeva che in cambio tali cittadini contribuissero nella misura opportuna. Pertanto, le coppie sovietiche non potevano abbandonare il paese. I desideri individuali dovevano piegarsi al bene comune di tutti.
Immigrati a Ellis Island. Nelle foto a sinistra: Leone XIII e Alexis de Tocqueville. Qui a destra, dall’alto: Karl Marx, Jacques Maritain, Adolf Hitler connesse all’ambito sociale, nel quartiere, nei circoli politici e civici. Gli immigrati costituirono società assicurative ed altre società di mutuo soccorso al fine di prendersi cura l’uno dell’altro in caso di infortunio o di morte prematura. In poche parole, Tocqueville aveva ragione quando definì lo spontaneo fiorire di associazioni di cittadini, per far fronte alle rispettive necessità sociale, come “la prima legge della democrazia”.
Ma questa nuova virtù fu definita sociale per un secondo motivo. Non solo è sociale il suo fine, ma tali sono anche le sue pratiche costitutive. La pratica della virtù della giustizia sociale consiste nell’apprendere nuove capacità di cooperazione e di associazione con altri, allo scopo di tradurre in realtà obiettivi che il singolo individuo non potrebbe conseguire. Da un lato, tale nuova virtù rappresenta una protezione sociale contro l’individualismo atomizzante, dall’altro lato tutela un considerevole spazio civico dalla custodia dello Stato.
Prima di questa esperienza, non mi ero mai soffermato a riflettere sul fatto che qualcuno avrebbe potuto utilizzare il termine bene comune al fine di esautorare i diritti di libere persone. Comprendo colui che volontariamente mette a disposizione la propria vita (o beni di valore inferiore) per il bene comune. Ma l’imposizione del bene comune come arma contro i diritti individuali - o, per dirla in termini più esatti, contro i diritti del libero individuo non sembrava indicare un abuso. Quell’esperienza mi indusse a riesaminare altri utilizzi del “bene comune” con i quali mi ero spesso imbattuto. Non saltuariamente, il bene comune veniva invocato contro i mali del cosiddetto “individualismo”e dell’interesse personale. In effetti, varie ideologie del XX secolo si erano riproposte di muovere guerra ad un “individuo atomizzato” e all’egoista “decadenza dell’individualismo”. In realtà, esse risollevarono la nazione, la volontà collettiva ed il sentimento di solidarietà nei confronti degli oppressi. Ricordo la lettera di un giovane tedesco, amico di Albert Camus, riguardante la vanità dell’individualismo occidentale e, per contrasto, la nobiltà ed il potere dei propositi sociali attuabili sotto la guida di un leader forte. Non solo il Leninismo e lo Stalinismo,
La Chiesa parla della nobiltà della persona in quanto essere unico, dotato da Dio di una serie di doni, non da ultimo la libertà, che la rende un’originaria e creativa fonte d’azione
strisciante decadenza spirituale dell’individualismo anglosassone avanzasse nel Continente, e per riaffermare il primato del bene comune rispetto a quello individuale. Un punto importante è qui racchiuso. Noi utilizziamo spesso i termini “individuale” e “persona” in modo intercambiabile, ma deve essere fatta una distinzione.
Le ideologie stataliste hanno imposto una riduzione della dimensione “individuale” nel nome del bene co-
mune; la Chiesa afferma la dignità della “persona”. È interessante notare come, nel definire “l’individuo” il suo nemico, lo statalismo si da quel tipo di opposizione che sconfiggerebbe con maggiore agevolezza, e che in ultima analisi accondiscenderà agli obiettivi dello Stato. Mentre la Chiesa parla della nobiltà della persona, intendendo la persona in quanto essere unico, dotato da Dio di una serie di doni, non da ultimo la libertà, che gli consente di essere un’originaria e creativa fonte d’azione; al contrario, lo statalismo riduce la persona ad individuo, un fungibile, rimpiazzabile ingranaggio del meccanismo della società statalista, non più un essere unico e libero creato da Dio, responsabile del proprio destino, dotato sin da subito di dignità e bisognoso di rispetto in quanto tale. Per lo statalismo le persone incarnano il vero nemico, il vero pericolo. L’essere persona è ciò che la Chiesa afferma, e le persone sono l’argine più forte contro lo statalismo.
Ricordo altresì piuttosto bene la mia grande emozione nel leggere il messaggio di Natale del 1944 di Papa Pio XII e la sua strenua difesa dei diritti umani dell’individuo contro il peso schiacciante del collettivismo in Europa. In seguito, Jacques Maritain indicò tale messaggio come un punto di svolta nella difesa da parte del Cattolicesimo della persona umana nella storia moderna. Da allora in poi, i cattolici furono esortati a difendere non solo il bene comune, ma anche la persona in quanto individuo. Il frutto di tale cambiamento apparve in tutta la sua evidenza nella definizione del bene comune esposta dal Concilio Vaticano II: «Il bene comune costituisce la somma di quelle condizioni della vita sociale che consentono ai gruppi sociali ed ai loro singoli membri un accesso relativamente ampio e pieno alla loro realizzazione. (Concilio Vaticano II, “La Chiesa nel Mondo Moderno” [1965]) Prima del Concilio Vaticano II, grandi sforzi intellettuali furono esperiti nel tentativo di forgiare nuove concezioni del bene comune ed anche della persona; ad esempio, l’energico dibattito tra Charles de Koninck e Jacques Maritain, nel quale la posizione di Maritain venne ribadita nella sua importante opera: La Persona ed il Bene Comune. Proprio come il Concilio Vaticano II definì il bene comune in termini di realizzazione della persona umana, così anche a suo tempo esso giunse ad essere definita in termini di caritas, communio e (con Giovanni Paolo II) solidarietà. In tale nuovo ambito intellettuale, divenne piuttosto comune definire la persona in termini di communio e di bene comune. D’altro canto, il bene comune non potrà essere conseguito fintanto che le persone umane non saranno libere di raggiungere la propria personale vocazione, e la persona non sarà completa fino a quando lui o lei non serviranno il bene comune. Secondo tale “nuova antropologia”, la persona e la comunità si definiscono in termini reciproci.
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Nel 1961, fu Karol Wojtyla, giovane vescovo di Cracovia, a suggerire in due lunghe missive alla Commissione Preparatoria per il ConcilioVaticano II che questi due temi, la persona ed il bene comune, avrebbero dovuto costituire il fondamento di tutto il lavoro conciliare. In seguito, una volte eletto Papa, egli stesso avrebbe descritto il bene comune come «non semplicemente la somma totale di interessi particolari; diversamente, un principio che implica una valutazione ed un’integrazione di quegli interessi sulla base di un’equilibrata gerarchia di valori; da ultimo, ciò richiede un’adeguata comprensione della dignità e dei diritti della persona» (Ca, 47).
Tuttavia, sarebbe avventato pensare che le migliorie intellettuali nel definire le idee di persona e di bene comune siano giunte al termine. Focalizziamo la nostra attenzione su due ulteriori tematiche. In primo luogo, sembra naturale parlare del bene comune in (supponiamo) Europa e Stati Uniti nell’anno 1900 quale un progresso rispetto alla sua concezione nell’anno 1800. Inoltre, sembra che vi fosse un considerevole progresso nel conseguimento del bene comune e nella realizzazione della persona, sebbene in seguito ad immani sofferenze senza precedenti, tra gli anni 1900 e 2000. Esiste ciononostante un livello ancora più elevato di bene comune rispetto a quello che oggi assumiamo come ipotizzabile? Da tali considerazioni apprendiamo che il “bene comune” rappresenta un concetto temporalmente analogo, guidato da un dinamismo costante di riflessione intellettuale ed invenzione istituzionale. Il pervenire al bene comune sembra coinvolgere un obiettivo dinamico, definito da parametri sempre più alti ed ampi. In effetti, Maritain ci ha insegnato a stabilire obiettivi approssimativi, realisticamente conseguibili in un periodo relativamente breve (se lavoriamo sodo, e tale lavoro viene benedetto dalla Provvidenza), in contrapposizione alla volontà di conseguire obiettivi momentaneamente irraggiungibili, trasformando così il desiderio di perfezione nel nemico del bene. In aggiunta, Friedrich Hayek ci ha insegnato che molti contributi al bene comune non vengono intesi come frutto di singoli o di un gruppo, bensì in quanto risultato di azioni umane pratiche, le azioni compiute da una persona si adattano a quelle di un’altra, spesso nel corso di un lungo periodo di tempo, e senza un costante incontro tra tutte le parti che contribuiscono al risultato finale. Un esempio da lui proposto mi colpì particolarmente, in quanto l’avevo spesso provato durante le mie escursioni sulle Alpi: un logoro sentiero ne delinea un altro moderato e razionale che ben traccia la topografia dell’area. Nessuno ha mai elaborato tale sentiero, ma i risultati dell’intelligenza pratica di molti nel corso del tempo hanno permesso di raggiungere un determinato ordine. Mi sovviene anche: lo Homestead Act di Lincoln: rispettava l’intelligenza pratica di ogni proprietario terriero nello sfruttare la terra a proprio piacimento, date le sue possibilità, i vantaggi e gli svantaggi. Inoltre, andava a beneficio di ogni proprietario terriero il gestire i propri sforzi in modo da sincronizzarli con quelli di altri al fine di ottenere un vantaggio comune, nella piantagione, nella coltivazione, nel raccolto e nella vendita. Nessuno disse loro cosa fare. Nessuno pianificò a monte l’ordine risultante. Gli imperativi dell’intelligenza pratica conducono ad un mutuo aggiustamento e ad un ordine funzionante.
