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La famiglia è il test della libertà, perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé

Gilbert Keith Chesterton

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 27 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Sono già centinaia di migliaia le adesioni al documento firmato a New York da 152 leader di tutte le confessioni cristiane

La rivolta di Manhattan

Protestanti, ortodossi e cattolici, per una volta insieme, lanciano un appello alla “ribellione etica” «Nascituri, disabili, vecchi: in tutto il mondo il potere minaccia la vita. E la libertà di coscienza» Nuovo attacco: la magistratura destabilizza il Paese

Berlusconi evoca la «guerra civile» «I Pm vogliono far cadere il governo» Poi parla dell’estremo scontro istituzionale

di Andrea Ottieri

ROMA. Berlusconi è furioso con i pm che indagano su di lui e per difendersi usa parole grosse: «La persecuzione dei pm ci porta sull’orlo della guerra civile. Vogliono far cadere il governo, nella magistratura c’è una spinta eversiva». Sono parole durissime, estreme. E anche con gli alleati usa parole altrettanto perentorie: «Il partito decide su tutto a maggioranza, chi non si adegua è fuori». L’allusione alle intemperanze di Fini è evidente. a pagina 7

BUGIE DI MAGGIORANZA

IMBARAZZI DI MASSA

Elementare Watson: perché Bossi smentisce il premier sul processo breve

Che piccola Italia, appesa ai files di Brenda e ai pizzini di Spatuzza

di Giuseppe Baiocchi

di Riccardo Paradisi

o zelo in politica è virtù sempre ambigua: se è poco ragionato e diventa eccessivo, rischia infatti di trasformarsi in un infortunio, se non addirittura in un boomerang. Lo si è colto pienamente nell’atteggiamento della Lega Nord sull’ipotesi del “processo breve”. a pagina 10

l cadavere di un trans e il suo computer pieno di segnali inquietanti per i potenti e per i “ricchi”. Poi pizzini, papelli e altre spettacolari mafiosità. L’Italia è appesa alla sua piccola cronaca quotidiana, mentre nel mondo si discute e si sogna (forse anche troppo) sul futuro. a pagina 11

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I QUADERNI)

di V. Faccioli Pintozzi are a Cesare quello che è di Cesare con onestà e generosità, ma mai dare a Cesare quello che è di Dio». La comunità cristiana degli Stati Uniti d’America si alza in piedi e lancia la propria sfida a una politica senza più etica, sempre più caratterizzata da leader che cercano il consenso popolare con misure che mettono a rischio la sacralità della vita. E lo fa con un lungo testo, la “Dichiarazione di Manhattan”, firmato dai maggiori esponenti delle varie confessioni cristiane presenti nel Paese. In un raro esempio di ecumenismo reale, gli esponenti di primissimo piano della Chiesa cattolica, delle Chiese ortodosse, della Comunione anglicana e delle comunità evangeliche degli Stati Uniti si sono uniti per formulare un forte appello pubblico a difesa della vita, del matrimonio, della libertà religiosa e dell’obiezione di coscienza. a pagina 2

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IL MANIFESTO DEI 152

POLEMICHE ITALIANE

«Mai daremo a Cesare quel che è di Dio»

Intanto il Senato blocca la pillola per abortire

La Carta di Manhattan

di Franco Insardà

I cristiani, quando hanno dato vita ai più alti ideali della loro fede, hanno difeso il debole e il vulnerabile e hanno lavorato instancabilmente per proteggere e rafforzare le istituzioni vitali della società civile, a cominciare dalla famiglia. a pagina 4

La Commissione sanità del Senato ha votato a maggioranza un documento che blocca la vendita della pillola abortiva Ru486, in attesa di un parere del ministero. Eugenia Roccella: «Basteranno 24 ore». Ma Pd e Idv vanno all’attacco. a pagina 5

La verità sullo scontro tra la Fiat e il ministro

Perché Usa e Cina cambiano facilmente idea

Le ragioni a metà di Marchionne e Scajola

Il clima mutevole di Obama e Hu Jintao

di Carlo Lottieri

di Osvaldo Baldacci

una regola ferrea: gli errori producono errori. Dopo aver finanziato con grande generosità il settore italiano automobilistico grazie agli incentivi per la rottamazione, ora il governo appare intenzionato a mettersi di traverso di fronte alla decisione della Fiat di chiudere – sulla base di elementari considerazioni industriali – lo stabilimento di Termini Imerese. La diatriba, ormai da giorni, divide Claudio Scajola da Sergio Marchionne, che ieri ha invitato il ministro a studiare meglio i dati. a pagina 8

arà il riscaldamento globale, ma ce n’è da far girare la testa. In dieci giorni sono cambiate in continuazione le posizioni sul clima dei maggiori protagonisti mondiali, anzi, meglio dire dei maggiori inquinatori. In particolare di Stati Uniti e Cina. A che gioco giocano Washington e Pechino? Come è possibile che cambino così continuamente e repentinamente posizione su un tema al centro dell’attenzione internazionale e che coinvolge temi così decisivi come l’economia e la salute? a pagina 16

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• ANNO XIV •

NUMERO

235 •

WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Battaglie/1. Aborto, matrimonio, libertà religiosa e di coscienza: «Ci sono cose che non si possono barattare con lo Stato»

La vita contro il potere

152 leader americani di tutte le confessioni cristiane hanno scritto un manifesto in difesa dei valori etici. Diretto a Obama e al mondo di Vincenzo Faccioli Pintozzi are a Cesare quello che è di Cesare con onestà e generosità, ma mai dare a Cesare quello che è di Dio». La comunità cristiana degli Stati Uniti d’America si alza in piedi e lancia la propria sfida a una politica senza più etica, composta da leader che cercano il consenso popolare con misure che mettono a rischio la sacralità della vita. E lo fa con un lungo testo, la “Dichiarazione di Manhattan”, firmato dai maggiori esponenti delle varie confessioni cristiane presenti nel Paese. In un raro esempio di ecumenismo reale, gli esponenti di primissimo piano della Chiesa cattolica, delle Chiese ortodosse, della Comunione anglicana e delle comunità evangeliche degli Stati Uniti si sono uniti per formulare un forte appello pubblico a difesa della vita, del matrimonio, della libertà religiosa e dell’obiezione di coscienza. Al di qua dell’Atlantico la notizia è passata quasi inosservata: in un continente come quello americano, dove i concordati non esistono e non avranno mai modo di arrivare, è scontata per le comunità religiose la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico. Un’analoga diversità di approccio riguarda la comunione eucaristica data o negata ai politici cattolici pro aborto. Negli Stati Uniti la controversia è vivacissima, mentre al di qua dell’Atlantico no. Questa diversa sensibilità divide anche la gerarchia della Chiesa cattolica: in Europa e a Roma la questione è praticamente ignorata, lasciata alla coscienza dei singoli. Mentre negli Usa i vescovi non si fanno remore a bacchettare chi sbaglia, anche a mezzo stampa: il vescovo Thomas Tobin, incaricato di curare le anime della diocesi di Providence, ha ad esempio intimato al giovane deputato Patrick Kennedy di non chiedere più la comunione in chiesa, data la sua nota posizione filo-abortista. La lettera ufficiale con il richiamo del presule, in realtà, sarebbe datata 2007 ma soltanto adesso – dopo le polemiche scatenate dal funerale religioso del patriarca Ted – il rampante rampollo ha deciso di renderle pubbliche. «Il vescovo – ha detto

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Al di qua dell’Atlantico la notizia è passata quasi inosservata: in un continente come quello americano, dove i concordati non esistono, è scontata per le comunità religiose la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico Pat – mi ha chiesto di non ricevere più la comunione, ed ha aggiunto di aver dato istruzioni precise in tal senso ai sacerdoti della sua diocesi». Da parte sua, il prelato non ha smentito ma ha contrattaccato: «Sono dispiaciuto del fatto che il deputato abbia deciso di rendere pubbliche le mie richieste, pastorali e confidenziali, oramai vecchie di tre anni. Non voglio discutere in pubblico della vita spirituale del signor Kennedy in pubblico, ma sono pronto a rispondere pubblicamente e con forza se decide di attaccare la Chiesa, se fornisce informazioni false sul mio ministero pastorale o (cosa ancora più grave) presenta in maniera scorretta gli insegnamenti cattolici». Evidentemente insoddisfatto, il deputato ha risposto: «Sono un cattolico adulto e non ho intenzione di sottostare a delle leggi imposte dall’imperfezione dell’uomo». Un modo come un altro per dire che lui è a posto con se stesso, con buona pace della sciocca crociata pro-life della Chie-

sa. Ma il vescovo non ha desistito, e sui principali network televisivi ha risposto: «Teoria errata. Se fai parte della Chiesa, ne rispetti le regole». Un tale modo di agire non si vede da decenni nel Vecchio Continente dove – complice anche il potere temporale esercitato nei secoli scorsi dalla Chiesa cattolica – gli interventi di stampo religioso vengono definiti ingerenze.

Tra i leader religiosi che hanno presentato al pubblico l’appello, in un incontro pubblico che si è svolto al National Press Club di Washington, c’erano l’arcivescovo di Philadelphia, cardinale Justin Rigali, l’arcivescovo di Washington, Donald W. Wuerl, e il vescovo di Denver, Charles J. Chaput. E tra i 152 primi sottoscrittori dell’appello ci sono altri undici presuli cattolici degli Stati Uniti: il cardinale Adam Maida, di Detroit, Timothy Dolan, di NewYork, John J. Myers, di Newark, John Nienstedt, di Saint Paul and Minneapolis, Joseph F. Naumann, di

Kansas City, Joseph E. Kurtz, di Louisville, Thomas J. Olmsted, di Phoenix, Michael J. Sheridan, di Colorado Springs, Salvatore J. Cordileone, di Oakland, Richard J. Malone, di Portland, David A. Zubik, di Pittsburgh. La redazione finale del testo non ha però una chiara matrice religiosa. Discussa nella penisola di New York nello scorso settembre, la Dichiarazione è stata affidata al cattolico Robert P. George, professore di diritto alla Princeton University, e agli evangelici Chuck Colson e Timothy George, quest’ultimo docente nella Samford University di Birmingham in Alabama. Andando oltre gli esponenti cattolici, fra le firme si trovano quelle del metropolita Jonah Paffhausen, primate della Chiesa ortodossa in America; dell’arciprete Chad Hatfield, del seminario teologico ortodosso di San Vladimiro; del reverendo William Owens, presidente della Coalition of African-American Pastors e di due personaggi di spicco della Comunione anglicana: Robert Wm. Duncan, primate della Anglican Church in North America, e Peter J. Akinola, primate della Anglican Church in Nigeria.

La Dichiarazione di Manhattan coniuga l’aspetto ecumenico con la serissima intenzione di fermare la deriva abortista della società americana. Inoltre, questa arriva in un momento critico per la società e la politica statunitense: il presidente Barack Obama è impegnato nel piano di riforma sanitaria, ma anche nella guerra in Afghanistan e nella nuova legislazione sull’aborto. Difendendo la vita umana fin dal concepimento e il diritto all’obiezione di coscienza, l’appello contesta due punti messi in pericolo dal progetto di riforma attualmente in discussione al Senato. Al Congresso il pericolo è stato sventato anche grazie a una pressante azione di lobbying condotta alla piena luce del sole dall’episcopato cattolico. Dopo che il voto finale aveva garantito sia il diritto all’obiezione di coscienza sia il blocco di qualsiasi finanziamento pubblico all’aborto, la conferenza episcopale aveva rivendicato questo risultato come un successo. Ma ora al Senato la battaglia è ricominciata da capo,


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Dietro la firma, i vertici delle chiese Ecco chi sono gli autori del rivoluzionario documento elaborato a New York di Pierre Chiartano l documento di Manhattan è forse destinato a rimanere una pietra miliare nella storia dei rapporti tra Stato e Chiesa in un Paese, l’America, dove entrambe le istituzioni svolgono un ruolo attivo e dinamico. In un rapporto ben codificato, che potremmo riassumere nello slogan: Stato laico in corpore religionis. Sintetizzato anche da un passaggio del documento: «noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza daremo a Cesare ciò che è di Dio». Serve dunque lanciare uno sguardo sulle biografie di alcuni fra i più noti firmatariee sugli autori del documento, cominciando da un cattolico, il cardinale Adam Maida. È un prelato di rango, un elettore di quelli entrati nel conclave che ha votato per Papa Benedetto XVI. Anche se il prossimo anno compiendo l’ottantesimo compleanno perderà il diritto di voto. Ora guida la curia di Detroit, ma è anche membro del collegio dei revisori dell’Università cattolica americana. Fu nominato, nel 1983, da Giovanni Paolo II, vescovo di Greenbay, un centro a nord di Chicago nella zona dei grandi laghi. Ora per via dell’età ha lasciato il posto di arcivescovo della città dell’auto, per diventarne amministratore apostolico.

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Tra i relatori, invece, salta subito agli occhi il nome di Robert P. George, protagonista di una polemica, di qualche tempo fa, che era salita sugli altari della stampa americana. George, professore di diritto alla Princeton University, era entrato in rotta di collisione con la professoressa di filosofia Martha Nussbaum. Entrambi avevano testimoniato davanti alla Corte suprema Usa – era il 1996 – che avrebbe deliberato su di su un testo di partenza che di nuovo la Chiesa giudica inaccettabile. La conferenza episcopale ha già indirizzato ai senatori una lettera con indicate le modifiche che vorrebbe fossero apportate a tutti i punti controversi. Nell’ultimo capitolo della Dichiarazione, quello dedicato alle leggi ingiuste, si

un caso delicato. Lo Stato del Colorado aveva varato un emendamento costituzionale dichiarando quella degli omosessuali una «classe protetta» di cittadini. La Corte aveva poi bocciato l’emendamento come incostituzionale, ammonendo altre amministrazioni a non varare norme simili. Semplificando molto, era una diatriba su cosa fosse più discriminante: dichiarare un genere umano protetto, oppure semplicemente garantirgli i diritti di tutti gli altri cittadini. George, durante la sua relazione, aveva citato una pubblicazione della professoressa di Chicago, come in piena contraddizione con la sua testimonianza davanti alla Corte. Erano volati gli stracci, accademici naturalmente. Ma è un’indicazione su quanto il professore di Princeton non tema il confronto, anche aspro, quando in ballo ci siano principi che varrebbe la pena difendere. Famoso un suo seminario sui grandi libri da leggere. Fra questi Le Confessioni di Sant’Agostino, Il Manifesto di Karl Marx, La strada verso la schiavitù di Hayek, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e Storia e Diritto naturale di Leo Strauss. Una scelta di autori che già denota un certo equilibrio culturale. Il legame con Strauss poi va oltre. Infatti Gorge è il fondatore della New Natural Law theory, un tentativo – semplifichiamo – per aprire all’esplorazione razionale i temi legati alla trascendenza. Ha inoltre fondato l’American principles project, un’organizzazione politica fatta per unire e mobilitare il mondo conservatore su te-

legge: «Non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi. Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza

mi economici, sociali e di politica estera sulla base di principi morali ed etici che vogliono sfidare quelli che genericamente possiamo definire della cultura liberal americana. L’accademico di Princeton pur essendo cattolico ha avuto una notevole influenza sul mondo protestante, molti dei suoi lavori il materia di morale e difesa delle libertà religiose sono stati spesso ripresi da studiosi del mondo evangelico ed ebraico statunitense. Non meraviglia il fatto che sia stato tra i principali estensori di un documento che ha creato una valida sintesi tra sensibilità religiose differenti. Charles ”Chuck” Wendell Colon, un protestante evangelico, è invece il leader storico della cosiddetta «destra cristiana», commentatore culturale e autore di una ventina di libri. È stato consigliere speciale del presidente Richard Nixon dal 1969 al 1973 ed è stato coinvolto nel famoso scandalo Watergate. Fu tra i primi a finire dietro le sbarre e ad essere prosciolto, almeno per quella vicenda. Un passaggio questo, che ha poi segnato la sua vita futura, dedicata al lavoro per organizzazioni umanitarie che si occupavano di vita carceraria. Ma non per questo è diventato una colomba. Chi era stato definito «il genio diabolico» di Nixon e proponeva di bombardare il think tank di area democratica, Brookings institution, è rimasto sulle barricate della politica ultraconservatrice. Contro i matrimoni omosessuali, da sempre difende un cristianesimo, definito da Colson «sotto attacco». Colpisce, oggi,

Il testo, unico nel suo genere, potrebbe divenire una pietra miliare nei rapporti fra lo Stato e i cristiani

In alto, da sinistra: il cardinale di Detroit Adam Maida; l’evangelico Chuck Colson; il primate anglicano Akinola e il professore di Diritto dell’università di Princeton Robert P. George

ancora di più la sua apparente virata verso un approccio più dialogante con la nuova amministrazione della Casa Bianca sui temi dell’etica.

Timothy George non è parente di Robert, ma condivide con lui la carriera accademica. È infatti rettore della Beeson Divinity school all’Università di Birmingham nell’Alabama. Suo un libro sulla teologia dei riformatori ancora in circolazione e numerosi altri di analisi e sociologia cristiana. Tra questi un trattato sul futuro dell’identà battista in un mondo post-denominale. In pratica che fine faranno le numerose sette protestanti in un contesto dove il Corpo di Cristo è riconosciuto essere persente in tutte le chiese cristiane al di là della loro gruppo d’appartenenza. Tanto che gran parte delle chiese protestanti che nascono oggi nel mondo, non dichiarano alcuna appartenenza specifica. Tra chi ha condiviso il documento di Manhattan leggiamo, inoltre, nomi come Jody Bottum, direttore della rivista First Things. Il mensile cattolico ecumenico, fondato dal teologo Richard John Neuhaus e che è stata una fucina di incontri interreligiosi. Qui possiamo trovare interventi di rappresentanti del mondo cattolico, protestante, ortodosso ed ebraico. Un punto di vista critico verso la società moderna espresso secondo l’orotodossia religiosa nelle sue differenti espressioni. Tra le firme della rivasta citiamo, tra glia altri, Mary Ann Glendon, già ambasciatrice Usa presso la Santa Sede, Robert Sirico, lo stesso Robert George e Michael Novak. In calce al documento si può vedere anche la firma del gesuita, ex allievo di Papa Ratzinger, Joseph D. Fessio.

noi daremo a Cesare ciò che è di Dio». Ma l’appello sottolinea anche questo: «Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia». I leader religiosi che incalzano

Obama sui terreni minati dell’aborto, del matrimonio tra omosessuali, dell’eutanasia, sanno di avere con sé un’ampia e crescente parte della società americana, come dimostra l’ultimo sondaggio Gallup. E sono scesi in campo per dimostrare a tutti che ci sono cose su cui non si negozia.


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In basso, Giovanni Paolo II. Il pontefice polacco è stato il primo a denunciare i pericoli della cosiddetta “cultura della morte”, quella tendenza socio-politica che incita all’interruzione di gravidanza. Gli autori della Dichiarazione partono da questo. Nella pagina a fianco, il ministro del Welfare Sacconi

Battaglie/2. «Anche in una società democratica ci sono enormi ingiustizie. Dopo la schiavitù, va combattuto l’aborto»

«Una ribellione etica»

La vita umana, il matrimonio, la libertà religiosa e le leggi ingiuste: ecco i quattro principi fondamentali della Dichiarazione di Manhattan La Carta di Manhattan cristiani sono eredi di una tradizione che dura da duemila anni, nel corso dei quali hanno proclamato la parola di Dio, cercato la giustizia nella nostra società, resistito alle tirannie e portato compassione ai poveri, agli oppressi e a coloro che soffrono. Pur riconoscendo le imperfezioni e gli errori delle istituzioni e delle comunità cristiane nel corso delle varie epoche, noi vogliamo difendere il solco tracciato da quei cristiani che hanno difeso la vita, innocente, salvando i bambini e denunciando l’infanticidio. Ricordiamo con reverenza quei fedeli che hanno sacrificato la loro vita per non rinnegare il Signore. Dopo le invasioni barbariche nel continente europeo, i monasteri cristiani hanno preservato non soltanto la Bibbia, ma anche la letteratura e l’arte dell’Occidente. Sono stati i cristiani che per primi hanno combattuto la schiavitù: gli editti papali del Sedicesimo e Diciassetesimo secolo definivano “malvagia” la pratica e comminavano la scomunica per chi vi indulgeva. I cristiani evangelici d’Inghilterra, guidati da John Wesley e William Wilberforce, misero fine al commercio degli schiavi nella loro nazione. I cri-

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stiani hanno formato centinaia di società per aiutare i poveri, gli imprigionati e i deboli. In Europa, i cristiani hanno sfidato la natura divina della monarchia e hanno lottato per stabilire lo stato di diritto e il bilanciamento dei poteri del governo, in modo da rendere possibili le moderne democrazie. E in America, le donne cristiane erano l’avanguardia del movimento per il suffragio universale. Le grandi crociate per i diritti civili degli anni Cinquanta e

cause per i diritti umani. Come coloro che ci hanno preceduto nella fede, i cristiani sono chiamati oggi a proclamare il Vangelo e proteggere l’intriseca dignità della persona umana, lavorando per il bene comune. Le chiese cristiane sono chiamate a lavorare per il bene comune anche insieme.

