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Amoreggiate con le idee

finché vi piace; ma quanto a sposarle, andateci cauti Arturo Graf

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 15 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Neanche nelle ore dell’aggressione al premier vince il buon senso, tra chi dice «Se l’è cercata» e chi criminalizza ogni opposizione

Sciogliete gli eserciti dell’odio Da decenni operano,nei media e nella politica,fabbriche di demonizzazione di sinistra.Ora ad esse si contrappongono analoghe legioni di destra.Ma se l’Italia non verrà “smilitarizzata”non avrà futuro TUTTA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ

L’ANTICA DFGHGDF“GUERRA CIVILE” DELLA GAUCHE

Torni presto al lavoro, presidente on solo “buona creanza”, anche per chi si oppone alla sua linea politica, augurarsi la pronta guarigione del presidente del Consiglio e il rapido ritorno alle sue attività istituzionali. È l’essenza stessa della convivenza civile, così rara in questo Paese troppo a lungo martoriato dagli opposti estremismi e dalle campagne d’odio, con i vecchi eserciti di sinistra (e quelli nuovi di destra) pronti a soffiare sul fuoco dello scontro. Non può non esserci un limite alla violenza verbale e fisica. Perché, come scriveva Popper, il liberale ama la tolleranza come conseguenza necessaria della fallibilità dell’uomo. Ma se estendiamo questa tolleranza anche agli intolleranti, se non siamo «disposti a difenderci contro l’attacco degli intolleranti», allora saremo distrutti e con noi la tolleranza. Allora, auguri presidente! Torni presto al lavoro per costruire, insieme a tutti i tolleranti, un Paese capace di resistere al ricatto degli intolleranti.

Quelli che … Giulio, Bettino, Silvio, sono sempre mafiosi

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Il rapporto “privilegiato”tra la sinistra e gli eccessi demagogici che sfociano nell’oMarco Travaglio dio ha una lunga storia. E parte dal 1948, dalla contrapposizione fra Togliatti e De Gasperi, per arrivare a Travaglio e Santoro.

di Francesco Ingravallo

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LA DFGHGDF NUOVA “GUERRA CIVILE” DELLA DESTRA

Berlusconi resta in ospedale «Situazione più grave del previsto» I medici del San Raffaele: «È sofferente e si nutre con fatica». «Poteva essere ucciso», dice Maroni e propone una stretta su Facebook. Ieri la visita di Schifani, Fini e Bersani. L’aggressore psicolabile è in isolamento: «Lo detesto con tutte le mie forze» servizi da pagina 2 a pagina 7

Quelli che … chiunque critichi Silvio è un mandante di Franco Insardà

E Napolitano chiede la pace: «Basta con tutte le violenze»

I Paesi emergenti contestano il tavolo di Copenhagen di Vincenzo Faccioli Pintozzi

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

Il Quirinale è preoccupato e si appella al Paese e alla politica per chiedere la pace Giorgio Napolitano dopo tanta violenza, anche verbale: «Bisogna avere fiducia nelle Istituzioni e rispettarle e moderare le parole, in ogni contesto».

di Errico Novi

Il summit verso il fallimento

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UN FORTE APPELLO ALLA PACIFICAZIONE COME

Appello del segretario Onu Ban Ki-moon: «Senza accordo sarà catastrofe»

La conferenza sul clima di Copenhagen ieri è stata a un passo dal completo, clamoroso fallimento. È stato quando le delegazioni dei paesi in via di sviluppo hanno lasciato il tavolo delle trattative minacciando di andarsene. Oggetto della contesa, una bozza di accordo che protegge troppo i grandi e penalizza i piccoli. Solo la mediazione della presidenza danese è riuscita, all’ultimo minuto, a

Gli insulti persodel nalizzati “Giornale” di Vittorio Feltri contro Dino Boffo, GianVittorio Feltri franco Fini, Giorgio Napolitano e, ieri, contro la «Violenza costituzionale» sono solo la punta di un iceberg politico.

mediare riportando i paesi emergenti al tavolo delle trattative. In questa atmnosfera è arrivato il grido d’allarme del segretario dell’Onu Ban Ki-moon: «I leader del mondo dovranno trovare un compromesso altrimenti le conseguenze saranno catastrofiche. I negoziati sono difficili e complessi, ma sono necessari».

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Dopo le minacce all’opposizione

Khamenei non basta L’esercito iraniano si divide sull’Onda Mousavi prepara nuove proteste malgrado il possibile arresto di Osvaldo Baldacci In Iran, dopo le parole durissime di Khamenei («Elimineremo l’opposizione»), le contestazioni al regime cambiano di segno. Anche l’esercito per la prima volta mostra segni di distacco da Ahmadinejad.

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• CHIUSO

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19.30


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L’aggressione. Frattura del naso e due denti rotti per il premier che resta al San Raffaele: «Non capisco perché tanto odio»

L’appello di Napolitano

Il Quirinale: «Basta con la politica esasperata, bisogna misurare gesti e parole». Alfano: «Ma non è stato solo il gesto di un folle» di Errico Novi

ROMA. Tra le molte parole che galleggiano nell’aria del day after quella che colpisce di più è un aggettivo, usato da Paolo Bonaiuti per descrivere la condizione del premier: «È stato operativo tutto il giorno». Operativo. Dopo un colpo tremendo come quello di domenica sera, con un setto nasale infranto, denti danneggiati, con i medicinali antiematoma che i clinici del San Raffaele di Milano continuano a somministrargli e con la «sofferenza», la «difficoltà ad alimentarsi» di cui riferisce il dottor Alberto Zangrillo. «È tutto fasciato ma abbiamo parlato di politica, di questioni sia nazionali che locali», racconta un semi-incredulo Roberto Formigoni, che visita Berlusconi nel primo pomeriggio. È una reazione possibile solo per chi ha «la scorza del combattente», come la definisce il guardasigilli Angelino Alfa-

«Eppure Silvio è stato operativo per tutta la mattina», racconta Bonaiuti. «Situazione più grave rispetto alle prime impressioni» secondo i medici no, secondo il quale «non è stato solo il gesto di un folle». È il prodigio biologico di un uomo che dieci secondi dopo aver ricevuto un pugno chiodato in piena faccia era in piedi, di nuovoa sul predellino dell’auto, ma stavolta per guardare negli occhi il suo aggressore.

È inevitabile anche l’effetto ritardato della sofferenza: come dice ancora Bonaiuti «adesso il presidente comincia a sentire sul serio l’effetto del colpo». Terapia analgesica e antibiotica, ma soprattutto prudenza da parte dei sanitari del San Raffaele, che si riservano di decidere oggi se lasciar tornare il Capo del governo a casa: «La situazione è più grave di quel che poteva apparire in un primo momento», è la considerazione più critica contenuta nel bollettino. Più trascorrono le ore dall’aggressione e più la vigorosa reazione del primo istante lascia spazio al sopraggiungere della sofferenza, immaginabile nella sua acutezza per un uomo di 73 anni. Ma più trascorre il tempo e più matura nel Paese la consapevolezza che si è varcata una soglia pericolosissima. È il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a intervenire nel modo

Disarmiamo i profeti della guerra civile di Giancristiano Desiderio n piazza Duono a Milano, domenica, la guerra civile mentale italiana ha fatto un drammatico passo avanti verso la guerra civile reale. L’odio verbale (di destra e di sinistra) si è trasformato in oggetto contundente e - come ha giustamente rilevato Giampaolo Pansa - conta davvero poco che il braccio armato era quello di uno psicolabile. Ciò che conta è che il passaggio dalle parole ai fatti è diventato geometrico. Tali parole, tali fatti. La violenza verbale è diventata violenza fattuale perché quando la politica non conosce e non pratica più da tempo la forza del suo limite, allora, capita che il passo tra il verbo e l’azione sia molto più mobile e labile di quanto non si sia disposti ad ammettere. Il gesto folle di Massimo Tartaglia non è irrazionale e si spiega con le parole di odio di cui da molto, troppo tempo si nutre la nostra politica in cui si fronteggiano non partiti avversari, bensì eserciti dell’odio. La politica riportata ai suoi elementi base di amiconemico non è più un confine costituzionale che ci difende

I

dalla violenza e dalla paura ma, al contrario, è diventato il luogo da cui si sprigiona la violenza. Ecco perché la prima cosa da fare è sciogliere gli eserciti dell’odio che sono la radice della violenza mentale e pratica.

Purtroppo, bisogna registrare che anche nel giorno e nelle ore immediatamente successive all’attentato al presidente del Consiglio l’odio politico ha continuato a dominare le menti. È noto ormai che Antonio Di Pietro ha definito Berlusconi «un istigatore», mentre il Giornale è andato in edicola titolando «Violenza costituzionale» e parlando di «Mandanti morali» dell’attentato dando un validissimo contributo non alla chiarezza ma alla confusione e ai pretesti. Ancora Rosy Bindi ha invitato il capo del governo a «non fare la vittima», come se non avesse il setto nasale rotto, due denti in meno, punti di sutura e non fosse ricoverato in ospedale sotto osservazione; d’altra parte, Gianfranco Anedda, membro laico di centrodestra del Csm, nel giorno in cui il capo dello Stato Giorgio Napolitano chiede a tutti di recuperare equilibrio e moderazione accusa i magistrati di aver detto cose che «hanno portato oggettivamente alla violenza». Gli eserciti dell’odio si confermano sempre in servizio permanente effettivo e danno da pensare: uscire dall’«odioso clima» in cui è precipitata da tempo la politica e con essa l’Italia non sarà facile. La dignità della politica risiede nel limite che chi pratica i luoghi della politica Parlamento e istituzioni - deve imparare a conoscere e a mostrare. Da noi, purtroppo, va in scena la politica illimitata. I nemici del capo del governo - gli Antiberlusconiani - sbagliano e «peccano» quando indicano nel premier la causa di tutti i male: il Male. A loro volta, gli amici del presidente del Consiglio - i Berlusconiani - sbagliano e «peccano» quando ritengono che ogni critica al premier sia un reato di lesa maestà. «Abbassare i toni» - frase tanto ripetuta da diventare insensata - significa impegnarsi a riportare la politica entro i suoi limiti che, se superati, provocano violenza non facile da controllare.

più deciso, nel tardo pomeriggio, per chiedere che «si torni a un civile confronto tra le parti politiche» e definire senza mezzi termini «insensato accusarsi a vicenda per il clima politico» o rinfacciarsi il fantasma «del complotto» da una parte e della «ricerca di scorciatoie» dall’altra. «Bisogna dire no al ritorno della violenza nella politica, bisogna tornare a un confronto civile, vanno pesati i giudizi», soprattutto «vanno pesate le parole, nelle piazze come in tv», dic e ancora il Capo dello Stato . Che ammonisce chi in queste ore non ha perso l’occasione di tacere, affinché «si eviti lo scarico di responsabilità», e ancora i cittadini perché abbiano «fiduiicia in tutte le istituzioni», ma anche perché «si sentano tutti, tutti preoccupati per quanto è accaduto».

Nelle stesse ore in cui i presidenti delle Camere Renato Schifani e Gianfranco Fini (Berlusconi si è particolarmente rallegrato per la visita di quest’ultimo), Formigoni e Filippo Penati fanno visita in ospedale, mentre si susseguono le telefonate di vicinanza e affetto dei leader politici come Pier Ferdinando Casini e di molti ministri (Mara Carfagna riporta l’invito del Cavaliere ad «andare avanti compatti») prosegue il lavoro di Armando Spataro per accertare il movente di Massimo Tartaglia, il 42enne autore del gesto sconsiderato. Lo psicolabile di Cesano Boscone è in carcere in

Messaggi di solidarietà di Clinton e Merkel. Visite di Schifani, Fini e Formigoni. Tartaglia guardato a vista, in isolamento: «Odio il Cavaliere» stato di isolamento e guardato a vista. Attesa a momenti la convalida dell’arresto da parte del gip. Durante l’interrogatorio Tartaglia ha ammesso di «provare odio per Berlusconi». Il padre Alessandro è costernato, amici di famiglia raccontano di uno stato di profonda prostrazione. La psicologa che aveva in cura l’aggressore dal 2003 – dall’ultima volta cioè in cui era stato trattenuto presso un reparto di psichiatria« di un ospedale – si rifiuta di rilasciare dichiarazioni alla stampa: «parlerò solo con la Procura e la direzione sanitaria del Sant’Anna», cioè la struttura sanitaria in cui Tartaglia era stato più volte in day hospital negli anni scorsi. Oltre alle polemiche, ravvivate ieri da una intemerata della parlamentare dipietrista Sonia Alfano che si rifiuta di esprimere solidarietà a un correttore e dalle dichiarazioni del componente laico del Csm Gianfranco Anedda secondo il quale la responsabilità morale dell’accaduto è an-


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Ancora una volta il centrosinistra mostra due anime contrapposte

I due Pd: Bindi in piazza, Bersani all’ospedale La presidente dichiara: «Se l’è cercata». Qualcuno la biasima. Ma molti invece le esprimono simpatia di Antonio Funiciello

ROMA. Bene ha fatto Pierluigi Bersani ad essere tra i primi ad accorrere all’ospedale San Raffaele di Milano in visita al presidente del Consiglio. Una tempestività che conferma, assieme alla mancata partecipazione al no B day, una precisa volontà di ripristinare rapporti di civiltà politica col suo maggiore avversario. Forse il tratto migliore dei primi 50 giorni al vertice del Nazareno. Eppure, ancora una volta, il Pd non è riuscito a parlare con una voce sola, neppure innanzi a un fatto tanto grave. Se il segretario del Pd si è mosso con saggezza e tempestività, il presidente del partito Rosy Bindi non ha esitato d’altro canto a mostrare, in un’intervista alla Stampa, l’altra faccia della medaglia democratica. Secondo la Bindi, infatti, Berlusconi «non può sentirsi vittima» neppure quando un delinquente psicolabile gli scaraventa addosso una miniatura da paccottiglia turistica del Duomo di Milano rischiando, come minimo, di renderlo cieco da un occhio. Neppure allora. che dei magistrati, tiene banco anche lo’analisi sull’effiocienza dei sistemi di sicurezza. È fissata per oggi a Palazzo San Macuto l’audizione di Gianni Letta, che ha anche la delega ai Servizi, e di Gianni De Gennaro, direttore del Dis, presso il Copasir presieduto da Francesco Rutelli. Non sono pochi a criticare le procedure per la tutela fisica di Berlusconi, anche se il ministro dell’Interno Robero Maroni ha difeso anche ieri l’operato delle forze dell’ordine e rivelato anzio che solo grazie a un lavoro preventivo si è impedito ad alcuni contestatori di mimetizzarsi tra i fan del premier e appostarsi proprio davanti al palco.

Tra le espressioni di solidarietà c’è anche quella di Papa «Benedetto XVI, che al presidente del Consiglio ha inviato un telegramma in cui definisce «deplorevole» l’aggrsessione». Auguri sono arrivati da Angela Merkel e da Hillary Clinton, che li ha espressi al ministro degli Esteri Franco Frattini. Anche il presidente della Corte costituzionale ha dichiarato la propria solidarietà al Capo del governo e censurato duramente l’aggressione. Può anche darsi che l’avvenimento drammatico di piazza Duomo serva a riportare un po’ di civiltà nel confronto politico. Ma il prezzo, qualunque cosa accada, sarà sempre troppo alto.

Qui sopra Silvio Berlusconi soccorso subito dopo il colpo subito domenica sera. A destra, l’aggressore, Massimo Tartaglia, bloccato dalla sicurezza del premier. Sotto, Rosy Bindi. Nella pagina a fianco, Antonio Di Pietro

L’intemerata della Bindi dimostra che in Italia l’odio politico c’è, da anni, e non accenna a placarsi. Anzi, al mutare delle stagioni politiche riesce con una certa gagliardia a rimodularsi, adattandosi alle circostanze. Rosy Bindi non è un militante qualsiasi. È oggi vice presidente della Camera e presidente del suo partito, perché tra i principali maggiorenti del Pd. L’ultima interprete ”autorizzata” del prodismo, dopo l’eresia congressuale di Parisi, che ha scelto di sostenere Franceschini, quando tutta la batteria prodiana si orientava su Bersani. Non a caso la Bindi ha richiamato nei mesi passati a ogni pie’ sospinto l’eredità, sua e del candidato che lei aveva scelto, del progetto originario dell’Ulivo e della grande alleanza ”modello Unione” contro Berlusconi. Una grande alleanza di liberazione democratica a cui invitare a partecipare tutte le opposizioni. Impossibile negare che ci sia coerenza tra la rivolta lockiana contro il tiranno della Bindi e la sua convinzione che Berlusconi «non possa sentirsi vittima» dell’aggressione di cui è stato oggetto.

emotivo, che con la razionalità politica non ha nulla a che vedere, ed è assai diffuso nella pancia degli elettori del Pd oggi, dei Ds e della Margherita ieri. Un irrazionalismo che affonda le sue radici nella santa alleanza che a fine anni Settanta comunisti e democristiani di sinistra intendevano realizzare contro il depauperamento morale e la corruzione del sistema-paese e che, negli anni Ottanta, scagliarono indifferentemente contro Bettino Craxi o Giulio Andreotti. Chiunque cavalchi questo odio tanto accanitamente sedimentato in gran parte del popolo della sinistra, è certo di poterne beneficiare in termini di ritorno di immagine. E di poterne fare la base delle sue fortune negli equilibri interni al partito.

Il Pd è ancora impedito nelle maglie di questo odio. È un problema di constituency: l’avversione assoluta al capo del Governo è uno dei mastici che tiene unito il popolo della sinistra e blocca i suoi rappresentanti nelle istituzioni in una condizione di passività e subalternità all’azione politica del centrodestra. L’anti-berlusconismo è la zavorra che impedisce alla mongolfiera democratica di spiccare il volo verso una propria evoluzione schiettamente riformista. È da troppo tempo che i progressisti italiani prediligono definizioni in negativo della propria offerta politica. Prima si libereranno del feticcio anti-berlusconiano, prima potranno diventare competitivi, non solo per vincere le elezioni, ma anche per governare. Il rischio di sciogliere questo mastice è di certo alto: la messa in discussione di un pacchetto di voti sicuri. Eppure, per chi voglia cercare un alto rendimento, non c’è che farsi carico di un alto rischio.

Chiunque cavalchi questo odio è certo di poterne poi beneficiare in termini di ritorno di immagine e di possibilità di controllo politico

Che la Bindi desti sconcerto tra i dirigenti del Pd, ma che invece accattivi mille simpatie nell’elettorato democratico, non può così stupire. L’idea che Berlusconi, in fondo, se la sia cercata è sorella gemella a quell’aria di biasimo e sufficienza che una parte della sinistra rivolse agli Usa dopo la caduta delle Torri Gemelle. Un atteggiamento tutto


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Odio/1. La lista dei faziosi va da chi criminalizzava la Dc a Travaglio e Santoro

Quelli che... tutti mafiosi

Andreotti, Cossiga, Craxi, Berlusconi: la lunga serie dei nemici assoluti, che nel tempo sono diventati prima «capri espiatori» poi paraventi della crisi politica della sinistra di Francesco Ingravallo fucking hate you». Oppure «Hatebook». L’odio è un materiale umano primario e non sorprende che trovi un suo autonomo spazio in Rete – nei cosiddetti «anti-social network» – e, ovviamente, non sorprende nemmeno che trovi un suo spazio nella comunicazione politica. D’altronde un certo spirito di fazione è consunstanziale al tema, per così dire. Stare al mondo con grazia però - potrebbe testimoniarlo qualunque esperto di bon ton - è una questione di sfumature e leggerezza, proprio le materie in cui si perdono gli esagitati che oggi frequentano le piazze virtuali quanto quelle reali, quelli che – qui ci si occupa del côté “sinistro” - scrivono «Cainano» o «Al Tappone» o «Testa d’asfalto» (citando Travaglio o Grillo, dipende dalle preferenze) in appositi post in cui augurano all’odiato Berlusconi malattie mortali e condanne ai lavori forzati senza nemmeno un’ombra di quella pietas che sola testimonia la residua presenza dell’umano. Indagando sui movimenti extraparlamentari nati dal ’68, lo storico Giovanni De Luna ha parlato di una ricerca di verità che non seppe esprimersi in altro modo che attraverso «rigidezza dottrinale ossessiva», «giudizi politici superficiali», «impazienze esistenziali». Tolta l’ideologia, una diagnosi per l’oggi. Non esiste campagna politica di massa che non attinga ad una dimensione simbolica – spesso attraverso la riduzione a macchietta dell’avversario – poco indagato resta invece il momento in cui cervelli deboli arrivano a scambiare il simbolo con l’uomo (o con la «funzione», lessico br): d’altronde a preoccuparsi troppo di come la psicopatia interagisce col discorso pubblico si rischia d’essere ridotti al silenzio.

