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Non ci sono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni Friedrich Nietzsche

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 5 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Presentato a Roma il Rapporto 2009: la fotografia di una società che sa ancora difendersi ma non ha più strategie per il domani

Attenta Italia, stai finendo

Avviso di garanzia del Censis al Paese: resistiamo con le antiche risorse (famiglie, piccole imprese,banche). Ma replicare non basta più. Il futuro chiede un nuovo “modello italiano” LA DENUNCIA DEL PRESIDENTE

di Riccardo Paradisi

E Napolitano: «La politica pensa soltanto alle liti» ROMA. Probabilmente il Censis, proprio nel giorno della diffusione del suo rapporto, non avrebbe sperato di trovare nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una solida spalla che rafforzasse il messaggio circolato ieri. E invece così è stato: nella giornata di ieri il Colle ha voluto sottolineare come la troppa attenzione ai comportamenti litigiosi che caratterizzano la politica, non faccia cogliere all’Italia i valori positivi che emergono dalla società civile. È la considerazione che il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale il mondo del terzo settore, rivolge ai «mezzi di comunicazione» e a chi «lavora nelle istituzioni».

ROMA. “Società replicante”, ecco la parola chiave con cui il Censis scrive la didascalia alla foto che ritrae l’Italia 2009. Se nella riflessione dell’anno scorso il segretario generale del Censis Giuseppe De Rita (nella foto a fianco) e il presidente Giuseppe Roma avevano ritenuto di intravedere le condizioni per un’uscita dal puro adattamento, ebbene dopo un anno si deve invece prendere atto che la crisi ha rallentato questo processo. Perché è stata troppo forte, nella società italiana, la voglia di resistere al sisma finanziario e perché gli interventi del potere pubblico si sono assestati più a confortare il processo di adattamentoche a inventare una strategia d’uscita dalla logica dell’adattamento.

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di Andrea Ottieri

La sindrome Van Thieu Hillary Clinton ringrazia l’Italia: «Alleato di ferro da anni». Ma a cosa servono le truppe se quello di Karzai resta solo un governo fantoccio? di Enrico Singer consiglieri più vicini a Obama la chiamano già «la sindrome di Van Thieu». I meno giovani lo ricorderanno: Nguyen Van Thieu è stato il presidente del Vietnam del Sud tra il 1967 e il 1975, gli anni duri della guerra persa dagli americani contro i vietcong e il Nord comunista del Paese guidato dal mitico Ho Chi Min. Oggi il suo nome torna come un fantasma: il rischio è che anche quello di Hamid Karzai, a Kabul, si riveli un governo fantoccio. a pagina 14 seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

Sostiene Spatuzza «Il boss Graviano mi disse: grazie a quello di Canale 5 abbiamo in mano tutto. Non come quando, nell’88 ci eravamo affidati a quei quattro “crasti”dei socialisti» La reazione del Pdl: «La mafia attacca il governo che più l’ha contrastata». Fini: «Senza riscontri, solo chiacchiere» di Osvaldo Baldacci

La surge in Afghanistan spaventa Cina e Russia

I

La deposizione-evento del pentito che accusa Berlusconi

TORINO. «Ci hanno messo in mano il Paese». È la mafia a parlare, secondo le dichiarazioni di uno che ne ha fatto parte. «Loro» sarebbero i membri del “clan” di Berlusconi, che con ben altri “clan” sarebbe stato in affari, stando al pentito. Spatuzza ha riferito che in un incontro avvenuto in un bar in via Veneto a Roma, pochi giorni prima di un fallito attentato nella Capitale, il suo boss Graviano, parlando dei politici con cui avrebbe fatto accordi in relazione alle stragi, gli avrebbe fatto il nome di «Berlusconi, quello di Canale 5, e di un compaesano, Dell’Utri». a pagina 8

• ANNO XIV •

NUMERO

241 •

GLI ANTAGONISTI IN PIAZZA

FICTION DI MASSA

Oggi il “No B-day”: Amanda e Dell’Utri, la sinistra che vuole una nazione continuare a perdere stregata dai processi di Enrico Cisnetto

di Giuseppe Baiocchi

e è vero, come è vero, che Berlusconi vuole le elezioni anticipate, abbinando le politiche alle regionali, il più grande aiuto che abbia potuto ricevere è rappresentato dalla manifestazione a favore della caduta del governo in programma per oggi a cura del fronte che ha fatto dell’antiberlusconismo la sua ragione di vita. Niente di meglio del “No B day” può offrire il destro al Cavaliere per apparire vittima di una persecuzione e far immaginare il Grande Complotto. a pagina 6

a spasmodica attesa con cui dal sistema mediatico è stata vissuta e diffusa la deposizione del “pentito” Spatuzza al processo d’appello contro il senatore Marcello Dell’Utri, e le testimonianze della Knox e di Sollecito per il delitto della povera Meredith, tradisce una logica consueta da molti anni, per la quale si cerca nelle aule giudiziarie e nell’evolversi dei dibattimenti la chiave decisiva che può influenzare, condizionare e modificare la politica e il potere nel nostro Paese. a pagina 11

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Rapporto Censis. Replichiamo gli stessi schemi da 30 anni. Ma i pilastri del Risorgimento, del riformismo e dell’individualismo si sono sbriciolati

L’Italia è ferma. Agli anni ’70

Lo storico Giuseppe Berta: «Si stanno svuotando le rappresentanze» Il sociologo Luciano Gallino «Dal ’92 non c’è più una classe dirigente» di Riccardo Paradisi ocietà replicante”, ecco la parola chiave con cui il Censis scrive la didascalia alla foto che ritrae l’Italia 2009. Se nella riflessione dell’anno scorso il segretario generale del Censis Giuseppe De Rita e il presidente Giuseppe Roma avevano ritenuto di intravedere le condizioni per un’uscita dal puro adattamento ebbene dopo un anno si deve invece prendere atto che la crisi ha rallentato questo processo. Perché è stata troppo forte, nella società italiana, la voglia di resistere al sisma finanziario e perché gli interventi del potere pubblico si sono assestati più a confortare il processo di adattamento – la difesa delle banche, dell’occupazione, del potere d’acquisto e dei consumi – che a inventare una strategia d’uscita dalla logica dell’adattamento.

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Insomma, gli italiani hanno resistito bene alla crisi, hanno risparmiato di più – ridotto in generale il consumo e in particolare l’uso di automobili – e hanno usufruito delle risorse offerte dalla famiglia lunga, di un welfare che li ha tutelati: 500 miliardi di euro sono andati a pensioni, sanità e occupazione pubblica. Insomma una resistenza attiva che trova il 72 per cento degli italiani in condizioni non peggiori dello scorso anno e che vede il resto di loro comunque arrangiarsi con espedienti rodati come i lavoretti, l’attingimento al prestito, il ricorso al nero e all’evasione. Secondo la relazione annuale della Guardia di Finanza l’evasione di Iva è stata quest’anno superiore al 36 per cento. Un panorama non apocalittico tutto sommato visti i chiari di luna, se non fosse per il punto critico e dolente della disoccupazione giovanile, che in Italia aumenta. Chi ha perso il lavoro sono infatti soprattutto i giovani sotGIUSEPPE DE RITA «Abbiamo resistito alla crisi perché siamo un paese di economia reale, a vocazione localistica, dove funzionano famiglia e welfare. Ma questo modello non basta più»

to i 34 anni, i lavoratori autonomi e le persone impiegate nel paralavoro, occasionale o di collaborazione. Diminuisce inoltre il lavoro qualificato e aumenta quello curtense – così lo definisce Giuseppe Roma – di aiuto e assistenza. D’altra parte continua l’attività manifatturiera e tiene bene la media impresa che riesce a cavalcare l’onda della globalizzazione. Ne risulta da questa lettura un paese spaccato tra immobilismo e flessibilità con significativi segnali di adattamento dell’impresa. Un Paese dove covano sottotraccia però due grandi conflitti inespressi: il Mezzogiorno e i giovani espulsi dal mondo del lavoro. Una società replicante la chiama Giuseppe de Rita perché prigioniera del presente, che reitera volentieri lo stesso modello. Abbiamo resistito alla crisi – dice De Rita – per i motivi che continuiamo a ripeterci, perché siamo un paese di economia reale, manifatturiera, incentrato sulla piccola impresa, a vocazione localistica, dove famiglia e welfare state svolgono un decisivo ruolo di ammortizzatori sociali.

Ma queste appunto sono le costanti del modello italiano, uno schema immutato dagli anni Settanta. Di economia sommersa il Censis parlava nel ’71, nel ’72‘73 si parlava di localismo. Un modello vecchio dunque ma funzionale e capace di resistenza e di lunga durata. È con questo modello che l’italia ha resistito

Napolitano: «Diamo troppa importanza ai litigi della politica» di Andrea Ottieri

ROMA. La troppa attenzione ai comportamenti litigiosi che caratterizzano la politica non fa cogliere all’Italia i valori positivi che emergono dalla società civile. È la considerazione che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale il mondo del terzo settore, rivolge ai «mezzi di comunicazione» e a chi «lavora nelle istituzioni». Per il Capo dello Stato «i mezzi di comunicazione e noi stessi che lavoriamo nelle istituzioni siamo spesso troppo assorbiti dai comportamenti litigiosi, o comunque poco cooperativi, che caratterizzano la nostra società politica, e non guardiamo con sufficiente attenzione alle espressioni della nostra società civile, in particolare a quelle forme di aggregazione e associazione volontarie che sono capaci di favorire la coesione sociale. Dovrebbe costituire, invece, ragione di orgoglio e di conforto per il nostro paese la loro capacità di produrre ricchezza sia materiale sia morale, il loro vero e proprio potenziale di innovazione». Napolitano aveva colto l’occasione «per rivolgere un saluto all’intero mondo del volontariato, a chi contribuisce a organizzarlo e a dotarlo di risorse». «Questa realtà - secondo il presidente - rappresenta per il nostro Paese una risorsa fondamentale sotto il profilo economico, per le attività e i servizi offerti, che svolgono un indispensabile compito di integrazione e talvolta di supplenza dell’azione pubblica. Rappresenta pure una fondamentale risorsa sotto il profilo dell’etica civile e anche oltre. Il volontariato produce, certo, beni materiali di aiuto e di sostegno al disagio, alla malattia, alla disabilità, alla dipendenza». «Ma, proprio per la capacità di superare i confini di una solidarietà spontanea, familiare e amicale - ha concluso Napolitano - il volontariato produce pure beni immateriali, comportamenti virtuosi, esempi e modelli degni di essere imitati. L’opera dei volontari giova a chi la riceve. Aiuta a fronteggiare situazioni difficili, traumi di diversa natura, aiuta a uscire da condizioni di isolamento. Offre strumenti di crescita, sostegni che consentono di fare meglio, di essere migliori studenti, migliori lavoratori, migliori cittadini».

alle crisi degli anni Novanta, ha retto al sisma successivo al crash del 2001, ha resistito al declinismo e all’ultima crisi finanziaria. Abbiamo resistito bene perché siamo sempre gli stessi, replicanti di un sistema Paese protetto da ammortizzatori che non hanno avuto gli onori dell’evento sensazionale, di cui il Paese sembra affamato, ma che anzi s’è tirato addosso accuse di familismo, di piccineria, di nanismo industriale. Il problema è se questo modello è ancora proponibile, se non sia arrivato alla fine, se sia capace oggi di produrre futuro. Se nel 2010 si acuisce la crisi replicare basterà? Non basterà è la risposta del Censis anche se la nostra cultura politica ha concentrato le forze nel secondare questo modello. Cercando di sdrammatizzare la crisi intervenendo con poche operazioni come bond e cassa integrazione, lasciando il modello inalterato, evitando di immettervi più mercato e liberalizzazioni. Un panorama statico insomma anche se poi qualcosa di nuovo sta accadendo. È in corso per esempio un processo di ristrutturazione del terziario che non c’era mai stato. Un settore dove sono stati scaricati tutti gli scivoli occupazionali. A reagire meglio invece – secondo Il Censis – è il mondo industriale più allenato al corpo a corpo con le crisi e più capace di adattarsi alle onde della globalizzazione, curando relazioni, investendo all’estero, applicando strategie di delocalizzazione. Per questo la leadership sta passando nelle mani delle imprese, mentre la politica non segue più il passo del mondo, così che il sistema viene portato dove lo conducono i capitani d’impresa. Il che significa anche svuotamento delle rappresentanze tradizionali: dai sindacati, ai partiti, alle associazioni produttive. Del resto «Per 15-20 anni non si è più fatta vita collettiva - dice de Rita – ma c’è stato solo il primato della soggettività», la cultura della libertà personale, di un individualismo un po’ all’amatriciana che oggi sembra mostrare la corda.

Ma cosa vuol dire fare soggetto collettivo? «Significa – spiega De Rita – che dove viviamo dobbiamo tornare a fare comunità, nel piccolo Comune, nel quartiere, nel condominio. E, sul piano generale, bisogna occuparsi degli interessi collettivi: ricominciare a credere nel sindacato, nel partito, nelle associazioni. Insomma, occorre ricominciare a vivere collettivamente».


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Ma tanti anni di attesa di riforme da parte dello Stato, tanti anni di soggettività e fai-da-te hanno in qualche modo sciolto la fiducia degli italiani nella dimensione collettiva. Il risultato, secondo il segretario generale del Censis è che «siamo senza politica e con singoli soggetti potenti che agiscono in modo diretto». Ma senza politica vera, con una politica che si riduce all’annuncio e alla guerra mediatica c’è il prevalere dell’opinione sul fatto: «Siamo prigionieri dell’opinione, che si nutre del sovraffollamento mediatico. Spesso è l’opinione che crea il fatto e si discute sulle opinioni e non sulle cose. L’opinionismo spesso sconfina nel retroscenismo e nel gossip». Una società replicante dunque ma preda di bolle emotive che la tengono in costante fibrillazione e che le fno perdere la visione lucida della realtà effettuale. Per cui alla fine non esistono più fatti ma solo interpretazioni. Tutto ciò significa l’addio alla politica, tutto diventa retroscena: «Il Paese e il governo si reggono sul sondaggio d’opinione. Ma il futuro si costruisce ha concluso - solo se sfuggiamo l’opinionismo e la rincorsa degli eventi».

Una lettura quella di De Rita che convince solo in alcuni passaggi Giuseppe Berta, storico del sindacato e docente alla Bocconi di Milano: «Mi convince soprattutto l’idea della società replicante che vive da molti mesi in apnea lo stress dell’evento. Ha ragione il Censis

LUCIANO GALLINO

ressi in presa diretta e senza più mediazioni: «Lo schema del Censis ci dice che la politica ha uno scarto rispetto alla realtà e che questo bipolarismo muscolare, con l’esaurirsi delle grandi narrazioni risorgimentali, riformiste e dell’individualismo, ha avuto l’effetto di depotenziare il lavoro di mediazione delle rappresentanze. Ma l’assenza più forte è quello della politica, un silenzio coperto dalla scena mediatica».

«In nessun altro Paese si osserva uno squilibrio così evidente tra il benessere privato e la povertà pubblica delle infrastrutture, dei beni culturali, dei trasporti urbani, dell’università»

anche a dire che questa è la prima crisi che investe il settore terziario. Anche se in forma meno visibile dell’industria il terziario è uno dei grandi teatri della crisi». A Berta però non convince l’eccesso di ottimismo Censis sulle capacità reattive dell’industria: «Se questa crisi dura a lungo siamo sicuri della tenuta del nostro sistema di impresa? La parte che ha guardato più all’export è quella più esposta alla crisi. Peraltro la corda della cassa integrazione non potrà essere tirata all’infinito. Se noi prevediamo un 2010 che non si discosta molto dai modelli attuali l’industria potrebbe reggere, ma forse bisognerebbe attendersi qualcosa di peggio. Avrei messo insomma un enfasi superiore sui rischi che corre l’impresa, senza dare troppo per scontata la loro capacità di reazione». Per Berta però è vero che siamo allo svuotamento delle rappresentanze e che si è passati alla lotta di difesa dei propri inte-

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In alto un’immagine dell’austerity italiana anni Settanta. A fianco il presidente Giorgio Napolitano

Un vuoto quello politico dentro il quale il sociologo Luciano Gallino legge l’usurarsi del modello italiano, imputando al Censis una sottovalutazione di questo dato. «Siamo passati dai partiti forti o troppo forti a una situazione di assenza politica. Il modello italiano si è retto fino agli anni Novanta sulle decisioni di alcuni grandi partiti. Niente ha preso il loro posto, nessun partito che avesse quelle radici e quelle storie. Pd e GIUSEPPE BERTA «Siamo sicuri della tenuta dell’ impresa? La parte che ha guardato all’export è quella più esposta. E la corda della cassa integrazione non potrà essere tirata all’infinito»

Pdl sono dei tentativi di partito: il risultato è un’assenza generalizzata di politiche pubbliche. Basti dire che uno dei motivi per cui abbiamo sentito meno la crisi è che abbiamo un nero di oltre 300 miliardi di euro, un movimento economico totalmente fuori controllo. E del resto in nessun altro paese si osserva uno squilibrio così preoccupante tra un più che ragionevole benessere privato e la povertà pubblica delle infrastrutture, dei beni culturali, dei trasporti urbani, della ricerca, dell’università. Non è questione di destra o di sinistra è che la classe politica ha nel suo complesso una professionalità modesta». Ci troviamo in un paese di dilettanti insomma: «I documenti di analisi della crisi e delle diseguaglianze che escono dai centri di ricerca di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti sono di una qualità straordinaria, quasi ogni settimana sfornano rapporti, di un livello notevolissimo. In Italia di rapporti come questi ne ho visti un paio». Un Paese insomma guidato da classi dirigenti incolte, incapaci di una visione del futuro. Ma siamo anche, insiste Gallino, un paese largamente al di sotto della legge. «Abbiamo tre regioni in mano ai delinquenti, un incredibile evasione fiscale, un’abusivismo edilizio dilagante, un’assenza cronica di interventi di pianificazione territoriale, ora abbiamo anche l’orrore del piano casa. Il nostro Paese sta diventando il più brutto d’Europa malgrado tutta la bellezza che abbiamo ereditato». E che non si replica da sola.


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Il rapporto Censis, dato per dato, con la denuncia più allarmante: l’informazione altera il rapporto tra potere e società

Prigionieri dei media

Scompare il confine tra opinioni e fatti: il risultato è una realtà completamente drogata nella quale naufraga la classe dirigente di Nicola Accardo

ROMA. L’Italia immobile ma che resiste, sospesa in una bolla emotiva, fatta di opinioni che si susseguono e che perdono valore, deve «imparare a guardare al presente per guardare al futuro». Nel 43esimo rapporto del Censis i dati sul presente e sul passato aprono una finestra sull’avvenire più che nelle altre edizioni. Perché c’è una corda che si tira e prima o poi si rompe: le famiglie che pagano per i figli grandi e grossi, un’intera generazione che tarda a lasciare spazio ai giovani, criteri di meritocrazia latitanti e un sistema di istruzione che i giovani giudicano inutile. Poi c’è la “pancia” del settore terziario che non può continuare a ingrassare, un welfare state che non è aiutato da un popolo individualista. Ma non per molto, a detta del Censis, perché l’interesse collettivo deve riemergere. FAMIGLIE SALVAGENTE La famiglia è il salvagente del Paese. Ma secondo il Censis la sua resistenza è “stressata” da responsabilità che non potrà reggere a lungo. In piena crisi il 71,5% delle famiglie dichiara che il reddito menisile è sufficiente a coprire le spese. La propensione al risparmio è aumentata, ora è pari al 15,2%, la crisi finanziaria non l’ha intaccata perché solo il 6,2% delle famiglie italiane possiede titoli azionari. Poi c’è l’unico effetto benefico della crisi, la riduzione degli sprechi: il 40% dice di aver cambiato abitudini di consumo, il 35% utilizza di meno la propria automobile. A fronte di questi sacrifici, l’aiuto ai giovani che si affacciano alla vita adulta, la «resistenza attiva» secondo la definizione del direttore del Censis Giuseppe Roma, che ha aiutato giovani e precari ad «arrangiarsi». Il familismo come chiave del modello italiano che non può funzionare all’infinito: rispecchia la capacità a reagire, la solidarietà localistica, integra il welfare e gli ammortizzatori sociali.

