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La storia è una galleria

di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie Alexis de Tocqueville

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QUOTIDIANO • SABATO 12 DICEMBRE 2009

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere: «Il Capo dello Stato pensi all’uso politico della giustizia». Il presidente della Camera replica: «Rispetta l’arbitro»

Napolitano e Fini fanno scudo «La violenza la subisco io»: Berlusconi ancora a testa bassa contro la prima e la terza carica dello Stato che gli chiedono equilibrio.A Palermo il boss Graviano smentisce Spatuzza di Errico Novi

Aperta ieri a Parma la convention del movimento di Rutelli

La notte non ha portato consiglio a Silvio Berlusconi. Dopo l’editto di Bonn, il presidente del Consiglio ieri ha insultato ancora il Quirinale e la Costituzione. Nel silenzio del Colle, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha difeso Napolitano: «Rappresenta tutti». a pagina 2

«Con Casini faremo l’alternativa di centro» Un’immagine della deposizione del boss Filippo Graviano

IL COMMENTO DI PAOLO POMBENI

COSTITUZIONE, DIRITTO E POLITICA

Dalla parte del Quirinale «Crea un polverone per evitare i processi» contro ogni forzatura di Michele Vietti

di Pierre Chiartano

a mozione di sfiducia nei confronti di Nicola Cosentino che l’Unione di Centro ha presentato al Governo aveva l’intento di affrontare un nodo politico: la magistratura, in questa occasione, non c’entra niente. Questa è una questione che riguarda le istituzioni del Paese e la loro credibilità. Per ciò, lo stesso giudizio che abbiamo formulato su Cosentino lo riserviamo alle esternazioni fatte dal Presidente del Consiglio a Bonn. a pagina 2

iamo al ricatto, dice il politologo Paolo Pombeni: «Non si spiega altrimenti l’ennesima sortita del premier contro le istituzioni. Più alto è il livello dello scontro più alte sono le difese dai processi che Berlusconi spera di ottenere. Il suo entourage, a questo punto, dovrebbe spingerlo non solo a moderare i toni, ma anche a cambiare strategia. Perché il potere di un presidente del Consiglio non è esattamente quello di un sultano». a pagina 3

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Parla Linda Lanzillotta: «È ora di aggregare tutte le forze moderate per far uscire il Paese da una paralisi decennale, imposta da questo bipolarismo impotente» di Franco Insardà Parma si è aperta la convention di Alleanza per l’Italia, il movimento di Francesco Rutelli. Linda Lanzillotta, che ha introdotto l’incontro, spiega a liberal la strategia della nuova aggregazione.

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Oggi l’ultima giornata del meeting della Cei: un successo imprevisto

Fede e scienza: il testo delle conclusioni

Contrordine: Dio non è morto

Non si può giocare a dadi con l’Uomo di Rino Fisichella

Dal convegno di Roma una grande reazione culturale alle ideologie nichiliste del Ventesimo secolo di Marco Respinti

crive il Libro del Siracide:“Quando uno ha finito, allora comincia”. È proprio così. Concludere queste giornate ricche di provocazioni su diversi fronti dalla cultura alla fede, equivale ad iniziare a riflettere con maggior intensità sui contenuti che sono stati partecipati. In una lectio, l’ideatore della “teologia politica”, J. B. Metz, diceva: «La crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale… La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi». In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio.

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Dio e Cesare: l’opinione di Severino

ui muri sotto casa mia qualcuno ha scritto «Dio è morto?». Chissà con quanta consapevolezza l’ignoto graffitaro cita le famose parole di Friedrich Nietzsche; se di Riccardo Paradisi non altro però questo oscuro manuele Severino nel libro A Cecommentatore dei tempi odierni sare e a Dio già all’inizio degli anha avuto la grazia di aggiungerni Ottanta metteva a tema la tenci il punto interrogativo. La vosione permanente tra laicità e religlia matta che ho, tutte le volte che passo davanti a quella scrit- gione. Sul tema del nesso tra religione, ta, è rispondere: «Dio non so, storia e violenza Severino è intervenuto al ma Nietzsche sì». convegno romano su Dio.

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Il drammatico enigma della laicità

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a pagina 17 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

a pagina 18 I QUADERNI)

• ANNO XIV •

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Esternazioni. Il giorno dopo l’editto di Bonn, il premier rincara la dose: «Il Presidente pensi ai giudici che fanno politica»

La corrida di Berlusconi

IL capo del governo contro Napolitano: «Perché non mi difende dalle violenze che subisco?». Ma Fini sta con il Colle: «È imparziale» di Errico Novi

ROMA. A dare meglio di qualunque altra cosa la misura dell’isolamento in cui Berlusconi rischia di precipitare è forse una dichiarazione-appello di Enrico Letta. Si rivolge alla Lega, il vicesegretario del Pd, e le chiede di «fermare Berlusconi se non vogliono buttare a mare il federalismo». Parole chiare, semplici: casomai dovesse venirvi in mente di seguire il presidente del Consiglio nel suo proposito di tornare alle elezioni, o se semplicemente incoraggerete la pretesa di cambiare la Costituzione da soli, sappiate che non avrete più l’appoggio laterale dei democratici sulla questione che vi sta a cuore di più, il federalismo appunto. In un giorno in cui non basta il tono da statista di Gianfranco Fini a frenare le ulteriori intemperanze del premier verso il Colle («Napolitano pensi all’uso politico della giustizia», dice Berlusconi da Bruxelles), dal Pd arrivano segnali sostanzialmente distensivi. Tutto si può dire tranne che Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, così come Letta (che però incoraggia anche una svolta alle Regionali nei rapporti con l’Udc, in modo da preparare una più ampia alleanza), rincorrano il presidente del Consiglio nelle polemiche: di «impressionante danno di immagine» parlano sia il segretario che l’ex ministro degli Esteri, quasi a sottolineare che il vero problema aperto da Berlusconi con la tirata anti-Costituzione di Bonn non riguarda tanto l’effettiva necessità di riformare la giustizia e in generale le istituzio-

Da Cosentino al premier, il vero nodo è che l’Italia continua a perdere credibilità

Dalla parte del Quirinale contro ogni forzatura di Michele Vietti a mozione di sfiducia nei confronti di Nicola Cosentino che l’Unione di Centro ha presentato al Governo aveva l’intento di affrontare il tema politico rappresentato da quel “caso”. Ovviamente non intendevamo parlare della legittimità della permanenza dell’onorevole Cosentino al Governo, volevamo parlare della opportunità di questa presenza. Cosentino gode di tutte le garanzie che la Costituzione riconosce ad ogni cittadino anche accusato dei reati più gravi e anche delle prerogative riservate ai parlamentari per la loro funzione, dunque astrattamente nulla in termini di Costituzione e di legge impedisce a Cosentino di esercitare le funzioni di sottosegretario. Ma, fatto questo chiarimento dovuto, non ci possiamo esimere dall’affrontare le implicazioni politico-istituzionali di questa vicenda e lo dobbiamo e lo possiamo fare senza che penda su di noi la spada di Damocle di implicazioni processuali, senza che venga evocato qui l’eterno conflitto tra politica e magistratura. Qui la magistratura non c’entra niente: questa è una questione che riguarda le istituzioni del Paese e la loro credibilità.

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Lo abbiamo detto nella mozione: siamo convinti che Cosentino debba rassegnare le dimissioni, anzi, per dirla tutta, siamo convinti che avrebbe dovuto già darle da tempo, anche prima che la magistratura chiedesse una misura cautelare personale di questa gravità. Non starò qui a ricordare le attribuzioni specifiche che il sottosegretario ha come delega ministeriale ad atti particolarmente delicati del Dipartimento dell’economia. È evidente che la gravità delle accuse mosse all’onorevole Cosentino – al di là ed indipendentemente dalla loro fondatezza, che sarà accertata nelle sedi opportune – ne inficia la credibilità nei confronti degli interlocutori istituzionali. Ma vi è di più: quello che ci preoccupa è che questo affievolimento di credibilità che colpisce il sottosegretario Cosentino si estende inevitabilmente all’intera istituzione ministeriale e governativa. Come opposizione potremmo anche lucrare su una perdita di credibilità del governo, ma questo vorrebbe dire anteporre i nostri piccoli interessi di parte all’interesse generale del

Paese, che sta invece nel poter contare sulla autorevolezza delle sue istituzioni e, tra queste, sull’autorevolezza del governo. Le scelte del governo possono non essere condivise (e noi spesso non le condividiamo e lo diciamo francamente), ma altro è la credibilità e l’autorevolezza dell’istituzione governo, che è un bene di tutti, anche di chi non ne condivide le politiche. Per ciò, lo stesso giudizio che abbiamo formulato su Cosentino lo riserviamo alle esternazioni fatte dal Presidente del Consiglio a Bonn: non siamo affatto contenti della perdita di credibilità sul piano internazionale che le battute da «bar dello sport» procurano a Berlusconi. Siamo molto dispiaciuti – anzi, per dirlo con le parole del Presidente della Repubblica, siamo profondamente rammaricati e preoccupati – che la perdita di credibilità che viene da questo tipo di esternazioni coinvolga l’Italia, lo Stato e le istituzioni repubblicane, che sono di tutti.

Vi è infine un ultimo profilo che vorrei sottolineare: da Tangentopoli in poi, nel nostro Paese si fa una grande confusione tra morale, diritto e politica; si confondono le sfere dell’etica e della giustizia penale, si confondono gli ambiti della giustizia e della politica. Di qui nasce l’uso distorto della giustizia a fini politici e l’uso distorto della politica a fini giudiziari; il giudizio politico si confonde con quello penale e quello penale con quello morale. A parole le forze politiche vorrebbero ridisegnare le distinzioni – inevitabili e necessarie in un grande Paese civile – tra diritto, morale e politica, ma poi purtroppo non seguono i fatti. Non basta dire che la magistratura non deve invadere il campo della politica o illudersi di limitare per legge la possibilità della magistratura di censurare l’operato di questo o quel politico: i magistrati smetteranno di essere i custodi assoluti della virtù e torneranno ad essere i giudici del caso concreto solo quando ciascuno, dentro e fuori il Parlamento, avrà il coraggio e la forza di essere anzitutto giudice di se stesso e delle proprie azioni. La magistratura si atterrà ai propri confini solo quando una politica forte saprà presidiare i suoi confini, cominciando dalla selezione della sua classe dirigente. Avere un forte senso della missione, spirito di servizio e sacrificio prima e al di là di ogni ambizione personale: questo ci ha ricordato il Presidente della Repubblica come requisito per la necessaria moralità della politica. Se non riscopriamo questa dimensione etica non potremo restituire credibilità alla politica e alle istituzioni.

ni, ma il decoro che comunque va conservato in una fase del genere. Non a caso D’Alema lascia una porta ben visibilmente aperta al dialogo quando, in una conferenza stampa a Napoli, dice che «naturalmente noi rispondiamo con fermezza agli attacchi contro la Carta, ma sarebbe sbagliato che un grande partito come il Pd rinunciasse a occuparsi dei problemi e cadesse nella trappola della rissa nella quale lo stesso presidente del Consiglio vorrebbe trascinarci». E Bersani indica un solo paletto: «Sì alle riforme, a condizione che non siano leggi ad personam».

Difficile essere più chiari. Così come non può essere più netta la distanza del Cavaliere rispetto agli auspici che sulle riforme arrivano sia dal Quirinale che da Gianfranco Fini. Il Capo dello Stato si è ben guardato dal rincorrere a sua volta Berlusconi nel botta e risposta, ma nel messaggio indirizzato alla prima assemblea dell’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli ha «apprez-

«La Costituzione è vecchia, la cambierò». Eppure anche dal Pd arrivano aperture: «Sì alle riforme, basta che non siano ad personam» zato l’intendimento (espresso dal partito fondato dal presidente del Copasir e Lortenzo Dellai, ndr) di contribuire a far uscire il Paese da una contrapposizione politica esasperata». Serve «un costruttivo confronto nelle istituzioni», dice il presidente della Repubblica. Che può contare ancora una volta sull’intervento a sua difesa pronunciato dalla Terza carica dello Stato: «In lui si devono riconoscere tutti gli italiani», avverte Fini, «terminata la competizione elettorale, reso merito a chi ha vinto, si ponga fine alla quotidiana propaganda, al clima di derby permanente e si lavori per il bene comune, fermo il ruolo di garanzia che hanno alcune cariche».

Vorrebbe dire appunto approfittare del clima di ampia disponibilità creato sia dall’Udc che dal Pd per mettere mano al riordino delle istituzioni: «Il primo dovere di chi le rappresenta è


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La guerra istituzionale vista dal politologo Paolo Pombemi

«O lo scudo o la tregua Ormai è un ricatto» «Il Cavaliere ha alzato il livello dello scontro per ottenere la protezione massima nei processi» di Pierre Chiartano

ROMA. Berlusconi contionua a esternare, sparando a palle incatenate contro la Consulta, la Costituzione, il Quirinale. Un terremoto istituzionale che ha portato il presidente della Camera Gianfranco Fini a commentare sconsolato «sta distruggendo tutto». Abbiamo chiesto al politologo Paolo Pombeni – impegnato in una conferenza Oltralpe – cosa pensa della situazione politica e se vede una via d’uscita da una deriva dagli esiti incerti. Berlusconi lascerà solo macerie istituzionali, oppure esiste un’alternativa per il Paese? È chiaro che il capo dello Stato è in una posizione estremamente difficile, perché un attacco alla Corte costituzionale, che svolge una funzione di garanzia, è grave. Non viene fatta da un politico qualunque che esprime un’opinione, ma da un presidente del Consiglio, cioè da chi rappresenta uno degli elementi dell’equilibrio istituzionale. Sarà difficile rimarginare una simile frattura. Il capo dello Stato è persona estremamente equilibrata ed è tenuta a mantenere il funzionamento dello Stato. Contro ogni possibile interferenza. Sarà trovato un modus vivendi, ma all’interno di certi limiti. Ci sarà un Quirinale ipertrofico che colmerà i vuoti creati da palazzo Chigi? Non credo. E soprattutto non penso che possa farlo un presidente come Napolitano che è estremamente scrupoloso. Il Quirinale farà tutto ciò è in suo potere per salvaguardare l’incarnazione della Costituzione. Non si può pretendere che faccia “un colpo di Stato”. Toccherà alla classe politica e al popolo italiano prendere una posizione. Pensa che si tornerà alle urne? Comunque a fine marzo ci saranno le regionali. Non so se si arriverà ad uno scioglimento anticipato della legislatura. Non so neanche quanto sia nell’interesse di Berlusconi. Potrebbe accadere solo non trovando in Parlamento una maggioranza alternativa per un governo di transizione. Ma esiste una ratio politica per questa continua guerriglia istituzionale attuata dal premier? Bisognerebbe essere la Sibilla cumana per interpretare un comportamento di questo genere. Le due ragioni che posso

immaginare sono: primo, quella di alzare la temperatura politica perché la legge voluta da Casini sul legittimo impedimento passi senza troppe difficoltà… E ha ottenuto l’effetto contrario, il leader dell’Udc ha già fatto un passo indietro… Ma Berlusconi si aspettava l’effetto contrario. Pensava di ricattare: se non passa la legge scateno l’atomica. L’altra spiegazione è che l’uomo non sia più lucido come è stato in passato. E che cerchi la prova di forza populista. Che voglia arrivare a fine legislatura e dimostrare che il popolo è con lui. Quale potrebbe esser una via d’uscita? La più ottimistica, ma poco probabile, è che il suo entourage faccia ragionare Berlusconi. Che gli spieghi le funzioni del presidente del Consiglio, che non è il sultano di Istambul. È il premier di una repubblica costituzionale. E se vuole svolgere quel ruolo – cui nessuno lo obbliga – deve farlo secondo Costituzione. Se tutta la sua classe dirigente prendesse una simile posizione non credo che Berlusconi potrebbe ignorarla. Se poi volesse rompere, ci sarebbe il governo istituzionale... complicato. L’ipotesi pessimistica è che ciò che ho detto non succeda e si vada ad elezioni stile ”duello all’O.K. Corral”. Potrebbe accadere di tutto. E parcheggiarlo al Quirinale, in maniera che faccia meno danni possibile? Dal Colle di danni se ne potrebbero fare davvero molti. Non mi sentirei di caldeggiare questa ipotesi. Francamente penso che credenti e non dovrebbero fare un pellegrinaggio a Lourdes per la scelta allora fatta nell’eleggere Napolitano. Se non ci fosse un presidente con l’equilibrio e i nervi saldi, non so come andrebbe a finire. Sono rimasto scioccato dale esternazioni del premier. Perché fatte all’estero, a freddo, proponendo cose che non hanno né capo né coda. Lei ora si trova in Francia, come viene percepita la situazione all’estero? Sono ad un congresso di politologi. Tutti, francesi, inglesi, americani ci guardano come se arrivassimo da un Paese di selvaggi. Il danno d’immagine per l’Italia è terribile.

Qualcuno del suo entourage dovrebbe spiegare al premier che le funzioni del presidente del Consiglio non sono quelle di un sultano

quello di avere a cuore l’interesse generale», aggiunge il presidente della Camera, «e non lo dico per un malinteso buonismo: gli avversari sanno che c’è un arbitro che è imparziale anche quando sbaglia». Il punto è che il presidente del Consiglio sembra seguire una traiettoria piuttosto differente: al pranzo con la delegazione del Pdl all’Europarlamento dice che lui non si ferma, non c’è niente da fare «possono dire quello che vogliono ma io vado avanti e farò la riforma della giustizia». Sembra l’avvisaglia di un’iniziativa ancora unilaterale, anche perché, come raccontano i presenti, il Cavaliere non si è soffermato su nessun aspetto legislativo particolare eccezion fatta per il processo breve: «Fosse per me sarebbe già legge», dice. Ed è chiaro che sui modi e sui tempi del provvedimento, l’ex leader dei An e la componente a lui vicina del Pdl non consentiranno certo un percorso incontrollato.