La Dichiarazione I cristiani, quando hanno dato vita ai più alti ideali della loro fede, hanno difeso il debole e il vulnerabile e hanno lavorato instancabilmente per proteggere e rafforzare le istituzioni vitali della società civile, a cominciare dalla famiglia. Noi siamo cristiani ortodossi, cattolici ed evangelici che si sono uniti nell’ora presente per riaffermare le verità fondamentali della giustizia e del bene comune, e per lanciare un appello ai nostri concittadini, credenti e non credenti, affinché si uniscano a noi nel difenderli. Queste verità sono: la sacralità della vita umana; la dignità del matrimonio come unione co-

Noi ci impegniamo a lavorare incessantemente per l’eguale protezione di ogni essere umano innocente ad ogni stadio del suo sviluppo e in qualsiasi condizione si trovi Sessanta del secolo scorso sono state guidate da persone che citavano le Scritture. La stessa devozione alla dignità umana ha portato i cristiani a lavorare per far scomparire il traffico di esseri umani e la schiavitù sessuale, portare cure ai malati di Aids e assistere in miriadi di modi diverse le

niugale tra marito e moglie e i diritti di coscienza e di libertà religiosa. In quanto queste verità sono fondative della dignità umana e del benessere della società, esse sono inviolabili e innegoziabili. Poiché esse sono sempre più sotto attacco da parte di forze potenti nella nostra cultura, noi ci sentiamo in dovere oggi di parlare a voce alta in loro difesa e di impegnare noi stessi a onorarle pienamente, non importa quali pressioni siano esercitate su di noi e sulle nostre istituzioni affinché le abbandoniano o le pieghiamo a compromessi. Noi prendiamo questo impegno non come partigiani di un gruppo politico ma come seguaci di Gesù Cristo, il Signore crocifisso e risorto, che è la Via, la Verità e la Vita.

Vita umana Le vite dei nascituri, dei disabili e dei vecchi sono sempre più minacciate. Mentre l’opinione pubblica si muove in direzione pro-life, forze potenti e determinate lavorano per promuovere l’aborto, la ricerca distruttiva degli embrioni, il suicidio assistito e l’eutanasia. Nonostante la protezione del debole e del vulnerabile sia il


prima pagina dovere primo di un governo, il potere di governo è oggi spesso guadagnato alla causa della promozione di quella che Giovanni Paolo II ha chiamato ”la cultura della morte”. Noi ci impegniamo a lavorare incessantemente per l’eguale protezione di ogni essere umano innocente ad ogni stadio del suo sviluppo e in qualsiasi condizione. Noi rifiuteremo di consentire a noi stessi e alle nostre istituzioni di essere implicati nel cancellare una vita umana e sosterremo in tutti i modi possibili coloro che, in coscienza, faranno la stessa cosa.

Matrimonio L’istituto del matrimonio, già ferito da promiscuità, infedeltà e divorzio, corre il rischio di essere ridefinito e quindi sovvertito. Il matrimonio è l’istituto originario e più importante per sostenere la salute, l’educazione e il benessere di tutti. Dove il matrimonio è eroso, le patologie sociali aumentano. La spinta a ridefinire il matrimonio è un sintomo, piuttosto che la causa, di un’erosione della cultura del matrimonio. Essa riflette una perdita di comprensione del significato del matrimonio così come è incorporato sia nella nostra legge civile, sia nelle nostre tradizioni religiose. È decisivo che tale spinta trovi resistenza, poiché cedere ad essa vorrebbe dire abbandonare la possibilità di ridar vita a una giusta concezione del matrimonio e, con essa, alla speranza di ricostruire una corretta cultura del matrimonio. Questo bloccherebbe la strada alla credenza falsa e distruttiva che il matrimonio coincida con un’avventura sentimentale e altre soddisfazioni per persone adulte, e non, per sua natura intrinseca, con quell’unico carattere e valore di atti e relazione il cui significato è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Il matrimonio non è una ”costruzione sociale”ma è piuttosto una realtà oggettiva – l’unione pattizia tra un marito e una moglie – che è do-

vere della legge riconoscere, onorare e proteggere.

Libertà religiosa Libertà di religione e diritti della coscienza sono gravemente in pericolo. La minaccia a questi principi fondamentali di giustizia è evidente negli sforzi di indebolire o eliminare l’obiezione di coscienza per gli operatori e gli istituti sanitari, e nelle disposizioni antidiscriminazione che sono usate come armi per forzare le istituzioni religiose, gli enti di assistenza, le imprese economiche e i fornitori di servizi sia ad accettare (e anche a facilitare) attività e rapporti da essi giudicati immorali, oppure di essere messi fuori. Gli attacchi alla libertà religiosa sono pesanti minacce non solo a persone singole, ma anche a istituzioni della società civile che comprendono famiglie, enti di assistenza e comunità religiose. La salvaguardia di queste istituzioni provvede un indispensabile riparo da prepotenti poteri di governo ed è essenziale affinché fiorisca ogni altra istituzione su cui la società si appoggia, incluso lo stesso governo.

Leggi ingiuste Come cristiani, crediamo nella legge e rispettiamo l’autorità dei governanti terreni. Riteniamo che sia uno speciale privilegio vivere in una società democratica dove le esigenze morali della legge su di noi sono anche più forti in virtù dei diritti di tutti i cittadini di partecipare al processo politico. Ma anche in un regime democratico le leggi possono essere ingiuste. E fin dalle origini la nostra fede ha insegnato che la disobbedienza civile è richiesta di fronte a leggi gravemente ingiuste o a leggi che pretendano che noi facciamo ciò che è ingiusto oppure immorale. Simili leggi mancano del potere di obbligare in coscienza poiché esse non possono rivendicare nessuna autorità oltre a quella della mera volontà umana. Pertanto, si sappia che non acconsentiremo a nessun editto che obblighi noi o le istituzioni che guidiamo a compiere o a consentire aborti, ricerche distruttive dell’embrione, suicidi assistiti, eutanasie o qualsiasi altro atto che violi i principi della profonda, intrinseca ed eguale dignità di ogni membro della famiglia umana. Inoltre, si sappia che non ci faremo ridurre al silenzio o all’acquiescenza o alla violazione delle nostre coscienze da qualsiasi potere sulla terra, sia esso culturale o politico, indipendentemente dalle conseguenze su noi stessi. Noi daremo a Cesare ciò che è di Cesare, in tutto e con generosità. Ma in nessuna circostanza noi daremo a Cesare ciò che è di Dio.

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Il Pd, l’Idv e la sinistra antagonista contestano la decisione

E da noi il Senato blocca la pillola per abortire Sospesa la vendita in attesa del parere del governo: «Decideremo in 24 ore», dice Eugenia Roccella di Franco Insardà

ROMA. Sulla RU486 adesso la parola spetta al ministero della Salute. L’ha deciso la commissione Sanità del Senato che ha approvato il documento finale dell’indagine conoscitiva nel quale si chiede di fermare la procedura di commercializzazione della pillola abortiva Ru486 in attesa di un parere tecnico del ministero della Salute sulla compatibilità con la legge 194. La decisione nella commissione Sanità, ovviamente, ha riacceso un dibattito sull’utilizzo della Ru486 che va avanti dal 2002, quando il Comitato etico della regione Piemonte approvò un progetto di sperimentazione del mifepristone, principio attivo della Ru486, che fu bloccato dall’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia. Nel 2005 sempre la Regione Piemonte ne avviò la prima sperimentazione all’ospedale Sant’Anna di Torino. Il ministero della Sanità, presieduto da Francesco Storace, considerando illegale la ricerca e ritenendola in violazione della 194 prima sospese la sperimentazione e, solo dopo la modifica del protocollo, con l`obbligo che somministrazione e controlli avvenissero in ospedale e che le donne restassero in osservazione per due notti successive all`assunzione del farmaco, ne consentì la pratica. In seguito la pillola è stata sperimentata anche in Liguria, in Toscana e Puglia. A novembre 2007 l’Exelgyn, la ditta produttrice del farmaco, fece richiesta all`Aifa per avviarne la registrazione anche in Italia. Nel febbraio del 2008 è arrivato il parere favorevole del Comitato scientifico dell’Aifa e a fine luglio del 2009 il cda dell’Agenzia italiana per il farmaco ha dato il suo ok alla commercializzazione. Ma alla fine di settembre di quest’anno è giunto il via libera del Senato all’indagine conoscitiva.

lo con un ricovero ospedaliero ordinario». Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare con delega alla bioetica, ha chiarito che il parere «sarà espresso nel giro di ventiquattro ore. Personalmente ritengo che la pillola abortiva sia un metodo più lungo, più doloroso e tutto a carico delle donne. Non vi è alcuno “stop”all’immissione in commercio della pillola abortiva e non c’é - ha precisato la Roccella - alcun rifiuto ideologico del metodo dell’aborto farmacologico, ma vanno chiariti due ordini di problemi: la compatibilità con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e la garanzia delle condizioni di sicurezza. Si tratta di una piccola sospensione dovuta all’esigenza di una maggiore chiarezza sulle competenze, dal momento che è stato rilevato che mancava il parere del governo. Nessuno impedirà alle donne di firmare il foglio di dimissioni e lasciare l’ospedale dopo aver assunto il farmaco, ma è importante informarle sul rischio che corrono».

Anche il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione ci ha tenuto a sottolineare che «in questi temi deve sempre prevalere il principio di precauzione e che quindi non è opportuno commercializzare tale strumento almeno finché non sia tecnicamente accertato che i suoi modi d’impiego non siano incompatibili con l’applicazione della legge 194. Stavolta diciamo noi “giù le mani dalla 194”, una legge da applicare di più nelle parti in cui tutela la salute della donna». Soddisfazione è stata espressa dal presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, e dal suo vice, Gaetano Quagliariello, mentre il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto ha dichiarato di non condividere: «il blocco richiesto dalla commissione Sanità del Senato nei confronti della pillola RU486», ricordando «che l’Agenzia Italiana del Farmaco, del tutto tecnica e neutrale, ha ammesso l’uso con vincoli assai rigorosi che rispettano la legge 194. L’Agenzia Italiana del Farmaco ha agito in modo del tutto regolare e legittimo». Molto duri e critici i rappresentanti di Pd, Idv, dei Radicali e degli altri partiti di sinistra. La senatrice Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd a Palazzo Madama ha ribadito che: «sulla questione della pillola abortiva Ru486 il Partito democratico si è sempre battuto per la tutela della salute della donna. Da parte della maggioranza, invece, si sta giocando una battaglia cinica e politica all’interno del centrodestra, che strumentalizza un bene primario come quello della salute femminile».

Per il ministro Sacconi, la procedura corretta «richiede preventivamente il parere del governo. Serve una nuova delibera dell’Aifa, perché quella vecchia è nulla»

Indagine che è finita ieri e blocca la possibilità che la delibera dell’Aifa sia pubblicata in Gazzetta Ufficiale perché, come ha detto il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi la procedura corretta sulla commercializzazione della pillola abortiva Ru486 «richiede preventivamente il parere del governo. Serve una nuova delibera dell’Aifa, perché quella vecchia è nulla». Sacconi ha precisato anche che il ministero della Salute darà «presto» un parere sulla compatibilità tra la commercializzazione della pillola abortiva e la legge 194 sull’interruzione di gravidanza e questo sarà «conforme alla delibera dell’Aifa. Che prevede come l’aborto terapeutico sia possibile so-


economia

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Mezzogiorno. I dati di palazzo Koch sono terribili: Cosa Nostra costruisce le sue fortune sulla distruzione del territorio

Quanto costa la mafia Mario Draghi lancia l’allarme: «Al Sud la criminalità è entrata negli enti locali» di Marco Palombi

ROMA. Ci vive un terzo degli italiani, ma produce solo un quarto del Pil (con un 20 per cento di occupati irregolari) e rimane il territorio arretrato più esteso e popoloso dell’intera area euro. È il nostro Mezzogiorno raccontato dal governatore Mario Draghi durante un convegno organizzato dalla Banca d’Italia. I dati del Servizio studi di palazzo Koch sono terribili: il processo di cambiamento è lento e il recupero rispetto al centro-nord si è interrotto 30 anni fa; il Pil pro-capite continua ad essere mediamente pari a meno del 60 per cento di quello del resto d’Italia e, senza la Pubblica amministrazione, la situazione sarebbe assai peggiore; l’emigrazione continua, ma adesso coinvolge sempre di più i giovani laureati; la crisi economica ha inciso sul mondo produttivo assai più in profondità che al Nord. Il nostro Mezzogiorno, però, non è un’area depressa come le altre sparse in Europa: sulla sua economia, dice infatti Draghi, «grava il peso della criminalità organizzata» che «infiltra le pubbliche amministrazioni, inquina la fiducia tra i cittadini, ostacola il funzionamento del libero mercato, accresce i costi della vita economica e civile». Un’analisi preoccupata, l’ennesima, che non si nasconde neanche il problema più scomodo, l’acquiescienza della società rispetto a ciò che la mette a rischio: «È carente - dice il governatore - quello che viene definito “capitale sociale”».Vale a dire: «Carenza di fiducia tra cittadini e tra cittadini e istituzioni», «scarsa attenzione prestata al rispetto delle norme», «insufficiente controllo esercitato dagli elettori nei confronti degli amministratori eletti», «debole spirito di cooperazione». È la mafia della porta accanto, quella che costruisce le sue fortune sulla distruzione del territorio, sul controllo dell’erogazione dei servizi, sulla compiacenza e/o la connivenza della politica locale e nazionale. Il suo prodotto primario è il sottosviluppo: «Il diva-

rio tra sud e centro-nord nei servizi essenziali per i cittadini e le imprese rimane ampio. Le analisi che presentiamo oggi rivelano scarti allarmanti di qualità fra centro-nord e Mezzogiorno nell’istruzione, nella giustizia civile, nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel trasporto locale, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione idrica. In più casi emblematico è quello della sanità - il divario deriva chiaramente dalla minore efficienza del servizio reso, non da una carenza di spesa». Anche il tradizionale sistema dei sussidi diretti alle imprese è stato «generalmente inefficace», visto che «si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque» finendo per introdurre «distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci».

cio dell’economia italiana nel suo complesso, una crescita più sostenuta nel prossimo avvenire. Ed è essenziale - ha scandito Napolitano - fare attenzione alle ricadute nel Mezzogiorno delle politiche nazionali».

È l’ennesimo segnale, dopo «il fallimento delle classi dirigenti meridionali» denunciato recentemente dal capo dello Stato, che la penetrazione della criminalità e del malaffare nelle amministrazioni locali e nei loro sponsor nazionali ha raggiunto il livello critico. Se serve un caso fresco di cronaca basti citare il blitz di ieri contro il clan camorristico Sarno che ha coinvolto Achille De Simone, consigliere comunale a Napoli eletto nelle file del Pdci (ora nel gruppo Misto). È, di nuovo, la mafia della porta accanto, quella che popola l’immaginario colletti-

Gli scarti di qualità tra sud e centro-nord sono allarmanti in materia di istruzione, giustizia civile, sanità, asili, assistenza sociale, trasporto locale, gestione dei rifiuti e distribuzione idrica Meglio sarebbe, sostiene Draghi sulla scorta dei numeri di Bankitalia, «investire in applicazione», ovvero «migliorare la qualità dei servizi forniti da ciascuna scuola, da ciascun ospedale e tribunale, da ciascun ente amministrativo o di produzione di servizi di trasporto o di gestione dei rifiuti».

La via della salvezza, è il messaggio di Draghi al governo, comunque «non è quella delle politiche regionali». Il presidente della Repubblica, presente in sala, ha fornito il suo avallo: autorevole «Tutte le parti del Paese, e quindi anche il Nord, hanno bisogno che il Mezzogiorno si sviluppi se vogliamo avere un recupero e un rilan-

Un messagio minatorio spedito da Reggio Emilia

Lettera di minacce per Renato Schifani ROMA. Una lettera anonima con minacce di morte nei confronti del Presidente del Senato Renato Schifani e dei suoi familiari - apparentemente riconducibili, in base al testo, ad ambienti mafiosi - è stata recapitata per posta nei giorni scorsi alla presidenza di Palazzo Madama. Schifani ha subito presentato denuncia alle forze dell’ordine. La lettera ha la data ”Reggio Emilia, 21 novembre 2009” e il timbro postale ”Bologna cmp” con la stessa data. Nella lettera, ricca di particolari sulle abitudini e sui movimenti del presidente del Senato, si sostiene che Schifani sarebbe «nell’occhio dei picciotti»; si afferma che durante «un incontro a Reggio Emilia» ci sarebbe stata una non meglio precisata «te-

lefonata», e si lancia un avvertimento al Presidente del Senato: «Stia attento perché è in pericolo la sua vita e quella dei suoi familiari». La lettera così conclude: «I cosiddetti perdenti sono per la resa dei conti». Naturalmente, sono state subito rafforzate le misure di sicurezza a garanzia del presidente del Senato, soprattutto in Sicilia. Tra i messaggi di solidarietà arrivati al presidente del Senato c’è quello di Gianfranco Fini, che ha telefonato al collega per esprimere «solidarietà e vicinanza». Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd a Palazzo Madama ha telefonato a Schifani per esprimergli la propria solidarietà e quella di tutte le senatrici e i senatori del Pd. «L’amicizia, l’affetto e la stima dell’Udc al presidente del Senato Renato Schifani per le ignobili, meschine e vigliacche minacce ricevute», sono stati espressi da Saverio Romano. Infine «Incondizionata e profonda solidarietà a Renato Schifani destinatario di una vile lettera di codarde minacce» è stata epressa dal governatore siciliano Raffaele Lombardo.


economia

27 novembre 2009 • pagina 7

Per il premier «la magistratuta è eversiva, vuol far cadere il governo»

Berlusconi attacca i pm «Vogliono la guerra civile» «Nel partito chi non è d’accordo, è fuori», e così Tremonti e Brunetta fanno pace sulle scelte economica di Andrea Ottieri

ROMA. «È in atto un tentativo di far cadere il go-

vo, che beneficia di una soglia del dicibile oramai completamente scomparsa (come, d’altronde, la «linea della palma» con cui Sciascia indicava i territori di pertinenza mafiosa).