«I

oggetto fu Alcide De Gasperi. Il Fronte popolare gli diede di «tedesco» fin dall’immediato dopoguerra: «Il cancelliere Alcide von De Gasperi», si scriveva a lasciar intendere una certa prossimità del nostro al Terzo Reich. Lo stesso Palmiro Togliatti si augurò, nel comizio finale per la campagna del ’48, di poter appoggiare i chiodi dei suoi scarponi al fondoschiena dell’avversario onde rispedirlo oltralpe per via aerea. Anche il malcelato senso di superiorità “de sinistra” che tanto fa infuriare Bondi e Cicchitto è antico: dopo l’esclusione delle sinistre dal governo (1947), l’Unità titolò «Quanto sono cretini!». E dopo la sconfitta dell’anno successivo bissò con un commento in cui si sosteneva: «Hanno vinto i preti, le vecchie e i deficienti». Sempre De Gasperi, insieme a Mario Scelba che la firmò, fu l’obiettivo degli attacchi contro «la legge truffa» del 1953 (solo una legge elettorale maggioritaria): la fortunatissima espressione, peraltro, è di Piero Calamandrei, che in Parlamento si rivolse al governo parlando di «congegno ruba seggi» e, conseguentemente, di «ladri di seggi». Scelba dal canto suo, il ministro dell’Interno - «prima spara sul prossimo / poi prega il Padreterno», lo irridevano nelle piazze - non era nuovo agli attacchi frontali delle sinistre, anche per via d’una sua certa attitudine alla persecuzione anti-comunista. Un uomo il cui unico lascito all’Italia - è opinione diffusa ancor oggi nella gauche - è l’inserimento del tondino di ferro nei manganelli della Celere.

La prima vittima fu De Gasperi, che Togliatti definiva con sprezzo “il tedesco” per le origini austriache. Ma poi toccò anche al «fanfascismo» e alle tangenti di Leone

Si dicev a dei simboli e degli uomini. La storia della sinistra italiana, ufficiale o no, è piena di (riuscite) campagne mediatiche sui leader avversari (che però non è che fossero teneri agnellini). Il primo ad esserne

Fu negli anni Settanta, però, che le campagne ad personam raggiunsero i loro picchi di virulenza. Il decennio fu inaugurato con la campagna contro il «fanfascismo» scatenata da Lotta continua che impedì ad Amintore Fanfani di essere eletto presidente della

Repubblica nel 1972. Luigi Pintor, sul manifesto, vi aggiunse un tocco di perfidia storiografica ripubblicando testi anteguerra dell’allora giovane economista non privi di elogi al corporativismo, terza via tra due errori – capitalismo e socialismo – e inveramento della dottrina sociale della Chiesa. Il «fanfascismo» del leader della sinistra Dc – già additato al pubblico ludibrio come «traditore» di don Dossetti negli anni Cinquanta – era in realtà solo un prospetto di riforma in senso presidenziale, vagamente gaullista, della Costituzione. Curiosamente, anche Giovanni Leone, che salì al Quirinale al posto di Fanfani, restò vittima di una violenta campagna politica e personale – in cui si distinsero L’Espresso e Camilla Cederna - sulla scia dello scandalo Lokheed: finì che Leone si dimise, salvo essere riabilitato un paio di decenni più tardi.

Anche il suo predecessore, Giuseppe Saragat, sanguigno socialdemocratico famoso per «il destino cinico e baro» cui imputò una sconfitta elettorale, fu demolito dalla propaganda comunista: «In Saragat veritas», lo scherniva Fortebraccio sull’Unità riferendosi ad una sua passione diciamo enologica. Per non parlare del Kossiga (con le due “s” scritte in stile SS) «amerikano» o «boia» che eccitava le fantasie belliche degli extraparlamentari nella seconda metà dei Settanta. In tempi più recenti è stato Bettino Craxi, «il Cinghialone», a fare le spese della competizione a sinistra: «Pensiero stupendo» titolava il settimanale satirico Cuore su un fotomontaggio del leader socialista dietro le sbarre («Pensierino stupendino», più in basso, stessa foto ma protagonista Bobo Craxi). Il segretario del Psi era «un ladro» e come tale veniva indicato al pubblico ludibrio (e relative monetine), mentre Giulio Andreotti era addirittura «Belzebù», l’uomo la cui mano spuntava dietro ogni mistero italiano e la cui sottilissime labbra s’erano addiriturra posate su quelle di Totò Riina. Queste fortunate campagne mediatiche spesso nascevano da fatti, da critiche legittime, ma si sa come sono le idee: «Come quei legnetti bucati che nelle spiagge si tirano ai cani per farseli riportare; e tutti ci corrono dietro, le mordono, le spupacchiano e te le rimettono davanti tutte biascicate» (Giorgio Gaber).


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Odio/2. Feltri, Belpietro e gli altri rappresentano la punta di un iceberg politico

Quelli che... tutti mandanti Gli attacchi personalizzati contro Boffo, Fini e Napolitano sono solo l’ultima frontiera di una destra violenta che non conosce avversari ma solo complotti da sventare di Franco Insardà iolenza costituzionale”. L’ultimo gradino in una scala che non porta nulla di buono è nella prima pagina del Giornale di ieri. C’è il volto tumefatto e sanguinante di Berlusconi a mo’ di manifesto di questa Italia e sopra, scritto a lettere cubitali “Violenza costituzionale” che è un po’ come dire mandanti di Stato. Se le parole hanno un peso, dietro il gesto folle di Massimo Tartaglia ci sono Giorgio Napolitano, Gianfranco Fini o il presidente della Consulta, Francesco Amirante. E poco importa che nel suo fondo di prima il condirettore del Giornale Alessandro Sallusti citi soltanto Fini, se la prenda prevalentemente con l’opposizione. Vedendo il quotidiano diretto da Vittorio Feltri di ieri sembra passato un secolo da quando la destra – non soltanto quella missina – andava in piazza con la bandiera tricolore. Faceva quadrato sul senso di patria non soltanto per sottolineare che l’avversario comunista stava dall’altra parte della Cortina di ferro. Sallusti, infatti, nel suo fondo, ma anche in varie trasmissioni televisive, ha sostenuto la tesi che «il fronte dell’odio anti Cavaliere ha incassato il primo risultato». Ma si potrebbe facilmente obiettare che, a fronte di quell’odio contro Berlusconi, esiste un altro sentimento, uguale e contrario, che osanna il premier e demonizza i suoi avversari. Lo stesso Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera del Pdl, non è stato da meno indicando come mandanti morali dell’aggressione Eugenio Scalfari e Antonio Di Pietro.

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L’accelerazione al fenomeno, più consono alla sinistra, di individuare dei nemici coincide con la discesa in campo, nel 1994, di Silvio Berlusconi, quando annunciò di “dover bere l’amaro calice”e incentrò la sua campagna elettorale sulla necessità di fare muro ai comunisti. Per tutta risposta Massimo D’Alema – l’amicizia tra i due verrà qualche anno dopo – gli augurò di “chiedere l’elemosina in piazza Navona”. Proprio la mancanza di una delegittimazione comune e l’inesperienza fanno intendere al centrodestra scongelato da Berlusconi come la politica sia un’attività muscolare. Che non rispettare il dettato della buona creanza costituzionale sia un modo per rompere gli schemi, per farla finita con le logiche consociative del passato. An-

che il realizzare un processo necessario come quello di riformare le pensioni salta miseramente nel machismo di un governo che pensa di poter governare senza il dialogo del sindacato. Ma rispetto ai toni di oggi, quelli di un decennio fa appaiono strepiti da educande. Da un lato c’era Oscar Luigi Scalfaro, che non dava appigli ai tentativi di riformare la giustizia e rallentare l’azione della magistratura. Dall’altro c’era il fattore Lega, il partito ancora a metà tra secessione e federalismo e che impose ad azzurri e ad An una frenata a certe spinte che pure sarebbero state naturali. E quando Bossi tradì, Berlusconi si ritrovò senza maggioranza parlamentare, con la magistratura alle calcagna e le forze sociali a festeggiare l’avvenuto ribaltone. Tanto che il 31 gennaio del 2006 dichiarò: «Sono il perseguitato numero uno nel mondo occidentale!». Sono proprie queste vicende a cambiare l’atteggiamento del Cavaliere negli anni successivi.

e alla poca credibilità dei giudici della Consulta e dei magistrati in genere.

La stampa di centrodestra non ha fatto mancare il suo appoggio al Cavaliere, anche se ilVittorio Feltri, direttore di Libero, era meno appiattito sulle posizioni berlusconiane rispetto a oggi che guida il quotidiano di famiglia. E proprio dalle colonne del Giornale sono partite le campagne più violente contro i “nemici” del premier. Prima Feltri ha colpito e affondato il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di aver bacchettato Berlusconi sulla vicenda di Noemi, costringendolo alle dimissioni. Poi ha lanciato messaggi e avvertimenti nei confronti di Fini, una sorta di contraltare ai continui distinguo che il presidente della Camera ha operato rispetto agli attacchi del premier nei confronti della magistratura e del presidente della Repubblica. Anche Maurizio Belpietro, successore di Feltri alla guida di Libero, non ha certamente usato toni diversi, cavalcando il caso Marrazzo. Lo stesso Berlusconi non ha perso occasione per invelenire un clima già molto teso. L’ultima cinque giorni fa nel suo intervento al congresso del Ppe di Bonn quando sostenne che «la sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici». Dopo l’aggressione di domenica le fazioni hanno avuto nuova linfa. Per Gianfranco Anedda, membro laico del Csm, in quota Pdl, al «clima di odio e violenza non sono esclusi alcuni magistrati. e anche a nome dell’altro laico del Pdl, Michele Saponara, ha ricordato le parole di Armando Spataro e Antonio Ingroia «magistrati che hanno ampiamente contribuito a fomentare la violenza». Secondo l’assessore al Lavoro del Veneto, Elena Donazzan, i mandanti morali sarebbero le trasmissioni tv Annozero e Ballarò. Fino al senatore Filippo Berselli che individua in Bersani, Casini e Di Pietro «i responsabili, quantomeno morali». Mentre sulle pagine di Facebook sono ormai migliaia i fans dell’aggressore Massimo Tartaglia, mentre i gruppi a sostegno di Silvio Berlusconi si contano a migliaia, per non parlare dei vari appelli a firmare per “Di Pietro e Rosy Bindy fuori dal Parlamento!”.

Il berlusconismo ha inteso la politica come un’attività muscolare e il non rispettare la buona creanza costituzionale come un modo per rompere gli schemi del passato

Eppure la deriva – forse imprescindibile in una destra senza strutture ma soltanto verticistica – avviene. E arriva nel 2008 con la famosa “svolta del predellino” e la nascita del Popolo delle libertà. A quel punto il Cavaliere detta le sue regole chiare: o con me o contro di me. Parte lancia in resta contro Casini, reo di non aver voluto sciogliere l’Udc nel Pdl, e va dritto per la sua strada forte del consenso popolare sia nelle urne sia negli amati sondaggi. Intorno a lui cresce l’esercito dei berluscones che gli perdonano il caso Noemi, le escort a Palazzo Grazioli e tutti i tentativi di trovare una via d’uscita ai suoi problemi giudiziari. Pronti a indignarsi, con il capo e più di lui, se la Corte costituzionale ritiene illegittimo il lodo Alfano e a gridare allo scandalo


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Piazze. Per lo storico Mario Isnenghi, si inizia a degenerare quando la cultura politica non produce più pensiero e parole

Bipolarismo & Violenza

«Le maglie della politica ridotta a due grandi schieramenti non riescono a comprendere le istanze di un Paese che ha una storia complessa» di Riccardo Paradisi e parole non sono cose ma possono trasformarsi in pietre, o statuine da souvenir da scagliare sul volto di un presidente del Consiglio su cui sembra scaricarsi un odio particolare. Alimentato ad arte – dice oggi la destra – dai suoi avversari politici, individuati come mandanti indiretti di Massimo Tartaglia, il quarantaduenne aggressore di Milano.

L

Uno psicolabile la cui mente e la cui mano son però mosse da un clima molto particolare, surriscaldato da anni da una delegittimazione sistematica dell’avversario. Delegittimazione che si traduce nell’opposizione permanente di curve contrapposte, dove lo slogan ha sostituito il pensiero, dove il conflitto politico si è impoverito e involgarito, riversandosi nelle piazze in maniera sempre più scomposta. Non siamo ai livelli degli anni di piombo naturalmente, ma certo il volto insanguinato di Silvio Berlusconi non è un segno positivo dello stato del Paese. Mario Isnenghi, docente di storia contemporanea all’Università di Venezia, al rapporto tra piazza e politica ha dedicato uno studio ponderoso L’Italia in piazza (Mondadori 1994, Il Mulino 2005), concepito proprio all’inizio di quegli anni Novanta in cui la piazza sembrava morta, sostituita dall’agorà mediatica e televisiva. In realtà la piazza è una costante della storia politica italiana. «La politica italiana – ricorda infatti Isnenghi – è stata spesso extraistituzionale senza per questo essere eversiva». Nel suo studio sull’Italia in piazza Isnenghi ricorda che persino il movimento cattolico ha pesato molto nel nostro Paese come movimento di piazza: «I primi cortei di piazza sono confessionali tanto che poi le manifestazioni socialiste verranno chiamate “processioni” proprio perché si avevano ancora in mente appunto le processioni dei cattolici negli spazi pubblici». Ma oggi c’è un fatto che fissa l’attenzione degli italiani: l’aggressione subita da Berlusconi in una piazza di Milano. Da dove parte quell’oggetto che s’è schiantato sul volto del premier? Si iscrive nella recente degenera-

zione del dibattito pubblico o si inserisce nell’eterno copione della divisività italiana: guelfi contro ghibellini, repubblicani contro monarchici, fascisti contro antifascisti…? «A questa costituzionale divisività italiana io non credo molto – dice Isnenghi – mi sembra una categoria romantica centrata su questa cosa molto discutibile che sarebbe il carattere degli italiani». Meglio ragionare con categorie più solide come quelle storiche, politiche, sociali. Partire proprio dal principio di realtà, dalla struttura, si sarebbe detto una volta. «Siamo ormai tutti dentro una specie di bolla dove parole,

preferito che avvenisse per un’altra via naturalmente, in una forma mediata dalla cultura politica, dalla grammatica democratica del conflitto. Però è avvenuto il contrario e di questo ci si dovrà pure interrogare». La convinzione di Isnenghi è l’ineliminabilità del conflitto politico: «Sono pronto a discutere i tempi, le forme e i modi. Non sono d’accordo a isolare l’Italia come la terra d’elezione della di visività, fissandola nello stereotipo dell’eterno ritorno della guerra tra guelfi e ghibellini. Insomma è vero che l’Italia è terra di conflitti ma noi ci dimentichiamo che in Gran Bretagna e in Francia si sono tagliate le teste ai re, che gli Stati Uniti d’America nascono da una dura e sanguinosa guerra per l’indipendenza. Insomma non è che altrove sia sempre regnata la pace. Piuttosto il dato è che proprio in Italia non è mai avvenuta una rivoluzione, qui c’è stata la controriforma. Ecco, si potrebbe dire – e dirlo oggi potrebbe apparire un paradosso – che in Italia non c’è stata abbastanza divisione».

Trovo grottesca la pretesa conciliazione delle memorie.Trovo però necessaria la conciliazione delle ragioni che ci fanno stare insieme

La politica secondo Isnenghi non dovrebbe ridursi alla gestione dell’esistente. In Italia ci siamo convinti di questa teoria minimalista della funzione politica e abbiamo inventato dei marchingegni per tagliare le cosiddette ali estreme dello schieramento politico, costringendoci tutti a un bivio obbligatorio, ad una logica binaria che rimuove attraverso ingegnerie istituzio-

fatti, immagini si mescolano in una narrazione che non è quella vera. È il mondo dei media ad aver creato questa generale percezione alterata, questa indistinguibilità tra parole, immagini e fatti. Ora, dopo questo episodio grave e da condannare senza riserve, d’improvviso ci si accorge che esiste la realtà e si richiede da parte degli stessi media che questa bolla emotiva continuamente alimentata lasci spazio alla ragionevolezza, al buon senso, al realismo. Si pretenderebbe che Antonio Di Pietro, un ex ministro, un ex magistrato, il leader di un movimento politico, usi toni e parole diverse per commentare quanto è avvenuto a Milano. Non è così facile. Anche se un sano bagno di positivismo è ora necessario per un ritorno ai fatti reali. E i fatti fanno male. È la scoperta della realtà. E la realtà politica è conflitto. L’idea di eliminare il conflitto, di rimuoverlo, significa eliminare il sale che rende democratica la politica».

Resta il fatto che il ritorno alla realtà è avvenuto con un fatto violento, traumatico, pericoloso. «Tutti avremmo

Dopo questo grave episodio si richiede da parte dei media che hanno alimentato l’eccitazione che si lasci spazio alla ragionevolezza

Dall’alto: l’attentato a Togliatti, una scritta contro Cossiga, il cadavere di Salvo Lima, Craxi contestato, il cappio leghista e la mortadella in Parlamento. A sinistra, Bettino Craxi

nali la complessità della cultura politica italiana». Un vizio questo antico della storia italiana: «Nel 1861 il nostro Risorgimento arriva a un punto di organizzazione apparentemente definitiva e i monarchici d’allora ritengono che il percorso debba finire lì. Ma per Mazzini e Garibaldi non avrebbe dovuto finire lì, quel movimento storico avrebbe dovuto spingersi avanti. E questa riserva di malcontento ha continuato a esserci. Ed è proseguita. Legittimamente, perché è la storia che decide quando un processo è finito. Oggi – continua Isnenghi – ci teniamo cara la resistenza tricolore ma c’è stata anche una resistenza rossa che parlava di resistenza tradita». Non è solo un Paese ritardatario il nostro, un Paese di eccezioni negative: l’I-


prima pagina

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talia: «Abbiamo avuto il partito socialista più significativo e libertario di tutta Europa, il miglior partito comunista d’Occidente, quello con il maggior senso dello Stato e della nazione. Ho qualche resistenza a pensare che l’Italia costituisca sempre un caso speciale. C’è stata una lunga stagione terroristica in Italia, è vero, ma in Germania non c’è stata? Si dice che l’Italia sia una nazione a vocazione fratricida e allora che vogliamo dire della Vandea francese o della guerra di Spagna?»

La Rete si è riempita di “evviva” per l’immagine del premier colpito

Dietro un volto insanguinato Il dolore dell’uomo va al di là della battaglia politica di Luigi Accattoli o mandato al premier insanguinato un pensiero gentile dal mio blog e mi è stato chiesto «come mai», non essendo io un sostenitore della sua politica: ora provo a spiegarmi, partendo dall’idea che un politico insanguinato e pur sempre un uomo che perde sangue e poi andando sull’altra idea – più complicata – che alle piazze calde si addicano menti fredde.