Il bene comune lo impariamo dai nostri errori Servono civiltà, umanità, umiltà e disponibilità ad ammettere i propri sbagli ultimo punto che richiede maggiori precisazioni è la multidimensionalità del concetto di bene comune. Un grafico elaborato da S. Iniobong Udoidem, giovane studioso africano, nella sua tesi di dottorato basata sul lavoro di Yves Simon delinea 12 usi differenti del “bene comune”. Egli distingue tra il bene comune particolare e quello generale, il bene comune materiale e quello formale, quello terreno e quello spirituale, quello temporale e quello eterno, universale, di tutti gli esseri umani, e cioè l’unione con Dio. Questo bellissimo lavoro apre le nostri menti alla ricchezza ed alle molte richieste del bene comune.
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Naturalmente, nel momento in vengono poste delle questioni relative alla saggezza pratica inerenti persone pluraliste, sorgono molti modi configgenti per identificare tanto il bene comune temporale quanto quello terreno, ed anche per scoprire il miglior modo per pervenire ad essi. Asserire che “X”sia il bene comune significa, in tale ottica, non chiudere la questione, ma sottoporla alla competizione di idee, la qual cosa risulta essenziale per la società libera.Tale è la ragione per cui il raggiungimento del bene comune richiede una buona dose di civiltà, umanità,
umiltà e disponibilità ad ammettere gli errori ed imparare da questi.
3. Libertà personale «Mediante la sua libertà, la persona umana trascende gli astri e tutto il
Solo l’essere umano è in grado di riflettere sul proprio passato, riconoscerlo inadeguato, pentirsi e cambiare direzione, libero di scegliere quale tra quei molteplici impulsi seguire
mondo naturale», scrisse Jacques Maritain. Nessuno più di Karol Wojtyla ha riflettuto così approfonditamente sulla fenomenologia della persona umana. Nella sua visione, la persona rappresenta una fonte generatrice di azione creativa nel mondo. La persona umana è in grado di riflettere sul proprio passato, riconoscerlo inadeguato, pentirsi e cambiare direzione. La persona si rivela capace di riflettere su possibili modalità d’azione nel futuro, di considerarle attentamente, e di scegliere di impegnarsi per - e di assumersi la responsabilità di - una di queste. Solo la persona si rivela libera di scegliere quale tra quei molteplici impulsi seguire. La libertà animale ha a che fare con i basilari richiami dell’istinto. La libertà umana implica il discernimento di una razionalità più complessa, più alta e più onerosa nel campo dell’azione. Deve diventare la sovrana di tutti gli istinti, così da scegliere appropriatamente tra essi. Considerando tutto ciò, si può affermare che essa abbia a che fare con tutto ciò che l’uomo dovrebbe fare. Nella nostra epoca, ahimè, in molti considerano la libertà umana come semplice capacità di far fuoriuscire i propri istinti, di travalicare le convenzioni, di fare tutto ciò che si
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L’idea di libertà che ci ha insegnato l’America “Ordinata”, fatta di padronanza di sé, autodisciplina e dominio di sé stessi n’altra via per descrivere questa differenza consiste nell’affermare che la libertà animale sia insita nell’istinto di ognuno. Ma la libertà umana deve essere scissa dagli istinti, coltivata, appresa mediante l’esperienza pratica, guadagnata lentamente attraverso tentativi ed errori. La libertà umana viene per lo più insegnata da guide spirituali, dagli insegnanti preferiti, dai racconti storici, dall’esempio morale dei genitori o dei propri cari. La libertà animale con i suoi impulsi contraddittori spesso genera il conflitto nel cuore. La libertà umana emerge lentamente dall’individuazione dell’ordine più fruttuoso tra tutta una serie di istinti portatori di pace. Saggezza e pace. Ad esempio, non è facile apprendere come riflettere, come trovare la calma interiore necessaria a deliberare, e come trovare il coraggio di scegliere il sentiero più difficile, il cammino più arduo. Al fine di raggiungere tale ordine interiore e un’armonia (relativa), ci si deve comportare come se si fosse una guardia del corpo dell’anima: bisogna imporsi determinate abitudini che tutelino le varie capacità del nostro Io. Lasciate che vi spieghi.
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Papa Giovanni Paolo II. Nelle foto a sinistra: Abraham Lincoln e Friedrich A. von Hayek. A destra, dall’alto: George Washington, Leroy King che canta l’inno Usa, la Statua della Libertà vuole fare. Queste persone adorano le immagini animalesche dei propri sogni di libertà: “nato libero” come la tigre della giungla, o “libero come un uccello”. Essi pensano che la natura animale sia innocente e priva di limitazioni, antitetica a tutti i costumi sociali, alle tradizioni, alle usanze e alle regole morali imposte dall’esterno del proprio istinto, delle proprie sollecitazioni e desideri. Woody Allen ha espresso ciò in maniera molto nitida: «Il cuore vuole ciò che il cuore vuole».
Questa non è per caso un’affermazione paradossale? Alcuni sostengono di essere obbligati a seguire l’istinto. Essi affermano di aver perso la libertà di persuadere il loro cuore, di aver perso qualsiasi volontà di resistenza, di aver perso qualsiasi capacità di fare qualcosa di diverso da ciò che il cuore suggerisce loro. Tutti noi conosciamo tale influenza. Ma la vera libertà richiede un’apertura di noi stessi ad altre spinte e anche ad altre persuasioni, al suono della tranquillizzante voce della saggezza. In tal modo, l’esperienza insegna che la libertà umana non è costituita da una schiavitù all’impulso, quantunque prolungata o apparentemente irresistibile. Una tale schiavitù descrive la libertà degli animali selvaggi. Non descrive la libertà disponibile solo per l’animale umano pienamente evoluto, la persona libera.
La libertà consiste in un atto di autocontrollo mediante il quale noi conteniamo i nostri desideri con la temperanza e l’autocontrollo, e teniamo a freno le nostre paure con il coraggio, la determinazione e la fermezza. Facciamo ciò al fine di riflettere sobriamente: deliberare correttamente, e scegliere spassionatamente ed equamente sui meriti del caso in considerazione. In più, tentiamo di agire in modo tale che altri possano fare affidamento sul nostro impegno e sui nostri obiettivi di lungo termine. Tali pratiche di autogoverno si possono rinvenire in modo ricorrente o abituale sono in persone di considerevole carattere. Il nostro primo Presidente, George Washington venne salutato da tutti coloro che lo conobbero come il prototipo di tale concetto di libertà – un uomo di carattere, un uomo su cui fare assegnamento, deciso, propositivo, un leader, per le sue virtù degno dell’ammirazione e dell’affetto dei suoi connazionali, un modello per la libertà della nazione promessa a tutti coloro che desiderano conquistarla. Quella fu la grande fortuna degli Stati Uniti. Ad una libertà con tali sembianze non si giunge né mediante le azioni positive né attraverso quelle negative da parte dello Stato; anzi, la Costituzione della Repubblica Americana ne riconosce deliberatamente le possibilità, e dipende ovviamente dalla realizzazione di queste. La libertà di autogoverno deve essere acquisita da un individuo alla volta. Questo scopo personale viene agevolato quando l’intero ethos pubblico lo insegna, lo incoraggia ed offre di esso molti esempi – così come molti esempi di autodistruzione determinati dalla sua assenza. In tal senso, la libertà personale viene favorita o impedita a seconda del grado di ecologia sociale della libertà. In
ogni caso, la concezione americana della libertà è una “libertà ordinata”, una libertà fatta di padronanza di sé, autodisciplina, dominio di sé stessi. In breve, la libertà personale non deve essere descritta come libertà “senza ostacoli”, come “selvaggio individualismo”, come “libertinismo”, o “edonismo”,“egoismo”,“disinibizione”
Non è facile apprendere come riflettere, come trovare la calma interiore necessaria a deliberare, e come trovare il coraggio di scegliere il sentiero più difficile, il cammino più arduo
Questa è la libertà a cui certi alcuni liberali francesi guardavano quando suggerirono il disegno della Statua della Libertà, che intendevano porre in contrasto con l’immagine del 1789, la prostituta sull’altare della Cattedrale di Notre Dame. Essi scelsero una figura di donna quale simbolo della Libertà (dopo tutto, erano francesi), ma non la discinta cortigiana parigina. Preferirono una donna sobria, seria, con un braccio teso verso l’alto a sorreggere la torcia della luce e della ragione, e l’altro braccio come custode del libro della legge. L’espressione di libertà che prediligo è il terzo verso di America the Beautiful: «O bella per i piedi del pellegrino, i cui duri ed appassionati passi / Un sentiero di libertà batte lungo le tue vergini terre forgiarono / America! America! Che Dio guarisca ogni tuo difetto / Preservi il tuo spirito di autocontrollo e la tua libertà nella legge». Gli Stati Uniti d’America hanno dato molte cattive lezioni al mondo, e tanto come nazione quanto come cultura hanno denotato molte gravi carenze. Ma una cosa positiva che hanno portato nel mondo è il rinato ideale di libertà ordinata, l’ideale della virtù civica repubblicana, l’idea di libertà in quanto capacità di una donna e di un uomo, qualunque cosa accada loro, di compiere ciò che è in loro dovere. La storia americana ci illustra molti episodi di coraggio ed autocontrollo. La libertà personale non è un concetto intuitivo, bensì un concetto che si apprende, che si apprende a livello sociale. Non è una conquista personale (quantunque in un certo senso lo sia, poiché una madre o un padre non possono sostituirsi a noi). È una conquista sociale, culturale, e richiede un’ecologia culturale che la sostenga, la rafforzi, la incoraggi e la insegni. In conformità con tale visione, la sua personificazione si produce con maggiore frequenza in alcune culture piuttosto che in altre, e in alcune generazioni piuttosto che in altre. La libertà personale è una conquista fragile, ed una singola generazione può decidere di smarrire la luce, di arrendersi ed allontanarsi da essa. È proprio a partire da questa fragile ma preziosa libertà che «la persona umana trascende le stelle e tutto il mondo della natura». 4 . So mma rio
o un “lasciarsi trasportare dalla corrente”. Non è una libertà connessa con il fare qualsiasi cosa ci passi per la testa. È la libertà di riflettere su cosa dovremmo fare, e la libertà di scegliere se assumersi o meno la responsabilità di ciò. Qui in America, è la libertà che i nostri progenitori ci hanno insegnato. È ciò che Papa Giovanni Paolo II, parlando dell’America, ha definito il suo storico contributo all’idea sociale di «libertà ordinata».