Una percezione del rischio di restare isolato, però, deve evidentemente aver sfiorato il presidente del Consiglio. Che in una situazione meno conviviale si difende con un accento piuttosto sconfortato dalle accuse di destabilizzazione piovutegli nella giornata precedente, e dice ai cronisti: «Tutte queste cose sono pretestuosità assurde, siamo aperti e disponibili agli accordi anche se quando leggo le parole di Bersani mi cadono le braccia». Si riferisce all’unica considerazione un po’ più affilata rivoltagli dal capo del Pd,

Silvio Berlusconi ieri è tornato a insolentire il Quirinale. Fini ha subito reagito in difesa del Colle. A destra, Paolo Pombeni che gli chiede «di non definirsi uno statista, almeno» e di «non sentirsi il padrone», come gli aveva raccomandato per primo Pier Ferdinando Casini l’altro ieri. Berlusconi si abbandona a una lunga lamentela, «tutti sanno qual è la situazione, la violenza è solo contro di me», dice, «io non ho fatto nessuna accusa, ho fotografato con serenità la situazione che tutti gli italiani informati, consapevoli e di buon senso, hanno chiarissima. E non credo che si debba continuare nel festival dell’ ipocrisia, se c’è qualcuno di non violento, questo è il presidente del Consiglio eletto praticamente direttamente da tutti gli italiani: eppure viene attaccato e insultato, di lui si dicono cose assurde, si fanno trasmissioni incredibili, anche sulla tv pubblica, ma io», è la chiosa del Cavaliere che riprende a parlare in prima persona, «per fortuna, sono sereno, consapevole delle mie responsabilità e mi comporto al meglio possibile». Assicura di «non volere elezioni anticipate», che il pensiero non lo ha mai nemmeno sfiorato, ma conferma che «la Costituzione è una legge vecchia e va cambiata». La caduta c’è anche stavolta. E al confronto la battuta piuttosto severa di Fini sui processi («rispetto alla mafia la politica deve sempre essere al di sopra di ogni sospetto») è solo una carezza.


politica

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Criminalità. Solo uno dei due mafiosi accetta di parlare: «Non ho nulla di cui vendicarmi». Berlusconi: «Siamo alle comiche»

Il boss contro il picciotto

Filippo Graviano smentisce Spatuzza: «Io Dell’Utri non lo conosco» Continua il gioco di specchi tra capi e pentiti al processo di Palermo di Alessandro D’Amato

ROMA. Conosce il senatore Dell’Utri? «No». Ha mai avuto rapporti di qualsiasi tipo con il senatore Dell’Utri? «Assolutamente no». Direttamente o indirettamente? «No». Sono esattamente le 12 e 22 a Palermo, nel tribunale dove si celebra il processo contro il senatore del Popolo delle Libertà, quando il presidente della Corte fa direttamente a Filippo Graviano la domanda che tutti si aspettavano. E riceve dal mafioso il diniego che aveva già risposto al pubblico ministero di non aver mai parlato con Gaspare Spatuzza di processi e sentenze da aggiustare, altrimenti sarebbe scattata la vendetta. «Spatuzza afferma che lei gli disse che se non arrivava qualcosa da dove doveva arrivare, lei poteva parlare con i magistrati», dice il Procuratore Generale Antonino Gatto. «Questo discorso non c’è stato e non poteva esserci stato, nel ‘94 io non avevo questi problemi e nessuno poteva farmi delle promesse o quant’altro: dovevo scontare solo 4 mesi», risponde Graviano. «Io non ho detto mai quelle parole a Spatuzza. Non potevo dirle. Non c’era nessuno che aveva da promettermi qualcosa perché dovevo scontare 4 mesi, la prima ordinanza mi è arrivata tre giorni prima di uscire dal carcere. Dal 2004 al 2009 sono passati cinque anni: se io avessi dovuto consumare una vendetta, l’avrei fatto».

E il mafioso fa anche sapere, con i suoi modi, che da Cosa Nostra si è staccato: «Da dieci anni ho messo la legalità al primo posto nella scala dei miei valori. Nel 2002 ho scritto una lettera alla Procura di Palermo in cui dicevo di essere disponibile a parlare della mia condotta», dice. Perché Filippo è un esponente di quella congrega di duri e puri che non si vuole pentire, ma intende dissociarsi: ovvero ammettere le proprie responsabilità ma non confessare quelle altrui. Ma di vendicarsi dei presunti traditori Filippo non ci pensava proprio: «Se ci fosse stata una vendetta da consumare, non avrei aspettato tanto... Non è che abito in un hotel». Da parte sua non c’è mai stata l’intenzione di rivalersi su presunti torti subiti per promesse non mantenute, dice il mafioso. Arriva il controinterrogatorio della difesa: si ricorda quali fossero i contenuti della lettera mandata ai Pm di Palermo? «Manifestavo la mia disponibilità ad essere sentito; ho fatto accenno an-

La bomba non è scoppiata. E la vera vittima rischia di essere la giustizia

E se fosse una strategia contro il «pentitismo»? di Marco Respinti n classico: la montagna che partorisce il topolino. Ma la consolazione è decisamente magra. Di che parliamo? Di pentiti, o presunti tali, di accuse roboanti e, ovvio, di mafia. Succede infatti che nel nostro sistema giudiziario imperino personaggi, le coscienze gravate di crimini e di misfatti a iosa, la cui memoria a orologeria si sveglia un dì minacciando di travolgere tutto e tutti, soprattutto nomi, grossi, pesanti, politici. Succede allora che senza averne l’aria, oppure avendola eccome, questi personaggi facciano

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raffinatamente filtrare alla stampa, e sempre a orologeria, qualche indiscrezione, una o due anticipazioni, magari un pizzico di malizia.

Succede quindi che, prima di qualsiasi riscontro e a monte di qualunque seria analisi a mente fredda, i media raccolgano subito tutto, e con bocca buona, cioè senza peritarsi di riscontrare, persino di attendere. Infine succede che, pompati da giornali e da televisioni, da commentatori e da opinionisti, sia in un senso sia nell’altro, fuoco cioè sia amico sia nemico, i suddetti personaggi, pluriomicidi, divengano le star di prima pagina o di prima serata, promettendo mari e monti, ma che poi, al momento buono, quei personaggi si ritraggano, si mostrino sin timidi, dicano solo a

metà, o anche meno. Insomma, che detti personaggi si pentano del proprio preventivo e strombazzato pentimento. Cosa ne resta? Castelli di carte, parole al vento, molta pubblicità male allocata, ma soprattutto e anzitutto una ridda di calunnie che pericolosamente aggiungono cattiveria a cattiveria, male a male. Una indecenza, c’è poco da dire.

Epperò non può non sfiorarci un’altra idea. Possibile che certi personaggi possano condizionare, almeno nella percezione popolare (ma non è mica cosa dappoco), il normale corso della giustizia? Possibile che il linciaggio in effige delle guide politiche del nostro Paese possa essere consumato mass-mediaticamente con tale e tanta leggerezza? Ma, ancora più importante, possibile che non ci colga almeno il sospetto che potrebbe in verità trattarsi di un colossale gioco al massacro, ordito con lucida spietatezza e perseguito con altrettanta tracotanza? Ovvero che le promesse di mezze-verità, gli strepiti appena sussurrati, le parole dette a nuora affinché suocera intenda non siano il sintomo di un più grande progetto di destabilizzazione e di delegittimazione voluto dalla mafia? Che non siano insomma lo strumento per screditare un intero mondo, utilizzando solo i veleni giacché non è possibile fornire prove stringenti? Possibile, possibilissimo, il dubbio dovrebbe sfiorarci subito. Ma la cosa più grave di tutte sarebbe se questo enorme disegno letteralmente eversivo fosse teso a colpire non il ceto politico, ma proprio la fiducia (popolare, “culturale”) nei pentiti, nei pentiti veri di mafia, quelli le cui affermazioni possono essere e sono accertate e verificate. Se la vittima designata fosse cioè quel sistema virtuoso che, utilizzando i dissociati e gli ex, ha già inferto alla criminalità organizzata colpi ferali, e che però proprio per questo è divenuto il nemico numero uno della mafia. Se lo scopo fosse davvero questo, sarebbe gravissimo. Sarebbe la morte della fiducia in una delle armi più appuntite di cui dispone oggi la magistratura per combattere i cattivi. I quali avrebbero così campo libero per battere i buoni, godendo pure di ottima stampa.

che alla legalità e al rispetto delle regole. Quello che dico anche oggi». L’avvocato di Dell’Utri non ha altre domande. Conosce Cosimo Lo Nigro, chiede l’accusa? «L’ho conosciuto in carcere», dichiara Filippo. Poi arrivano le domande della Corte su Dell’Utri, e Graviano si congeda.

È il momento clou di una lunghissima giornata, cominciata con Giuseppe Graviano. Nato a Palermo nel 1963, non vuole essere ripreso. Il presidente chiede se vuole avvalersi della facoltà di non rispondere. Lui dice: «Mi scusi signor Presidente: alla signoria vostra è stato inviato un “memoriale” dove spiego perché non posso essere sottoposto a interrogatorio a causa del mio stato di salute. Per il momento mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Chiede che la lettera venga letta dalla Corte, Giuseppe, ma il presidente non è dell’idea. Ci pensa il suo avvocato a rivelarne i

Il criminale fa anche ironia: «Se ci fosse stata una vendetta da consumare non avrei aspettato tanto... Non è che abito in un hotel» contenuti: 1Il mio cliente è in uno stato di alienazione totale. È monitorato 24 ore su 24 dalle videocamere ed è tenuto sotto riflettori e visori ionizzanti. Non gli danno neppure la carta igienica. Il suo non è un 41 bis normale, ma una tecnica mirata ad annientare la personalità e a indurre alla collaborazione con la giustizia», dice Gaetano Giacobbe. Ai giornalisti che gli chiedevano se le parole di Graviano fossero finalizzate al lanciare il messaggio che sarebbe disponibile a parlare solo qualora gli fosse revocato il 41 bis, Giacobbe risponde: «Non dovete interpretarla così, sono cose che dice dal ’94. Però se le sue condizioni di salute dovessero migliorare, come ha spiegato, potrebbe parlare».

E allora tocca a Cosimo Lo Nigro, anch’esso indicato da Spatuzza come a conoscenza dell’intrigo Dell’Utri-Berlusconi-Graviano. Lo Nigro non si avvale della facoltà di non rispondere. Conosce Spatuzza? «Sì, l’ho co-


politica

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Lo sfogo del senatore del Pdl dopo l’udienza

«Annozero è un atto di terrorismo» di Aldo Bacci

ROMA. «Stronzi che sputtanano l’Italia». Non usa eufemismi il senatore Marcello Dell’Utri. Forte della deposizione di Filippo Graviano che smentisce tutte le affermazioni di Gaspare Spatuzza, il fondatore di Forza Italia passa al contrattacco. «Sono indignato per quello che sta succedendo, di questo tentativo allucinante e criminale di usare questo sedicente pentito, Spatuzza, montando questo pestaggio mediatico che non ha precedenti. Ora tutto questo si è sgonfiato ma intanto si è sputtanato il Paese, l’Italia, il governo, Berlusconi. È una cosa indegna di cui tutti si dovrebbero indignare». A Monica Setta al Fatto del giorno su Rai Due Dell’Utri racconta: «Io ricevo per strada molte manifestazioni di solidarietà che mi aiutano ad andare avanti. E qualche volta anche delle offese. Mi è capitato che un signore mi abbia dato del mafioso e io gli ho risposto così: “che io sia mafioso non è certo, che lei sia uno stronzo è sicuro”».

nosciuto prima del 1995, data del mio arresto. Abbiamo avuto una bellissima amicizia, lo rispettavo come un fratello più grande». Conosce i Graviano? «Faccio presente che io il 10 settembre ho avuto un interrogatorio a Rebibbia con Nicolosi e Filini, della procura di Firenze. No, a questi signori da fuori non li conosco, però li ho conosciuti in carcere. Sono 14 anni che sto dentro». E siccome non è chiaro, l’accusa gli chiede di ripetere e precisare. Lo Nigro non si smuove: «Ripeto: io i signori Graviano da fuori non li conosco, ma questi signori forse acquistavano il pesce nel mio negozio perché io ero pescivendolo. Ho avuto il piacere di conoscerli in carcere». Il boss smentisce anche l’episodio riferito da Spatuzza che ha raccontato di avere partecipato, alla fine del ’93, a un incontro con Graviano e proprio Lo Nigro nel corso del quale il capomafia di Brancaccio gli avrebbe detto che era necessario fare l’attentato contro i carabinieri allo Stadio Olimpico di Roma «così chi si deve dare una mossa, se la dà». Frase che il pentito interpretò come riferita a una trattativa in corso tra la mafia e una parte della politica che, proprio un nuovo eccidio, avrebbe dovuto accelerare. «Non sono mai

stato a Campofelice di Roccella con i Graviano» ha smentito Lo Nigro.

Sono le 13,30 passate. L’udienza finisce qui e la corte si aggiorna al 18 dicembre, mentre era già arrivato da un po’ il commento di Silvio Berlusconi: «E che vi devo dire...? Ci sono state delle comiche» dice a caldo il premier. «Che vi aspettavate? Sono tutte chiacchiere, tutte falsità», aggiunge il capo del governo sorridendo ai giornalisti. Arriva poco dopo anche la smentita della Procura di Firenze, che non esprime «nessuna valutazione» sulla deposizione resa in aula a Palermo dei fratelli Graviano, anche perché segue “altri itinerari”, afferma il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, rispondendo ai giornalisti. «Non compete a noi, che abbiamo altri itinerari nel corso delle indagini preliminari, fare valutazioni di questa giornata, ma compete alla Corte di Appello di Palermo». La sentenza per il processo d’appello, di cui Spatuzza è soltanto un’appendice, arriverà tra febbraio e marzo. A ridosso della primavera. E delle elezioni regionali. Forse è per questo che Berlusconi ha messo le mani avanti: «Ormai siamo alle comiche».

Anche Cosimo Lo Nigro accetta di deporre: ma lo fa solo per contraddire le affermazioni fatte dal collaboratore di giustizia la scorsa settimana

In alto, Marchello Dell’Utri in aula. Qui sopra, i fratelli Graviano, Sotto, i giudici del Tribunale di Palermo. Nella pagina a fianco, Gaspare Spatuzza

Sempre per restare in Rai, Dell’Utri attacca Santoro: «Trasmissioni come Annozero di giovedì sono atti di terrorismo vero e proprio. Farò una formale protesta alla Rai». Dietro ai tentativi di «influenzare la Corte d’Appello» del suo processo, «il burattinaio c’è sicuramente, perché se ci sono degli effetti ci sono della cause, sicuramente il mio processo di appello stava per essere concluso, non so come, ma mi sembra che sia una Corte di Appello di persone normali, quantomeno non politicizzate, non pregiudizialmente e ideologicamente contrarie. Quindi potevo avere delle aspettative a una giusta giustizia. Questo non è stato possibile perché è stato buttato dentro il processo questo Spatuzza, è venuto fuori dal nulla, improvvisamente, ha fermato il processo, sta ritardando tutto e stanno tentando di influenzare la Corte di Appello».

Il fondatore di Forza Italia attacca Santoro. Poi dice: «Adesso voglio la sentenza. Non ne posso più»

«Non posso fare nomi e cognomi di chi ha interesse - prosegue - ma c’è un clima, un circuito mediatico-giudiziario già in atto da tempo che cerca di mistificare le cose». E difende il premier e il governo: «Non credo che ci sia un fuoco amico nei confronti di Berlusconi. Ci sono quelli che non lo vogliono, perché Berlusconi rappresenta un segno di contraddizione nella vecchia politica del nostro paese, perché è uno che fa, che vuole cambiare e migliorare il Paese», mentre «i vecchi poteri non consentono a nessuno di governare». Di Spatuzza conferma il massimo discredito: «Sono indignato per quello che sta succedendo. Un tentativo criminale che passa attraverso l’uso di un sedicente pentito». Al contrario, di Filippo Graviano si dice colpito positivamente: «Questo mi sembra un vero pentito cioè una persona che sa di dover espiare e vuole espiare le proprie colpe. Mi sembra una persona seria». L’altro bersaglio invece è Massimo Ciancimino, che ha denunciato la sottrazione di documenti sui quali sarebbe presente il nome di Silvio Berlusconi: «Non ho dubbio che siano fandonie - dice Dell’Utri - Ciancimino può avere convenienza a dire queste cose. Con Ciancimino non ho nulla a che fare, né con lui né con il suo genitore». Torna invece a difendere Mangano: «Ho conosciuto Vittorio Mangano sui campi di calcio della Bacigalupo quando giocavamo tutti a calcio da ragazzi a Palermo. Ad Arcore - prosegue Dell’Utri - lo portai io. Quando veniva lì, fino al ‘74, era una persona normalissima, per altro esperta di cavalli e di terreni».


politica

pagina 6 • 12 dicembre 2009

L’intervista. L’ex esponente del Partito democratico ci racconta le ragioni, le strategie e le possibili alleanze de nuovo “partito”

Al Centro per l’alternanza Linda Lanzillotta: «Vogliamo aggregare forze per uscire dalla paralisi imposta da un bipolarismo impotente» di Franco Insardà

ROMA. A Parma nel 2002 Francesco Rutelli tenne a battesimo la Margherita e a distanza di sette anni ricomincia da Parma la sua avventura con Alleanza per l’Italia, dopo l’addio al «mai nato» Partito democratico. Insieme con Bruno Tabacci, Lorenzo Dellai e Linda Lanzillotta hanno aperto ieri l’Assemblea nazionale del movimento che si concluderà oggi. «Comincia un percorso e un’avventura che noi riteniamo possa essere in prospettiva una svolta per la politica del Paese», dice a liberal Linda Lanzillotta. Qual è il vostro obiettivo? Aggregare forze per uscire dal blocco e dalla paralisi imposta per quindici anni da un bipolarismo impotente. Come se lo spiega? I due schieramenti sono stati egemonizzati sia da movimenti populisti e xenofobi sia dalle forze giustizialiste e radicali, con il risultato che nessuno è riuscito a realizzare un obiettivo strategico in grado di modernizzare il Paese e di adeguarlo alle sfide del nuovo secolo. Quale sarà la strategia politica di Alleanza per l’Italia? Avendo preso atto di questo fallimento e della mutazione genetica del Partito democratico vogliamo attrarre i ceti più innovativi e più dinamici, interessati al cambiamento. Purtroppo i violenti attacchi del presidente Berlusconi all’opposizione, all’istituzioni e alla Costituzione dimostrano che questo bipolarismo è paralizzante per l’Italia. Il vostro progetto guarda anche ai moderati del centrodestra? Noi guardiamo sia al centrosinistra sia al centrodestra e a quelli che hanno smesso di credere nella politica. Ma soprattutto alla parte vitale della società

che è rimasta per tanti anni inascoltata. L’accezione moderato è però riduttiva. In che senso? Spesso i moderati sono accomunati ai conservatori e in Italia per realizzare questo cambiamento occorre invece molta radicalità e discontinuità nelle politiche rivolte al lavoro autonomo, in quelle fiscali e nella gestione della spesa pubblica. Quindi occorre una visione molto poco conservativa a partire da un’etica pubblica che deve essere la base necessaria

Non vogliamo essere l’ennesimo partito, ma una forza politica centrale e strategica in un’alleanza che abbia in agenda la modernizzazione

per la società italiana che, invece, si sta ripiegando in una visione individualistica. Quello che lei sta descrivendo ricorda “ItaliaFutura”di Montezemolo. Loro sono un centro studi, noi siamo un movimento politico. Montezemolo più che rappresentare una parte di società penso che voglia indicare dei progetti e una visione del Paese come dovrebbe cambiare per essere competitivo con i partner europei e con le sfide della globalizzazione. Ci potrà essere una sinergia nelle elaborazioni che devono, però, essere fatte proprie da un movimento politico. La Finanziaria e la politica economica di Tremonti sembra scontentare tutti, anche la sua maggioranza, qual è la vostra agenda? Al primo punto c’è la diminuzione della pressione fiscale per le persone e per le imprese. Come? Facendo emergere l’economia sommersa e rendendo efficiente la gestione della spesa pubblica. A partire dalla sanità dove esiste un venti per cento di intermediazione politica. Al di là della demagogia non si è fatta un’operazione di bonifica della spesa pubblica che consentirebbe un finanziamento del welfare per le famiglie e per gli investimenti. Senza investimenti la ripresa, nono-