Mario Draghi ha deunciato le infiltrazioni mafiose nei Comuni del Sud. A destra, Lanfranco Tenaglia del Partito democratico. Nella pagina a fronte, Renato Schifani

Circola da mesi su “YouTube” la canzone ’O capoclan del neomelodico Nello Liberti. Nel ritornello il padrino, finito in manette, invoca Dio: «Proteggi i miei figli. E se proprio ogni tanto non puoi farlo tu... ’o faccio io, che song ’o capoclan». È la mafia - la camorra, la ’ndrangheta - che sta dentro i comuni e ne influenza tutta la vita, persino le processioni:

del territorio (il 70 per cento degli scioglimenti origina da inchieste per reati ambientali), è la storia recente del comune di Fondi su cui il governo non ha voluto intervenire e ora si ritrova commissariato per le dimissioni del chiacchierato sindaco Luigi Parisella (Pdl), che probabilmente si ripresenterà alle elezioni di marzo.

verno». È quanto avrebbe dichiarato ieri pomeriggio il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, durante la riunione dell’ufficio di presidenza del Pdl. Il premier avrebbe puntato soprattutto il dito contro la magistratura, spiegando che avrebbe preso una deriva eversiva. Berlusconi avrebbe anche parlato di una vera e propria persecuzione giudiziaria nei suoi confronti, persecuzione che, alla lunga, potrebbe portare il Paese sull’orlo della guerra civile. E sarebbe proprio questa la motivazione che spingerebbe il Cavaliere a voler andare avanti con il provvedimento sul processo breve e sulla riforma costituzionale della giustizia, cosa avrebbe chiesto a chiare lettere durante la riunione di ieri pomeriggio (il ministro della Giustizia Angelino Alfano e l’avvocato Niccolò Ghedini avrebbero dunque illustrato, a questo punto, e ragioni tecnico-giuridiche del ddl sul processo breve). Il presidente del Consiglio non sembra dunque voler abbandonare il clima di tensio-

ne della Cgil comincerà con uno stop di 8 ore in tutti i comparti pubblici e culminerà in 3 manifestazioni interregionali. Il corteo più grande si terrà a Roma in piazza del Popolo. Gli altri due sindacati confederali, invece, dal 2 dicembre avvieranno una «straordinaria fase di mobilitazione in tutte le regioni», presso le sedi degli assessorati alla Salute, dell’Anci, dell’Upi e dell’Unioncamere. Lo sciopero è stato proclamato in segno di protesta contro la nuova Finanziaria che non prevede i rinnovi dei contratti pubblici. Nel mirino, la legge 15 del ministro Brunetta, che lo stesso Podda ha definito «lesiva dei diritti dei lavoratori»: «Il perdurare di un atteggiamento di totale chiusura da parte del governo, il mancato finanziamento dei contratti in finanziaria, la volontà di perseguire una linea che esclude il dialogo ed impone le scelte, richiedono uno slancio nella lotta dei dipendenti pubblici in difesa dei loro diritti. Diritti messi in discussione dalla legge di Brunetta e dalla totale umiliazione della democrazia sindacale».

Dopo gli insulti dei giorni scorsi, i due ministri si sono abbracciati durante la riunione della presidenza del Pdl, davanti al premier

Negli ultimi anni, a causa delle infiltrazioni del “malaffare”, sono stati sciolti comuni campani, siciliani, calabresi, pugliesi, ma anche di Nettuno, nel Lazio, e a Bardonecchia, in Piemonte accadde a Crispano (Napoli) che l’obelisco della tradizionale “Festa dei gigli” venne fatto sfilare insieme al ritratto di un boss detenuto con la scritta «tutto questo è per te». È, ancora, il sottosviluppo come prodotto primario dell’economia criminale, della rinuncia collettiva al dominio della legge. Lo disse bene il generale Dalla Chiesa: un paese mafioso è un posto in cui i cittadini ricevono dal boss come favore quello che lo Stato rinuncia a garantire come diritto. L’acqua, la luce, il welfare, il ritiro dell’immondizia. È la storia dei quasi 200 comuni commissariati per mafia dal 1991 - anno in cui fu varata la legge - ad oggi, è la storia dei predatori

È ancora la storia dei comuni campani - quasi la metà degli enti sciolti in questi anni - siciliani, calabresi, pugliesi, ma anche di Nettuno, nel Lazio, e Bardonecchia, in Piemonte. Per chi volesse approfondire c’è Federalismo criminale. Viaggio nei comuni sciolti per mafia di Nello Trocchia. Incontrerà storie di ordinaria amministrazione mafiosa: omicidi in municipio, case di avversari politici buttate giù dalle ruspe, candidati a sindaco di cui si pubblicano i manifesti mortuari, vigili urbani che lavorano per i clan, piani regolatori che si decidono a casa del boss, mentre la linea della palma, silenziosamente, sale verso nord.

ne che da mesi ormai infiamma la politica italiana, e ne ha per tutti. Alla riunione di ieri è scattato anche una sorta di ultimatum per i suoi: «Il partito decide su tutto a maggioranza, chi non si adegua è fuori». E anche sulle candidature per le elezioni regionali, il premier avrebbe sottolineato che «decide il Pdl, non io personalmente». E sulla tv: «Basta trasmissioni che fanno guerra al governo».

Tutto questo è accaduto proprio nel giorno in cui il ministro Tremonti ha fatto l’estremista di sinistra («Il deficit di bilancio sarà possibile solo per finanziare la cassa integrazione»), la sinistra vera ha deciso di scendere in piazza contro la sua Finanziaria. Il segretario generale della Cgilfunzione pubblica, Carlo Podda, ha annunciato lo sciopero generale per l’11 dicembre. Ugualmente sul piede di guerra, ma con meno impeto, Cisl Fp e Uil Fpl che hanno proclamato lo stato di agitazione di tutti i lavoratori. La mobilitazio-

Tremonti, Brunetta: i due corni del problema, anche dentro la maggioranza. Ma ieri c’è stata una riappacificazione generale con abbraccio di rito fra i due. Beninteso, l’abbraccio è avvenuto lontano da sguardi indiscreti, giacché i litiganti si sono riappacificati nel corso della riunione dell’ufficio di presidenza del Pdl, ieri pomeriggio, con la benedizione di Berlusconi. Ma la pace appena siglata potrebbe presto ricominciare a scricchiolare, viste le nuvole nere che gravano sull’economia mondiale e che potrebbero produrre un ulteriore irrigidimento di Tremonti sulla questione del rigore dei conti. Ieri, infatti, la finanza mondiale è tornata a tremare, come non capitava da settimana, per il crollo di uno dei colossi pubblici dell’economia di Dubai: Dubai World, la holding finanziaria dello stato del Golfo, ha chiesto una moratoria di sei mesi nei pagamenti per eccesso di debiti. Naturalmente questa mossa ha portato sconquasso su tutti i mercati borsistici mondiali.


economia

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Rottamazioni. La prossima settimana si apre la trattativa con i sindacati; il 21 dicembre incontro con Berlusconi

L’Affaire Fiat

Gli incentivi hanno viziato il mercato, e ora si continua a farlo salvando Termini Imerese di Carlo Lottieri

una regola quasi ferrea: gli errori producono errori. Dopo aver finanziato con grande generosità il settore italiano automobilistico grazie agli incentivi per la rottamazione, ora il governo appare intenzionato a mettersi di traverso di fronte alla decisione della Fiat di chiudere – sulla base di elementari considerazioni industriali – lo stabilimento di Termini Imerese.

È

La questione ha innescato un duro contrasto tra il ministro Claudio Scajola, secondo il quale «non si può fermare o far crollare un polo industriale come Termini Imerese, dove c’è la disponibilità da parte del settore pubblico, sia Regione sia Governo, a proseguire gli investimenti per una migliore infrastruttura dell’area». Insomma, fatto un errore con gli incentivi e volendo farne un altro con la non-chiusura dello stabilimento siciliano, il ministro è pure pronto a mettere ancora mano al portafoglio (al nostro, di noi cittadini, ovviamente) per quei lavori pubblici e quegli investimenti statali che in passato si

era promesso di fare e che sono rimasti sulla carta. Come è normale in questi casi, inoltre, il populismo genera altro populismo e quindi non sorprende che sulle posizioni di Scajola si ritrovi Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, persuaso che quegli impianti siano una risorsa «importante e strategica per il sistema Paese e per il Mezzogiorno».

Lo scontro tra l’azienda torinese e il governo è particolarmente aspro perché, sullo slancio, il ministro ha usato il ter-

ne ha risposto con compostezza. Ma, al di là della forma, la replica non è stata meno netta dell’attacco portato dal ministro, poiché l’amministratore delegato ha invitato Scajola a «capire i dati», persuaso che una migliore conoscenza della situazione lo potrà indurre a modificare il suo atteggiamento. Nella sostanza, Marchionne ha ragione. In un’economia sana, non si possono distruggere imprese e gruppi industriali tenendo in vita rami improduttivi: e se le vetture che escono dagli stabilimenti siciliani co-

Lo Stato, in questa circostanza, si comporta propio come quei tycoon che ripetono «Chi paga comanda», ma il destino di un’impresa privata dipende anche da altri fattori mine “follia”, sostenendo che sia un comportamento da pazzi quello di chi pensa di lasciare a casa i dipendenti Fiat siciliani. Cresciuto in quella cultura anglosassone che privilegia l’understatement e valorizza (assai più che da noi) la buona educazione, Sergio Marchion-

stano più di quanto non rendano, non c’è altra strada che strutturare diversamente la produzione. Marchionne dice cose sensate, ma in qualche modo è vittima di se stesso, dato che paga le conseguenze di quella Realpolitik che – nel momento in cui si è trattato di

reagire di fronte alla crisi – lo ha spinto a ricercare gli aiuti di Stato. L’argomento solitamente usato da chi intende giustificare il comportamento dell’azienda italiana è che questi sussidi sono stati distribuiti in tutta Europa, ma è difficile ritenere che un errore non sia più tale solo se lo commettono tutti. A questo punto ci si obietta che quegli aiuti non sono soltanto “normali”, ma diventano perfino necessari se si vuole salvaguardare la possibilità di competere con imprese con-

correnti che sono generosamente sussidiate. Anche questa tesi, però, appare del tutto spuntata, perché tanto sul piano morale come su quello economico non c’è una solida giustificazione al fatto che sia una buona cosa togliere risorse alle imprese politicamente più deboli (e, spesso, più piccole) per darle a quelle politicamente più forti (e, spesso, più grandi). Quali che siano le politiche economiche irragionevoli adottate in Francia, Germania o Regno Unito.

Un altro botta e risposta sul destino dello stabilimento siciliano tra l’ad dell’azienda e il ministro

Marchionne a Scajola: «Si studi i dati» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Per esperienza mia personale, prima di usare un linguaggio pesante come follia uno dovrebbe capire i dati». Firmato Fausto Marchionne, ad Fiat, che così risponde al ministro per lo Saviluppo Economico Claudio Scajola, che ieri l’altro aveva attaccato la casa torinese per l’ipotesi di chiudere uno stabilimento in Italia: «Sarebbe folle far morire un polo industriale come quello di Termini Imerese, su cui nel tempo sono stati fatti investimenti importanti e dove tutti mi dicono che la qualità del lavoro è molto buona – aveva detto Scajola - A Fiat chiediamo di aumentare la produzione in Italia dove si immatricolano più auto di quante ne vengono prodotte. In Spagna, ad esempio, ne vengono prodotte il doppio rispetto al nostro Paese». Marchionne, che ha parlato a margine del processo su IfilExor, ha poi spiegato: «Siamo pronti a discutere con il gover-

no. Ma non si può pensare di difendere tutto e di tenere tutti gli stabilimenti aperti», accusando Scajola di aver parlato senza avere una minima idea della situazione dello stabilimento: «Se uno poi li capisce magari tira conclusioni diverse», ha concluso. La controreplica del ministro non si è fatta attendere: «Non si può fermare o far crollare un polo industriale come Termini Imerese dove c’è la disponibilità da parte del settore pubblico, intendo sia la Regione che il Governo, a proseguire investimenti per la migliore infrastrutturazione di quell’area. In zona nel tempo gli investimenti della Fiat e anche quelli pubblici sono stati significativi». E poi: «Comprendo la necessità che tutto il comparto automobilistico abbia bisogno di ristrutturazione, ma comunque non si può pensare nel nostro Paese di diminuire lo sviluppo industriale, tanto più nel Meridione dove vogliamo intensificare la presenza industriale, facendo la nostra parte».


economia

27 novembre 2009 • pagina 9

L’economista Giulio Sapelli valuta l’atteggiamento del gruppo

«Ma se la fabbrica va male perché non è stata chiusa?» di Francesco Pacifico

ROMA. «Mettiamola così: la posizione di Mar-

La polemica assai poco raffinata di queste ore ha comunque il merito di mostrare la realtà per quello che è. Gli aiuti governativi alle imprese automobilistiche sono stati giustificati, alle solite, con argomenti ecologisti. Fu detto infatti che quello era un modo per svecchiare il parco macchine nazionale e in questo modo tutelare meglio della natura. (Pochi si sono seriamente chiesti se i vantaggi ambientali legati all’adozione di nuove vetture, meno inquinanti, compensassero oppure no i danni all’ambiente causati dalla produzione delle nuove macchine. Ma non fa nulla). Adesso però il re è nudo: ed è evidente a tutti che le questioni ecologiche erano solo pretestuose. Il governo intendeva aiutare la Fiat, proprio al fi-

no Feltri su Chicago-bolg, il dibattito dovrebbe essere impostato diversamente. Nell’Italia welfarista del ventunesimo secolo le uniche alternative politicamente praticabili di fronte alla crisi di Termini sono due.

Da un lato c’è la soluzione del puro e semplice salvataggio dello stabilimento, quale risultato di nuovi aiuti e interventi di Stato (ed è ciò a cui fa riferimento Scajola, lasciando intendere la possibilità di usare la fiscalità generale per “sostenere” l’azienda in questa fase difficile). Dall’altro c’è però la strada della ristrutturazione, che comunque comporta oneri per i contribuenti, dato che in un modo o nell’altro implica il ricorso ad ammortizzatori sociali, sebbene – almeno si spera –

Gli aiuti pubblici alle case automobilistiche sono stati giustificati, come al solito, con argomenti ecologisti: la verità è che erano il grimaldello per ancorare il Lingotto in Sicilia ne di avere voce nelle sue scelte strategiche. Per questo motivo ora Marchionne si trova a fare i conti con una vecchia regola, sempre valida, e cioè che «chi paga, comanda». Il tono sguaiato di Scajola è quello di chi ritiene di vantare un credito e, per tale motivo, si considera più che titolato a decidere in casa d’altri. Anche perché quelli basati su sussidi e finanziamenti sono meccanismi che, in qualche modo, tendono a indirizzare verso una qualche “pubblicizzazione” delle aziende aiutate. Come ha rilevato Stefa-

orientati a incanalare quanti perdono il posto verso nuove attività più produttive. In entrambi i casi, la cittadinanza nel suo insieme sarà chiamata a sostenere un costo, che in ragione dell’alto numero dei dipendenti non sarà poca cosa. Ma è razionale supporre che, nel secondo caso, questo ulteriore salasso ai danni dei contribuenti possa quanto meno favorire un migliore posizionamento della forza lavoro, ponendo fine ad attività su cui il mercato pare già avere espresso il proprio verdetto.

chionne è poco sostenibile quanto meno sul piano dell’eleganza». Eleganza? «Potrà avere anche ragione che uno stabilimento non è produttivo senza infrastrutture, ma allora perché non ha chiuso Termini Imerese cinque anni fa? Perché lo annuncia ora? Per chiedere ulteriori fondi?». Non certo un fautore degli spiriti animali del mercato, l’economista Giulio Sapelli non ha mai fatto sconti alla grande impresa italiana. E se gli si chiede un commento sullo scontro tra Fiat e governo, sbotta: «Non prendiamoci in giro, quell’impianto fu aperto perché c’erano i soldi della Cassa del Mezzogiorno». Sono passati 40 anni da allora. Ma l’atteggiamento di Marchionne rientra nei canoni Fiat. Da sempre, non soltanto negli ultimi 40 anni, gran parte della sostenibilità del gruppo si è fondata sugli aiuti di Stato: la rottamazione, i soldi del ministero dell’Industria. Soldi presi da tutte le aziende. Certo, ma se si va a vedere le erogazioni, si scopre che la maggior parte è andata al Lingotto. Dove sono molto abili: presentando richieste al ministero da più stabilimenti, sono riusciti a drenare quasi tutti gli aiuti. E sono cose che si dovrebbero ricordare mentre si cercano fondi per le Pmi. Allora dà ragione a Scajola? Io non avrei dato mai un centesimo né a Marchionne né alle altre industrie italiane. Di più, non c’è aiuto migliore per il Sud che chiudere i rubinetti e gli stabilimenti improduttivi. Scajola si è battuto per gli incentivi. Scajola fa quello che può. Di soldi al Lingotto ne ha dati troppi, però mi metto nei panni del politico: cosa fare se non promettere quattrini davanti a una crisi come questa? Il ministro li vuole dare a tutti. Sono d’accordissimo quando dice che vanno ridotti fondi all’auto e rimodulati verso altri settori. Come? Lo decideranno i funzionari del ministero, i proletari dello spirito, non chiedetelo a me: io mi occupo soltanto dei grandi principi. Bel principio quello dei fondi a pioggia. Lo so anch’io che sta passando un moral hazard per il quale se gestisci male la tua azienda, stai tranquillo che tanto arriva lo Stato a metterci una pezza. Ma perché questo deve valere soltanto per il Lingotto? Per Fiat c’è un gap di politica industriale. Ma questa non è soltanto dare soldi alle aziende. Soprattutto a quelle che battono i pugni sul tavolo o minacciano di sottrarre pace sociale, mandando a casa 6mila dipendenti. Il ruolo della politica è creare opportunità. Cosa manca? Processi più raffinati, che si basano su common goods come la formazione o la ricerca. Politica industriale non è neppure imporre, come fece Bersani rispolverando il modello sovietico, modelli per la creazione di beni o istituire artificiose agenzie per l’innovazione. Ricerca? Ma chi la fa più in Italia? Le grandi aziende qualcosa la fanno ancora. L’Eni, Finmeccanica, la stessa Fiat. Eppoi tra le medie c’è tanta innovazione nella chimica. Per il resto, il problema è di contabilità: abbiamo imprese troppo piccole. Basta avvicinare pubblico e privati? Strutture d’integrazione sono utili. Ma se poi si

vanno a vedere le esperienze, molto si riduce a euro buttati al vento tra consorzi o masterini dove non si fa nemmeno ricerca. Fiat continuerà a produrre in Italia? Non lo so. Il suo destino non si decide più a Torino, ma negli Stati Uniti: ha più voce in capitolo il Dipartimento di Stato dei mercati. Quel che è bene per Fiat è bene per noi? Era una panzana già quando la diceva l’Avvocato. Infatti non è andata bene né per la Fiat né per Gm. Io sono torinese, conosco i guai arrecati al tessuto produttivo piemontese. L’industria non zoppica solo a Termini. Dovremmo parlare del problema della riconversione mancata, ma è troppo lungo, troppo complesso, troppo noioso. Che dire, che manca uno sforzo corale del Paese, che mancano obiettivi, che ci sono troppo laureati alla Bocconi e troppo pochi periti tecnici. Come funziona l’industria, lo sanno in pochi.

Al Lingotto sta passando un principio pericoloso: se l’azienda va male, interviene lo Stato a metterci una pezza...

La politica lo sa? No, però vorrei far notare che il Pci di Amendola lo sapeva come funzionavano le fabbriche. E difendeva la produttività. Mi ricordo l’onorevole Sulotto, ex tecnico Fiat licenziato perché faceva gli scioperi: ci diceva che se gli stabilimenti non vanno bene, allora vanno chiusi. I problemi sono arrivati assieme agli Occhetto e ai D’Alema, a quegli studenti che non hanno finito l’università. La colpa è di quelli del Sessantotto. E il sindacato? Cosa vuole che ne capiscano i sindacati, conservatori per loro natura. Non parliamo della Cgil, che ormai è un movimento politico. La Fiat l’ha salvata un uomo di finanza. A Marchionne ho sempre dato atto del suo lavoro. Ma avrei preferito che l’avesse fatto con meno debito e meno alchimie finanziarie. Per concludere, non è strano che Termini finisca in discussione quando torna in auge il ruolo dell’industria pesante? Anche in Inghilterra è nata una corrente di opinione per salvaguardare la manifattura. Spero che il passo successivo sia rivalutare il lavoro manuale. Si tornerà al passato? Non lo so, la gente ha più buon senso di quanto si pensi. E prima o poi le persone la smetteranno di mandare i figli ai master capendo che spesso è più utile un buon istituto tecnico.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Veronica Lario e la “taglia 42” (milioni all’anno) ra moglie e marito non mettere il dito, dice l’antico adagio. Ma quando la moglie è Veronica Lario e il marito Silvio Berlusconi di mezzo non c’è il dito, ma una nazione intera. Sarà consentito, allora, parlare un po’ di questa separazione del secolo che abbiamo visto nascere sotto i nostri occhi, leggendo i giornali, guardando la tv, leggendo le lettere della signora e ascoltando le smentite e poi le ammissioni del marito. La signora ha chiesto la separazione per addebito perché «il mio matrimonio è finito» e da ieri conosciamo anche l’addebito: 3 milioni e mezzo al mese che sommati nell’arco di un anno diventano 42 milioni di euro l’anno. Ho dovuto leggere e rileggere più volte perché non riuscivo a credere ai miei occhi.