DISOCCUPAZIONE: L’I TALIA STA NEL MEZZO Meglio di Spagna (-7,2%) e Regno Unito (-2%), ma peggio di Francia (-0,3%) e Germania (+0,5%): il volume occupazionale in Italia è diminuito dell’1,6% tra il 2008 e il 2009. Si sono persi 378mila posti di lavoro. A far-

ne le spese i lavoratori autonomi (-5,8%) e il cosiddetto paralavoro - collaborazioni e formule occupazionali a metà strada tra lavoro dipendente autonomo - che ha perso il 4,3%. Il dato del lavoro protetto giustifica le dichiarazioni del ministro Tremonti che esorta a tornare al «posto fisso»: il lavoro tradizionale, dipendente e a tempo indeterminato è aumentato dello 0,4% in piena crisi. Nel primo semestre 2009 le persone che hanno trovato lavoro sono diminuite però del 29% rispetto a un anno prima. «Il lavoro ha tenuto - riassume Roma - ma c’è un problema strutturale:

Ma gli italiani preferiscono la tv Il dominio della televisione tradizionale tra le fonti a cui si abbeverano gli italiani appare netto e incontrastato. Non solo perché il 59,1 per cento degli italiani preferisce affidarsi ad essa, con punte che raggiungono il 63,1 per cento tra i soggetti meno istruiti e il 67,7 per cento tra gli anziani; quanto per il distacco rispetto agli altri media, specialmente i quotidiani acquistati in edicola, che si attestano al 30,5 per cento e conquistano la fiducia solo del 39,5 per cento delle persone più acculturate, cioè di quelli che risultano, in genere, i più assidui lettori dei giornali. La radio, mezzo ad altissima diffusione, si accredita appena con il 9,3 per cento complessivo, le emittenti Tv “all news” si collocano al 10,2 per cento, mentre anche i portali Internet non superano il 7 per cento (e solo tra i giovani raggiungono il 16,5 per cento). Anche le persone giovani e istruite non mostrano dunque di accedere a un alto grado di pluralismo delle fonti, almeno nel campo della comunicazione politica.

più del 50% del calo dell’occupazione riguarda giovani sotto i 34 anni». Tra i settori di attività economica uno solo è cresciuto in modo rilevante, i servizi sociali e di aiuto alle persone, in linea con la solidarietà italiana sbandierata in occasione del terremoto a L’Aquila.

IL «VENTRE MOLLE» DEL TERZIARIO

«Il terziario è stato una sorta di ammortizzatore sociale: ha assorbito figure professionali di ogni tipo. Lo abbiamo gonfiato troppo e ora non ce la facciamo più». Questa la sentenza del presidente del Censis Giuseppe De Rita. E’ anche la previsione economica più pericolosa, perché banche e assicurazioni hanno iniziato a ristrutturare tagliando posti di lavoro, il trend continuerà in tutto il settore e saremo di fronte a un problema «mai affrontato in 50 anni», sottolinea De Rita. Si affermano quindi meccanismi di

selezione e razionalizzazione, con una «concentrazione qualitativa della domanda». Il manifatturiero soffre già più di tutti, nei primi otto mesi dell’anno le esportazioni si sono ridotte del 24%, e nella bilancia commerciale registrano saldi negativi l’alimentare, il farmaceutico, la produzione dei mezzi di trasporto, i prodotti chimici e l’elettronica. Secondo il rapporto la crisi ha “sparigliato” le carte. L’altra metà dei settori, infatti, cresce: dalla meccanica ai mobili, dal tessile ai prodotti in metallo, dalle apparecchiature elettriche alla gomma. Ogni mil-

le imprese del terziario, questo il dato più allarmante, dieci chiudono, senza venire rimpiazzate.

L’INDIVIDUALISMO

IN CALO

Si è persa la cultura risorgimentale («roba dei miei tempi, negli anni ’50», ricorda nostalgico De Rita), poi quella riformista, ma ora anche quella dell’interesse privato che supera quello collettivo. L’individualismo che tutto divora è destinato a scomparire dal campo della politica e dell’economia, profetizza il Censis, ci sarebbe una nuova forma di decisionismo collettivo già praticata dagli enti istituzionali: «una modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che allude a un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile immediate», recita il rapporto. L’esempio è la reazione dei Comuni alla crisi economica, che hanno coordinato la partecipa-

zione di altri enti come Provincia (58,3% dei casi), Camera di Commercio (50%) e sindacati (54%). La collaborazione con lo Stato, incancrenito da «bolle emotive» e discussioni sulle sole riforme di potere, si limita al solo 4,2%.

TASSE

ED EVASIONE FISCALE

275 miliardi di euro. Questa la cifra che l’economia sommersa italiana potrebbe raggiungere a causa della crisi. Si tratta del 19% del Pil. Da una parte è un altro fattore di resistenza alla crisi stessa, dall’altra è l’effetto di una ribellione alle tasse tutta

italiana. Se dei 27 l’Italia è il sesto paese dell’Unione Europea per pressione fiscale sui cittadini (la precedono Austria, Francia, Belgio, e il duo scandinavo Svezia e Danimarca in testa), il welfare state è “sicuramente” meno efficiente. Interessa poco agli italiani stessi: il 63% pensa che se si riducono le tasse si

Il mondo dei media in trasformazione Nell’era di Internet e dei social netwoek, nel mondo dei media le maggiori sofferenze emergono nel settore della carta stampata e, in genere, dai settori dell’informazione più tradizionale. La stampa quotidiana vede crescere i sui lettori dal 60,6 per cento del 2001 al 64,2 per cento del 2009. Ma oggi abbiamo a che fare con un pubblico complessivo che legge molte cose diverse - dalla free press (35,7 per cento) alle testate on line (17,7 per cento) - e i lettori dei quotidiani acquistati in edicola sono scesi oggi al 54,8 per cento. Anche la diffusione dei periodici è nettamente in crisi. Si può ricordare che nel 2002 il 44,3 per cento degli italiani sfogliava un settimanale almeno una volta ogni sette giorni (contro il 26,1 per cento di oggi) e il 24 per cento faceva lo stesso con un mensile (oggi il 18,6 per cento). Più incoraggianti i dati sulla lettura dei libri, che passano dal 54 per cento al 56,5 per cento, specie grazie ai giovani, il 75,4 per cento dei quali ha letto almeno un libro non scolastico nell’ultimo anno.

avranno maggiori risorse personali/familiari, solo il 37% teme che riducendo le tasse verranno ridotti i servizi pubblici.

«FIGLIO MIO, LASCIA QUESTO PAESE » La provocatoria lettera al figlio del direttore della Luiss


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Il più celebre salotto mediatico del Paese: gli studi della trasmissione televisiva “Porta a Porta”. In basso, il semiologo Ugo Volli

Una macedonia avvelenata

Ugo Volli: «Il nostro è ormai un Paese dove nessuno comunica più con nessuno» di Francesco Pacifico

ROMA. Secondo Giuseppe De Rita le radici dell’immobilismo italiano vanno ricercate nel «prevalere dell’opinione sul fatto». In «un’opinione che crea il fatto» e ci porta a discutere «sulle opinioni e non sulle cose». Il semiologo Ugo Volli, ordinario di filosofia della comunicazione all’università di Torino, definisce queste parole «una lucida sintesi di quello che avviene». Una tendenza che ci spinge «a riconoscere Fabrizio Corona leader morale dell’informazione del nostro Paese». Professore, Fabrizio Corona? Corona è l’ultimo grado di una distorsione iniziata tempo addietro. Quello che ha portato il giornalismo a essere forma esplicita di propaganda e mobilitazione politica. Che arriva a identificarsi con l’opinione pubblica. E i fatti divisi dalle opinioni? Questo processo è iniziato negli anni Settanta con Repubblica, che ha dato il là a tanti giornali partito senza partito. È andata avanti per vent’anni poi è scattata la degenerazione. Ce la descriva. Nella seconda fase di questo processo siamo passati all’organizzazione dell’opinione: quindi sempre più manifestazioni e appelli. Ma più pericolosa ancora è la terza fase: quella che De Rita definisce del gossip e che io chiamo dei ricatti. Eccoci a Corona. Si parte con i mezzi d’informazione che imparano a dosare le notizie, a darle e non darle per colpire l’avversario politico. E degenerazione dopo degenerazione, si è arrivati a raccogliere informazioni sulla vita privata. Il leitmotiv del 2009. Ma non l’ha fatto soltanto Repubblica.

Pier Luigi Celli trova riscontro nei dati del Censis. Lo scetticismo dilaga tra i neodiplomati che immaginano un futuro in Italia. Il 92,6% ritiene che anche per chi ha un ti-

Che, capendo la proliferazione di media, è stata bravissima a mixare lo scontro tra Fini e Berlusconi e il gossip in stile Novella 3000 o Dagospia. Le copie non l’hanno premiata, fatto sta che, così facendo, si riconosce che il leader morale del giornalismo italiano sia Fabrizio Corona. Ma quando si butta la cacca nel ventilatore, i risultati sono i casi del direttore di Avvenire o del governatore del Lazio. È l’ultima arma politica? Politica? Mi si può spiegare cosa c’è di politico nelle signorine di Palazzo Grazioli, nelle vicende di Boffo o nel racconto del caso Marrazzo non partendo dall’estorsione ma diffondendo l’oggetto stesso del ricatto? Dimentica la Tv. Io mi sto soffermando soltanto sul giornalismo. E in questo ambito non faccio fatica a dire che il soggetto pertinente è Michele Santoro. Ha inventato la piazza virtuale, subito seguito da Gad Lerner e da molti altri, che ne hanno approfittato per allestire in televisione una sorta di tribunale. Però siamo ancora nelle prime due fasi della degenerazione: da un lato mostrare la realtà come si vorrebbe che fosse, dall’altro convincere la gente a come votare. Il problema che è poi intervenuta la tecnologia. Aumenta la potenza di tiro. Prenda il No B.Day di oggi: è stato convocata su Facebook. Ha come precedenti i messaggi su Twitter a Teheran o gli sms di Madrid dopo le bombe. Tutto questo modifica il gioco politico,

tolo di studio elevato il lavoro sia oggi sottopagato, mentre il 91,6% pensa che per trovare un lavoro sia agevolato chi può avvalersi di una rete di conoscenze. Lo scetticismo

impone ai media una maggiore concretezza, una migliore capacità organizzativa. Dirò di più, essendo i partiti politici ormai privi di apparato, è facile che più spesso il contatto capillare sia delegato ai mezzi d’informazione. È la blogattizzazione della realtà. C’è questo, c’è la volontà di diventare protagonista politico, ma anche la mercatizzazione dei veicoli informativi: se uno va a guardare, ogni quotidiano, ogni magazine, ogni sito si è messo a commercializzare in proprio viaggi, vestiti o gadget elettronici. Non ci sono più confini. La rottura del diaframma tra opinione e informazione sta travolgendo in primo luogo il giornalismo. Perché in questo clima il problema non è tanto guadagnare copie o spettatori, ma favori su altri tavoli. Gli ultimi vent’anni sono caratterizzati dallo scontro tra due gruppi finanziari ma anche editoriali. È troppo tenero con i fruitori. È chiaro che la gente abbia delle opinioni prima di iniziare a leggere un giornale o a vedere un tg. Ma alla fine interessano di più la partita della sera prima o sapere cosa c’è al cinema che la politica. Qui si è dimenticato che non ci può essere democrazia senza un’informazione sufficiente. C’è un boom di informazione. Non confondiamo informazione con comunicazione. Alla base del successo dei blog c’è che si può rispondere, non ricevere l’opinione, a chi dà una certa informazione. L’importante quindi è

Se ne uscirà soltanto con una nuova classe dirigente che sentirà la necessità di comunicare con i cittadini

diventa sconforto reale se si guarda ai laureati: il 75% pensa che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro con la propria preparazione. Poi c’è l’assenza di progresso:

avere la propria firma su internet. Facebook è questo. Di più, si avvera la profezia di Warhol sul quarto d’ora di celebrità concesso a ognuno. Conclude Giuseppe De Rita che «il futuro si costruisce solo se sfuggiamo l’opinionismo e la rincorsa degli eventi». I giornali sono nati per informare sui convogli in partenza o in direzione per un determinato porto. Fino all’Ottocento è stato vietato in Inghilterra di riportare le notizie delle Camera. La verità è che soltanto una piccola parte dei cittadini s’occupa di politica. Quindi le cose non cambieranno fino a quando non cambierà il modo di valuterà l’affidabilità del proprio mezzo comunicazione. Soluzioni? Si uscirà da questa situazione o fondando un giornale diverso dagli altri oppure con una nuova classe dirigente del Paese. La quale avrà bisogno di una vera informazione, perché è necessaria per il buon funzionamento del Paese. Altrimenti tutte le decisioni importanti saranno prese da un ristretto comitato di potere – più di quando accade oggi – senza la necessità di comunicarlo ai cittadini. È uno scenario prenovecentesco. Io vedo, anche se più in Europa che in Italia, un deficit progressivo di democrazia. Da noi ci sono un governo che non riconosce l’opposizione – e viceversa – o una Confindustria che non ha la stessa autorevolezza di quella che guidava l’avvocato Agnelli. La mia impressione è che ci sia invece una macedonia di Paese, in cui nessuno comunica con gli altri, dove manca ogni minima assunzione di responsabilità.

l’81% dei giovani tra 18 e 35 anni pensa che in Italia sia quasi impossibile essere innovativi nella propria attività di lavoro e/o studio. Non solo chi studia lettere e scienze

della comunicazione ha il diritto di scoraggiarsi: il primo stipendio degli italiani laureati in economia e ingegneria è del 20% inferiore di quello medio europeo.


diario

pagina 6 • 5 dicembre 2009

Autolesionismo. I bersagli dei “grandi complotti” riscuotono da sempre l’appoggio dell’opinione pubblica

NoBday, l’autogol della sinistra Per favorire Berlusconi, niente è meglio che farlo sembrare una vittima di Enrico Cisnetto e è vero, come è vero, che Berlusconi vuole le elezioni anticipate, abbinando le politiche alle regionali, il più grande aiuto che abbia potuto ricevere nel perseguire questo obiettivo è rappresentato dalla manifestazione a favore della caduta del governo in programma per oggi a cura del fronte che ha fatto dell’antiberlusconismo la sua ragione di vita. Niente di meglio del “No Berlusconi day” può offrire il destro al Cavaliere per apparire vittima di una persecuzione e far immaginare che un Grande Complotto - cioè un filo rosso che lega la sinistra, i giustizialisti di ogni risma fino ad arrivare alla signora Lario e a Fini - lo voglia non solo sfrattare da palazzo Chigi ma farlo fuori politicamente, giudiziariamente e patrimonialmente. E le vittime dei complotti, si sa, riscuotono sempre la simpatia del grande pubblico, e nessuno meglio del Cavaliere è capace di recitare quella parte e cavarci tutti i vantaggi del caso. Quantomeno, finora ne ha dato ampia prova. Ma proprio per questo, è davvero incredibile che i suoi avversari - che a questo punto viene da definire presunti continuino a regalargli questi assist: o sono in malafede, nel senso che sono stati al gioco di quello che loro stessi definiscono il Grande Corruttore, oppure sono (politicamente) imbecilli. Tertium non datur.

S

A meno che non si chiamino Di Pietro e soci, cioè gente senza alcuna consistenza politica, che allora un loro preciso tornaconto a praticare l’antiberlusconismo l’hanno avuto e continuano ad averlo, quello di lucrare un posizionamento politico che altrimenti non avrebbero. No, io mi riferisco alle sinistre degne di questa definizione, tanto quella radicale quanto quella riformista, che hanno finito con l’annullare la loro identità - e conseguentemente perdere voti per assumere il loro di antagonisti di Berlusconi. Riuscendo nel capolavoro non solo di regalare la vittoria elettorale al centrodestra ma di creare un bipolarismo malato, basato esclusivamente sulla contrapposizione alla figura di Berlusconi, di fatto padrone di uno schieramento e unico collante che tiene insieme l’altro.

Naturalmente qualche eccezione c’è, per fortuna. Mi riferisco, per esempio, a Enrico Letta, che in un’intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa ha spiegato che il suo Pd non deve essere antiberlusconiano, quantomeno nell’accezione che finora si è data a questo modo di fare politica. Così come mi riferisco alle valutazioni leggibili sul Riformista espresse da Marco Follini, da Chicco Testa, da Peppino Caldarola. Peccato, però, che il buon senso condensato nell’affermazione di Letta sul fatto che è legittimo che Berlusconi si difenda «nel processo e dal processo» abbiano subito su-

iniziative altrui, per cui, di fatto, non se n’è politicamente dissociato. Anche perché sa che molti dei suoi saranno presenti, quantomeno in spirito. E non vuole fratture.

Lo stesso motivo per cui non ha chiarito in sede congressuale, neppure dopo essere stato eletto segretario, il rapporto tra Pd e Idv, pur essendo stato Bersani tra coloro che certo non appoggiarono la scelta filo-Di Pietro di Veltroni nella campagna elettorale del 2008. Perché, caro Bersani, non hai difeso Letta dagli attacchi che gli sono stati rivolti? Perché, una volta per tutte,

Il rischio è quello di regalare la vittoria al centrodestra e creare un bipolarismo malato, basato solo sulla contrapposizione al Cavaliere scitato una levata di scudi, compreso anche da parte di chi ha sempre mostrato di avere acume politico come Rosy Bindi. Inducendo Bersani a indulgere ancor più al suo già naturale cerchiobottismo.

Dal neo-segretario del Pd, infatti, non è venuta una parola chiara su come intende fare opposizione. E’ vero, non ha aderito alla manifestazione di oggi, ma solo in nome del fatto che il Pd non partecipa a

non chiarisci di quale pasta è fatto il tuo Pd, anche a costo di pagare il prezzo di qualche defezione? Ragionevolmente il Partito democratico può essere due cose: o la casa della sinistra, quella vera e seria, e allora non capisco cosa si aspetti a tendere la mano a Bertinotti che, non a caso, non è mai stato neanche per sbaglio antiberlusconiano - oppure la casa dei riformisti, in cui prevale l’ancoraggio liberaldemocrati-

co, che si posiziona al centro dello scacchiere politico e costruisce l’alternativa a Berlusconi (o meglio, a questo punto, il dopo-Berlusconi) puntando su un programma di riforme strutturali rigorosamente lontane dal populismo di molta parte del Pdl e dal conservatorismo autarchico della Lega. Nell’uno come nell’altro, non ci sarebbe minimamente spazio per derive giustizialiste e demagogie ciarlatanesche.

Peccato che fin qui il Pd, tanto quello veltroniano quanto finora quella bersaniano, non sia stato né l’una né l’altra cosa. Ma un tentativo, stile Ulivo, di mettere insieme le diverse opzioni, senza preventiva chiarezza politica e programmatica. Un assemblaggio che, inevitabilmente, ha finito con l’avere come unico strumento aggregante l’antagonismo verso Berlusconi. Che può anche rivelarsi sufficiente a vincere (1996) o quasi (2006) le elezioni ma che certo non consente di mettere in campo una convincente capacità di governare. Condannando il Paese ad una alternanza inutile tra due coalizioni prive di cultura e di programmi di governo. Buona manifestazione, antiberlusconiani dei miei stivali. (www.enricocisnetto.it)


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5 dicembre 2009 • pagina 7

Così ieri Donato Capece, segretario del sindacato Sappe

La Cei: «Dal direttore del “Giornale” tardive ammissioni»

Caso-Cucchi: il pestaggio fu segnalato alla Procura il 16

Caso-Boffo, dietrofront di Feltri: «Una bagatella»

ROMA. «La Procura di Roma

ROMA. Dietrofront di Vittorio Veltri sul caso-Boffo. Il direttore del quotidiano Il Giornale, ieri, ha infatti dichiarato il caso come «chiuso». «Personalmente - ha scritto Feltri - non mi sarei occupato di Dino Boffo, giornalista prestigioso e apprezzato, se non mi fosse stata consegnata da un informatore attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziario che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche». «La ricostruzione dei fatti descritti nella nota - prosegue Feltri - oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali. All’epoca giudicammo interessante il caso per cerca-

aveva ricevuto una segnalazione sul presunto pestaggio di Stefano Cucchi già il 16 ottobre, il giorno del trasferimento del 31enne romano da Piazzale Clodio a Regina Coeli». Lo ha detto ieri al giornale radio Rai, Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato degli agenti penitenziari. «Il 16 ottobre, durante la traduzione da piazzale Clodio a Regina Coeli, l’ispettore alla guida della scorta che era nel furgone assieme a cinque detenuti, Cucchi e gli altri, tra cui il detenuto africano, ha sentito questo chiacchiericcio che era in atto, tra Cucchi e gli altri. Stefano Cucchi veniva deriso proprio perché presentava tumefazioni, lesioni. Sembrerebbe che Cucchi, durante questo percorso, abbia detto: durante la notte ho il fatto il sacco, ho fatto il pugilato».