A destra, Linda Lanzillotta. Nella pagina a fianco, Lorenzo Dellai. In basso, Francesco Rutelli, che ieri, dall’Auditorium Paganini di Parma, ha dato inizio ai lavori della prima Assemblea nazionale (e quindi istitutiva del partito) di Alleanza per l’Italia

Con l’Udc ci sono molti punti di contatto, occorre una visione plurale per essere attrattivi per i cattolici, ma anche per gli ambientalisti, i liberal-democratici e i riformisti

stante l’ottimismo del ministro Tremonti, sarà un miraggio. Per non parlare delle assoluta mancanza di riforme strutturali sul fronte previdenziale, sul mercato del lavoro e per le famiglie. E per le liberalizzazioni? Non si sono fatte. Quella sull’acqua è una privatizzazione in piena regola, legato alle società quotate in borsa. Quale sarà la strategia politica di Alleanza per l’Italia? Non vogliamo essere l’ennesimo partito, ma una forza politica centrale

e strategica in un’alleanza che abbia in agenda la modernizzazione. Vogliamo attirare le energie deluse da questo schema bipolare e nella prospettiva della crisi che sta vivendo il centrodestra l’aggregazione delle forze che rappresentano

questa parte dell’elettorato sarà strategica. Aver abbandonato il progetto del Pd è stato doloroso? Noi siamo noi ad averlo abbandonato, ma è il Pd che si è allontanato dal progetto riformista originario che era lungimirante. Ne abbiamo dovuto prendere dolorosamente atto. L’onorevole Binetti ha dichiarato di guardare con interesse ad Alleanza per l’Italia. Altri cattolici nel Pd seguiranno il vostro esempio? Il nostro movimento pone il


politica

12 dicembre 2009 • pagina 7

L’ex vice premier apre l’Assemblea istitutiva del nuovo movimento

«Obiettivo numero uno: ripensare la politica» Da Parma Rutelli lancia la sua Alleanza per l’Italia e assicura: «Saremo un nuovo polo aggregatore» di Francesco Capozza

pluralismo come elemento identitario e forse l’onorevole Binetti questo elemento non lo ritrova nel Pd. Le sue posizioni da noi sarebbero rispettate, anche se molti non le condividono. Ma questo matrimonio con l’Udc si farà? Con l’Udc ci sono molti punti di contatto, ma anche il partito di Casini deve contaminarsi e integrarsi in una visione plurale che è necessaria per essere attrattiva nei confronti dei gruppi sociali che non hanno soltanto una caratterizzazione legata alla cultura cattolica, ma sono anche ambientalisti, liberal-democratici, riformisti. Non era più semplice andare nell’Udc come ha fatto la senatrice Dorina Bianchi? Credo che bisogna andare all’aggregazione delle forze attraverso la costruzione di un’identità in cui si mischiano le culture politiche per un progetto che abbia una sua unitarietà e che, appunto, parli del futuro a tanti. Nell’assemblea di Parma si approva un documento sulla laicità, pur nella pluralità delle culture. Il vostro movimento viene definito il Kadima italiano. È corretto? Se s’intende l’idea di costruire una forza che aggrega, da percorsi diversi, le forze riformiste

e liberaldemocratiche presenti in tutti gli schieramenti per essere il centro programmatico di un’alleanza è giusto. Se, per esempio. Fini si propone come un leader liberaldemocratico deve dimostrare che questa linea ha spazio e cittadinanza nel Popolo della liberta, anche se al momento non sembra che sia così. II banco di prova per un partito o per un movimento politico sono le elezioni, come vi muoverete alle Regionali? Il nostro progetto guarda ai prossimi anni, alle Regionali valuteremo caso per caso e, dove ci saranno le condizioni, ci presenteremo con il nostro simbolo o sosterremo liste civiche e liste federate. Non sono le Regionali il nostro traguardo, noi guardiamo oltre. Quale sarà il vostro approccio nei confronti della sinistra giustizialista e radicale? Bisogna trovare dei punti di convergenza sulle cose da fare, tenendo presente che il giustizialismo è la strada per tenerci Berlusconi per i prossimi venti anni. Quale clima si respira intorno a voi? Grande interesse soprattutto dalle realtà territoriali che hanno perso i loro riferimenti e un grande fermento di idee.

PARMA. Alle 15 in punto di ieri, come da programma, Francesco Rutelli è salito sul palco dell’Auditorium Paganini di Parma per dare inizio ai lavori della prima Assemblea nazionale (e quindi istitutiva del partito) di Alleanza per l’Italia. Con lui, al banco della presidenza, il portavoce del partito Tabacci e poi Lanzillotta, Pisicchio, Dellai, Calearo e Vernetti. Rutelli riparte quindi da Parma. Nella città dove fu fondata la Margherita di cui è stato leader per un decennio. Per l’ex vicepremier, Api ha l’ambizione di diventare «il nuovo polo, liberale, democratico e riformatore». La sala è gremita, i giornalisti sono accorsi a decine, ma nessun politico è stato invitato a parte stranieri come il francese Bayrou, presidente del Pde, il belga Verhofstadt, leader dei liberaldemocratici europei, l’americano Marshall, presidente del progressive Policy Institute (tink-tank vicino al presidente Obama), l’inglese Kirjas, segretario generale dell’Internazionale liberale, il basco Merladet, segretario generale del Pde. La scelta poi di una città del Nord tra le più ricche d’Italia non sembra casuale visto che al centro del dibattito ci sono proprio il lavoro e le imprese. Nota di colore: nella serata di ieri si sono svolti cinque workshop tematici con ospiti esterni provenienti dal mondo dell’impresa e della ricerca, una novità per un’assemblea politica di questo tipo, ancorché istitutiva di una neonata formazione.

tando ulteriori frammentazioni del sistema politico - una più ampia partecipazione dei cittadini e in particolare dei giovani alla vita politica e un costruttivo confronto nelle istituzioni, saldamente ancorato a serie basi etiche e precisi obiettivi programmatici. Invio il mio cordiale saluto - ha concluso Napolitano - a tutti i partecipanti dell’Assemblea con l’augurio di un proficuo dibattito delle decisioni ed iniziative da assumere». Applausi scroscianti e poi tutti in piedi: si canta l’inno nazionale.

Ma tornando a Parma, innanzi tutto qui l’Api vuole «definire la sua identità e dire quello che vogliamo fare. Pensiamo si debba ripensare il bipolarismo - dice ancora Rutelli - e formare un nuovo polo perché oggi la situazione è bloccata e i due partiti principali sono divisi in modo impressionante al loro interno. Noi speriamo di incontrare lungo il cammino altre forze politiche, con Casini abbiamo già un ottimo rapporto, ma puntiamo a una realtà più larga». Quanto all’apertura verso Fini, Rutelli si limita a registrare che «la crisi politica tra lui e Berlusconi è evidente», perciò nell’ambito di una «ridefinizione dell’attuale schema politico» Fini non potrà che essere coinvolto dai nuovi scenari. Per Rutelli lo spazio di azione per un soggetto come Api è destinato ad allargarsi, perché l’attuale sistema bipolare «ha esaurito la sua spinta». «È evidente che siamo in mezzo a una situazione bloccata, noi crediamo nell’alternanza ma oggi l’alternativa non esiste. Il bipolarismo ha esautito la propria capacità di rappresentare il Paese. Per questo crediamo ci sia lo spazio per formare un nuovo polo politico, di orientamento democratico, popolare e riformatore». Infine, «nonostante le fibrillazioni che scuotono la maggioranza», l’ex leader della Margherita diffida della prospettiva a breve termine di un cambio della guardia ai vertici del Pdl. «Berlusconi è al tramonto? Non c’è dubbio che la sua leadership abbia subìto un logoramento - si limita ad osservare l’ex vice premier - ma da sedici anni assistiamo alle “albe e ai tramonti” di Berlusconi. Non bisogna mai sottovalutare la sua capacità di rimettersi in pista». Sulle prospettive e gli allargamenti di Api, Rutelli conclude così: «Intorno a noi vediamo grandi potenzialità e interesse per ciò che stiamo facendo. Sappiamo di essere un movimento giovane e che dobbiamo collegarci con altri, con l’Udc abbiamo un ottimo rapporto, ma non vogliamo costruire un partito medio-piccolo». Sempre meglio avere grandi ambizioni...

«È evidente - ha detto il leader di Api - che il Paese oramai è bloccato. Con noi, oggi, prende forma un’alternativa giovane, liberale e riformatrice»

L’assemblea si è aperta con un messaggio rivolto al Presidente della Repubblica Napolitano, che, ha annunciato Rutelli, riassume l’ispirazione del movimento: «Signor presidente - ha esordito Rutelli - le rivolgiamo il deferente, caloroso saluto dell’Assemblea Nazionale di Alleanza per l’Italia. Api nasce con una motivazione critica verso i condizionamenti troppo grandi esercitati dalle forze che pensano di trarre beneficio dall’esasperazione politica e non esitano a sfibrare la coesione del Paese. A Lei, signor presidente, la stima unanime della nostra Assemblea. Consideriamo la sua opera, svolta nel rispetto rigoroso della Costituzione e nell’incessante ed efficace responsabilità di custodire l’unità nazionale, il più alto punto di garanzia per tutti gli italiani. Vediamo in lei il miglior garante della ricerca del bene comune». A stretto giro, la risposta di Napolitano: «Onorevole Rutelli, la ringrazio vivamente per le cordiali espressioni di stima e di considerazione che l’Api ha voluto rivolgermi. Apprezzo l’intendimento espresso di contribuire a far uscire il Paese da una contrapposizione politica esasperata, promuovendo - attraverso l’aggregazione con altre forze ed evi-


diario

pagina 8 • 12 dicembre 2009

Fratture. Le ragioni delle dimissioni di Realfonzo svelano nuovi scenari di ulteriore indebolimento per l’area democratica

Crisi coniugale tra Pd e alleati? In Campania si fa sempre più difficile la convivenza con la sinistra radicale ROMA. Se a Roma il Partito democratico mostra, abbozzato, qualche problema di tenuta e linea politica, a Napoli quella bozza è una un corposo volume enciclopedico, rilegato minuziosamente, con copertina rigida e titolo intarsiato in oro. Napoli è da sempre una lente di ingrandimento sui problemi del Paese. Il centrosinistra non fa eccezione e, difatti, dall’arresto di fine novembre del consigliere comunale Achille De Simone alle dimissioni di due giorni fa dell’assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, in nessun posto come a Napoli dà sfoggio dei suoi limiti. Il centrosinistra campano è ormai percepito dai cittadini campani (e dagli italiani tutti) come l’opposto di quanto esso s’incaricava di rappresentare esattamente sedici anni fa, all’alba della stagione dei sindaci che incoronava Bassolino nuovo vice Re di Napoli.Tra chi addita a una perdita pressoché generale di credibilità politica e chi si affanna a salvare il salvabile, gli indici di gradimento dei vertici istituzionali campani, con la sola eccezione del sindaco di Salerno De Luca, sono i più bassi d’Italia. Gli argomenti con cui l’assessore Realfonzo, voluto nella giunta Iervolino nel rimpasto di gennaio da Rifondazione Comunista, lasciano inquieti. L’assessore economista, docente a Benevento e collaboratore di Bersani al ministero dello Svi-

di Antonio Funiciello

Nel Pdl spunta Cosenza, collaboratore di Bertolaso

L’ingegnere di Berlusconi zo si riferisce sono con tutta evidenza - proprio in quanto “egemoni”- quelle che fanno riferimento ad Antonio Bassolino e alla maggioranza bersaniana che ha vinto il congresso nazionale e regionale del Pd campano. Eppure non può che

Trattandosi da tempo ormai di forze il cui comune denominatore è ridotto al “minimo”, i contrasti non fanno che esacerbare ancor più la situazione luppo nel secondo esecutivo Prodi, stigmatizza la realtà delle società partecipate comunali, che sarebbero soggette a un controllo clientelare in piena degenerazione da parte di «frange egemoni del Partito democratico... Un complesso scoordinato di strategie che puntano a proteggere interessi particolari, e che tendono a usare le partecipate come macchine per il consenso, legate a prebende e a privilegi». Si utilizzano contro il Pd toni che neppure il centrodestra campano ha mai utilizzato. Le frange egemoni a cui Realfon-

lasciare un po’ sospetti questo tentativo di delimitare al Partito democratico lo spazio ristretto di questo presunto e inefficiente sistema di governo clientelare che furoreggerebbe in Campania da sedici anni.

Se Realfonzo ha ragione, infatti, un partito che ha concorso in maniera strutturale a costruire questo presunto e inefficiente sistema di governo clientelare è proprio quello della Rifondazione Comunista, che l’ha voluto in propria quota nel rimpasto di Giunta di gennaio. Alle elezioni regionali del 2005

ROMA. Il vero interrogativo è: ma chi detiene la golden share in Campania, Silvio Berlusconi o Nicola Cosentino? Entrambi, in fondo: anche se, è ovvio, il presidente del Consiglio vanta un trofeo ineguagliabile, ossia la rimozione dell’emergenza rifiuti. Sta di fatto che con il doppio voto favorevole al sottosegretario (no all’arresto e alla mozione di sfiducia) si è finalmente aperta la ricerca del candidato per la Regione. Cosentino ha ottenuto quello che voleva e adesso può compiere il passo indietro. Non a caso, solo la sera successiva al pronunciamento della Camera il premier ha annunciato la svolta: «In Campania attingeremo a una candidatura esterna alla politica, avremo delle sorprese», ha detto alla cena con i giovani del Ppe a Bruxelles. Il nodo è evitare una scelta che provochi eccessivi mal di pancia al coordinamento regionale del Pdl. Uno come Giovanni Lettieri, presidente dell’Unione industriali di Napoli rischie-

rebbe addirittura di essere impallinato dal fuoco amico. Riscuoterebbe maggiori consensi il capo degli 007 di via Arenula Arcibaldo Miller, ma Berlusconi a questo punto vuole una figura che sia diretta espressione della sua popolarità. Ecco perché nelle ultime ore sono cresciute le quotazioni di Edoardo Cosenza, preside della Facoltà di Ingegneria alla Federico II di Napoli. La sua discesa in campo sublimerebbe il vero sogno del Cavaliere, ossia Guido Bertolaso, che però non vuole saperne: Cosenza ha il pregio di poter ben surrogare il dimissionario capo della Protezione civile per averci lavorato prima a San Giuliano di Puglia e poi in Abruzzo ma soprattutto a Napoli per l’emergenza immondiozia. Non essendo disponibili né Berlusconi né Bertolaso, sarebbe lui a rappresentare i meriti del governo rispetto al più grave dei disastri compiuti dall’amministrazione di centrosinisatra.

che confermavano Bassolino alla guida della Campania, i partiti alla sinistra del Pd (allora Ds e Margherita) totalizzarono circa il 16 per cento dei consensi della coalizione. Alle elezioni comunali del 2006 che sorprendentemente videro trionfare la Iervolino dopo la vittoria risicata del 2001, la sinistra radicale totalizzò, invece, la bellezza di circa il 20 per cento dei consensi. A queste performance eccezionali corrisposero incarichi e nomine («prebende e a privilegi», per dirla con Realfonzo) di primissimo piano. Che Rifondazione Comunista tenti di allinearsi all’Italia dei Valori nel proposito di sottrarsi alla valutazione complessiva sull’esperienza di governo del centrosinistra nel Mezzogiorno è un’operazione spericolata e condannata all’insuccesso. Per chi ha avuto un tale livello di partecipazione nella creazione di quello che l’assessore dimissionario definisce «un complesso scoordinato di strategie che puntano a proteggere interessi particolari», non è proprio possibile tirarsi fuori.

Le dimissioni di Realfonzo segnalano, meglio di altri contrasti che si svolgono in periferia, il braccio di ferro nazionale tra Partito democratico da una parte e il rassemblemant che somma Italia dei Valori, Sinistra e libertà e Comunisti vari dall’altra. La bocciatura di Massimo D’Alema contro Nichi Vendola in Puglia si ripercuote altrove, rendendo più difficile la già complessa realizzazione di quella rete larga di alleanze che dovrebbe tenere tutta insieme una più che eterogenea sezione di arco costituzionale che va da Casini a Ferrero. Trattandosi già di forze il cui comune denominatore è ridotto ad un minimo che somiglia sempre più a una particella molecolare, i contrasti alla base delle dimissioni dell’assessore napoletano esacerbano ancor più la situazione. I partiti sinistri sopravvissuti alla vocazione maggioritaria di Veltroni e rilanciati oggi dalla nuova strategia delle alleanze di Bersani, tentano insomma di ricattare il Partito democratico, cercando un’improbabile verginità in tardivi ripensamenti. È una strategia perdente, che se non rende più lieve il fardello del Pd, non servirà di certo neppure a tenere fuori la sinistra radicale dal severo giudizio degli elettori, chiamati al voto regionale in primavera.


diario

12 dicembre 2009 • pagina 9

Benedetto XVI: «Provo rabbia, i responsabili pagheranno»

L’ex presidente della Puglia a processo assieme ad Angelucci

Pedofilia in Irlanda, la vergogna del Papa

Bari, Fitto rinviato a giudizio per corruzione

CITTÀ

DEL VATICANO. «Rabbia, tradimento e vergogna»: sono questi i sentimenti di papa Benedetto XVI per gli abusi dei preti pedofili a danno dei minori in Irlanda. Il pontefice ha presieduto ieri mattina una riunione di emergenza in Vaticano in seguito alla pubblicazione del Rapporto Murphy che ha documentato l’ampiezza, la gravità e la sistematicità degli abusi nei confronti dei minori nell’arcidiocesi di Dublino. Alla riunione hanno partecipato il presidente della Conferenza episcopale irlandese, il cardinal Sean Brady, l’arcivescovo di Dublino, monsignor Diarmuid Martin, il nunzio vaticano in Irlanda, monsignor Giuseppe Leanza, e il segretario di Stato vaticano, cardale Tarcisio Bertone, insieme con i vari capi del dicastero della Curia romana.