T

La signora Veronica ha ragione. Lo sanno tutti. Anche le pietre di Arcore. Anche gli uscieri di Palazzo Chigi. Il presidente ne ha combinate di tutti i colori e lei non c’ha fatto di certo una bella figura. Una volta ha anche detto: «È malato, aiutatelo». In verità, il Cavaliere ci è sempre sembrato abbastanza sano, anche di mente. Senz’altro sapeva cosa faceva. È probabile anzi che avesse addirittura le sue ragioni. Ma qui, in questo punto preciso della storia tra i due, non si può entrare e sapere, perché è perfettamente inutile. Nessuno può mai sapere come stanno le cose tra un uomo e una donna tranne loro due. Ma come sta il presidente del Consiglio dopo aver conosciuto le richieste di Veronica? Può darsi che ora corra il serio rischio di ammalarsi. Veronica Lario ha senz’altro ragione, ma con la richiesta avanzata le sue ragioni si riducono. Ma come si fa a chiedere ad un marito ciò che ha chiesto lei? Silvio ha già risposto: è disposto a versare ogni mese 200 o 300 mila euro. Certo, rispetto ai 3 milioni e mezzo sono un po’ pochini. Ma se consideriamo che 300 mila euro si traducono in 600 milioni e passa delle vecchi lire, beh, la cifra assume un diverso significato. Gli avvocati faranno il loro lavoro, i giudici giudicheranno - anche se sarebbe interessante sapere quali sono i criteri per esprimere un tale giudizio - e si troverà un accordo tra i due. Facciamo un’ipotesi: 1 milione e mezzo al mese, quindi 18 milioni di euro all’anno. Veronica dovrebbe essere soddisfatta e tutto sommato anche Silvio, visto che risparmierebbe più della metà rispetto alla cifra richiesta. Si dice in giro che Veronica ci abbia pensato bene prima di chiedere la separazione, che sia stata praticamente costretta dal comportamento inammissibile del marito. Si dice si dice e si dicono tante altre cose.Veronica ha goduto degli apprezzamenti non solo delle amiche, ma anche delle giornaliste, dei moralisti, degli antiberlusconiani, della stampa avversaria del premier. Tuttavia, con questa sua esosa richiesta “tendenza Veronica”è da oggi meno simpatica, anche se sarà già corteggiatissima. Forse, la sua vendetta sul marito è proprio questa.

Alla fine Cota smascherò la “prescrizione breve” La scelta di escludere il reato di clandestinità dalla riforma di Giuseppe Baiocchi o zelo in politica è virtù sempre ambigua: se è poco ragionato e diventa eccessivo, rischia infatti di trasformarsi in un infortunio, se non addirittura in un boomerang. Lo si è colto pienamente nell’atteggiamento della Lega Nord sull’ipotesi del “processo breve”, che sta affrontando di gran carriera il complicato iter parlamentare.

L

Lo si è notato l’altra sera a Ballarò, dove al capogruppo alla Camera del Carroccio, Roberto Cota, è sfuggito un lapsus dal sapore davvero freudiano, e cioè la «prescrizione breve» al posto del più corretto «processo breve». Come se tradisse il motivo reale che sta sotto all’ennesimo tentativo di pasticciare sulla giustizia, con mutamenti parziali e mirati anziché affrontare in chiave organica e magari più condivisa il “grande malato” della società italiana. E il lapsus appariva quasi naturale, vista la difficoltà dialettica nel giustificare la posizione leghista nel pretendere di stralciare dalla procedura del “processo breve”i reati e i procedimenti legati all’immigrazione clandestina. Infatti emerge come del tutto contraddittoria la scelta di voler lasciare a tutti i costi il vasto tema dell’immigrazione al percorso tradizionale dei tempi aleatori e spesso dilatori nei quali si consuma il cammino dei processi, dei giudizi, delle sentenze. Sul contrasto particolarmente determinato al disordine del fenomeno migratorio la Lega Nord ha appunto costruito negli ultimi anni l’espansione rilevante del suo successo elettorale, anche perché sembrava la più attenta a incanalare il disagio e il malessere dei “penultimi” della società, ovvero i ceti più popolari che nelle periferie metropolitane sono i più esposti al contatto problematico con la realtà multiforme dei nuovi arrivati. E allora, dopo aver portato nei codici il reato specifico sic et simpliciter di “immigrazione clandestina”, sembrava del tutto logico che il rigore perseguito con tanta tenacia trovasse naturale applicazione anche in una giustizia “velocizzata” e certamente più tempestiva. Proprio infatti la particolare condizione delle devianze sociali legate all’immigrazione dovrebbe favorire gli interventi in tempi contingentati con il passo finale dell’espulsione dal territorio nazionale, che, evidentemente, più presto avviene, meglio è. E invece… E invece, la gelosa difesa di un presunto monopolio

di un tema “caldo” ed elettoralmente producente, dimostra che è necessario proteggerlo dall’incursione azzeratrice e dalla eventualità di probabili prescrizioni a pioggia. D’altronde anche i reati collegati all’immigrazione clandestina non pare richiedano maxiprocessi con lunghi dibattimenti e tempi per forza di cose dilatati e dilatabili. Segno allora che il sostegno della Lega al “processo breve” sia soltanto l’ennesima “prova di fedeltà” (anche se mal gestita e mal comunicata) all’alleato di governo. Così da cavare il premier dagli impicci giudiziari e con un nuovo prezzo da chiedere su altri tavoli, a cominciare dalle candidature per le Regionali. Il salvataggio di Berlusconi dalla cosiddetta «persecuzione giudiziaria» poteva e può trovare forme più dignitose e tutto sommato meno involute e meno ipocrite, a cominciare dall’ipotesi del “legittimo impedimento”. Eppure anche questi escamotages ripetuti, reiterati e pur sempre pasticcioni, dovrebbero mettere finalmente sull’avviso le toghe e le loro voci che si esprimono nella magistratura associata.

La gelosa difesa di un tema tanto caro alla Lega, dimostra che è necessario proteggerlo da probabili prescrizioni a pioggia

Con lo stracciarsi le vesti e gridare al tradimento della Costituzione ad ogni stormir di fronda, non si rendono conto di stare continuamente dilapidando il patrimonio di consenso pubblico e di prestigio sociale che avevano goduto dall’inizio degli anni Novanta. Respingendo pregiudizialmente ogni addebito e presentandosi come comunque “puri e perfetti”, non si accorgono che il piano inclinato su cui si sono incoscientemente incamminati ha al suo fondo la rivolta popolare: non contro la politica, ma contro il disastro del “servizio giustizia”, così malamente assicurato per il cittadino comune. E a quel punto, nel testardo rifiuto di ogni ragionevole riforma, potranno agevolmente passare cose ben peggiori.


panorama

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Le televisioni, i giornali, i commenti da bar: ormai il nostro vivere comune è segnato dagli scandali quotidiani

Piccola Italia tra Brenda e Spatuzza Un Paese che non riesce più a progettare in grande né a stare al passo con il mondo di Riccardo Paradisi l cadavere di un trans - la povera Brenda – in un seminterrato della periferia romana, un computer con centomila file contenenti materiale imbarazzante per persone in vista e soprattutto eccitante per milioni di potenziali voyeurs, educati da decenni a guardare la storia nazionale dal buco della serratura. Ma anche i pizzini di Gaspare Spatuzza, pentito di mafia che pare uscito da una serie della Piovra di Michele Placido, il papello stracciato di Ciancimino Junior a cui ci fanno credere di essere tutti appesi, l’eterna mafieria, gli eterni mandanti occulti, gli eterni misteri italiani e il corollario dei processi brevi, delle leggi ad personam, la ricusazione, la ex Cirielli, il legittimo impedimento, e via cavillando.

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cinico e cinico perché onesto. Per carità, come dimenticarsene, e però, come dire, ci sarebbe anche dell’altro. Per esempio ieri in Commissione sanità al Senato s’è discusso e s’è votato su quella piccola cosa che è la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Una pillola che segna una nuova grande scossa in seno alle coscienze e alle intelligenze di tutti e che assieme al testamento biologico e alle politiche sul fine vita, è

una faccenda destinata a modificare o mettere in crisi etiche acquisite, a mettere in vibrazione paradigmi consolidati. In Europa si stanno moblitando associazioni etiche che vogliono mettere limiti agli abusi in fatto di test genetici. Quelli con cui i tuoi genitori possono analizzarti come e quanto vogliono e, se gli piaci, farti nascere avendo ormai svelato i tuoi segreti genetici. Saprai che a cinquant’anni avrai l’alzheiemer e magari lo saprà anche l’azienda che magari ci penserà due volte ad assumerti o l’assicurazione che chissà se accetterà di assicurarti. Ne avete sentito parlare in Italia?

È un terreno fangoso quello in cui rovista, s’avvolge e si concima il dibattito pubblico del Paese

Eppure si tratta di questioni enormi che mettono in gioco l’idea stessa dell’umano che abbiamo avuto fino ad oggi. Negli Stati uniti questa rivoluzione biopolitica percorre il dibattito pubblico, spacca la società civile, mobilità intelligenze, anima battaglie. In queste ore le maggiori confessioni cristiane negli Stati Uniti assumono una posizione impegnativa e molto dura contro l’aborto, invitando alla rivolta etica contro le eccessive pretese di Cesare. In italia ieri si presentava il libro di Rosi Bindi sulla laicità – Quel che è di Cesare – un po’poco. E del resto in Italia tutto è schiacciato sulla dimensione immediatamente politica che usa la loro tragicità come arma emotiva di massa. La bioetica diventa merce di scambio, retorica strumentale pro o contro.

E attirando sulla scena pubblica piazzafondai in perenne stato di fibrillazione, l’atavica e sempre ritornante plebe organizzata dal tribuno di mestiere…È una scenografia barocca e grottesca quella in cui s’ambienta e svolge il suo copione la politica italiana, un terreno fangoso quello in cui rovista, s’avvolge e si concima il dibattito pubblico del Paese. Percorso da un tiro incrociato di stracci umidi di fango e di veleno, di reciproche accuse di malaffare e corruzione. ”È anche questa la realtà italiana”replica il realista che si dice onesto perché

Tanto si sa che poi la differenza sarà fatta da una procura o da uno scandalo, son quelle le armi con cui si combatte la guerra vera. Come se le classi dirigenti non fossero chiamate proprio perché tali a dimensioni diverse. Per restare, come si dice, nell’attualità: c’è un dibattito internazionale sul clima che coinvolge i grandi del mondo. Cina e Stati Uniti in testa, ma che impegna anche l’Europa. Il tema è quello della riduzione delle emissioni inquinanti, un impegno su cui Cina e Usa sembrano ora reticenti. C’è una polemica, c’è una tensione, un dibattito che si gioca su numeri, visioni del mondo, filosofie di sviluppo differenti. Assieme alla biopoliticia il clima è il tema del XXI secolo.Tanto che Obama ha lanciato una rivoluzione verde, Cameron in Inghilterra ha posto l’ecologia in cima all’agenda dei conservatori modulandovi il programma. In Italia sono spariti anche i verdi. Spazzati via insieme a quell’idea dell’ecologia come potere di veto, con quella cultura ideologica mutuata dalle retoriche della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta del Novecento. È un altro esempio della piccineria italiana, un Paese che malgrado tutta l’intelligenza e la bellezza che ha sedimentata nella sua storia pare incapace d’un colpo d’ali ed è invece attratto, per morbosità e pigrizia, dai demoni minori che lo popolano.

Bersani e Fini si ignorano alla presentazione del libro della neo-presidente del Pd

Rosy, la cattolica che volle farsi laica di Francesco Capozza

ROMA. Metti il presidente della Camera, il segretario del Partito democratico e la presidente di quest’ultimo allo stesso tavolo e pensi subito all’inciucio. O quanto meno ti aspetti che Fini dica qualcosa “di sinistra”. È per questo che ieri sera la sala delle conferenze di piazza Montecitorio era gremita di giornalisti e cameramen ed è per questo che - la presidente Bindi non ce ne voglia - la presentazione del suo libro (Quel che è di Cesare) è forse passata in secondo piano rispetto all’occasione ghiotta di vedere gomito a gomito per la prima volta in neo-segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e quello che molti hanno già ribattezzato “il compagno Fini” (ma lui, scalfarianamente, a questa definizione non-ci-sta).

Poi si scopre che Fini e Bersani, a parte un “caloroso”saluto iniziale a favor di telecamera nemmeno si rivolgono parola e la stampa subito rimane delusa. Con la Bindi, invece, Fini gigioneggia ed entrambi, quasi fossero compagni di merende da una vita, se la ridono in più di un’occasione. La misura del libro

e del suo contenuto la dà il moderatore Giulio Anselmi, già direttore de La Stampa, oggi alla presidenza dell’Ansa.

«Ricordati che sei cattolica ma devi fare il ministro anche del bestemmiatore» disse alla Bindi Oscar Luigi Scalfaro il giorno in cui lei divenne ministro della Sanità e lei, che

Delusione (almeno in parte) per i fan del «compagno Fini» che però sui temi etici continua a giocare di sponda con il Pd dell’ex capo dello Stato si definisce discepola, su questa base ha impostato non solo quest’autobiografia, ma tutta la sua successiva carriera politica. «Sono credente e sono una cattolica praticante - dice l’autrice - e voglio camminare anche con chi non lo è. Ma esigo lo stesso rispetto che io ho per chi non crede» e ancora «credo nel Pd perchè pur es-

sendo laico è un partito di perfetta sintesi». Il libro tratta temi assai delicati, l’aborto, i Dico, la bioetica, che vedono d’accordo su alcuni temi e contrapposti su altri gli interlocutori. Per Bersani, cui viene posta una domanda sulla pillola abortiva, «la questione non è aborto sì o aborto no, ma aborto come. È giusto vedere se ci sono tecniche meno invasive ma non penso che il Parlamento debba mettersi a fare il dottore».

Il presidente della Camera, che sulla Ru486 la pensa in maniera assai differente, ad una domanda sul caso Eluana, risponde invece: «Avrei agito esattamente come hanno fatto i genitori di Eluana». Ecco (almeno in parte) accontentati i fan del “compagno Fini”.


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e si ripensa a Pietro Germi e ai suoi film più celebri, non si può non restare ammirati dinanzi alla forza delle immagini, alla sicurezza della composizione, alla scioltezza della scansione narrativa. Si avverte subito l’energia costruttiva del cineasta che si risolve integralmente nell’efficacia del racconto, nella fascinazione dello spettacolo, nella solidità della messinscena. Ma la “fisicità”del grande artigianato non riesce a nascondere del tutto la lacerazione. Se il senso pieno, forte, del racconto si disperde talvolta nell’approssimazione del finale, non mancano neppure gli incidenti di percorso, gli interni sbilanciamenti che attraversano l’organicità del progetto cinematografico come se qualcosa di irrisolto, un grumo di segreta fragilità, scompaginasse dall’interno la centripeta convergenza dei vari elementi, sconvolgesse almeno in parte le studiate simmetrie della rappresentazione.

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Si tratta di tensioni tutt’altro che riconducibili a uno stesso registro, a una stessa unità di misura. Sono molto evidenti o appena percepibili, molto esplicite o particolarmente sottili, dentro il testo o fuori testo, cinematografiche o extracinematografiche, psicologiche o professionali, ma tutte in qualche modo importanti per ricomporre un ritratto più attendibile di un cineasta di grande talento che è più difficile e sfuggente di quanto lascino intendere le etichette ricorrenti e fortunate dell’uomo all’antica, del regista all’americana, dell’autore che tenne a battesimo la commedia all’italiana. La trasparenza di un cinema che sa essere così esplicito, solare, gridato, ma anche così sofferto, traumatizzato, dissociato, ci consegna un’immagine più complessa, insieme più intensa e conflittuale, un ritratto più chiaroscurato e sospeso, più vivo. Il cinema del regista genovese si anima nella contrapposizione, tra indignazione sociale e esuberanza spettacolare, tra ambizione neorealista e tentazione allucinatoria, tra sguardo italiano e strabismo americano, tra empito drammatico e deformazione della commedia, tra epos e grottesco, ma anche tra genere e autobiografia, tra autore e professionista, tra regista e attore, tra regista e produttore. Si tratta di un caso straordinario e atipico nel panorama del cinema italiano che oggi può essere ripercorso più da vicino anche grazie al prezioso cofanetto dvd dedicato a Pietro Germi (Cristaldi Film, euro 29,90). Chissà che cosa avrebbe detto l’imprevedibile regista Fellini lo chiamava il “grande falegname” - del fatto che i suoi film sono allineati negli scaffali accanto ai maggiori autori del cinema e della letteratura di tutto il mondo. Le prime immagini di Il testimone (1945), il film d’esordio, sono le immagini concitate della grande città, brulicante di uomini vicini ma estranei, una cittàocchio che sembra cogliere in flagrante la realtà per risolverla nell’astrazione, nel fuori storia del mito. Sin dall’inizio il mito della legge è il grande mito personale del regista. La leg-

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Oggi, la Cristaldi Film ci restituisce alcune delle sue più significative pellicole gr ge come apparato istituzionale di codici, tribunali, prigioni, casellari giudiziari, ma anche come sistema morale che ispira la condotta del singolo, che responsabilizza i comportamenti individuali nei confronti degli altri e di se stessi. I motivi ricorrenti della legge, della giustizia, della colpa non sono visti soltanto nello scenario esterno e burocratico dell’istituzione, ma anche nello scenario interiore della coscienza, della scelta morale. L’ossessione della legge ritorna a più riprese nel corso di tutta l’opera di Pietro Germi come àncora di salvezza, punto fermo nei disordini del singolo e nella trasgressione del privato, estremo tentativo di esorcismo nei confronti dell’irrazionalità dell’esperienza. Il passaggio a Gioventù perduta (1947) è particolarmente importante perché segna la scoperta del “giallo”come secolarizzazione del mito della giustizia. La scoperta del genere fa tutt’uno con la lezione del cinema americano che ha un posto fondamentale nella formazione del regista. Non si tratta soltanto dell’adozione dei modelli rappresentativi di un cinema dai ritmi concitati e dalle scansioni nette, ma di una immedesimazione più totale - è un paradosso solo apparente - un più profondo rapporto con la realtà italiana. Se in un’equazione senza residui il cinema americano è il cinema tout court, attingere alla sua lezione non significherà

Tutte le età di P Viaggio nelle trasformazioni della nostra società attraverso il cinema di Germi: esplicito, solare, gridato, ma anche sofferto, traumatizzato, dissociato di Orio Caldiron tanto ripercorrerne i tratti esteriori, rifargli il verso in una imitazione in bilico sul manierismo, quanto piuttosto cercare di stabilire con la realtà italiana lo stesso rapporto che i cineasti americani hanno con la loro realtà nazionale. Se nessuno sembra scommettere sin dall’inizio sul giallo con la stessa determinazione di Germi, soltanto l’adozione del modello del western, il cinema americano per eccellenza, gli consente, attraverso la piena metabolizzazione del suo tenace americanismo, di arrivare al suo primo film veramente importante. Ma In nome della legge (1948) - il suo primo western e insieme il primo western italiano prima di Sergio Leone - coincide con la scoperta della Sicilia, con l’universo di scelte primordiali di cui rivive il mito personale dell’autore, e cioè il mito originario

della legge che era affiorato sin dal suo esordio. Se la scelta di campo è molto netta, l’utopia neorealista cede a un cinema energetico fatto di forti sottolineature, tagli netti, ritmi incalzanti, che

nei tanti momenti del film in cui il giovane pretore Massimo Girotti incede solitario tra le case calcinate e nelle stradine sassone come gli instancabili camminatori dei sogni.