L’ispettore della scorta ha riferito quanto sentito durante il percorso all’ispettore capo, A.L.R. che lo stesso giorno, il 16 ottobre, ha chiesto e ottenuto di essere ascoltato dal pm. Il giornale radio Rai, si legge in una nota diffusa nella mattinata di ieri, «ha avuto conferma dallo stesso ispettore A.L.R. della segnalazione fatta il 16 ottobre alla magistratura». E sempre ieri, nel giorno in cui il quoti-

Fondo per le Pmi, l’accelerata di Tremonti Il veicolo dovrebbe essere annunciato la prossima settimana di Francesco Pacifico

ROMA. Giulio Tremonti impone un’accelerata alla creazione del Fondo per la ricapitalizzazione delle Pmi. Con Corrado Passera, Alessandro Profumo e Giuseppe Mussari – per non parlare del suo direttore generale, Vittorio Grilli, vero animatore dell’iniziativa – il ministro dell’Economia è stato chiaro: entro la fine della prossima settimana vuole annunciare la sua nascita. Per iniziare (istruttoria di Bankitalia permettendo) a fare i primi interventi già nel secondo trimestre del 2010. Non sono pochi nodi ancora aperti sulla definizione del fondo, ma il Tesoro – pur di partire – ha deciso di istituire un apposito steering committee composto dai rappresentanti degli azionisti per scrivere lo statuto da presentare in Banca d’Italia. Per decidere su temi come la governance, la gestione del rischio o l’ammissibilità delle aziende ai bandi. Dal Tesoro fanno sapere che il ministro non accetterà rinvii. Anche se c’è la Finanziaria da seguire. E su questo versante i grattacapi sono all’ordine del giorno se ieri il relatore Massimo Corsaro ha anuna nunciato nuova riformulazione dell’emendamento omnibus, che bloccato ancora una volta il voto. Per non parlare delle trattative con le banche, che vogliono certezze sulla possibilità di detrarre le sofferenze in bilancio.

Vittorio Grilli), al momento è da escludere un ingresso che nel capitale. A meno che la raccolta non si riveli un flop. A quel punto potrebbe venire in aiuto l’emendamento alla manovra presentato dalla maggioranza, che per il finanziamento alle Pmi prevede la costituzione di fondi comuni «gestiti da Sgr che abbiano per oggetto sociale uno degli scopi istituzionali della Cassa depositi e prestiti». E che dà la possibilità a via Goito e allo Stato di sottoscrivere con quote fino a 500mila euro.

Eppure l’iniziativa, che ha ottenuto un plauso quasi unanime, porta con se due rischi non da poco. Li spiega Angelo De Mattia, ex vicedirettore di Bankitalia: «Il fondo non è un’idea negativa in sé. Ma ci sono tutta una serie di cose da fare per garantire la sua terzietà: da un lato può essere naturale che le imprese interessate possono avere esposizioni verso le banche partecipanti. Dall’altro bisogna evitare che si ripeta l’esperienza negativa di Gepi: che da fondo per il rilancio delle imprese, divenne strumento per il defunzionamento delle stesse». Conflitti d’interesse e indebito accollamento da parte dello Stato dei debiti dei privati. Per De Mattia l’antidoto sta nell’indicare «criteri e precedere trasparenti per l’ammissione delle imprese, per la governance e per gli stimoli (altra mission del fondo, ndr) per le aggregazioni. Al riguardo ricordo che quando nelle sue Considerazioni finali del 2003 l’ex governatore Antonio parlò della necessità per le imprese non finanziarie di ripetere lo stesso processo di aggregazione seguito dalle banche, si levarono voci contrarie dal mondo di Confindustria. Il tempo si dimostra sempre galantuomo». A decidere secondo quali criteri si muoverà il fondo sarà un apposito steering committee che Tremonti spera di annunciare già in settimana. A quanto si sa dovrebbe essere un ampliamento del gruppo di lavoro che ha visto operare assieme in queste settimane Vittorio Grilli, Gaetano Miccichè (Intesa), Giorgio Peluso (Unicredit) e Antonio Marino (Mps).

Un miliardo la capitalizzazione. Con Cdp Intesa, Unicredit e Mps. Uno steering committee scriverà lo statuto

diano Corriere della Sera ha pubblicato il rapporto Direzione genera le delle carceri ecisa dal Dap, in cui la morte del giovane romano è definita «disumana e degradante», il sottosegretario con delega alle politiche familiari, Carlo Giovanardi, ha dichiarato a margine della conferenza stampa per i 20 anni della conmunità di recupero “L’Aquilone” di Assemini: «emergeranno delle responsabilita’o di carabinieri o di agenti della polizia penitenziaria ci costituiremo parte civile». La relazione della commissione formata da Sebastiano Ardita, Maria Letizia Tricoli e Federico Falzone e altri funzionari del Dap è stata inviata alla Procura di Roma, che dovrà valutarla.

Certa l’architettura di massima del fondo: sottoscrittori principali saranno IntesaSanpaolo, Unicredit, Mps, la Cassa depositi e prestiti. Anche l’Abi firmerà il protocollo tra le parti. La dotazione iniziale sarà di un miliardo di euro, per l’80 per cento in arrivo dalle banche, mentre la Cdp – anche per motivi di opportunità – avrà una taglia minore. I promotori puntano a raccogliere 3 miliardi di euro, cosa che dovrebbe portare all’ingresso di altre realtà bancarie. Destinatarie degli investimenti di equity le aziende con fatturato tra i dieci e cento milioni di euro. Nell’iniziativa non dovrebbe avere un ruolo diretto il Tesoro. Se è probabile che dica la sua su chi guiderà la Sgr (e non dovrebbe essere

re di dimostrare che tutti noi faremmo meglio a non speculare sul privato degli altri, perché anche il nostro, se scandagliato, non risulta mai perfetto». «La “cosa” da piccola divenne grande ma forse sarebbe rimasta piccina se Boffo invece di segretare il fascicolo, lo avesse reso pubblico, consentendo di verificare che si trattava di una bagatella e non di uno scandalo. Dalle carte infatti, Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato».

E se da un lato Feltri ha ricevuto l’apprezzamento del sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella , che ieri ha commentato la nota del giornalista definendolo «coraggioso» per aver ammesso gli errori («e con un richiamo in prima pagina»), dall’altro Feltri ha incassato un’altra critica della Cei, che sempre ieri, attraverso il portavoce monsignor Domenico Pompili, ha sottolineato come «l’articolo del Giornale conferma il valore della persona del dottor Boffo che, ancora prima delle tardive ammissioni di Feltri, si è volontariamente fatto da parte per non coinvolgere la Chiesa, che ha peraltro servito da sempre con intelligenza e passione».


politica

pagina 8 • 5 dicembre 2009

Processo/1. Ieri la deposizione-evento nell’aula bunker del Palagiustizia di Torino, dove si svolge l’appello di Dell’Utri

Sostiene Spatuzza Il pentito che accusa Berlusconi: «Graviano mi disse: grazie a lui abbiamo in mano tutto» di Osvaldo Baldacci

TORINO. «Ci hanno messo in mano il Paese». È la mafia a parlare, secondo le dichiarazioni di uno che ne ha fatto parte. «Loro» sarebbero i membri del “clan” di Berlusconi, che con ben altri “clan” sarebbe stato in affari, stando al controverso pentito. Spatuzza, come era stato anticipato, ha riferito che in un incontro avvenuto in un bar in via Veneto a Roma, pochi giorni prima di un fallito attentato nella Capitale, il suo boss Graviano, parlando dei politici con cui avrebbe fatto accordi in relazione alle stragi, c’era «Berlusconi, quello di Canale 5, e un compaesano, Dell’Utri». Berlusconi e Dell’Utri hanno fermamente smentito le accuse di coinvolgimento con la mafia: «follia», secondo il premier.

Ho fatto parte dagli anni Ottanta al Duemila di un’associazione terroristico-mafiosa chiamata Cosa Nostra

Spatuzza poi non ha mai sentito parlare di una trattativa Stato-Mafia, altro tema caldo delle ultime settimane.

Spettacolo da audience record il reality show delle deposizioni di Gaspare Spatuzza, pentito o presunto tale che riveste il ruolo di oracolo più atteso della storia degli ultimi anni. Persino secondo il procuratore generale di Palermo Antonino Gatto - l’accusa - sulla deposizione di Spatuzza «c’è un’a-

spettativa eccessiva». «Si sta enfatizzando troppo qualcosa che ha un certo rilievo, ma non così eccessivo», ha detto ai giornalisti il pg prima dell’inizio dell’udienza. La promessa di Spatuzza è quella di squarciare il velo sulle stragi di mafia degli anni Novanta e di conseguenza su tutto il mondo che ne sarebbe derivato, compresa la storia dell’intera seconda repubblica. E ieri non ha tradito le aspettative almeno dal punto di vista dello spettacolo: dal punto di vista della verità c’è tempo per capirlo. Non tutti infatti credono alle sue rivelazioni, anche i magistrati sono divisi, e il primo imputato Marcello Dell’Utri rovescia completamente le accuse: per lui Spatuzza è ancora un mafioso, e le sue dichiarazioni sono un attacco della mafia al governo che la sta combattendo. «Che scoppi la bomba atomica, vedremo che è solo un petardo», aveva sottolineato l’avvocato Nino Mormino nel suo intervento in aula. I legali del senatore, comunque, avevano chiesto la revoca della deposizione o, in subordine, l’acquisizione di tutti gli atti relativi a Spatuzza, che secondo la difesa possono dimostrare la “inattendibilità” del pentito. Richiesta respinta dalla Corte. Teatro del grande show l’aula bunker del Palagiustizia di Torino, dove per motivi di sicurezza è stato trasferito il processo d’appello al senatore Pdl Marcello Dell’Utri, condannato a nove anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Ieri mattina a mezzogiorno, dopo più di due ore di attività preliminari, è cominciata davanti alla Corte di Appello

Qui sopra, Silvio Berlusconi. In alto, alcune immagini dell’udienza che ieri ha visto deporre Gaspare Spatuzza, il pentito che accusa il presidente del Consiglio e Marcello Dell’Utri

di Palermo la deposizione blindata ma trasmessa in diretta di Gaspare Spatuzza. Legato al clan dei Graviano, che è il cuore di tutte le nuove ipotesi, Spatuzza, 45 anni, sarebbe al centro di decine di delitti tra cui quello di Don Puglisi nel 1993. Ha partecipato al rapimento del figlio del pentito Santino Di Matteo, Giuseppe, 13 anni, poi strangolato e sciolto nell’acido per ordine di Giovanni Brusca. È stato tra i protagonisti della stagione delle stragi di mafia del ’92/’93 - l’attentato agli Uffizi di Firenze, le bombe a Roma e in via Palestro a Milano, il fallito attentato allo Stadio Olimpico della capitale. Fu lui a rubare la Fiat 126 usata per l’eccidio di Via D’Amelio. Arrestato nel 1997, è stato condannato all’ergastolo. «Sono accusato di sette stragi, quaranta omicidi», ha specificato rispondendo nel pomeriggio al controinterrogatorio. «Ho fatto parte dagli anni Ottanta al Duemila di un’associazione terroristico-mafiosa denominata Cosa Nostra - ha ammesso ieri - Dico terroristica per quello che mi consta personalmente, perché dopo gli at-

tentati di via D’Amelio e Capaci, ci siamo spinti oltre, come l’attentato al dottor Costanzo e quello a Firenze dove morì la piccola Nadia».

Ha cominciato a collaborare con la giustizia nel 2008. Le sue dichiarazioni sono così enormi

Dopo via D’Amelio e Capaci, ci siamo spinti oltre: l’attentato a Costanzo e quello a Firenze, dove morì la piccola Nadia

che il vero punto della questione è se sia attendibile e quindi perché parli solo ora, dopo più di 15 anni. Ieri in aula ha spiegato la sua storia. «Il mio pentimento - ha raccontato - è la conclusione di un bellissimo percorso spirituale cominciato grazie al cappellano del carcere di Ascoli Piceno, padre Pietro Capoccia. Nel 2000 ho iniziato un bellissimo percorso di istruzione e isolamento. È lui che mi ha fatto studiare la teologia. A quel punto mi sono trovato ad un bivio: scegliere Dio o Cosa nostra». «Se io ho messo la mia vita nelle mani del male, perché non la devo perdere per il bene? Chiedo perdono per il male fatto». «Nel gennaio del 2008 - ha aggiunto - ho deciso di fare il passo definitivo e ho chiesto,


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sulle stragi del ’92 e ’93, dopo l’ammissione al programma pentiti. Prima di quella data, ai pm non parlai mai dei nomi dell’interlocutore politico dei Graviano». «Non ho mai chiesto nulla in cambio allo Stato. Ho riferito quello che sapevo su Berlusconi e Dell’Utri solo il 16 giugno del 2009 ai magistrati di Firenze perché, prima - ammet-

Prima di fare un attentato mi dicevano di inviare delle lettere. Un’anomalia che mi ha fatto capire che c’era qualcosa sul versante politico tramite un agente della polizia penitenziaria di cui mi fidavo, di incontrare il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’incontro avvenne a marzo. Io gli dissi che non chiedevo niente allo Stato, che le istituzioni sapevano cosa avrebbero fatto di me. Ma non nego che avevo molta paura». Un primo timido passo abortito sarebbe avvenuto cinque anni fa: «Nel 2004, quando eravamo entrambi detenuti nel carcere di Tolmezzo (Udine), parlai a Filippo Graviano della possibilità di dissociarci da Cosa Nostra. Nel 2004 lui stava malissimo, io gli parlavo dei nostri figli, di non fargli fare la nostra fine. Ho avuto la sensazione che stava crollando. Mi disse di far sapere a suo fratello Giuseppe che se non arrivava qualcosa da dove doveva arrivare, allora bisognava parlare ai magistrati».

dere che quando ho cominciato a rendere i colloqui investigativi con i pm mi trovavo Berlusconi primo ministro e come ministro della Giustizia uno che consideravo un “vice” del primo ministro e di Marcello Dell’Utri». Cionostante, afferma il collaboratore di giustizia, «la mia missione è restituire verità alla storia e non mi fermerò di fronte a niente. È una mia missione per dare onore a tutti quei morti, a tutta quella tragedia. È mio dovere». Inutile dire che a tanta dedizione alla verità non credono né la difesa né i politici del centrodestra (ma anche le altre forze politiche preferiscono un prudente no comment). In questo senso una domanda centrale del controinterrogatorio dell’avvocato della Difesa Nino Mormino è stata proprio quella sul fatto

«Lui mi disse: “Non ci interessa la dissociazione, perché tutto deve arrivare dalla politica, che deve fare le leggi”. Nel 2005 - ha continuato - ebbi un colloquio investigativo con l’allora procuratore Antimafia, Pierluigi Vigna, ma non me la sentii di pentirmi formalmente, perché sapevo che sarei stato rinnegato dalla famiglia, perché ero certo che raccontando la verità sulla strage di Via d’Amelio sarei entrato in conflitto con i magistrati e perché avrei dovuto parlare della sfera politica, cosa che mi spaventava». «I timori di parlare del presidente del Consiglio erano e sono tanti continua Spatuzza - Basta ve-

Ho avuto paura di parlare di Berlusconi: quando ho iniziato era primo ministro, e ministro della Giustizia il “vice” di Dell’Utri

che Spatuzza non ha mai fatto prima i nomi politici che oggi tanto fanno discutere, compreso quello di Dell’Utri condannato ma non per le stragi. Il mafioso ha precisato che ha «deciso di togliere gli omissis

te - temevo che si potesse dire che tiravo in ballo i politici per accreditarmi come pentito».

Nell’intervallo del pranzo Marcello Dell’Utri, l’imputato, ha sottolineato tutta quella che lui ritiene l’inconsistenza delle accuse di Spatuzza: «Uno così, Falcone l’avrebbe denunciato», «Comunque nessuna novità nelle sue parole, il pentito ha detto quello che aveva già riferito ai pm», «Che ne so io chi ci sta dietro Spatuzza. Ci sono delle persone, i pm, che ne so io». In mattinata però lo stesso Dell’Utri era stato più esplicito: «Spatuzza ha interesse a buttare giù il governo che gli lotta contro. Spatuzza non è un pentito dell’antimafia, ma della mafia». La stessa interpretazione che danno della vicenda che anche ieri hanno dato della vicenda Berlusconi, Bonaiuti, Gasparri, Stefania Craxi ed altri: le presunte rivelazioni sono un attacco della mafia al governo che la combatte. Per quanto riguarda la ricostruzione delle stragi, questo è il racconto di Spatuzza. Prima degli attentati del ’93 (a Roma nella Chiesa di San Giovanni in Laterano e in quella di San Giorgio al Velabro e a Milano ai giardini di via Palestro), imbucò cinque lettere, alcune delle quali indirizzate a testate giornalistiche. «Queste lettere - dice il pentito - provenivano dal boss Giuseppe Graviano. Il fatto che prima di fare un attentato mi dicessero di informare qualcuno con delle lettere è un’anomalia che mi ha fatto capire che c’era qualcosa sul versante politico».

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Poi un nuovo salto di qualità, un episodio che per Spatuzza doveva essere decisivo, il fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Nell’incontro di fine ’93 a Campo Felice di Roccella con Graviano, Spatuzza - stando al suo racconto - riceve l’ordine di compiere un attentato «in cui moriranno un bel po’ di carabinieri». Il fallito attentato allo stadio Olimpico «doveva essere il colpo di grazia», afferma Spatuzza. E poi: «Dissi a Graviano che ci stavamo portando un po’di morti che non ci appartenevano, ma lui mi disse che era bene che ci portassimo dietro questi morti, così “chi si deve muovere si dà una mossa”». Il pentito spiega: «Vigliaccatamente Cosa Nostra ha gioito per Capaci e via D’Amelio. Perché erano i principali nemici nostri. Capaci ci appartiene, via D’Amelio ci appartiene - afferma - ma tutto il resto non ci appartiene». Poi racconta la dinamica del fallimento dell’attentato allo stadio: Spatuzza ha raccontato in aula le fasi preparatorie dell’attentato, quando la mafia imbottì una macchina di esplosivo, «utilizzando una tecnica - dice Spatuzza che nemmeno i talebani hanno mai usato». I boss, oltre all’esplosivo, utilizzarono tondini di ferro, che avrebbero dovuto rendere più devastante l’effetto della deflagrazione. «Lasciammo la macchina - ha proseguito - fuori dallo stadio. Io e Benigno eravamo a Monte Mario. Ma all’ultimo minuto quando Benigno premette il telecomando, fortunatamente, grazie a Dio, il telecomando non funzionò. Poi quando i carabinieri si erano già distanziati io gli dissi di fermarsi, di non dare più l’impulso. Scendiamo con la moto, ma l’attentato in sostanza era fallito».

Ed ecco a seguire l’altra bomba, quella vera, non quella fisica ma quella politica: «Nel ’94 afferma Spatuzza - incontrai Giuseppe Graviano in un bar in Via Veneto, aveva un atteggiamento gioioso, ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti quella storia e non come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti nel 1988 e 1989 e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vennero fatti due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C’era pure un al-

tro nostro paesano. Graviano disse che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani». Un secondo riferimento a Berlusconi e Dell’Utri Spatuzza lo fa quando parla dell’episodio del carcere di Tolmezzo: il pm chiede spiegazioni sulla frase attribuita a Graviano «se non arriva quello da dove doveva arrivare» e qui Spatuzza ritorna al riferimento di Berlusconi e Dell’Utri. In merito al riferimento ai socialisti degli anni Ottanta Spatuzza racconta: «Nel 1988 o 1989 Giuseppe Graviano mi disse di portare avanti le candidature socialiste - ha dichiarato All’epoca Claudio Martelli era capolista, c’era Fiorino e altri che non ricordo. A Brancaccio facemmo di tutto per farli eleggere e i risultati si videro: facemmo bingo».