Il Pontefice, ha spiegato ieri un comunicato ufficiale della Sala Stampa, dopo «un attento studio della relazione» ha espresso ancora una volta «il suo profondo rammarico per le azioni di alcuni membri del clero che hanno tradito la loro solenni promesse a Dio, così come la fiducia in loro riposta da parte delle vittime e delle loro famiglie, e dalla società in generale». «Il Santo Padre - si afferma ancora nella nota - con-

Statali, precari e studenti: tutti uniti contro Tremonti Tre cortei a Roma. Scontri tra le forze dell’ordine e l’Onda di Francesco Pacifico

ROMA. Doveva essere la giornata dell’orgoglio del pubblico impiego, con la Cgil che è riuscita a portare in piazza assieme Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. Invece Roma ieri è tornata a essere teatro di scontro tra forze dell’ordine e studenti dell’Onda. Con alcune centinaia di ragazzi che sono stati caricati dalla polizia mentre provavano a raggiungere la sede del ministero dell’Economia, a loro dire il «vero artefice dei tagli all’istruzione». Uno dei leader dell’Onda, Francesco Brancaccio, ha denunciato che uno dei ragazzi coinvolti nei tafferugli è stato ricoverato dopo aver riportato una frattura alla mano, mentre un altro sarebbe stato colpito in faccia. Antonio Di Pietro ha commentato: «Se il governo continua ad essere sordo ai bisogni dei cittadini, si andrà allo scontro di piazza e lì ci scapperà l’azione violenta». Respinge le accuse il ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini. Che a sua volta se l’è presa con «i centri sociali che strumentalizzano gli studenti. Desidero esprimere il mio rammarico nel vedere che, ancora una volta, alcune manifestazioni non sono dirette e coordinate dagli studenti ma dai centri sociali e dagli anarchici». Ieri mattina si erano dati appuntamento nella Capitale gli statali del centro Sud (convocati dalla Cgil), gli studenti e gli insegnati precari e i ricercatori universitari, gli allievi delle scuole medie e superiori. Tre serpentoni colorati tra bandiere e striscione, che si sono mossi rispettivamente da piazza della Repubblica (il pubblico impiego), dall’ingresso della Sapienza in piazza aldo Moro (gli universitari) e da Piazzale Ostiense (gli studenti). Il primo diretto in piazza del Popolo, dove Guglielmo Epifani ha chiuso la manifestazione, gli altri due in viale Trastevere, al ministero dell’Istruzione e della Ricerca. Ma i problemi sono sorti quando gli universitari si sono avvicinati alla stazione Termini: qui avrebbero scoperto dalla polizia che il corteo si sarebbe dovuto sciogliere a poche centi-

naia di metri. Un gruppetto ha provato a forzare il blocco per continuare nel loro percorso. Quindi i primi scontri. Una nota dei collettivi studenteschi ha denunciato «due cariche delle forze dell’ordine contro studenti e precari che a mani alzate stavano tentando di avanzare», di essere stati inseguiti e manganellati. Fatto sta che a un certo punto un manipolo di manifestanti è riuscito a prendere di sorpresa gli agenti e scappare verso il non lontano ministero dell’Economia. Qui, con la polizia alle calcagna, si è svolto un breve sit-in, durante il quale i ragazzi hanno gridato verso le stanze di Tremonti: «Noi la crisi non la paghiamo». La situazione dopo poco è tornata alla calma, con gli universitari che sono tornati verso la Sapienza. Invece, e seppure dopo tante mediazioni con le forze dell’ordine, è riuscito a raggiungere il dicastero di viale Trastevere il corteo degli studenti delle scuole superiori. In cinquecento hanno urlano slogan sotto le finestre del ministro Mariastella Gelmini, quindi hanno srotolato un grande striscione: «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli. Bloccare la riforma, riprenderci il futuro».

Epifani porta la Cgil in piazza: «Siamo qui per difendere il lavoro, anche a tutela della democrazia e della Costituzione»

divide l’oltraggio, il tradimento e la vergogna percepiti da così tanti fedeli in Irlanda, e si è unito a loro nella preghiera in questo momento difficile nella vita della Chiesa», invitando allo stesso tempo i cattolici irlandesi e in tutto il mondo «a unirsi a lui nella preghiera per le vittime, le loro famiglie e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini efferati». Inoltre, prosegue il comunicato, Benedetto XVI «assicura tutti gli interessati che la Chiesa continuerà a seguire la grave questione con la massima attenzione, al fine di meglio comprendere come tali vergognosi eventi siano accaduti e il modo migliore per sviluppare strategie efficaci così da evitare il loro ripetersi».

BARI. La Puglia e la sanità restano al centro del mirino. Il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Bari Rosa Calia Di Pinto ha rinviato a giudizio il ministro dei rapporti con le Regioni Raffaele Fitto e l’imprenditore Giampaolo Angelucci. L’indagine rientra nell’ambito del più ampio processo, noto come “La Fiorita”, che riguarda anche la presunta tangente da 500mila euro che sarebbe stata versata da Angelucci a favore del movimento politico “La Puglia prima di tutto”, creato per le regionali del 2005 dall’esponente di governo che allora era governatore uscente della Puglia nuovamente in lizza con la sua candidatura. L’inchiesta è a carico di 78 persone

Esito totalmente opposto per il corteo della Cgil. Secondo gli organizzatori avrebbero sfilato per il centro di Roma circa 100mila persone, tra slogan contro il governo – «Berlusconi stai calmino, senza la ricerca ti metti il parrucchino» – e palloncini rossi. Altre 70mila erano in piazza a Milano. Il segretario di categoria, Carlo Podda, ha dichiarato che «nel pubblico impiego l’adesione allo sciopero generale della Cgil è del 50-60». Secondo il ministero non si è andati oltre il 7 o l’8 per cento. Dal palco di una piazza del Popolo gremita, il leader di corso d’Italia, Guglielmo Epifani, prima ha chiesto soldi per il rinnovo del contratto degli statali e stigmatizzato l’assenza di Cisl e Uil, quindi ha ricordato al governo: «La Cgil difende il lavoro pubblico per difendere la democrazia e la Costituzione».

per reati a vario titolo commessi tra il 1999 e il 2005.

Il procedimento riguarda anche un giro di appalti che secondo l’accusa la cooperativa “La Fiorita”, nel 2002 e nel 2003, si sarebbe aggiudicata in modo irregolare nel settore della sanità. Tra gli imputati imprenditori, ex manager delle Asl e funzionari regionali.Tra le sette persone invece assolte con rito abbreviato c’era anche Mario Morlacco, ex direttore dell’Ares di Puglia e oggi subcommissario alla Sanità del Lazio che è stato dichiarato innocente dall’imputazione di falso dato che il fatto non sussiste. Il rinvio a giudizio per Raffaele Fitto è parziale: sono passati al vaglio del giudice sei capi di imputazione su undici, cioè per i reati di abuso d’ufficio, due episodi di corruzione, finanziamento illecito ai partiti, peculato e un altro abuso, mentre il gup ha dichiarato il non luogo a procedere per i reati di associazione a delinquere (per non aver commesso il fatto), due episodi di falso relativi alle Rsa (perché il fatto non sussiste), concussione (perché il fatto non sussiste) e un altro falso relativo all’attestazione di spese di rappresentanza (perché il fatto non sussiste). L’inizio del processo per tutti i rinviati a giudizio è stato fissato per il 25 febbraio 2010.


economia

pagina 10 • 12 dicembre 2009

Globalizzazione. Il mercato delle automobili sta cambiando faccia tra accordi strategici e acquisizioni. Vediamo come

L’autostrada cinese Volkswagen, Peugeot e Gm vanno a Oriente. Solo la Fiat fa eccezione e guarda a Ovest Renato M. Calvanese a solitudine è un inferno, dice il saggio. Per una casa automobilistica però può significare addirittura qualcosa di peggio: la morte. Turbate da questa macabra profezia le motor company di tutto il mondo sono da tempo alla ricerca di alleati che possano difenderli dalla minaccia dell’estinzione. C’è chi come Fiat ha puntato la barra ad ovest ed è sbarcata in America, e c’è chi come Volkswagen e Psa ha deciso che un buon amico vada cercato in Giappone. Bisognerà capire chi di loro ha scelto la giusta direzione.

cercano perché hanno bisogno l’uno dell’altro. Le case giapponesi sono chiamate ad affrontare un problema che se non risolto in fretta le condannerebbe definitivamente alla marginalità: trovare un nuovo fratello maggiore. Causa la crisi del 2008, la General Motors ha ritirato la quota del 20% posseduta in Suzuki dal 1981, mentre Mitsubishi è sta-

Subito dopo aver concluso l’affare Porsche con l’acquisto del 49,9% della casa di Stoccarda, Volkswagen ha annunciato mercoledì che rileverà il 20% della giapponese Suzuki Motor Corporation. La prospettiva è quella di veder crescere la partecipazione fino a superare il 30%, mossa che gli garantirebbe il controllo della società. L’operazione, quantificata dal gruppo di Wolfsburg in 1,6 miliardi di euro, dovrebbe concretizzarsi il prossimo gennaio. Nello stesso tempo Psa ha confermato l’avvio di un negoziato per una partnership strategica con il marchio giapponese Mitsubishi. Dopo le numerosi ipotesi di fusione filtrate in questi mesi, che volevano prima Fiat e poi Bmw vicini alla casa francese, Psa avrebbe finalmente terminato la ricerca di un alleato. Secondo quanto riportato dal quotidiano Nikkei, potrebbe infatti acquistare una quota tra il 30% e il 50% della compagnia asiatica a fronte di un esborso di circa 330 milioni di euro. Di questi tempi, Oriente e Occidente si

ta abbandonata dalla Daimler già nel 2005. A loro volta VW e Psa si sono fatte avanti non tanto per colmare un vuoto affettivo ma per rincorrere un’unica ambizione: diventare player globali.

L

correnti, produce meno di un milione di veicoli all’anno, e le sue quote di mercato sono ovunque molto contenute. L’unico valore aggiunto che può vantare è il know-how in fatto di costruzione di veicoli elettrici. Mitsubishi infatti ha già messo in commercio in Asia il modello completamente elettrico MiEV, dalla cui linea la Peugeot intende produrre la

Le case giapponesi sono chiamate ad affrontare un problema che se non risolto in fretta le condannerebbe definitivamente alla marginalità: trovare un nuovo fratello maggiore

In questa corsa, però, Psa si muove in maniera tortuosa, e l’operazione Mitsubishi rafforza questa impressione. Dopo aver superato le difficoltà finanziarie del 2006 e aver raggranellato danaro attraverso tagli del personale e contenimento dei costi delle forniture, la casa francese ha bisogno di un partner per smentire la sua fama di eurocentrismo e per superare il dilemma del downsizing. Per raggiungere questo obiettivo deve a tutti i costi puntare al rafforzamento sul mercato asiatico e in particolare su quello cinese, dove attualmente detiene una quota di mercato troppo bassa, circa il 3%. Ma su questo terreno Mitsubishi non sembra poter dare una mano. È il settimo produttore giapponese su una classifica in cui si contano solo otto con-

minicar elettrica Ion, annunciata ormai da anni. Con l’operazione giapponese sembra finalmente essere venuta galla la strategia di Psa: da una parte svela che i suoi piani di espansione sono legati alla diffusione di veicoli di nuova generazione, e dall’altra emerge la volontà di dare battaglia su un terreno scivoloso come l’auto elettrica alla rivale casalinga Renault, da tempo associata al marchio Nissan, che da anni ormai si sta giocando tutto il suo futuro sulle batterie al litio.

Al centro dell’affare Suzuki invece, nonostante le dichiarazioni di rito, non ci sono né i volt, né le preoccupazioni sulle emissioni di anidride carbonica. È vero che gli accordi tra VW e Suzuki prevedono che il gruppo tedesco fornisca al costruttore giapponese l’esperienza per la realizzazione di vetture ibride ed elettriche, ma è anche vero che Volkswagen non è proprio all’avanguardia nel settore delle alimentazioni alternative. La ragione dell’operazione

in realtà si spiega soltanto con un dato: attraverso la sua controllata Maruti, la casa giapponese ha una posizione dominante in uno dei mercati più vivaci del pianeta, quello indiano, dal quale il gruppo di Wolsfburg è completamente assente. Suzuki è in India fin dal 1983, e complice anche la sua anzianità, nei primi dieci mesi dell’anno si è aggiudicata una fetta di mercato del 47%, pari a 617mila auto vendute su un totale di 1,3 milioni. Con Suzuki la casa tedesca completa il posizionamento in Asia, si assicura una buona base per le operazioni nel subcontinente indiano e inoltre consolida la posizione in Cina allungando le mani sui 180mila pezzi venduti da Suzuki negli ultimi dieci mesi, in un mercato che per VW ormai è vitale. Sta lì in parte il segreto della riserva finanziaria di Wolfsburg che ha reso possibili le operazioni Suzuki e Porsche. In Cina ormai VW riesce a vendere più auto che in Germania.

Le vicende di VW insegnano una cosa: il modo migliore per assicurarsi la sopravvivenza nel settore dell’auto è andare in Cina. In questo senso l’aver puntato ad Occidente da parte di Fiat sembra una mossa meno strategica. Senza Cina, infatti, la partita globale è dura da vincere. Per capire perché basta dare un’occhiata ai numeri. Nel 1999, secondo i dati prodotti annualmente dall’Unione Nazionale Rappresentanti Autoveicoli Esteri (Unrae), le immatricolazioni di passenger car in Cina ammontavano ad appena 600 mila unità. Già tre anni dopo, nel 2002 il valore era più che raddoppiato: 1,4 milioni. L’anno successivo i volumi raggiungevano i 2,3 milioni, poco più di quanto registrato in Italia, nel 2005 toccavano quota 3,2 milioni, nel 2006 superavano la Germania con 4,3 milioni, nel 2007 il Giappone con 5,3, e nel 2008, complice la crisi economica, aumentavano di sole 400 mila unità rispetto all’anno precedente. Risultati straordinari. Un aumento me-


economia

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paese. L’altra isola felice, come già detto, è Volkswagen. Entrata per prima nel mercato cinese nel lontano 1978 grazie a due joint venture con le più grandi compagnie cinesi, la FAW con base a Changchun nel nord del paese, e la SAIC di Shangai (l’altra grande è la Dong Feng Motor Corporation nella provincia di Hubei), oggi VW vende in Cina poco meno di un milione e mezzo di pezzi.

A grande distanza dalle prime due compaiono tutte le altre motor company che contano. La Guangzhou Honda, la Faw Toyota, la Beijing Hyundai, la Dongfeng Nissan, la Geely e la Chang’an Ford, la Dongfeng Peugeot Citroen. Le prime tre si attestano sul mezzo milione circa di veicoli venduti, la Nissan poco dietro, mentre Ford e Peugeot, ultime arrivate. si aggiudicano meno del 3% del mercato con circa 200mila auto vendute. E la Fiat? Ventimila auto vendute nel 2007, quattromila nel 2008, ancora meno nel 2009. Praticamente inesistente. Uno zero virgola. E l’alleata Chrysler? Ha portato in dote almeno una presenza sul mercato asiatico? I numeri parlano chiaro: dodicimila auto vendute nel 2007, diecimila nel 2008, ancora meno nel 2009. Uno zero virgola anche l’alleata. E dio calcolato anno su anno del 33%. In dieci anni, dai livelli di paesi come la Polonia e l’Olanda, la Cina è cresciuta al punto da diventare il secondo mercato al mondo, ben distaccato però dagli Usa che nel 2008 guidavano la classifica con 6,8 milioni di passenger car. Poi è arrivato il 2009, un anno in cui gli analisti di mercato annunciavano livelli di crescita contenuta. Ma complice la politica governativa di incentivi e tagli alle tasse, con anni di anticipo rispetto alle previsioni è avvenuto quello che tutti sapevano sarebbe successo un giorno: nei primi undici mesi dell’anno, secondo quanto riportato dalla governativa China Association of Automobile Manufacturers (CAAM), le vendite di passenger car hanno raggiunto il numero di 9,2 milioni, il 60% in più dello scorso anno. Nello stesso periodo, secondo i dati diffusi dal Wall Street Journal, gli Usa si sono fermati a 7,6 milioni. È il sorpasso. Un vero

shock culturale. L’America per la prima volta è seconda.

Eppure 9 milioni (12,2 contando i veicoli commerciali e pesanti) non sono nulla. La Cina è destinata a fare molto meglio. In un articolo pubblicato da Repubblica nel dicembre 2006, il giornalista Salvatore Tropea scriveva: «Il ragionamento che Sergio Marchionne fa sulla Cina è molto semplice. L’ amministratore delegato della Fiat è convinto che il grande paese asiatico tra pochissimi anni diventerà un mercato da 89 milioni di automobili». Un numero che per intenderci equivale a tre volte il parco circolante italiano. Se queste sono le cifre allora è ovvio che i grandi costruttori facciano di tutto per arrivare in Cina. La prima cosa che uno straniero deve fare per partecipare alla cuccagna è trovarsi un partner locale. Il governo infatti impone a tutte le case automobilistiche che vogliano installarsi in Cina, di stabilire una joint venture pa-

La prima cosa che uno straniero deve fare per partecipare alla cuccagna cinese è trovarsi un partner locale. Pechino infatti impone a tutte le aziende di stabilire una joint venture paritaria ritaria con un’azienda cinese. Ogni casa non può sottoscriverne più di due. «Se rispetterete questi limiti - sembrano dire i cinesi - state sicuri che diventerete ricchi e ve la riderete; noi intanto però impariamo il mestiere». Ad aver subito risposto all’invito sono stati in due, quelli che adesso se la ridono. General Motor con l’ultimo boom del mercato cinese ha risanato la situazione disastrosa dei conti che solo qualche mese fa sembrava condannarla alla bancarotta. Inoltre ha deciso di non vendere più il marchio Opel, asset indispensabile per mantenere la presenza nel mercato europeo. In dieci mesi GM ha venduto 1,5 milioni di pezzi insieme al partner SAIC con cui ha due joint venture e otto stabilimenti sparsi per il

pensare che in Cina la Fiat è sbarcata nel 1979, anno in cui fu inaugurato un ufficio della compagnia a Pechino. Sei anni più tardi Iveco firmava un accordo per la produzione di autocarri a Nanchino, che ancora oggi funziona e assicura buone vendite di autocarri. Nel 1999 venne il turno dell’auto, quando la Fiat firmò una joint venture con la Nanjiing Automobile Corporation. L’investimento fu massiccio, gli obiettivi dichiarati ambiziosi, ma in sette anni di collaborazione in cui venne rimosso per ben quattro volte il presidente del gruppo e per ben sette volte il direttore vendite e marketing, la produzione non superò mai le 30mila unità. Nel 2006 vi fu la rottura. La Nanjing venne acquistata dalla SAIC e l’intesa con

Fiat (non quella con Iveco però) fu sciolta. Dopo questa delusione la casa torinese si buttò nelle braccia di un altro partner, Chery Automobiles, per produrre a partire dal 2009 vetture con marchio Alfa e Fiat ma con motori cinesi. Fino ad allora la casa di Torino si sarebbe limitata ad importare in Cina macchine prodotte in altri paesi e pesantemente tassate dal governo cinese. Ma l’alleanza con Chery nel frattempo non è mai partita, e si è dovuto attendere il 6 luglio del 2009 per rilanciare la strategia di Fiat nell’impero di mezzo. Alla presenza del premier cinese Hu Jintao, in visita diplomatica a Roma, e del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Sergio Marchionne siglava una nuova joint venture con Guangzhou Automobile Group, già partner Honda e Toyota. L’accordo prevedeva l’investimento di 400 milioni di euro per la costruzione di un impianto nella provincia dello Hunan, destinato alla produzione iniziale di 140mila vetture e 220mila motori.