Sin dall’inizio il mito della legge è il suo mito personale. Come apparato di codici, tribunali, prigioni, ma anche come sistema morale

La scoperta del paesaggio siciliano assume la forma di una allucinazione un cortocircuito che ci consente di entrare nel fotogramma - attraverso cui lo sguardo straniero padroneggia il territorio, s’impossessa cinematograficamente dello spazio. Negli anni successivi si rivela sempre più difficile coniugare la nozione forte dello spettacolo con la partecipazione polemica e intransigente ai problemi del proprio tempo, alle tensioni della vita civile, alle contraddizioni dell’individuo e della società. Soltanto con Il ferroviere (1955) e L’uomo di paglia (1957), che vengono dopo un lungo periodo di inattività e di brucianti insuccessi, Germi sembra ritrovare uno slancio nuovo, quasi un nuovo inizio capace di imprimere una svolta

mette in scena un percorso emozionale più che un processo conoscitivo. Nella grande piazza di Capodarso si inscenano i rituali dell’indifferenza e dell’omertà, che si ripropongono nella pietraia in cui giace riverso il cadavere di Vanni ammazzato come un coniglio, nei sopralluoghi a dorso di mulo nella vecchia miniera abbandonata, ma anche


il paginone

razie a un prezioso cofanetto a lui dedicato, appena arrivato in tutte le librerie

quello del Germi di mezzo è un cinema dell’ambiguità radicale, sospeso tra sovversione e fuga com’è nella grande tradizione del melodramma che mette in scena le crisi sociali ma rifiuta risolutamente di percepire il cambiamento in contesti che non siano privati e emotivi. Cinema di condomini periferici, osterie, trattorie, incontri domenicali, ma soprattutto cinema di interni claustrofobici, cinema che si chiude in casa come in un fortino assediato, nelle stanze piene di oggetti del melodramma familiare che sommerge i protagonisti con immagini di oppressione pronte a capovolgersi negli spazi esplosivi dell’isteria latente, nel momento in cui rivela il tenta-

Pietro il grande In alto, un fotogramma del film “Divorzio all’italiana” e, a fianco, la locandina della pellicola. Sotto, la locandina di “Sedotte e abbandonate”. Nella pagina a fianco, Pietro Germi e, in alto a destra,il regista durante le riprese di uno dei suoi film

tivo di fermare il tempo e di esorcizzare gli aspetti più inquietanti della modernizzazione. Il passaggio alla commedia - anche se non mancano segnali e sintomi nelle opere precedenti - avviene solo con Divorzio all’italiana (1961), che nell’attività del regista inaugura

Il passaggio vero e proprio alla commedia arriva con “Divorzio all’italiana”, che nella sua attività inaugura una nuova (e inattesa) stagione

profonda alla sua carriera prima del passaggio alla commedia, il grande salto a cui dovrà la sua definitiva consacrazione di autore. Al centro di entrambi i film è il cambiamento, che si annuncia nella società italiana degli anni Cinquanta con la crisi delle antiche certezze, il rapporto traumatico con i figli più grandi, l’incrinarsi progressivo della solidarietà con i compagni di lavoro. C’è la nostalgia per l’unità perduta, il vagheggiamento crepuscolare per quello che è stato, ma anche il senso cupo della fine, lo smarrimento di fronte al

cambiamento intuito come un’oscura minaccia, il senso di vuoto in cui sembra di sprofondare. Cinema della trasmutazione e del malessere, tagliato verticalmente dai sussulti della nevrosi e dai soprassalti della schizofrenia,

una nuova e inattesa stagione. Il rovesciamento di fronte non potrebbe essere più totale. Il mito della legge è visto tutto in negativo, come in una fotografia capovolta, in cui le norme giuridiche sono mezzi per assecondare la strategia del desiderio. La famiglia diviene lo scenario di una congiura permanente, il territorio dell’appostamento e della sorpresa, della macchinazione e dell’obliquità. Il matrimonio è l’avamposto di una guerra di posizione in cui l’apatia e il sospetto sono chiamati a inscenare i rituali asfittici di una istituzione corrosa dall’interno, svuotata di significato. Sin dalle prime immagini in cui il barone Cefalù guarda fuori dal finestrino l’accecante pianura e rievoca le serena-

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te del Sud, le calde, dolci, snervanti notti della Sicilia, il film trova la sua folgorante caratterizzazione nello scenario storico, geografico, antropologico. Ma il ritorno in Sicilia è ora motivo di una nuova scoperta. La «Sicilia frontiera sociale» cede, come ha scritto Sciascia, alla «Sicilia frontiera passionale». La coincidenza assoluta con lo scenario siciliano non circoscrive il film all’ambito regionale, ma è anzi il tramite per il suo allargamento nazionale, per assicurarne il significato universale, dal momento che Germi è convinto che in Sicilia tutti i difetti, le remore, gli errori della società italiana si ingigantiscono e si esasperino. La Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana, una specie di palcoscenico in cui una vicenda reale ma paradossalmente articolata trova gli elementi di paesaggio e di clima che servono a esasperarla.

La coerente “negatività” del film non potrebbe essere più intransigente e compatta, tutta risolta nella trasfigurazione grottesca e nell’umore sarcastico con cui mette in scena l’ossessione erotica del protagonista, dando al suo delirio distruttivo la forma di una allucinazione prolungata all’infinito. La forza della rappresentazione deve molto all’intreccio vivacissimo dei piani narrativi, degli imprestiti e delle citazioni dei generi, dall’horror al romanzo d’appendice, dall’avventura coloniale al melodramma passionale: dall’orrorosa macelleria dei sogni a occhi aperti con cui il barone vagheggia l’eliminazione della moglie alle lettere di Carmelo Patanè che rievocano la romantica rêverie tra i ruderi, l’eroica epopea del podismo forzato di El Alamein, il trasalimento sotto il cappuccio nella festa dei ceri, via via, fino all’episodio di Mariannina Terranova, una sorta di esemplare cause célèbre presentata in chiave di melodramma, quasi un feuilleton nel feuilleton. Sedotta e abbandonata (1963) - di nuovo Sicilia, ma ancora più primitiva, barbarica, violenta riprende la forza distruttiva, negativa, rabbiosa del film precedente, ma esaspera ancora di più i toni e moltiplica i personaggi. Se il ritmo malizioso e grottesco di Divorzio all’italiana diventa una sarabanda scomposta, esagitata, convulsa, le apparizioni dei singoli personaggi si inanellano una sull’altra in un frenetico passaggio del testimone, attraverso cui vengono alla ribalta la giovane Agnese, l’inquieto oggetto del desiderio insieme disponibile e reticente; Peppino Califano, lo squallido fidanzato della sorella; il figlio Antonio, scimunito e vigliaccone; don Vincenzo Ascalone, l’urlante tiranno domestico, l’incontenibile padre-padrone ossessionato dall’onore; il barone Rizieri; i genitori di Peppino; gli avvocati delle due parti; il maresciallo Potenza che sulla carta geografica copre la Sicilia con le mani e il carabiniere Bisigato che crede di essere a Treviso. La macchina da presa di Germi sta addosso ai personaggi, ne sottolinea la chiassosa fisicità, ne accentua la mostruosità ripugnante, insopportabile, ne raffigura le allucinazioni e gli incubi nei rondò capricciosi e immaginifici di un macabro balletto. Svaria dalla satira alla parodia e alla farsa, senza mai perdere di vista il feroce accanimento del quadro d’insieme, che suscita l’applauso di un maestro della commedia avvelenata come Billy Wilder.


mondo

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L’intervista. Mordechai Kedar insegna religione islamica a Tel Aviv ed è il più autorevole opinionista israeliano del mondo arabo

Sharia connection «La pace? Non si farà. Perché il Medioriente non accetterà mai né Israele nè l’Occidente» di Michael Sfaradi ane al pane, vino al vino. Se Mordechai Kedar dovesse essere “sintetizzato” con un proverbio, questo sarebbe il suo. Docente di islamismo nella sezione di lingua araba della facoltà di lingue dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv, insegna religione islamica, lingua, cultura e letteratura araba. in Israele è considerato uno dei massimi esperti in materia e viene spesso invitato a tenere conferenze e seminari un po’ in tutto il mondo. Collabora con il quotidiano Yediot Ahronot di Tel Aviv e molti dei suoi articoli sono tradotti in italiano e pubblicati dal sito www.informazionecorretta.it Professore, lei è uno dei massimi opinionisti di Al Jazeera, la televisione via satellite più seguita nel mondo arabo. Quale è la sensazione che si prova nello spiegare agli arabi, nella loro lingua, il punto di vista della maggioranza degli israeliani in un modo, come fa lei, che non lascia posto al politicamente corretto? Mi creda, è esattamente quello che loro vogliono sentirsi dire, C’è nel mondo arabo una voglia estrema di capire come vanno le cose qui da noi, vogliono sapere come funziona Israele. Per loro è quasi inconcepibile che una nazione come la nostra riesca a sopravvivere in un contesto come quello mediorientale. Uno stato che ha un’informazione libera, con elezioni ogni quattro anni,

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cambi di governo ordinati e secondo il volere della maggioranza die cittadini. Una nazione che rispetta i diritti delle minoranze e l’indipendenza della magistratura; tutto questo in Medioriente è un caso unico che secondo la mentalità diffusa non dovrebbe neanche esistere. Israele è una realtà lontana dal modo arabo di concepire una nazione, eppure questa formula, ai loro agli occhi

Il mondo fa finta di non vedere una realtà: e cioè che gli arabi israeliani sono, fra tutte le popolazioni arabe del mondo, quelli che hanno il più alto standard di libertà e tenore di vita bizzarra, è vincente e lo fa in tutti i campi. I successi di Israele, sono tanti ed anche se lontani fra loro hanno una base comune: nascono dalla libertà e dalla democrazia. Noi, al contrario di quello che accade in altre nazioni arabe come ad esempio la Siria, non usiamo la tensione internazionale o l’allarme terrorismo per impedire il libero movimento delle merci, delle persone o per annullare tutta quella serie di diritti che caratterizzano una popolazione libera nei confronti del governo che la amministra. Non abbiamo mai toccato le libertà fondamentali neanche nei momenti più difficili della nostra storia. Se poi consideriamo che nei giudizi, sempre negativi nei

confronti dello stato di Israele, il mondo fa finta di non vedere una realtà che fa la differenza: e cioè che gli arabi israeliani sono, fra tutte le popolazioni arabe del mondo, quelle che hanno il più alto standard di libertà e il più alto tenore di vita. Questo dato di fatto crea un paradosso che vede una situazione, dal punto di vista della politica che i governi arabi adottano nei confronti delle loro popolazioni, inaccettabile. Perché proprio dove non c’è una maggioranza araba gli arabi vivono al Top, meglio delle altre popolazioni arabe che, purtroppo per loro, hanno la sfortuna di essere dei cittadini di nazioni dove il potere è, ed è sempre stato, regolato dalle leggi coraniche

piegate al volere e agli interessi di palazzo, nelle “corti” delle famiglie reali o nelle mani dei dittatori. Coloro che vivono dall’altra parte del confine, anche se non lo danno a vedere, invidiano, e temono allo stesso tempo, questo stato di cose. Il mondo arabo invidia la nostra democrazia, la nostra libertà, il fatto che da noi, al contrario di quello che succede nei territori palestinesi, i campi profughi furono smantellati dopo pochi anni dall’indipendenza e le persone furono aiutate nell’intraprendere arti, mestieri e professioni che hanno portato lo sviluppo della nazione. L’interesse che ha caratterizzato Israele è stato, fin dalla sua fondazione, l’interesse del bene comune. Lo stesso, purtroppo,

non si può dire per i palestinesi che in questi anni hanno sperperato i fondi della comunità internazionale in armi e nella ricerca dello scontro armato, anziché usarli per la costruzione di infrastrutture. Il successo israeliano lo si può quantificare considerando diversi ed importantissimi punti di vista come ad esempio nell’accogliere ed inserire nel tessuto sociale della nazione centinaia di migliaia di immigrati provenienti da ogni angolo del mondo, la ricerca in ogni campo: scientifico, artistico e di ogni tipo di tecnologia, dall’informatica alla robotica dove abbiamo numerosissime punte di eccellenza. E, non per ultimo, la rinascita della lingua ebraica. L’ebraico è stato per centinaia di anni una

Netanyahu offre di fermare parzialmente le colonie e incassa il plauso dell’Europa e il “no” palestinese

E intanto si allontana la liberazione di Shalit o scambio di prigionieri tra Israele e Hamas avverrà la prossima settimana. Anche se i se, in questa delicata trattativa, sono d’obbligo. Lo ha annunciato una fonte palestinese vicina alla direzione di del movimento islamico citata dal giornale arabo al-Sharq al-Awsat. Secondo la fonte, tutto è stato rinviato a lunedì prossimo, dopo la riunione del governo israeliano prevista per domenica. Manca ancora un accordo definitivo sui nomi dei detenuti palestinesi da liberare anche se è ormai chiaro che fanno parte della lista il leader di al-Fatah, Marwan Barghouthi e quello del Fronte popolare, Ahmad Saadat. Dubbi sui nomi di Ibrahim Hamed, leader delle brigate Ezzedin al-Qassam, e di Abdallah Barghouti, che sonta 67 ergastoli, per i quali si valuta la possibilità di mandarli in esilio. L’accordo prevede la scarcerazione di 1.150 detenuti palestinesi, che do-

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vrebbero essere rilasciati in tre fasi. I primi 450 dopo la liberazione di Gilad Shalit e il suo arrivo in Egitto. Gli altri in due fasi successive, la prima dopo l’arrivo di Shalit in Israele. Intanto, secondo la stampa, i mediatori egiziani stanno facendo uno sforzo per dare un ruolo in questa vicenda anche al presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Gli egiziani vorrebbero approfittare dell’occasione per arrivare a una tregua ufficiale tra Israele e Hamas, consentendo la riapertura dei valichi di frontiera di Gaza che dovrebbero però essere gestiti anche da funzionari dell’Autorità palestinese. Nell’arco di questa tregua si inserisce anche la decisione del premier israeliano Nethanyau che ha proposto un congelamento parziale delle colonie in Cisgiordania. Iniziativa nata morta, nonostante il plauso internazionale, per il “no” dei palestinesi che la ritengono insufficiente.


mondo

Sopra, la firma del Trattato di Camp David fra Egitto e Israele. A siglarla nel 1978, alla presenza del presidente Usa Jimmy Carter, il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Begin. A sinistra, un fotogramma della guerra di Gaza e nel riquadro, Mordechai Kedar. Sotto a sinistra, Obama assieme a Nethanyau e Abu Mazen. A destra, il pellegrinaggio a La Mecca lingua da museo riservata unicamente alle preghiere, con termini arcaici e lontana dall’elasticità che necessita una lingua moderna. Oggi, dopo tanto lavoro, il popolo ebraico nel suo ritorno all’indipendenza è riuscito, e questo è un caso unico nella storia dell’umanità, a resuscitare la sua lingua e a farla diventare una lingua moderna al pari dell’inglese, del francese e dello spagnolo. L’ebraico oggi viene usato in ogni aspetto della vita moderna: nella strada, negli uffici, nelle università come nelle fabbriche. Il mondo arabo, purtroppo, anziché prendere i successi della nostra piccola democrazia come esempio per progredire, non è stato, ed è difficilissimo che lo

sarà in futuro, in grado di adottare autonomamente la democrazia come sistema di potere. Ha, fin dall’inizio, interpretato il nostro essere ed esistere in maniera completamente errata e, non potendo di fatto stare al passo con i tempi, ci sta, con l’aiuto di molti anche in occidente, demonizzando, facendoci così diventare il nemico da distruggere. Professore, in base alla sua esperienza, l’esperienza di una persona che conosce così bene la mentalità, la cultura e il modus vivendi arabo le chiedo; si riuscirà mai a trovare una formula di compromesso che possa permettere di riportare la pace nella regione senza

mettere in pericolo l’indipendenza sia di Israele che delle altre nazioni? Rispondo a questa domanda raccontando una storia. Un importante diplomatico egiziano è un mio amico con il quale mi incontro saltuariamente. Ci scambiamo opinioni e spessissimo lui riporta sui giornali in lingua araba ampi stralci delle nostre discussioni. A questo mio amico ho chiesto come mai nonostante i trattati di pace di Camp David, le intese bilaterali fra Egitto ed Israele nei più svariati campi: commerciale, culturale, scientifico e tecnologico, sono rimasti lettera morta e perché, nonostante siano passati tanti anni, non c’è stata una vera normalizzazione. Ci ha pensato un po’ e poi mi ha detto: «voi israeliani non potete pretendere da noi più di quello che esiste fra una nazione araba e l’altra». Questo perché neanche fra le nazioni arabe esiste un normalizzazione dei rapporti così come la intendiamo noi. Ad esempio? Crede che fra Arabia Saudita e Siria ci siano buoni rapporti? Libano e Siria? O fra Egitto e Sudan o Egitto e Libia ci siano buoni rapporti? Le assicuro di no.

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mentalità radicata da centinaia di anni, è un modo di intendere le cose che è impossibile, almeno allo stato attuale, modificare. Questo è un particolare importantissimo che in Occidente viene quasi sempre dimenticato. Quando si parla con il mondo arabo bisogna sempre tenere presente che le parole il più delle volte hanno dei significati diversi, e quando si pensa di aver raggiunto un obiettivo o un accordo secondo i canoni occidentali, spesso, dal punto di vista della controparte araba, si è ancora nel bel mezzo della trattativa. Come due giocatori che, davanti ad una scacchiera giocano uno a dama e l’altro a scacchi, alla fine non ci si intende, non ci sarà un vincitore alla fine del gioco e, inevitabilmente, si finirà per litigare. E le liti, da queste parti, non sono caratterizzate da insulti e male parole, qui quando si litiga lo si fa con le armi in mano. Si parla spesso di un trattato di pace che preveda una divisione di Gerusalemme, la città divisa e capitale di due Stati; crede che una cosa del genere possa davvero accadere? Per parlare di questo bisogna innanzitutto capire qual è il punto di scontro relativo a Gerusalemme. Lo scontro non è territoriale, ma teologico. Gerusalemme è considerata sacra dall’Islam, ma questa sacralità non ha fondamento teologico, si tratta di un sacralità di tipo politico. La storia, e ci sono i documenti che confermano quello che sto per dire, ci racconta che nel 682 D.C., cinquant’anni dopo la morte di

Ogni Trattato di pace pretende di instaurare una normalizzazione dei rapporti irrealizabile. Come si può pretendere di costruire ciò che non esiste fra una nazione araba e l’altra? Esiste anche fra le nazioni arabe una sorta di competizione, invidie e odio che covano sotto la cenere di rapporti che sono buoni solo di facciata. In Medioriente la pace non è la stessa che si intende in Europa. Non possiamo pretendere una pace ed una normalizzazione tipo quella europea dove oggi nazioni che si sono combattute per centinaia d’anni convivono a frontiere aperte e collaborano in maniera totale. Questo, in Medioriente, non accadrà mai. La pace, così come viene intesa nel mondo arabo, è un grosso cessate il fuoco che tiene fino alla prossima guerra. La pace definitiva così come viene intesa in Occidente da queste parti è meno reale di un miraggio. Bisogna capire che questa condizione è legata a una

Maometto, ci fu una sollevazione alla Mecca da parte di persone che arrivavano da Damasco. Una volta sedata la rivolta fu vietato l’ingresso ai luoghi sacri a tutti coloro che arrivavano da questa regione. Trovandosi in questa situazione a Damasco si pensò di reinventare un nuovo luogo sacro e la scelta, visto che si trattava di un luogo religiosamente importante sia per gli ebrei che per i cristiani cadde proprio su Gerusalemme. Questo, dal punto di vista islamico, ha un senso compiuto anche considerando il fatto che l’Islam, la più giovane delle religioni monoteistiche ha, come ragione d’essere, la cancellazione e la sostituzione dell’ebraismo e del cristianesimo e non la convivenza con esse. Inutile girarci intorno,

l’Islam vede se stesso come la vera religione, mentre l’ebraismo ed il cristianesimo, sempre secondo il punto di vista islamico, sono delle religioni passate cioè da integrare all’interno dell’unica fede islamica e questo, badi bene, non è una cosa del passato, non è scritta sui libri di storia, questo è un dettato coranico valido ancora oggi. La divisione di Gerusalemme, ammesso che questo avverrà mai, non è la fine di una querelle, ma il nuovo punto di inizio fino alla riconquista totale della città. Questo, Israele non lo permetterà mai. L’Occidente, tra l’altro, non ha ancora capito, o fa finta di non capire, che questo è il motivo per cui le uniche popolazioni che non si integrano nel modello di vita occidentale sono proprio quelle arabe. Non sono le popolazioni algerine che si trasferiscono in Francia, ma l’Algeria, come non sono le popolazioni libiche o tunisine che arrivano in Italia, ma la Tunisia e la Libia. Si vuole il cambio del modo di vita occidentale, non l’integrazione all’Occidente. L’abolizione dei simboli cristiani, in Italia il crocefisso dalle scuole o dai luoghi pubblici, è solo uno dei primi passi, poi le richieste di islamizzazione saranno sempre più penetranti nel tessuto sociale europeo, come ad esempio quello che sta succedendo in Inghilterra dove si vorrebbe adottare la Sharia in zone ad alta densità islamica. Questo, se fosse concesso, porterebbe alla perdita di sovranità su ampie parti di territorio e considerando che le nascite nel mondo islamico sono più del doppio di quelle che ci sono nelle popolazioni occidentali, gli equilibri demografici porteranno, e neanche tanto lentamente, ad una islamizzazione dell’Occidente ed ad una conseguente integrazione al contrario. Saranno gli europei a dover cambiare il loro modo di vita e lo dovranno fare in casa loro. Quello che lei dice è estremamente inquietante, pensa che tutto il mondo arabo, senza eccezioni, abbia questo obbiettivo finale? Questo che ho descritto è il dettame coranico e sono in molti, la maggioranza, quelli che lo seguono. Dall’altro canto io vedo, all’interno del mondo islamico, enormi tensioni; faccio un esempio: c’è chi mette in dubbio la legittimità del fatto che siano i sauditi i custodi della Mecca. Non sono pochi quelli che si chiedono perché mai proprio i sauditi, che sono beduini, debbano avere potere sui luoghi più sacri della religione islamica. Oppure non possiamo non dimenticare le enormi tensioni che esistono tra sciiti e sunniti, o le guerre intestine come, ad esempio, quella portata avanti dalla Turchia nei confronti dei curdi, i massacri perpetrati nel Darfur, o i continui bombardamenti dell’aviazione saudita all’interno dei territori yemeniti. Queste divisioni interne hanno fino ad ora rallentato l’islamizzazione dell’Occidente in tutte le sue forme.