Dell’Utri da parte sua ha continuamente ribadito la totale estraneità a quanto raccontato da Spatuzza. «I Graviano? Non li ho mai conosciuti, io non conosco nessuno. Provenzano? Sta scherzando», ha aggiuto rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano se conoscesse questi personaggi. «Io conoscevo

Mi vennero fatti due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C’era pure un altro nostro paesano

Vittorio Mangano punto e basta». «Sono accuse che si commentano da sole, ma in Italia non c’è nessuno disposto a credere a queste assurdità», la replica di Silvio Berlusconi alla deposizione di Spatuzza. Fino a questo momento Berlusconi che ha definito le accuse del pentito Spatuzza «infondate e infamanti» - non è indagato né dalla procura di Palermo né da quella di Firenze che, in seguito anche alle dichiarazioni di Spatuzza, ha riaperto l’indagine archiviata nel 1998 sulle stragi di mafia del 1993. Resta, semmai, il “giallo” sugli interrogatori dei «pm di Caltanissetta, Palermo, Reggio Calabria, Firenze e Milano» di cui ha parlato Spatuzza nel controinterrogatorio della difesa.


politica

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Processo/2. Per Capezzone, la mafia vuole colpire un governo che lavora per fermarla. La sinistra: «Decidano i giudici»

Ultimo fango a Torino Il Pdl compatto in difesa, Fini: «Senza riscontri, sono solo parole». Bersani invita alla cautela di Alessandro D’Amato om’era prevedibile, le parole di Gaspare Spatuzza contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri hanno infiammato la giornata politica e monopolizzato la scena. Significativa la reazione del presidente della Camera, Gianfranco Fini: «Senza riscontri precisi, quelle di Spatuzza sono soltanto parole». Comincia il balletto Daniele Capezzone, portavoce del Popolo delle Libertà, quando la deposizione non è ancora iniziata: «Quanto sta accadendo a Torino, intorno al criminale Spatuzza, responsabile di reati orribili e di crimini disumani, e oggi incredibilmente presentato da qualcuno come un oracolo, evidenzia un rischio molto concreto. È proprio la grande criminalità, è proprio la mafia che vorrebbe fermare - con calunnie e insinuazioni - il governo che sta accumulando record nella lotta (vera) contro le mafie.

C

Il numero dei superlatitanti arrestati, la quantità di beni immobili sequestrati, la somma di denaro recuperata, la durezza delle pene stabilite per legge: sono tutte ragioni per cui la mafia odia il governo Berlusconi. E i fatti di oggi ne sono una prova». Sullo stesso tono è il ministro per l’attuazione del programma Gianfranco Rotondi. Poi tocca al capogruppo del PdL al Senato Maurizio Gasparri: «Spatuzza è solo un refuso della parola spazzatura. Ha sciolto nell’acido un bambino di 12 anni per conto della mafia, ha ucciso don Pino Puglisi e gli ha anche tolto 200mila lire dalle tasche e le marche da bollo per la patente. È un personaggio la cui credibilità e attendibilità sono pari a zero. La legge sui pentiti - aggiunge Gasparri - va bene purché sia rispettata. Ci sono dei termini temporali per le dichiarazioni, il famoso termine dei sei mesi, per evitare

Emanuele Macaluso

« I l Ca v a l ie re h a er e di t at o rap po rt i ant i chi dal l a P ri ma R ep ub bl i ca » di Errico Novi

ROMA. Può darsi che ci sia il rendiconto «di aiuti concessi dalla mafia a Berlusconi all’inizio della sua carriera di imprenditore. E in ogni caso in Sicilia l’attuale presidente del Consiglio ha ereditato dalla Dc un vasto consenso popolare, al quale inevitabilmente si mescola anche quello mafioso. Purtroppo questa è gente che se gli dai una mano si prende il braccio, e se gli dai il braccio vuole la testa». Insomma, Emanuele Macaluso non esclude che in questa vertiginosa escalation giudiziaria sui rapporti tra Silvio Berlusconi, Forza Italia e i boss siciliani «possa riflettersi un ricatto, simile a quello rivolto dalla mafia alla Dc nella Prima Repubblica. E in quel caso, come sappiamo, a iniziative anche dure come quelle di Andreotti seguiro-

che nell’arco dei decenni qualcuno ricordi qualcosa che fa comodo a qualcun altro senza dire la verità. Quindi la legge fissa dei paletti. Bisogna verificare se anche nel caso Spatuzza le norme siano state rispettate».

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti chiosa: «È del tutto logico che la mafia utilizzi i suoi esponenti per rilasciare dichiarazioni contro il Presidente del Consiglio di un Governo che agisce in maniera così determinata e così concreta nei confronti della criminalità organizzata. Il nostro Governo ha arrestato otto mafiosi al giorno, festivi inclusi. Ha arrestato quindici dei trenta più pericolosi latitanti di mafia. Ha sequestrato in media dieci milioni di euro di beni mafiosi al giorno, per un valore totale finora di 5,6 miliardi di euro, più del triplo di quanto ha

no nei primi anni Novanta ritorsioni violentissime». Escludiamo dunque che questi sviluppi clamorosi siano riconducibili al pluridecennale conflitto tra Berlusconi e l’establishment? Non c’è dubbio che questo dato esista, ma oggi non mi pare che si tratti di questo. Berlusconi ha prima raggiunto un compromesso con Agnelli, poi è entrato in Mediobanca, è presente anche nel Corriere della Sera. E poi c’è stato un indebolimento dell’opposizione politica: i poteri forti sono sensibili a certi mutamenti. Quell’ostilità si è reincarnata, allora, nella magistratura? Anche da questo punto di vista sono cambiate molte cose. Qui non c’è più la sola Magistratura democratica: l’ostilità dei giudici verso Berlusconi riguarda anche gente che non è di sinistra ma che semplicemente non tollera di veder negato il controllo di legalità. E comunque non c’è più lo schema post-Tangentopoli, con il potere mediatico-giudiziario contro un potere politico che vuole riportare tutto sotto il suo controllo. Certo con uno scontro in corso è difficile introdurre riforme che riequilibrino il sistema. Anche perché se l’attuale governo propone di separare le carriere, lo fa come vendetta per i processi a Berlusconi, non in nome di un’esigenza dello Stato. Sul premier si profila un attacco concentrico di verse Procure che lo indagano per mafia. Cosa gli conviene fare, cambiare le leggi per ripararsene o presentarsi a viso aperto in Tribunale? Io sono per questa seconda ipotesi. In-

fatto il Governo precedente nello stesso periodo tempo. Gli straordinari risultati della lotta intrapresa da questo Governo contro la mafia non hanno precedenti negli ultimi venti anni». Il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani, è molto cauto: «Tocca ai giudici valutare le dichiarazioni di un pentito, non credo ci sia altro da aggiungere». «Sono affermazioni che non possono lasciare indifferenti - dice invece Giuseppe Ayala, ex magistrato del pool antimafia di Palermo e collaboratore di Falcone e Borsellino - ma so bene quanto siano delicate questo tipo di affermazioni. Guai a costruire una responsabilità penale solo sulla parola di un collaboratore. Sono altrettanto convinto che i magistra-

tendiamoci: reintrodurre forme di immunità non sarebbe scandaloso, i padri costituenti le avevano previste. Ma ci sono due problemi. Quali? Innanzitutto qualsiasi cosa assumerebbe la valenza di una norma ad personam. E poi tutto svanisce di fronte alla debolezza, direi all’inesistenza dei grandi partiti. Il partito di maggioranza in realtà non esiste, quindi non sarebbe in grado di assicurare un ricambio. La Dc lo fece in diverse occasioni: con De Gasperi nel ’53, con Fanfani nel ’58 e con Moro nel ’68. Questi ultimi due poi tornarono, ma in quel momento la maggioranza dimostrò di poter sopravvivere anche con un nuovo presidente del Consiglio. Oggi non sarebbe possibile. Da siciliano: lei ci crede alle complicità di Berlusconi e Dell’Utri con la mafia? Io penso che Berlusconi abbia ereditato un sistema di potere che ha dentro anche la mafia. Questo non significa che abbia ordinato stragi, cosa inverosimile. Ma nel 61 a 0 c’è di tutto. Berlusconi naturalmente rappresenta anche tanta gente pulita, onesta. Ma dentro resta quel verme, che è in grado di ricattare. Ma lei crede che verrà condannato? Andreotti, Mannino e gli altri sono stati assolti, ma c’è voluto tempo. Non è che le cose si definiscono rapidamente, anche perché io penso che nulla nasca dal nulla.Valeva allora e vale oggi. Se si pretende di affermare il contrario si delegittima tutto il lavoro dei giudici, il che equivale a distruggere lo Stato.

ti, e ne conosco diversi, stanno svolgendo il loro lavoro con il massimo rigore. Poi, chiaramente, l’impatto mediatico è notevole. Spatuzza non lo conosco mentre ricordo bene i Graviano, imputati al maxiprocesso. In relazione alla strage di Borsellino, fu Spatuzza a rubare la Fiat 126 che poi fu riempita di tritolo. In quella occasione i suoi riscontri vennero confermati. Ripeto, siamo nelle mani di magistrati di alta professionalità e già mi aspetto sulle pagine dei giornali di domani le polemiche sui collaboratori di giustizia. Da certi punti di vista penso che le polemiche saranno anche comprensibili. Quello che dice Spatuzza è scioccante. Ma sono sicuro che i magistrati effettueranno tutte le verifiche del caso e penso

Claudio Martelli

«T es t e p oco c red ibil e, è un enorme danno per l’Ital ia» di Ruggiero Capone

ROMA. Claudio Martelli non ci sta proprio a far riscrivere la storia da Spatuzza. Così evitando di scendere su personalismi e solite accuse rivolte a mo’ di disco rotto allo storico Psi, rammenta che le vicende riferite dal pentito sembrano avere poco a che fare con presunte complicità Berlusconi-Mafia. Ciò che ipotizzava ieri mattina Spatuzza è per l’ex guardasigilli d’epoca Craxi roba da «segreto di Pulcinella». «Ribadisco - dice Martelli - che la deposizione di Spatuzza è un po’come il segreto di Pulcinella. Anche perché è facile sostenere d’aver appoggiato il Psi, soprattutto tanto tempo dopo. Quando ormai anche la storia parla delle vittorie elettorali dei socialisti, e non certo per mano di mafia. Ora Spatuzza vuole riscrivere la storia, e


politica

che la normativa che riguarda i collaboratori di giustizia offra tutte le garanzie». Osvaldo Napoli del PdL vede il complotto: «Il pentito Gaspare Spatuzza ha raccontato menzogne e si è clamorosamente contraddetto».

Ha detto, prosegue Napoli, «che ha scoperto la fede grazie al cappellano di Ascoli Piceno, venen-

dosi a trovare al bivio fra Dio e la mafia. Dunque la scoperta della fede lo ha fatto pentire? No. Nel 2004, quando Spatuzza accenna a Filippo Graviano del desiderio di dissociarsi, Graviano gli risponde di far sapere a suo fratello Giuseppe Graviano che“se non arrivava qualcosa da dove doveva arrivare, allora bisognava parlare con i magistrati”. Cosa doveva arrivare? Un ammorbidimento delle leggi per i boss mafiosi. È una vendetta politica contro Silvio Berlusconi ha spinto lo spergiuro Gaspare Spatuzza a chiamare in causa il presidente del Consiglio che più di tutti ha perseguito la mafia. Possiamo dire che Spatuzza ha solo anticipato di 24 ore il “No B-day”di Antonio Di Pietro». Fabrizio Cicchitto e

mettere le vittorie del Psi in Sicilia sul medagliere di cosa nostra. Una storiella doppiamente ridicola. Anche perché questi mafiosi proprio furbi non appaiono, infatti avrebbero deciso di fare bingo proprio con me, che in cambio ho dato loro il il 41 bis, con le sue rigidissime misure contro i mafiosi». Ma una testimonianza non sarebbe più credibilie quando è diretta? Spatuzza è certamente credibile se accusa se stesso di aver ordito o materialmente fatto omicidi e stragi: come nei casi del giudice Borsellino o dei Carabinieri all’Olimpico. In questi due esempi ha certamente un altissimo grado di credibilità. Quando riferisce di eventuali rapporti dei Graviano con politici ed imprenditori parla de relato, quindi la sua credibilità viene notevolmente attenuita, anzi più che dimezzata. Anche perché riferisce notizie a lui a sua volta riferite. Basterebbe alla persona accusata da Spatuzza negare, quindi smentire le dichiarazioni del pentito. Con una smentita il de relato verrebbe attenuato, perderebbe di valore. È possibile che il processo a Dell’Utri e l’ormai inevitabile inchiesta per mafia sui Berlusconi siano da ricondurre nel quadro del pluridecennale conflitto tra poteri forti? Non stiamo qui a datare il conflitto che oppone alcune procure ad alcuni pezzi del Parlamento. Questo innanzitutto non è nemmeno un conflitto, bensì uno squilibrio. Quando venne varato il nuovo codice di procedura penale, il Vassalli, in quello stesso momento il pubblico ministero

Carlo Giovanardi si schierano sulla stessa linea. Da registrare le dichiarazioni del ministro Stefania Prestigiacomo: «Da siciliana sono indignata che un uomo come Spatuzza, un pluriassassino che ha contribuito a massacrare la reputazione della mia terra, possa essere ritenuto attendibile». «Una vicenda tragicomica», è invece per Stefania Craxi mentre Margherita Boniver parla di «fantasia malata». «Lo sappiamo benissimo che i collaboratori di giustizia sono degli assassini, dei delinquenti, ma Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che sono uno strumento indispensabili per contrastare la mafia», dice il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, alla trasmissione Il fatto del giorno su Raidue. «Bisogna piuttosto individuare ha aggiunto - il punto di equilibrio tra quello a cui lo Stato può rinunciare e quello che possono dare questi pentiti». In trasmissione arriva lo scontro con Capezzone, che accusa magistrati e pentiti di «sputtanare il Paese». E arrivano le proteste di “Ammazzatecitutti”, associazione antimafia; in una nota, Aldo Pecora, leader del movimento, afferma: «Dalla trasmissione della dottoressa Setta si sono riscontrati: contraddittorio minimo, showgirl a rappresentare la“società civile”, un servizio di vox populi conclusivo confezionato su misura e, dulcis in fundo, le non richieste considerazioni politiche palesemente di parte della conduttrice. Credo che ciò basti per auspicare un immediato intervento da parte della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai».

assurse a dominus dell’indagine. Col nuovo codice il pm ha potuto acquisire prove e lavorare ormai fuori dal controllo del giudice istruttore. Questo nuovo ordine delle cose ha giustificato che il rinvio a giudizio non fosse più sottoposto al controllo del giudice istruttore. In quel periodo storico, nel 1993, un Parlamento terrorizzato ha abolito l’immunità parlamentare. Io oggi mi sono detto contrario al lodo Alfano. Invece è costituzionale ristabilire l’immunità parlamentare, che la Carta contemplava 62 anni fa per tutelare i parlamentari. E l’inevitabile inchiesta per mafia sui Berlusconi come la giudica? È stato fatto un danno enorme all’Italia. L’immagine del nostro paese è stata distrutta. Qui c’è chi ha voluto inoculare nell’italiano il dubbio che o ci sia un presidente del Consiglio mafioso o dei magistrati eversivi. La cosa più grave è che la maggior parte delle persone, degli elettori, crederanno che i custodi della legge sono solo dei persecutori ed il capo del governo un colluso di mafia. Situazioni a cui non bisognerebbe mai arrivare.

Emanuele Macaluso (sopra), Claudio Martelli (sotto)

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Da Amanda Knox a Marcello Dell’Utri

Tutti pazzi per i processi-fiction di Giuseppe Baiocchi a spasmodica attesa con cui dal sistema mediatico è stata vissuta e diffusa la deposizione del “pentito”Gaspare Spatuzza al processo d’appello contro il senatore Marcello Dell’Utri tradisce una la logica consueta da molti anni, per la quale si cerca nelle aule giudiziarie e nell’evolversi dei dibattimenti la chiave decisiva che può influenzare, condizionare e modificare la politica e il potere nel nostro Paese. È un’illusione che ci accompagna dai tempi garibaldini di Mani Pulite e che carica, con il volonteroso concorso delle toghe, di significati “altri”la fisiologia naturale dei procedimenti e del loro cammino pubblico. In questa operazione-nostalgia (o meglio in una pigra “coazione a ripetere”) si insegue la replica di una stagione irripetibile, quando era evidente il godimento popolare nel vedere i potenti (non tutti) trascinati nella polvere e si sognava nello stuolo dei procuratori i possibili “angeli vendicatori”del sentire comune e le guide autorevoli verso un luminoso futuro di giustizia e di progresso. L’incantesimo si è rotto da tempo, e i sostenitori del giustizialismo appaiono ormai una minoranza di reduci sempre più sparuta: anche perché non sembrano rendersi conto (soprattutto i magistrati e gli ex magistrati più presenti nel circuito della comunicazione) di aver dilapidato in pochi anni il cospicuo patrimonio di prestigio e di autorevolezza sociale che si erano allora conquistati.

L

La giustizia, con la sua barocca liturgia, ritrova un tale appeal da “meritare” ascolti e interesse pubblico

Nello scorrere dei lustri infatti è riemersa la sensibilità disperante per il malfunzionamento della macchina-giustizia: la totale incertezza della variabile temporale, i ritardi eterni nei passaggi di un rito sempre più incomprensibile, il distacco insuperabile tra i modi e i comportamenti di una società in evoluzione e una certa alterigia degli operatori verso i comuni cittadini. Un’amarezza diffusa che diventa addirittura dolorosa quando le vittime innocenti (o i loro familiari) di delitti, di reati e di torti, giungono alla fine di farraginosi procedimenti con la netta sensazione di non aver ricevuto né soddisfazione né autentica giustizia. Ecco che allora il processo, con la sua barocca liturgia, appare in sostanza per quello che è: quasi mai una ricostruzione della verità, quanto piuttosto una rappresentazione scenica dove prevale il gioco delle parti, la tenzone in punta di fioretto tra accusa e difesa, il conflitto di interessi contrapposti e incanalati secondo una minuta regolamentazione che ricorda le sfide dei cavalieri medioevali. E allora se il processo ritrova un appeal tale da meritare ascolti e interesse (come nelle serie di Un giorno in pretura, dove erano consistenti le sforbiciate alle immagini per rispettare gli incalzanti tempi televisivi), questo avviene quando ritorna completamente all’antico. Quando cioè squaderna “gialli” privati, storie di amore e di odio, di violenza domestica e di caratteri in guerra, tale da rovesciare al pubblico (e titillarne la morbosità) i segreti intimi di persone forse innocenti o forse colpevoli. Non è un caso che in contemporanea con le vicende di mafia e politica nell’aula di Torino, sia andata in scena la fase decisiva del processo di Perugia, con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, gli studenti accusati dell’omicidio di Meredith: e che questo secondo teatro processuale abbia acceso la fantasia collettiva ben più delle rivelazioni di mafia su fatti ormai corrosi dalla polvere del tempo. La democrazia e il voto non cambiano per le sentenze, nonostante le speranze e i timori contrapposti: ma la giustizia attira e coinvolge solo se è almeno al pari di una “fiction”…


il paginone

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he fine ha fatto il dottor Jekyll? Gli amici lo cercano disperatamente, in un crescendo di tensione per la sua sorte. Perché con ogni probabilità è stato ucciso e l’assassino ne ha occultato il cadavere. Ma anche l’assassino è morto dopo essere rimasto chiuso giorni e giorni nel laboratorio del laboratorio del povero dottore. Impenetrabile ad ogni accesso, finché la porta non è stata abbattuta a colpi d’ascia dal maggiordomo e dall’avvocato Utterson, intervenuti- ahimé - troppo tardi. Infatti, si sono trovati di fronte ad una scena agghiacciante: nel mezzo, sul pavimento, «giaceva il corpo di un uomo dolorosamente contorto che ancora si muoveva». Si erano avvicinati in punta dei piedi, lo avevano voltato ed avevano scorto il volto di Edward Hyde.