«La relazione con Guangzhou è l’ultima opportunità per Fiat di creare una presenza significativa in Cina», diceva Ashvin Chotai, direttore del London Consultants Automotive Intelligenge Asia, in un articolo pubblicato da Business Week lo scorso luglio. L’ultima chance che però Fiat inizierà a giocarsi solo nel 2011, quando sarà inaugurato il nuovo stabilimento cinese. Ma un anno è un tempo lunghissimo in Cina. Basta considerare che in soli dodici mesi è accaduto qualcosa di impensabile fino al 2008: le motor company cinesi si sono affacciate in Europa e in America per fare shopping. La Geely si è fatta avanti per l’acquisto di Opel, la BAIC ha ripetuto più volte di essere disponibile a rilevare la svedese Volvo, ora marchio Ford, o la Saab, appartenente alla GM. Infine la Sichuan Tengzhong Heavy Industrial Machinery si è portata a casa uno dei gioielli della manifattura americana, la Hummer, per soli 500 milioni di dollari. Vista la liquidità a disposizione delle aziende cinesi, visti i ritmi impressionanti con cui crescono mercato e fatturato, bisognerà davvero sperare che in un anno il mondo non venga stravolto. Bisognerà davvero sperare che la Fiat non abbia sbagliato lato del mondo.


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Prima il Partito d’Azione e le legislature da deputato socialista. Poi la pausa di r

La Gerusalemm È il titolo di un libro di Vittorio Foa del 1985 che oggi Einaudi ripubblica. Un saggio sul mondo del lavoro che allora la sinistra ufficiale considerò eretico di Giancarlo Galli

li amici di liberal m’hanno chiesto di scrivere una nota, più che una recensione che avrebbe poco senso, su un corposo quanto affascinante e intrigante saggio di Vittorio Foa: La Gerusalemme rimandata, ripubblicato recentemente da Einaudi. Ci provo volentieri, pur conscio della mia inadeguatezza, innanzi alla figura e al pensiero di una personalità che ha davvero, in quasi un secolo di vita (1910-2008), attraversato, vissuto e sofferto la Storia. E che ho avuto modo di incontrare solo in rare occasioni a Roma, negli anni Sessanta, auspice Ugo La Malfa. Io da inviato de Il Giorno di Enrico Mattei, lui (se la memoria non mi inganna), parlamentare socialista e vice segretario generale della Cgil. Perché quel “contatto”? M’occupavo in quel periodo di sindacato, di ciò che avveniva a Torino, nella ruggente Fiat di Vittorio Valletta: boom produttivo e sistematica emarginazione dei rappresentanti Cgil nelle commissioni interne. La Malfa che m’aveva preso in simpatia anche per le mie consuetudini con Raffaele Mattioli, il gran banchiere dominus della Banca commerciale e le attenzioni politiche per il nascente centrosinistra, combinò una colazione al Falchetto, modesta trattoria dietro via Del Corso e piazza Montecitorio.

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Presentandomi, Foa disse pressappoco: guarda che Vittorio è uomo di minoranza, un Grillo parlante, una Cassandra come scrivete di me... Ordinando dei grossi carciofi alla giudea, specialità della casa. Foa sorrise; aggiunse che veniva da una famiglia della buona borghesia piemontese; che sin dall’infanzia era stato «dalla parte giusta, quella che

in Italia sempre perde». Annotai quella frase su un taccuino che tuttora conservo, ma non ne feci mai uso. Allorché ne accennai a Italo Pietra, direttore de Il Giorno, fui invitato a lasciar perdere: Foa stava “sulle croste” a Pietro Nenni, leader socialista, e pure al socialdemocratico Giuseppe Saragat, già aspirante al Quirinale.

La Malfa m’aveva spiegato in anticipo: Foa “veniva” dal Partito d’azione clandestino. Ventenne, a Parigi, s’era unito a “Giustizia e Libertà”. Laureatosi in giurisprudenza, sviluppa un impegno militante. Fra gli ami-

Per lui il conformismo è il grande vizio del popolo italiano. Un vizio purtroppo congenito, che l’intellettuale torinese ha cercato di combattere, con l’onestà del travaglio interiore ci, Giancarlo Pajetta e Primo Levi. Lo arrestano, nel ’35, e il tribunale speciale gli commina tre lustri di galera. Esce dal carcere di Castelfranco Emilia nell’agosto 1943, fa la Resistenza coi “fazzoletti verdi”. Il 2 giugno 1946 il Partito d’azione o fa eleggere alla Costituente. Il movimento guidato da Ferruccio Parri, sicuramente troppo rigoroso e intransigente per l’Italia del tempo, va però incontro ad una memorabile disfatta elettorale: nemmeno il 2 per cento dei voti. Diaspora. La Malfa nel Partito repubblicano; Foa aderisce al Fronte popolare, espressione della “componente socialista”, che o ha pure portato ai vertici della Cgil. Per tre legislature (’53, ’58, ’63), Foa è rieletto deputato del Psi. Ma fra i “nenniani”, dove sta emergendo un giovanotto milanese a nome Bettino Craxi, ha da “sentirsi” stretto. Altre sue parole, annotate: «Sono sempre stato “di sinistra”, di “una sinistra non omologata”». Che voleva dire? Col senno del poi, forse anticipava un calvario politicamente doloroso, intellettualmente cristallino: abbandona (’64) il Psi per lo Psiup. Poi

Pdup, Democrazia proletaria. All’improvviso decide (anni Settanta) di lasciare vita politica e sindacato, per riflettere.

Dirà in un’intervista a Luigi Vaccari: «Ero in uno stato di confusione, anche per ragioni personali (s’era separato da Lisa Giuia, sposata nel ’45, tre figli, fra cui Renzo, futuro direttore dell’Unità e poi, saltando il fosso, di liberal, unendosi a Sesa Tatò, sorella di Tonino Tatò, che fu portavoce di Enrico Berlinguer, nda). E ho preso la decisione di non parlare per quattro anni, per ripensare a tutto. Il silenzio mi ha maturato. Sono diventato in parte moderato, in parte no, comunque più riflessivo. Stare zitto è stato un atto di disubbidienza importante, di cui sono molto contento». È in quel periodo che Vittorio Foa concepisce la prima stesura della Gerusalemme rimandata; un’opera marchiata da un profondo travaglio interiore e dalla sospettosità degli editori. Infatti l’autore pretende di avere individuato la crisi del movimento operaio, il mancato raggiungimento della sospirata Gerusalemme (rammentiamo l’auspicio degli ebrei nella Pasqua: “Il prossimo anno a Gerusalemme”), in ciò che è avvenuto in Gran Bretagna a cavallo della Prima guerra mondiale. Nel 1980 si tiene a Torino un convegno promosso dagli storici di sinistra della Rosenberg & Sellier, la casa editrice che non ha gradito, in pratica respingendolo, il manoscritto della Gerusalemme rimandata. Come ben puntualizza Pino Ferraris nell’introduzione: «Tra le relazioni, piuttosto paludate, dei “professionisti del passato” il suo intervento risulta assolutamente anomalo e singolare». Dice Foa: «Parlo naturalmente per me, non pretendo che quello che dico debba valere per altri. Per me la storiografia è autobiografia. Ho fatto l’organizzatore di sindacati e poi mi sono messo a leggere e persino a scrivere di storia per capire meglio i problemi non risolti della mia vita di lavoro, per darmi ragione di me stesso (...). Non riesco ad interessarmi di ricerche che siano fine a se stesse, che siano puro fine a se stesse (...). Temo che gli storici finiscano per scrivere solo per gli storici e quindi produrre altri storici che scrivano


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riflessione e la sinistra extraparlamentare. Ma sempre da uomo libero

me rimandata

per altri storici di domani (...). Ciò vale per gli economisti e per l’atroce gergo dei politici che scrivono di politica. Le corporazioni delle scienze umane riproducono se stesse. Scrivere e parlare per essere capiti dalla gente è quasi considerato come una volgarità, come non scienza».

Al contrario, per Vittorio, la storia è anche autobiografia, un distillato delle personali esperienze. In un succedersi di discorsi e pubblicazioni lui, puro antifascista, entrando da elefante nelle cristallerie del conformismo di sinistra, fa affermazioni di questo tipo: «Dobbiamo sempre tenere a mente che il fascismo ed Hitler non sono caduti per opera nostra, ma grazie all’intervento dei grandi eserciti. Non è stata la lotta partigiana a sconfiggere il fascismo, sono stati gli alleati. Ma il fatto di aver partecipato, di essere stati attivi, sia pure nella fase finale, in un’opera di liberazione collettiva ha avvicinato l’Italia ai Pae-

Lo scenario del libro è quello della Gran Bretagna di un secolo fa, ma aiuta a capire i tanti perché di un presente in cui troppi si servono delle ansie dei lavoratori anziché servirli

Nella pagina a fianco, Vittorio Foa. A sinistra, Giancarlo Pajetta. A destra, Primo Levi Qui sopra, un vecchio manifesto del partito laburista britannico

si europei». Ancora: «Ho sempre contrastato l’idea che l’Italia fosse antifascista. Non era vero: l’Italia è stata fascista. Si era fascisti perché lo erano tutti (non io, che mi sentivo molto solo nel mio antifascismo). Il fascismo era un fenomeno di conformismo più che di adesione. Infatti è caduto quando gli italiani hanno capito che cosa fossero la guerra e il fascismo. E sono divenuti antifascisti: ancora una volta per conformismo».

Il conformismo: per Vittorio Foa il grande vizio degli italiani. Vizio congenito che ha cercato di combattere, con l’onestà dell’interiore travaglio.

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Ecco perché La Gerusalemme rimandata può essere letta, in controluce, come una metafora politica e personale, prendendo spunto dalle stagioni in cui il laburismo inglese, poi burocratizzatosi, soffocò la primigenia anima rivoluzionaria. «Quegli inglesi - afferma - mi hanno aiutato a capire meglio ciò che nel corso di una lunga vita mi è parsa una distinzione importante: che la politica non è solo comando, è anche resistenza al comando; che politica non è, come comunemente si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé». La ricostruzione, puntigliosa e documentatissima degli eventi al di là della Manica all’inizio del XX secolo, contengono una morale attualissima: il cedimento dei rappresentanti dei lavoratori alle lusinghe. A pagina 159: «Per la seconda e la terza generazione di funzionari dopo la fase mediovittoriana, la collaborazione di classe era diventata un modo di vivere; le relazioni personali fra i leader sindacali e i grandi capitalisti si erano fatte strettissime». È il formarsi di quella “cinghia di trasmissione” partito-sindacato che emergerà nel Secondo dopoguerra. Facendo molto soffrire Foa in una Cgil, coi socialisti penalizzati dall’egemonia del Pci, a sua volta subordinato alle politiche di Mosca. Sul finire degli anni Ottanta, i grandi mutamenti che maturano negli assetti geopolitica mondiali, Vittorio Foa ritiene suo obbligo morale e civile tornare in campo. Enrico Berlinguer, cui era molto legato, è morto nel 1984, ma il suo spirito rinnovatore aleggia prepotente. Accetta quindi la candidatura e la successiva elezione a senatore della Repubblica nel collegio operaio torinese di TorinoFiat-Aeritalia-Ferriere. Da “Indipendente”, qual è sempre stato. Un’esperienza che non gli procurerà molte soddisfazioni. Da qui, la chiusura della Gerusalemme rimandata: «Per riprendere il discorso del cambiamento, non basta capire le cose che sono successe e che succedono, non basta aggiornare un diverso modo di pensare, di rapportare la mente alla realtà. La politica non può essere solo un dire e un dare (...). Occorre ripensare a fondo la stessa idea del lavoro, del rapporto dell’uomo con la natura e con gli altri uomini. Se si vuole salvare la stessa idea del cambiamento, la stessa Gerusalemme, bisogna rileggere il presente, scorgere in esso il futuro, non separare più il domani dall’oggi, riscoprire Gerusalemme attorno a noi, dentro di noi».

Un autentico guanto di sfida, dunque, La Gerusalemme rimandata di Vittorio Foa. Nell’ultimissima versione, quasi il testamento spirituale (laico) di un uomo “di sinistra”che i chierici di una sinistra ufficiale conservatrice e burocratica, spesso arrivista, hanno mostrato di tenere in sospetto d’eresia. Che lo scenario della ricostruzione sia quello della Gran Bretagna di un secolo fa non tragga in inganno: aiuta a capire i risvolti di tanti perché di un presente in cui troppi, specie a sinistra, si servono delle ansie del mondo del lavoro anziché servirle.


mondo

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Analisi. Lo stato di guerra, i rapporti con l’Onu, la costruzione della casa europea e l’Articolo 5: ecco gli ostacoli da superare

Un’Alleanza da ripensare L’Afghanistan ha cambiato le regole Quattro buone ragioni per riscriverle di Mario Arpino hi avesse sottomano il Manuale della Nato e volesse divertirsi a sfogliarlo - sono solamente quattrocento paginette - avrebbe la possibilità non solo di percorrerne la storia e di familiarizzare con articolazioni civili e militari invero assai complesse, ma rimarrebbe sopra tutto colpito dalla quantità di concetti evolutivi e processi di adattamento che hanno avuto luogo nel tempo. Lentamente, quasi staticamente, nei lunghi anni della Guerra Fredda, e assai più rapidamente dopo la caduta del muro di Berlino.

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Archiviato il confronto nucleare, il nuovo percorso inizia quando viene approvata la Dichiarazione sulla trasformazione Ma ciò non basta, perché dopo l’11 settembre la necessità di cambiamento si è fatta davvero impellente, e di conseguenza anche la velocità. Dall’aprile 1949 a oggi si sono tenuti 23 summit, dei quali l’ultimo è quello di quest’anno a Strasburgo-Kehl, mentre il primo è da considerarsi non quello della fondazione, ma quello del dicembre 1957 a Parigi. È qui che si affermavano i principi cui si ispira l’Alleanza, si ponevano le basi per il suo funzionamento ed erano stabilite nel così detto Rapporto dei tre Sag-

gi - le aree di collaborazione non militare. Nei primi 40 anni, in guerra fredda, si erano tenuti solamente dieci summit, e nei successivi venti ben tredici. Questo spinge davvero a riflettere. Relegato agli atti della Storia il confronto nucleare, il percorso della nuova Nato inizia a Londra nel 1990, dove viene approvata la Dichiarazione sulla trasformazione e sottolineata l’esigenza di cooperazione politica, economica e militare con i paesi dell’Europa centrale e dell’est. Ma il vero, primo passo importante verso la modernizzazione è avvenuto con il summit di Roma del 7-8 novembre 1991. Infatti, con l’approvazione di diversi documenti - i più noti sono la Dichiarazione di Roma e il nuovo Concetto Strategico - venivano gettate le basi per la Nato di oggi.

Al vertice di Bruxelles del 1995 erano lanciate la Partnership for Peace (PfP), le misure per dare contenuto all’Identità europea di sicurezza e difesa (Esdi) e la disponibilità, su richiesta dell’Onu, a compiere attacchi aerei selettivi in Bosnia-Herzegovina. A Parigi nel maggio1997 veniva istituito un Consiglio permanente NatoRussia e in luglio, a Madrid, si aggiornava il Concetto Strategico e si invitavano all’adesione la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia. A Washington, nel summit del cinquantenario dell’aprile 1999, veniva adottato il Membership Action Plan (MAP) per preparare le successive adesioni e si lanciava l’iniziativa WMD (armi di distruzione di massa). A Pratica di Mare, nel 2002, si dava nuova veste al Consiglio Nato-Russia, mentre a Praga si enfatizzava la politica delle “porte aperte”, invitando Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Era inoltre deciso un supporto militare ai paesi dell’Alleanza già impegnati in Afghanistan. Segue, nel giugno 2004, il vertice di Istanbul, dove alcune decisioni saranno destinate ad impegnare a lungo l’Alleanza. Tra queste, la graduale espansione delle operazioni Isaf a tutto l’Afghanistan e la creazione di 19 gruppi provinciali di ricostruzione (PRT). Si lancia anche la così detta Iniziativa di Cooperazione di Istambul verso i Paesi del mediooriente “allargato”. Nel febbraio 2005, a Bruxelles, il summit accusa segni di incertezza e si limita a riaffermare il supporto Nato per la stabilità

Dal “Comitato Difesa 2000”

Per capire dove va il Patto ROMA. Ogni anno, il Comitato Difesa 2000 (costituito all’inizio del 2002 con lo scopo di contribuire ad un approfondimento del dibattito sui tremi della sicurezza e della difesa in un’ottica europea e transatlantica) elabora un policy paper, un rapporto analitico, da sottoporre alle classi dirigenti del Paese per creare un’occasione di confronto, analisi e proposte di concetti strategici e operativi e del loro più opportuno inserimento in una più vasta cornice legislativa e politica del sistema Paese, specialmente nelle sue proiezioni oltre i confini nazionali. Coordinato da Michele Nones, è composto da: Ferdinando Adornato, Mario Arpino, Vincenzo Camporini, Carlo Finizio, Carlo Jean, Andrea Nativi, Luigi Ramponi, Stefano Silvestri e Guido Venturoni. La presentazione del Rapporto 2009, dal titolo Dove va la Nato?, si terrà lunedì 14 dicembre al Casd - il Centro Alti Studi per la Difesa - che si trova nella centrale piazza della Rovere di Roma (al numero civico 83). L’inizio dell’incontro è previsto per le 16.30.

nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, ripromettendosi, nel frattempo, di rafforzare la partnership tra Nato e Unione Europea. A Riga, a novembre 2006, é richiesto agli Stati uno sforzo maggiore per l’espansione dell’Isaf e si invitano Bosnia, Montenegro e Serbia a partecipare alla Partnership for Peace (PfP). Parallelamente, si chiede più impegno per stabilizzare il Kosovo. Nel 2008 è il turno di Bucarest, ma l’agenda limita i lavori alla valutazione degli impegni militari (Afghanistan e Kosovo), all’invito ad Albania e Croazia e a un principio di accordo sul nome della Macedonia. Sotto il profilo dottrinale, risultato di rilievo è la decisione dei Capi di Stato e di Governo di procedere nella gestione delle crisi secondo il così detto Comprehensive Approach. Al di là di questo faticoso percorso, patrimonio della Nato è senz’altro quella dotazione di procedure che la rendono unica per capacità di crisis management e di intervento. Se ciò le ha salvato l’identità, la propone però come braccio dell’Onu ai fini dei capitoli VI e VII della Carta. Oggi la Nato, obbligata dai compiti che si è autoconferita, sembra quasi intrappolata dai suoi stessi principi, trovandosi sovente in contraddizione tra gli accordi sottoscritti nei summit e una evidente riluttanza degli Stati a fornire le risorse per onorarli. Non di rado, si è trovata ad affrontare in parallelo, a pettine, un misto di problemi che, con le forze rese disponibili, forse era meglio affrontare singolarmente. L’Afghanistan, dove si è cercato di fare tutto e di tutto prima di conseguire un sufficiente grado di controllo del territorio, è esempio eloquente.

Afghanistan a parte, il livello di risoluzione dei problemi affrontati dalla Nato non appare soddisfacente. Se nei Balcani 15 anni or sono è stata fermata una strage, oggi ci si rende conto che la risoluzione del problema richiederà alcuni cambi generazionali e che il metodo della settorializzazione comporta la permanenza di truppe a tempo indefinito. Se ciò ha consentito di evitare altri morti, ha anche perpetuato la crisi, mantenendola congelata. Idem per il Kosovo, dove si sono creati precedenti che qualcuno ha già cercato di sfruttare. L’allargamento ai


mondo

Paesi dell’est è stata operazione di successo, ma ora si contrappone alla politica di avvicinamento Nato-Russia che, nonostante le ottime premesse, stenta a decollare e sovente regredisce. Intanto, dopo le dispute tra Gazprom e Ucraina, i nuovi membri dell’est chiedono una politica di sicurezza energetica più ferma nei confronti della Russia.