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Copenhagen. Tre possibili retroscena per quella che si annuncia una vera svolta arà il riscaldamento globale, ma ce n’è da far girare la testa. In dieci giorni sono cambiate in continuazione le posizioni sul clima dei maggiori protagonisti mondiali, anzi, meglio dire dei maggiori inquinatori. In particolare di Stati Uniti e Cina. A che gioco giocano Washington e Pechino? Come è possibile che cambino così continuamente e repentinamente posizione su un tema al centro dell’attenzione internazionale e che coinvolge temi così decisivi come l’economia e la salute? Eppure è proprio quanto sta succedendo. Mettendo in fila le dichiarazioni più recenti dei leader a cavallo del Pacifico non si può non sentire un senso di straniamento. Appena dieci giorni fa le prese di posizione comune fra Usa e Cina avevano scatenato un’onda di proteste. Ricapitoliamo. A metà novembre a Singapore la conferenza di Copenhagen sul clima sembrava sotterrata. Tra grande sdegno dell’Europa, anche se era stato proprio il premier danese Rasmussen ad arrivare inatteso a Singapore per proporre l’accordo a ribasso poi accettato. Rasmussen sarebbe stato sollecitato da chi vedeva che si stava per ottenere un nulla assoluto, e quindi aveva improvvisato una riunione in più con i leader dell’Apec offrendo una mediazione. Al breakfast di lavoro avevano partecipato anche Obama e il presidente cinese Hu Jintao.

S

Alla fine la linea tracciata era quella di giungere ad un accordo sul clima in due fasi: un accordo politico da sottoscrivere a Copenhagen e un’intesa legalmente vincolante in colloqui successivi, entro il 2010 per gli ottimisti. «Non permettiamo che il meglio sia nemico del

Il clima mutevole di Obama e Jintao Gli Usa vogliono marginalizzare la Ue. La Cina apprezza e aiuta la Casa Bianca di Osvaldo Baldacci tare, ha mostrato la sua contrarietà all’intesa di Singapore. Il vertice Apec quindi ha inflitto una battuta d’arresto alla battaglia per la riduzione delle emissioni nocive, ma ha cercato di salvare in qualche modo la faccia ai vari protagonisti. Europa nell’angolo e movimenti di facciata sono forse le chiavi di lettura che fanno di Singapore lo strumento interpretativo dei successivi rocamboleschi cambi di posizione in tema di riscaldamento globale. Due giorni dopo Singapore a sorpresa è arrivata Pechino.

Nella famosa conferenza stampa senza domande Obama e Hu Jintao hanno annunciato che Stati Uniti e Cina vogliono che la conferenza sul clima di Copenhagen di dicembre si concluda con un successo. Obama ha dichiarato che l’obiettivo dei due Paesi è quello di giungere a un accordo globale «che copra tutte le questioni del negoziato e che abbia un effetto immediato». Non vogliamo «né un accordo parziale né una dichiarazione politica». Secondo Obama «senza gli sforzi di Cina e Stati Uniti, i due più grandi consumatori e produttori di

Non è un caso che il presidente abbia scelto di andare alla conferenza non per il rush finale, ma il giorno prima del ritiro del Nobel bene», ha detto allora il presidente Obama. Un bicchiere mezzo pieno per chi aveva percepito l’imminente fallimento totale di Copenhagen, un bicchiere mezzo vuoto soprattutto per l’Europa, che sperava di essere la padrona di casa e la leader di una rivoluzione planetaria contro i cambiamenti climatici e continuava a rilanciare dichiarazioni di alta esposizione. Anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, parlando al vertice mondiale della Fao sulla sicurezza alimen-

energia, non ci potrà essere una soluzione». I due presidenti hanno quindi convenuto sulla necessità di «agire per una riduzione significativa delle emissioni di gas serra e per rispettare questi impegni». Nei giorni dopo i cinesi hanno di nuovo lanciato dichiarazioni “sospette”, dicendo che «non servono a nulla dichiarazioni politiche vuote». Nel frattempo le amministrazioni di Washington e Pechino si sono mostrate incerte sulla presenza dei loro leader a Co-

penhagen. Non è mancata in questa confusa partita a scacchi la cena di gala alla Casa Bianca con il premier indiano Singh, in cui anche l’India è stata coinvolta in dichiarazioni di intenti su una collaborazione con gli Stati Uniti sul clima.

Infine la svolta degli ultimi giorni. A distanza di poche ore prima Obama ha annunciato la sua presenza il 9 dicembre in Danimarca, poi la Cina ha ufficializzato che sarà presente il suo primo ministro Wen Jibao; Obama ha fatto sapere che presenterà un piano ufficiale di riduzione delle emissioni da parte degli Usa (ridurre le emissioni di gas effetto serra negli Usa del 17% nel 2020, del 30% nel 2025 e del 42% nel 2030 rispetto ai livelli del 2005), e a ruota la Cina ha annunciato un proprio piano vincolante anche se unilaterale (ridurre le emissioni per unità di prodotto interno lordo di una cifra che oscilla fra il 40 e il 45 per cento sui livelli del 2005, entro il 2020). Roba da schizofrenici, apparentemente. Ma forse la ve-

La promessa del Dragone La Cina esce allo scoperto nella lotta ai cambiamenti climatici. Il Consiglio di Stato - il governo cinese - ha annunciato “l’obiettivo vincolante” di tagliare la cosiddetta “intensità carbonica” tra il 40 e il 45% entro il 2020 rispetto ai livelli di emissioni registrati nel 2005. E ha confermato che alla conferenza Onu che si aprira’ il 7 dicembre a Copenaghen parteciperà il premier Wen Jiabao. L’intensità carbonica è un parametro di valutazione dell’inquinamento utilizzato esclusivamente da Pechino: lo si calcola in base alle emissioni di anidride carbonica per ogni unità di Pil e quindi l’impegno assunto potrebbe anche non tradursi una effettiva riduzione complessiva dei gas serra. Ma resta il segnale politico offerto da una decisione che è stata presentata come «un’iniziativa volontaria del governo cinese» e «un grande contributo agli sforzi globali» sul clima. La Cina, oltretutto, in quanto economia emergente, non sarebbe obbligata dai trattati attualmente vigenti ad accettare limiti ai gas serra.

rità è di segno opposto, con una grande abilità dei grandi paesi a gestire la vicenda a loro vantaggio. Cerchiamo di districarci. Intanto c’è un po’ di demagogia. E forse non è un caso che Obama abbia scelto di andare a Copenhagen non nei decisivi giorni finali ma il 9 dicembre: il giorno prima del ritiro del Nobel: un modo per dire che lo merita? Tanto più che in molti già dicono che persino questa proposta al ribasso lanciata da Obama sarà comunque frenata dal Congresso, seppur a maggioranza democratica. D’altro canto la Cina (che con gli Usa è la maggior inquinatrice al mondo raggiungendo insieme almeno il 40% del totale) non fa che ribadire che sono i paesi più sviluppati a dover pagare di più, non certo lei.

Ecco dunque forse svelato il gioco della confusione di questi giorni.Tre mi sembrano i piani da analizzare. Prima di tutto ci si trova in una situazione di reciproco sospetto tra i protagonisti, per cui nessuno voleva fare il primo passo se non lo facevano gli altri. Forse il viaggio asiatico di Obama ha un po’ smosso questa situazione. E l’ha fatto, siamo al secondo fondamentale punto, mettendo al centro l’Asia e ai margini l’Europa. Gli Stati Uniti in realtà con le loro mosse degli ultimi giorni hanno rafforzato il loro asse con gli altri paesi ostili a una lotta troppo incisiva la riscaldamento globale. Washington, Pechino, New Delhi sono dalla stessa parte e guidano le danze marginalizzando del tutto il ruolo dell’Europa. Anzi, sono perfettamente in grado di imporre le loro esigenze, e magari di far pagare i costi maggiori proprio a quegli europei che parlando sempre di più e contando sempre di meno si sono un po’ infilati in una trappola. Inoltre il piano americano e quello cinese sono chiaramente al ribasso, lontanissimi dagli auspici dei sostenitori di accordi di alto valore. Ma qui, e siamo al terzo punto, le amministrazioni extraeuropee sono state bravissime a gestire il folle minuetto degli ultimi giorni: facendo intravedere il totale fallimento di Copenhagen hanno fatto sì che i loro impegni sì storici, in quanto inediti, ma comunque di basso profilo, vengano vissuti come un grande successo, come grandi concessioni. E ci si dovrà accontentare: «il meglio è nemico del bene», ricorda Obama.


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27 novembre 2009 • pagina 17

Gli abusi sono stati coperti per decenni dalla chiesa cattolica

In Spagna 12 quotidiani escono con editoriale contro Madrid

Pedofilia, in Irlanda sotto accusa 46 preti

Catalogna in rivolta: «Non toccate la nazione»

DUBLINO. La Chiesa cattolica

BARCELLONA. È rivolta in Catalogna contro la minaccia concreta che a Madrid la corte costituzionale spagnola bocci almeno in parte la Carta dell’Autonomia del 2006 e rimetta in discussione lo statuto di nazione catalana. Tutti i 12 giornali catalani, di ogni tendenza, dal conservatore La Vanguardia al socialista El Periodico sono usciti ieri con un editoriale comune, intitolato La dignità della Catalogna, nel quale mettono in quardia contro il rischio di una spaccatura con Madrid se questo accadrà. Una iniziativa definita storica e appoggiata dalla maggior parte dei partiti catalani. «C’e’ preoccupazione in Catalogna, è necessario che tutta la Spagna lo sappia» avvertono i 12 giornali. «La Ca-

irlandese ha coperto per anni i reati di pedofilia commessi dai suoi sacerdoti nell’intento di tutelare la propria reputazione: lo denuncia una commissione governativa incaricata di indagare sugli abusi, uno scandalo di cui si è già parlato nei mesi scorsi. Il rapporto di 720 pagine esamina il caso di 46 preti accusati di avere abusato sessualmente di minori tra il 1975 e il 2004. Complessivamente sono state depositate in merito 320 denunce. Il documento fa il nome di 11 sacerdoti condannati per pedofilia, mentre l’identità degli altri, che sono morti o non ancora processati, non è stata rivelata o sostituita da pseudonimi. Gli inquirenti hanno studiato per tre anni più di 60mila documenti, un tempo secretati dall’arcivescovo di Dublino. Le vittime hanno accolto con favore la pubblicazione del rapporto, stimando tuttavia che il governo e la Chiesa hanno ancora molto da fare per riparare i mali commessi.

Gli inquirenti, guidati da un giudice e due avvocati, sostengono di non avere alcun dubbio sulla colpevolezza dei 46 preti: «Un sacerdote ha riconosciuto di avere abusato sessualmente di oltre cento bambini, mentre un altro ha detto di aver com-

Più truppe a Kabul, alleati in ordine sparso Roma conferma, Parigi dice no e Berlino trema di Laura Giannone a richiesta ufficiale sarà martedì prossimo dall’Accademia militare di West Point, ma l’intenzione è nota e i numeri già in circolazione. Gli Stati Uniti stanno cercando di convincere gli alleati della Nato a inviare altri 10mila soldati in Afghanistan. Lo ha scritto ieri il New York Times, secondo cui è di questa entità il contributo che Barack Obama vorrebbe aggiungere ai rinforzi statunitensi. Un pressing a cui però gli alleati chiamati in causa, tra questi anche l’Italia, starebbero resistendo, stretti tra le singole disponibilità e le polemiche interne. Per il quotidiano americano i membri della Nato e gli altri paesi alleati non sarebbero di fatto disponibili a spingersi oltre i 5mila militari, ripescati tra l’altro tra quelli già inviati come rinforzi per le recenti elezioni. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, non ha fatto cifre: «Non ci sono ancora numeri» ha detto spiegando che comunque dell’argomento parlerà con il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, a margine della riunione ministeriale della Nato a Bruxelles del 3 e 4 dicembre. «Siamo comunque pronti - ha aggiunto - a dare il nostro contributo», magari anche riducendo le truppe in altre missioni, come quella del Libano, «ma non solo». Al di la dei numeri l’Italia dovrà fronteggiare le polemiche sul fronte interno, ad esempio quelle scatenate dalla Lega che qualche giorno fa aveva chiesto il ritiro delle truppe: «La strategia dell’Italia per l’Afghanistan sarà condivisa da tutti i ministri» ha detto fiducioso il titolare della Farnesina che porterà la questione anche in Parlamento. «La nostra sarà una linea che alla fine tutto il governo condividerà perche’ si tratta dell’immagine della credibilita’ internazionale del nostro Paese».

L

ti. La Francia non ne vuol sapere di superare il numero di 3.750 soldati che ha già sul terreno. La Gran Bretagna ha promesso altre 500 unità, ma il governo di Gordon Brown si trova a fronteggiare un’opinione pubblica sempre più convinta che si debbe anticipare il ritiro. La riunione della Nato della prossima settimana chiarirà molti dubbi e bisognerà vedere se riuscirà anche a vincere le resistenze. Intanto, grande clamore ha suscitato lo scandalo ai vertici della Difesa tedeschi. Uno scandalo che certo non faciliterà la decisione della Merkel in ambito Nato. Il neo ministro della Difesa Theodor zu Guttenberg ha sollevato dalle sue funzioni il generale dello stato maggiore Wolfgang Schneiderhan e il sottosegretario alla Difesa, Peter Wichert (anello di congiunzione tra stato maggiore e ministero).

Lo ha comunicato ieri al Bundestag lo stesso ministro Guttenberg (Csu), mettendo in relazione la sua decisione con gli ultimi sviluppi dell’inchiesta sul raid di Kunduz, rivelati dalla stampa tedesca. In sostanza, Schneiderhan, incaricato delle indagini, è accusato di aver nascosto alcuni rapporti sul raid aereo del 4 settembre scorso in Afghanistan e di aver dissimulato alcune prove. Il rapporto di giornata stilato all’indomani del raid sarebbe stato sottratto di proposito anche alla visione della Procura generale. Secondo quanto scritto ieri dal tabloid Bild - il più venduto in Germania - gli avvenimenti di quella tragica giornata sono molto più gravi della versione ufficiale, quella sostenuta anche dall’allora ministro della Difesa tedesca, Franz Joseph Jung, sul cui operato la Merkel ha chiesto un’inchiesta. L’incursione aerea e il bombardamento di due convogli di camion, avvenuto su richiesta del colonnello tedesco Georg Klein che temeva un attentato, sarebbe costato la vita a 142 persone, un numero imprecisato delle quali civili. Prima di annunciare la decisione, Guttenberg ne avrebbe discusso con il cancelliere Angela Merkel, che ieri ha ricevuto a Berlino il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen.

Scandalo in Germania: licenziati il sottosegretario alla Difesa e il generale Schneiderhan per la strage di Kunduz

piuto abusi due volte al mese durante il suo ministero, durato più di 25 anni», affermano. La commissione ha inoltre scoperto che tre arcivescovi di Dublino - John Charles McQuaid (1940-72), Dermot Ryan (197284) e Kevin McNamara (198587) - non hanno denunciato i fatti alla polizia, scegliendo di evitare lo scandalo pubblico e trasferendo i colpevoli di parrocchia in parrocchia. Il cardinale Desmond Connell ha aspettato fino al 1995 per autorizzare la polizia a leggere i dossier dei 17 casi di abusi sessuali. Quella della Commissione dell’arcidiocesi di Dublino è la terza inchiesta a scuotere la chiesa cattolica d’Irlanda negli ultimi quattro anni.

Per Obama Il contributo alleato sarebbe un grande aiuto a rispondere alle critiche sul suo fronte interno da parte di chi pensa che il costo pagato dagli Usa nella guerra in Afghanistan abbia già colmato la misura. Sempre che riesca a vincere le resistenze degli alleati: se Berlusconi ha espresso disponibilità all’invio di più truppe, altri non sembrano così convin-

talogna è stufa di dover sopportare lo sguardo irritato di coloro che continuano a vedere l’identità catalana come un difetto di fabbricazione che impedisce alla Spagna di raggiungere una impossibile e sognata uniformita».

A mettere in fermento politica e stampa a Barcellona è stato nei giorni scorsi un articolo di El Pais, che preannunciava una probabile bocciatura da parte della corte costituzionale della “nazione”e dell’uso del catalano quale lingua ufficiale della regione autonoma sanciti dallo statuto del 2006, voluto dal premier socialista spagnolo Zapatero. Il laborioso esame dello Statuto Catalano - approvato dai parlamento di Madrid e Barcellona, ratificato per referendum, è in corso da tre anni. I 12 giudici, nominati dai due principali partiti spagnoli, il Psoe e il Pp, su posizioni centraliste, sono stati finora incapaci secondo la stampa di adottare una posizione comune. Ma un pronunciamento ora potrebbe essere vicino, ma non prima di Natale, secondo il premier Zapatero. Se lo Statuto sarà colpito, avvertono i 12 giornali, «c’è il rischio che vengano rimessi in questione la stessa dinamica istituzionale del dopo Franco e lo spirito del 1977, che rese possibile la pacifica transizione verso la democrazia».


cultura

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Società. Da vezzo per stranieri a passione popolare; da svago per famiglie a grande affare finanziario e politico: storia di un gioco diventato serissimo

Mezza Italia nel pallone Le squadre, gli allenatori, i campioni, le contraddizioni: ottant’anni di calcio chiusi in un libro di Paolo Ferretti di Gabriella Mecucci l calcio italiano nasce in provincia: la Pro Vercelli è la prima squadra a spuntare nel 1891. Poi tocca ad altre cittadine piemontesi. Per arrivare alla Juventus occorre aspettare il 1897. Le altre “grandi”, all’inizio, parlano quasi tutte inglese. È il caso del Genoa, che prima di diventare un Football club, è addirittura un Criket club. Quanto al Milan si chiama da subito Football end Criket club. Paolo Ferretti ha scritto un delizioso libro, pieno di aneddotti e curiosità, che divertirà e appassionerà gli amanti del calcio. Il titolo è 80 anni di serie A. Storia e protagonisti di tutte le società, la casa editrice è “Le Lettere”.