H

Del fatto di domenica mi interessa solo il sangue e sono felice di constatare che sia stato poco. Di suo l’accadimento mi appare minimo: un pazzerello doc ma dotato di mira ferisce il premier e agita tutti con l’immagine di quel volto insanguinato. Non ci vedo altro.Tanti ci hanno visto di più e abbiamo sentito tirarne significati, implicazioni, rischi, responsabilità. Capisco chi deve fare dichiarazioni, ma io che non vi sono obbligato terrei basse le parole e le vorrei tutte da uomo a uomo. Ripeto che l’unica cosa di rilievo è stata per me la veduta del sangue sulla faccia di colui che oggi è segno di contraddizione per tanti. Io non l’ho votato, quell’uomo, e scommetto con me stesso che non lo voterò se tornerà a candidarsi e spero che non lo faccia, ma lo rispet-

to come Capo del governo della Repubblica e vorrei che potesse governare – questo vuol dire il mio rispetto – per tutto il tempo per il quale è stato votato e designato. Se non sarà possibile gli auguro di uscire dalla scena politica nel modo per lui più sereno. Anche dopo il sangue abbiamo riascoltato l’agitazione dell’attacco e della difesa che da sempre mi pare eccessiva. Chi lo difende intollerabile trova ogni critica e persino che si richiami il conflitto di interessi, che invece va ricordato perché tocca la salute della nostra democrazia. Chi l’attacca gli grida il crucifige anche per la bandana, o le corna nelle foto, o le barzellette che invece sono innocue o anche simpatiche.

glio con cui provò a scherzare sull’ossessiva attenzione dei media alla sua vita privata: «Non sono un santo, lo avete capito tutti». Fu vituperato anche per quelle parole che non lavavano ma neanche sporcavano. Questo sarebbe tutto il mio sentimento sull’incidente di domenica, proprio di chi reagisce con mente fredda all’altrui passione. Ma stante la canea di chi esulta nella Rete avendo visto il sangue, a contravveleno di quella cattiveria e dei suoi possibili sviluppi ho pensato di mandare dalla Rete un pensiero gentile all’uomo che veniva oltraggiato. L’oltraggio maggiore non è quello che l’ha colpito al naso e ai denti e non è venuto dalla mente agitata di chi gli ha lanciato contro il modellino del Duomo: esso è fatto di parole e viene da chi invoca altro sangue. Non considero un’attenuante il fatto che quelle invocazioni siano comparse nella Rete e non nella realtà, perché la Rete è reale e reali sono le mani e le menti che le hanno formulate. www.luigiaccattoli.it

Non ha senso sostenere che internet non è la realtà: le ferite e le offese sono molto concrete

Non entro nelle questioni serie che sono terre minate. Ma dirò che spesso il partito preso ha fatto serie faccende che non lo erano. Richiamo un caso che sfiora la mia materia professionale e sul quale forse posso esprimere un parere meno peregrino: si tratta di una battuta del 22 lu-

La dialettica politica non deve essere un tabù: «Piuttosto io vivo male la convergenza al conformismo, l’obbligo di votare forze e persone che non mi rappresentano. Non so se sia colpa del bipolarismo ma a me sembra che in nome della stabilità restino fuori troppe cose, troppe culture, troppe istanze dalle maglie della politica. Dentro queste maglie la storia d’Italia non ci sta dentro, scappa da tutte le parti. Mi piacerebbe tornare indietro, al sistema proporzionale, preferirei una maggiore articolazione del quadro politico che abbia più rispetto della complessità della nostra tradizione storica e politica. Il risorgimento non è stato solo Cavour, c’erano anche Mazzini e Garibaldi, c’era anche il contraddittorio di Pio IX». Isnenghi è un laico convinto eppure ricordando i tempi della Dc ricorda la figura di Vladimiro Dorigo, un cattolico di sinistra, una grande speranza della Dc accanto a De Mita e Galloni. «Dorigo era la coscienza intemerata dell’autonomia di politica e religione. Era la dimostrazione vivente che si poteva imparare il senso dello stato anche nella Fuci. A dimostrazione che le culture politiche autentiche trovano i modi e i motivi per stare assieme, a coltivare e nutrire il senso dello Stato. Trovo grottesca la pretesa conciliazione delle memorie. Trovo però necessaria la conciliazione delle ragioni che ci fanno stare insieme». La storia in questa operazione è essenziale: «Persino il fascismo, che non è stata una parentesi nella vicenda italiana come disse Benedetto Croce, deve trovare una comprensione e una collocazione. E persino i fascisti, quelli che aderirono al Msi e non si vollero mascherare tra monarchici e la Dc, hanno trovato alla lunga una via di introduzione alla democrazia. Dove ci sono culture politiche c’è conflitto ma anche rielaborazione. Si arriva al conflitto senza più mediazioni quando c’è una normalizzazione culturale, quando non c’è più un conflitto culturale». Quando, a lungo disabituati al dibattito culturale, si comincia a parlare coi gesti: «Nella società dello spettacolo è difficile espellere il linguaggio del gesto dalla vita politica». Nonostante tutto il nostro Paese è ancora tra le nazioni occidentali, quello che di più va a votare. L’Italia ha ancora fiducia nei momenti della democrazia e questo, malgrado tutto, a me sembra un terreno istituzionale incoraggiante».


diario

pagina 8 • 15 dicembre 2009

Innovazione. Franco Bernabé presenta il sistema con il quale conta di scardinare la sfida tra Murdoch e Mediaset

La rivoluzione tv di Telecom

Arriva “Cubo”, la nuova tecnologia che unisce digitale e satellite ROMA. Domani è il grande giorno. Ma Franco Bernabé ha deciso di anticipare il tutto, parlandone - domenica scorsa - durante l’intervista concessa a Lucia Annunziata su Raitre: «L’annunceremo mercoledì prossimo e sarà un’innovazione molto importante, un oggetto che presenteremo prima di tutto alla comunità di Internet, un oggetto che noi chiamiamo Cubo e che avrà l’obiettivo di trasformare il modo in cui vediamo la televisione. Sarà una specie di decoder unico con un modo diverso di fruire della televisione, con servizi innovativi. Non sarà un oggetto di commercializzazione di massa, ma sarà un oggetto che noi speriamo si evolverà». Poche parole ma per nulla generiche: indicano che il nuovo prodotto che Telecom Italia sta per lanciare è pensato per una certa fetta di mercato, a suo modo alternativa a quella nazional-popolare a cui oggi si rivolgono Rai, Mediaset e Sky. Ma ai piani alti dell’ex monopolista pensano anche che in futuro potranno sviluppare ancora il prodotto fino ad arrivare a insidiare le fasce di utenza che oggi si rivolgono al digitale terrestre e al satellite. Telecom intanto ha già scelto il nome: sarà Cubovision, abbreviato in Cubo, e porterà tv e Internet insieme: il nuovo ‘piccolo cubo’ proporrà contenuti ed interattività e che diventerà fondamentale per l’intrattenimento. Scendendo nei particolari tecnologici, si tratta di un sistema di device multimediali connessi tra loro, che

apprezzare, visti i toni utilizzati sul web da parte di Michele Ficara, presidente AssoDigitale: «In questo Cubo di Plastica, forse,Telecom inizierà la rivoluzione. Si perderanno presto i contorni di come ci approvvigioniamo di contenuti, sia che avvenga con il Digitale terrestre, sia che avvenga tramite Iptv, sia che preferiamo le Webtv oppure youtube

La piattaforma in realtà non è generalista né sarà di massa, probabilmente, ma diventerà il supporto fondamentale per la tv “on demand” unirà la connected Tv (Over The Top Tv), un Tablet Pc e un connected e-reader. Questo sistema permetterà al consumatore digitale di non dover più porsi il problema di dove e come ricevere i contenuti ma solo decidere cosa e quando vedere un contenuto. CuboVision sarà dotato di unn hard disk da 500 GB che supporterà numerosi servizi video via Internet in modo da vedere la Tv via Internet (Web Tv) e avere la possibilità di usufruire di servizi personalizzati di informazione (MyMedia). E gli esperti del settore paiono

mand, non c’entra nulla con il pubblico generalista a cui puntano Mediaset e Rai e rappresenta anche un’evoluzione rispetto al cliente tipo di Sky. Fruire i contenuti in maniera autonoma è qualcosa che interessa più l’home entertainment vero e proprio rispetto al flusso dei contenuti tipico del mezzo televisivo: nel momento in cui si perde la caratteristica del dove e del come, nell’approvvigionamento, con essa si decostruisce anche il concetto di palinsesto e non hanno più ragione di esistere le normali reti televisive. È chiaro che però un prodotto del genere è pensato per essere “di nicchia” per il pubblico italiano: visti tempi, modi e difficoltà nel passaggio dall’etere al digitale terrestre, il tempo che ci metteranno a imporsi i prodotti come il decoder unico sarà giocoforza lungo.

di Alessandro D’Amato

ed anche i propri contenuti familiari in locale. Il consumatore digitale non dovrà più porsi il problema di dove e come approvvigionarsi di contenuti ma solo decidere cosa e quando vedere un contenuto. Tutto ciò deve avvenire nella massima semplicità e libertà, senza vincoli tecnici e problematiche configurazioni: tutto con un semplice tocco di telecomando, ricerche tematiche comprese».

Insomma, dalle premesse si può comprendere molto: Cubo è pensato per la tv on de-

Bankitalia: famiglie gravate dagli interessi

Aumentano i mutui ROMA. Cresce il servizio del debito cui le famiglie italiane devono far fronte per pagare la rata del mutuo. Nel 2008 il dato mediano si attestava al 20,5% del reddito disponibile, con una crescita di oltre tre punti percentuali risspetto al valore rilevato nel 2006. E in crescita di circa un punto, all’8% del reddito disponibile, sono anche gli oneri sostenuti dalle famiglie, indebitate e non, a fronte dei prestiti per l’acquisto di abitazioni. A lanciare l’allarme è la Banca d’Italia che in un corposo studio sul mercato immobiliare curato da Fabio Panetta sottolinea anche come ancora troppo alta sia la propensione degli italiani a scegliere mutui a tasso variabile. Alla fine del 2008 la loro quota era pari al 64% del totale, con punte del 75% nel Nord Est e del 70% nel Nord Ovest. E per quanto riguarda i nuovi contratti, nei primi nove mesi del 2009 soltanto il 41% ha scelto di

rivolgersi al tasso fisso, una quota inferiore di 18 punti percentuali rispetto alla media dell’area dell’euro. In particolare, via Nazionale teme per chi ha sottoscritto il proprio mutuo a tasso variabile «sul finire del 2005, quando i tassi di mercato erano scesi a valori molto bassi». E aggiunge che «le probabilità di incontrare difficoltà nei pagamenti risulta inoltre maggiore per i mutuatari più giovani, per quelli residenti nel Mezzogiorno e per gli immigrati provenienti da paesi extracomunitari». Via Nazionale non manca però di osservare anche come i mutui a tasso fisso restino in Italia meno convenienti che nel resto dell’Eurozona. Al contrario quelli a tasso variabile sono meno cari. In generale, rispetto al picco di agosto 2008 i tassi dei nuovi mutui sono inferiori di 3,4 punti percentuali per i prestiti a tasso variabile e di 1,1 per quelli a tasso fisso.

C’è poi anche da ricordare che i modelli di business di questo tipo non hanno avuto ancora il successo che meritano, né in Italia né in altri paesi europei e nemmeno negli Usa, dove però l’offerta televisiva è ancora più ampia e internet viene visto, ancora, più come media d’espressione che di fruizione. In prospettiva, il futuro appartiene al Cubo; ad oggi, è difficile che Telecom possa anche soltanto pensare di poter scalfire le supremazie incrociate di Mediaset-Rai e Sky nelle rispettive tecnologie. Ma con questa mossa Bernabé batte un colpo: già la scelta di decidere una diffusione (pubblicitaria) in primo luogo attraverso internet tradisce l’intenzione di rivolgersi a un pubblico più “evoluto”, e pienamente in grado di utilizzare un prodotto del genere in tutte le sue funzioni. D’altronde, l’attenzione al web di Telecom non nasce da oggi (si pensi alla sponsorizzazione della Blogfest), ed è da inquadrarsi in una precisa strategia di marketing: l’ex monopolista punta su quel mercato sia per incentivare ulteriormente l’utilizzo della sua banda larga che per poter veicolare così contenuti e prodotti sfruttandone la cassa di risonanza verso un target di pubblico ben preciso. Si potrebbe dire che con Cubo Telecom utilizzerà la rete per battere l’oligopolio Rai-Mediaset-Sky; se ci riuscirà lo sapremo solo tra qualche anno.


diario

15 dicembre 2009 • pagina 9

Per Nicola Mancino sarebbe minata la certezza del diritto

Condannati anche Tullio Lanese, Paolo Dondarini e Tiziano Pieri

Il Csm boccia il processo breve: viola la Costituzione

Calciopoli: tre anni di reclusione per Giraudo

ROMA. Il ddl sul processo breve «è in contrasto con più principi costituzionali ed è un’amnistia» per reati «di considerevole gravità», a cominciare dalla corruzione. Con queste motivazioni il plenum del Csm ha approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che, di fatto, ha bocciato il disegno di legge del governo dopo quasi cinque ore di dibattito. Il voto è avvenuto nel corso di una seduta straordinaria. Contrari i laici del Pdl; a favore hanno votato invece i togati di tutte le correnti, i laici del centro-sinistra, il vice presidente Nicola Mancino. Il parere ha messo in luce misure «dannosissime» che rischiano di avere per la giustizia l’effetto di uno «tsunami». La relazione che Palazzo dei Marescialli invierà al ministro della Giustizia contiene numerose critiche, alcune molto dure, all’impianto della norma che, secondo i consiglieri, non solo avrà l’effetto di un’«inedita amnistia processuale per reati di considerevole gravità, a cominciare dalla corruzione e dai maltrattamenti in famiglia, e rischia di portare alla paralisi l’intera attività giudiziaria».

NAPOLI. Tre anni di reclusione

Ma il ddl sul processo breve, che tra l’altro è in contrasto con più principi costituzionali,

Tasse, ora Tremonti deve vedersela con i sindacati La Cgil lancia una piattaforma da 24 miliardi di euro di Francesco Pacifico

ROMA. La scoglio della Finanziaria sembra superato. Ma in futuro – anche molto prossimo – Giulio Tremonti potrebbe fare più fatica a respingere le richieste di tagli alle tasse. Da un lato c’è uno scudo fiscale che potrebbe riportare in Italia più capitali del previsto. Oggi, quando scadrà il termine ultimo per aderire alla sanatoria, dovrebbe essere essere annunciato un bottino superiore ai 100 miliardi di euro. Dall’altro c’è Bankitalia che ha annunciato per il gettito un’inversione di tendenza: complice il versamento dell’Ici, la fine della caduta sarebbe arrivata tra ottobre e settembre del 2009, quando si è registrato un aumento di 8,5 miliardi nel monte complessivo (a quota 28,5 miliardi rispetto ai 20,1 miliardi registrati 30 giorni prima). È per questo che, seppur divisi, i sindacati con la Cgil in testa hanno rispolverato la questione fiscale. È per questo che oggi il ministro (in un convegno organizzato da Cisl e Uil) dovrebbe mostrarsi meno rigido sull’argomento. Proprio ieri la confederazione di corso d’Italia ha presentato un’ambiziosa piattaforma fiscale. «Il prelievo sul lavoro dipendente e le pensioni», ha spiegato il segretario generale, Guglielmo Epifani, «è il più alto in Europa. Non è giusto ed economicamente rappresenta un problema. Lo dicono anche le imprese. Occorre mettere mano a questa iniquità seriamente in più anni». Con l’obiettivo di garantire cento euro in più in busta paga a queste due categorie, la Cgil suggerisce di lavorare in tre direzioni: evasione fiscale, imposte sulle grandi ricchezze e un ritocco all’insù per le aliquote sulle rendite finanziarie, portandole al 20 per cento. La piattaforma, che ha un valore di 24 miliardi e si articola su tre anni, prevede innanzitutto un aumento delle detrazioni per redditi da lavoro dipendente e da pensioni per almeno 500 euro entro il marzo 2010. Quindi l’innalzamento delle quote esenti, un bonus fiscale per gli incapienti e soprattutto tagli sulle aliquote Irpef, con il passaggio dal 23 al 20 per cento

per quella base e ritocco dal 38 al 36 per cento per la terza aliquota. Ha spiegato Agostino Megale, segretario confederale e presidente del centro studi Ires: «I salari negli ultimi 29 anni sono stati appesantiti dagli effetti del fiscal drag. Dall’81 al 2009 la pressione fiscale a carico esclusivo dei lavoratori è aumentata del 12,5 per cento, sottraendo ai redditi da lavoro dipendente circa 274 euro ogni anno». Questa manovra sarebbe difficilmente sostenibile per i conti pubblici. Ieri Bankitalia ha annunciato che a ottobre il debito pubblico ha segnato l’ennesimo record: 1801 miliardi di euro. Che diventano 30mila pro capite se spalmati su ognuno dei 60 milioni di italiani. Ma per la Cgil i tagli all’Irpef si potrebbero coprire attraverso l’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie (per incassare 1,5 miliardi), portando al 20 per cento l’aliquota sulle rendite finanziarie (tra i 2,5 e i 4,5 miliardi in più), con la revisione degli estimi catastali (5 miliardi). In questo pacchetto non mancano una patrimoniale alle grandi ricchezze, lotta all’evasione (8 miliardi), mentre i rimanenti 6 miliardi arriverebbero con l’aumento della base imponibile reso possibile dalla crescita economica.

Oggi il ministro, ospite di un convegno di Cisl e Uil, potrebbe fare delle aperture. Debito pubblico record a 1.801 miliardi

determinerà anche «un incremento dei danni finanziari a carico dello Stato». La critica di fondo è che introducendo termini perentori per la conclusione di ognuno dei tre gradi di giudizio (due anni ciascuno, sei in tutto), al di fuori di «un’ampia riforma di sistema e di misure strutturali organizzative», di fatto renderà «impossibile l’accertamento» della fondatezza dell’accusa «per intere categorie di reati», che è invece la «primaria finalità» di ogni processo. «Anziché avere certezze, abbiamo l’estinzione dei diritti, non la certezza della pena», ha sottolineato il vicepresidente della Consiglio, Nicola Mancino, per spiegare le ragioni del voto.

per Antonio Giraudo: è la sentenza, dura, pronunciata ieri dal giudice per le indagini preliminari, De Gregorio, nell’ambito del procedimento nei confronti degli imputati di Calciopoli che hanno scelto il rito abbreviato. L’accusa aveva chiesto cinque anni di reclusione per l’ex amministratore delegato della Juventus dei tempi della “celebre” Triade: Moggi-Giraudo-Bettega. Il gup ha inoltre inflitto due anni di reclusione ciascuno all’ex presidente dell’Aia, Tullio Lanese e all’ex arbitro Paolo Dondarini mentre due anni e quattro mesi è la condanna per l’ex arbitro Tiziano Pieri. Giraudo, Pieri e Lanese sono stati condannati per

Se l’Ugl continua la sua battaglia per l’introduzione del quoziente familiare, la risposta di Tremonti dovrebbe arrivare alla convention ”Un nuovo fisco per una nuova coesione sociale”, organizzata da Cisl e Uil. Ospiti anche i leader di Confindustria e Confcommercio, Emma Marcegaglia e Carlo Sangalli. Spiega il segretario confederale di via Po, Gianni Baratta: «Con i produttori puntiamo a fissare un’agenda comune, per evitare che il peso del fisco resti soltanto su dipendenti e pensionati. Oppure che si colpiscano soltanto alcune categorie». Di fronte ai sindacati che rilanciano la fiscalità di contrasto e l’aumento della tracciabilità, Tremonti dovrebbe promettere che nel 2010, con l’economia in ripresa, il taglio delle tasse non sarà più una chimera.

frode sportiva e partecipazione ad associazione per delinquere mentre Dondarini solo per il reato di frode. Il gup ha poi assolto altri 7 imputati tra ex arbitri ed ex segnalinee. Solo uno degli assolti è ancora in attività ed è l’arbitro Rocchi. Come pena accessoria, poi, il gup De Gregorio ha disposto per l’ex ad della Juve e per Pieri e Dondarini il divieto per tre anni di accedere nei luoghi dove si svolgono competizioni sportive o si accettano scommesse e l’interdizione dagli uffici direttivi di società sportive.