Questi tre termini - giustizia sociale, bene comune e libertà personale - necessitano in ogni generazione di recuperare una spesso smarrita precisazione. Altrimenti la silente artiglieria del tempo ne leviga i punti forti meticolosamente elaborati, lasciando un intero popolo intellettualmente e moralmente indifeso. Ho tentato in queste poche pagine di definire tali realtà in termini cari tanto alla sinistra quanto alla destra, e cioè in modo ideologicamente neutrale. Se dovessi aver fallito in questo compito, forse qualcun altro saprà fare di meglio. Quanti più saremo a tentare, meglio sarà per tutti noi.
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quadrante Spagna. Non si ferma la lotta intestina nel gruppo, che cerca nuovi leader
organizzazione sebasca paratista Eta, pur avendo da sempre rivendicato una matrice ideologica marxista nella sua lotta per la libertà del popolo basco, non disdegna i mezzi offerti dal sistema capitalista per finanziare la sua attività terroristica. Lo si apprende da alcune indiscrezioni lasciate filtrare dai servizi segreti di Madrid, che avrebbero ricostruito alcune spericolate avventure borsistiche messe in atto dalla banda per cercare di aumentare la propria disponibilità finanziaria. I risultati delle speculazioni operate dal vertice politico dell’Eta però, lasciano molto a desiderare. Gli investimenti in Borsa decisi da alcuni membri del gruppo separatista hanno fatto perdere un bel gruzzoletto all’organizzazione. Fonti dell’intelligence spagnola hanno rivelato che l’Eta, tra il 2004 e il 2008, ha impiegato un’ingente somma di denaro per scommettere sul deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro. La valuta europea invece, ha raggiunto i massimi storici nei confronti del biglietto verde, provocando un salasso di notevoli proporzioni per le già scarse risorse dell’organizzazione terroristica che sta vivendo il suo periodo di peggiore crisi. La guerra intestina per la leadership e l’azione sinergica della gendarmeria francese e della guardia civil (con gli ultimi arresti, sono finiti dietro le sbarre sia i capi politici sia quelli militari) hanno costretto il gruppo ad un radicale ridimensionamento. La batosta finanziaria potrebbe costituire un colpo di grazia per le velleità indipendentiste basche.
L’
Gli esponenti di spicco dell’Eta ancora latitanti hanno così deciso di ridimensionare al massimo la struttura del gruppo. La lotta intestina per la leadership, prima del loro arresto, tra i due capi storici dell’Eta - Garikoitz Aspiazu detto “Txeroki” e Francisco Javier Lopez Pena detto “Thierry”- ha lasciato il gruppo senza un comandante unico. “Txeroki” avrebbe condotto deliberatamente una guerra interna contro Francisco Javier López Peña, per divergenze sulla tregua unilaterale dichiarata dal gruppo un paio di anni fa. Entrambe le fazioni che facevano riferimento ai due esponenti si scambiarono accuse pesanti. I sodali di Aspiazu furono definiti “golpisti” dai fedelissimi di “Thierry”, che a loro volta furono accusati di voler provocare una scissione dai
L’errore dell’Eta? Investire sul dollaro Nonostante la riconosciuta matrice marxista i guerriglieri cercano di sfruttare il mercato di Massimo Ciullo
compagni di Txeroki. Stando ai rapporti dell’antiterrorismo, la resa dei conti tra le due correnti non sarebbe ancora conclusa e contribuisce pesantemente alla debolezza interna dell’Eta. Si è così aperta una sorta di lotta per la successione e la polizia spagnola ha individuato quattro papabili per il ruolo di capo dell’organizzazione, tra cui una donna.
Tra i possibili nuovi comandanti ci sono i fratelli Eneko e Ibon Gogeaskoetxea, il veterano José Luis Eciolaza Galán, alias “Dienteputo”, e Iratze Sorzabal, già portavoce dell’organizzazione per il trasferimento nelle carceri basche dei detenuti dell’Eta, arrestata nel 2001 per favoreggiamento. La fazione vincente dovrebbe essere quella legata a “Thierry”, che ha accusato “Txeroki” di superficialità e improvvisazione che hanno messo in pericolo i nuclei storici del gruppo. Alla leadership di “Txeroki” è stata anche imputata la gestione allegra delle risorse del sodalizio terroristico. L’antiterrorismo spagnolo ha dichiarato che dopo l’ultima raffica di arresti, l’organizzazio-
I separatisti baschi si sono lanciati in spericolate azioni in Borsa. Ma hanno sbagliato valuta Il presidente venezuelano vuole richiamare in vita l’unione mondiale dei socialisti
E Chávez rilancia l’Internazionale Il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, ha lanciato la proposta per la ricostituzione dell’Internazionale socialista. Quando ormai sembrava elaborato il lutto per la morte delle ideologie (soprattutto quella comunista) ecco farsi avanti l’esponente della rivoluzione “bolivariana” che intende promuovere la V internazionale. Il caudillo venezuelano ha invitato gli esponenti delle forze politiche del “socialismo internazionale”all’Incontro Mondiale dei Partiti e dei Movimenti di Sinistra. Al summit hanno preso parte i leader dei partiti di socialisti e comunisti di 45 Paesi che hanno elaborato un documento finale denominato Accordo di Caracas, dove sono state gettate le basi per i progetti, le strategie e le posizioni della sinistra mondiale allo scopo di rilanciare il socialismo. Tra le altre proposte contenute nell’accordo c’è anche quella della convocazione della V Internazionale. Pablo Monsanto, segretario del partito guatemalteco Alerta Nueva Nación, ha manifestato l’appoggio assoluto «all’idea lanciata dal presidente Chávez», che ritiene necessaria l’unione di tutti i partiti di sinistra a livello mondiale, per la costruzione del socialismo. Anche il ministro boliviano per le Opere pubbliche, Walter Delgadillo, appartenente al Movimiento al Socialismo (l’organizzazione creata dall’attuale presidente “indio” Evo Morales), ha detto che il suo Pae-
se prenderà presto la decisione di appoggiare la convocazione della riesumata creatura del filosofo tedesco Karl Marx.