I

Col tempo la componente britannica scompare dal calcio italiano, la forza delle provinciali, invece, sebbene diminuita, continua: è il caso del Cagliari anni Sessanta-Settanta e del Verona degli anni Ottanta. Squadre che sono riuscite a vincere lo scudetto, mentre i Grifoni del Perugia nella loro età dell’oro arrivarono solo secondi. In provincia sono nati alcuni fra i più grandi talenti: valga per tutti quello di Rivera, spuntato nell’Alessandria e quello di Capello, formatosi alla Spal. Oggi, le città minori contano molto meno e la grande colpevole di questa marginalità è la televisione commerciale. Ormai le grandi Reti comprano volentieri solo le partite delle super squadre, quelle che contano una valanga di tifosi e che assicurano l’audience. Per le altre bastano quattro soldi: «Il rapporto delle entrate tv - scrive Ferretti - fra “grandi” e “piccole” è 1 a 7, mentre in Inghilterra è 1 a 4». Quanto agli stadi, al contrario che per il football di sua Maestà, rimangono sempre più spesso semivuoti. Ma immergiamoci nella storia del calcio. E partiamo - così come farebbe Murdoch - dalla squadra più gettonata, quella che ha vinto 27 scudetti e che

ha più tifosi: la Juve. Anche se da qualche anno perde colpi. Pochi sanno che la “Signora”diventò “grande”grazie ad Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni e papà dell’avvocato. Sotto la sua presidenza, che

tanto curiosa: venne scelto fra sigle altisonanti come Augustra Taurinorum, Fatigando declamatur, Vigor et Robur, Ludus, Società sportiva Massimo D’Azeglio. Per fortuna, alla fine, si preferì Juventus.

Il volume pubblicato da Le Lettere, è pieno di informazioni e illustrazioni: racconta un po’ la storia del Paese attraverso le avventure della Serie A (e non solo)

E iniziò la grande storia del club più amato d’Italia. Ferretti la racconta in dettaglio non trascurando di ricordarci che l’uomo più rappresentativo della Juve, Giampiero Boniperti, venne acquistato dal Momo per sessantamila lire. Altri tempi: tempi di un’Italia dell’immediato dopoguerra che faticava a ricostruirsi e si divertiva a guardare i guizzi prodigiosi di quel fantasioso attaccante, che durarono sino all’inizio degli anni Sessanta, quando eravamo già approdati alla lavatrice e alla Seicento, in pieno boom economico. Fra le tante curiosità che il libro segnala ce n’è una su Platini che forse i tifosi amano ricordare più di ogni altra: il grande transalpino arrivò a Torino per un clamoroso errore dell’Inter. Andò così: «Michel ebbe un infortunio alla caviglia che fece nascere dubbi e perplessità nell’ambiente calcistico interista. Così neapprofittò la Juve che lo comprò ad un prezzo stracciato: 148 milioni di lire». Ed erano già gli anni Ottanta. Passiamo alla grande rivale. A quella che oggi è la squadra italiana più forte: l’Inter. Nacque 11 anni dopo della Juventus, nel 1908, da una costola del Milan. Un gruppo di soci abbandonarono questa società perché non condividevano le decisioni del presidente Camperio. Si riunirono in un tipico ristorante meneghino, “L’Orologio”, e dettero vita all’ Internazionale football club, internazionale perché aperto a tutti: italiani e

durò una decina d’anni, vinse ben 6 campionati. E forse sono ancora meno quelli che conoscono la storia della maglia bianconera. All’inizio, infatti, la divisa era «rosa con una cravatta nera, ricavata da uno scampolo di stoffa rimediata in un magazzino», scrive Ferretti. Ma quel colore non piaceva a John Savage, industriale tessile e tifoso juventino.

Il mecenate del calcio «ordinò allora la maglia rossa del Notthingam, ma dalla città inglese arrivarono le maglie dell’altra squadra locale: quelle bianconere del Notts Country, che nel 1903 diventarono la divisa ufficiale». La storia del nome della squadra è altret-

Qui accanto, Giampiero Boniperti in una partita di beneficenza giocata dopo la tragedia di Superga nella quale morirono tutti i campioni del Grande Torino (sotto, a sinistra). Le due formazioni sono: il Genoa del 1899 (in alto) e la Roma dello scudetto del 1942 (sotto). In basso, Gigi Riva e Gianni Rivera con Nereo Rocco stranieri. Che fosse nata “una stella” lo si capì quasi subito, quando, al secondo campionato a cui prendeva parte, se lo aggiudicò. Nel 1927 arrivò poi, quello che in tanti hanno definito il più grande calciatore italiano di tutti i tempi: Giuseppe Meazza, recuperato dall’Inter dopoché il Milan lo aveva scartato. Nel calcio tutti commettono l’errore fatale. Basta attendere.

Un nome ritorna nella tradizione dello squadrone neroazzurro: è quello dei Moratti. An-

gelo che vince tre scudetti e due coppe dei campioni, e Massimo, il figlio che ha speso molto ma è ancora lontano dagli obiettivi raggiunti dal padre. La “gemella”cittadina, il Milan, ha vinto lo stesso numero di campionati dell’Inter, 17, ma a livello internazionale l’ha letteralmente stracciata: sette Champions e molto altro. La rivalità è fortissima. Racconta Ferretti che un tempo aveva addirittura un forte radicamento sociale: «I sostenitori del Milan, tra i tanti soprannomi, hanno anche quello di “casciavit”che in dialetto significa cacciavite.

Il termine è usato per sottolineare l’estrazione popolare di gran parte della tifoseria rossonera, almeno sino agli anni Sessanta. Cioè fino a quando la rivalità con l’Inter fu anche espressione di classi sociali opposte, da una parte il “popolare” Milan, dall’altra l’“aristo-


cultura

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ai gran gol fatti dal “fornaretto” di Frascati, Amedeo Amadei. Le notizie raccontate da Ferretti sono infinite, ma, dopo le “grandi”, perché non frugare fra le “piccole”,un tempo forti, ma ormai scomparse dalla mappa calcistica?

È il caso della Pro Vercelli, la provinciale sette volte scudettata. O del Novara, dove militò il centravanti che condusse la nazionale italiana a vincere due mondiali (1934 e 1938): Silvio Piola. E dove giocò Raf Vallone, che nel dopoguerra prima farà il giornalista sportivo all’Unità e, subito dopo, diventerà un grande attore.

cratica” Inter, i cui tifosi erano chiamati “bauscia”, cioè “gradassi”. Ma dire Milan significa anche dire Berlusconi, il self made men italiano per eccellenza, che lo acquistò e ne divenne presidente nel 1986, carica che da allora ha lasciato vacante solo per due anni, fra il 2004 e il 2006.

Il Genoa oggi è una buona squadra, ma ci fu un tempo in cui mieteva scudetti a man bassa: 9 entro il 1924. E poi niente più. Quando andava alla grande era «imbottito di giocatori inglesi». «Questi - racconta Ferretti - erano già professionisti in patria e, quindi, nei primi anni del secolo, la società doveva trovare il modo di mascherare i

loro stipendi. Il calcio, in Italia, era ancora uno sport dilettantistico. Per aggirare l’ostacolo, molti calciatori risultavano alle dipendenze delle aziende di proprietà dei dirigenti genoani. Per altri si usava la formula del rimborso spese o del viaggio in cerca di impiego». Un piccolo imbroglio che rese grande la squadra. E un “inghippo” regalò anche lo scudetto al Napoli nel 1990. Allora lo squadrone partenopeo aveva nelle sue fila il genio assoluto di Maratona. Eppure per vincere il secondo campionato dovette ricorrere ad una furbizia.

Ecco il racconto: «L’8 aprile del 1990 il Napoli va in trasferta a Bergamo contro l’Atalanta. La partita è inchiodata sullo 0-0. E così finisce sul campo. Per gli azzurri sfuma l’occasio-

ne di agganciare in testa il Milan. Ma durante l’incontro, una monetina lanciata dagli spalti colpisce il brasiliano Alemao. Il massaggiatore, Carmando, obbliga il giocatore a rimanere a terra e a ingigantire l’infortunio. Il brasiliano esce in barella e finisce all’ospedale. Ai partenopei viene data partita vinta a tavolino. Più avanti il calciatore confesserà che stava benissimo».

Quanto alla Roma in tanti hanno attribuito il suo primo scudetto, quello del 1942, alle pressioni esercitate dal regime per far vincere la squadra della capitale. Una sorta di calciopoli pre datata. Se il duce sia intervenuto nessuno lo può dire: il fascismo - si sa - non amava la trasparenza. In realtà i giallorossi erano uno squadrone e la vittoria è certamente da legare

Indimenticabile anche la Spal, inabissatasi nelle serie minori a partire dal 1968 e mai più riemersa. Eppure ci fu un tempo in cui occupava persino i quartieri alti della classifica e lanciava calciatori come Fabio Capello. E poi ci furono il Padova e la Triestina, entrambe allenate da Nereo Rocco prima che approdasse al Milan. Era un mister moderno che assomigliava a quelli di oggi: credeva molto negli schemi e nelle regole scritte. Il suo opposto fu Manlio Scopigno che portò il Cagliari allo scudetto, puntando tutto sulla fantasia dei giocatori. È vero che aveva dalla sua il l’ala sinistra italiana più spettacolare: quel Gigi Riva che passò tutta la sua carriera calcistica nel capoluogo sardo, ma durante una celebre partita - tanto era fiducioso - che si addormentò in panchina.

Questa carrellata che non può che chiudersi con il “grande Torino”. La squadra più bella e più sfortunata del nostro Paese. Quattro scudetti vinti fra il 1946 e il 1949: annate da record dove non ce n’era per nessuno, tanto era forte la superiorità di quei ragazzi. Finirono in blocco nella nazionale italiana e la resero vincente. La storia di Gabetto, Mazzola, Ossola e compagni finì in una cupa giornata di maggio: il loro aereo di ritorno da Lisbona si schiantò contro la Basilica di Superga, appena sopra Torino. I tifosi videro le fiamme alzarsi e uccidere i loro giovani beniamini. Il calcio vive di tante cose: business, imbrogli, crisi, resurrezione e anche, purtroppo, di tragedie. Lo spettacolo non si ferma mai. Non si interruppe il campionato del ’49: si arrivò sino in fondo (lo scudetto venne dato d’ufficio al Torino). Così come raggiunse il novantesimo la terribile partita di Perugia, dove Umberto Curi morì in campo sotto gli occhi di uno stadio gremito che si rese conto subito della tragedia.

Paolo Ferretti ha raccontato un’epopea, con i suoi eroi e le sue vittime. C’è stato un tempo dove la storia di questo mondo sembrava un romanzane tanto era carico di vite difficili, di sentimenti, di cadute e di riscatti. Oggi non è più così, il fascino del pallone è, almeno in parte, calato. È arrivata calciopoli, le partite truccate in Italia come all’estero. Negli stadi e fuori di essi da tempo ormai è arrivata la violenza: quella fisica e quella verbale, magari di stampo razzista. Ed è sempre più difficile riempire gli spalti. La televisione detta i suoi tempi: si gioca quasi tutti i giorni perché solo così gli affari dei magnati della comunicazione vanno alla grande. L’album che Ferretti ci aiuta a sfogliare è pieno di figurine che diventano sempre più rare. In tanti ormai rimpiangono il passato e inveiscono contro un presente sempre meno edificante. Ma quando le squadre scendono in campo e l’arbitro fischia il calcio d’inizio di una partita importante, nonostante tutto, le emozioni riprendono il sopravvento sullo scetticismo. Sino all’ultimo minuto.


spettacoli

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l primo è un regista, uno sceneggiatore e un produttore tra i più affermati e amati dal pubblico di tutto il mondo.Influentissimo kingmaker del palcoscenico hollywoodiano, ha al suo attivo pellicole passate anche nel cinemino più piccolo della provincia più recondita. Stiamo parlando di favole come la saga di Indiana Jones, E.T. l’extraterreste, Hook - Capitan Uncino, A.I. - Intelligenza artificiale, Prova a prendermi. Ma anche di script dalla forte carica drammatica quali Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Il colore viola, Jurassic Park, Schlinder’s List, Munich. L’altro è uno dei maestri dell’horror tra i più famosi. I suoi libri hanno venduto più di 350 milioni di copie in tutto il mondo, ispirando numerosissime favole gotiche anche sul grande schermo, affascinando autori del calibro di Kubrick, Carpenter, Cronenberg. Carrie, La zona morta, It, Misery, Il miglio verde, La tempesta del secolo, L’acchiappasogni sono sgorgati dalla sua prolifica penna per andare poi a spandersi, con alterne fortune, sul grande schermo. Ma mettiamo ordine in questo tourbillon di nomi e titoli per i pochi che non avessero ancora capito di chi stiamo parlando.

Qui a sinistra, la copertina di “Under the dowe”, di Stephen King (a destra nella foto), da cui Spielberg (in basso) trarrà una fiction

I

Il primo è Steven Spielberg, sessantatreenne, icona dell’industria magica del cinema di Hollywood, fondatore della DreamWorks, uno degli studios più ricchi e prolifici degli ultimi anni. L’altro è Stephen King,

Anteprime. “Under the dome” di King diventa una fiction firmata Spielberg

Steven & Stephen, nozze col brivido di Pietro Salvatori maestro del romanzo horror/fantasy, che ha turbato i sogni di milioni di lettori e più volte ha incrociato i propri passi, assidui nelle strade della carta stampata, sui sentieri della celluloide. Le strade dei due artisti si stanno per incrociare. È successo infatti che King abbia scritto un libro, Under the Dome, uscito sugli scaffali italiani da poco più di un mese, e che Spielberg se ne sia innamorato a tal punto da decidere in men che non si dica di tirare fuori dal volume una miniserie targata DreamWorks.

D i c he s i t r a t t a ? Uscito in anteprima proprio in Italia con il titolo The Dome, l’ultima fatica letteraria di King è un volumone di oltre mille pagine, dalla genesi (di scrittura) antica e ricca di aneddoti. È del 1978 la prima stesura della storia, o almeno un prologo di questa. Quaranta pagine dal ti-

tolo provvisorio di The Cannibals (che probabilmente faceva presagire una diversa deriva alle vicende poi effettivamente narrate), andate poi perdute. Qualche anno dopo un nuovo tentativo, ancora una volta andato fallito, con tanto di scaraventamento del testo manoscritto contro un muro, raccolto poi con diligenza dalla amorevole signora King e custodito in un cassetto fino alla nuova ispirazione ed alla sospirata uscita sugli scaffali avvenuta a trent’anni dalla prima parola messa nero su bianco.

metraggio dei Simpson avevano immaginato un espediente del genere), per esplorare le dinamiche umane che si vanno a creare nel microcosmo di Chester’s Mill. Buoni contro cattivi, onesti contro opportunisti. Il borgo del Maine diventa una specie di laboratorio sociale sotto gli occhi dello scrittore. Sullo sfondo le atmosfere inquietanti che l’autore di Portland è maestro nel creare, che ammantano la vicenda di risvolti agghiaccianti, che terranno sulle spine i lettori che avranno la pazienza di accom-

lizzarne un serial come invece si era ripromesso. Spera dunque di riuscirci con Under the Dome, la cui trama promette veramente bene, soprattutto immaginandola combinata alla vena creativa del regista statunitense. La cosa curiosa è che nessuno dei due big coinvolti nel progetto si occuperà della stesura della sceneggiatura.Entrambi, insieme a Stacey Snider, dirigente DreamWorks che è stata la chiave per l’avvio del progetto, cureranno la fase di produzione esecutiva. Ma l’ufficio stampa dello studio ha lasciato trapelare che la ricerca di un valido scrittore per la messa in scena è già cominciata ed è attentamente seguita dal duo, che marcherà stretto il fortunato (o malcapitato, a seconda dei punti di vista) scrittore, dando la propria impronta al progetto. Il talismano, fermato negli anni dalla mancanza di fondi, sarebbe dovuto durare sei ore, diviso in sei episodi di un’ora ciascuno, e tale dovrebbe essere la lunghezza di Under the Dome.

La cosa curiosa è che nessuno dei due big coinvolti nel progetto si occuperà della stesura della sceneggiatura. Entrambi, insieme a Stacey Snider della DreamWorks, cureranno la fase di produzione esecutiva dello script Ci troviamo a Chester’s Mill, minuta località nel Maine. Un paese rurale come tanti altri, realmente esistente, con tanto di piccolo sito internet (www.chestersmill.com). Un tranquillo paesello immerso in una tranquilla mattinata, uguale a tante altre mattine. Ma all’improvviso sulla cittadina cala una specie di calotta di vetro impenetrabile, che sigilla il paese dal resto del mondo. Un pretesto, forse semplicistico (già gli sceneggiatori del lungo-

pagnare fino alla fine il ponderoso volume. Ottima l’accoglienza del pubblico. I lettori del seguitissimo www.ibs.it gli attribuiscono un voto di 4.7 su 5, le copie vendute rispettano le aspettative della vigilia. Il tutto ha solleticato Spielberg, che da oltre vent’anni possiede i diritti de Il talismano, romanzo scritto a quattro mani da King in con Peter collaborazione Straub, altro prolifico autore del genere horror, pur non essendone ancora riuscito a rea-

Onde evitare i disguidi incorsi nel precedente progetto, Steven&Stephen avrebbero già individuato un possibile compratore. Dovrebbe essere Showtime, che già trasmette un altro prodotto DreamWorks, United States of Tara, e sta valutando la messa in onda della miniserie Borgia, ennesimo gioiello di casa Spielberg. Ci verrebbe da dire “se son rose fioriranno”. Ma conoscendo il buon King, forse sarebbe più appropriato “se son spine, pungeranno”.


spettacoli

27 novembre 2009 • pagina 21

Cult. Al Teatro Valle di Roma va in scena “I pali“, nell’ambito di una retrospettiva dedicata al duo Scimone e Sframeli

Dalla Sicilia i nipoti di Beckett di Enrica Rosso l Teatro Valle di Roma è di scena il rigore ritmico di due siciliani d’Europa. Beckettiani fuori, mediorientali dentro, Spiro Scimone e Francesco Sframeli ci restituiranno parte del loro percorso artistico nella retrospettiva che l’Eti gli dedica. Un confronto diretto col pubblico che avrà l’occasione di appassionarsi al loro personalissimo stile.

A

Dopo il debutto al Festival di Asti Teatro che lo ha coprodotto, è partita dunque da Roma l’eco della loro ultima creazione, Pali. Quattro i personaggi in scena. Come già era successo ne La festa tutti rinchiusi in corpi maschili, con la seguente distribuzione: Spiro Scimone: Senzamani; Francesco Sframeli: la Bruciata; Salvatore Arena: L’Altro; Gianluca Cesale (ultima acquisizione della compagnia): Il Nero. Quattro creature deviate per un pezzo di teatro surreal-catastrofico. Schegge impazzite di una follia collettiva, i quattro personaggi decidono di vivere avvinti ai pali tentando in questo modo l’ultimo salto sulla giostra della vita. Tutto intorno la luce si diffonde e altera, migliorandola, la visione del disfacimento generale, della decadenza che si consuma quando l’ignoranza prende

bietà esemplare con cui il primo esplora i rapporti interpersonali, costruendo di volta in volta una lingua adeguata rispetto al corpo del personaggio a cui sta lavorando, incontra perfettamente la rigorosissima ricerca della regia affidata al secondo. «Rifiuto, poiché non è nel teatro, che un regista decida che cosa quelle pagine significhino, e lo decida nella capa soja, e cioè non scopra attraverso gli attori in atto, cioè attraverso il gioco degli attori, non cos’è la verità di un testo, che non esiste, ma che cos’è la realtà di un testo, giocato, played, in quel momento» Lino Fiorito mette a punto una scena bellissima, squadrata, cromaticamente cangiante; un tracciato di linee forti che delimitano ed enfatizzano il gioco metateatrale, che chiamano in causa tanto le luci mistiche del Sud Italia, quanto gli studi di Mark Rothko, capace di accogliere persino un banale filo steso a far asciugare i panni e restituircelo come ulteriore cadenza spaziale. Stesso discorso per i

I due si ingegnano a restituire il senso della quotidianità a situazioni limite. Testi come spartiti, di cui si ricordano i dialoghi come fossero arie tra il mostruoso e il grottesco il sopravvento e i prepotenti decidono per tutti. In questo scenario desolato i sopravvissuti dall’alto dei pali diventano degli intoccabili e trovano una nuova motivazione comune. Non più vittime in balia degli eventi, ma creature libere di guardare il cielo da un punto di vista privilegiato ed unico, libere di esistere senza dover far da gradino alla scalata sociale di nessuno. Il ritmo dell’ora scarsa della rappresentazione, seppure più disteso rispetto ai loro precedenti spettacoli, vola alto grazie allo spessore delle quattro essenze in scena. Frutto di una collaborazione quindicinale (che ha reso un repertorio complessivo di sei titoli), costantemente rinvigorita dal confronto che solo nasce dal verificare in scena i testi, la scrittura scarna di Spiro Scimone, sempre in bilico tra lirismo e comicità, trova massimo agio nella messa in scena di Francesco Sframeli. La capar-

costumi che rilanciano e assecondano la composizione della scena con l’aggiunta dell’invenzione degli ombrelli, le cui cupole in plastica colorata ma trasparente, oltre ad assolvere al loro compito di protezione, trasformano la luce bianca voluta da Beatrice Ficalbi inondando con colate di colore le sagome degli interpreti.