«Giraudo è stato un ottimo amministratore, non penso che abbia fatto nulla di disdicevole. Per tutto quello che ho sentito in tutti questi anni nel calcio, bisognerebbe condannare per frode sportiva tutti per 50 anni», ha detto Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, per il quale evidentemente l’apparato giudiziario di questo Paese non ha ragione d’esistere. Sul fronte opposto, Giuseppe Gazzoni Frascara, ex patron del Bologna, costretto alla “resa”proprio a causa di Calciopoli, ha commentato che «La condanna di Giraudo e dei suoi “compagni di merende”sta a significare che c’è la volontà di fare giustizia, e di voler andare fino in fondo nella vicenda».


mondo

pagina 10 • 15 dicembre 2009

Copenhagen. Continuano gli arresti nella capitale danese, mentre la Conferenza si prepara per l’arrivo dei leader mondiali

L’urlo dei Paesi poveri Le nazioni in via di sviluppo abbandonano il summit: tornano solo grazie alla diplomazia di Vincenzo Faccioli Pintozzi on è stato un colpo mortale, ma soltanto grazie alla diplomazia dei Paesi più vicini a quelli in via di sviluppo. L’annuncio dato nella mattinata di ieri, del boicottaggio delle nazioni in via di sviluppo, rischiava di far saltare il tavolo della Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici. Che, in effetti, si è bloccato per alcune ore, dopo che i Paesi africani hanno deciso di abbandonare i lavori. La decisione di riprendere la partecipazione ai negoziati è stata presa soltanto dopo aver avuto rassicurazioni, da parte dei diplomatici presenti, che sarà data maggiore enfasi a nuovi impegni nel solco del Protocollo di Kyoto.

N

Il boicottaggio dei gruppi di lavoro era stato deciso lunedì mattina e alla protesta si erano associati anche gli altri Paesi in via di sviluppo del G77. La presidenza danese ha subito avviato contatti ed è riuscita a ricucire lo

strappo, consumatosi a cinque giorni dall’arrivo venerdì prossimo dei leader di 120 Paesi per la fase negoziale conclusiva. I Paesi in via di sviluppo chiedono di dare priorità a un secondo periodo di impegno per i tagli delle emissioni di Co2 previsti dal Protocollo di Kyoto rispetto alla più ampia discussione sugli obiettivi di lungo termine per la cooperazione nella

domenica con i ministri dell’Ambiente di 50 Paesi. Il timore è che si ripeta il fallimento del 2000 all’Aja, quando si consumò la rottura nella conferenza che avrebbe dovuto completare le regole di Kyoto. I negoziati nella capitale danese stanno procedendo seguendo l’approccio del “doppio binario”: da una parte la revisione e l’aggiornamento del protocollo di

Secondo la Banca asiatica per lo sviluppo, «i Paesi sviluppati sono lontani dall’aver raggiunto fondi sufficienti da destinare ai Paesi poveri per l’adattamento ai cambiamenti climatici» lotta ai cambiamenti climatici. «L’Africa ha tirato il freno d’emergenza per evitare che il treno deragli nel fine settimana», ha commentato Jeremy Hobbs, direttore esecutivo di Oxfam International. Fonti occidentali hanno riferito che gli animi si sono accesi dopo «le crescenti tensioni tra americani e cinesi» emerse nella tavola rotonda di

Kyoto varato nel 1997 sui tagli vincolanti dei gas serra e dall’altra l’estensione degli impegni a tutti i Paesi, compresi quelli che non hanno ratificato Kyoto come gli Stati Uniti. Ma i Paesi africani temono che la Hedegaard, presidente dell’incontro, non stia dedicando la necessaria attenzione alla conferma di Kyoto, che contiene

impegni vincolanti per la riduzione delle emissioni inquinanti nei paesi ricchi. «Uccidere Kyoto significa uccidere l’Africa», ha commentato Mama Konate, esponente della delegazione del Mali.

Il tetto massimo di una crescita del riscaldamento globale di due gradi centigradi, che è fra gli obiettivi della conferenza, «significherebbe un calo del 25 per cento per i raccolti in Mali. E questo vorrebbe dire la fame

per il 44 per cento d ella popolazione del Paese entro il 2020». Va detto, in questo contesto, che non è stata per niente apprezzata da parte della delegazione cinese la scelta presa dal presidente Obama di partecipare alla chiusura del meeting. Pechino e Washington, infatti, si erano accordati per far fallire sostanzialmente il negoziato: la mossa a sorpresa degli Usa ha inasprito i toni, con la Cina che torna sulle posizioni iniziali. I Paesi sviluppati, sostiene il dragone asia-

Il governo cinese provoca: «Il presidente americano non può fare nulla, il Congresso lo boccerà»

Pechino sfida ancora Obama di Simone Carla a partecipazione al vertice di Copenhagen del presidente americano Barack Obama «è poco più di una mossa pubblicitaria. Non può fare nulla, nonostante i suoi proclami verdi, perché ha un Congresso e un Senato pronti a bocciarlo. Ecco perché deluderà tutti noi». L’attacco all’amministrazione americana, nel giorno della rivolta dei Paesi poveri, proviene dalla Cina: il gigante asiatico, che aveva stretto un patto di ferro con Washington teso a far fallire il summit sui cambiamenti climatici, è rimasto evidentemente scottato dalle successive prese di posizione dell’inquilino della Casa Bianca. Che, con un lungo editoriale apparso ieri sul governativo Quotidiano del Popolo, viene invitato a «non dire più bugie, e ammettere che la sua partecipazione a Copenhagen non porterà frutti concreti». Secondo l’articolo, non

L

firmato, «gli Stati Uniti sono il più grande inquinatore del mondo; hanno l’economia più strettamente correlata all’emissione di diossido di carbonio e poi vanno a dire agli altri cosa devono fare per migliorare la situazione dell’ambiente».

Il governo cinese, invece, avrebbe posto «degli obiettivi assolutamente raggiungibili, degli standard che tutti noi possiamo sostenere senza far crollare l’economia. Eppure è stato criticato per non aver detto numeri a caso». Inoltre, sottolinea l’articolo, «Bush aveva sempre portato avanti una politica molto poco verde, ed è stato criticato per questo. Obama invece dice di voler spendere miliardi di dollari per sostenere l’ecologia, ma nonostante abbia dalla sua parte la maggioranza assoluta del Congresso non ha ancora fatto nulla». E proprio questo «è l’ostacolo, più

che conosciuto dai diretti interessati, con cui gli Stati Uniti giustificheranno il loro fallimento postCopenhagen. Diranno che è tutta colpa degli altri». Infatti, conclude l’editorialista, «nessuna legislazione sul taglio delle emissioni di carbonio potrà mai essere approvato in America». Questo perché l’economia americana «è strettamente collegata alla produzione, esportazione e consumo del carbone. Come la Cina sa bene, dato che siamo noi a comprare il loro combustibile, gli Stati Uniti non possono permettersi di tagliare dall’oggi al domani quello che è uno dei loro campi di produzione economica più redditizi. E certo non lo faranno per salvare l’ambiente». L’articolo dimostra l’insoddisfazione di Pechino per il comportamento degli Usa, con cui aveva stilato un accordo sul clima vantaggioso per entrambi i Paesi.


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Il ministro italiano Prestigiacomo presenta il piano congiunto con gli Usa

E oggi i negoziati ripartono con Brown di Alvise Armellini

COPENHAGEN. A pochi giorni dall’arrivo dei

tico e il centinaio di Paesi schierato con lui, «devono pagare di più, perché inquinano da più tempo». E fa gioco alle critiche anche l’intervento di ieri di Haruhiko Kuroda, presidente della Banca asiatica di sviluppo, a proposito dei colloqui in corso: «I Paesi sviluppati sono lontani dall’aver raggiunto fondi sufficienti da destinare ai Paesi in via di sviluppo per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici».

Secondo Kuroda, «se si raggiunge una accordo significativo da un punto di vista finanziario, allora si facilita il lavoro per un accordo sugli obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra.Viceversa, se non si raggiunge alcun accordo post-Kyoto, allora si rischia il collasso del mercato di carbonio, e questo

Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia, «era necessario trovare una sede dove i responsabili politici si potessero esprimere chiaramente in vista degli impegni per il periodo post-Kyoto. Da Copenaghen deve uscire un accordo legato ai due binari dei negoziati, quindi dato il poco tempo a disposizione è bene avere consultazioni parallele. Inoltre, ci sono alcune questioni correlate che richiedono un coordinamento tra i due binari di negoziazione. Il carattere vincolante del Protocollo di Kyoto da’ ai Paesi in via di sviluppo la sicurezza che questi negoziati non finiranno per essere soltanto una discussione informale. Se vogliamo un accordo equo, ambizioso e vincolante, dobbiamo continuare a lavorare sia sul Protocollo di

Mama Konate, esponente della delegazione del Mali, guida la rivolta delle nazioni africane: «Uccidendo Kyoto state uccidendo l’Africa. Con questi tagli, mettete in ginocchio le nostre economie» causerebbe gravi conseguenze sull’impegno globale di riduzione di gas a effetto serra». Secondo il Wwf, invece, «l’attuale incertezza sul futuro del Protocollo di Kyoto sta creando incomprensioni e risentimenti nell’ambito dei negoziati. L’atteggiamento di Paesi come l’Australia, la Russia, il Giappone, il Canada è fortemente dilatorio, tanto che hanno messo tutto il testo sui target tra parentesi, pur continuando a negoziarlo. E il fatto che non fossero previste consultazioni ministeriali sul Protocollo ha fatto scattare la protesta». Secondo

Kyoto e sia su un secondo Protocollo di Copenaghen».

Intanto, sotto il profilo della cronaca, si registra il fermo di altre diciassette persone, avvenuto nel corso della manifestazione che si è tenuta davanti al ministero della Difesa a Copenaghen. La maggior parte dei manifestanti - secondo quanto si è appreso - è stata fermata per aver violato la legge che stabilisce l’obbligo di obbedire alle indicazioni della polizia nel corso di manifestazioni, mentre per due il “fermo”è scattato per aver coperto il volto.

leader mondiali per la conclusione del vertice Onu di Copenhagen, i Paesi africani provano ad alzare la voce sul clima. Nella mattinata di ieri - mentre l’organizzazione andava in tilt, lasciando fuori dalla conferenza migliaia di persone tra giornalisti, politici, attivisti di ong ed rappresentanti dell’industria - la delegazione del Gruppo Africa ha disertato i colloqui, seguita dagli altri Paesi in via di sviluppo riuniti nel G77. Una decisione dettata dalla mancanza di progressi sul rinnovo degli impegni previsti dal Trattato di Kyoto, gli unici che prevedono obiettivi giuridicamente vincolanti per i Paesi più ricchi. A Copenhagen, infatti, si sta lavorando lungo un doppio binario: da un lato si negozia con tutti i Paesi che hanno adottato Kyoto, dall’altro si lavora per coinvolgere anche coloro - Stati Uniti in testa - che da quell’accordo si erano chiamati fuori. E secondo i rappresentanti africani si sta privilegiando troppo il secondo aspetto, tralasciando l’importanza di quello che è stato il primo accordo internazionale che, pur lasciando fuori la prima potenza economica mondiale, ha costretto il resto dei Paesi industrializzati a dare un taglio ai loro gas serra. «L’uccisione di Kyoto risulterà nell’uccisione dell’Africa», ha ammonito un delegato del Mali, Mama Konate, chiedendo di limitare l’aumento delle temperature mondiali rispetto ai livelli pre-industriali di soli 1,5 gradi. Se invece si puntasse ad un obiettivo entro i 2 gradi, come ad esempio ha fatto l’Ue sulla base dei rapporti degli esperti internazionali, Konate sostiene che la produzione agricola del suo Paese crollerebbe del 25%, condannando “alla fame il 44% della popolazione maliana da qui al 2020”. Nel primo pomeriggio la protesta africana è rientrata, dietro promessa di una correzione di rotta da parte della presidenza danese del vertice, retta dal ministro Connie Hedegaard che dopo il summit diventerà commissario Ue al Clima. Ma secondo le Ong ambientaliste i Paesi africani hanno fatto bene a mettersi di traverso, seppur solo per qualche ora. «Non si tratta di bloccare i negoziati, ma di chiedere ai Paesi ricchi se sono pronti ad adottare dei provvedimenti che garantiscano il contrasto ai cambiamenti climatici e la sopravvivenza dei popoli in Africa e nel resto del mondo», ha sostenuto il direttore esecutivo di Oxfam International Jeremy Hobbs, addossando la responsabilità dello stallo a Paesi come Australia e Giappone, «che mentre si lamentano impediscono i progressi sui tagli delle emissioni giuridicamente vincolanti per i Paesi ricchi». Oggi i negoziati potrebbero ripartire sotto la spinta del primo ministro britannico Gordon

Brown, che ha deciso di arrivare nella capitale danese con due giorni in anticipo. Ma gli altri leader internazionali - incluso il presidente Usa Barack Obama e i leader dell’Unione europea - non sono attesi prima di giovedì, per la fase finale del grande appuntamento di Copenhagen che dovrebbe concludersi venerdì con un accordo politico, da trasformare nel corso del 2010 in un’intesa vincolante.

Il Segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, ha invitato tutti a trovare un compromesso, paventando «conseguenze catastrofiche» in caso di un fallimento. «I negoziati sono difficili e complessi, forse sono i più complessi che la comunità internazionale abbia affrontato finora - ha detto Ban - ma sono necessari».

L’Ong Germanwatch ha messo in cattiva luce la performance ambientale del nostro Paese: solo 44esimo tra le 57 nazioni responsabili del 90 per cento delle emissioni mondiali di CO2

Non è ancora chiaro, tuttavia, se al tavolo dei 192 Paesi partecipanti l’Italia sarà rappresentata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, reduce dall’aggressione subita domenica a Milano. «Spero proprio che possa farcela», ha indicato il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, che a Copenhagen ha presentato il progetto Climate Redi insieme al Segretario di Stato Usa all’Energia, Steven Chu: 350 milioni di dollari in cinque anni per finanziare le energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo, con un contributo italiano di trenta milioni. Il ministro ha sorvolato invece sul rapporto dell’Ong Germanwatch, che ha messo in cattiva luce la performance ambientale del nostro Paese: solo 44esimo tra le 57 nazioni responsabili del 90% delle emissioni mondiali di CO2. «Una pessima figura», ha commentato Edoardo Zanchini di Legambiente, che ha accusato il governo di «non aver ancora voluto cambiare le vecchie politiche in materia di trasporti, energia e edilizia», continuando a puntare sul carbone e il trasporto su gomma, dimenticandosi delle rinnovabili e degli interventi di riqualificazione energetica degli edifici.


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Il giornalista francese di “Le Croix” denuncia, con raffinatezza e precision

Il volto oscuro del Un libro di Laurent Larcher, edito da Lindau, analizza le radici anticristiane (e antiumane) del “pensiero profondo” ecologista moderno di Marco Respinti a vaporizzazione delle ideologie, annunciata ma tutto sommato piuttosto improvvisa, con cui la Modernità è trascolorata in quella che i sociologi chiamano “postmodernità” ha lasciato sul campo defunti e scorie. Cosa sono state le ideologie? Delle costruzioni teoriche aprioristiche che hanno preteso di costringere entro i propri schemi angusti l’irriducibile complessità del reale, puntualmente piegandolo con violenza estrema ogni qualvolta esso si è negato alle loro brame. Insomma, dei “pensieri forti” sovversivi, che il filosofo della politica tedesco-americano Eric Voegelin (19011985) ha avuto ben ragione di definire “religioni capovolte”, da cui deriva pure la giustezza di quell’epiteto,“partiti-Chiese”, che la polemica culturale dei tempi della Guerra fredda utilizzò per apostrofare e stigmatizzare le formazioni politiche che alle ideologie – eminentemente ed evidentemente, ma non esclusivamente al marxismo-leninismo – s’ispiravano. Del resto, l’elaborazione teoretica della“nuova Sinistra” aveva apertamente parlato di “teologia politica”, e alla scuola di Ernst Bloch (1885-1977) e di Johann Baptiste Metz si era messa a inseguire la“liberazione” promessa dagli aspetti rivoluzionari dei fenomeni ereticali della storia dell’Occidente cristiano e persino un presunto “ateismo nel cristianesimo”.

L

Uno sviluppo concettuale in parte nuovo, questo, ma pur sempre profondamente radicato nelle matrici culturali del materialismo dialettico stesso (il protestantesimo secolarizzatosi in una razionalistica “filosofia del progresso”, il giacobinismo e l’hegelo-marxismo), dove teoresi e prassi, pensione e azione coincidono: da qui sono infatti gemmate le ideocrazie (per utilizzare ancora il vocabolario voegeliniano), vale a dire l’irregimentazione delle ideologie nel quadro di un potere dispotico in cui, essendo la “fede” e la politica oramai la medesima cosa, l’esperienza totalizzante la persona umana tipica delle prima si è reificata nel totalitarismo in cui si è caratteristicamente sfigurata la seconda. Le ideologie sono insomma state la grande attesa paramessianica di “nuovi dèi”ateistici, finalmente in grado di sbaragliare l’antico Dio del cristianesimo, e la costruzione di conseguenti umanesimi disumani. Epperò quei nuovi, falsi dèi ideologico-ideocratici hanno alla fine miseramente fallito, incapaci di competere con il Dio vero e con l’umanesimo

autentico che ne discende, come bene suggerisce un bel libro dello statunitense Robert Royal, Il Dio che non ha fallito. Come la religione ha costruito e sostenuto l’Occidente (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2008).

Ora, fuoriusciti comunque tutti dalla catastrofe ideologica-ideocratica, le macerie che quel colossale evento che è stato la loro stagione – un secolo lungo, lunghissimo, altro che breve – restano da un lato a monito di un passato recente e terribile, dall’altro a segnacolo del passaggio dall’epoca del “pensiero forte” e sbagliato a quella del “pensiero debole” e non meno, seppur diversamente, errato rispetto alla realtà data e alle umane cose. Se ieri infatti le ideologie affermavano perentoriamente una propria falsa verità sul reale imponendola con la violenza ideocratica, oggi la pretesa stessa di poter proferire una verità qualsiasi sul reale, compresa

Se l’uomo è un virus nocivo alla natura, ogni azione umana diventa allora intrinsecamente dannosa. Ecco come il “mito verde” combatte la propria battaglia radicale e neopagana

quella che è stata delle antiche ideologie, viene spacciata per impossibile, anzi persino per impensabile. Un tabù. E così, al posto della verità, vera o falsa che sia, viene non meno violentemente di ieri proposto un relativismo scettico e nichilista che travolge ogni assoluto, vero o falso, anzitutto gli assoluti morali – come li definisce il filosofo australiano John Finnis –, eccettuata solo l’assolutizzazione del “tutto è relativo”. Debole, quindi, il pensiero nuovo postideologico e postmoderno lo è nell’approccio alla verità delle cose – come la chiamerebbe il filoso tedesco Josef Pieper (1904-1997) –, non certo negli scopi che si prefigge e per i metodi con cui si afferma. Tornano qui alla mente le suggestioni proposte da Augusto del Noce (19101989) circa le dinamiche dell’ateismo moderno, forse persino ancora più azzeccate per descrivere oggi la postmodernità come un’epoca di secolarizzazione aggressiva che, dopo la morte del concetto stesso di verità, è segnata dall’apparire in ordine sparso di spezzoni disaggregati delle vecchie ideologie sotto la forma di nuovi mitologismi. Superstizioni, diremmo correttamente. Che, dopo l’attacco frontale sferrato dalle antiche ideologie ai danni di una socialità, di una politica e di una economia a misura di uomo vero, approfondiscono lo scempio ipotizzando di rifare completamente l’uomo stesso.