C

Già, il disgustoso Mr. Hyde, una vera e propria “anima nera” che da tempo sembrava tenere in pugno il dottor Jekyll. E nessuno riusciva a capire come mai quell’illustre scienziato, quell’uomo probo, retto, dignitoso, quel valente ricercatore e generoso benefattore, difendesse, sia pure con una sorta di evidente pena, un “legame” alla cui base non c’erano davvero né affinità né amicizia. E come avrebbero potuto esserci se quel mostro di Hyde si era addirittura reso colpevole di un crudele assassinio per cui era ricercato in tutta Londra? Ma il dottor Jekyll sembrava volerlo proteggere, quasi avesse degli obblighi nei suoi confronti. Quali? Di sicuro soffriva per questa situazione torbida che lo vedeva come un prigioniero: eppure non ardiva di uscirne e implorava dagli amici una comprensione che no, non poteva esserci. Visto che tutti si rendevano conto del suo stato di soggezione e lo esortavano a ribellarsi. Ora Hyde era morto. Si era suicidato. Chi aveva fatto irruzione nella stanza e osservava con orrore quel corpo vestito di “panni troppo grandi per lui, panni che sarebbero andati bene al dottore”, non poteva che arrivare a queste conclusioni: Hyde in mano reggeva una fiala che sprigionava un potente odore di medicinali. Ma il dottor Jekyll dov’era? Come mai era sparito dal laboratorio in cui negli ultimi tempi era stato chiuso da mattina a sera, pregando il maggiordomo di lasciargli le vivande davanti alla porta? Già, non aveva voluto vedere più nessuno, e alla preoccupata, affettuosa insistenza dei suoi servitori aveva risposto con una voce stra-

na, che non sembrava la sua. A meno che con lui non ci fosse qualcuno. Qualcuno la cui presenza si era fatta insistente, diventando insopportabile; e le cui minacce si erano fatte pressanti, tanto da dover essere fronteggiate in uno scontro sanguinoso. C’era stato un duello per la vita (e per la morte) nel laboratorio di Jekyll? Ma lui, il dottore, dov’era? Robert Louis Stevenson, l’autore del celeberrimo romanzo ma si tratta, piuttosto, di un “racconto lungo”- The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll e il Signor Hyde, Mursia, 1963), offre a questo punto al lettore gli strumenti per rispondere a tutti gli interrogativi e dipanare l’aggrovigliata matassa degli eventi. Si tratta di uno scritto, a futura memoria, stilato del dottor Hastie Canyon, amico di Jekyll, e di una relazione stesa da Jekyll stesso sul misterioso caso che lo aveva visto protagonista, demiurgo e vittima. Ma già l’autore aveva seminato la storia di suggestioni, indizi e segnali che mettevano sulla strada l’incuriosito e affascinato lettore. Parliamo, è ovvio, del lettore del 1886, l’anno in cui fu pubblicato il racconto. Perché “noi” sappiamo “tutto”. Per noi,

Dal romanzo di Stevenson alla psicoanalisi di Freud via

Chi ha ucciso

di Mario Bern esperti dell’”horror” e del “perturbante”, tutti impegnati nella labirintica cerca dell’“io” e plurali dintorni. Senza la garanzia di un approdo. Ma il lettore del tardo Ottocento aveva bisogno che uno schema “positivo” venisse a soccorrerlo anche nella grande traversata dell’irrazionale e che una conclusione “logica” sbrogliasse la matassa fantastica.

Ed è in nome di questo bisogno di chiarezza, pur nella tetraggine delle nebbie londinesi dove il tutto e di più orrifico trova la sua terra d’elezione; è in nome della chiarezza, dicevamo, ma anche in quello di uno “status” alto-borghese da rivendicare, che il dottor Jekyll fa la sua confessione. Tutto ebbe inizio “quando”, “perché...”. La sensibilità etica - e mai Jekyll ha stracciato la sua co-

È un’icona stabilmente insediata nel nostro immaginario, grazie anche a molti film che, a partire dal “muto” si sono occupati dello “strano caso” del dottore e del suo doppio

Il dottor Jekyll è un classico che deve figurare in ogni buona libreria. Per noi, è un’icona stabilmente insediata nell’immaginario, grazie anche a un bel po’ di film che, a partire dal “muto”si sono occupati del dottore e del suo “doppio”: dal Jekyll di John Barrymore (1920), a quello di Friedrich March (1932), a quello di Spencer Tracy (1940).

Senza dimenticare interessanti variazioni sul tema come il film televisivo di Giorgio Albertazzi (1969), a nostro avviso tutto da rivalutare. Per noi, infine, il romanzo di Stevenson è un vastissimo campo di ricerca in cui si sono avventurati e continuano ad avventurarsi letterati e psicanalisti, sociologi e antropologi, semiologi ed

scienza - impone di partire da lontano per spiegare, per far capire: «Sono nato nel 18..., ricco, dotato inoltre di eccellenti qualità, incline per natura al lavoro, rispettoso dei saggi e dei buoni; avevo insomma, come si potrebbe supporre, ogni garanzia per un onorevole e brillante avvenire». Ma... Ma eccola l’ombra: c’era in lui una certa inclinazione al piacere e alla “duplicità di vita”, magari accompagnata da un senso di colpa ma mai veramente contrastata. C’era una “natura imperiosa” che imponeva di liberare le più segrete “aspirazioni” e che, “assai più di una particolare degradazione”, avrebbe “separato” in lui “quelle zone del bene e del male che dividono e formano la natura dualistica dell’uomo”. Due “zone”, due realtà esistenti e consistenti. Su cui riflettere. Leggiamo: «Malgrado la mia duplicità,

io non ero un ipocrita; tutti e due i miei lati erano sinceri; ero sempre io, sia quando mettevo da parte ogni riserbo e mi tuffavo nel male, sia quando alla luce del giorno lavoravo per il progresso della scienza e per il sollievo dei dolori e delle sofferenze. Ed avvenne che i miei studi mistico-scientifici gettarono una vivida luce su questa coscienza della lotta perenne tra le mie membra. Ogni giorno, spinto dalle mie forze, morali e intellettuali, io mi avvicinavo sempre più a quelle verità, la cui scoperta parziale mi ha condannato a una così orribile fine; e cioè che l’uomo non è in realtà unico, ma duplice. E dico duplice perché lo stato del mio sapere non va oltre questo punto. Altri seguiranno,


il paginone Pirandello: viaggio alla ricerca della “duplicità umana”

Mister Hyde?

nardi Guardi

altri mi sorpasseranno in questa direzione; ed io arrischio l’ipotesi che, alla fine, l’uomo verrà riconosciuto essere la risultanza di molteplici, incongrui e indipendenti individui. Per conto mio, e per la natura della mia vita, io ho fatto dei progressi in una direzione, e solamente in quella. Fu nel lato morale e nella mia stessa persona che imparai a conoscere la completa e primitiva dualità dell’uomo: io vidi che delle due nature che lottavano nel campo della mia coscienza, io appartenevo fondamentalmente a tutte e due, anche se avessi potuto giustamente dire che appartenevo o all’una o all’altra; fin da giovane, anche prima che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a convincermi della possibilità di simile miracolo, mi compiacevocome in un sogno ad occhi

Per la tradizione cristiana la persona è unica, è una e sua è tutta la responsabilità. Ma sono diverse le risposte di un’immensa schiera di esteti della cerca e del dubbio aperti- di adagiarmi nel pensiero della separazione di questi elementi. Se ciascuno, mi dicevo, potesse venire alloggiato in identità separate, la vita potrebbe essere separata da tutto ciò che ha di insopportabile, il malvagio potrebbe andarsene per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dai rimorsi del suo più probo gemello; e il buono

potrebbe percorrere calmo e sicuro il suo elevato sentiero, non più esposto all’onta per opera dell’altro malefico elemento. La maledizione del genere umano consisteva per me nel fatto che questi contrastanti elementi dovessero essere legati insieme, che, nel seno lacerato della coscienza, questi gemelli dissimili e opposti dovessero sempre lottare. Ma come dissociarli?».

Il dottor Jekyll ci riesce e quando guarda allo specchio se stesso, la sua creatura, il “doppio” che ha partorito, e cioè il «più piccolo, più magro, più giovane» Edward Hyde, sinistro, infero, sotterraneo “alter ego” con quello strano corpo caratterizzato da «un’impronta di deformità e di sfacelo»: ebbene, il galantuomo Henry Jekyll prova un oscuro orrore ma anche «un soprassalto di

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gioia». «Quell’uomo ero ancora io!»: ecco il suo il grido ebbro di potenza. Ma, come è noto, la terribile dismisura di quel secondo “io” finirà per prevalere e prevaricare, annientando il “demiurgo”, travolgendolo in una sequenza accelerata di processi autodistruttivi.

A «seguitare la storia», mettendo a fuoco la struttura dell’apparato psichico, esplorando i meandri della coscienza, scavando nei sogni e nei bisogni inconsci, dunque moltiplicando l’Io secondo le pulsioni e le suggestioni dell’Es, e il vigile controllo morale e “giudiziario” del Super-io, sarà il Novecento di Freud. Proprio agli inizi del nuovo secolo, infatti, il medico austriaco pubblica i primi studi “cruciali” di psicoanalisi. Ma ben prima che la Modernità sentenziasse: «ognuno di noi è Jekyll e Hyde», la cultura sondava negli abissi dell’animo umano, inseguendo identità molteplici e frammentate e interrogandosi su quell’“ambiguità” che è il nostro contrassegno. Ben prima che Pirandello si interrogasse sulle lacerazioni dell’uomo contemporaneo e sui sobbalzi della mente di fronte alla percezione di essere “uno, nessuno e centomila”, e dunque di “non essere”, il doppio, il sosia, l’altro avevano “abitato” il teatro da Plauto a Shakespeare. E Kafka, Musil, Gide, Camus, nelle loro orge di atti gratuiti, mostri, crudeltà e nefandezze “aliene”, attingono, consapevoli o meno, a incubi e deliri romantici, al Faust di Goethe («Vorrei darmi sull’istante, anima e corpo, al Diavolo se il Diavolo non fossi io»), alle immagini speculari e agli automi di Ernst Theodor Hoffmann, al misterioso “altro” che perseguita il protagonista nel William Wilson di Edgar Allan Poe, all’”ombra” venduta a Satana da Peter Schlemihl” nella amara fiaba di von Chamisso. E quattro anni dopo “Jekyll”, nel 1890, il Dorian Gray di Oscar Wilde racconta l’aberrazione di una duplice vita che è un duplice volto: il ritratto di una disfatta morale e fisica, a lungo occultata, fino al disvelamento. Ma se «Io è un Altro» (Rimbaud), qual è l’identità e dov’è? E dove sta la responsabilità “personale”? Il buon Jekyll è responsabile dei

delitti commessi dal perfido Hyde? O magari è addirittura lui il “mostro” (si pensi al Frankenstein di Mary Shelley: chi è più colpevole, lui o la sua creatura? e quale “autonomia” ha essa?)? La “persuasione” cristiana, sia pure con diverse motivazioni (si pensi a quel che direbbero un Agostino o un Pascal, un Manzoni o un Dostoevskij, o magari un Ratzinger), ha le sue risposte: la persona è unica, e una e sua è tutta la responsabilità. Altre le risposte, non diciamo dei rela tivisti, ma degli esteti della cerca e del dubbio, un’immensa schiera itinerante lungo tutto il secolo breve e sterminato, e più che mai ai nostri giorni.

Molti i film tratti dal romanzo di Stevenson, soprattutto quelli di John Barrymore (1920), Friedrich March (1932) e Spencer Tracy (1940). Senza dimenticare il film televisivo di Giorgio Albertazzi (1969)

Gente che è variamente affadall’Unheimliche scinata freudiano ovvero dal Perturbante, che ti parla di identità ambigue e plurime, di familiarità dissonanti, di squisiti, sottili turbamenti di fronte a un “estraneo” che ha contorni troppo domestici per non essere una tua proiezione.

Ma allora è l’Altro o l’Alterego? L’Io Plurale di Borges o la fitta rete degli eteronomi di Pessoa? Chissà. Scriveva il giovane Pound: «O strano viso nello specchio! O ribaldo compagno, ospite sacro,/ O mio folle sconvolto dal dolore,/ Che rispondi? O miriade/ Che lotti, giuochi, passi,/ Che scherzi, sfidi, imiti/ Io? Io? Io?/ E tu?».


speciale Afghanistan

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Saigon-Kabul. Riemerge il fantasma dell’ex presidente del Vietnam del Sud che gli americani appoggiarono fino alla sconfitta

La sindrome Van Thieu

Usa e Nato mandano più soldati in Afghanistan, ma il vero rischio è che anche quello di Hamid Karzai diventi un governo fantoccio di Enrico Singer consiglieri più vicini a Obama la chiamano già «la sindrome di Van Thieu». Che non è una nuova malattia scoperta da uno scienziato asiatico. I meno giovani lo ricorderanno: Nguyen Van Thieu è stato il presidente del Vietnam del Sud tra il 1967 e il 1975, gli anni duri della guerra persa dagli americani contro i vietcong e il Nord comunista del Paese guidato dal mitico Ho Chi Min. Fuggì da Saigon poco prima della caduta della capitale e si rifugiò a Taiwan per poi riparare a Boston dove, nel 2001, è morto dimenticato

I

da tutti. Oggi il suo nome torna come un fantasma. Adesso che la Casa Bianca ha deciso di spedire rinforzi in Afghanistan - e di chiederne anche agli alleati europei – la similitudine con il Vietnam si ripropone non soltanto per l’escalation militare (allora fu Lyndon Johnson, un altro presidente democratico, a deciderla), ma per la credibilità del governo che le forze impegnate sul terreno difendono, in questo caso, dai talebani. Il rischio che anche quello di Hamid Karzai si riveli un governo fantoccio, come andava di moda dire allora - a sinistra ma non solo - per definire il regime di Van Thieu e del suo fido vicepresidente Kao Ky, è diventato una specie di ossessione. La guerra si può anche vincere sul campo, ma è politicamente che si costruisce la pace e la stabilità. A Washington lo sanno benissimo, tanto che le “raccomandazioni” – o se preferite, le condizioni – poste da Barack Obama a Karzai si sprecano: combattere la corruzione, fermare il traffico della droga, aumentare la fiducia della gente nei confronti delle nuove forze di sicurezza nazionali, costruire il consenso tra le diverse componenti tribali del Paese. Altrimenti non saranno altri trentamila marines e diecimila soldati della coalizione internazionale in più a risolvere il groviglio afgano.

Hillary Clinton, ieri al consiglio della Nato a Bruxelles, lo ha detto chiaramente. Per imprimere una svolta decisiva al conflitto che si trascina da oltre otto anni ci vuole uno sforzo militare supplementare – e gli alleati della Nato, Italia

compresa, hanno già promesso settemila dei diecimila soldati in più chiesti da Washington – ma ci vuole anche una nuova strategia politica in cui è centrale il ruolo del nuovo governo afgano. È il problema di sempre. Quando si decide un intervento miltare, anche con la benedizione dell’Onu, non ci sono molte alternative. O si tratta di correre in aiuto di un Paese aggredito, e allora basta rimettere in sella le autorità legittime che erano state rovesciate – come è stato nel caso della prima guer-

Dopo il ritiro dei francesi, nel 1955, il Paese fu diviso lungo il 38° parallelo e Van Thieu si ritrovò tenente colonnello della neonata Repubblica del Vietnam del Sud. Nel 1963 partecipò al colpo di Stato che rovesciò il governo dell’allora presidente Ngo Dinh Diem, il primo alleato degli americani, e nel 1967 venne eletto a sua volta presidente sia pure con il solo 38 per cento dei consensi. In poco tempo il neo-presidente istituì la polizia segreta che perseguitò gli avversari politici, creò

Il problema-chiave è la credibilità del regime afgano. Anche se le forze della coalizione batteranno i talebani, il compito più difficile sarà realizzare la rinascita democratica del Paese ra del Golfo con il Kuwait che era stato invaso da Saddam Hussein e che tornò nelle mani dello sceicco Jaber al-Ahmed al Sabah – o si tratta di abbattere un regime che opprime il suo popolo e che rappresenta anche un pericolo per la comunità internazionale, come è stato con la seconda guerra del Golfo e la deposizione di Saddam e con l’Afghanistan dei talebani che era diventato la base operativa del terrorismo di al Qaeda. Ma in questo secondo caso non basta battere il nemico: bisogna individuare l’amico e farne l’interprete della rinascita democratica del suo Paese. È il compito più difficile e il ricordo del disastro del Vietnam pesa ancora a Washington. È vero, come ha detto Obama, che «se si cade una volta in un fiume, si sta più attenti la seconda volta»: in altre parole, che gli errori commessi servono da insegnamento e non si ripetono. Eppure, al di là delle etichette che è sin troppo facile applicare quando la storia ha già fatto il suo corso, anche Nguyen Van Thieu poteva avere le carte in regola per giocare la sua partita. Nato nel 1923, figlio di un piccolo proprietario terriero, da giovane si era unito ai Viet Minh guidati da Ho Chi Minh che combatevano per liberare il Vietnam dal colonialismo francese, ma aveva poi lasciato il movimento nel 1946 per entrare nell’esercito fedele all’imperatore Bao Dai che era schierato contro i Viet Minh.

un partito politico che egemonizzò il potere esecutivo e svuotò il Parlamento di ogni funzione e, soprattutto, piazzò nei posti chiave dell’esercito e del governo uomini a lui estremamente fedeli.

Quando Van Thieu, nel 1971, si ripresentò alle presidenziali per la rielezione – anche allora gli Usa volevano che il regime da loro appoggiato avesse una legittimazione almeno formale – la sua reputazione di tiranno corrotto suscitò la protesta degli avversari politici che cercarono di boicottare le elezioni: è tragicamente famoso l’estremo gesto di molti bonzi che si dettero la morte col fuoco in piazza. Tutto inutile. Come candidato unico,Thieu fu rieletto con un più che sospetto 94 per cento dei voti. E oggi gli storici americani sono convinti che la guerra non fu persa sul terreno dal corpo di spedizione agli ordini del generale Westmoreland – quello che ripeteva sempre di «vedere la vittoria al fondo del tunnel» - ma per il collasso del regime che, tra l’altro, aveva spaccato il Paese anche su base religiosa: Van Thieu e Kao Ky facevano parte della minoritaria élite cattolica che rifiutò di condividere il potere con la cosiddetta “terza forza” politica, ma anche militare, dei buddisti che pure erano fieramente anticomunisti. Le similitudini nascondono sempre dei tranelli e finiscono per essere approssimati-


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Il presidente sudvietnamita Nguyen Van Thieu (in divisa verde) con il suo vice, Kao Ky, che era anche comandante dell’aviazione di Saigon, in un’immagine del 1970. A sinistra Hamid Karzai e, sotto, Barack Obama e Lyndon Jonhson, il presidente Usa dell’escalation militare in Vietnam

ve. Ma ci sono dei tratti che, agli occhi dei consiglieri di Obama, avvicinano Van Thieu a Karzai. In Afghanistan le divisioni sono sono tanto religiose, quanto tribali. Il Paese – come ormai è stato detto e scritto centinaia di volte – è la somma di tre etnie principali – pashtun, tagiki, uzbeki – divise a loro volta in potentati locali. Nato a Kandahar, Karzai proviene da una famiglia pashtun dell’influente clan Popalzay, uno dei più fedeli all’ex re Zahir Shah di cui il padre di Hamid Karzai fu anche stretto collaboratore. Durante l’invasione sovietica degli Anni Ottanta, Hamid raccolse fondi in giro per il Paese per sostenere la rivolta anti-russa.