Toni altisonanti sono stati usati dal ministro dell’Ecuador, Ricardo Patillo, che ha esortato tutti i partecipanti a unire le forze per il trionfo della rivoluzione socialista nel mondo e ha lanciato la proposta di emanare provvedimenti legislativi che proibiscano l’installazione di basi militari straniere nei diversi continenti. Un provvedimento suggerito dagli avvenimenti delle ultime ore che stanno facendo innalzare la tensione tra Colombia e Venezuela, dopo la decisione di Bogotà di concedere agli Stati Uniti la possibilità di installare sette nuove basi militari Usa sul suo territorio. Chávez ha risposto alla “provocazione”mobilitando l’esercito e dicendosi pronto alla guerra perché, a suo dire, le basi statunitensi servono solo a pianificare l’invasione del suo Paese e l’abbattimento del suo regime e non a combattere narcotraffico e terrorismo. Il ministro Delgadillo ha annunciato che la Bolivia ha intenzione di organizzare un incontro internazionale dei popoli dell’America latina e del mondo per esprimere solidarietà al Venezuela «davanti all’aggressione degli Stati Uniti e della Colombia». Secondo il ministro, il piano d’invasione scatterà tra meno di due mesi.
ne si è estremamente indebolita. Per questo motivo, sembra sia stato deciso un notevole ridimensionamento del gruppo con una radicale “revisione delle sue strutture”. La nuova strategia dovrebbe portare ad una riduzione al minimo degli “apparati”dell’Eta, per renderli più efficienti e quasi invisibili alle forze di sicurezza. Un piano che richiama alla mente le “cellule” terroristiche islamiste che operano nella penisola iberica e con le quali l’Eta ha già avuto rapporti in passato. Che l’Eta non faccia più paura come un tempo lo dimostra anche la decisione del parlamento autonomo basco (a guida socialista dopo 30 anni di dominio dei nazionalisti del Pnv) di richiedere alle massime autorità sportive spagnole di disputare eventi internazionali anche nelle principali città basche. Da sottolineare che le “Furie rosse” non giocano una partita in uno stadio basco dal 1967 e che la Vuelta, il giro ciclistico della Spagna, evita accuratamente di attraversare la regione.
quadrante
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Afghanistan. Il “sindaco di Kabul” propone un patto di stabilizzazione attraverso il perdono dei fondamentalisti
I talebani «non sono terroristi» di Antonio Picasso l debutto della terza presidenza Karzai in Afghanistan presenta già uno scivolone. Ieri Kabul ha chiesto di cancellare i talebani dalla lista nera dei terroristi redatta dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Questo documento fornisce al dettaglio l’identikit di 362 persone e 125 fra ditte e organizzazioni di varia tipologia, sospettate di collusione con il terrorismo di matrice islamica. Ovviamente nell’elenco figurano Osama bin Laden, al Qaeda e i talebani, in particolare il mullah Omar e Gulbuddin Hekmatyar, il comandante del movimento politico paramilitare “Hezb-e-Islami”, nonché uno dei most wanted per il Dipartimento di Stato Usa. Karzai vorrebbe che proprio questi due ultimi nomi venissero depennati. Il presidente afgano ha ribadito così la necessità di con-
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frontarsi con il nemico. Nell’insediarsi aveva prospettato la convocazione di una Loya Jirga (l’assemblea dei capi tribù afgana), per definire una proposta di compromesso fra le parti in lotta. L’iniziativa, partendo dal fatto che la pace si fa con il nemico, sarebbe valida. Se non fosse che nel conflitto afgano sono implicati governi stranieri i quali potrebbero dichiararsi contrari in merito a questa scelta. Isaf e Nato sono in Afghanistan in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, firmati da al-Qaeda, a sua volta alleata dei talebani. Di conseguenza, se Kabul trattasse con questi ultimi – senza previo accordo con i suoi sostenitori stranieri – si correrebbe il rischio di dele-
Il leader pashtun ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di rimuovere dalla lista nera del terrorismo persino il mullah Omar, nemico giurato degli Usa
gittimare le Nazioni Unite, l’Alleanza atlantica e tutti i governi che finora hanno sostenuto Karzai. Ammesso di trovare un escamotage a questo impedimento, merita una riflessione anche la scelta del Presidente Karzai di chiedere che proprio il mullah Omar ed Hekmatyar vengano cancellati dalla black list. Per quanto riguarda il primo, abbiamo a che fare con il “capo dei capi” del movimento talebano.
Celebre per la sua intransigenza anti-Kabul e antiUsa. Tant’è che il rifiuto alla proposta di Karzai è giunto nello stesso pomeriggio di ieri. Più complessa è la “soluzione Hekmatyar”. Vista da una prospettiva di confronto tribale, tendere la mano al leader di Hezb-e-Islami significherebbe aprire un dialogo interno ai pashtun, fra la sotto-etnia dei Ghilzai, alla quale appartiene Hek-
matyar, e quella dei Popalzai, di cui il Presidente afgano è membro. Ammesso di realizzare questo passo tanto proficuo, bisogna ricordarsi il curriculum di Hekmatyar. È dal 1979, con l’invasione dell’Armata rossa, che questo controverso protagonista della storia afgana combatte una guerra dai caratteri più personali che nazionali. Dopo che le sue milizie svolsero un ruolo fondamentale nel contrastare l’invasore sovietico, Hekmatyar non si fece scrupolo nel contrastare i suoi vecchi alleati, primo fra tutti “il leone del Panshir” Massoud. Venne poi a patti con il regime dei talebani, e fece affari sia con il Pakistan sia con l’Iran. Oggi sembra essere tornato a combattere a fianco dei mujaheddin. Ecco perché, sulla base di questo passato discontinuo, è tanto rischioso per Karzai tentare un approccio con lui.
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Eventi. In occasione del centenario della nascita, l’Accademia dei Lincei dedica una giornata di studi ad Argan, uno dei più influenti storici dell’arte
L’arte e il divo Giulio Gli alterni rapporti con il fascismo, la fama precoce, i saggi e le battaglie culturali: chi era il critico dei critici di Marco Vallora uonano alla porta. Siamo nella Torino anni Trenta, fascista, ma anche gobettiana, di Gualino e Casorati. Va ad aprire un giovane mingherlino, dalle occhi puntuti, e lenti già dottorali. Chiedono del dottor Argan. All’uscio c’è una figura professorale, un nome che sarebbe divenuto celeberrimo, per la storia dell’arte, insieme a Warburg, a Gombrich, ad altri iconografi, poi emigrati in America, a causa delle loro origini o delle loro idee: Herr Doktor Erwin Panofsky. Un nome che al giovane probabilmente non dice ancora troppo, anche se due anni prima ha pubblicato un saggio decisivo quale La prospettiva come forma simbolica. Il giovane è convinto che quel signore ossequioso voglia incontrare suo padre, economo di manicomio, non pensa nemmeno d’esser lui il vero ’ricercato’. Ha solo ventun’anni, eppure ha già scritto un articolo su Palladio dalla (filtrato critica neo-classica) che ha mosso quel luminare da Amburgo, per conoscerne l’autore, e dialogarne. Superfluo ricordare che quel ragazzo timido ha nome Giulio Carlo Argan. Nemmeno Panofsky riesce a credere a quella verità così sorprendente, «ah Herr Kollege!».
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Ventenne, Argan, allievo di Lionello Venturi che presto lascerà anche lui, esule, l’Italia, per non aver voluto firmare quale insegnante il giuramento di fedeltà al partito (uno dei pochissimi: dodici in tutto) ha già pubblicato articoli su Palladio, su Sant’Elia (nessun pregiudizio contro il futurismo pre-fascista. Ma del resto nel partito è entrato nel ’28, cosa che sem-
pre gli sarà rinfacciata dai dogmatici) e scritto una tesi su Serlio. Così, mentre il suo maestro si occupa soprattutto d’arti figurative e di Impressionismo, approntandosi a divenire il paladino del nascente astratti-
Anticipatore dello strutturalismo, leggeva il Barocco non più come fenomeno di mutamento stilistico ma come idea di fede
smo, lui sceglie all’inizio soprattutto l’architettura, che rimarrà una sua costante d’interesse, accanto all’amico Zevi (dagli studi basilari su Borromini a Gropius, da Brunelleschi a Nervi, dall’architettura barocca al design, di cui è uno dei primi ad occuparsi, teoricamente, ma non soltanto). Si occupa di Beato Angelico ma pure di critica architettonica militante, è legato a Persico e Pagano. Di lì a qualche anno sposerà Anna Maria Mazzucchelli, redattrice di Casabella, nè trascurerà mai questa passione determinante per le forme struttural-razionali (solo l’irra-
zionalismo post-modern e agerarchico non riuscirà, in seguito, a deglutirlo). Certo l’adesione al Pnf c’è e Argan, dolorando, non l’hai mai occultato: ma era il suo modo giovanile, da cadetto, di concepire lealmente, quasi militarmente, il suo “dovere d’ufficiale” dell’esercito dei Beni culturali. Conservazione sì ma non passiva, anzi, quanto mai battagliera.
Uomo integerrimo dall’apparente sangue gelido (ma non così lo descrivono amici e allievi) è vero, il giovane Argan è sostenuto da un gerarca torinese e amante delle arti come De Vecchi, generale monarchico legittimista, inviso all’ala dura del fascismo (leggi Farinacci e Starace) e protagonista del Gran Consiglio, con voto di sfiducia a Mussolini (poi condannato a morte, in contumacia, dalla Repubblica di Salò). Ma il vero legame di Argan è con Bottai, rara figura di fascista illuminato, fondatore di Primato, su cui Argan affila il suo stile di fronda, assai sensibile alle sorti del patrimonio artistico (avercene oggi, di politici così. Altro che bottiglioni vuoti o buondì smotta!). Partecipa anche ad altre riviste, con personalità insospettabili come Chilanti, Pasinetti, Pratolini: il mutar di sponda di quest’illusa generazione Guf sarà sofferto e graduale ma intransigente, molto prima delle dirimenti leggi razziali. C’è un aneddoto, a dire la verve feroce e anche arrischiata di Argan, chiamato dalle dirigenze fasciste a occuparsi di questioni legate all’arte (oggi, che s’importano manager da luoghi sconsacrati e di preparazione specifica disarmante, queste cose non ca-
Qui accanto, Giulio Carlo Argan: il grande critico è stato celebrato dai Lincei a cento anni dalla nascita. A sinistra, con Luigi Petroselli, suo braccio destro al Comune di Roma. Sotto, l’Arco d’Augusto di Rimini. Nella pagina a fianco, dall’alto, un bozzetto di Antonio Sant’Elia, Walter Gropius (al centro) con Elmory Roth e Erwin Wolfson; la Cappella dei Pazzi di Brunelleschi
pitano più). Si deve trovare un nome più acconcio, fascistissimo, per Piazza Cordusio, a Milano. Sagace, Argan, e rischiando non poco, piega la filologia al sarcasmo: ma Cordusio significa ’cuor del Duce’! Ed è il Duce stesso, manoscrivendosi, a sottoscrivere la burla: «Sta bene!». Con lo stesso stile lapidario-littorio, anche Bottai, presente alla riunione comune dei sovrindententi d’Italia (allora si tenevano ancora) avendo ascoltato la proposta rivoluzionaria di creare, Argan insieme all’inimico Longhi, un catalogo di censimento dei beni artistici, e di creare (Brandi-Argan) un Istituto centrale per il Restauro (non solo tecnico, ma d’indagine anche storica e scientifica) pare che Bottai siglasse quelle proposte con un motto fulmineo: «Si ha da fare».