Se lo strumento principale sembra essere oggi quella che viene definita “tecnoscienza”, i fronti aperti dal pensiero debole puntano ora decisamente anzitutto sulla ridefinizione della persona, lungo un range ampio che va dalla questione dell’aborto alla questione dell’identità di genere, dalla questione evoluzionistica alla questione ambientale. Di quest’ultima sta offrendo un saggio magistrale il vertice mondiale sul clima della Terra in corso a Copenhagen, dove il numero delle superstizioni messe in campo da “esperti”, uomini politici e organizzazioni non governative è davvero enorme, una vera e propria summula di quanto da qualche decennio il “pensiero verde”, ora premiato dalle luci della ribalta più scenografica, viene predicando con dispendio di uomini, mezzi e risorse. Autentiche superstizioni, quelle diffuse con zelo davvero degno di causa più nobile, che mirano in soldoni sempre e solo a criminalizzare (quasi nel senso letterale della parola) l’uomo e le attività umane per il degrado dell’ambiente terrestre. Ebbene, a esse hanno diversamente ma


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ne, l’ideologia che sta funestando questi primi anni del nuovo millennio

ell’ambientalismo

opportunamente risposto anche sulla stampa italiana, almeno su quella non bovinamente assuefatta a prendere ogni affermazione indimostrata come oro colato, ricercatori seri, studiosi attenti, commentatori accorti. Del resto, sulle“ecoballe” esiste oramai anche in italiano una buona bibliografia specifica. Eppure il nodo autentico della vicenda ancora non è questo. Per ciò appare assolutamente indispensabile la lettura de Il volto oscuro dell’ecologia. Che cosa nasconde la più grande ideologia del XXI secolo?, il libro di Laurent Larcher, appena edito in versione italiana dalla torinese Lindau. Francese, classe 1967, laureato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Larcher, impegnato tra l’altro nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale sulla condizione drammatica in cui versano le comunità cristiane dell’Oriente, scrive per il quotidiano cattolico d’Oltralpe La Croix, curando la rubrica Media. Un giornalista, dunque, di altro profilo, certamente engagé, ma altrettanto certamente non descrivibile come un “reazionario oscurantista”, che ha il coraggio di chiamare le cose con il nome che hanno: per esempio “ideologia” l’ecologismo, anzi l’ideologia maggiore che stia funestando questo primo decennio di millennio nuovo. Perché? Perché ad avviso di Larcher, ed egli lo di-

Stupisce molto che ampi settori del mondo cristiano abbiano fatto acriticamente questo insieme di credenze, spacciandolo (risibilmente) come un nuovo spirito francescano mostra con raffinatezza e precisione nel libro, il “pensiero verde” è attualmente la punta più avanzata e acuminata del sentimento antiumano: anzi, un pensiero radicalmente anticristiano poiché antiumano e antiumano giacché anticristiano, così corroborando l’idea che la cultura cristiana sia latrice dell’unico, vero umanesimo possibile e riconquistando l’idea “umanista”alla tradizione cristiana. Quello del giornalista francese, insomma, non è un libro in più nel novero di quanti si peritano, opportunamente, di smontare a norma di scienza vera le illazioni ecologiste; è un libro molto diverso, persino più importante di altri scritti sul tema proprio perché si spinge alla radice del pensiero verde. Questa sua “controbibbia” dell’ambientalismo coglie infatti in castagna le premesse filosofiche su cui

la grande bugia verde è stata costruita nel tempo, ravvisandoci un coacervo eterogeneo di teorie smozzicate e d’idee peregrine mescolate in un calderone talvolta contraddittorio e caotico, ma solo apparentemente inconcludente. Dottrine, pensieri e parole che riguardano la teoria del “pianeta vivente” Gaia, il mito di un “paradiso perduto” di foggia solo materiale e materialistica, l’idea del “buon selvaggio”, l’animalismo più radicale e persino le fantasie su Atlantide si rincorrono e si abbracciano dentro il pentolone dell’ecologismo profondo, cercando di emarginare l’essere umano dal panorama di una natura presupposta pura e incontaminata.

La novità dell’approccio di Larcher è proprio questa. Forte di una antiumanesimo materialistico e sostanzialmente neopagano, che divinizza l’ambiente naturale a scapito della persona, l’ecologismo svelle l’idea dell’uomo assieme creatura e signore del creato, ovvero guardiano di una realtà data ma anche suo trasformatore, imputando proprio all’azione umana ogni e qualsiasi misfatto. L’uomo cacciatore-cercatore-raccoglitore diviene così il nemico giurato del genere umano stesso, in una sorta di delirio da superomismo riveduto in cui l’uomo migliore è quello che comprende di essere di troppo sullo scenario natu-

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rale, meditando che forse è giunto il momento di togliere il disturbo e lasciare il wildlife cullarsi nella propria beata innocenza. Il collegamento, qui, tra l’ecologismo profondo e le filosofie neomalthusiane del disprezzo della vita, del controllo delle nascite e dell’abortismo filosofico è peraltro evidentissimo. Se l’uomo è un virus, infatti, anzi l’unico solo virus davvero nocivo a una natura altrimenti bastevole a se stessa e autoconservativa, ogni azione umana è in quanto tale intrinsecamente errata e dannosa. Ecco qua come l’ideologismo del “mito verde” persegue la propria battaglia radicale contro l’uomo in forma debolista, rinunciando cioè alla verità delle cose sulla natura e sull’uomo, e introducendo un catechismo di superstizioni desunto dall’ampio catalogo delle contro-verità illuministiche, progressistiche e neopagane. Contro l’uomo creatura, quindi, e contro il suo Creatore, in una versione ammodernata della vecchia hybris giacobina, comunista e nazionalsocialista.

Diversi lo sono solo in apparenza i padri di questo pensiero irriducibilmente contrario all’uomo, pensatori che si rifiutano di riconoscerne il ruolo di steward di una natura che, in realtà, senza la continua azione trasformatrice proprio dell’uomo in breve soccomberebbe a se stessa. Dal fondatore dell’“ecosofia”, il norvegese Arne Naess (1912-2009), al teorico di Gaia James Lovelock, dal padre del neopaganesimo contemporaneo “di destra” Alain De Benoist” al padrino del neopaganesimo sessantottino di sinistra Daniel Cohn-Bendit, dal teologo tedesco della disubbidienza Eugen Drewermann al grande profeta dell’ambientalismo odierno, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore: in ognuno di costoro decisivo è il disprezzo verso l’uomo e le sue realtà, l’odio per le sue intraprese e la sua libertà responsabile, il ribrezzo nei confronti della sua dimensione creaturale e la sua signoria graziosa sul mondo animale, vegetale e minerale. Per questo, se non stupisce che il debolismo della postmodernità abbia innalzato al vento gli stendardi dell’ecologismo profondo allo scopo di proseguire la lotta contro tutto ciò che è umano, e nobile, e buono, e bello, stupisce invece, e molto, che amplissimi settori del mondo cristiano, talvolta pure parecchio in altro, abbiano fatto acriticamente proprio il giro mentale ecologistico, magari addirittura proponendolo, risibilmente, come edizione nuova dello spirito francescano. Sovente ciò accade per quella sorta di coda di paglia che molti cristiani mostrano nel temere di venire annoverati fra i retrò, altre volte per mera ignoranza dei dati. Spesso, però, è qui la cosa si fa assai più grave, ciò accade per quella sorta di cupio dissolvi che colpisce anche i migliori, e che si disvela in forme sempre nuove di autodemolizione e di annichilimento cosciente di sé. Larcher ha allora ragione nel mettere sull’avviso proprio i cristiani, colpevoli altrimenti di un autogoal clamoroso che finirà, come sempre accade nelle rivoluzioni, per divorare per primi i propri figli e gli utili idioti. Ma bene pure fa il giornalista francese a ricordare che se la natura creata è un dono del Cielo, essa può essere e va difesa anzitutto dai cristiani giacché teatro della storia della salvezza e dell’agire umano, a patto che se ne rispettino le leggi. Leggi naturali, come ha recentemente detto Papa Benedetto XVI: cioè relative alla natura animale, vegetale e minerale, così come alla intangibile natura morale di cui è intessuto l’uomo.


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Retroscena. L’invito di Khamenei a demolire l’opposizione rivela il nervosismo del governo. Che sta perdendo le Forze armate

Alzabandiera a Teheran Otto battaglioni dell’esercito scrivono al regime: «Basta. Siamo con l’Onda» di Osvaldo Baldacci n Iran la contestazione cambia natura, e si muovono anche nuovi soggetti, esercito compreso. Ha ragione Khamenei. A sei mesi dal voto ormai in Iran non c’è più motivo di protestare per il risultato elettorale. E infatti è ormai evidente che l’onda verde ha cambiato natura. Lo scontro si è radicalizzato, nel senso di essere andato alla radici. È ormai evidente che l’Onda Verde, la cui guida è tornata al movimento studentesco, non cerca più un compromesso politico sul meno peggio, ma chiede cambiamenti sostanziali. Possibilmente un regime change, un cambio ai vertici del governo. Non a caso nelle manifesta-

I

può più ammorbidirsi, tornare indietro: non si tratta più di concedere o meno riforme e moderazione, bensì si trova ora a dover rispondere a una sfida esiziale. In questo contesto giunge dai circuiti dell’opposizione una notizia che non ha trovato eco sui media ma che sarebbe clamorosa: i militari, o almeno una parte di questi, si è schierata apertamente a fianco dei manifestanti. Ci sono molte cose da chiarire intorno a questa notizia-bomba, ma la notizia in sé appare confermata.

Prima delle ultime minacce della Guida Suprema Ali Khamenei - che ha invocato l’an-

La lettera evidenzia con diplomazia e fermezza che secondo i firmatari alcuni esponenti delle Guardie rivoluzionarie stanno tradendo la volontà del popolo per perseguire altri interessi zioni intorno alla giornata studentesca del 7 dicembre per la prima volta sono state strappate e bruciate immagini di Khomeini, sacrilegio inaudito. E di conseguenza è altrettanto evidente che il regime che ha scelto finora la linea dura non

L’ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema della Repubblica islamica di Iran e successore di Khomeini. Il leader religioso ha invitato il governo a schiacciare la protesta dell’Onda verde. In basso, il presidente iraniano Ahmadinejad. Nella pagina a fianco: in alto Mousavi; in basso Hillary Clinton nientamento dell’opposizione e ha chiarito che «non ci sarà più clemenza» - e prima che circolassero con insistenza le notizie di un imminente arresto di Moussavi, otto reggimenti (o sarebbe forse meglio definirli “raggruppamenti”) dell’esercito iraniano hanno sottoscritto una lettera intitolata L’Esercito è il rifugio del popolo, una presa di posizione abbastanza chiara a favore del popolo che contesta piuttosto che del regime che reprime.

La lettera, apparsa sul sito riformista Gooya, è stata sottoscritta da alcuni piloti e personale della divisione dell’Aviazione dell’Esercito della Repubblica islamica dell’Iran, alcuni ufficiali e personale della 33ma divisione di artiglieria di Isfahan, alcuni piloti e personale di servizio dell’Air Force della Repubblica islamica (Nahaja), dal Shahid Sattari University dell’Air Force iraniana (Nahaja), parte del personale dello staff di comando dell’Air Force della Repubblica islamica (Nahaja), parte del personale del centro di addestramento e di supporto dell’esercito iraniano, alcuni professori e ufficiali della Imam Ali Uni-

versity per ufficiali, parte del personale e alcuni ufficiali del centro di comando militare. Nell’occasione è anche emerso che 24 ufficiali sarebbero stati arrestati in luglio perché nel pieno delle contestazioni intendevano assistere in divisa alla preghiera del venerdì condotta da Hashemi Rafsanjani, mostrando così la solidarietà dei militari con i dimostranti. La lettera evidenzia con diplomazia ma anche con fermezza che secondo i firmatari alcuni esponenti delle Guardie rivoluzionarie stanno tradendo la volontà del popolo per perseguire i propri interessi.

Di fronte a questo tradimento di quelli che per il passato i militari definiscono fra-

sprito le sue maglie: secondo Amnesty International i diritti umani sono stati violati come mai negli ultimi venti anni, però allo stesso tempo dopo i primi morti è evidente che gli ordini dall’alto sono sì di reprimere duramente le manifestazioni, ma di stare attentissimi a non creare nuovi martiri, le cui commemorazioni possano continuamente riaccendere le micce. Cosa succederà se invece riprenderanno a circolare le armi.

Anche perché c’è un altro punto importante da valutare: la lettere dei militari sposta il confronto. E colpisce quello che è il vero cuore del problema. Lo scontro non è più – o non è solo – tra studenti rifor-

È evidente che gli ordini dall’alto dicono di reprimere duramente le manifestazioni, ma impongono di non creare nuovi martiri, la cui memoria crea il rischio di nuovi scontri telli, l’esercito non può che stare con il popolo, essere il rifugio del popolo. Alla luce anche di questo potrebbero assumere una migliore comprensione le parole particolarmente dure di Khamenei, in quanto ben più pesante si fa lo scontro se i contestatori oltre ad essere sempre più radicalizzati iniziano anche ad essere armati. Bisogna dire che il regime in questi sei mesi è stato durissimo, ha ina-

misti e ayatollah conservatori, ma tra militari e pasdaran. Sono i pasdaran il vero potere, economico, politico e militare. Hanno ormai occupato tutti i gangli del vero potere, insieme alle milizie basiji. Contro di loro si sono espressi i militari, pur cercando di far passare il messaggio che non sono contro i pasdaran, ma contro quella minoranza corrotta che ha distorto la propria missione. Resta il fatto che l’equili-


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Il candidato sconfitto da Ahmadinejad ignora le minacce di arresto e invita alla resistenza

Mousavi: pronte nuove proteste di Aldo Bacci ormai scontro frontale, e Mousavi sembra aver scelto da che parte stare. Ipotesi di compromesso sono ormai fuori del calcolo delle probabilità. L’ex candidato alle elezioni presidenziali ieri ha rilanciato un suo proclama riproponendosi come leader dell’opposizione e criticando il regime e la repressione delle proteste. Il fatto è ancora più rilevante perché si colloca in un clima durissimo, il giorno dopo le dichiarazioni di Khamenei. E in questi giorni le voci che si sono rincorse sono quelle di un imminente arresto di Mousavi e dell’altro ex candidato Karroubi, tanto che la comunità internet degli oppositori iraniani sparsi per il mondo è stata allertata a passare sveglia la notte di sabato. «Il popolo ha diritto a porre domande e ci si deve confrontare con esso senza violenze», ha affermato il capo del movimento Verde che da giugno contesta l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica islamica.

È

Mousavi, che è un “riformista per caso” in quanto in realtà ha sempre avuto posizioni conservatrici ma si è ritrovato brio di forze è tutto dalla parte dei Pasdaran, organizzazione paramilitare che però è la vera forza armata del Paese. C’è infatti da dire e da tener presente che l’esercito in Iran conta pochissimo (e storicamente ha sempre contato pochissimo, anche lo shah soldato Palhavi veniva da unità irregolari come i cosacchi) e ha pochissime disponibilità economiche e anche logistiche e di armamenti. Il controllo di tutto – dalla difesa costiera alle forze speciali alle nuove armi. Questo quindi pesa nell’endorsment dei militari a fianco dei contestatori, sia nel senso che non è una posizione inattesa (per quanto clamorosa nella sua ufficialità) sia nel senso che a differenza di altri Paesi l’esercito non è decisivo.

Ma è senz’altro importante nel livello e nel tono della attuale situazione. Occorre ora vedere quanta eco e quanta risposta avrà questo appello di alcuni militari nei confronti degli altri militari, cioè quanto peso effettivamente avrà. Ma è sicuramente un cambio di rotta rispetto al passato, quando le Forze armate erano tenute nell’esclusivo comando della Guida suprema. E occorre vedere cosa cambierà anche rispetto a questa lettera dell’11 dicembre dopo le successive parole della Guida Suprema Khamenei che ha chiamato alla repressione completa dell’opposizione.

ad essere l’unico simbolo disponibile per l’Onda Verde, ieri ha voluto prendere le distanze dai manifestanti che il 7 dicembre hanno bruciato le foto di Khomeini, ma ha criticato l’opera di repressione del regime. Secondo il sito web dell’opposizione Rahesabz.net, Moussavi ha lanciato un appello affinché la repressione e la violenza contro i manifestanti venga al più presto fermata. «La gente ha il diritto di protestare, non si deve rispondere ai

atti» che chiamano in causa le basi della repubblica, ha dichiarato Mousavi. «La popolazione aspetta che si metta fine al clima di polizia. Perché in un clima del genere c’è un’estremizzazione».

Per questo, nonostante l’ultimatum di Ali Khamenei, Moussavi ha invece annunciato nuove proteste, proteste “pacifiche e legali”in modo da «non fornire pretesti a coloro che vanno contro il popolo». Mousavi, primo ministro sotto Khomeini, rappresenta le difficoltà ma anche la determinazione del movimento di opposizione iraniano, composto da molte anime diverse, a volte confuse, senza la capacità di trovare dei veri leader unificanti, relegato ai ceti urbani. Ma anche un movimento che si sta compattando e sta trovando la forza di continuare e rinnovare la sua protesta nel corso del tempo. Ora sono gli studenti universitari che hanno ripreso l’iniziativa, e Mousavi deve decidere se andare fino in fondo o no. La sua sfida potrebbe essere un segnale in questo senso, proprio mentre Ahmadinejad è tornato ad accusare l’opposizione di essere al servizio di forze straniere.

La popolazione ha il diritto di porre domande. Ci si deve confrontare con essa senza violenze confronti con la violenza», ha detto Mousavi. «Da ora in poi tutte le proteste e le richieste dovranno essere perseguite pacificamente e legalmente. La gente ha ragione a porre domande, non occorre agire contro di loro con la forza. Se ci fossero state risposte alle loro domande e se non si fosse agito contro di loro con violenza, non avremmo assistito ad alcuni

Mottaqi conferma le accuse di spionaggio per i tre americani fermati a luglio. La Clinton reagisce

Cresce ancora l’attrito con gli Usa di Massimo Fazzi entre cresce la protesta della popolazione iraniana contro il proprio governo, non accenna a diminuire la tensione esistente fra Teheran e Washington. Il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato infatti ieri che tre cittadini americani, arrestati in luglio dopo aver varcato il confine settentrionale che separa il Paese dall’Iraq, saranno incriminati. Non ha specificato le accuse, ma ha sottolineato che «la giustizia farà il suo corso». Il ministro, Manouchehr Mottaqi, ha fatto le sue dichiarazioni nel corso di una conferenza stampa nella capitale: «I tre americani sono entrati nel nostro Paese con obiettivi che riteniamo sospetti. Il sistema giudiziario è pronto per investigare sulla questione». Secondo l’agenzia di stampa internazionale Reuters, sarebbero pronte «sentenze di un certo peso» contro gli americani.

M

aveva dichiarato che era pronta un’accusa di spionaggio, che nel Paese è punito con la pena di morte. Un processo ufficiale, però, potrebbe incrinare ancora di più i già tesissimi rapporti fra Stati Uniti e Iran: la questione del disarmo nucleare, ancora lontana dall’essere risolta, è con ogni probabilità il vero motivo alla base della lunga, e ingiustificata, detenzione dei tre occidentali. Nel frattempo, Washington non è rimasta con le mani in

È assurdo dire che i nostri concittadini siano delle spie: vogliamo il loro rilascio immediatamente

La disavventura dei tre - Shane M. Bauer, 27 anni; Joshua F. Fattal, 27 anni e Sarah M. Shourd, 31 anni - è iniziata dall’estate, quando però il loro rilascio sembrava quasi scontato. Lo scorso mese, invece, l’agenzia di stampa ufficiale Irna

mano e ha chiesto più volte il rilascio immediato dei compatrioti, definendoli «escursionisti, che dal Kurdistan iracheno hanno sbagliato rotta». Lo scorso novembre, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton ha dichiarato: «Crediamo con forza che non esistano prove a sostegno di una qualsivoglia accusa. E rinnoviamo la nostra richiesta, anche a nom di

questi tre cittadini e delle loro famiglie, affinché il governo iraniano eserciti compassione e li rilasci, in modo da farli tornare a casa». L’addetto stampa della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha più volte sostenuto che i tre sono innocenti.