Dopo la caduta del regime fantoccio – sostenuto da Mosca questa volta – di Mohammad Najibullah, Karzai divenne viceministro degli Esteri nel primo esecutivo dei talebani moderati di Burhanuddin Rabbani. Quando i talebani più duri conquistarono Kabul, nel 1996, e al governo di Rabbani si sostituì il nuovo regime fondamentalista, Karzai rifiutò di rappresentare l’Afghanistan come ambasciatore all’Onu e, nel 1997, con gran parte della sua famiglia, si trasferì negli Stati Uniti. Il 14 giugno del 1999 suo padre fu assassinato da killer talebani a Quetta, in Pakistan, e questo delitto aumentò il suo odio per il regime che si era installato a Kabul. Nei mesi che seguirono l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, Karzai e i mujaheddin fedeli all’Allenaza del Nord si schierarono con gli Usa per combattere i talebani e, quando, nel dicembre del 2001 i politici dell’opposizione afgana in esilio si riunirono a Bonn per

trovare un accordo sul nuovo assetto istituzionale del Paese, Karzai apparve come l’uomo giusto per prendere in mano le redini del processo di democratizzazione del Paese e fu scelto per guidare il governo provvisorio formato da 29 membri. Il 19 giugno del 2002 la Loya Jirga (l’assemblea dei saggi) lo nominò presidente dell’amministrazione afghana transitoria, assistito da una doppia vicepresidenza. Hamid Karzai si candidò, poi, alle elezioni presidenziali del 9 ottobre 2004, le prime democratiche nel Paese. Nono-

stante non godesse del sostegno di tutte le etnie del Paese, riuscì a vincere in 21 delle 24 province in cui è diviso l’Afghanistan, battendo 22 altri candidati con il 55,4 per cento dei voti e divenendo, così, il primo presidente eletto della storia del Paese. Anche se i brogli non mancarono nemmeno in quell’occasione, dopo la vittoria, le aspettative erano grandi. I suoi avversari continuavano a chiamarlo «il sindaco di Kabul» per sottolineare che il suo potere – e il suo sostegno popolare - fuori dalla capitale erano fortemente

Al Dipartimento di Stato c’è chi vorrebbe mettere una “balia” al fianco del presidente pashtun per spingerlo a rispettare le condizioni di Obama: lotta alla corruzione e al traffico di droga

limitati, ma a Washington e nelle capitali degli altri Paesi impegnati nella coalizione internazionale si sperava in una possibile stabilizzazione. Dopo avere rimosso gran parte dei signori della guerra dell’Alleanza del Nord dal suo esecutivo, Karzai sembrava deciso a intraprendere quella campagna di riforme che avrebbe dovuto cambiare il volto dell’Afghanistan. Tuttavia la politica del presidente si è rivelata subito molto più cauta.

La prima delusione fu il no alla proposta americana di fermare la produzione di oppio con un metodo drastico – il “bombardamento”aereo con erbicidi chimici – cha avrebbe, comunque, lanciato un messaggio molto chiaro ai signori della guerra e agli stessi talebani che dal traffico della droga traggo-

no il loro maggiore sostegno. Karzai per spiegare il suo no addusse ragioni di difesa delle aree coltivabili. Ma molti ritengono che uno dei suoi fratelli minori, Ahmed Wali Karzai, sia direttamente implicato nel traffico internazionale di droga. Il freno alle riforme promesse è stato dimostrato anche dal licenziamento del ministro delle Finanze, che rappresentava l’ala maggiormente riformista del governo, e dalla progressiva rottura con il suo ministro degli Esteri, Abdullah Abdullah che è stato, poi, il suo avversario nelle ultime elezioni presidenziali. Proprio su Abdullah i consiglieri di Obama si sono divisi. Il caso delle dimissioni di Peter Galbraith è esemplare: il diplomatico americano – figlio del noto economista John Kenneth Galbraith – voleva che le elezioni fossero annullate per i brogli con la speranza, nemmeno tanto nascosta, di arrivare a un cambio della guardia nel palazzo presidenziale di Kabul. A Washington il partito di chi sostiene che Abdallah Abdallah sia più presentabile di Karzai comincia a prendere forza, anche se non è stato capace, per ora, di convincere Obama a mollare Karzai. Qualcosa, però, si sta muovendo e c’è chi dice che l’amministrazione americana affiancherà una “balia” – il termine è proprio quello che circola negli ambienti del Dipartimento di Stato – al presidente Karzai per controllare che metta davvero in pratica i “suggerimenti”degli Usa e degli alleati della coalizione internazionale per intrecciare l’azione politica a quella militare. Perché nessuno possa dire che anche quello di Kabul è un governo fantoccio.


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Alleati&Rivali. Washington sfodera tutte le armi (diplomatiche) a sua disposizione per ridisegnare le strategie di guerra

Hillary ringrazia l’Italia

Il Segretario Usa: «Roma alleato di ferro da anni, ha un ruolo di guida» Il ministro Frattini: «Ritiro entro il 2013, riferiremo in Parlamento» di Alvise Armellini

BRUXELLES. Di fronte alla recalcitranza di Francia e Germania, che si rifiutano di mandare più truppe in Afghanistan prima della conferenza internazionale che si terrà a Londra il 28 gennaio, l’Italia ha fatto un figurone. Mettendo a disposizione mille soldati in più nel corso del 2010 - che porteranno il contingente italiano a quota 4.000 - il nostro Paese ha lanciato il contributo più generoso al “surge” annunciato martedì dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama per dare una svolta alla lotta contro i talebani. E il segretario di Stato Usa Hillary Clinton lo ha fatto notare, ringraziando il suo collega Franco Frattini nel corso del suo intervento ieri a Bruxelles, in occasione della riunione dei 43 ministri degli Esteri dei Paesi che partecipano alla missione Isaf. «Il bisogno di truppe aggiuntive è urgente», ha sottolineato il numero uno del Dipartimento di Stato, plaudendo anche al contributo di Polonia e Gran Bretagna che hanno promesso rispettivamente seicento e cinquecento uomini in più. Per l’Italia - che già al vertice Nato di Strasburgo dello scorso aprile si era fatta notare mettendo in campo 500 dei 5.000 uomini aggiuntivi inviati per sorvegliare sulle elezioni - è una grande soddisfazione.

Anche alla luce dei tentennamenti dei mesi scorsi, quando il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era forse andato troppo in là nell’accontentare le richieste di ritiro avanzate dalla Lega. «Siamo tutti speranzosi e ansiosi - aveva detto per esempio il 17 settembre scorso a Bruxelles - di poter riportare a casa al più presto i nostri ragazzi». Ora invece si aumenta, e Frattini può gongolare affermando che la Clinton «condivide e apprezza moltissimo la decisione di aumentare le truppe in Afghanistan, ma anche la strategia politica dell’Italia», incentrata sul rafforzamento della «cooperazione civile, della ricostruzione, sulla formazione delle guardie alle frontiere, su progetti agricoli e lotta alla corruzione». Il capo della Farnesina ha anche confermato che l’Italia aumenterà il numero dei carabinieri per l’addestramento della polizia

Il Segretario di Stato Hillary Clinton ieri al vertice Nato di Bruxelles con il ministro degli Esteri britannico David Milliband afghana. «Abbiamo già schierato 60-70 carabinieri, ma siamo pronti a fare di più arrivando a 200 uomini», ha detto, aggiungendo che l’Italia pensa anche a un “surge” civile con il raddoppio del contributo al bilancio afghano per la ricostruzione e una nuova strategia della comunicazione con il potenziamento, tra l’altro, della Nato tv. Il segretario generale dell’Alleanza Anders Fogh Rasmussen, invece, pone l’enfasi sui 7mila soldati, provenienti da almeno 25 Paesi, che dovrebbero aggiungersi entro l’anno prossimo ai 30mila rinforzi già annunciate dalla Casa Bianca. «Spetterà ai Paesi dire, se lo vogliono, quale sarà il loro contributo per il 2010», ha esordito.

Ma «oltre a quello che avevamo già previsto, abbiamo indicazioni che altri alleati o partners saranno in posizione di annunciare altri contributi entro settimane o mesi» ha aggiunto l’ex premier danese, citando anche l’approvazione di una nuova strategia che punta a limitare le vittime civili. Eppure i conti ancora non tornano. Oltre alle truppe promesse da Roma, Varsavia e Londra, i

contributi più rilevanti provengono dalla Georgia (923), dalla Corea del sud (400), dalla Slovacchia (240) e dalla Spagna (200), ma il totale – secondo il computo dell’Associated Press - supera di poco la soglia delle 5.500 unità. All’appello mancano soprattutto Francia e Germania, che in Afghanistan attualmente schierano rispettivamente 3.100 e 4.365 soldati.

specialmente per la formazione della polizia». Secondo il tedesco, «dovrà esserci una sicurezza in grado di reggersi da sola con gli stessi afgani», ma soprattutto la discussione va spostata dalla «questione di quanti soldati inviamo» a quella di «una prospettiva di ritiro». Un messaggio che si ricollega all’annuncio di Obama, che ha promesso di cominciare a ri-

Oltre alle truppe promesse da Roma, Varsavia e Londra, i contributi più rilevanti provengono dalla Georgia (923), dalla Corea del sud (400), dalla Slovacchia (240) e dalla Spagna (200) «Per il momento, nessun rinforzo del nostro organico è previsto prima della conferenza di Londra», ha chiarito il capo del Quai d’Orsay Bernard Kouchner, ricordando che Parigi aveva già aumentato le proprie truppe a settembre. «Non ha senso ridurre il dibattito pubblico sul successo della missione in Afghanistan al numero di soldati e al “sì”o “no”all’invio di più truppe», ha fatto eco il neoministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle. «Siamo pronti - ha continuato - a fare di più per la ricostruzione civile,

portare a casa i marines a partire dal luglio 2011, anche se Clinton ieri ha precisato che non si tratta di una data ultimativa. «Non vuol dire che nel 2011 ci butteremo giù da un burrone; vuol dire che prenderemo tutte le precauzioni necessarie», ha indicato alla stampa. «Il ritmo, le dimensioni e l’ampiezza del ritiro dipenderanno dalla situazione sul terreno. Se le cose andranno bene, potremmo ritirare un numero maggiore di forze da un’area più vasta. Altrimenti le dimensioni e la velocità del ritiro sa-

ranno rivedute adeguatamente», ha illustrato il Segretario di Stato Usa nel suo intervento di fronte agli altri ministri.

Clinton ha accolto anche le tesi europee sul bisogno di sviluppare la parte civile dell’intervento in Afghanistan, ammettendo che «non si vince solo con i proiettili». Il ministro degli Esteri britannico David Miliband, infine, ha chiesto «ad ognuno dei governi di chiedersi se stanno facendo il massimo possibile sul fronte militare e politico» e ha lanciato la proposta di creare un forum tra i sei Paesi confinanti dell’Afghanistan - Iran, Pakistan, Cina, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan - per coinvolgerli nella stabilizzazione del Paese. Per “vincere”, ha spiegato il capo del Foreign Office, serve una “strategia politica”, basata su elementi interni - come i criteri di nomina dei governatori centrali e locali, la local governance, la riconciliazione e la reintegrazione - ed “un elemento esterno al Paese”, ovvero il coinvolgimento dei Paesi vicini. In conclusione, la Clinton ha ringraziato l’Italia «alleato di ferro» in Afghanistan, che «ha assunto un ruolo di guida».


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Il Dipartimento di Stato chiede a Pechino di usare il corridoio di Wakhan per rifornire le truppe senza passare dal Pakistan

La surge di Obama spaventa la Cina di Vincenzo Faccioli Pintozzi a decisione presa dall’amministrazione statunitense, dopo tre mesi di attesa, di una nuova strategia per il conflitto in Afghanistan rischia di creare nuove tensioni fra Washington e Pechino. La Cina, infatti, non ha mai preso parte all’aspetto militare della “guerra al terrorismo”lanciata dall’amministrazione Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Piuttosto, come il Giappone, ha annunciato l’intenzione di cooperare dal punto di vista economico allo sforzo internazionale. In pratica, sostiene finanziariamente dei progetti di sviluppo sul territorio afgano. Ora però le cose sono cambiate: i vertici militari e diplomatici di Obama hanno chiarito agli alleati, veri o presunti, che serve un nuovo e maggiore sforzo da parte di tutti per vincere una guerra che sembra infinita. Nel particolare rapporto con la Cina, gli Stati Uniti sanno di non poter ottenere soldati: ecco perché hanno chiesto al governo di Hu Jintao di aprire il breve confine che unisce il territorio cinese a quello afgano. Il “Corridoio di Wakhan”, circa settantaquattro chilometri di terra in mezzo alle montagne che costeggia l’India e sbuca nella zona dominata dai signori della guerra. Philip Crowley, del Dipartimento di Stato americano, spiega che «a differenza dell’Iraq, l’Afghanistan ha delle difficoltà collegate al difficile rifornimento delle nostre truppe. È sempre più pericoloso passare attraverso il territorio pakistano, dato che i ribelli islamici attaccano con sempre più frequenza i nostri convogli».

L

tutti i modi di trovare nuove linee di rifornimento, perché è veramente una grave preoccupazione per il nostro governo. E di questo parleremo con la Cina e con le nazioni vicine». In effetti, secondo fonti diplomatiche accreditate, la questione del corridoio è già stata affrontata nel corso dell’incontro bilaterale fra Obama e Hu Jintao.

I due, però, non si sono ancora accordati sulla questione. Il passaggio montuoso al centro del contendere ha un’importanza strategica di primo peso. Negli anni Ottanta, ad esempio, Pechino lo “prestò”al governo degli Stati Uniti e rimase a guardare mentre venivano riforniti di armi i mujaheddin islamici che combattevano contro l’occupazione dell’allora Unione Sovietica. Si tratta di una lingua di terra riparata da alte montagne ma che offre strade percorribili e che, soprattutto, costeggia l’India e non il Pakistan. Il governo cinese ha riservato alle dichiarazioni di Crowley un’accoglienza più tiepida del dovuto. Il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang ha sottolineato infatti ieri: «Il comunicato emesso dopo l’incontro fra i due presidenti parla chiaro: la Cina sostiene le attività contro il terrorismo in Afghanistan e promuove la pace regionale e la stabilità».Tuttavia, e qui c’è la vera dichiarazione, «Pechino crede nella sovranità del Paese, nella sua indipendenza e nella sua integrità nazionale, che deve essere pienamente rispettata». Quella che sembra un’affermazione di prammatica nasconde in realtà un trabocchetto diplomatico di grande entità: la Cina, infatti, non tollera la presenza straniera sul proprio territorio. In particolare quella militare, soprattutto vista la vicinanza con i ribelli - secondo Pechino - della provincia del Xinjiang.

Il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang risponde alla richiesta senza dare assicurazioni: «Vogliamo la fine del terrorismo islamico, ma rispettiamo anche Kabul»

In un’intervista al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, ripresa con grande enfasi anche dai media della Cina continentale, Crowley ha aggiunto: «Stiamo cercando in

Oggi scade il trattato per la limitazione dei vettori missilistici nucleari. Washington e Mosca si dicono pronti per nuovo accordo

Ma il nuovo Start è sulla linea di partenza di Pierre Chiartano ussia e Stati Uniti sono vicini a un accordo per la firma di un nuovo Trattato sulla riduzione delle armi nucleari strategiche. Lo ha affermato una fonte del ministero degli Esteri russo, ripresa dall’agenzia Ria Novosti. Intanto i vecchi ispettori Usa fanno le valigie. Il nuovo Trattato è destinato a sostituire lo Start 1, firmato da Mosca e Washington nel 1991 e che scade oggi. Nella nota diffusa, ieri mattina, il ministero degli Esteri russo fa un bilancio molto positivo dell’applicazione dello Start 1, che ha avuto un «ruolo estremamente importante per garantire la pace, la sicurezza e la stabilità strategica internazionale». Il Trattato che scade il 5 dicembre, aggiunge il ministero, «ha notevolmente rafforzato il regime di non proliferazione nucleare e ha dato un impulso sostanziale al processo di disarmo». «La Federazione russa e gli Usa – aggiunge il comunicato di Mosca – hanno assolto in pieno i propri impegni assunti

R

con la firma dello Start 1».«Dalla fine della Guerra Fredda, precisa il ministero degli Esteri, la Russia ha ridotto di più di due volte il numero delle testate nucleari strategiche in suo possesso, eliminando al tempo stesso oltre 3 mila missili balistici intercontinentali e missili balistici a bordo di sommergibili nucleari, nonché

circa 1.500 rampe di lancio, più di 45 sottomarini atomici e più di 65 bombardieri pesanti». Sottolineando il contributo determinate dato da Ucraina, Bielorussia e Kazakhstan all’attuazione dello Start 1, il ministero degli esteri afferma che «sulla base delle indicazioni date dai presidenti russo e americano, i due Paesi sono vicini alla conclusione di un intenso lavoro per la messa a punto e la firma di un nuovo accordo bilaterale sull’ulteriore riduzione sugli arsenali nucleari strategici». «Il futuro Trattato – osserva la nota che non fornisce alcuna data sulla sua firma – è destinato a segnare una nuova tappa fondamentale a favore del disarmo e della non proliferazione nucleare».

Il Cremlino ha già eliminato oltre 3mila missili intercontinentali e a bordo di sommergibili nucleari, 1.500 rampe di lancio, 45 sottomarini atomici e oltre 65 bombardieri

La Federazione russa – conclude il ministero – ha invitato tutti i Paesi e in primo luogo quelli in possesso di armi nucleari a unirsi agli sforzi intrapresi dalla Russia insieme agli Usa nel campo del disarmo, e a dare a questa causa un attivo contributo. E dopo più di 20 anni, gli ispettori statunitensi hanno quasi tut-

ti lasciato l’impianto d’assembleaggio dei missili strategici Topol-M e Bulava di Votkinsk, in Russia. Ne ha dato notizia, ieri, l’agenzia di stampa Interfax.

«Gran parte degli ispettori Usa hanno lasciato l’impianto e coloro che rimangono dovrebbero andar via prima della fine della settimana, dopo che avranno completamente smontato il loro equipaggiamento», ha spiegato una fonte. Gli ispettori erano arrivati in Russia il primo luglio 1988, in osservanza del Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf). Poi, in anni recenti, la loro attività è continuata nella cornice del Trattato sula riduzione delle armi strategiche di teatro (Start). Secondo la fonte richiamata da Interfax, la partenza degli ispettori è definitiva, perché «il nuovo trattato sulle armi strategiche dovrebbe prevedere un differente e meno costoso meccanismo di verifica, invece dell’attuale procedura sofisticata e a più livelli». Nell’impianto di Votkinsk vengono assemblati i missili intercontinentali di nuova generazione Topol-M, i missili Rs24 Satan a testata multipla Mirv e nuovi missili navali strategici Bulava.


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Doccia fredda. Lo scandalo “Cimategate” dietro il ripensamento del premio Nobel. Alla vigilia del vertice si riducono le già fragili speranze di un’intesa

Il gran rifiuto di Al Gore Il guru dell’ambiente cancella all’improvviso il suo intervento E dà il colpo di grazia alla conferenza sul clima di Copenhagen di Guglielmo Malagodi l Gore non andrà a Copenhagen. L’annuncio è arrivato, a sorpresa, ieri, ed è piombato come un macigno sulle già fragili speranze di un qualche successo della conferenza dell’Onu sul clima che si aprirà lunedì. Il guru mondiale della lotta al global warming - che sul tema dei cambiamenti climatici si è guadagnato un Nobel e un Oscar ha motivato il suo gran rifiuto con la scusa di «nuovi impegni sopraggiunti» che ha lasciato di stucco il Berlingske Tidende, il gruppo editoriale danese che aveva organizzato una cena di gala per tremila persone (a più di mille dollari a biglietto) durante la quale l’ex vicepresidente americano avrebbe dovuto presentare il suo nuovo libro La nostra scelta - il prossimo 16 dicembre, proprio nel giorno in cui la conferenza dell’Onu entrerà nella sua fase operativa a livello ministeriale dopo gl’interventi dei leader che cominceranno la prossima settimana. Ma non è difficile collegare il passo indietro di Al Gore a quello che è stato già ribattezzato il Climategate: lo scandalo dei dati falsi o gonfiati sui cambiamenti climatici esploso con le dimissioni di Phil Jones, il climatologo della Climatic Re-

A

ROMA. Il governo italiano dovrebbe impegnarsi e portare al tavolo dell’incontro internazionale sui cambiamenti climatici cinque proposte, in modo da far diventare l’Italia uno dei protagonisti del vertice e del nuovo corso mondiale sull’ambiente. Sono le conclusioni presentate ieri dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e il Kyoto Club proprio nella capitale italiana, che dovrebbe puntare ad arrivare al varo di un nuovo trattato sul clima. Le proposte prevedono l’assenza di ulteriori rinvii e la definizione di un Trattato legalmente vincolante; una riduzione delle emissioni di gas serra del 30 per cento entro il 2020 (rispetto al 1990) per i Paesi più industrializzati; impegni di riduzione minori anche da parte dei Paesi di nuo-

search Unit dell’Università britannica dell’East Anglia. Anche su questi dati, trasmessi da Phil Jones a ricercatori americani, Al Gore aveva basato il suo libro Una verità scomoda dal quale è stato poi tratto il filmdocumentario che gli ha fruttato l’Oscar nel 2007. L’imbarazzo di Al Gore è comprensibile - negli Usa c’è anche chi ha proposto che gli venga ritirato il premio -

Il ministro indiano dell’Ambiente anticipa che il suo Paese non firmerà impegni vincolanti, ma riduzioni «su base volontaria» ma l’annullamento del suo intervento a Copenhagen va al di là delle polemiche personali e getta una nuova ombra sulla conferenza stessa.