Ma la Nato nicchia. L’invito da Riga per un maggiore impegno degli Stati nelle operazioni è stato sottoscritto, ma gli incrementi sono lenti, non risolutivi, e solo gli Stati Uniti - ispiratori dell’appello - hanno sinora risposto con un buon grado di positività. Anche il rapporto Nato-Unione Eu-

Afghanistan a parte, ad oggi il livello di risoluzione dei problemi affrontati dalla Nato non appare soddisfacente ropea sta procedendo a bassa velocità e con alterne vicende, non agevolato dalle diverse visioni del mondo. Può darsi che l’attuale tentativo di multilateralismo americano serva a migliorarlo, ma è tutto da dimostrare. Le differenti opinioni sulla crisi economica - come è risultato evidente nel G20 - e un’eventuale fallimento della politica della mano tesa potrebbero ben presto spingere gli Stati Uniti verso un nuovo decisionismo, con decadimento dell’interesse per la Nato e per la stessa Europa. Ma con un’America defilata la capacità contrattuale della Nato non sarebbe molto dissimile da quella dell’Unione. Ovvero, assai scarsa. Se così fosse, per l’Alleanza si potrebbe profilare una nuova crisi di identità, mentre il ritorno della Francia difficilmente varrà ad agevolare i rapporti. Può sembrare una visione pessimistica, ma non lo è. È solo un apprezzamento, disincantato ma realistico, del lungo percorso dell’Alleanza dopo la caduta del muro. Ma è anche un tentativo di affrancare il giudizio dalle tentazioni del politicamente corretto, riconoscendo onestamente che la strada della Nato non è affatto in discesa e che l’impegno, anche militare, è destinato a perpe-

tuarsi in vari luoghi del mondo. Pare proprio, paradossalmente, che l’utopia della pace pretenda una guerra infinita. Qualche segnale di miglioramento è venuto dal recente vertice di Strasburgo-Kehl, dove l’Alleanza ha dato l’avvio - con il ritardo che normalmente compete alle decisioni storiche - ad un’ulteriore ripensamento di sé stessa, per vincere le sfide attuali e, con una certa lungimiranza, anche quelle future. L’Afghanistan effettivamente ha suonato il campanello d’allarme, ma l’esigenza di rigenerazione non deriva solo da questo. Ci sono almeno quattro buone ragioni per cui è necessario rinnovare.

La prima è che d’ora in poi i Paesi membri vorranno veder legittimato con maggiore certezza, prima di autorizzarlo, l’uso della forza in operazioni che superino il concetto di autodifesa. La seconda ragione consiste nella necessità di dare un’interpretazione allargata all’articolo 5, la cui applicazione, votata all’unanimità e a caldo subito dopo l’11 settembre, ha posto di fatto la Nato in uno stato di guerra. È evidente come, in un mondo globalizzato, i limiti che si era posta nel 1999 siano ora d’impaccio. La terza ragione è che la Nato de-

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ve cambiare - o almeno chiarire - le sue relazioni con l’Unione Europea e con l’Onu, e qui la questione è reciproca. Se non lo fa, rischia di diventare di volta in volta il braccio armato dell’Onu, o una “coalizione di volonterosi”, o tutte e due le cose, snaturando la sua identità. Il quarto motivo, che consegue dal terzo, riguarda sopra tutto i membri dei Paesi che sono anche parte della Ue, i quali temono, confrontandosi su questi temi e sui rapporti con la Russia, di compromettere la costruzione della casa europea e sarebbero quindi contenti di non smuovere troppo le cose, mantenendo per quanto possibile lo status quo.

Vi sarebbe, poi, una quinta ragione, meno esplicita, perché la pelle dell’Alleanza debba e possa cambiare in fretta: la Russia sta già modificando la propria dottrina strategica e ben presto potremmo avere da Mosca annunci importanti. Ad ogni modo, dopo il summit a livello di Capi di Stato e di Governo di StrasburgoKehl, la conferenza dei ministri degli esteri della Nato tenuta la settimana scorsa a Bruxelles potrebbe rappresentare proprio quel colpo di reni necessario a dare impulso al cambiamento su tutto il fronte, dall’Afghanistan al nuovo concetto strategico, dal nucleare ai rapporti con l’Onu e la Ue, dalle relazioni con la Russia al problema della sicurezza energetica. In tutto questo, il ruolo dell’Italia non sarà affatto secondario.



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La seconda giornata del meeting di Roma ui muri sotto casa mia da qualche giorno qualcuno ha scritto, a pennarello rosso, «Dio è morto?». Chissà con quanta consapevolezza l’ignoto graffitaro cita le famose parole di Friedrich Nietzsche; se non altro però quell’oscuro commentatore dei tempi odierni ha avuto la grazia di aggiungerci il punto interrogativo. La voglia matta che ho, tutte le volte che passo davanti a quella scritta, è rispondere, in blu, «Dio non so, ma certamente chi per primo ha detto quelle parole sì». Giusto per non infierire sfoggiando il Nicolás Gómez Dávila che al padre del nichilismo rispondeva ricordando che la tesi sulla morte di Dio è pure interessante, ma per certo non tocca Dio. Ecco, stando fra i 1500 partecipanti del convegno internazionale Dio Oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto, che si chiude stamane all’Auditorium della Conciliazione a Roma, la prima idea che balena è che il pensatore colombiano aveva davvero ragione da vendere. Ma questo non basta ancora. Dio è certamente impermeabile alle malelingue che da tempo girano sul suo conto, ma se gli uomini non offrono un minimo di collaborazione tutto è vano.

S

Contrordine

Dio

non è morto di Marco Respinti

Ebbene, se con un solo pensiero si dovesse rendere l’idea portante che ha caratterizzato quel decisivo convegno organizzato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, con il patrocinio del Comune di Roma e grazie alla mente di Sergio Belardinelli, questa essa sarebbe. In modi e forme diverse, del “ritorno di Dio”, del “Dio che non muore”, mai, hanno discusso per tre giorni pensatori di primissima grandezza. Sì, dire che le cose con Dio o senza Dio cambiano parrebbe una banalità. Ma non la è.

Al

massimo

rasenta

l’ovvio: ma quante volte al giorno compiamo gesti ovvi, pensiamo cose ovvie, vediamo persone ovvie, e tutto questo è però il nostro pane quotidiano, il sale della Terra che per noi continua ancora e sempre ad avere sapore? La questione vera, infatti, non è se Dio c’è oppure no. La questione è se c’è l’uomo che riconosce Dio, che parla con Dio, che prega Dio. Insomma, se c’è l’uomo, per come egli è strutturalmente fatto. Eccola la grande sfida postmoderna. Spae-

È iniziata una grande controffensiva culturale alle ideologie nichiliste del XX secolo

mann lo ha detto d’esordio, giovedì pomeriggio, aprendo il simposio a gamba tesa e dando il tono. La ragione non contraddice Dio, Dio è fatto per la ragione dell’uomo. L’esistenza stessa di una ragione nell’uomo è conferma dell’esistenza di Dio. Non “penso dunque sono”, ma sono un essere pensante perché Dio esiste, ed è pensante così che egli mi ha fatto uomo.

Tutto più semplice, allora? Tutto più difficile. Ma la strada è questa. Quando, ieri mattina, ha chiesto a gran voce che si dia, oggi, un’arte la quale sia almeno bella, almeno un po’ bella, giacché infatti il suo contrario non è solo il brutto, ma l’uccisione, e per di più offensiva, dell’umano in quanto umano, Scruton non ha fatto altro che riprendere, per rilanciare, quella stessa grande sfida. A caldo, appena Spaemann aveva terminato, il giorno prima, la propria relazione, ho incontrato Scruton. Entusiasta di quanto afferma il filosofo tedesco, ha detto: «Il suo pensiero è molto prossimo al mio. Gli contesterei solo un fatto. Spaemann dice che l’idea di Dio non morirà mai perché si fonda sulla grammatica, la quale è teologicamente fatta, nella misura in cui connette le parole, il tempo, il dire e il fare. Ma il fatto è che purtroppo stiamo invece rapidamente distruggendo proprio la nostra grammatica...». Ha ragione, echi di T.S. Eliot, forse un incrocio con il venerabile John Henry Newman, Scola ha poi ripreso lo stesso tema; forse è però solo la conferma per speculum, o per absurdum, di quel che qui a Roma si è discusso: Dio “muore”quando l’uomo non riesce più a dire Dio, non perché l’Altissimo sia solo il parto della fantasia umana, ma perché quando l’umano raggiunge l’afonia sul senso delle cose, il nichilismo trionfa. Oggi la Chiesa che è in Italia segna dunque un punto decisivo, anzi una meta. Il che ci fa digerire anche qualche svicolamento strategico da punti nodali e qualche ospite inutile al convegno. Ma ora non mi meraviglierò se sui muri sotto casa mia dovesse comparire la scritta “L’uomo è morto?”. La risposta essendo nella non-morte di Dio, qui a Roma incontrovertibilmente certificata. www.marcorespinti.org


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Dilemmi. Colloquio con Emanuele Severino su Dio, violenza e potere

Il drammatico enigma della laicità di Riccardo Paradisi aicità: ecco la parola magica con cui si è creduto di scindere la religione e la politica, le ragioni di Dio e quelle di Cesare. Però le cose sono più complicate. Soprattutto da quando il potere della tecnica è giunto a incidere sulle forme del nascere e del morire (fecondazione eterologa, sopravvivenza alla morte cerebrale, ingegneria genetica) riscoprendo il nervo dell’irriducibilità profonda tra le ragioni di Cesare e quelle di Dio, del loro profondo antagonismo. Emanuele Severino nel libro A Cesare e a Dio già all’inizio degli anni Ottanta (il saggio sarà ripubblicato da Rizzoli nel 2007) metteva a tema la tensione permanente tra laicità e religione destinata a risolversi con la vittoria dell’una o dell’altra fede. Sul tema del nesso tra religione, storia e violenza Severino è intervenuto al convegno romano su Dio organizzato dalla Conferenza episcopale italiana. Liberal ha colloquiato con lui sulle questioni sollevate dalla sua riflessione. Professor Severino lei sostiene che il monito di Gesù, “Date a cesare quel che è di Cesare”non è un’affermazione di laicità. Lei dice che nella stessa logica evangelica viene fondato lo statuto della teocrazia. È un’affermazione molto forte. Tanto più che soprattutto i cattolici impegnati in politica sostengono che proprio quell’affermazione di Gesù getti le basi della divisione delle prerogative di Cesare e di quelle di Dio. Nella formula del Cristo è proposta nel modo più chiaro proprio ciò che noi oggi chiamiamo teocrazia. Gesù infatti non può pensare che a Cesare si dia qualcosa che è contro Dio. Nella logica evangelica le leggi dello Stato non possono contrastare le leggi di Dio e il cristiano non può adeguarsi a una legislazione qualsiasi. Sicché la violazione delle leggi cristiane diventa delitto contrariamente all’invocazione dei laici come Calamandrei che diceva doversi distinguere tra peccato e delitto. La dottrina della Chiesa non parla di leggi cristiane però, parla di leggi fondate sul diritto naturale, sulla razionalità del diritto naturale. È vero: la Chiesa sia nella campagna contro il divorzio sia nella più recente contro l’aborto e la fecondazione assistita mette sempre in campo il diritto naturale, non mette in campo il carattere religioso delle proprie tesi, ma il loro essere leggi eterne, esistenti in ogni uomo, che la ragione può scoprire e che dunque è irrazionale

L

violare. Irrazionale, non anticristiano. Bene, però se queste leggi eterne sono la ragione allora viene fuori un grosso problema filosofico relativamente alla struttura e al senso della ragione. Come si fa a dire che ”le leggi eterne” siano proprio quelle della ragione? I politici cattolici come risolvono questo problema? Di solito affidandosi al volere della maggioranza e del reciproco rispetto tra posizioni laiche e cattoliche. Ma questo è un modo di evitare il problema, un compromesso. Di fronte a questa scelta di percorrere la via della democrazia procedurale si tratta di vedere che cosa è ciò che la maggioranza decide. Resta il fatto che i politici evitano di affrontare la questione dirimente che è quella di cui parlavamo. Scelgono il compromesso, benissimo, e per un politico, per un uomo di Cesare, il compromesso è una scelta plausibile ma per un cristiano c’è possibilità di compromesso se le leggi di Dio e quelle di Cesare entrano in contraddizione? Il cristiano non può servire due padroni. Resta sul terreno il problema della teocrazia. Lei dice: il cristianesimo è originariamente politico la Chiesa che fa politica non ha tradito niente. Però Gesù relativizza il potere di Cesare senza assolutizzare il suo. Nega a Cesare lo statuto divino ma di fronte a Ponzio Pilato risponde “Il mio regno non è di questo mondo”consegnandosi alla giustizia terrena. Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita”. Alla fine del Vangelo di Marco dice: “Chi crede sarà salvo chi non crede sarà dannato”. È perché lui dice la verità assoluta che bisogna credergli. È per questo che chi crede in lui si salva e invece si danna chi non crede in lui. È vero, si consegna a Pilato, ma sapendo che questo è il deicidio. Sapendo di essere colui che da ultimo sarà il vittorioso perché è Colui che possiede la verità. Il fatto che in questo mondo si consegni a Pilato è la prova del carattere assoluto della verità che lui predica. È una comprova dell’aver detto che il suo regno non è di questo mondo. Eppure professore quella cristiana non è una verità che marcia nel mondo attraverso la violenza del potere, ma attraverso la persuasione dell’esempio, dell’autosacrificio. È chiaro che l’amore non è la volontà di imporsi sul prossimo. Però, vede, tra questi due opposti, l’amore e la volontà di imporsi sul prossimo, c’è un’anima comune.

Quella per cui io dico: gli amici di Dio e i nemici di Dio hanno la stessa anima: intendono le cose come originariamente nulla e da questo nulla vogliono salvarle. Da un lato c’è l’amico di Dio che vuole salvarle con l’amore come forma di contrasto alla volontà di nientificazione. Dall’altra parte c’è la volontà di potenza che però muove dalla stessa concezione. Amore e volontà di potenza insomma sono opposti – e non c’è bisogno di dire che io preferisco stare con chi ama e non con chi guerreggia – ma sono anche complementari. Però lei è con chi ama e non con chi sovrasta.

La fede afferma qualcosa che la sensibilità e la razionalità umana non vedono.La fede insomma tratta la notte come giorno.Qui abbiamo un altro effetto della violenza della fede, della sua volontà di potenza

Certo, ma vede, le nostre preferenze non sono decisive se ci mettiamo all’interno di quell’arcobaleno straordinario che è la filosofia. Che non guarda in faccia a nulla e vuole le carte in tavola, che non si ferma di fronte alla parole “amore” o “libertà” che sono parole che strappano l’applauso, lasciando le cose come prima. È per questo che la filosofia vede il pericolo che si annida e che è in agguato rispetto a ciò che chiamiamo amore… Anche dietro l’amore, come dice Nietzsche, c’è la volontà di potenza. Con questa differenza: che Nietzsche crede nella capacità di creare e distruggere: che ci siano potenze capaci di tanto. Nel mio discorso filosofico questa è la grande illusione. Io vedo grandi forze che non sono in grado di smuovere un filo d’erba ma credono di smuovere le montagne. L’errore sta nella fede che esistano le cose disponibili alla volontà di potenza e che si possano dominare. Ma è una fede quella che crede che le cose vadano e vengano dal nulla, che siano create da un

big bang o che finiscano per entropia, che ci sarà un livellamento termico che distruggerà tutte le forme dell’universo. Questa evidenza dell’oscillare delle cose dall’essere al non essere è la fede umana. Lei definisce ”violenza”, ”guerra”, ”fede nel divenire”, la follia dell’Occidente. Che ci impedisce di conoscere il nostro destino di spettatori attivi dell’Essere. Ammetterà che è un concetto difficile da accettare se non come una fede. Più che la fede c’è quella verità che nella sua storia la ragione umana non ha saputo mostrare. Il concetto di verità è la cosa decisiva. Tutte le religioni sono violenza perché vogliono che il senso del mondo sia quello che dicono loro e non altro. Quando al cristiano si domanda perché egli affermi che il mondo sia stato creato da un dio trinitario che si incarna e salva l’uomo la stessa fede cristiana risponde con l’argomento in base al quale la fede afferma proprio le cose che non si vedono: «Le cose che non si vedono con gli occhi del corpo né della mente» dicono i padri della Chiesa. La fede afferma qualcosa che la sensibilità e la razionalità umana non vedono. La fede insomma tratta la notte come giorno. Qui abbiamo un altro effetto della violenza della fede, della sua volontà di potenza. Questa volontà di imposizione, che è volontà di potenza, è assolutamente diversa dalla verità intesa come incontrovertibile, dalla chiarità affermata perché in luce. Non dimentichiamoci che la parola ”filosofia” che viene banalmente tradotta con amore della sapienza è ”cura per sophia” e sofia viene da saphes, che significa chiaro, luminoso. L’atteggiamento filosofico è dunque opposto a quello religioso: vuole affermare ciò che è impossibile negare. E qui si apre l’enorme problema di vedere che cosa sta in luce sul senso della verità. Si tratta la filosofia come enunciatrice di tesi: si dice è una tesi quella religiosa, quella filosofica. Eh no, la differenza è che esiste un tipo di sapere come quello filosofico che è più radicale di ogni sapere scientifico o logico matematico: se si perde di vista questo allora è più interessante il mito che i filosomfemi. D’accordo professore, resta però


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Oggi il convegno all’Auditorium di via della Conciliazione si conclude con la relazione di monsignor Rino Fisichella

La “sorpresa”dopo l’eclissi del Sacro Gli interventi del cardinale Angelo Scola e dei filosofi Rèmi Brague e Roger Scruton di Gabriella Mecucci sto,successivamente Dio, infine la religionee ridotta ad una spiritualità vuota»; e dal carattere fondamentalistico di talune religioni.

io oggi può tornare. Può, ma non possono essere nascosti tutti i rischi che corre. Dio e il rischio: è questo il senso della seconda giornata del convegno, indetto dal Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana e intitolato “Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto”. Apre il cardinale Angelo Scola, che dopo «l’eclissi del Sacro», vede «nell’età odierna una grossa sorpresa: in essa non solo è presente l’istanza critica nei confronti della coscienza religiosa, ma anche la riaffermazione del religioso nella vita personale e sociale». È ormai noto agli studiosi che le previsioni fatte negli anni Sessanta dai sociologi circa la secolarizzazione e la morte di Dio, si sono rivelate sbagliate. La secolarizzazione, osserva il patriarca di Venezia, «ha lasciato decantare i suoi plurimi significati: mentre ha comportato come frutto duraturo la differenziazione fra sfera religiosa e sfera secolare, non si è inverata invece l’ipotesi della irreversibile privatizzazione della religione”.