Secondo le famiglie, che hanno scritto al governo di Teheran, sostengono che i tre «sono stati portati nella tristemente nota prigione di Evin», dove gli oppositori del regime vengono “interrogati” dai pasdaran. È probabile che ci sia proprio questa dichiarazione, dietro alla cancellazione dell’incontro dei Paesi del 5+1 sul disarmo nucleare iraniano. Originariamente prevista per questo venerdì, l’assemblea è stata rimandata a una data ancora da decidere. L’Iran continua a chiedere la possibilità di arricchire al proprio interno l’uranio da usare nelle centrali nucleari: secondo Teheran, è ingiusto porre dei limiti “politici” allo sviluppo di una nuova forma di energia. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha più volte condannato l’atteggiamento del regime, che tuttavia non ha cambiato rotta. E continua dritto su una strada molto pericolosa.


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Iniziative. Parigi rilancia il tema di “nazione” per contrastare il meticciato hissà cosa penserebbe il grande storico Braudel del dibattito pubblico sull’identità nazionale fortemente voluto da Sarkozy. E chissà se il Presidente della Repubblica avrà pensato allo stesso Braudel che, a pochi mesi dalla sua morte nel 1986 e dopo aver concluso una monumentale opera dal titolo L’identité de la France, non esitava ad affermare: «La parola mi ha sedotto, ma non ha mai cessato di tormentarmi», per poi concludere perentorio, «comunque, non voglio che si scherzi con il tema dell’identità». Ad oltre venti anni di distanza dalle parole di Braudel, la Francia torna a riflettere sul senso profondo di cosa significhi essere francesi oggi. Lo fa quando tutta l’Europa si interroga sui temi dell’integrazione e della convivenza tra differenti culture e religioni. Lo fa soprattutto nel momento in cui il tema del “declino” del suo modello economico e sociale continua a dominare, nonostante il tentativo di rupture e rilancio operati da Sarkozy. Dall’inizio di novembre e fino al 28 febbraio tutti i cittadini che vorranno potranno prendere parte al grande dibattito pubblico sull’identità nazionale lanciato dal ministro dell’immigrazione e dell’identità Besson. Ognuna delle cento prefetture dipartimentali e delle 350 sottoprefetture a livello di arrondissement dovrà organizzare occasioni di confronto pubblico tra semplici cittadini, gruppi associativi, parlamentari nazionali ed europei, eletti locali, sindacalisti, associazioni imprenditoriali e gruppi studenteschi con l’obiettivo di riflettere su un punto decisivo: di fronte a nuove condizioni storiche, ma anche socioeconomiche, la Nazione e

C

La Francia riunita parla di identità I critici accusano Sarkozy: «Manovra elettorale, si rischia la xenofobia» di Michele Marchi pensiero debole della sinistra post-sessantottina. Nella odierna congiuntura, come ha ricordato di recente il Presidente, la crisi dell’industria, dell’agricoltura, dei servizi non chiama in causa soltanto il piano economico, ma rimette in discussione un’eredità fatta di valori ed appartenenze.

Il tema dell’identità diventa a questo punto una specie di passepartout che può essere legato ai temi del lavoro, della sicurezza, dell’immigrazione e dello scontro tra culture (vedi questione del burqa). Allo stesso tempo si trasforma nella vera e propria issue mobilitante in vista delle prossime elezioni regionali del 14-21 marzo 2010. Il tema dell’identità permette di compattare un elettorato Ump non poco scombussolato dalla politica di ouverture del Presidente, può stroncare le chances di ripresa del Fronte nazionale e infine mette in grave difficoltà il Ps, che sul tema fatica a presentare una posizione chiara, pur potendo contare su una tradizione di patriottismo repubblicano di tutto rispetto. L’opinione pubblica non pare scandalizzarsi di fronte a

Un sondaggio Ifop rivela: l’iniziativa è vista come un espediente per vincere le regionali, ma è anche un gesto importante per il Paese l’identità nazionale tornano a svolgere un ruolo determinante come meccanismi di identificazione collettiva?

In realtà il tema può essere affrontato ed interpretato seguendo un doppio piano di lettura. Da un lato, infatti, troviamo un Sarkozy deciso a riattivare uno dei temi forti della sua campagna elettorale del 2007: le parole d’ordine della patria, dell’onore, della famiglia, della fierezza di essere francesi come antidoto al disfattismo e alla decadenza del

questo “uso politico” del tema dell’identità nazionale. Secondo un recente sondaggio Ifop il 72 per cento è convinto che si tratti di una mossa del Presidente per vincere le elezioni regionali, ma lo stesso sondaggio mostra che quasi il 60 per cento ritiene il soggetto interessante per il futuro del Paese. In realtà sarebbe fare un torto all’importanza del tema fermarsi soltanto alla sua dimensione elettorale e di polemica politica. L’attuale riflessione deve essere inserito nel ventennale sforzo

Rachida Dati è stata il fiore all’occhiello dell’Ump

L’araldo culturale Il padre è un muratore marocchino arrivato in Francia nel 1963, la madre è algerina. Ha undici fratelli e sorelle. Cresciuta in provincia, compie una parte dei suoi studi presso una scuola privata cattolica. Rachida Dati è stato il primo araldo del multiculturalismo con cui Nicolas Sarkozy è riuscito a salire in vetta all’Eliseo.Tra il 2004 e il 2005 è vicedirettore generale del Consiglio Generale dell’Hautsde-Seine, all’epoca presieduto da Sarkozy. Tra il 2002 e il 2007, collabora con lo stesso in qualità di consigliere tecnico al Ministero dell’Interno e poi a quello dell’Economia. Portavoce del candidato alla Presidenza della Repubblica dell’Ump alle elezioni del 2007, è nominata Guardasigilli, ministro della Giustizia il 18 maggio 2007 nel primo governo Fillon. La Dati è la

prima donna di famiglia non europea e la prima magrebina a occupare una posizione ministeriale chiave in un Governo francese. Rachida Dati ha fatto votare importanti riforme volute dal presidente Sarkozy, come le pene contro i recidivi o la nuova carta giudiziaria. Tuttavia, il suo carattere spigoloso ha provocato dimissioni a catena dei suoi collaboratori e le è valsa l’ostilità manifesta degli ambienti giudiziari e politici. Avvalendosi dei poteri che in Francia sono dati al Guardasigilli, ha trasferito magistrati ”scomodi” e diramato istruzioni perentorie alle Procure Generali. Eletta deputato al Parlamento europeo, il 24 giugno 2009 è sostituita al Ministero della Giustizia da Michèle Alliot-Marie. Ma rimane il simbolo dell’integrazione.

transalpino, testimoniato dalla Commissione nazionale presieduta da Marceau Long e voluta nel 1987 dall’allora Primo ministro Chirac, proprio nel tentativo di rispondere alla domanda chiave: cosa significa essere francesi? Il Paese sta attraversando un’importante crisi identitaria, che coinvolge il suo modello economico, la sua proiezione di politica estera e il suo modello di integrazione. Senza tornare alle banlieues del 2005, basti pensare ai fischi alla Marsigliese in occasione della partita Francia-Tunisia dello scorso ottobre e ai recenti dati sull’integrazione dei figli di immigrati, che parlano di una piena integrazione solo dopo la terza generazione e rivedono al ribasso i meccanismi di ascensione sociale del modello educativo transalpino.

Ad essere in discussione dunque, più dell’identità nazionale, pare essere l’identità francese. Gli intellettuali, in piena tradizione transalpina, stanno apportando il loro contributo al dibattito come testimoniano il profluvio di interventi che ha inondato la sezione commenti di Le Monde o iniziative come quella dell’Institut Montaigne (diretto da Claude Bébéar ex patron di Axa), che pubblica un volume nel quale gli intellettuali più in vista, da Luc Ferry a Alfred Grosser e Max Gallo, offrono la loro personale declinazione di identità francese e organizza un seminario pubblico proprio sul tema della francité alla presenza del ministro dell’Integrazione e dell’identità Besson, del Primo ministro Fillon e probabilmente chiuso dallo stesso Sarkozy. Ad oltre cento anni di distanza dalla famosa conferenza nel corso della quale Renan parlò della Nazione come di un «plebiscito da rinnovare ogni giorno, fondato sul desiderio di vivere insieme», Parigi prende atto delle molteplici linee di frattura che attraversano il suo tessuto nazionale. I critici parlano di ripiego identitario e di manovra elettoralista, tesa a sfruttare istinti xenofobi e chauvinisti. In realtà, a maggior ragione dopo i segnali provenienti dalla Svizzera, un dibattito serio sui temi dell’integrazione e del confronto tra culture, senza paura di indagare i limiti oltre i quali i particolarismi erodono il patto di appartenenza nazionale, potrebbe tramutarsi in un esempio virtuoso da imitare al di qua delle Alpi.


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Si tratta circa del 75 per cento del debito dell’emirato in crisi

Il candidato della destra Piñera, a sorpresa, vola nelle preferenze

Dubai regala 10 miliardi per risanare Abu Dhabi

Cile, si decide al ballottaggio il prossimo governo

DUBAI. Il governo di Dubai ha

SANTIAGO DEL CILE. Si deciderà al secondo turno chi sarà il presidente del Cile per i prossimi quattro anni. Come nelle previsioni, il candidato della destra Sebastian Piñera ha ottenuto un buon vantaggio su Eduardo Frei, centrosinistra: il 44 per cento contro il 30 per cento. Al terzo posto il socialista dissidente Marco Enriquez Ominami con circa il 19 per cento. Si è votato in Cile per la presidenza e il Parlamento, una giornata che potrebbe cambiare la storia del Paese. Da vent’anni al governo c’è la Concertación, l’alleanza tra dc, socialisti e radicali che ha guidato la transizione alla democrazia. Oggi la coalizione appare in seria difficoltà. Da qui

annunciato ieri che l’emirato di Abu Dhabi gli ha concesso 10 miliardi di dollari per coprire parte dei suoi debiti. Circa 4,1 miliardi della somma verranno usati per ripagare dei bond islamici che maturano oggi per l’immobiliare Nakheel, parte della holding Dubai World. In una dichiarazione diffusa per e-mail, Dubai afferma che il resto del prestito verrà usato «per creditori e appaltatori».Il 25 novembre scorso il governo di Dubai ha scosso per settimane tutti i mercati finanziari chiedendo ai creditori della Dubai World - di proprietà dell’emirato - di attuare una moratori di 6 mesi per ripagare i debiti, che si aggirano sui 59 miliardi di dollari Usa, quasi il 75% di tutto il debito del Dubai. Nell’annuncio, lo sheikh Ahmed bin Saaed al-Maktoum, del Comitato fiscale supremo, ha dichiarato di voler assicurare «investitori, creditori finanziari e commerciali, impiegati e nostri cittadini che il nostro governo agirà sempre in accordo con i principi del mercato e con la pratica commerciale accettata internazionalmente». Egli ha pure annunciato che per l’emirato è in preparazione una nuova legge per la bancarotta: «Questa legge sarà usata nel caso in cui la Dubai World e le

Gb, una Corte pronta a incriminare la Livni Sotto accusa il suo ruolo durante “Piombo fuso” di Massimo Ciullo zipi Livni, ex ministro degli Esteri israeliano, ora leader dell’opposizione di Kadima, avrebbe cancellato all’ultimo momento un suo viaggio a Londra, per timore di un possibile arresto, dopo che alcuni media arabi avevano diffuso la notizia di una richiesta in tal senso da parte di una corte britannica. L’esponente dell’opposizione ha deciso così di annullare la sua prevista partecipazione ad una conferenza organizzata dal Jewish National Fund in programma a Hendon, un sobborgo a nord della capitale inglese. Secondo il quotidiano arabo Al Quds Al Arabi, stampato a Londra, sarebbe stata la polizia britannica a suggerire alla Livni di non recarsi nel Regno Unito. La richiesta d’arresto sarebbe scaturita dalla denuncia presentata ai magistrati inglesi da alcuni attivisti pro-Palestina per crimini di guerra commessi un anno fa durante l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza, quando la Livni era a capo della diplomazia di Tel Aviv. La notizia della richiesta d’arresto era stata rilanciata dalla tv satellitare del Qatar, Al Jazeera. Per tutta la giornata di domenica si sono susseguite notizie contrastanti sulla veridicità dell’informazione diffusa dal network arabo. Secondo l’agenzia palestinese Ma’an, la Livni sarebbe arrivata a Londra in incognito per paura dell’arresto e che avrebbe cercato di lasciare il Paese di nascosto, dopo che alcuni poliziotti si sarebbero recati nel luogo in cui presumibilmente si trovava l’ex-ministro degli Esteri, senza trovarla. Sia le autorità britanniche sia quelle israeliane si sono rifiutate di rilasciare commenti su queste indiscrezioni. Ancora ieri, il quotidiano ebraico, stampato a Londra, Jewish Chronicle asseriva che la Livni, per timore di essere arrestata, aveva cancellato durante il fine settimana sia la sua partecipazione alla conferenza del Jewish National Fund, sia il colloquio privato con il primo ministro britannico Gordon Brown. L’ufficio stampa dell’ex-ministro ha confermato la cancellazione del viaggio, smentendo però che sia avvenuta a causa delle voci sul possibile mandato di cattura. Nella nota rilasciata dal portavoce del-

T

la Livni e diffusa dal quotidiano Yedioth Ahronoth si legge: «Abbiamo declinato l’invito alla conferenza annuale del Jnf due settimane fa. Livni è orgogliosa per tutte le decisioni assunte durante l’operazione Piombo fuso». Per cercare di fare chiarezza sul caso, l’ambasciatore di Tel Aviv a Londra Ron Prosor ha chiesto di incontrare alcuni funzionari dei ministeri della Giustizia e degli Esteri britannici.

I responsabili di entrambi i dicasteri hanno però confermato al diplomatico israeliano di non essere a conoscenza di eventuali mandate di cattura spiccati dalla magistratura britannica contro la leader dell’opposizione israeliana. La Livni è l’ultima di una serie di esponenti politici e militari israeliani costretti a cancellare impegni nel Regno Unito e in altri Paesi europei. Lo scorso ottobre, il ministro degli Affari Strategici Moshe Ya’alon, fu avvisato da una struttura interministeriale speciale di non partecipare ad un pranzo di lavoro a Londra organizzato sempre dal Jewish National fund. Esperti di diritto internazionale dei ministeri della Giustizia e degli Esteri e il dipartimento della Procura generale dell’Esercito israeliano hanno invitato esponenti dell’esecutivo e membri delle forze armate a non recarsi in Gran Bretagna, Spagna, Belgio e Norvegia, poiché alcuni team di legali stanno cercando di ottenere da questi Paesi ordini di arresto con l’accusa di crimini di guerra che ricadrebbero nel quadro della “giurisdizione universale”sancita dalle norme internazionali. La stessa minaccia incomberebbe anche su Ehud Olmert, primo ministro durante l’ultima guerra contro Gaza. Il gruppo di legali più agguerrito nei confronti di politici e militari israeliani è quello guidato da Daniel Machover, avvocato ebreo co-fondatore di Lawyer for Palestinian Human Rights. In un’intervista al Guardian, Machover ha affermato che né Olmert né la Livni potrebbero invocare le immunità concesse dalla Convenzione di Ginevra se fosse spiccato un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità.

L’ex ministro smentisce la notizia: «Siamo orgogliosi di tutte le decisioni prese durante il conflitto nella Striscia di Gaza»

sue sussidiarie fossero impossibilitate a giungere a una ristrutturazione accettabile delle sue rimanenti obbligazioni».

Fra gli esperti si tira un respiro di sollievo perché Abu Dhabi «si offre in pratica a pagare il conto». La mossa dell’emirato di Abu Dhabi era stata preannunciata dai media internazionali, anche se nei giorni seguenti, Abu Dhabi aveva precisato che avrebbe “scelto” come assistere Dubai e che ciò non significava che “Abu Dhabi sottoscriverà tutti i suoi debiti”. Abu Dhabi è il maggiore degli emirati e un grande esportatore di petrolio. Non appena la notizia si è diffusa, i mercati asiatici hanno cominciato a crescere.

al 17 gennaio, giorno del ballottaggio, ci sarà un solo tema: quali sono le possibilità reali di una rimonta del centrosinistra? Non molte, secondo i sondaggi delle scorse settimane.

Nel duello diretto contro Piñera, l’outsider Enriquez Ominami sarebbe stato più competitivo rispetto a Frei: il suo messaggio di cambiamento e le accuse alla sinistra di governo hanno fatto breccia anche tra molti conservatori. Già terra dalle ideologie accese, oggi il Cile è un Paese senza paure e fiero dei suoi progressi nel campo sociale e economico. Il che ha portato a una certa disaffezione dalla politica e all’aumento dell’astensione. Frei punta ora a ottenere il voto degli elettori di Enriquez, il quale invece ha confermato che non lo appoggerà. La destra intanto non può abbassare la guardia. Non ha una buona tradizione ai ballottaggi, che ha sempre perduto. Come dicono i sociologi cileni, è minoranza nel Paese, e non vince una elezione dagli anni Cinquanta. A due decenni dalla fine della dittatura, il fardello dell’eredità pinochettista si è alleggerito. Insomme, non sembra spirare aria di revanche, soprattutto in economia.


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Mostre. Fino al 31 gennaio, al Museo dell’Ara Pacis, l’arazzo “Genio Futurista” realizzato nel 1925 per l’«Exposition des Arts décoratifs modernes» di Parigi

L’ingegnere dei colori Dal Divisionismo al Futurismo: la lunga e meticolosa ricerca di Giacomo Balla sull’astrazione e le armonie delle tinte di Angelo Capasso ino Severini nel suo libro di memorie Tutta la vita di un pittore (1946) ricorda: «Fu Giacomo Balla, divenuto nostro maestro, che ci iniziò alla tecnica moderna del divisionismo senza tuttavia insegnarcene le regole fondamentali e scientifiche. Balla era un uomo di assoluta serietà, profondo, riflessivo e pittore nel più ampio senso della parola. Fu una grande fortuna per noi di incontrare un tale uomo, la cui decisione decise forse di tutta la nostra carriera. L’atmosfera della pittura italiana era a quel momento la più fangosa e deleteria che si potesse immaginare; in un simile ambiente anche Raffaello sarebbe arrivato appena al quadro di genere!». Balla è stato certamente un ingegnere del colore. Come un ingegnere ha operato scindendo le questioni attorno a questo, dalle questioni puramente simboliche a quelle fenomenologiche, anche se mai è sceso in accademismi, lasciando il genio personale libero nelle interpretazioni delle congiunzioni diverse che il colore può produrre.