Altra benzina sul fuoco, insomma. Perché alla viglia dell’incongtro internazionale aumentano i dubbi sui risulati concreti che potranno uscire da quella che era stata annunciata come la pietra miliare del dopo-Kyoto. Se saranno confer-

mate le offerte di riduzione dei gas serra preannunciate dai maggiori inquinatori mondiali dell’atmosfera - Stati Uniti, Cina e India - allora vorrà dire che, al di là delle buone intenzioni politiche, in pratica le emissioni globali continueranno a salire. E continuerà - anzi, si accrescerà - la divaricazione fra l’Europa che punta a riduzioni vincolanti e il resto del mondo che offre soltanto un rallentamento basato su azioni volontarie. Il 17 per cento di riduzione delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 2005, prospettato da Barack Obama come traguardo da raggiungere nel 2020, è ben poco se confrontato con l’8 per cento di riduzione sotto i livelli del 1990 (che erano molto più bassi di quelli del 2005) da realizzare entro il 2012, cui attualmente è vincolata l’Europa. Obama parlerà a Copenhagen dove sarà già il prossimo mercoldì 9 dicembre - sulla strada per Oslo dove riceverà il premio Nobel per la pace che gli è stato appena attribuito - ed è verosimile che rinnoverà l’impegno ripetuto anche nella sua recente visita a Pechino. Proprio la Cina è l’altro grande inquinatore che rischia di deludere le aspettative della conferenza. Pechino ha

L’ex vice presidente americano Al Gore, sconfitto da George Bush alle elezioni del 2004, ha vinto il premio Nobel per il suo impegno a favore del clima. In basso, Emma Bonino

già fatto sapere che si opporrà a uno dei punti-chiave che sono sul tappeto: la fissazione di tetti di riduzione delle emissioni di gas serra.

Anche l’India ha annunciato che non accetterà alcuna «norma coercitiva» dal vertice di Copenhagen, né accetterà la definizione di un anno-picco per le emissioni di gas serra. Il ministro dell’Ambiente, Jairam Ramesh,ha fatto sapere che sarà lui a guidare la delegazione indiana: il premier Manmohan Singh resterà in India e sarà, così, l’unico leader mondiale a non partecipare alla conferenza. Un segnale preci-

so. Ramesh ha anticipato che il suo Paese si «opporrà categoricamente» a ogni tipo di accordo che preveda misure coercitive sulle emissioni. Il rifiuto riguarderà anche il cosiddetto anno-picco: cioè l’annuncio da parte dei Paesi in via di sviluppo dell’anno che considerano il picco massimo per le loro emissioni. «Non firmeremo alcun impegno di questo genere», ha detto ieri il ministro dell’Ambiente secondo il quale, se il vertice si chiuderà con un accordo globale, l’India potrà anche «fare di più, ma sempre su una base volontaria». Le premesse di un’intesa, a questo punto, sono molto scarse.Tanto

Un trattato vincolante e l’impegno a ridurre le emissioni anche da parte dei Paesi meno sviluppati

Roma porta al tavolo cinque proposte di Gaia Miani va industrializzazione, in particolare della Cina; meccanismi di cooperazione internazionale per le misure di adattamento, per il trasferimento tecnologico e il sostegno dei Paesi in via di sviluppo; efficaci sistemi di controlli e sanzioni. «Per mantenere l’aumento della temperatura entro i due gradi - ha osservato il Presidente della Fondazione, Edo Ronchi - non si dovrebbero emettere in atmosfera dal 2000 al 2050 più di 1.000 gigatonnellate di Co2. Ne abbiamo già emesse 313 e ce ne restano

687. Per rispettare questo budget, la ripartizione della riduzione delle emissioni al 2020 dovrebbe essere questa: -30 per cento di Co2 per i Paesi industrializzati; -25 per la Russia, -2 per la Cina, mentre l’India potrebbe aumentarle del 60 per cento. Si tratta di una grande sfida ed è quindi necessario un nuovo trattato che coinvolga tutta la comunità internazionale».

L’Italia, complici la crisi economica e le politiche per il risparmio energetico e lo svi-

luppo delle energie rinnovabili, ha visto dal 2005 le emissioni di gas serra in costante diminuzione ed è quindi vicina a centrare l’obiettivo di Kyoto. Sul ruolo dell’Italia e sul piano d’azione che il nostro Paese dovrebbe mette in campo per centrare gli obiettivi di Kyoto e contribuire così alla lotta contro i cambiamenti climatici, è intervenuta il vicepresidente del Senato Emma Bonino che indica per due principali direttrici su cui puntare: l’efficienza energetica e la crescita della popolazione. «Il no-


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Soltanto il 35 per cento degli americani lo ritiene “un problema serio”

E gli Usa non credono più al riscaldamento globale Per la prima volta gli scettici superano gli allarmisti Mentre l’Europa si divide sull’utilità del summit di Massimo Fazzi a popolazione degli Stati Uniti, fino ad oggi in prima linea nella lotta – ideologica e formale – ai cambiamenti climatici, ha cambiato drasticamente idea sulla gravità della situazione. Anche se il 65 per cento degli americani considera ancora la situazione del clima “un problema”, soltanto il 35 lo ritiene “serio”. Un calo drastico rispetto al 44 per cento registrato lo scorso aprile e una picchiata in confronto al 70 dell’anno scorso. Lo riporta un sondaggio del Pew Forum, l’istituto statistico più accreditato d’America. Fra i dati registrati nel corso dell’intervista fa capolino anche un poderoso 17 per cento che non ritiene problematico il cambiamento climatico. Inoltre, e questo è forse il dato più rilevante, la maggioranza degli interpellati non ritiene che il riscaldamento climatico – che considerano ancora “tutto da provare”– sia conseguenza diretta dell’attività umana: questo modo di pensare cambia drasticamente le soluzioni da approntare alla situazione. Nello specifico, combatte frontalmente l’idea che siano le emissioni di carbonio nell’atmosfera le colpevoli della situazione. Soltanto il 36 per cento punta il dito contro l’uomo, contro il 47 di aprile. Inoltre, il 33 per cento non crede proprio che sia in corso un aumento delle temperature del pianeta. Ovviamente, il Climategate in corso negli Stati Uniti ha dato il colpo di grazia a quello che già da tempo era uno degli argomenti più dibattuti del Paese. Due settimane fa, infatti, un hacker ha diffuso online centinaia di email del Centro ricerche sul clima dell’Università dell’East Anglia (Regno Unito). Il contenuto è inquietante, dato che i ricercatori si scambiano trucchi per modificare i dati sul cambiamento climatico, fanno lobby per zittire gli scettici e arrivano a esultare alla morte di uno degli avversari. Inoltre, si accordano per cancellare i dati modificati quando uno scienziato li chiede per elaborare grafici. Nello scambio di posta elettronica, gli scienziati e ricercatori si accorderebbero soprattutto per mettere in risalto e allo stesso tempo nascondere determinate informazioni. I dati sulle temperature sarebbero stati ingigantiti, mentre erano posti in secondo piano quelli che confermavano la “naturale” parabola e l’andamento del clima. Vengono riportati nomi e cognomi: Phil Jones del Climatic Research Unit dice: «Abbiamo usato il trucchetto di Mann per nascondere l’abbassamento delle temperature dal 1981 a oggi». Risponde Kevin Trenberth di Ncar:

L

che uno degli scienziati che oltre vent’anni fa lanciarono per primi l’allarme sui pericoli dei cambiamenti climatici ha dichiarato che «per il pianeta e per le generazioni future sarebbe meglio che il vertice di Copenhagen fallisse». In due interviste al Guardian e al Times, James Hansen, direttore del Nasa Goddard Institute for Space Studies di New York, ha detto che boicotterà la conferenza perché la logica alla base dei negoziati «è fondamentalmente sbagliata». Hansen con i suoi interventi dinanzi al Congresso Usa ha contribuito forse più di ogni altro scienziato ad allertare la classe politica sui

stro Paese è all’avanguardia nelle tecnologie legate all’efficienza energetica. Un settore che dà molti posti di lavoro e tanti ancora ne può dare e che mira ad offrire gli stessi servizi ma con un livello di consumo inferiore», ha spiegato.

Per quanto riguarda la popolazione mondiale, il vicepresidente del Senato ha sottolineato l’urgenza di trovare almeno un accordo politico a Copenhagen sulla roadmap da attuare per la riduzione delle emissioni, visto che secondo le stime gli «abitanti del pianeta passeranno in pochi anni da 6 a 9 miliardi, il che vuol dire maggiori emissioni». Certo, se i cinque punti venissero adottati dal governo e presentati come la linea ufficiale dell’Italia al summit sa-

pericoli dell’effetto serra, ma adesso è fortemente contrario al mercato delle emissioni di anidride carbonica che permette ai diversi Paesi di comprare e vendere i permessi per emettere gas nocivi. Secondo lo studioso «né l’Unione europea, né Barack Obama e Al Gore hanno capito che per risolvere il problema dei cambiamenti climatici è necessario rifiutare qualsiasi compromesso». Perché questo problema è «analogo a quello affrontato da Abraham Lincoln con lo schiavismo: non si può dire riduciamo la schiavitù del 50 o del 40% per cento. Il problema è davvero globale».

rebbe una presa di posizione molto forte. Infatti, i giganti dello sviluppo economico mondiale - Stati Uniti e Cina puntano a riduzioni minori per i Paesi industrializzati e un sostanziale distacco di quelli in via di sviluppo. Cercare di ottenere di più, addirittura utilizzando un trattato politicamente vincolante a livello internazionale, potrebbe seppellire ancora di più le speranze di chi vede in Copenhagen un appuntamento risolutivo per l’inquinamento mondiale. Ora la speranza per i pragmatici è che nell’incontro - che si apre il prossimo lunedì - si possa quanto meno raggiungere un’intesa di massima sui livelli almeno da non superare di emissioni di Co2 nell’atmosfera, un target raggiungibile con un accordo minimo.

«Non possiamo spiegare il non riscaldamento degli ultimi anni, è una bugia che non possiamo permetterci». La Prava, che per prima riporta lo scandalo, commenta: «Il global warming non esiste, è un fenomeno creato da zero censurando e disinformando. È operato da ricercatori disonesti, da governi e aziende che corrompono gli organi scientifici».

E non c’è da stupirsi se il governo di Mosca ha dichiarato che parteciperà «soltanto per cortesia» all’incontro danese. Sulla questione si è spaccata in due l’intera opinione pubblica degli Stati Uniti: a fronte di una campagna stampa feroce, i ricercatori nel mirino si sono licenziati o hanno lasciato temporaneamente il proprio posto. E ieri Al Gore, l’araldo della lotta ai cambiamenti climatici (non coinvolto nelle mail ma molto vicino al Centro di ricerca) ha annunciato che non parteciperà all’incontro di Copenhagen. Tuttavia, il Vec-

I cittadini del Vecchio Continente sono invece convinti della crisi in corso. Complice anche la poca pubblicità data allo scandalo dei dati truccati, chiedono al mondo una risposta

chio Continente sembra pensarla in maniera diversa: un sondaggio preparato dall’Eurobarometro – l’istituto che tiene sotto controllo la popolazione dei ventisette Stati membri dell’Unione europea - riporta infatti che per gli europei la questione climatica è “seria” e bisogna rispondervi “in maniera adeguata”. I dati dimostrano l’abisso fra i due lati dell’Oceano: nove europei su dieci definiscono il riscaldamento globale “un problema serio”; il 63 per cento degli intervistati arriva a dire che questa è una questione “molto seria”, mentre il 24 per cento lo definisce “la vera sfida dell’umanità”. Soltanto il 10 per cento non crede alla serietà del problema. Il Climategate sembra non aver colpito i cittadini dell’Unione europea. Complice anche una stampa meno interessata allo scandalo, e che di conseguenza non ne ha dato il risalto avuto invece in America, soltanto un terzo della popolazione del Vecchio Continente pensa che i dati relativi al riscaldamento globale siano stati esagerati. Nella classifica di Eurobarometro, soltanto la povertà viene definita una preoccupazione “peggiore” di quella relativa al clima.


cultura

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Archeologia. Storia, ruolo e significati delle Mura Megalitiche del Lazio nel “IV Seminario Internazionale” del comune di Alatri

A spasso fra i Ciclopi di Lucia Colafranceschi

he il Lazio fosse una terra ricca dal punto di vista archeologico è una realtà inconfutabile: vi sorse l’Impero millenario di Roma, vissero nelle sue distese territoriali i popoli latini ed etruschi, ma le tracce della civiltà e dei suoi connotati più tradizionali risalgono a molto tempo prima, in un abisso storico di cui si perdono addirittura i riferimenti. Sono tante le località che ospitano tutt’oggi frammenti di storia antica e di civiltà tramontate e fra queste una grande percentuale è presente proprio nella pianura pontina, in provincia di Latina, con epicentro sul promontorio del Circeo, ma anche in territorio ciociaro, ad Anagni, Fontana Liri, Castro dei Volsci, Arce e Ceprano (in quest’ultima è da citare il rinvenimento di frammenti di una teca cranica umana di circa 800mila anni fa).

C

Molti degli oggetti che storici e archeologici nello specifico hanno rinvenuto nelle terre laziali in anni e anni di studio e ricerche sono stati attribuiti all’età del paleolitico inferiore, la fase più arcaica della pietra. Da ricerche effettuate è venuto fuori che nelle province di Frosinone e Latina si troverebbe la documentazione più interessante per gli specialisti delle culture dei ciottoli scheggiati dell’antica età della pietra: in queste aree infatti negli ultimi decenni sarebbero state registrate le più clamorose scoperte di ossa e reperti che attestano l’insediamento della popolazione più antica del Lazio. Ciò che oggi più di tutto incuriosisce è come l’archeologia, la scienza cioè che studia le civiltà e le culture umane del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante, possa essere entrata in simbiosi con l’astronomia, dando vita a uno studio interdisciplinare che può in un certo senso restituire a quella che molti storici defini-

con il professor Giuliano Romano di Padova. E come in più di un’occasione ha fatto notare Mario Giannitrapani, studioso di Preistoria, autore de Il sacro arcaico (Simmetria edizioni), una ricerca sulle radici delle più antiche religioni d’Europa e d’Italia «occorre focalizzare l’attenzione sul panorama generale del mondo dei megaliti e della grande diffusione policentrica di questo fenomeno».

«È interessante - cita l’autore - la necessità di opporre all’esasperato razionalismo che tutto omologa e conforma, e con esso l’uso esclusivo e intollerante dell’archeologia, l’interdiscipli-

del Politecnico di Milano in merito allo spigolo nordest dell’Acropoli, dove si trova il leone in pietra medievale spiegando le proprie ipotesi in merito a una presunta «pianificazione del territorio ciociaro, tramite l’erezione di fortificazioni in opera poligonale da antiche popolazioni, collegata ad allineamenti astronomici».

quasi ottanta studiosi presenti, tra archeologi stranieri, funzionari delle Soprintendenze per il Lazio e la Toscana, architetti, ri-

astronomia, autore di numerose pubblicazioni, filmato nella cornice “stellare” dell’Osservatorio Astronomico di Campo Catino. Tutte queste ricerche sembrano trovare conferma nella scoperta di un simbolo della “Triplice Cinta” sul “Pizzo Pizzale” che sarebbe stato utilizzato come “cronografo solare”. Insomma storia, arte e cultura che si intrecciano in una sinergia di scoperte che mai avranno fine ma che anzi verranno prese come punto di riferimento e guida per i tanti appassionati. Anche le istituzioni presenti sul territorio ciociaro, a cominciare dall’amministrazione provinciale e nello specifico dall’assessore al Turismo Massimo Ruspandini, dovranno puntare l’attenzione sulle ricchezze che il territorio cela e conserva. «Gli studi e le ricerche sulle mura megalitiche rappresentano una nostra priorità nel piano di sviluppo del turismo della Ciociaria» ha assicurato Ruspandini. Non serve più tuffarsi nel complesso megalitico di Stonehenge nella pianura di Salisbury, in Gran Bretagna: il Lazio e la Ciociara offrono pari opportunità di studio e di crescita culturale e umana.

Come spiega lo studioso romano Mario Giannitrapani, autore del libro “Il sacro arcaico”, le diverse costruzioni presenti lungo il territorio non sarebbero state create a caso ma avrebbero dei precisi riferimenti ancestrali

narietà nel lavoro di ricerca, che deve essere perciò segnato da un certo moderato irrazionalismo e un certo spontaneismo nell’individuazione e nell’interpretazione di aspetti storici». Lo studioso romano insomma punta l’attenzione su un fenomeno che sta crescendo scono «scienza ausiliaria della storia» l’interpretazione della vita umana. Diversi sono stati i convegni svoltisi anche nella Capitale sugli aspetti dell’archeo-astronomia, il cui padre fondatore viene identificato

a macchia d’olio, catturando l’attenzione non solo di gente del settore ma anche di semplici appassionati: i fenomeni celesti potrebbero avere avuto un riflesso diretto sulle vicende terrestri. In parole semplici le costruzioni presenti sul territorio non sarebbero state create a caso ma avrebbero dei precisi riferimenti ancestrali (come recentemente narrato, rispetto anche alla fondazione di Roma, da Alessandro Giuli sul quotidiano Il Foglio nell’articolo “Il ritorno del fuoco sacro in Occidente”). Nello studio interdisciplinare acquisiscono perciò grande importanza le mura megalitiche, la loro storia, il

In questa pagina, alcune immagini delle Mura Ciclopiche presenti lungo il territorio laziale, in particolar modo nelle province di Frosine e di Latina. Di recente, a Palazzo Conti Gentili di Alatri, si è svolto il “Seminario internazionale di Studi sulle Mura poligonali”, giunto ormai alla sua IV edizione

loro ruolo, la loro forma e i loro profondi significati. Il Lazio, la Ciociaria nello specifico, è una terra disseminata di mura ciclopiche. E proprio nel corso dell’ormai consueto appuntamento con il “Seminario internazionale di Studi sulle Mura poligonali”, giunto quest’anno alla quarta edizione, svoltosi nel suggestivo Palazzo Conti Gentili ad Alatri, è stata focalizzata l’attenzione sulle peculiarità e sulle individuali ricchezze che le mura presenti sul territorio conservano.

È stata l’occasione ideale per convogliare in un incontro tutti i risultati scientifici ottenuti dagli interventi dei

cercatori e divulgatori, che si sono confrontati sulla complessa tematica delle mura poligonali. La storia delle mura megalitiche di Alatri ha suscitato l’interesse anche degli autori del programma di Rai Due Voyager di Roberto Giacobbo.

Sulla città dalle misteriose mura megalitiche, tra le meglio conservate in tutta l’Italia centrale, sulle costruzioni imponenti, soprattutto la famosa Acropoli, che sembrano sfidare il tempo e la scienza degli uomini, si sono fermati i riflettori della troupe televisiva che ha filmato le bellezze monumentali ed archeologiche, le opere d’arte e soprattutto i tanti enigmi che la caratterizzano. Ampio spazio hanno avuto in un’intervista il dottor Giorgio Copiz e l’ingegner Giulio Magli

Studi che hanno trovato vasta eco sulla stampa specialistica. Altro protagonista e relatore del “IV Seminario Internazionale sulle Mura Poligonali”, come dicevamo, è stato il professor Giulio Magli del Politecnico di Milano, che da anni studia le acropoli megalitiche dal punto di vista dell’Archeo-


sport

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er lei i pc delle Olimpiadi di Montreal andarono in tilt. Poveretti, nei concorsi di ginnastica non erano tarati per il 10 pieno, si fermavano al 9,99. Ma quando Comaneci Nadia Elena da Onesti, Romania, classe 1961, scese dalla trave nella finale del concorso di specialità, si attese un attimo prima della proclamazione: “10”. Correva il 18 luglio 1976. La sua stella brillò allora in terra canadese con tre ori un argento e un bronzo e un carattere forte e volitivo che la condusse a divenire probabilmente la più grande ginnasta di tutti i tempi. Quel punteggio, il massimo dei massimi possibili, l’avrebbe strappato ancora sei volte nella sua carriera.