Ma la vera verità è che alle parole seguirono i fatti. Realtà fattiva di “progetto e destino”, per dirla con un titolo all’Argan, che prediligerà queste endiadi pendolari, che danno respiro all’intelligenza e alle perplessità della ragione illuminista: Salvezza e caduta nell’arte moderna, Immagine e persuasione, Classico Anticlassico. Progetto e oggetto. Ma anche Storia dell’arte come storia della città e L’Europa delle Capitali, da poco opportunamen-
te ristampato, da Skira. Perché, appunto, si parte dal minimo dettaglio storico d’un’opera d’arte, una piega dipinta, un capitello, un mignolo di Canova (il Neoclassicismo è stato da sempre una passione ’paradossale’, per il difensore-princeps
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della Modernità. Ma gli serviva proprio come correttivo equilibrato per polire le scorie avventuristiche dell’Avanguardia a tutti i costi, che rischia di condurre alla morte dell’Arte) si parte appunto dal minimo dettaglio significante, per arrivare
alla grande ragnatela democratica dell’urbanistica: della città ideale, ma concreta.
Queste cose, aneddoti, verità, disamine puntualissime, si son ascoltate nella nutritiva giornata di studi che ha aperto, all’Accademia dei Lincei (Argan era un accademico, ma ben poco accademico) l’anno centenario della sua nascita: maggio del 1909. Un po’in ritardo, ma è sempre così, in un Paese in cui le finanziarie risicano denari alla cultura e tengon sempre le occasioni, davvero intellettuali, sul filo del sospetto e del dubbio. Cosa che con Argan si confà, ma non certo con il suo rigore ’politico’di servitore della causa (senatore della sinistra e primo sindaco non democristiano di Roma. Con attenzioni alle arti ma in senso ampio: la difesa dell’acquisizione di Palazzo Poli, intrinsecamente e baroccamente legato alla Fontana di Trevi, strappato a una banca con la complicità di Pertini. Oppure il ’raddrizzo’ delle operazioni confuse sul consolidamento della Torre di Pisa, che ebbe appunto da lui un ’consolidamento’ imprevisto. Di questo han parlato un collega di ’partito’, il matematico Edoardo Vesentini, e Salvatore Settis, in un’accesa, accorata perorazione civile). Ma si sono ascoltati bellissimi cammei o ritratti, a gran-
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tiche (magari anche di riproduzioni fotografiche. Perché qui non è importante tanto il feticismo elitario dell’opera da godere, quanto la missione didattica: per esempio per spiegare l’arte contemporanea, di Pollock o dei cinetici. Per la cronaca, comunque, la sua prima mostra didattica romana è dedicata ai bronzi nuragici). Ma New York non presta oreccchio: Argan (nonostante il dottor Barnes, Dewey e la tradizione anglosassone dell’imparare) è davvero troppo in anticipo. In anticipo sulla didattica, sull’idea nuova di concepire i musei, sull’uso moderno dell’arte, non come “bene da godere” , ma come possesso di tutti, per capire non tanto la Storia dell’arte, ma la Storia tout court. Forse anticipatore dello stesso strutturalismo (ammirava Lévi Strauss e leggeva Barthes): così come ha spiegato con grande passione Irving Lavin, ’leggeva’ il Barocco non più come fenomeno di mutamento stilistico, in chiave purovisibilistawoelflinniana o crociana, ma come marchingegno retorico, per veicolare una nuova ideologia di fede. In un intenso video curato da Claudio Gamba (che per Marinotti ha pure raccolto una preziosa silloge di Scritti militanti e rari) Dorfles racconta una visita di Argan a una sua mostra di pittore. Affettuoso, vigile, vivo, parla, discute, s’informa, «ma ho l’impressione che sia uscito senza nemmeno accorgersi che c’erano dei quadri alle pareti».
dezza naturale ed epica, di Maurizio Calvesi e Marcello Fagiolo. Marisa Dalai Emiliani ha proposto un profilo ineccepibile di Argan, studioso precoce della museografia ’rivoluzionaria’ italiana (tutto Albini niente Scarpa, su cui scese un silenzio pesante e non casuale). Sandra Pinto ha toccato con emozione il tema del rapporto con la contemporaneità, Marilyn Aronberg Lavin, rovistando negli archivi del Moma, ha documentato l’attenzione precoce di Argan per l’America (primo viaggio nel ’39 : sono gli anni del concittadino Soldati di America Primo Amore, più o meno di Giaime Pintor e di Americana di Vittorini, di Ben Shahn e del populismo realista Usa.
Argan avrà sempre un occhio di riguardo per il pragmatismo educativo di Dewey, per esempio, oltre che per i ’nostri’ Husserl e Paci. Sarà in contatto con Herbert Read e con i warburghiani d’oltre-Oceano, ma non accetterà mai lo sfregio new-dada e consumistico della Pop Art, ferocemente combattuta). In quei precedenti anni di ’vacche magre’
della guerra fredda, in cui anche la richiesta d’un libro gratis viene considerata (vedi il rapporto Palma Bucarelli-Moma) sconsiderata, o importuna, Argan entra in contatto con Soby e con Barr, cercando di coinvolgerli in un’impresa comune e rivoluzionaria di mostre didat-
La solita solfa di Argan, che non aveva occhio, burlato con i falsi Modigliani, che pensava, ma non ’vedeva’. Certo, per lui vedere era vedere soprattutto dentro la propria lucida intelligenza, tagliente, come la sua prosa scabra e diretta. L’allievo-ribelle Antonio Pinelli racconta d’essergli stato accanto durante una di quelle conferenze «in cui parlava come un libro stampato», inflessibile montaggio di idee. Accanto, un minimo fogliettino come d’appunti. Bianco, completamente bianco. Allo stupore d’allievo, Argan risponde candido, come il suo foglio. «Mi serve per avere le idee più sicure». Il vuoto riquadro perfetto dell’ultimo degli Illuministi.
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Libri. De Agostini ci regala le straordinarie immagini curate da Huw Lewis-Jones nel volume “Volti polari. Uomini che hanno sfidato i ghiacci”
Al Polo Nord, in viso veritas di Dianora Citi
i può dare una definizione di volto polare? Certamente. Ma prima occorre rispondere a una domanda: cosa si intende con il “volto di un uomo”? Partiamo dalla definizione: «Volto: sostantivo maschile, sinonimo di tono più elevato di viso o faccia …». Oppure: «Parte anteriore della testa dell’uomo, sede degli organi della vista, dell’olfatto e del gusto». Dunque il volto, modellato su quell’elemento dello scheletro umano che è il cranio, indica l’aspetto esteriore, la sembianza di ciascun uomo. Ma non solo: «Conoscere il vero volto di qualcuno» è conoscerne l’intima essenza, la vera natura. È vero: dal volto può trasparire la tua storia, la tua vita, ciò che hai provato, le cicatrici dell’anima che emergono dal disegno delle tue rughe. Stefano Poli (un cognome, un destino) al Polo Nord abita tutto l’anno. È l’unico italiano a risiedere a Longyearbyen, nell’arcipelago delle isole Svalbard, il luogo più a nord della terra abitato tutto l’anno da una comunità di circa 2mila anime.