Ritenuti da molti gli artefici del disgelo di una sicilianità che si era come arresa al talento di Scaldati e che grazie a loro ha ritrovato una strada, un defluire di umori caldi e vibranti ( pensiamo alle produzioni di Emma Dante o Davide Enia) che ben rappresentano quel mondo isolano e isolato fatto di alleanze segrete, Scimone e Sframeli si ingegnano da sempre a restituire il senso della quotidianità a situazioni limite. Testi come spartiti, di cui si ricordano i dialoghi come fossero arie. Più il materiale umano

a cui si riferisce è degradato, più la scrittura lo redime dai luoghi comuni facendone vivere i silenzi o traducendo la crudezza della realtà in situazioni mostruose che sfiorano il grottesco. cosi Nascevano spettacoli cult come Nunzio (Premio Idi nuovi autori nel 1994 e Medaglia d’oro Idi per la drammaturgia l’anno dopo) per la regia di Carlo Cecchi. Stilato in un dialetto messinese stretto, un rincorrersi di battute brevi, ripetitive, a costruire un ritmo incalzante che non lascia punti di fuga nel descrivere una coppia di strani conviventi: un operaio mortalmente malato e un killer. Lo stesso testo verrà poi rivisitato per la versione cinematografica del 1999 col titolo Due amici e vincerà in quell’occasione il Leone D’oro per la miglior opera prima alla Mostra del Cinema di Venezia 2002 (Sarà possibile assistere alla proiezione del film sempre al Valle lunedì 30). A seguire Bar con la regia di Valerio Binasco (Premi Ubu nuovo autore e attore 1997) un’altra strategia dell’assurdo per descrivere l’intrecciarsi delle vite di Nino e Petru. Per arrivare alla prima scrittura in italiano, La festa, con la regia di Gianfelice Imparato (Premio Candoni Arta Terme 1999 per la nuova drammaturgia, che avremo modo di rivedere al Teatro Valle l’8 e il 9 dicembre).

In questo testo, entrato a far parte del repertorio della Comédie Francaise, si muovono tre mondi in continua rotta di collisione: tre violenze servite su di un piatto d’argento, tre diverse urgenze in conflitto per descrivere il nucleo caldo di una famiglia intenta a festeggiare il rito del trentesimo anniversario di nozze. Lo stile caustico, feroce, una regia serrata, le notevoli capacità attoriali della compagnia ne fanno un vero gioiello che ha riscosso consensi entusiasti in tutta Europa. A chiudere la proposta del Valle il 10 e 11 dicembre, Il cortile (Premio Ubu miglior testo italiano 2004) con la regia di Valerio Binasco e il 12 e il 13, La busta diretto da Sframeli. E ancora l’11 dicembre la “lectio magistralis” tenuta dal duo messinese per cogliere dalla loro viva voce l’essenza del loro mondo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Haaretz” del 26/11/09

Lavori in corso per Shalit di Jack Khoury, Amos Harel e Avi Issacharoff sraele libererà il leader dei duri di Fatah, Marwan Barghouti, come parte di un accordo per ottenere il rilascio del soldato israeliano rapito, Gilad Shalit, secondo il quotidiano panarabo Al-Sharq al-Awsat che ha citato fonti palestinesi. Barghouti sta scontando cinque ergastoli in Israele, per il suo ruolo in una serie di micidiali attacchi terroristici durante la seconda Intifada.

I

Secondo le informazioni del quotidiano, Israele dovrebbe rilasciare anche Ahmad Sadat, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e Ibrahim Hamed, l’ex comandante dell’ala militare di Hamas, che è la mente dietro l’attentato terroristico del 2002 al caffè Moment a Gerusalemme. Lo scambio di prigionieri si dovrebbe svolgere dopo la festività musulmana di Eid al-Adha, che termina lunedì prossimo, sempre secondo le fonti di Al-Sharq alAwsat. Israele dovrebbe rialsciare un totale di 1.150 prigionieri palestinesi detenuti nelle proprie carceri. Un accordo – afferma il giornale – diviso in tre fasi: in primo luogo, Israele libererà 450 terroristi, dopo di che Shalit sarà trasferito in Egitto. Il governo israeliano quindi libererà il resto dei prigionieri in altri due momenti. Dopo questi Shalit sarà portato in Israele. Nel rapporto, ripreso dalla testata araba, inoltre si afferma che i mediatori egiziani stanno cercando di completare l’accordo come «un pacchetto completo», in cui sarà coinvolto anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas. L’intenzione sarebbe quella di tentare una riconciliazione tra il movimento legato ad Abbas, Fatah e Hamas. Nell’accordo sarebbe previsto l’annuncio di una tregua con Israele e l’apertura dei valichi di frontiera della Striscia di Ga-

za, dove verrebbero dislocati poliziotti dell’Autorità palestinese. Se Barghouti venisse veramente rilasciato nella scambio di prigionieri, si potrebbero avere profonde implicazioni strategiche per gli equilibri di potere interni al movimento palestinese che sta tentando di trovare un accordo di pace con Israele. Funzionari di Fatah affermano che la liberazione di Barghouti potrebbe accelerare le dimissioni del presidente palestinese Abbas, spianando la strada all’uomo forte di Fatah. In un’intervista al quotidiano italiano Corriere della Sera, mercoledì, Barghouti ha dichiarato che spera nella sua liberazione come parte della transazione Shalit, e intende correre per la presidenza nelle elezioni palestinesi. Lo stesso giorno Hamas ha annunciato di voler rinviare i negoziati su Shalit, fino a dopo la festività musulmana di Eid al-Adha, che si conclude lunedì. L’annuncio di Hamas è stato fatto a Damasco, in seguito a una riunione tra Khaled Meshaal, leader politico dell’organizzazione in esilio in Siria, e una delegazione di alti rappresentanti di Hamas a Gaza. Una decisione che non è una risposta negativa per l’accordo di compromesso proposto dal mediatore tedesco, ma ha frustrato le speranze israeliane di raggiungere un rapido accordo entro la fine di questa settimana. Alti funzionari di Hamas avevano affermato, mercoledì scorso, ad Al-Arabiya che i colloqui con Israele avevano subito una battuta d’arresto sui nomi di alcuni dei pri-

gionieri palestinesi che il gruppo islamico vorrebbe liberare, tra cui Marwan Barghouti e Ahmed Sa’adat. Israele si sarebbe detta contraria anche a mettere fuori dalle carceri i prigionieri arabi israeliani, sempre secondo Hamas. Un altro responsabile del Movimento di resistenza islamica nella Striscia di Gaza, Khalil al-Haya, mercoledì, ha accusato Israele di aver bloccato i negoziati. «Il governo dell’entità sionista non ha soddisfatto le richieste fatte per liberare Shalit», ha dichiarato. Non ha detto che l’operazione era stata silurata o avevano fallito, anche se ha sottolineato Israele è responsabile del ritardo sulla chiusura della trattativa.

L’americana Fox News aveva riportato, sempre mercoledì, che Hamas vorrebbe che Israele si impegnasse a non dare più la caccia ai prigionieri liberati. Il gabinetto di sicurezza riunito, nello stesso giorno, a Gerusalemme, ha discusso il congelamento delle costruzione negli insediamenti. È il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto ai ministri il silenzio stampa su Shalit.

L’IMMAGINE

Nulla contro i transessuali, ma almeno consideriamoli maschi Con la morte di Brenda, il transessuale implicato nella vicenda Marrazzo, le apparizioni in tv dei “diversamente”sessuati si sono moltiplicate. Non c’era bisogno di aumentare la loro presenza sulle reti, dal momento che non c’era programma in cui non apparissero. Al di là del fatto che la loro presenza era ed è funzionale alla diffusione dell’ideologia transgender, vale a dire quella corrente di pensiero il cui fine è il sovvertimento dell’ordine naturale, la cosa buffa è che i transessuali si considerano femmine. La domanda non è retorica, è sufficiente un’iniezione di ormoni o qualche etto di silicone per considerare femmina chi è nato maschio? Se gli italiani non vogliono sconfinare nel ridicolo e prestarsi al gioco di chi ha rivoluzionato il concetto di natura, considerino i transessuali per quello che sono: maschi! Maschi con il seno (finto), ma sempre maschi rimangono.

Gianni Toffali - Verona

CANDIDATURA D’ALEMA La canditatura di D’Alema non era sostenuta, a livello internazionale, da una sufficiente stima e considerazione inerente alle sue capacità diplomatiche e comunicative. La stessa politica internazionale ha richiesto da tempo personalità poliedriche, disposte a incontrare qualsiasi capo di Stato o rappresentante di etnie, senza innescare inutili polemiche, che si riflettono successivamente nel complicato scacchiere estero.

Bruno Russo

GIOCHI DI POTERE Si era parlato di pronto soccorso di Casini al Cavaliere e poi la cosa è caduta, con le ultime dichiarazioni del primo che parlano di maggioranza estremamente litigiosa. Non credo che le cose erano diverse quando i cosiddetti

“centristi”, facevano parte tutti di una famiglia. Anche le parole della stessa Rosy Bindi, che parla di successione alla guida dell’esecutivo, non trovano riscontro dal decesso di alcuna maggioranza o premierato. Sono cori di chi non ha potuto mangiare la torta, partecipare alla reale gestione del Paese, è il solito delirio dell’onnipotenza mancata.

Gennaro Napoli

Amici per la vita Quando la vede passare le scocca un bacio appassionato. È il modo in cui il leone Jupiter mostra gratitudine alla sua salvatrice: Ana Julia Torres, che 10 anni fa lo ha liberato da un circo dove veniva maltrattato. Il felino da allora vive, circondato da mille premure, a Villa Lorena, un centro di recupero di animali in difficoltà fondato da Torres a Cali, in Colombia

I MISTERI ITALIANI Il cittadino osserva con rassegnazione le vicende che girano intorno al caso Marrazzo. Indipendentemente dal giudizio che si possa esprimere sul fenomeno trans, resta chiaro che nelle more di una fine così triste e disperata, sia il suicidio che un eventuale omicidio, sono il corollario di una condizione che esprime comunque

tutta la sua indissolubile emarginazione. Chi non conta va incontro a tale destino, se ha giocato male la sua partita: tutte le considerazioni che se ne possono fare rispecchiano soprattutto la possibilità che per disperazione Brenda poteva ricattare qualcuno, e a sua volta possedere del materiale

che era prezioso, proprio per questa forma di estorsione garantita. Un modo per fare soldi insomma, che può essere utile a chiunque abbia simulato il suicidio, per camuffare il rapimento delle prove che costituiscono l’elemento prezioso del ricatto per chiunque. Storto o morto, comunque sia la

verità, il comun minimo denominatore va nella direzione di una mano più potente di quella del singolo governatore del Lazio, ultimo tassello di un disegno molto più esteso. I misteri italiani, e il modo come essi vengono messi a tacere, non cambieranno mai.

Bruna Rosso


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Edmea: un mulinello che si mangia le parole Carissimo Carlo, ho ricevuto un mucchio di cose: i medicinali, le 200 lire. Ti ringrazio di cuore. Il medico mi ha detto che il Siero Casali mi farà bene. Pare sia la cura più appropriata. Per Natale è venuta a Turi Tatiana; si è trattenuta abbastanza per avere alcuni colloqui. Mi è dispiaciuto che proprio nei giorni di Natale mi sia sentito poco bene. Ho avuto un attacco di uricemia con grandi dolori alle reni, alle viscere, alla vescica, che però è già in via di dileguarsi. Così temo cheTatiana abbia avuto un’impressione falsa della mia condizione di salute. Questo è un male doloroso solo quando si fa acuto; ciò che può avvenire di rado, purché si stia attenti a escludere dall’alimentazione ogni cibo irritante o riscaldante. Ho ricevuto la lettera di mamma con la figurina di Edmea. Sono contento che la mamma stia meglio. Bacia tanto Edmea da parte mia, con qualche leggero pizzicotto nelle parti grasse, e ringraziala delle sue espressioni molto gentili e molto ben dette. Però mi pare che ella commetta un numero di strafalcioni d’ortografia troppo grande anche per una scolara che è appena in terza. Deve essere poco attenta e sempre piena di fretta: penso che somigli a un mulinello e si mangi la metà delle parole. Antonio Gramsci a Carlo

ACCADDE OGGI

QUANDO UNA POLTRONA, ANZI DUE, FANNO L’UNANIMITÀ Con la modifica ”transitoria” del regolamento del Senato approvata con 239 voti a favore, 12 contro e 15 astenuti si è stabilito di aggiungere due nuovi segretari d’aula. Coprire un vuoto, una lesione al principio della rappresentatività democratica o riempire un pieno? Era necessario per l’organizzazione dei lavori disporre di due ulteriori segretari, oppure si è trattato semplicemente di un’ulteriore moltiplicazione di poltrone, di prebende e privilegi, di una spartizione partitocratica tra i gruppi? Il bilancio si aggraverà di una spesa di 250 mila euro l’anno per ciascun segretario. Da dove arrivano i soldi? Dentro il Senato avviene il contrario di ciò che avviene nelle case e nelle tasche degli italiani, si incrementano le uscite, ma non ci si pone il problema di come coprirle. La storia. Il regolamento del Senato stabilisce l’elezione di otto segretari ad inizio legislatura, ma prevede anche che ne possano essere aggiunti altri due nel caso in cui nell’ufficio di presidenza - composto anche da un presidente, quattro vicepresidenti e tre questori - non siano rappresentati tutti i gruppi. In tal caso se ne eleggono altri due. L’ingordigia ha fatto diventare regola e prassi la straordinarietà. Così ad inizio legislatura pur essendo 5 gruppi politici e il misto, tra i 16 componenti dell’ufficio di presidenza mancava quello dell’Italia dei Valori. Si decide quindi di dare seguito al criterio di rappresentatività e si viene convocati per votare altri due

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

27 novembre 1941 Con la resa di Gondar, l’Italia abbandona l’Africa orientale 1946 Guerra Fredda: il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru si appella a Stati Uniti e Unione Sovietica per cessare i test nucleari e iniziare il disarmo nucleare 1965 Guerra del Vietnam: il Pentagono dice al presidente statunitense Lyndon B. Johnson, che per far sì che le operazioni pianificate abbiano successo, il numero di soldati americani in Vietnam deve essere incrementato da 120.000 a 400.000 1973 Il Senato degli Stati Uniti vota 92 a 3 per la conferma di Gerald Ford come vice presidente degli Stati Uniti 1978 A San Francisco, il sindaco George Moscone e il supervisore cittadino Harvey Milk vengono assassinati dall’ex supervisore Dan White 1990 Il Partito conservatore britannico sceglie John Major come successore di Margaret Thatcher a primo ministro del Regno Unito

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

segretari d’aula. In queste occasioni, i gruppi si accordano e distribuiscono ai senatori dei foglietti, o inviano degli sms, per indicare la lista dei nomi da “votare”. In quella occasione, alcuni non hanno seguito l’indicazione, e la segretezza dell’urna ha giocato un brutto scherzetto ai dipietristi. Evidentemente nella spartizione dei gruppi, dei nomi, dei bigliettini, la senatrice Helga Thaler Ausserhofer ha fatto una sua personale campagna “acquisti”e ha superato nel segreto dell’urna il senatore Aniello Di Nardo dell’Idv. L’esperienza di una senatrice che dalla XI legislatura siede ininterrottamente in Parlamento per il Sudtiroler Volkspartei ha battuto l’inesperto Aniello Di Nardo, che ha alle spalle solo la XII legislatura, eletto con il Ccd-Udc per poi passare all’Unione democratici per l’Europa, e ora a fianco di Di Pietro. Dopo mesi di pressioni si arriva alla proposta di modifica condivisa da tutti i gruppi, con una unità di vedute straordinaria. La norma dice: «se un gruppo nell’ufficio di presidenza non è rappresentato “eleggiamo” un nuovo segretario, ma se ciò comportasse uno squilibrio a favore dell’opposizione ne dovra’ essere “eletto” un altro ancora». Una sorta di gioco dell’oca che potrebbe non avere mai fine. Un Parlamento fatto di nominati non ha avuto il coraggio di proporre l’eliminazione di questo rito barocco. Bastava scrivere che l’ufficio di presidenza del Senato viene nominato dai gruppi e in caso ratificato dai senatori.

Donatella P.

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

RAGIONANDO SUL MURO DI BERLINO La caduta del Muro di Berlino è diventato il simbolo della rovina del Comunismo. Mijaíl Gorbachov aveva da tempo avviato la sua politica riformista ed i processi di cambiamento erano quindi inevitabili: Glasnost (“trasparenza”), alla Perestrojka (“ristrutturazione”) e all’Uskorenie (“accelerazione” dello sviluppo economico). Queste tre parole d’ordine erano state lanciate durante il ventisettesimo congresso del Pcus nel febbraio del 1986. Gorbachov forse aveva intuito che dal lasciare solo il paese comunista più ricco, la Germania dell’est, che poco amava il nuovo corso moscovita, poteva trarre un enorme vantaggio economico. Insomma poteva trasformare un problema in un’opportunità e quindi vendere letteralmente la Germania dell’Est a quella dell’Ovest. Il che poi avvenne e per una cifra talmente importante, che ufficialmente oggi non è ancora nota. Leggendo di recente una tesi di laurea sul comportamento dei quotidiani internazionali in quelle settimane, è incredibile quanto tutti si sentivano sicuri nell’affermare previsioni riguardo i tempi. E si parlava comunque di anni. Poi c’era il problema del come: si temeva comunque un bagno di sangue. Invece accadde tutto improvvisamente e senza vittime. Anzi fu una grande festa. Il merito? In quanto allo spirito “pacifista” determinato e ostinato della protesta, il merito è certamente della Chiesa Evangelica, diventata unico rifugio della contestazione al regime, con le manifestazioni dopo la preghiera per la Pace del lunedi, che arrivarono a superare i 300.000 partecipanti a Lipsia. In quanto al precipitare degli avvenimenti è oramai certo che fu un equivoco. Il portavoce del governo della Rtd ministro della Propaganda, Günter Schabowski, che non aveva partecipato alla formazione del provvedimento relativo al nuovo “regolamento di viaggio”, dopo la lettura rispose al nostro giornalista Riccardo Ehrman, corrispondente dell’agenzia di stampa Ansa a Berlino, che lo incalzava sulla decorrenza. Erano le 18.53 del 9 novembre1989. Rispose «Credo anche subito». In realtà la decorrenza era prevista con il cambio di guardia e comunque previa richiesta scritta anche se priva di motivazione del viaggio. Le televisioni occidentali, a cui i berlinesi erano costantemente sintonizzati, fecero il resto. Tra l’una e le due ormai fiumi di donne e uomini, anche in pigiama, passavano la frontiera in un clima di festa che mai si poteva immaginare fino a poche ore prima. Willy Branti, qualche giorno dopo, disse a Ehrman, abbracciandolo prima di un’intervista: «Kleine Frage, Enorme Wirkung» («piccola domanda, enorme effetto»). Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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