G

In tal senso, Balla è certamente il primo minimalista della storia dell’arte del Novecento. Il divisionismo, per lui, fu una palestra culturale dove porre le basi per quella pittura che ha poi condizionato l’arte italiana, europea, internazionale e ne ha prodotto la modernità attraverso cui si dimostra ancor oggi scuola di lungo respiro. Così come si può sostenere guardando il Genio Futurista, un’opera che non incontrava il suo pubblico da oltre trent’anni e che oggi rivive all’Ara Pacis una stagione di trionfi proprio nell’anno che è del futurismo e si chiude con questo ultimo evento in cui Giacomo Balla presenta il suo quadro per l’Esposizione parigina del 1925. È forse il miglio-

re degli eventi dedicati al Futurismo: sintetico, sincronico, non retorico, assoluto, iconico, dinamico, spaziale, slanciato verso nuovi orizzonti. Il tutto dell’arte del Novecento incarnato in una sola opera. La sua opera monumentale di circa tre metri per quattro, recentemen-

Biagiotti Cigna riunisce oltre duecento lavori dell’artista, di cui il nucleo più intenso è quello dedicato agli studi realizzati da Balla per la Moda. Il Genio Futurista è certamente una delle punte di diamante della collezione. L’opera fu realizzata da Balla per l’Exposition des Arts décoratifs modernes di Parigi (1925), dove venne esposta con altre sue opere: Mare vele vento, Farfalle in movimento e Fiori futuristi. A vederla installata con l’insolito dialogo con l’Ara Pacis, il grande arazzo si

testa è una stella; le braccia formano una doppia riproduzione di un segno che si congiunge in una M, l’unica lettera dell’alfabeto specchiante, iniziale di Marinetti (o Mussolini?); le gambe due lance rosse. Il Genio Futurista quindi è rappresentato come una cifra geometrica perfetta, antropomorfa, che si affida alle proporzioni. Non si può non pensare al Modulor sviluppato da Le Corbusier come cifra propria della misura umana, muovendosi all’interno della lunga tradizione di Vitruvio, l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, i lavori di Leon Battista Alberti e altri tentativi di trovare proporzioni geometriche e matematiche relative al corpo umano e usare queste co-

La Collezione, della Fondazione Biagiotti Cigna, riunisce oltre duecento lavori dell’artista, di cui il nucleo più intenso è senz’altro quello dedicato agli studi realizzati per la Moda te acquisita dalla collezione della stilista Laura Biagiotti, che nel 1996 ha dato vita alla Fondazione Biagiotti Cigna, assieme alle figlia Lavinia, in memoria del marito prematuramente scomparso, con la direzione scientifica di Fabio Benzi. La Collezione della Fondazione

propone come una sintesi visiva della bandiera italiana vista colpita da uno sguardo simultaneo dove il rosso-bianco-verde si intarsiano su un fondo blu e azzurro, e si intrecciano come un prisma di luce che schematizza la figura umana riprodotta con geometrie eccellenti: la

l’autore

Giacomo Balla nasce a Torino nel 1871. Nel 1891 si iscrive all’Accademia Albertina di Belle Arti per poi frequentare il liceo artistico e, nel 1892, delle lezioni all’Università di Torino. Nel 1895 si trasferisce a Roma. Nel 1899 è un artista affermato e viene invitato a partecipare alla Biennale di Venezia. Nel 1903 introduce Boccioni e Severini alla tecnica divisionista. Nel 1910 è tra i firmatari del secondo manifesto della pittura futurista, insieme a Boccioni, Severini, Carrà, Russolo. Se tra le aspirazioni futuriste c’è il dipingere la modernità nel suo dinamismo, Balla si distingue per la capacità di catturare sulla tela la simultaneità degli avvenimenti; uno stile fondato sul movimento, nel quale fonde istinto e forme meccaniche. Mentre Boccioni, Severini e Carrà si rifanno al Cubismo e si interessano a oggetti intersecati e piani spaziali dislocati, Balla guarda alla cronofotografia di Etienne-Jules Marey, che mostra in maniera diagrammatica la traiettoria del movimento nel tempo e nello spazio. Muore il primo marzo del 1958 a Roma.

noscenze per migliorare sia l’estetica che la funzionalità dell’architettura. Le Corbusier pubblicò Le Modulor nel 1948 (seguito da Modulor 2 nel 1955). Il Balla del Genio Futurista è ormai pienamente inserito nell’ambito dell’astrazione. Quella grande tela ha dei precedenti celebri, il tricolore di Forme-grido Viva l’Italia (1915), ma soprattutto porta avanti la lunga ricerca di Balla sul colore che dal 1912 porta il nome di Compenetrazioni iridescenti: ovvero una serie di composizioni astratte, scandite da forme triangolari pure e armonie di colori che aspirano ad un’idea di totalità. Il Genio Futurista è un genio totale che si sintetizza in una forma unica e che richiama a sé un cosmo multisensoriale. Balla, tra tutti i futuristi, è colui che ha approfondito la ricerca in direzione dell’astrazione, ovvero nel desiderio di condurre l’arte oltre la figurazione, ma anche oltre quel canale unidimensionale che si chiama vista. Balla è un eclettico dell’arte. Già da

adolescente dimostra la sua predilezione per l’arte attraverso gli studi del violino, passione che abbandona per la pittura, il disegno e per la fotografia, quest’ultima attraverso gli insegnamenti del padre fotografo professionista. Dopo gli studi superiori, frequenta l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino dove studia la prospettiva, l’anatomia e la composizione geometrica. Lascia presto l’Accademia per il lavoro di assistente, nel 1981, dove conobbe Edmondo De Amicis e Pellizza Da Volpedo. Ma il suo futurismo si nutre soprattutto di esperienze romane. Nel 1895 lasciò Torino per stabilirsi a Roma. A Roma alla Scuola libera del nudo conobbe Umberto Boccioni, Gino Severini e Mario Sironi. Partita la macchina futurista con il Manifesto di Marinetti del 1909, l’11 aprile 1910 assieme a Boccioni, Carrà, Russolo e Severini firmò Il manifesto tecnico della pittura futurista con cui dichiarava apertamente la propria adesione al movimento. Dipinse Villa Borghese e Lampada ad arco che segnò il passaggio definitivo dal divisionismo al futurismo, che però sarebbe stato rifiutato dai compagni per una mostra di Parigi del 1912. La sua passione per il futurismo fu tale da iniziarsi a firmare “FuturBalla”. Nel 1914 uscì «il manifesto dell’abito anti neutrale» creato poi nel 1915. Balla dichiarò di voler


cultura

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In questa pagina, il pittore futurista Giacomo Balla e alcune immagini del suo arazzo “Genio Futurista”. Oltre duecento opere del pittore (facenti parte della Collezione Biagiotti-Cigna) sono attualmente esposte, fino al 31 gennaio 2010, al Museo dell’Ara Pacis di Roma il ritorno alla cultura figurativa di matrice classica. Alberto Savinio (letterato, autore dell’Hermaphrodito, teorico della pittura metafisica e ispiratore del fratello Giorgio, assai più famoso) nel primo numero di Valori Plastici del 15 novembre 1918, annuncia un programma di completa restaurazione individualista, antifuturista e antibolscevica. Il futurismo, quindi, sebbene fosse stata l’unica linea d’avanguardia vera per l’Italia, dopo la guerra trovava molte resistenze. Solo dopo infinite trattative, portate avanti da Marinetti e Prampolini, il gruppo di futuristi fu ammesso a partecipare, non nel padiglione italiano, ma al Grand Palais ed in ritardo rispetto alla data inaugurale. I futuristi al Grand Palais erano Balla, Prampolini e Depero. Depero presentava arazzi, cuscini, giocattoli, disegni per scialli, progetti architettonici e tutta la produzione della sua officina di Rovereto; Prampolini progetti teatrali e decorativi. Lo spazio dedicato a Balla, più concentrato rispetto alle sale di Depero e Prampolini, esponeva quattro dipinti su tela d’arazzo di cui Genio Futurista è certamente l’asse portante. Come sottolinea Fabio Benzi, curatore della Collezione Biagiotti-Cisostituire il vecchio, cupo e soffocante abbigliamento maschile con uno più dinamico e colorato, asimmetrico e colorato, che rompesse con la tradizione e si adeguasse al concetto futurista di modernità e progresso, non solo, doveva far riferimento alla guerra e rendere l’uomo più aggressivo e bellicoso. L’accostamento dei colori erano poi studiati per produrre un vivace effetto di simultaneità, che meglio si armonizzava con lo spazio urbano moderno. Nell’ottobre del 1918 pubblicò il Manifesto del colore, dove analizzò il ruolo del colore nella pittura d’avanguardia.

La partecipazione di Balla alla Grande Esposizione di Parigi del 1925 avvenne con non pochi ostacoli. Il ritorno al classico, dopo la prima guerra mondiale, era la parola d’ordine della stragrande parte della cultura artistica italiana. Era in linea con le teorie espresse da Valori Plastici, la rivista d’arte diretta Mario Broglio, nata a Roma nel 1918, edita dal 1918 al 1922, nata per la diffusione delle idee estetiche della pittura metafisica e delle correnti d’avanguardia europea. Valori Plastici teorizzava il recupero dei valori nazionali ed italici, sostenuti dalla politica culturale del regime fascista, non disgiunti da uno sguardo di ampio respiro verso l’Europa all’interno di una vivace dialettica culturale e

gna nella sua lunga ricostruzione storica, il Futurismo ha certamente avuto grandi influenze sulla cultura del Design parigino, dice Benzi: «Tuttavia le chiusure verso l’avanguardia italiana, connaturate nell’antagonismo avanguardistico europeo e perpetuate nel secondo dopoguerra dall’avversione cri-

lesemente il Futurismo essere stata la scintilla ispiratrice e il modello di gran parte delle migliori, più eleganti e caratteristiche manifestazioni della Mostra, dall’architettura dei padiglioni di decors degli ambienti, al mobilio, all’abbigliamento».

Il Genio Futurista è, quindi, l’icona del Futurismo e delle sue influenze sulla cultura artistica europea, ma soprattutto è la sintesi del progetto futurista dichiarato l’11 Febbraio 1910 con il manifesto firmato da Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino

Severini: «Il grido di ribellione che noi lanciamo, associando i nostri ideali a quelli dei poeti futuristi, non parte già da una chiesuola estetica, ma esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista creatore. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita. Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro». Un progetto ambizioso ma attuale, che potrebbe trovare ancora proseliti.

L’opera in questione si propone come una sintesi visiva della bandiera italiana, dove il rosso-bianco-verde si intarsiano su di un fondo blu e azzurro tica per il contesto politico e culturale fascista, hanno spesso ridotto criticamente tale influenza, spesso addirittura ignorandola». Benzi riporta una recensione dell’Expo di Parigi come testimonianza: «Marinetti rileva con vivo compiacimento e con orgoglio di italiano e di ideatore e direttore del Movimento Futurista il carattere tipicamente avanguardista della Esposizione Internazionale di Parigi, che denuncia pa-


cultura

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L’intervista. A tu per tu con la scrittrice Radwa Ashour, premiata sabato scorso durante la cerimonia del “Tarquinia Cardarelli”

«Sono islamica. E non mi scuso» di Bruno Giurato

Nelle foto piccole, dall’alto: la scrittrice egiziana Radwa Ashour e la copertina del libro di Giorgio Ficara “Stile Novecento”. Entrambi gli scrittori, sabato scorso, hanno ricevuto il Premio Tarquinia Cardarelli. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

TARQUINIA. «C’è un equivoco su di me. Tutti mi definiscono una femminista. In un certo contesto mi può andare bene, ma nell’insieme è una definizione sbagliata. Io sono una radical e quindi laica. Ma culturalmente sono islamica». Radwa Ashour declina in modo specularmente originale la massima crociana del “non possiamo non dirci cristiani”. Scrittrice, critica letteraria, allieva e collega di Edward Said, la 64enne egiziana è in Italia per il premio Tarquinia Cardarelli. A cominciare dal sorriso aperto, è una figura fatta per smentire certi stereotipi un po’ esausti sulla donna engagé. Del resto è uno degli intenti del Tarquinia trovare e premiare, specialmente in ambito internazionale, gli studiosi originali, quelli magari poco noti al pubblico italiano, linea di ricerca enunciata da Massimo Onofri, presidente della giuria e anima del premio, con la battuta: «Non vogliamo far piovere sul bagnato».

ne, si indovina stilisticamente consapevole. Dunque la “femminista” Ashour riconosce il suo debito con la tradizione culturale del proprio Paese (fatto che molte femministe italiane malate di provincialismo si guarderebbero dal fare) e anzi sottolinea che «in Egitto ci

(islam e cristianesimo) contro laicità esasperata. Qual è la posizione della Ashour a riguardo? «A mio parere questa è solo la superficie del problema. Alla base ci sono dinamiche più forti, dinamiche di soldi e di potere. In Italia avete avuto la fortuna di avere Gramsci, uno che ha saputo spiegare come funzionano il potere e il consenso. Ecco, la sostanza del problema è lo scontro tra oppressi e oppressori. Per esempio in

vita quotidiana dei Paesi mediorientali, un aumento dell’uso di simboli religiosi. «Certamente sì, del resto era quasi inevitabile. Essere musulmani è diventato negli ultimi anni qualcosa di cui scusarsi. Nei Paesi arabi a livello popolare si identifica una certa pressione culturale internazionale con dei fatti ben precisi, come le guerre di Bush. Il risultato è sotto gli occhi di tutti».

E qual è la funzione dell’intellettuale, dell’autore di libri, in un contesto del genere? «La letteratura non può cambiare le cose, sarebbe utopia pensarlo risponde la Ashour -. Perché la letteratura funziona ad un livello diverso. Lavora nei processi lenti. Cambia il livello di consapevolezza delle persone. Al Arabia Saudita si massimo può far suonare dei campasono enfatizzati i nelli d’allarme, ma da un punto di vista simboli islamici più esistenziale che politico. Per esemper decenni, ma pio il primo romanzo arabo è un ronon c’è stata nesmanzo comico nella tradizione del Trisuna polemica in stam Shandy di Sterne. Era anche un ambito internamodo per gli autori arabi di proteggerzionale, perché il si, di ritrovare la propria forza, di crearlegame economisi una autonomia anche ironica rispetto co con gli Usa era a una realtà spietata». Quindi la scrittuforte e tacitava tutto. Solo dal 2001 in poi ci si è accorti ra va in direzione di una restaurazione del problema. Forse troppo tardi». Chie- dell’autonomia di un io?. «Scrivere è ridiamo alla Ashour se ha rilevato, nella parare la negazione di una volontà umana. Io scrivo, e lo spazio diventa solo mio. Non sono più un oggetto che “viene agito”dalla storia, sono un soggetto che “fa la storia”». Insomma Radwa Ashour è un modello di intellettuale e scrittrice che risponde poeticamente, vale a dire in maria italiana Giorgio Ficara, desanctisiano di niera non seccamente politicovaglia, che ha saputo leggere la storia della ideologica, a certa esigenza di letteratura con uno sguardo critico vigile e complessità della cultura conconsapevolezza di stile; per la storia della lettemporanea. Ascoltandola ci si teratura un maestro come Nino Borsellino; fa l’idea che un approccio “indiper l’opera prima della critica letteraria Alice retto”, filtrato da una cultura Cencetti, autrice di una biografia di Pascoli ricca anche dal punto di vista (Le lettere, 2009) che ricostruisce e “restaura” delle letture e di un gusto non il profilo del padre della lingua poetica italiabanale, sia una grande ricchezna del Novecento oltre la vulgata; infine, per za per capire i movimenti conla poesia, Nino De Vita, autore di versi nel creti che si nascondono sotto le dialetto nobile di Marsala. etichette frettolose.

Lo scontro di civiltà? A mio parere è solo la superficie del problema. Essere musulmani ormai è diventato qualcosa per cui sentirsi in colpa. E il risultato delle guerre Usa è sotto gli occhi di tutti... sono molte ragazze che portano il velo e che sono intellettuali, dirigenti, insegnanti. Certo - continua - essere donna non è facile, o almeno non abbastanza facile, in nessuna parte del mondo». Il profilo della Ashour sembra fatto apposta per rispondere a una domanda riguardo all’incontro (e lo scontro) di culture. In Europa ci sono due posizioni. Da una parte c’è chi vede lo scontro di civiltà, una cultura araba e una cultura europea in lotta perché irrimediabilmente diverse, dall’altra c’è chi coniuga la questione in termini di asse del sacro

Radwa Ashour insegna letteratura inglese al Cairo e fa parte del comitato egiziano della difesa della cultura nazionale, oltre a essere una delle maggiori esperte di letteratura afroamericana. Uno de pochi libri della Ashour reperibili in Italia è Atyàf. Fantasmi dell’Egitto e della Palestina, da poco pubblicato da Ilisso, una narraIl premio Tarquinia-Cardarelli ha il merito di zione in parte autobiografica in essere l’unico premio italiano dedicato alla cui le vicende di una studiosa di critica letteraria. La giuria è ristretta (come Storia antica egizia si intrecciaricorda il presidente Massimo Onofri: «Siano con un presente vissuto dumo pochi e responsabili») e questo conferma rante la guerra del Sinai, tra il 1967 e il 68. Un romanzo nel l’impressione che ci si trova davanti ad un quale, dalla sua finestra sul Nipremio “orientato”, cioè che segue canoni lo, la Ashour racconta la storia precisi e quasi sempre distanti da quello delseguendo la forma aperta del la generica notorietà. La premiazione dell’eromanzo sperimentale, e non si dizione 2009 ha avuto luogo sabato scorso a nega alcune riflessioni tolstoiaTarquinia. Oltre alla Ashour, sono stati prene sui grandi eventi, con un linmiati i seguenti studiosi: per la critica letteraguaggio che, anche in traduzio-

Dalla critica alla storia letteraria, ha prevalso sempre e solo la qualità

Tutti i vincitori del Premio


spettacoli ack Up The Plantation, unico album dal vivo nella discografia di Tom Petty, era un cimelio un po’ sbiadito dagli anni (ne sono passati ventiquattro). Poi arriva nei negozi questa spettacolare Live Anthology spalmata su quattro compact disc (per non parlare della deluxe edition, che aggiunge un quinto cd, 2 dvd, un Lp e un Blu-Ray, praticamente l’intera gamma dei formati musicali in circolazione) e ti chiedi perché da noi quest’uomo non sia famoso quanto Bruce Springsteen. Sul palco il biondo rocker della Florida è sempre stato una forza della natura, e beato chi ha avuto modo di rendersene conto di persona: da noi, chissà perché, s’è visto solo nel lontano ’87, e per di più in posizione di rincalzo rispetto a sua maestà Bob Dylan nel corso del suo True Confessions Tour. Ma negli Stati Uniti le cose vanno diversamente, Petty è un’icona, uno che riempie gli stadi e sforna dischi da classifica. Insomma, con il Boss se la gioca alla pari. Anche quando si tratta di intrattenere un pubblico sterminato durante l’intervallo del Superbowl, il big match di football americano che ogni anno tiene incollati davanti al televisore 98 milioni di cittadini Usa. Tom c’è sempre, quando si tratta di tirar fuori il meglio dell’ “American way of life”: si tratti delle partite dei play-off di pallacanestro, di un concerto in omaggio agli eroi dell’11 settembre o di un benefit per le vittime dell’uragano Katrina a New Orleans. Lo vogliono tutti, i Simpson in tv e i registi sui set cinematografici, i promoter e le case discografiche (per strapparlo alla MCA, a fine anni Ottanta, la Warner Bros Records mise sul piatto la bellezza di venti milioni di dollari…). I suoi Heartbreakers non valgono meno degli E-streeters di Bruce, meno teatro, più sostanza e un’identica potenza di fuoco. E non è un caso che i nomi dei due assi Mike Campbell (chitarra) e Benmont Tench (tastiere) affiorino a ripetizione nei crediti dei dischi più importanti del rock americano di questi ultimi decenni.

15 dicembre 2009 • pagina 21

rono i copyright sulle sue canzoni). Fece altrettanto quando la casa discografica pensò bene di far uscire il suo disco successivo, Hard Promises, a un prezzo maggiorato per sfruttarne la popolarità alle spalle dei fan: anche quella volta la ebbe vinta lui. Più bellicoso di Springsteen, non c’è dubbio, anche se i punti in comune tra i due sono molteplici: Tom e Bruce sono i due più straordinari animali da palcoscenico del rock americano e questa sua Live Anthology non può che rimandare concettualmente al famoso Live 1975-1985 pubblicato venticinque anni fa dal rocker del New Jersey.