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«La nostra popolazione è molto varia e i residenti provengono da tutto il mondo. La maggior parte sono norvegesi, ma, per esempio, da alcuni anni si sta ambientando una piccola comunità di filippini.Tre anni fa arrivò in cerca di lavoro una donna. Ora c’è tutta la famiglia, dal marito alle figlie e le nipoti. Qualche mutamento morfologico? Sì, credo che vivendo qui i nostri visi acquistino delle caratteristiche comuni.Tutti abbiamo la pelle del viso corrosa dal Sole, bruciata, secca. Se decidi di vivere e lavorare in un luogo estremo come questo - siamo oltre 1.000 chilometri a nord del circolo polare artico - non c’è tempo di pensare alle creme da spalmarti sul viso. Devi combattere contro il freddo e i problemi sono altri. Il riverbero del sole sulla neve, specialmente nei mesi da marzo a settembre, è ininterrotto, 24 ore su 24. L’invecchiamento della pelle è causato dall’età, ma anche dalla continua esposizione ai raggi solari. Gli ultravioletti uniti al freddo e al clima secco lasciano in compenso la pelle più distesa rispetto al sole “marino”. C’è poi un secondo elemento che contraddistingue i volti degli abitanti del “grande freddo”, e sono gli occhi. La pupilla, sollecitata per lunghi mesi
d’inverno al buio e d’estate ad una luce continua, reagisce in modo diverso alla luce. E lo sguardo varia. I nostri occhi si modificano. Nell’oscurità impariamo a vedere e con il chiarore l’iride diventa più grande». I cento ritratti, visi di oggi e del passato, che Huw Lewis-Jones ha riprodotto in una splendida cornice editoriale nel suo Volti polari. Uomini che hanno sfidato i ghiacci (De Agostini Edi-
tore) ci trasmettono gli sguardi e il ricordo di uomini che hanno vissuto buona parte della loro vita in mezzo ai ghiacci. Le immagini in bianco e nero, dal primo dagherrotipo con il viso sfumato di Sir John Franklin nel 1845 (ultima immagine dell’esploratore che, salpato poco dopo con le sue navi dal Tamigi per una spedizione artica, scomparve per sempre) alle foto ingiallite di Sir Ernest
«Vivendo qui - spiega l’italiano Stefano Poli - i nostri tratti acquistano delle caratteristiche comuni.Tutti abbiamo la pelle corrosa dal Sole, e tutti modifichiamo occhi e sguardo per l’oscurità»
Shackleton (membro della prima spedizione antartica di Scott, ideatore della Imperial Transantarctic Expedition del 1914, chiamato “Il Boss”dai suoi uomini) o di Roald Amundsen (che decise di diventare un esploratore ispirandosi a Franklin e perseguendo il «sogno con una caparbietà che rasentava l’ossessione») o di Robert Peary (la sua spedizione del 1909 è probabile non abbia mai raggiunto il Polo Nord, forse i dati furono falsificati; ciò nonostante notevole rimane il suo contributo ai viaggi polari), tutti i ritratti in bianco e nero, dicevo, sono stati scelti tra quelli della notevole collezione dell’Istituto Scott di Ricerche Polari dell’Università di Cambridge.
L’Istituto fu fondato nel 1920 come commemorazione permanente del lavoro di Robert Falcon Scott e di tutti coloro che lavorarono al suo fianco. Scott, ufficiale di marina scelto nel 1901 per guidare la prima spedizione antartica britannica, battuto sul filo di lana da Amundsen nel gennaio 1912, che raggiunse alcuni giorni prima di lui il Polo Sud, morto con tutti i suoi compagni durante il viaggio di ritorno, è immortalato nel libro con una desueta foto che lo ritrae come un perfetto gentiluomo borghese in abiti “cittadini”. L’istituto possiede il più grande archivio polare esistente al mondo. Guardare alle immagini storiche di questi uomini ed esploratori non vuol dire trascurare il mondo polare di oggi. Martin Hartley, noto fotografo e specialista di spedizioni, ha accostato alle foto storiche quelle di altri 50 uomini e donne di molte nazioni che oggi vivono e lavorano nelle regioni polari, che studiano le culture degli Inuit, che oggi proseguono il lavoro degli esploratori del secolo scorso. Tutte le fotografie sono documenti storici, piccoli pezzi di passato che tornano dal tempo andato e fanno rivivere eventi e persone. Nelle immagini del libro, però, «c’è qualcosa di essenziale che unisce il passato con il presente: sono le stesse persone, sono solo vestite in un altro modo. Il mondo delè l’esplorazione cambiato, ma permangono gli stessi pericoli, le stesse lotte e le stesse speranze. I loro volti ci parlano ancora di avventura e di ambizione, a volte di fallimenti e di sogni che svaniIn questa pagina, alcune delle straordinarie immagini tratte dal volume “Volti polari. Uomini che scono negli spazi bianchi e hanno sfidato i ghiacci”, (De Agostini Editore), curato da Huw Lewis-Jones. Gli scatti sono stati scelti selvaggi dei poli». tra quelli della notevole collezione dell’Istituto Scott di Ricerche Polari dell’Università di Cambridge
spettacoli
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ncora Norah Jones? Gli snob inarcano il sopracciglio, accennando maliziosamente a uno sbadiglio. Non per niente le hanno appioppato il soprannome di “Snorah”(da snore, russare in lingua inglese), liquidando la sua musica languida e sussurrata come country da salotto, come jazz da cocktail party. Musica da tappezzeria, insipida e soporifera. Magari c’è un pizzico di verità in tanta cattiveria: eppure i 37 milioni di persone che hanno comprato i suoi tre primi dischi, come i fan di Elvis, non possono essere dalla parte del torto.
A
La graziosa signorina che arriva dal Texas e ha sangue indiano nelle vene (il papà, s’è saputo solo dopo, è il leggendario maestro di sitar Ravi Shankar) è arrivata al momento giusto per soddisfare un bisogno latente, quello di un vastissimo pubblico dai gusti né troppo smaliziati né grossolani, amante della musica di classe ma poco impegnativa, del relax più che dell’avventura. Se i critici in genere non la amano, Norah ha saputo guadagnarsi quanto meno il rispetto dei colleghi. Chiedete ai musicisti di gran nome che con lei collaborano spesso e volentieri e nessuno dirà una cattiva parola su miss Jones. Men che meno la sua casa discografica, la prestigiosa Blue Note di Art Blakey, Horace Silver e Jimmy Smith, che grazie a lei ha svoltato e ingrossato imprevedibilmente il conto in banca. C’eravamo abituati a un onesto, prevedibile e - ebbene sì - un po’ tedioso tran tran ed ecco che arriva The Fall, l’annunciazione che Norah è cambiata (non tanto, solo un po’). L’immagine, prima di tutto: uno sbarazzino caschetto di capelli corti al posto della chioma mora fluente sulle spalle, rosssetto e un filo di trucco in più. Sempre morbida, sempre dolce e suadente, ma un poco più aggressiva, più sexy e moderna. Così la sua nuova musica, che ha origine da un trauma: la fine, dopo sette anni, della love story con Lee Alexander, coproduttore, contrabbassista e pilastro di quella Handsome Band che l’ha accompagnata dall’inizio, imprescindibile nel cucire quei suoni jazzy, acustici e misurati adatti allo stile educato e compassato della leader. Jones ne ha approfittato per fare piazza pulita e per svelare un altro lato di sé (non è la prima volta: da tempo, mascherata in parrucca bionda, calze a rete e Stratocaster rossa a tracolla, scorrazza per i piccoli club newyorkesi alla guida di una divertente punk band di nome El Madmo; e prima ancora s’è divertita a fare la
Musica. “The Fall”: il nuovo, graffiante disco della texana Norah Jones
E la “docile gattina” tirò fuori le unghie di Alfredo Marziano
Nell’album, percussioni secche e ossessive, chitarre e tastiere elettriche a centro scena invece del classico pianoforte ragazza country&western con i Little Willies). Ma chi l’avrebbe detto che uno dei suoi album preferiti fosse Mule Variations di Tom Waits? Così ha ingaggiato il fonico di fiducia del grande cantautore californiano, Jacquire King, e Marc Ribot, chi-
tarrista dal tocco inconfondibile e sperimentale che sembra sempre sospeso in uno spazio tutto suo, tra gli anni Cinquanta e l’era spaziale. E ha tirato fuori le unghie. Che non graffiano ancora, Norah in fondo resta una gattina docile, ma almeno ti costringono a stare all’erta. Ricorda un po’ la Suzanne Vega dei primi anni Novanta, stufa di essere ingabbiata nel cliché di Luka e del neo-folk, coraggiosamente disposta a sporcarsi le mani con l’elettronica, i
loop e i campioni sonori. Di Waits non resta molto, in The Fall, non fosse altro che a cantare qui non è l’orco Tom ma la fatina Norah. Ma c’è un radicale maquillage sonoro, quello sì: chitarre e tastiere elettriche (spesso distorte) a centro scena
In alto, l’artista texana Norah Jones in versione “vecchia maniera”. Sopra, la cantante dopo il cambiamento d’immagine (capello corto e sbarazzino, trucco più marcato). A fianco, la copertina del suo nuovo album “The Fall”
in vece del classico pianoforte, percussioni secche e ossessive sovente in primo piano (in It’s Gonna Be, un attacco diretto al mondo fasullo dei talk show e delle soap opera televisive, c’è una citazione inattesa ed esplicita di Adam and the Ants, pirati inglesi New Romantic degli anni Ottanta), sonorità sature, echi e riverberi che citano il passato e guardano al futuro. Norah s’è scoperta postmoderna, anche se poi a catturare le orecchie dei fan di lunga data saranno soprattutto la melodia semplice e il ritmo accattivante di Chasing Pirates, il candore spoglio e invernale di December, il blues notturno di Back To Manhattan, il folk dylaniano di You’ve Ruined Me. Priva dei soliti punti di appoggio, ha chiesto aiuto ad amici vecchi e nuovi, che con lei firmano alcune delle canzoni del disco: Jesse Harris, Will Sheff degli Okkervil River (lui pure texano), quel talentaccio disordinato ma autentico di Ryan Adams, stella pazza e luminosa uscita dalla frontiera dell’alternative country. Ma si è anche sforzata a tirarsi fuori dal guscio, confermando lo stereotipo secondo cui è dal dolore che escono spesso le cose migliori di un artista. «Scrivo meglio quando sono infelice», ha ammesso in una recente intervista, «è quando sono sola che le parole cominciano a fluire».