D

Eppure, il Cristianesimo, fatta eccezione per l’Occidente, si sta espandendo in modo straordinario ovunque: in Africa in Asia e in parte in America del Sud.Tanto «da essere diventata la religione con maggior tasso di crescita al mondo». Sembra dunque sconfitto il “Dio è morto” di Nietzsche. Del resto come ha osservato Rèmi Brague - grande esperto della filosofia heidegeriena e della tradizione nichilista del ventesimo secolo, «se uno presuppone che Dio è morto, deve avere il coraggio di pensare sino in fondo tutte le implicazioni logiche». «La prima, la più importante di queste implicazioni - prosegue - è che la morte è più forte di Dio. Dio in persona non è riuscito a vincere l’ultimo nemico». Una concezione che ci porta diretti ad una terribile costatazione: «Se Dio si definisce Onnipotente e se la potenza è il metro con il quale misurare la divinità, la morte che ha trionfato su Dio è dunque l’unico vero Dio». Ma qui si presenta il grande pericolo: «La divinizzazione della morte riporta a tutto ciò di cui il cristianesimo ci aveva liberato. E il ritorno del sacrificio rischia di avvenire

Anzi, «le religioni di tutto il mondo», e «i nuovi movimenti religiosi stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica». Partecipano alle lotte «per ridefinire i confini moderni fra sistema pubblico e vita privata», «fra legalità e moralità». Eppure - come si dicerva - Dio corre dei rischi ed essi vengono da almeno due parti: dall’estrema soggettivizzazione dell’esperienza religiosa, «progressivamente privata di ogni contenuto reale (prima la Chiesa, poi Cridifficile accettare il discorso dell’eternità di ogni essente. Le cose divengono, le persone muoiono. Noi siamo già eterni. Che cosa è la vicenda del mondo? Si pensi ad un cerchio di luce che è il nostro aver coscienza del mondo, ebbene che sono gli eventi che vengono avanti? Tutti gli eventi intendo: il piacere, il dispiacere, la guerra e la pace. Sono gli eterni che si mostrano, che si fanno vedere. Noi siamo l’eterno apparire del sopraggiungere degli eterni, destinati a oltrepassare anche quegli eterni dell’orrore che ci circondano. Sembra esserci una forte tensione gnostica al risveglio interiore nel suo discorso. Io uso spesso questa metafora: noi siamo re che credono di essere mendicanti. Dire io sono Emanuele Severino, figlio di, professore di, è poco. Ognuno di noi è molto di più di ciò che sospetta di essere. Anche il bambino, anche l’idiota, anche il morto, ognuno di noi in quanto apparire è apparire della verità. In questo senso ogni uomo è un re. C’è qualcosa di infinitamente di più di quello che dio è stato lungo la storia dei mortali. Se lei per gnosticismo intende questo beh de verbis non disputandum est,

Dall’alto il filosofo Roger Scruton, il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il pensatore catto,lico francese Rémi Brague. In basso, il filosofo Emanuele Severino autore di A Cesare e a Dio

ma lo gnosticismo è anch’esso convinto che ci siano cose che vengano dal nulla e vadano nel nulla. Per cui non userei la definizione gnostica. C’è nel suo discorso questo sguardo sulla modernità: noi siamo immersi in un mare di potenza in cui l’Apparato ha come fine ulteriore volontà di potenza. Immaginarci dentro questa cornice ci condanna a non essere liberi. Si potrebbe uscire da questa impasse rinunciando alla volontà di potenza? L’Heidegger che parla di mettersi in ascolto dell’essere, che solo un dio ci può salvare può essere un segnavia? Noi siamo l’eterno apparire degli eterni e dunque siamo destinati alla gioia estrema, a qualcosa di più che l’essere molecole nell’ingranaggio dell’Apparato. È chiaro che qui si scavalca la stessa finitezza dell’uomo come chiuso nella vita che ha termine con la morte: finitezza dentro cui l’Apparato dispiega la sua potenza. Ma questa potenza appare così al mendicante che crede alla sua manifestazione, il mendicante che non sa di essere re e quin-

Il compromesso è una scelta plausibile, ma per un cristiano c’è possibilità di compromesso se le leggi di Dio e quelle di Cesare contrastano? Il cristiano, dice Gesù, non può servire due padroni

in una forma violenta, brutale,fine a se stessa». E del resto - è sempre Brague a parlare - la mancanza di un’autentica ricerca della verità, toglie rilevanza anche alla libertà. La libertà è tale infatti non quando il soggetto fa delle piccole, insignificanti scelte, ma quando fa scelte veramente rilevanti: come ciò che è vero e ciò che non lo è. Anche da questo fronte dunque, come da quello della vita e della morte, viene una domanda di Dio. Del “Dio Logos-Amore”, come sostiene incessantemente Benedetto sedicesimo.

Ma in questo “festival di Dio” che si sta svolgendo all’Auditorium di via della Conciliazione e che terminerà oggi con le conclusioni di monsignor Rino Fisichella, non poteva mancare una riflessione sulla bellezza. Roger Scruton a questo proposito ha osservato: «Definire la bellezza è una di quelle imprese necessarie ma impossibili che i filosofi cercano di evitare. La bellezza e la creatività sono aspetti diversi del medesimo cimento. Inoltre nel creare la bellezza, l’artista rende gloria alla creazione di Dio. E la bellezza redime ciò che tocca, mostrando come i dolori e le traversie della vita siano tutto sommato non indegni». Il biblista Ravasi a questo proposito aggiunge: «Anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo. La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i “posteriora Dei”, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocefisso». di si da da fare. E si da sempre più da fare, così che viene fuori la storia del mortale, la storia delle religioni, la storia della filosofia, la storia della distruzione degli dei, l’idea che distruggere ogni dio vuol dire poter agire in modo da non poter più incontrare alcun limite inviolabile e questa è la tecnica e la sua filosofia della potenza. La tecnica non è una dimensione che sostituisca la nostra regalità ma è il portare fino in fondo la follia di credersi nulla. Lei dice Heidegger…Si certo lui critica la tecnica, ma cosa contrappone alla tecnica Heidegger? Lasciar essere il divenire delle cose. Ma questo significa lasciar venire dal nulla il divenire. Ma è proprio questa fede la matrice della violenza che può realizzarsi solo se si crede che le cose divengano e vadano nel nulla. Se noi invece credessimo di avere dinanzi il mondo come un’immensa sfera di cristallo inscalfibile ci verrebbe in mente di darci da fare per modificarlo. Forse che noi vogliamo dominare il sole? Vogliamo dominare perché crediamo che le cose vengono dal nulla e vadano nel nulla.


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religione e modernità passaggio necessario da compiere si realizza a livello epistemologico. Si tratta di comprendere, infatti, il valore della conoscenza e di quale conoscenza sia necessaria per giungere a pronunciare con sensatezza il termine“Dio”. Il tentativo di ritrovare nuove strade per evidenziare la ragionevolezza del nostro procedere è stato più volte ribadito. Gli interventi del cardinale Camillo Ruini e del professor Robert Spaemann, nella loro complementarità, portano a questa indicazione sostanziale. In qualche modo, cercavano di rispondere in termini moderni a quanto s. Agostino scriveva nel suo La fede nelle cose che non si vedono: «Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono».

Le conclusioni. Il convegno ha gettato un sasso nello stagno dell’ovvietà

L’ateismo dell’indifferenza Bisogna trovare tra le nostre fila un nuovo S. Paolo E riconsegnare Dio alle prossime generazioni di Rino Fisichella La cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant’anni dal Vaticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all’uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all’interno di quest’espressione c’è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinnanzi alla problematica che ruota intorno al nome di “Dio”. Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal “Dio: un’ipotesi inutile”di venerata memoria, al “Dio: la possibilità buona per l’uomo”di Vattimo. Questi giorni hanno permesso di riflettere, di vedere, di ascoltare e discutere sul tema “Dio” in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza: un tour de force che ha mostrato le metamorfosi della cultura contemporanea e la stabilità dell’opera d’arte che non conosce trascorrere del tempo… In una parola, potremmo affermare che si è gettato un sasso nello stagno su due fronti: quello dell’indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell’ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente nel nostro Paese, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e

libera. Avere provocato un’ampia riflessione su questo tema è un servizio che si rende alle giovani generazioni più che a quanti vi hanno partecipato. Noi adulti, alla fine, siamo qui convenuti avendo un’idea chiara della fede in Dio o della sua negazione; probabilmente, l’intensità delle giornate ha permesso che qualche conoscenza ulteriore si sia aggiunta a quanto già possedevamo. Il problema, però, resta per le generazioni che seguiranno, a cui dobbiamo trasmettere con

Questi giorni hanno permesso di discutere sul tema “Dio” in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza: un tour de force che mostra le metamorfosi della cultura contemporanea responsabilità non solo le certezze che abbiamo conquistato, ma anche il tentativo di dissolvere i dubbi che ci accompagnano per permettere che si fomenti una cultura che sappia ancora domandare, ricercare e giungere a soluzioni originali capaci di rispondere allo spirito del tempo. Le strade delle nostre città sono cariche di nuovi idoli. L’interesse verso un generico senso religioso - venuto meno

nei decessi passati - sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che vuole seguire. Espressioni religiose si moltiplicano, spesso prive di spessore razionale per dare maggior spazio all’emotività, mentre nuovi messia dell’ultima ora appaiono di nuovo all’orizzonte, predicando l’imminente fine del mondo.

È necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso.“Dio”: il termine è tra i più usati nel linguaggio mondiale e, tuttavia, quanti sensi diversi, differenti e, a volte, contrastanti tra di loro fino ad opporsi. Ci siamo chiesti ripetutamente “se Dio esiste”e “cosa o chi è Dio”. Domande inevitabili che non possono rimanere senza risposta; anzi, diventano ancora più necessarie dopo la provocazione che proviene dalla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein. I credenti non possono permettere né che“Dio”rimanga un termine privo di senso né che rimanga confinato in un altrettanto aprioristico Sprachspiel comprensibile solo ai pochi addetti che utilizzano la stessa grammatica. Se “Dio” ha un valore allora questo deve essere universale e, pertanto, deve essere reso accessibile per tutti con un linguaggio che nessuno esclude. Da questa prospettiva, le giornate trascorse portano a comporre un percorso di cui sono rintracciabili alcune tappe. Un primo

Eppure, è necessario che proprio a livello epistemologico si faccia uno sforzo ulteriore per individuare il valore conoscitivo che la rivelazione possiede. La fede che pronuncia il termine “Dio” non è all’origine della problematica, ma è istanza seconda, come forma conoscitiva corrispondente per accedere in modo coerente alla conoscenza propria della rivelazione. Il duplex ordo cognitionis, di cui si fece interprete il Vaticano I, possiede ancora oggi una sua valenza epistemologica non secondaria per il nostro discorso. Se si giunge ad ammettere l’esistenza di Dio come realtà personale altro dall’uomo, allora si deve pure ammettere inevitabilmente la sua libertà nell’esprimere se stesso secondo le forme che ritiene utili per la conoscenza della propria esistenza e della propria natura. Questa lettura non rappresenta primariamente una dimensione “teologica”, come potrebbe essere contestata a prima vista: essa possiede una prima giustificazione nell’ordine epistemologico. La filosofia, anzitutto, è chiamata a sviscerare il l’atto stesso della rivelazione come evento che accade nella storia, prima ancora dei contenuti che vengono rivelati. Nel parlare di Dio, insomma, e nel dover trovare i differenti sentieri che sono utili per approdare a una risposta di senso circa la ragionevolezza del suo an sit et quid sit, non può essere emarginata la categoria di “rivelazione”. Un secondo elemento è stato offerto. Esso si pone nell’orizzonte della nuova cosmologia che costituisce a pieno titolo una sfida nella tematizzazione della problematica intorno a “Dio”. Le indicazioni che sono provenute soprattutto da George Coyne, Martin Nowak e Peter van Inwagen provocano a riflettere sulla nuova identità cosmica che si sta venendo a delineare in questi decenni di grandi scoperte scientifiche e che daranno ancora più sorprese nei prossimi anni, quando saranno messe a punto le nuove tecnologie. Basti pensare, oggi, ai tentativi che si stanno svolgendo circa la possibilità di produrre in big bang (prof. Rubbia), oppure i risultati che provengono dal satellite Plunck (prof. Bersanelli) in grado di spingersi fino all’estremo dell’universo per carpirne i segreti, per comprendere quante domande si pongono su questo terreno nel momento in cui si affronta la problema-


religione e modernità tica di “Dio” in riferimento alla cosmologia. Proprio nell’anno dell’astronomia, nel quarto centenario della scoperta del cannocchiale da parte di Galileo è necessario accogliere la sfida che si pone su questo terreno. Insomma, la “via cosmologica” che sembrava ormai superata da quella antropologica, ritorna con maggior intensità e con provocazioni ancora più forti. Da questa prospettiva, comunque, dovremmo chiederci: quale relazionalità intercorre tra cosmologia e antropologia; la questione di “Dio”, infatti, appartiene a questa relazione e crea un tertium con cui è necessario confrontarsi. Il principio geocentrico di un tempo ha ceduto il passo; da un mondo chiuso e confinato si passa ora ad un universo infinito che, progressivamente, non permette più neppure di concepire un centro. L’uomo scopre che il cosmo evolve, procede sempre oltre, ha una sua storia e delle sue leggi proprie che ne determinano il movimento, il divenire e il venir meno. Questa prospettiva condiziona non solo la sua esistenza, ma anche quella del cosmo che lo circonda.

Non è questa la sede per inoltrarsi nella selva interpretativa delle differenti teorie sorte a riguardo. Il principio cosmologico o quello antropico rimangono tentativi che nel corso dei decenni manifestano l’interesse per la materia e troveranno nel futuro altre evoluzioni in grado di dare voce all’intelligenza degli scienziati e dei filosofi. Al di là di questo, comunque, rimane pur sempre una questione fondamentale: esiste una reciproca determinazione tra cosmologia, antropologia e teologia? La concezione che l’uomo ha di sé si trasmette inevitabilmente sul cosmo? Ed è possibile che quanto il cosmo esprime determini la visione che l’uomo acquisisce di se stesso? Dio è all’origine o del tutto fuori gioco? Questi interrogativi non sono facilmente risolvibili rimanendo all’interno di una sola scienza. Mai come in casi simili si sente forte l’esigenza di una azione interdisciplinare che si faccia forte delle diverse competenze per raggiungere una visione d’insieme in grado di giungere a una risposta carica di senso. L’intelligibilità che si scopre nel reale è una proprietà insita e propria della natura oppure è una proiezione mentale del soggetto? Esiste un linguaggio oggettivo nel cosmo che io posso cogliere, perché ne porto in me gli elementi che mi permettono di costruirlo e leggerlo, oppure è tutto semplicemente una creazione arbitraria benché convenzionale a cui ci si adegua? Nella modernità l’uomo pensava che la natura non solo doveva essere rispettata, ma ad essa e alla sue leggi era necessario adeguare l’esistenza personale; oggi, al contrario, non ci si considera più ospiti del grande complesso cosmico, ma suoi architetti. Ora è l’uomo a dettare le regole e a stabilire i parametri entro cui comprendere il reale e darne spiegazione. Poiché diventiamo nuovi demiurghi non possiamo sottostare a leggi e linguaggi che non siano stati prioritariamente formulati e creati da noi. Sembra che non siamo più tenuti neppure a giustificare il nostro comportamento dopo che abbiamo delineato e progettato a tavolino, o in laboratorio, il nostro destino biologico e il resto della natura. Come si nota, la via cosmologica - pur interpretata in maniera moderna - apre certamente nuovi orizzonti per la scoperta di Dio. Una terza pista di riflessione è stata offerta dalla via pulchritudinis. Emarginare questo tentativo sarebbe ingiusto e pe-

12 dicembre 2009 • pagina 21

strerebbe che si apre il passaggio per verificare quale relazionalità intercorre tra “Dio” e l’uomo senza cadere in forme di alienazione o psicosi. Il rito conferisce alla conoscenza di“Dio”uno spazio di comunicazione che ingloba l’intera realtà creata e l’uomo in essa. L’azione liturgica consente di verificare che “Dio” non permane come un’illusione creata dalla mente dell’uomo, ma una realtà con cui riferirsi in maniera oggettiva nel susseguirsi dei tempi e degli spazi che assumono valore sacro. Se le religioni hanno fatto del rito un elemento determinante ciò implica che possiede un effetto essenziale e costitutivo nel discorso su “Dio”, per cui la cultura contemporanea non può né deve allontanarsi.

I credenti non possono permettere né che “Dio” rimanga un termine privo di senso né che rimanga confinato in un’altrettanto aprioristica lingua comprensibile solo a chi utilizza la stessa grammatica ricoloso. Il pulchrum è una costante sfida posta nel sentiero della storia e molti si imbattono con questa categoria.Tutti siamo consapevoli del rapporto tra bellezza e discorso su “Dio”. L’arte, la letteratura, la musica… scomparirebbero per i quattro quinti se Dio non esistesse. L’arte sarebbe solo frutto di fantasia senza rapporto con il reale, applicazione di linee senza un “perché”di senso. La letteratura e la musica sarebbero ridotti a versi e note dettate dal sentimento passeggero senza un aggancio con la solidità della persona a cui poterli indirizzare. La via della bellezza si impone perché apre alla conoscenza mediante la contemplazione, che per dirla con s. Tommaso est actus intellectus! Non è una via alternativa per parlare di Dio e per cercare di comprenderlo, al contrario.