P

È un predestinato, Tom. Come altro definire uno che a undici anni si imbatte in Elvis Presley sul set di Follow That Dream (Lo sceriffo scalzo, nella versione italiana), grazie a uno zio impiegato nella troupe? Fu una delle sue epifanie: come vedere i Beatles in tv all’Ed Sullivan Show nel febbraio del ’64 o ascoltare Rock Around The Clock alla radio, mentre giocava nel prato della casa delle vacanze a Daytona Beach (lo ricorda lui stesso nelle note di copertina del nuovo live). Il padre manesco e terribile non vedeva di buon occhio

Musica. “Live Anthology”: trent’anni di tour di Tom Petty e i suoi Heartbreakers

Riecco il missionario del rock’n’roll di Alfredo Marziano

Il cofanetto offre 4 cd, una deluxe edition che aggiunge un quinto cd, 2 dvd, un Lp e un BluRay. Praticamente l’intera gamma dei formati le sue inclinazioni artistiche ma Tom, forte dell’appoggio di una madre morta prematuramente (proprio come quelle di John Lennon e Paul McCartney, proprio come quella di Bono…), era abbastanza cocciuto e arrabbiato da non desistere. Anni di gavetta e disillusioni, ben raccontati nel documenta-

rio di quattro ore, Running Down A Dream, che su di lui ha girato il grande Peter Bogdanovich. Poi, nel ’79, il terzo album Damn The Torpedoes vendette di botto oltre tre milioni di copie, e da quel momento il music business non poté più fare a meno di Tom Petty: le radio FM andavano matte per American Girl (la quintessenza del rock “born in the Usa”, i Byrds quindici anni dopo), Refugee e Dont’ Do Me Like That, nei primi anni Ottanta Mtv adorava il Tom Cappellaio Matto di Come Don’t Around Here No More ispirato ad “Alice nel paese delle meravi-

glie”(«Il mio segreto? Forse l’aver guardato tre o quattro film al giorno. Ero meravigliato dalla bruttezza dei videoclip che passavano quotidianamente sul canale»). Mica un rapporto facile, quello con l’industria musicale. Anzi: Petty minacciò di non farlo uscire, Damn The Torpedoes, infuriato perché la piccola etichetta Shelter con cui aveva firmato era stata incorporata dalla major MCA (fece nascondere i nastri dai fonici di studio, tornò sui suoi passi solo quando gli restitui-

In alto, un’immagine dell’artista americano Tom Petty durante un concerto. A sinistra, la copertina del disco “Pack Up The Plantation”. Sopra, quella della nuova raccolta appena arrivata nei negozi “Live Anthology”, che raccoglie trent’anni di tour di Tom Petty e i suoi Heartbreakers

Non avrà il fascino macho e gentile del Boss, il cinquantanovenne di Gainesville, ma ascoltatelo traboccare di passione in pezzi come Even The Losers e Here Comes My Girl, nel cofanetto appena uscito che sfoggia la sua enciclopedica cultura musicale tra British Invasion, folk rock anni Sessanta (i Byrds e le loro Rickenbacker) ed epica romantica da blue collar rock, il rock proletario che ha dato una speranza alla sua generazione. Non ha voluto confezionare un “greatest hits”, Tom, piuttosto concedere spazio a performance speciali e pagine minori che hanno lasciato il segno, imbastendo un racconto che scompagina la cronologia per privilegiare la ricerca dell’atmosfera, del climax da concerto. Perfezionista maniacale qual è sempre stato, stavolta s’è lasciato andare. Nessuna correzione, nessun abbellimento, niente sovraincisioni: quelle 48 fotografie dall’album dei ricordi non andavano ritoccate. Esaltano, Tom e i suoi Spezzacuori, anche quando pescano nel serbatoio delle cover: che, spiega il Nostro, raccontano forse meglio delle canzoni autografe chi siano Petty e i suoi Heartbreakers. Raccontano, soprattutto, un amore divorante, totalizzante e inebriante per la musica. Per il blues elettrico di Willie Dixon, per l’r&b di Bo Diddley e di James Brown. Per il beat dei Sixties, gli Zombies e i Dave Clark Five, per il Van Morrison febbrile e visionario di Mystic Eyes e per i Fleetwood Mac del periodo inglese (Oh well). Per il soul morbido di Bobby Womack e quello strumentale di Booker T & the MG’s (Green Onions, quella di American Graffiti). Per il country psichedelico dei Grateful Dead, per il power pop anni Settanta (Something In The Air dei Thunderclap Newman) e persino per le colonne sonore di James Bond (Goldfinger). Un fantastico juke box, uno straordinario poster promozionale per le virtù salvifiche della musica: Tom Petty, prima di tutto, è un missionario del rock’n’roll.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”International Herald Tribune” del 13/12/09

Meno guai per Dubai di Landon Thomas e Bettina Wassener bu Dabi, lunedì ha sorpreso un po’ tutti. Il ricco Paese produttore di petrolio e membro della federazione degli Emirati arabi uniti, ha messo mano al portafoglio per dare una mano alle esangui casse di Dubai. Gli investitori e i creditori di un Paese che molti credevano sull’orlo della bancarotta, hanno tirato un sospiro di sollievo, quando hanno sentito che l’emirato fratello (battono la stessa moneta, ndr) avrebbe prestato ben 10 miliardi di dollari a Dubai per venire incontro a scadenze e debiti. Primo fra tutti quello che lo costringeva a pagare 4,1 miliardi di dollari in obbligazioni, emesse dalla Nakheel. Una società di sviluppo immobiliare posseduta da Dubai World, la compagnia nazionale d’investimento, e che aveva creato la ben nota isola a forma di palma, dove erano state costruite ville da favola per i super-ricchi del mondo, tra cui non poche star holliwodiane. La scadenza delle cedole era proprio lunedì.

A

Tutti i mercati asiatici hanno avuto una ripresa dopo l’annuncio. Lo yen giapponese, che di solito guadagna valore col nervosismo dei mercati, ha perso contro dollaro ed euro. Un buon segno. Non parliamo delle azioni legate a fondi immobiliare e alle banche ad Abu Dabi e Dubai: in ripresa costante. L’intervento finanziario ha shoccato molti investitori. Ma molti credono che non sarà l’unico, soprattutto pensando alla Dubai Holdings, proprietà dello sceicco al governo, Rashid Al Maktoum. Ci sono sempre state tensioni tra i due emirati, dove Abu Dabi, più conservatrice, mal giudicava la politica espansiva e, a tratti, spregiudicata di Dubai. A quanto sembra la crisi dovrebbe averli portati sulla stessa sponda del fiume, almeno momentaneamente. L’intervento di cassa dell’emirato

è spiegabile anche con la visione che le società di rating davano della crisi. Dopo l’annuncio di Dubai per una dilazione del pagamento obbligazionario in scadenza, la tempesta finanziaria si era abbattuta anche sull’emirato fratello. Rendendo molto difficile rastrellare fondi all’estero anche per il parente ricco della famiglia. Oltre all’atteggiamento aggressivo di molti creditori – per lo più hedge fund – che puntavano al fallimento di Dubai World, per garantirsi la copertura tramite il ricco patrimonio immobiliare della società, piuttosto che negoziare il debito. Lunedì, il governo di Dubai ha affermato che «il governo di Abu Dabi ha convenuto di finanziare con 10 miliardi di dollari il Dubai financial support fund, affinché riesca a fare fronte ad una serie di impegni e obblighi contratti da Dubai World. Come prima operazione del nuovo fondo d’emergenza, il governo di Dubai ha autorizzato il pagamento di 4,1 miliardi di dollari in obbligazioni islamiche (sukuk) in scadenza oggi». Nel comunicato si spiegava anche che i restanti fondi sarebbero stati utilizzati per il pagamento delle spese in conto interessi. Dubai, uno dei sette emirati dello Eau, è riuscito ad accumulare oltre 100 miliardi di dollari di debiti, dopo un decennio di spettacolare crescita economica che lo aveva trasformato nell’hub finanziario della regione. Oggi molte delle strutture edilizie megagalattiche costruite sull’onda di questo sviluppo magma-

tico, sono rimaste vuote o completate solo parzialmente. La nuova ventata di prestiti non spazzerà via tutti i problemi dell’emirato. Molte società sono ancora legate a scadenze e creditori e l’immagine del Paese sembra compromessa, ma il governo ha deciso di permettere una ristrutturazione del debito in maniera da dare fiato a tutto il settore. E ricostruirlo su basi più solide, come del resto vuole Abu Dabi. Il messaggio agli operatori finanziari internazionali è che i debiti del piccolo emirato verranno ripianati dai ricchi vicini. Fino a ieri la città Stato ha sempre rivendicato una notevole quota d’autonomia da Abu Dabi, dando il benvenuto a banchieri e uomini d’affari dall’Iran a Israele.

Ora il megaprestito garantito dai facoltosi vicini, ridimensionerà il grado d’indipendenza fin qui difeso. Vedremo fino a che punto cambierà la natura e la formula vincente del capitalismo del Golfo. Per la cui salvezza, 10 miliardi di dollari potrebbero essere un prezzo abbastanza ragionevole da pagare.

L’IMMAGINE

“L’albero pecca, il ramo riceve”. E Pantalone pagherà per colpe non sue Nella Finanziaria in corso di approvazione, in ordine alle spese per la sanità, vi è una norma destinata alle regioni che sforano le soglie di indebitamento e non rispettano il piano di rientro, in virtù del quale scatterà l’aumento delle aliquote fiscali. I motivi di un eventuale sforamento delle soglie di indebitamento, tranne che non siano state fissate molto basse, senza tenere conto degli anni precedenti e dei reali bisogni, possono essere: o una pandemia che faccia lievitare le spese; o una cattiva amministrazione. Nel primo caso si tratta di causa di forza maggiore imprevedibile. Nel secondo, si tratta di responsabilità politica e/o amministrative e/o gestionali. Quello che è strano o poco chiaro è che a pagare le conseguenze dello sforamento non saranno coloro che vi avranno dato causa ma la popolazione tutta della regione che sarà costretta a pagare maggiori tasse. È come dire, rispolverando un vecchio proverbio popolare: “L’albero pecca, il ramo riceve”. E Pantalone, come sempre, pagherà per colpe non sue.

Luigi Celebre

SOLIDARIETÀ ALLE VITTIME DELL’ETERNITÀ Finalmente ha preso il via la prima udienza per la strage dell’amianto che ha fatto troppe vittime innocenti in questi anni. Per la prima volta in Europa, in una causa per danni ambientali, sarà un collegio internazionale a difendere le parti civili. Questo cosiddetto maxiprocesso dei record vede impegnate quasi tremila persone quali parti lese elencate nel capo d’accusa, correlate ai quasi 2200 morti e oltre 700 i malati, tristemente senza scampo, costituiti come parti civili all’udienza preliminare. Spero che questo possa essere un processo giusto e che i suoi tempi possano essere contenuti, per dare

giustizia sia alle vittime che agli imputati. Esprimo grande solidarietà sentendomi vicino ai familiari delle vittime che hanno avviato la dolorosa battaglia per la giustizia.

Domenico Scilipoti

CASO PIAGET: GIACOBINISMO LAICISTA Dopo la grottesca battaglia contro il crocifisso nelle aule, una nuova sollevazione giacobina si scaglia oggi contro una suora colpevole di insegnare l’italiano in una scuola pubblica. Il caso della Jean Piaget di Roma, ove alcuni genitori, in nome di un ateismo ormai divenuto religione di Stato, minacciano di estromettere una religiosa regolarmente nominata dal Provveditorato, è

Amante focosa Porta il nome di un’avvenente sacerdotessa amata da Zeus. Ma se pensate a una fanciulla timida e pacata, siete fuori strada. Io, una delle lune di Giove, è un tipetto decisamente “irrequieto”. È infatti considerato il corpo celeste geologicamente più attivo dell’intero Sistema Solare. Tutta colpa dell’attrazione... gravitazionale dei suoi “vicini” Giove e le sue lune

francamente sconcertante. Credo che a questo punto si imponga una riflessione più generale poiché rischiamo di diffondere un concetto completamente stravolto di laicità proprio nei luoghi, come le scuole pubbliche, ove si forma l’equilibrio educativo dei bambini. In più la religiosa in questione insegna da molti anni

negli istituti statali ed ha avuto accesso all’insegnamento sulla base delle graduatorie scolastiche stilate in base alla qualità e all’anzianità di servizio. Contestarle il diritto all’insegnamento è un ingiustizia e un atto di razzismo che desta grande preoccupazione. Nella scuola è fisiologico e persino auspicabile che si incon-

trino culture e identità diverse poiché è questo incontro che contribuisce alla crescita formativa. Il vero problema è costruire, attraverso i valori, il mandato pubblico dell’educazione, sempre tenendo a mente che in classe non si va per diventare atei ma per diventare cittadini.

Barbara


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

La pazienza diventa apatia e indifferenza Carissima, ho ricevuto le tue cartoline. Aspetterò con pazienza le notizie di casa. Credo che anche tu ti sia accorta, in quei pochi momenti in cui ci siamo visti, quanto io sia divenuto paziente. Lo ero anche prima, ma solo in virtù di un grande sforzo su me stesso: era una certa qualità diplomatica, necessaria per entrare in rapporto con gli imbecilli e con la gente noiosa, della quale purtroppo non si può fare a meno. Ora, invece, non mi costa nessuna fatica: è diventata un’abitudine, è l’espressione necessaria della routine carceraria, ed è anche un elemento di autodifesa istintiva. Qualche volta però questa «pazienza» diventa una specia di apatia e di indifferenza che non riesco a superare: credo che ti sia accorta anche di questo e che un po’ ti abbia addolorato. Non è una novità neanche questo, sai? Tua madre se n’era accorta fin dal 1925 e Giulia me lo riferì. La verità è che fin da quegli anni io, per dirla con un’immagine di Kipling, ero come una capra che ha perduto un occhio e gira in circolo, sempre sulla stessa ampiezza di raggio. La rosa ha preso una terribile insolazione: tutte le foglie e le parti più tenere sono bruciate e carbonizzate; ha un aspetto desolato e triste, ma caccia fuori nuovamente le gemme. Antonio Gramsci a Tania

ACCADDE OGGI

UN MILIARDO SPESO NELL’ULTIMO PONTE Sono tornati 500mila milanesi, 400mila romani, almeno 100.000 torinesi, 100mila napoletani, oltre 80mila bolognesi, 50mila genovesi e fiorentini e 25mila veneziani. Sono tornati quasi tutti gli 8 milioni di vacanzieri del ponte dell’Immacolata. Ottimi i risultati per la montagna e anche per i viaggi all’estero. Un primo assaggio di un altro esercito di quasi 13 milioni, che faranno vacanza a Natale. Nessuna contrazione di spesa quindi per i viaggi degli italiani che preferiscono non risparmiare pur di viaggiare. Si sono spesi per questo ponte non meno di 450 milioni di euro. Ma chi è rimasto a casa ha deciso di spendere ancora prima di ricevere la tredicesima prendendo letteralmente d’assalto centri commerciali, negozi dei centri, mercatini e outlet. Si stima che circa 15 milioni abbiano partecipato a questo rito e che si sia volatilizzato qualcosa come 1 miliardo di euro di spese. Al primo posto spese per l’elettronica digitale e cellulare (compresi i telefoni ) e accessori intorno al 20%, segue l’abbigliamento incollato al 18%, spese per la casa 15%, giocattoli al 14%, chincaglieria e gadgets 10%, alimentare 10%, libri 5%. La metà di questi acquisti riguarda regali o presunti tali. Il 60% degli acquisti avvengono in centri e parchi commerciali e outlet, 18% in mercatini, il 15% nei negozi specializzati Telefono Blu registra anche una diminuzione dei consumi alimentari per le fami-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

15 dicembre 1961 Un tribunale per i crimini di guerra israeliano condanna a morte Adolf Eichmann per il suo ruolo nell’Olocausto 1964 Dal poligono di Wallops Island, Virginia, viene lanciato il primo satellite italiano, il San Marco I 1966 L’astronomo Audouin Dollfus scopre Giano, satellite di Saturno 1967 Crollo del Silver Bridge, ponte di collegamento tra Point Pleasant, luogo dove fu spesso avvistato l’uomo falena 1969 L’anarchico Giuseppe Pinelli muore, dopo un volo dal quarto piano avvenuto in circostanze mai chiarite, durante un interrogatorio nella stanza del commissario Calabresi in relazione alle indagini sulla strage di piazza Fontana 1976 Referendum sulla riforma politica in Spagna che, pur confermando la monarchia, dà inizio ufficialmente alla democrazia 1979 Iniziano le trasmissioni della Rete Tre, terza rete della Rai, istituita già nel 1975; assieme alla rete nascono il Tg3 e il Tgr

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

glie e nonostante le offerte stimabile in un 8% e addirittura un 10% per quanto riguarda gli addobbi (basta vedere le vie delle città per notare la drastica diminuzione), riduzione anche per i regali nonostante l’assalto del 5%. In pratica oltre un italiano su due sembra rinunciare in attesa delle feste. I ristoranti sicuramente in questa fase fra i più colpiti. Tanto è vero che Telefono Blu lancia un appello ai bravi ristoratori italiani: riducete del 20% i prezzi del menù e probabilmente il risultato sarà eccezionale. Si potrebbe passare da 1 milione di avventori medi di questi giorni ad almeno il triplo.

Telefonoblu

COMBATTIAMO I MERCANTI DI MORTE Era già addobbata per il Natale la vetrina della pellicceria Pajaro a Cortina d’Ampezzo. La notte scorsa militanti di Centopercentoanimalisti hanno aggiunto un ornamento in più, uno striscione con la scritta: “L’anno scorso ci hai evitato. A Padova sei scappato”. Inoltre sono stati affissi manifesti di Liberazione Animale e Stop Pellicce. Vinicio Pajaro è uno dei più noti pellicciari a livello mondiale, con boutique in varie città di Europa e extra europee. È uno di coloro che lucrano sulla sofferenza e la morte di milioni di animali innocenti, allevati in condizioni allucinanti, uccisi in modo atroce e scuoiati per adornare la vanità di umani senza cuore e senza cervello.

100%animalisti

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA POLITICA RESPONSABILE DELL’UCD (II PARTE) La politica delle alleanze è una politica che riconosce e dialoga con l’altro in un’ottica creativa e propositiva. Sulla stessa linea Giulio Di Matteo, presidente dei Circoli Liberal della Lombardia, che,dopo aver valorizzato l’ingresso nei liberal di personaggi convertiti alla buona politica, quali S. Ferretto, in qualità di avvocato, ricorda che l’uso meramente strumentale della macchina giuridica crea ingiustizie. «È difficile spiegare ad un medio imprenditore che deve vendere la casa per far fronte a difficoltà monetarie di limitato conto, quando poco più in là vi è un immobiliarista che con un buco di 3 miliardi e mezzo di euro non fallisce». La tradizione giuridica italiana ha alle spalle una costruzione teorica fondata, pensata per produrre equità e giustizia e le va ridato fiato. Torna così il lei-motiv di fondo: nella gestione quotidiana della realtà occorre riscoprire il senso etico nelle professioni, il senso del dovere e della responsabilità nella gestione politica, una carica è un onore ma un onere nei confronti della collettività non mero potere personale. L’uso delle preferenze è fondamentale per rispettare la volontà della cittadinanza. Chiude l’intervento dicendo che occorre ridare onore al fare politica mentre negli ultimi anni si è lanciato il messaggio che era da brave persone definirsi non politiche. Volontè, sulla stessa falsariga, ricorda che diciotto milioni di giovani fra i 18 e i 40 anni stanno soffrendo per la mancanza di lavoro o perché ottengono solo contratti a breve termine. Questo impedisce loro di fare progetti sul futuro, di costruirsi relazioni stabili, occorre quindi una programmazione regionale seria per tutti i prossimi cinque anni. Il maggiore problema, discusso anche in sede internazionale, è la solitudine delle persone, dei vecchi, dei giovani. Ciò che suscita attenzione quindi sono le conseguenze dell’avere spezzato le famiglie allargate per seguire un’industrializzazione che adesso crolla e con essa le persone. «La famiglia non è solo la cellula fondamentale ma l’unico luogo vero in cui si possa fare un patto intragenerazionale», dice Volontè. Insomma si auspica una riconciliazione a tutti i livelli fra etica e politica, fra onore e professioni, fra affetti e concretezza dell’esistenza, fra generazioni. È seguendo questo filo che Quadrini , capogruppo Udc in regione, dice che occorre obbligare alla raccolta differenziata, insistere sui piani casa affinché le famiglie possano accogliere i propri deboli, quali gli anziani, far fronte alle esigenze di una disoccupazione che nel 2009 in Lombardia ha toccato quota 5%. Nell’ottica poi di fare politica per un intero territorio e non solo di alcune sue parti, ricorda che bisogna affrontare il problema dello spopolamento delle valli lombarde e ricorda che la Lega dovrebbe giustificarsi con gli abitanti delle montagne perché è stato Calderoli che a Roma ha votato la chiusura delle comunità montane. Marina Rossi C O O R D I N A T R I C E CI R C O L I LI B E R A L MI L A N O

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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