Sa raccontare, sa essere onesta («Se resto qui ad aspettarti/ non significa che tu ritornerai», Waiting), pungente («Dì a tua mamma/ che ti ha fatto crescere troppo lentamente/ dì a tuo padre/ che ti ha fatto crescere nel modo sbagliato», Tell Yer Mama) e ironica: in Man Of The Hour, indecisa tra un «vegano e un fumatore di spinelli», opta per il suo fedele San Bernardo immortalato a suo fianco in copertina. Ha rischiato, si è esposta, si è rinnovata. Più in là non le si può chiedere di andare (per quanto salutare, chissà se questa mossa la ripagherà in termini di vendite e successo commerciale). «La verità è che io canto ballate. È questo quel che piace alla gente, e sembra che mi venga bene. E se i tipi cool non riescono proprio a dire niente di carino su di me non posso farci niente. Non proverò mai a cambiare quello che sono o quello che faccio. Non posso proprio. Ray Charles rimaneva Ray Charles anche quando interpretava un pezzo country, no?».
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da ”Le Figaro” del 25/11/09
I tradimenti di Facebook di Cécilia Gabizon n avviso per tutti i truffatori: Facebook vi può tradire. Ne sa qualcosa un lavoratore canadese in malattia a causa di una depressione. L’assicurazione ha smesso di corrispondergli l’indennità mensile, perché le sue foto, sul profilo di Facebook, lo ritraevano felice e contento.
U
La compagnia naturalmente afferma di avere altre prove della sua improvvisa guarigione. Insomma sempre più spesso società pubbliche e private utilizzano il popolare social network per “spiare” i propri dipendente o assistiti. Quindi attenzione agli “amici” che accettate su Facebook, permettendogli di lanciare uno sguardo indiscreto sulle vostre foto, relazioni e abitudini più intime. Fra questi ci potrebbe essere, sotto mentite spoglie, il vostro assicuratore, un funzionario della vostra banca o il datore di lavoro. In Francia, prima di staccare un assegno familiare, l’istituto d previdenza faceva le solite indagini e controlli. Nessuno pensava che si potesse arrivare a monitorare il web. «Non siamo attrezzati per controllare internet e mi sembra che questa sia un’intrusione eccessiva» assicura un funzionario della previdenza sociale. Un istituto che solo quest’anno ha effettuato 1,6 milioni di controlli «su persone in congedo per malattia» e, assicurano dall’interno, senza mai utilizzare internet. Comunque, oggi, in Francia «non esiste un’investigazione organizzata per il web, solo occasionalmente si possono effettuare indagini per scoprire degli abusi, tra cui le frodi fiscali» ha affermato Benoit Parlos che dirige un’attività interministeriale per la lotta alle frodi. In Norvegia c’è il caso di una ragazza madre con due figli da far crescere. Una storia come tante
di difficoltà economiche superate con l’aiuto dell’intervento pubblico. Anche lì i segugi della previdenza sociale hanno scoperto alcune foto. Ritraevano la giovane madre con un compagno, con cui conviveva, si è poi scoperto . Sempre grazie alle infromazioni del profilo del network galeotto. In Belgio è successo una cosa simile: due studenti si sono vantati di aver superato un esame copiando la prova. Beccati anche loro. Però Facebook può anche essere un mezzo per scagionare degli innocenti. È accaduto a New York questa volta, per un’accusa di aggressione. Si chiama Rodney Bradford ed è forse il primo caso in cui qualcuno ha potuto avvalersi di un alibi elettronico. Al momento del delitto stava mandando un messaggio al padre su Facebook. Gli assicuratori sarebbe particolarmente tentati di verificare se le automobili denunciate per furto non compaiano sugli schermi, nei blog o nei profili personali di qualcuno. «Per ora le aziende sono ancora scoraggiate dal costo di questo controllo esterno. Ma è il futuro», ha affermato Mouloud Dey, chief strategy officer di Sas, che fornisce gli strumenti per il controllo della rete.
Quasi la metà dei reclutatori e cacciatori di teste americani ammettono di ricercare nei profili dei candidati. Per evitare errori grossolani come in Francia, Alain Gavan, responsabile di una importante società di selezione di personale propone di consultare solo le reti professionali. Ma questo codice di condotta è difficile da verificare. «I datori di lavoro lo fanno indirettamente, con quello che raccolgono su Internet», spiega l’avvocato “lavorista”
Roger Koski. Se il documento digitale è una prova, i dati devono essere raccolti sotto stretto controllo. Mentre la giurisprudenza si è sviluppata in questo senso, la veridicità delle informazioni individuate sulle reti sociali rimane discutibile.
Per l’avvocato Alain Bensoussan, per esempio, quei dati non sarebbero tutelati dalle leggi sulla privacy. Per chiarire lo status dei segreti inmessi sui profili, Nathalie Kosciusko-Morizet, segretario di Stato per lo Sviluppo dell’economia digitale, insiste: «l’utente ha bisogno di sapere se quanto ha scritto sia nella sfera pubblica o in quella privata». Prima di concludere che nel futuro immediato, dobbiamo ricordare che «l’unico documento riservato nella rete è quello che non si posta». Gli internauti sono avvisati.
L’IMMAGINE
Influenza A. Previsioni prevalentemente sballate e spese senza dubbio inutili Tra 8 e 12 milioni di malati e 10-15mila morti in Italia. Sono questi gli scenari delineati dagli epidemiologi durante un incontro sulla prevenzione dell’influenza A, provocata dal virus A (H1N1), nel settembre scorso a Praga, cioè circa 2 mesi fa. I dati attuali sono di 752.000 malati e 66 morti. La percentuale di mortalità è dello 0,0029% che, statisticamente, è irrilevante. Per la classica influenza stagionale lo scorso anno ci sono stati 8.000 morti su 4 milioni di casi, cioè lo 0,2%. Le persone vaccinate sono state 167.680, con 3 milioni di vaccini distribuiti e ne sono disponibili per 24 milioni di italiani. La spesa è stata di 184,8 milioni di euro più 2,5 milioni per la campagna “informativa”. Previsioni sballate e soldi buttati visto che il picco dell’influenza A, probabilmente, si avrà a dicembre e buona parte dei vaccini sarà inutilizzata. Soldi pubblici, cioè del contribuente. Ma il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non aveva detto che non voleva mettere le mani nelle tasche degli italiani?
Primo Mastrantoni
I RISPARMIATORI NON HANNO CAPITO. GLI INTERMEDIARI SÌ È uscita la notizia sulle vendite trimestrali dei prodotti del risparmio gestito e non posso far altro che manifestare tutto il mio stupore: boom delle polizze che raccolgono 18,6 mld su 27! Ma ho letto bene? Le polizze? Ossia quei prodotti assicurativi fatti a mo’ di scatole cinesi che hanno caricamenti che vanno dal 3% al 10%? E proprio così, proprio quei prodotti hanno raccolto quasi la totalità del denaro versato in prodotti di risparmio gestito. Andando a leggere meglio si scopre che per oltre la metà il denaro è finito in prodotti obbligazionari: ma come è possibile? I risparmiatori hanno sostenuto ingenti costi che vanno per investire in titoli di Stato o obbligazioni? Ma questi
risparmiatori sanno che i titoli di Stato che sono inseriti nelle polizze potrebbero comprarseli da soli a costi irrisori? E se lo sanno perché continuano ad acquistare certi prodotti spazzatura? La risposta è sempre la stessa purtroppo: la scarsa conoscenza finanziaria di chi acquista, crea terreno fertile alla spregiudicatezza commerciale di chi vende. Sembra proprio che la crisi finanziaria sia servita a poco o a niente, i risparmiatori continuano a comprare prodotti costosi e poco trasparenti, venduti a mani basse dagli intermediari con le solite vecchie tecniche di marketing. Speravo che la crisi finanziaria potesse cambiarne il finale, che resta ancora quello di sempre: ma perché, malgrado i mercati finanziari stiano recupe-
Abbassa la cresta! Gli basta agitare il crestone “biondo”, per avere tutte le femmine ai suoi piedi. In fatto di seduzione l’eudipte crestato è un vero maestro e quando fa ondeggiare i lunghi ciuffi di piume gialle che corredano il muso, non passa certo inosservato. Ma non è un Don Giovanni, è un tipo fedele e ogni anno nel periodo degli accoppiamenti va in cerca della stessa partner
rando, il mio capitale resta fermo o diminuisce?