Come hanno mostrato soprattutto gli interventi di Roger Scruton con il recupero della “via positiva della bellezza” e di monsignor Gianfranco Ravasi, l’arte permane come la “narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto”. Riscoprire il tema del volto è quanto di più fondamentale il cristianesimo possegga. Non è stato facile per noi arrivare a questo punto, ma il mistero di Dio che si fa uomo obbliga a seguire questo percorso. Il mistero dell’incarnazione apre la strada per comprendere un Dio che non permane relegato nella sua trascendenza, ma rinuncia all’onore che gli è dovuto per farsi uomo con gli uomini ed insegnare loro la strada per entrare in comunione di vita con lui. Qui si rende evidente la differenza tra le religioni e le stesse religioni monoteiste; il Dio di Gesù Cristo, infatti, non indica più il percorso che parte dall’uomo per raggiungere Dio; mostra, invece, che Dio va incontro all’uomo e lo raggiunge fino a condividerne la natura. In questo spazio la bellezza trova altre forme con cui esprimersi, perché al volto che viene rivelato possano essere offerte le condizioni per dare risposta di senso a ciò che l’uomo stesso vive: la sofferenza, la gioia, la gloria, il dolore, il tradimento e perfino gli stadi della vita… tutto viene rappresentato per introdurre a Dio e per spiegare l’uomo

all’uomo. Un quarto elemento per parlare di “Dio” è stato offerto dall’analisi sulle religioni e il monoteismo nei contributi dei professori Rémi Brague e Massimo Cacciari. Probabilmente, all’interno di questo discorso si dovrebbe aprire un’ulteriore riflessione circa l’azione liturgica a cui, purtroppo, si è dato poco spazio nel nostro riflettere di questi giorni. La storia delle religioni viene in aiuto, perché evidenzia come sia un fatto comune, verificabile fin dai primordi dell’antropologia culturale, la capacità dell’uomo di creare luoghi e tempi dedicati al sacro per permettere di creare una relazione con “Dio”. L’azione liturgica, il rito sono forme espressive e linguaggi con cui è necessario confrontarsi nel nostro parlare di “Dio”; illusorio pensare di emarginare questa dimensione. Equivarrebbe a eliminare tutto il tema del linguaggio dei segni e dell’evocazione per accedere all’interno di un mondo che non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito. L’analisi di questa componente mo-

Una quinta pista di riflessione la vogliamo mediare dall’assioma anselmiano: rationabiliter comprehendis incomprehensibile esse. In una parola, è necessario pronunciare l’ultimo il termine che sta sempre all’inizio del pensare, non solo teologico, e che tutto determina: mistero. Si comprehendis non est Deus diceva giustamente Agostino; su questa lunghezza d’onda si è mossa sempre, anche se con accentuazioni diverse, la tradizione cristiana dell’oriente e dell’occidente. Secoli più tardi, nel suo Proslogion, Anselmo, pur con altre parole, riproponeva lo stesso concetto: «Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti… Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule che è così distante da te, ma che a te appartiene?». La visione dei Padri è sempre segnata dall’idea dell’incomprensibità di Dio. Il Crisostomo poteva perfino affermare che colui che conosce l’incomprensibilità di Dio comprende anche chi non la conosce. In questo, se si vuole, si raccoglie tutta la differenza tra il mondo che non conosce “Dio” e quello che ne vede l’incomprensibilità. Il mysterion non è la conclusione del nostro discorso per l’impossibilità di trovare razionalmente una risposta alla questio de Deo; è piuttosto l’origine da cui la ragione parte, provocata dallo stupore e dalla meraviglia che esso produce. La ragione è chiamata a compiere per intero, oltre ogni suo sforzo, il percorso che le si pone dinanzi; alla fine, però, deve comprendere che Dio è incomprensibile. Questo non la umilia né indebolisce, ma la rafforza nel continuare ininterrottamente a domandare fino al momento in cui troverà le ragioni per abbandonarsi pienamente in lui come ultima e definitiva risposta alla domanda di senso. Nel mistero dell’enigmaticità della propria esistenza personale, del cosmo e di quanto ci circonda deve sorgere l’interrogativo che tocca il senso e il significato dell’esistenza. Ricorrere, mitologicamente, al “fato” potrebbe essere una scappatoia facile e già utilizzata nel passato, ma si verrebbe a compromettere il valore della libertà personale che è quanto di più geloso ognuno dovrebbe conservare. In questo richiamo ultimo e radicale alla libertà nel suo rapporto con la verità si esprime anche l’originalità del cristianesimo. Niente come la fede nel Dio che si fa uomo provoca la libertà ad assumere in prima persona il principio di responsabilità. Il Dio che ama come Gesù è il Dio responsabile del fratello che non rimane nella solitudine della morte. Senza Dio viene meno la possibilità dell’autocomprensione, dell’esercizio della libertà e della responsabilità sociale. Dunque, è proprio vero: con lui o senza di lui cambia tutto.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Figaro” del 11/12/09

Ambizioni per aria di Véronique Guillermard l ritardo rispetto al calendario è di un anno e mezzo, ma finalmente si è arrivati al giorno del primo take off dell’A400M. È un progetto per un aereo da trasporto militare. È l’ambizione europea di sviluppare la proiezione delle forze militari in maniera indipendente. Venerdì mattina è avvenuto il primo test di volo per il gigante grigio-verde dell’Airbus. L’aereo è decollato alle 10.16 dalla pista di Siviglia in Spagna, dove la casa costruttrice assembla questo modello di turboelica rivoluzionario. Il volo inaugurale è durato tre ore ed è stato affidato ad un equipaggio di sei persone. Due piloti, un britannico e uno spagnolo, più quattro ingegneri di bordo francesi. Il comandante della missione é Edward Strongman, ex pilota della Royal Air Force. Con il successo del primo volo prende il via la procedura di certificazione, indispensabile per Airbus. «Questo dimostra che non è un aeroplano di carta» affermano nella sede di Eads, la casa madre di Airbus. Un progetto che farebbe entrare Airbus dalla porta principale del mercato degli aerei militari, con un mezzo molto sofisticato e senza concorrenti nel mondo, che potrebbe dare una bella spinta alle esportazioni. A differenza del tanker per rifornimento aereo, che era derivato dalla versione civile dell’A330, questo nasce come progetto esclusivamente militare. È nuovo al cento per cento. Accanto all’evento di questo primo volo ci sarà un summit a Siviglia il 15 dicembre. Si tratta di una riunione dei ministri della Difesa euopei coinvolti nel programma. È da mesi che molti Paesi firmatari del contratto nel 2003, cercano di negoziare nuovi termini con Eads. Il nuovo documento si sarebbe dovuto firmare il giorno del primo volo, ma le trattative si sono rivelate comples-

I

se. Il programma di consegne è in ritardo di tre anni e i costi hanno subito una deriva rispetto al budget di 20 miliardi di euro. Il costo aggiuntivo per il progetto sarebbe di circa 5 miliardi di euro, ma anche il prezzo per unità sarebbe cresciuto del 40 per cento. Secondo un calendario, che non è ancora ufficiale, Eads dovrebbe effettuare le prime tre consegne nel 2013, quattro nel 2014, sette nel 2015 e una media di quattro all’anno dal 2016.

Al centro delle trattative c’è naturalmente la ripartizione degli oneri finanziari. Eads ha previsto di non poter sopportare i tagli richiesti, che ammonterebbero a circa 7 miliardi di euro, visto che dispone di fondi di cassa solo per 8 miliardi. Significherebbe che oltre all’A400M anche il programma di produzione dell’A-350 dovrebbe essere abbandonato, così come il rinnovo della serie A320 a medio raggio. La Francia ha già fatto sapere che i termini del nuovo contratto sono compatibili con il bilancio della Difesa. Solo che gli ordini verranno ritardati a dopo il 2020, ha recentemente dichiarato il responsabile armamenti del ministero, Laurent Collet-Billion. Ad aprile sotto la guida del ministro delle Difesa Hervé Morin, i Paesi europei avevano approvato una moratoria per salvare il programma. Il suo abbandono creerebbe un vero terremoto in Europa, dando un colpo mortale alle speranze di costruire una difesa europea. La Gran Bretagna

per prima aveva minacciato di ritirarsi dal progetto. Alla fine anche gli altri Paesi si sono decisi a rinegoziare il contratto con Eads. Comunque un primo cliente per l’esportazione si è già tirato indietro, annullando l’ordine per otto velivoli. Si tratta del Sud Africa. L’A400M è stato fin dagli anni del suo lancio, un progetto ambizioso. E osteggiato dalla politica. Si trattava di costruire un aereo modernissimo, per sostituire la flotta di 180 Transall francotedeschi e quella degli Hercules C-130 statunitensi che hanno una vita media di 40 anni. L’Europa voleva riconquistare un know how che rischiava di perdere. E si scelse anche un propulsore da 11mila cavalli, il più potente mai costruito dall’industria occidentale. Non piace infatti la soluzione di utilizzare un Pratt&Whitney che farebbe risparmiare in 20 per cento dei costi. Molti Paesi europei coinvolti nella costruzione del nuovo propulsore, si tirerebbero subito indietro. Stranamente le certificazioni devono essere militari e civili e anche le norme e le penali sono di tipo civile, con tempi di consegna molto stretti. Nessun aereo militare ha avuto tempi di sviluppo inferiori ai dieci anni.

L’IMMAGINE

Conduttori e personaggi televisivi sembrano paramarxisti ed esercitano la faziosità La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova società. Conduttori e personaggi televisivi (Santoro, Travaglio, Gomez, Fazio, Dandini, Floris, Lerner, Gruber appaiono paramarxisti: esercitano la faziosità. Il loro frequente obiettivo è l’attacco, l’accusa e la condanna di Silvio Berlusconi, dileggiato con satira unidirezionale. Si vedono trasmissioni settarie, con spettatori e interviste di parte. Perfino ospiti che dovrebbero controbilanciare quelli di sinistra sono talvolta funzionali e utili alla stessa (Tabacci, Granata). Anziché fungere da arbitri imparziali, alcuni dei citati conduttori sogliono interrompere, contrastare o zittire anzitempo ospiti e giornalisti di centrodestra. Tali trasmissioni possono ridursi a risse con voci sovrapposte, dove vincono aggressività, logorrea, prepotenza verbale e abilità nel battibeccare. Al contrario, Bruno Vespa dimostra equilibrio, aplomb, serenità, pacatezza e gradevolezza di voce. Nel suo salotto si dibattono prevalentemente temi sociali, ma anche intimisti.

Gianfranco Nìbale

DIFENDIAMO L’UOMO, L’ESCLUSO, IL DISEREDATO, L’ULTIMO Il ministro Calderoli, invece di proferire parole offensive e virulente nei confronti del cardinale Dionigi Tettamanzi («A Milano è fuori posto»), dovrebbe tentare umilmente di mettersi davvero in contatto con il pensiero cristiano. I leghisti, da sempre, vogliono assurgere a paladini dei valori, a strenui difensori del cristianesimo; però se veramente fossero sintonizzati su certe frequenze, dovrebbero con un salto capire intimamente, dovrebbero comprendere le ansie, le paure, la missione evangelica d’un pastore come Tettamanzi. La nuova cultura securitaria prevede di “dare lustro” alle nostre città, di renderle “vivibili”, “decorose”, “a misura

d’uomo”: da anni ormai si sgomberano i campi rom, come se la povertà e la miseria estreme fossero una vergogna, un oltraggio al pubblico decoro, un insulto al buon senso comune. La politica governativa poi, introducendo il cosiddetto “reato di clandestinità”, di fatto criminalizza quei migranti che non hanno le carte in regola. È normale che Tettamanzi esprima preoccupazione per questa tendenza a ghettizzare certe persone, a escluderle, a bollarle: ciò potrebbe anche aprire le malaccorte porte dell’insensibilità e della xenofobia. Il cardinale di Milano difende l’uomo, l’escluso, il diseredato, l’oppresso, l’ultimo, perché nel suo cuore pulsa Cristo, che è memoria viva, carne, sangue, sofferenza, misericordia,

Corri monaco, corri C’è qualcuno per cui correre sull’acqua è quasi un gioco da ragazzi. È il monaco buddista Shi Liliang che ha corso per 18 metri sulla superficie di questo laghetto lasciando di stucco i suoi confratelli del tempio Sholin di Quanzhou, in Cina. L’esercizio che si chiama Shuishangpiao (in cinese “correre sull’acqua”) è una speciale arte marziale che richiede grande allenamento

speranza. Roberto Calderoli, invece di criticare un dolce pastore di anime, potrebbe interrogarsi sugli errori grossolani della politica italiana relativamente alle politiche immigratorie.

Marcello Buttazzo

MA LE PROVINCE NON DOVEVANO ESSERE ABOLITE? Abolire le Province? Se non ricordiamo male lo aveva promes-

so, in campagna elettorale, Silvio Berlusconi e ci fu una insistente campagna stampa da parte del quotidiano Libero (quando era direttore Vittorio Feltri), con migliaia di adesioni anche di parlamentari. Ora il presidente Berlusconi sembra che se ne sia dimenticato. Le Province costano al cittadino contribuente 16,5 miliardi di euro. Sono tutti d’accordo ad abolirle, tranne la Lega,

che una volta insediata si tiene calde le poltrone, però nessuno ne propone l’abolizione, il che vuol dire che a tutti interessa occupare poltrone: sono soldi, posti, finanziamenti. Il codice delle autonomie, varato dal consiglio dei Ministri, e ora all’esame del Parlamento, mantiene le Province. A chiacchiere son tutti capaci, passare ai fatti è altro.

Primo Mastrantoni


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Ci vorrebbe proprio un grande poeta Una sera d’estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, e riflettevo con aria ispirata: «Si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork». Un uomo anziano allora aveva replicato: «Sì, ma ci vorrebbe un poeta». Quell’uomo ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più. Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo i fatti nudi e crudi - le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute. E anche a proposito di filo spinato e di pasticcio di patate e verdure non si possono fare dei resoconti molto pittoreschi a coloro che sono rimasti fuori: mi domando del resto se ne rimarranno fuori molti, posto che la storia insista ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi. Ecco, io sapevo già che non sarebbe venuto fuori nulla da questo resoconto, al primo tentativo mi sono arenata in considerazioni generiche. Del resto, una persona dall’indole contemplativa non è adatta a spiegare le caratteristiche di un determinato luogo o avvenimento. Etty Hillesum a due sorelle dell’Aia

ACCADDE OGGI

REPLICA DI ENEL La lettera comparso in data 4 dicembre sul quotidiano liberal a firma di Domenico Murrone, nel riportare il caso di una cliente vittima di un cambio gestore non richiesto, consente all’autore di fornire un quadro dell’attuale assetto del mercato elettrico molto distante dalla realtà. Pur comprendendo il disappunto espresso dal cliente, assolutamente non riconducibile ad una scelta della nostra società, desideriamo sottolineare che quanto richiesto dagli operatori Enel è coerente con quanto previsto dalla regolazione vigente proprio a tutela della clientela. Qualunque cambio di operatore, infatti, non può prescindere dalla presentazione di alcuni documenti necessari a legittimare tale richiesta e ciò proprio al fine di scoraggiare comportamenti scorretti da parte degli stessi operatori. Tuttavia, come dimostra il caso esposto dal signore, non sempre tali regole sono sufficienti a evitare episodi come quello riportato nella lettera ma sicuramente aiutano ad attribuire chiare responsabilità verso venditori fraudolenti rispetto ai quali le politiche adottate da Enel Energia sono particolarmente severe. Infine, Enel, coerentemente con la posizione assunta verso il processo di liberalizzazione del mercato elettrico, ha ceduto la propria partecipazione in Terna con netto anticipo rispetto a quanto imposto dalle norme di legge arrivando, oggi, a detenere appena il 5%. In merito, è solo il caso di ricordare che

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

12 dicembre 1531 Apparizione di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico 1769 Papa Clemente XIV pubblica la Lettera Enciclica Cum summi, sul programma del Pontificato e sul Giubileo universale 1787 La Pennsylvania diventa il secondo Stato a ratificare la Costituzione degli Stati Uniti 1865 Viene fondata la Banca Popolare di Milano 1870 Joseph H. Rainey della Carolina del Sud diventa il primo congressista nero degli Stati Uniti 1872 Un meteorite colpisce la terra vicino la città di Banbury, Inghilterra 1897 Viene fondata in Brasile la città di Belo Horizonte 1901 Guglielmo Marconi riceve il primo segnale radio transoceanico 1913 La Gioconda viene recuperata a Firenze, due anni dopo essere stata rubata dal Louvre da Vincenzo Peruggia 1915 Il presidente della Repubblica cineseYuan Shikai si autodichiara Imperatore dell’Impero Cinese, ristabilendo la monarchia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

nella maggior parte degli altri Paesi europei i principali operatori elettrici controllano anche la rete di trasmissione nazionale. In generale, il mercato elettrico italiano risulta uno tra i più liberalizzati e concorrenziali d’Europa. Dal 1° luglio 2007 – data di apertura del mercato alle famiglie – il numero di clienti che hanno scelto di cambiare operatore è di gran lunga superiore a quello registrato, nell’analogo periodo, in Francia, Spagna, Svezia e Regno Unito. Il successo della liberalizzazione del mercato elettrico italiano è testimoniata dal gran numero di operatori oggi attivi - circa più di 100 - tra i quali i maggiori gruppi europei come le francesi Électricité de France (EdF) e Gaz de France-Suez, le tedesche E.on e Rwe Ag, le svizzere Atel e Rätia Energie, l’austriaca Verbund. La normativa italiana in materia di trasparenza e neutralità degli operatori è una delle più stringenti e rigorose d’Europa e ha obbligato Enel a separare l’attività di vendita al mercato di maggior tutela dalla vendita al mercato libero attraverso la costituzione di due società: Enel Servizio Elettrico ed Enel Energia. Coerentemente con tale impostazione, sono state recepite le norme sulla separazione dell’attività di distribuzione che permettono oggi ad Enel Distribuzione di essere riconosciuto quale soggetto terzo e indipendente rispetto a tutti gli operatori, compresi quelli facenti parte del Gruppo Enel.

L’ufficio stampa di Enel

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA POLITICA RESPONSABILE DELL’UDC (I PARTE) Il congresso dell’Udc svoltosi a Milano lo scorso 28 novembre è stato caratterizzato da una grande partecipazione e ha visto susseguirsi sul palco relatori interessati essenzialmente alla creazione di una linea politica consapevole e responsabile. La giornata si è aperta all’insegna della buona volontà, con l’intenzione di ripristinare un’idea di politica legata al buon governo e al bene comune, piuttosto che agli interessi di partito, con l’augurio che molti si rendano conto di questa necessità comune e si convertano a una politica costruttiva. Si è dato spazio anche ad associazioni che si occupano del sociale, per ribadire l’urgenza delle questioni umane drammatiche che si inverano e si invereranno a causa della crisi. È così che Viana, rappresentante dell’Mcl ha parlato della disoccupazione dei padri di famiglia e dell’ingiustizia del mondo del lavoro destinato ai giovani fatto di contratti a termine, di call center che rendono impossibile la dignità della persona e la costruzione di una speranza. Padre Bebber e Baroni dell’Uneba hanno sviscerato le difficoltà delle istituzioni sanitarie ad affrontare molti problemi, fra i quali quello dell’assistenza agli anziani. Al centro, comunque, il tema della famiglia, messa in discussione dalle difficoltà economiche e impossibilitata a occuparsi dei propri elementi deboli. «È giusto che la famiglia costituisca il maggiore ammortizzatore sociale?», si chiede Luigi Baruffi in apertura di convegno. «Le banche, siamo sicuri che facciano tutto il possibile per venire incontro alle difficoltà che si ammassano?», prosegue. La critica politica è che sono state varate misure legislative improntate alla convenienza politica immediata e non alla produzione di un bene comune a largo raggio e lunga gittata. Il coordinatore regionale non ha dubbi sulla bontà di un federalismo ben gestito ma coordinato a livello nazionale; le 20 regioni italiane devono agire autonomamente ma in vista di un progetto comune e armonico; è intollerabile che in un momento di crisi produttiva e monetaria la Calabria assuma 2000 persone nella pubblica amministrazione; occorre che la politica economica nazionale navighi insieme per uscire dall’immane disastro. La tenuta dell’unità nazionale è doverosa tanto a livello economico quanto politico-culturale, così seguendo lo stesso ragionamento si accettino, certo, gli extracomunitari ma nel rispetto delle nostre regole e tradizioni. Contro l’intellettualismo affetto da xenofilia eccessiva si scaglia anche Battista Bonfanti, coordinatore del movimento civico lombardo, che asserisce che la politica è stata lasciata ai politologi ammalati di spirito emulativo nei confronti dei modelli esteri, che non corrispondono però alla tradizione della gestione della res publica che si è sempre avuta in Italia, improntata al pluralismo e non alla scissione netta fra due ali opposte e confliggenti, mentre la tradizione di stampo cattolico di attenzione al sociale, un liberismo umano e il pluralismo hanno portato l’Italia a livello internazionale. Marina Rossi C O O R D I N A T R I C E CI R C O L I LI B E R A L MI L A N O

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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