P

Tornata in patria dopo Montreal, diviene la più giovane cittadina del suo paese a essere insignita della medaglia d’oro di Eroe del Partito Socialista, mentre la CBS sbarca ad Onesti per girare un programma speciale di un’ora che diventerà un successo nel prime time della rete televisiva americana. Il Conducator Ceausescu aveva bisogno come il pane di una faccia pulita, giovanile, e vincente come la sua per il regime. Nadia era abbagliata dai lustrini di corte, accettò le attenzioni di Nico, potente figlio del dittatore, ma aveva appena 15 anni, non poteva capire ancora, l’avrebbe capito più tardi. Invece si era capito subito dove volesse arrivare quella bambina dal corpo esile, rapida e leggiadra. I suoi futuri allenatori, Marta e Bela Karolyi, intuirono subito che Nadia avrebbe dato tutto per la ginnastica quando, durante una ricerca di talenti in una scuola, molte bambine alzarono la mano per manifestare il proprio amore per questo sport. Ma Nadia saltò anche in piedi urlando «io! io!». L’urlo si ripeté diverse volte, almeno tante quanti son stati i suoi allori. Dentro di lei cresceva l’insofferenza la regime. La corte del Conducator ormai non la frequentava più, anzi. Nonostante gli onori, i banchetti e la celebrità Nadia si sente abbandonata, ingrassa e tenta il suicidio bevendo della candeggina. I risultati agonistici però sembrano miracolo-

Fantasisti. L’atleta romena inventa una bambola a sua immagine e somiglianza

Nadia Comaneci, la «Barbie dell’Est» di Francesco Napoli samente non risentirne, poiché già agli Europei del 1977 a Praga è sempre protagonista nonostante la squalifica del team romeno per aver abbandonato la competizione in segno di protesta verso i giudici la costringa a restituire l’oro vinto alla trave. Le rimangono comunque altri due ori e un argento. Un anno prima delle Olimpiadi moscovite del 1980 ebbe una noiosa infezione al polso, sembrava compromessa la sua presenza nella capitale sovietica ma ai tempi del socialismo reale, e ancor più nella sua Romania, era un punto d’onore portare sul palo più alto del pennone la propria bandiera. E lei riuscì a farlo altre due volte, oltre non sarebbe anda-

ti i paesi dell’Est europeo e nello stesso novembre 1989 la Comaneci riesce a raggiungere rocambolescamente, d’acrobata quale in fondo lei sapeva essere, passando un confine con la stessa bravura con la quale aveva avuto quel “10” anni prima, in Ungheria e di là l’Ambasciata degli Stati Uniti a Vienna dalla quale ottiene subito asilo politico. Ma c’è ancora un uomo misterioso in questo passaggio che avviene grazie all’aiuto di Constantin Panait, il quale riesce a estorcergli danaro e forse anche altro prima che Nadia riesca a liberarsene e stabilirsi in Canada con un rugbista romeno - morto purtroppo annegato non molto tempo dopo - e la moglie. Si sposa con un collega americano, Bart Conner e diviene mamma.

ta, danzando così tra corpo libero e trave il suo canto del cigno. Si ritirò, non aveva più l’età e forse la voglia per contiLa chiamano all’Onu, la prinuare. Ormai non più atleta ma atleta a varcare le porte del bambina, Nadia lascia la scena Palazzo di Vetro, per lanciare olimpica a Mosca nel 1980 - per l’Anno internazionale dei vogradire - con due ori e due arlontari e in lei scatta qualcosa. genti. Il 1981 paga l’ultimo deSi alza e non grida più «io, io» bito verso la sua nazione: con ma comincia a vedere oltre se cinque ori alle Universiadi testessa: è tornata pronutesi a Bucarest può fiprio in questi giorni nalmente dire basta e nella sua Bucarest e doannunciare il suo ritiro menica, nel più grande ufficiale a 22 anni. Abdella supermercato bandonò per allenare città, lancerà la “Bamgiovani ginnasti del suo bola Nadia”, la migliore paese. Gli anni successialternativa alla Barbie. vi di Nadia sono piuttoIl ricavato sarà devolusto turbolenti, e ruotano to a sostenere l’allenaintorno all’ingombrante mento di un gruppo di figura di Nico, il figlio del 12 piccoli ginnasti, in dittatore Nicolae Ceauetà tra 7 e i 10 anni. Il sescu. Inizialmente l’aprogetto era stato tleta ha accettato le atpreannunciato l’anno tenzioni e i privilegi del scorso dalla sua Fondaregime, nonché quelle zione intitolata a suo personali del viziato nome. «Lanciare questa rampollo del Conducator bambola è per me un romeno. Fatto sta che onore e sono felice di queste cominciano a dipoter offrire un regalo a ventare insostenibili. Poi tutti quanti amano lo ecco qualcosa che nessusport e la ginnastica rono poteva immaginare: Alcune immagini dell’atleta Nadia Comaneci. mena», ha detto Comala caduta del Muro di La romena torna sotto i riflettori per il lancio neci Nadia per meritarBerlino apre un varco di una bambola a sua immagine e somiglianza si ancora un altro 10. verso l’occidente per tut-

L’intero ricavo delle vendite del giocattolo andrà in beneficenza per aiutare le piccole ginnaste sue connazionali dai 7 ai 10 anni


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The Moscow Times” del 04/11/09

Il carniere di Dmitry di Maria Antonova l terzo viaggio in terra italiana del presidente Dmitry Medvedev ha prodotto dei buoni risultati da un punto di vista economico. Oltre all’incontro politico col premier italiano e la visita in vaticano, il presidente può dirsi soddisfatto di ciò che ha raccolto in questo grand tour italiano. Nel carniere russo al rientro ci sono 19 accordi siglati nel meeting di Roma. Un risultato che completa i buoni risultati raggiunti da dal premiere Vladimir Putin nella recente visita in Francia.

I

Una collaborazione tra Russia e Italia che spazia dal settore della cultura, dei trasporti e della scuola e quello delle energie alternative, dell’agricoltura e dell’industria aerospaziale. La Pirelli e Russian Technologies hanno perfezionato l’accordo per l’apertura di una fabbrica di pneumatici nella regione di Samara, dove ha sede il gigante dell’auto Autovaz (che sta attraversando una crisi molto forte, con un piano di tagli all’occupazione notevole. Addirittura il partito Russia Unita ha selezionato al suo interno un team di manager che dovrà affiancare quelli di Autovaz nel tentativo di salvare l’azienda vicina alla bancarotta, ndr). Una partnership al 50 per cento che prevede l’individuazione di un impianto industriale già esistente da convertire o trasformare, nella seconda metà del 2010. Dovrà produrre 4 milioni di copertoni all’anno e il progetto dovrebbe impegnare un investimento complessivo di 300 milioni di euro (Pirelli, ieri, ha pagato subito con una perdita del 2,51 per cento – a metà pomeriggio – alla Borsa di Milano, dopo l’annuncio dell’ulteriore perfezionamento dell’accordo, ndr). Tra gli altri accordi, da segnalare anche quello

tra Eni, Gazprom ed Edf che porterà i francesi nel gruppo azionario del gasdotto South Stream. Nei prossimi tre mesi verrà firmato un documento. Berlusconi ha garantito che South Stream non sarà in competizione con l’altra linea che rifornirà di gas l’Europa, il gasdotto Nabucco. «Festeggeremo il 40esimo anniversario dell’avvio delle forniture russe di gas verso italia’», ha sottolineato Medvedev e l’intesa firmata ieri «è l’inizio di un programma di vasta scala che assicurerà la stabilità energetica». Il Ceo di Gazprom Alexei Miller ha affermato telegraficamente che la quota di Edf potrebbe essere «del 10 per cento o più». Aeroflot e Alitalia collaboreranno per aumentare il numero dei collegamenti tra i due Paesi. Il ministro dei Trasporti, Igor Levitin ha anche aggiunto che «noi siamo interessati anche a sviluppare nuovi collegamenti con l’Africa, che dovrebbe avvenire attraverso l’Italia.

ca «1,4 miliardi di euro dei 2 miliardi necessari per completare il progetto, compresi i sistemi per l’abbattimento dei gas nocivi», ha spiegato il presidente di Veb, Vladimir Dmitriyev. (Ricordiamo che secondo i quotidiani russi Kommersant e Vedemosti del 4 dicembre, l’istituto rischia di chiudere i battenti, se il governo non coprirà un buco da 350 miliardi di rubli – circa 8 miliardi di euro – e una cifra cinque volte superiore di garanzie finanziarie per riprende la piena operatività, ndr). La Sace garantirà la copertura assicurativa per l’impresa italiana.

Mentre Alitalia vorrebbe incrementare i voli in Sudest asiatico attraverso la Russia». «Il gruppo MaireTecnimont costruirà un grande impianto per il gigante petrolchimico Sibur, per la produzione di polipropilene che soddisferà il 40 per cento del fabbisogno russo. Rammentiamo che il gruppo italiano già opera a livello internazionale in Asia, Africa e Sud America. La VneshEkonomBank fornirà cir-

Il consolidamento della petrolchimica e la sua modernizzazione è anche uno dei principali obiettivi della politica di Putin che considera il settore troppo frammentato e con infrastrutture inadeguate. Infatti il maggiore sviluppo nell’estrazione di gas e petrolio è previsto nell’area siberiana, mentre gli impianti sono quasi tutti concentrati nella parte europea del Paese.

L’IMMAGINE

Più detrazioni fiscali per le spese veterinarie, un aiuto anche per la pet therapy È stato depositato un emendamento alla finanziaria che eleva a 774,68 euro, l’importo degli oneri deducibili in dichiarazione dei redditi sostenuti per le spese veterinarie per la cura di animali detenuti a scopo di compagnia. L’emendamento fa seguito ad un ordine del giorno al decreto milleproroghe, accolto dal governo, che se verrà accolto dalla commissione Bilancio, porterà il nostro Paese in linea con quanto già avviene nel resto d’Europa per quanto riguarda la cura degli animali da compagnia, contro il cui abbandono non bastano le campagne informative, ma servono anche condizioni più favorevoli al loro mantenimento e un più favorevole regime fiscale per le spese sostenute. Tale provvedimento ha un costo stimato di 30 milioni di euro per il triennio 2010-2012 e può, non solo rappresentare un aiuto al sostegno del reddito delle famiglie italiane ma anche dare una mano a quelle strutture che offrono trattamenti clinico-terapeutici con i cani per disabili con le tecniche della cosiddetta pet therapy.

Gabriella Giammanco

CONCETTI STRANI L’attentato al treno in Russia è già rientrato in sordina, pur interessando un contesto molto oscuro: la Cecenia e la nuova Russia di Putin. Da quelle parti sono avvenute stragi degne dei mercati iracheni ad opera dei kamikaze, con vittime tra donne e bambini soprattutto, ma il riverbero è stato relativo perché si da per scontato che da quelle parti le istituzioni siano consolidate e a prova di bomba. La democrazia è un concetto strano, che appartiene solo a chi c’è l’ha nel sangue, storicamente parlando.

Gennaro Napoli

PENTITISMO La legge sui pentiti andrebbe rivista, e non lo dicono solo coloro che sono solidali con il premier

di fronte all’ennesima calunnia, riguardante la mafia. Le garanzie riservate alla loro persona e non solo come incolumità, sono difformi alla causa del loro stato di reclusione, al punto che si sono ascoltate molte bugie e lacunose verità. Certe garanzie che valgono per la giustizia, sono maggiori di quelle che si potevano garantire alle vittime per la protezione della loro incolumità.

Bruno Russo

ACCUSA ALLA MAGGIORANZA Accusare Silvio Berlusconi significa accusare indirettamente la maggioranza degli italiani, che ha votato alle elezioni. È la maggioranza oculata e previdente, che consuma la vita nel compimento del dovere. È la maggioranza che

La sagra della ciabatta Una delle sorelle di Cenerentola ha perso la pantofola? Sbagliato. Quella che vedete è la “mascotte” del Tsinelas Festival, la fiera della ciabatta che si svolge ogni estate a Gapan, nelle Filippine. L’enorme calzatura lunga 9 metri - e in lizza per il titolo di pantofola più grande del mondo - dà il benvenuto ai visitatori della manifestazione

lavora, risparmia, investe, amministra e affronta rischi, pericoli e incertezze. È la maggioranza che produce ricchezza e benessere, a disposizione del consorzio civile. Il disfattismo di quasi tutta la nostra sinistra vuole annichilire tale maggioranza virtuosa per foraggiare parassiti, clientele e “intellettuali”organici e furbi.

Franco Padova

IL DIKTAT DI SACCONI Il ministro Maurizio Sacconi ha inviato una lettera all’Aifa in cui indica come si dovrebbe, a suo modo, procedere per l’autorizzazione e la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Una lettera di un ministro può far riavviare un iter già conclusosi, senza nessun aggancio di legge e senza alcuna motivazione scientifica, tecnica e

normativa? In uno Stato di diritto no! In Italia? La lettera del ministro può essere definita così: indebite pressioni politiche, le cui conseguenze possono essere solo due: o l’Aifa esegue il diktat politico e compie atto illegittimo o rispetta la legge e pubblica in Gazzetta ufficiale la delibera per la commercializzazione della Ru486.

Donatella Poretti


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Io mi occupo di te, di noi Penso che tu sia come me, che ti piacciano le notizie fresche. Abbi ancora un po’ di pazienza, mia cara, e leggi quanto segue: la commissione si riunisce fra una dozzina di giorni per stabilire subito il da farsi. Sarei molto stupito se non fosse il nostro amico a essere incaricato del lavoro. Dunque prima della fine del mese passerò 8 giorni a Parigi. Sarà sempre qualcosa, vero, anche se 8 giorni passano presto. Ho una paura atroce che quei bei tipi stiano a gingillarsi. Mettono in questa faccenda una lentezza, un’incuria incredibile. C’è da reputarsi fortunati se finiscono nel tempo che dicono. Così ci rivedremo presto. Sarà inverno, ma troveremo ugualmente un raggio di sole per fare una passeggiata al bois de Boulogne. Mi mostrerai il piccolo ritiro che vi hai scoperto. Se piove ci scalderemo a un gran fuoco, tu sulle mie ginocchia e la testa china sulla mia spalla.Vedi che mentre sei occupata a tormentarti e a rimproverarmi, io mi occupo di te, di noi. Questa settimana mi sono dato da fare per spronare la commissione e poterti raggiungere il più presto possibile. Forse non era molto opportuno da parte mia. Ma non importa, mi sembrava di sentire la tua voce, gridarmi nelle orecchie: Ma dai, allora! dai! spicciati. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

BERLUSCONI DEVE SCEGLIERE Ma sì, Brunetta è un economista di stampo liberale, mentre Tremonti uno statalista d’antan. Niente di diverso da quel che sapevamo sin da quando questi due signori iniziarono a gravitare attorno ai movimenti costruiti da Berlusconi dal 1994. E così, riteniamo che il Premier debba scegliere la linea da seguire: o quella riformatrice o quelle conservatrice. Oppure rassegnarsi a una spaccatura imminente del Pdl già annunciata dai continui strappi di Fini e da molti suoi fedelissimi. Perché stupirsi? Se questo governo sta facendo poco o nulla rispetto a quanto annunciato in campagna elettorale è più che giusto che qualuno faccia la voce grossa. Dov’è finita la drastica riduzione delle imposte? Dov’è finita l’abolizione delle Province e degli enti inutili? Dov’è finita la riduzione della spesa pubblica improduttiva? Dove sono finiti gli investimenti alla ricerca? Quanto chiede il ministro Brunetta non è altro che quanto chiede il Paese e quanto annunciato anche dal governo Berlusconi IV dal suo insediamento. Tremonti e la Lega Nord hanno fatto di tutto per remare contro ed eccoci qui ancora una volta senza riforme. Berlusconi, quindi, scelga da che parte stare. Abbia anche il coraggio di sostituire Tremonti alla guida del ministero dell’Economia con politici liberali seri: con lo stesso Brunetta oppure con l’ottimo Antonio Martino, ingiustamente ed immeritatamente messo in soffitta da tempo dal Cavaliere. Si modifichino quindi anche le alleanze: si defenestri la Lega Nord e si

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

5 dicembre 1484 Papa Innocenzo VIII scrive la bolla pontificia Summis desiderantes contro l’attività di maghi e streghe in Germania che porterà all’Inquisizione 1492 Cristoforo Colombo diventa il primo europeo a mettere piede sull’isola di Hispaniola (oggi Haiti e Repubblica Dominicana) 1560 Francesco II di Francia muore ed è succeduto da Carlo IX di Francia 1746 A Genova il Balilla dà l’avvio alla rivolta popolare che cinque giorni più tardi porterà alla cacciata degli austriaci di Botta-Adorno 1766 A Londra, James Christie esegue la sua prima vendita. In seguito fonderà Christie’s, la più vecchia casa d’aste del mondo 1848 Il presidente James Knox Polk conferma che grandi quantità d’oro sono state scoperte in California 1932 Il fisico tedesco Albert Einstein ottiene un visto per gli Usa 1934 Le truppe italiane attaccano Wal Wal in Etiopia 1936 L’Unione Sovietica adotta una nuova Costituzione

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

imbarchi l’Udc ed i suoi nuovi alleati centristi. Se così non sarà non si vede quali prospettive di rinnovamento possa aspettarsi il Paese. E intravedo all’orizzonte un nuovo possibile cambio di rotta anche per il dopo-Berlusconi: un’aggregazione riformatrice che abbia come leader proprio Fini e Brunetta, alleata a tutti i laici, liberali, repubblicani, radicali e ai centristi di Casini. Capace di contrapporsi allo statalismo social-burocratico del Pd, della sinistra e della destra estreme, di Tremonti, della Lega Nord e al giustizialismo di Di Pietro. Finalmente l’Italia vivrebbe una vera contrapposizione: liberali e riformatori contro statalisti e conservatori. Con ai secondi un’opposizione assicurata per i prossimi decenni.

Luca Bagatin

FINI COME BERTINOTTI? Molti paragonano il comportamento di Fini al suo predecessore, Bertinotti, per assegnare loro un ruolo di ecletticità e contrasto con il governo corrispondente del tempo. Occorre considerare che adesso esiste un partito unico e non un’accozzaglia di entità antitetiche, nel quale l’on. Fini vuole assegnare il giusto ruolo parlamentare e politico, cioè vuole dare ai parlamentari una valenza che non sia ordinaria, ma accanto alle necessità degli italiani. Una di queste è l’integrazione: le sue vedute non sono di sinistra, ma fiduciose che la stessa possa diventare arricchimento per la Nazione e non una palla al piede del sistema.

IL VALORE DELLE PAROLE (I PARTE) Spesso ho incontrato persone che mi hanno espresso una loro chiara visione della vita, in relazione al valore delle parole, degli eventi culturali, dello scambio di idee. Chi erano costoro? Forse persone che hanno costruito il loro futuro su altre basi, quali il coinvolgimento concreto e tangibile delle realtà disseminate tra i meandri delle menti umane. Il fatto più grave è che costoro asserivano con acume e ciglio prepotente, che sì, era così, i fatti contano e le chiacchiere non servono. Naturalmente il dubbio non poteva che assalirmi, o farmi almeno riflettere. Ho imparato poi ad analizzare le persone con cui mi trovo e ad interloquire, e colgo sempre più che il limite della mente umana risiede nel rigettare e disprezzare quello che quella persona in quel preciso momento non è capace di fare o di porre in essere con il suo carattere o con le proprie competenze. E allora che dire di costoro? Sicuramente erano e sono persone limitate, a volte anche spaventate dalle scelte che possono portare cambiamenti e innovazioni. Proprio queste persone che disprezzavano e disprezzano il dialogo, tramite l’uso della parola e non dei gesti, mi hanno fatto sempre più comprendere che l’uso della parola e dell’arte del dialogo maieutico socratico è alla base del nostro interagire. Se poi questo interagire è un interagire che porta dei frutti questo sta alle singole capacità dei soggetti agenti, e non all’uso che essi fanno delle parole. Le parole reggono il mondo potremmo dire. Le parole costruiscono pace. La parole costruiscono guerre. Le parole sono l’essenza del rapporto tra noi esseri umani, sono lo strumento più sottile per dare strutturazione alla realtà circostante e all’evoluzione del nostro io. Quando le parole costruiscono raggi di luce, crescono generazioni sagge, lungimiranti, costruttive, che lasciano il segno del loro passaggio. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I

APPUNTAMENTI DICEMBRE 2009 VENERDÌ 11, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Consiglio nazionale dei Circoli liberal.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Lettera firmata

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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