Matteo Piergiovanni
LA PAGA DEL PECCATO È LA MORTE John Allen Mohammed , famoso negli Usa come il “cecchino” di Washington, è stato giustiziato dallo stato della Virginia. La pena di morte è arrivata a sette anni
dai dieci omicidi di cui era colpevole: gente qualunque colpita per strada con un fucile di precisione. Gli sbandieratori multicolori e chi non vuole che il colpevole Caino sia toccato (gli stessi che fanno spallucce all’omicidio dell’innocente Abele dentro il ventre della madre), possono spiegare perché non hanno organizzato nessuna marcetta di solidarietà in difesa
dell’infallibile sparatore? Forse perché non era nero, povero e in grado di impietosire l’opinione pubblica? Chi ama chi odia la vita, non avrebbe il dovere morale di avvertire anticipatamente i potenziali “peccatori”, ricordando loro quanto San Paolo andava ammonendo, vale a dire che «la paga del peccato è la morte»?
Gianni Toffali - Verona
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sei tu il prototipo dei creatori 15 luglio 1985 Caro Fellini, mi chiedono di unire la mia flebile voce alle mille, anche ufficiali, che dal Lincoln Center di New York a Venezia e al mondo intero riconoscono ufficialmente il tuo genio. È una parola che non mi piace proprio: troppo vaga, troppo sfruttata. Per quanto riguarda la mia modesta persona, a chi mi chiedesse che cos’è un creatore (ecco la parola giusta) risponderei senza esitazione: «Guardate Fellini». Perché sei tu il prototipo dei creatori. Tu non hai mai imitato nessuno. Non hai mai seguito le mode. Non hai mai adattato l’opera di uno scrittore, di un poeta o di uno sceneggiatore specializzato. Né tanto meno hai seguito i consigli «imperiosi» dei produttori o tenuto conto dei gusti mutevoli del pubblico. Tutti i tuoi film sono diversi, perché riflettono le tue preoccupazioni, le tue angosce, se non addirittura le tue ossessioni del momento. Come tutti i creatori, in tutte le arti, tu esprimi infatti, forse senza saperlo, le tue ossessioni, a volte dolorose. Un creatore non è mai un uomo sereno. E neppure tu, mentre lavori, sai dove ti porterà il tuo esorcismo, ne sono certo. È per questo che ai miei occhi sei così grande: il prototipo del creatore. Georges Simenon a Federico Fellini
ACCADDE OGGI
ACQUA PRIVATIZZATA? BUFALA! Benvenuti nel barocco sistema idrico, con poltrone per politici e rendite ai privati. Fuori lo Stato dalle aziende. Liberalizzazione. Assetati italiani, benvenuti nel barocco sistema idrico, attuale e futuro. La cosiddetta privatizzazione dell’acqua approvata in Parlamento è una bufala, già realtà in Toscana. Non c’è privatizzazione e mercato, ma solo un misto di pubblico e privato, con meccanismi in cui la politica continuerà a far proliferare poltrone e i privati a introitare non profitti, ma rendite. È un modello che gli amministratori della Toscana hanno messo in pratica fin dal 1994, con controllore e controllato che coincidono, e dove i profitti per i privati non dipendono dalla buona gestione, ma sono garantiti. Il caso Firenze e zona: la gestione del servizio idrico è affidata a Publiacqua, società al 60% dei comuni fiorentini e al 40% della privata Acea, società controllata dal comune di Roma, a sua volta partecipata da un’azienda sotto il controllo dello Stato francese. Il controllo dell’operato di Publiacqua è affidato all’Aato 3, una sorta di consorzio a cui partecipano tutti i comuni in cui opera Publiacqua. Quindi controlli solo di facciata, a comandare è Publiacqua che detta la linea all’Aato. Utili/rendite assicurati. Ad Acea, il socio “privato”che ha investito 70 milioni di euro, è garantita una remunerazione del 7% annuo, oltre al recupero dell’inflazione: i privati -finti o meno - sono in fila per investire il proprio capitale in ambiti del
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
26 novembre 1941 Il presidente Franklin Delano Roosevelt firma un decreto che stabilisce il quarto giovedì di novembre come giorno del ringraziamento negli Stati Uniti 1942 Prima del film Casaall’Hollywood blanca Theater di New York 1949 L’assemblea costituente indiana adotta la Costituzione dell’India 1965 Nella base di lancio di Hammaguira nel Deserto del Sahara, la Francia lancia un razzo Diamant-A, con a bordo il suo primo satellite artificiale, l’Asterix-1 1980 Iniziano le riprese del film Gandhi 1983 A Londra, 6.800 lingotti d’oro vengono rubati dal caveau della Brinks Mat all’aeroporto di Heathrow 1985 Il presidente Ronald Reagan firma il contratto per cedere i diritti della sua autobiografia alla Random House, per la cifra record di 3 milioni di dollari 1996 La Juventus vince la sua seconda Coppa Intercontinentale battendo 1-0 il River Plate 2003 Ultimo volo di un Concorde
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
genere, altro che Bot, Borsa.Tempo fa, l’Aato ha deliberato una sopratariffa a carico degli utenti per complessivi 6,2 milioni di euro, la motivazione? Conguaglio sui ricavi: è come se la Fiat, a seguito di una perdita di esercizio, potesse inviare a tutti gli acquirenti di Punto, Bravo e Panda una lettera in cui richiede un’integrazione di prezzo. Così diventerà tutta l’Italia con la nuova legge a cui il centrosinistra si è opposto solo perché non l’avevano proposta loro. Se lo Stato non esce da questo conflitto di interessi non sarà mai in grado di garantire i cittadini/utenti che il suo controllo sia per il bene pubblico. Inoltre la privatizzazione in sé, quand’anche non vedesse la partecipazione azionaria dello Stato, non garantisce il cittadino utente. Se ad Arezzo -città portata ad esempio per la privatizzazione che ha fatto lievitare le tariffe con miglioramento della qualità del servizio - l’utente non può scegliere un fornitore rispetto ad un altro (così com’è oggi), perché mai la società Nuove Acque dovrebbe abbassare le tariffe e migliorare ulteriormente la qualità visto che gli manca lo stimolo della concorrenza e le basta solo mantenersi caldi i politici locali? Se non si passerà anche alla liberalizzazione, per il cittadino utente non cambierà nulla. Così come si è fatto (ancora in parte) per telefonia ed energia, occorre che sia l’utente finale a determinare il mercato con la propria scelta, verso i più meritori per qualità e prezzo.
QUALE EUROPA A VENT’ANNI DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO? La caduta del muro di Berlino è un evento storico che segnò l’inizio della fine del blocco comunista nell’Europa orientale. Si tratta di un avvenimento molto importante che restituì libertà a tutti quei popoli europei che il comunismo aveva soggiogato con la promessa di un mondo migliore, per poi, in realtà, precipitarli in un inferno. All’epoca qualche studioso parlò addirittura di fine della storia, nel senso che dopo la fine del blocco orientale, l’umanità si sarebbe incamminata verso un futuro di pace e prosperità, guidata dagli Stati Uniti d’America, nazione leader del blocco liberale. In realtà già le guerre balcaniche degli anni Novanta fecero presagire che il percorso verso la pace universale non sarebbe stato breve, successivamente l’attentato dell’11 settembre 2001 ha spazzato via le residue speranze. A vent’anni dalla caduta del muro quale insegnamento dobbiamo trarre da quell’evento? L’Europa oggi sta vivendo un momento di forte trasformazione negli equilibri di leadership, soprattutto adesso che l’amministrazione Obama ha spostato il baricentro della propria politica estera verso il Pacifico. A partire dagli ideali di vent’anni fa è necessario cercare di trovare un nuovo equilibrio che garantisca a tutti i popoli europei di vivere in pace e prosperità, la questione centrale è quella di favorire i concetti di sovranità europea (all’interno della quale inserire le varie sovranità nazionali) e di difesa collettiva: il ripiegamento di Washington rischia infatti di favorire l’emergere di nuove aree di influenza locali, sia in ambito militare che energetico o economico. In particolare le due nazioni che potrebbero cercare di sostituire gli Usa sono la Germania in campo economico-politico e la Russia in campo energetico e militare, soprattutto con le armi di distruzione di massa ereditate dall’Urss. Alcuni esperti vedono il rischio di un’alleanza BerlinoMosca, che potrebbe diventare l’asse portante dell’equilibrio europeo durante la presidenza Obama. In realtà si tratterebbe di una scelta miope, che rischia di far tornare l’Europa indietro di settant’anni: certamente le grandi nazioni hanno il diritto di difendere i loro interessi, ma converrà anche a loro farlo in un contesto di collaborazione con gli altri Stati, piuttosto che cercare di ingabbiare le nazioni più piccole nelle proprie aree di influenza. Dario Nicolini C O O R D I N A T O R E GI O V A N I CI R C O L I LI B E R A L LO M B A R D I A
APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 OGGI - ORE 19 - NAPOLI HOTEL RAMADA - VIA G. FERRARIS 40 Incontro-convegno dei Circoli liberal della Campania. 150 anni di Storia: “dall’Unità d’Italia al Partito della Nazione”. Introduce: Vincenzo Inverso. Conclude: Ferdinando Adornato, presidente dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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