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Il potere non corrompe

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gli uomini e tuttavia se arrivano al potere gli sciocchi, corrompono il potere

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George Bernard Shaw di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 18 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dà i suoi primi frutti la proposta di mediazione dei centristi: il Pdl vota con l’opposizione contro la Lega sul processo breve

Forse ritorna la politica Berlusconi lascia la clinica e dice: «Se cambiano i toni,il mio dolore non sarà inutile».L’Udc offre una sponda al Pdl per un “patto democratico”.Ma se riemergono i falchi,«un Cln costituzionale» di Osvaldo Baldacci

ROMA. «Concordia omnium bono-

di Marco Respinti

di Francesco Capozza

Silvio Berlusconi offre la propria dolorosa disavventura in pegno affinché la politica tutta ritrovi l’equilibrio perduto e Pier Ferdinando Casini propone un’alleanza autentica a tutela dei nostri assetti istituzionali. Due segnali decisivi, che fanno ben sperare.

Gian Enrico Rusconi, politologo e germanista, ha l’abitudine di guardare l’Italia da lontano. Anche la pacificazione possibile di queste ore preferisce leggerla nella prospettiva storica: «Sono 15 anni che Berlusconi fa la politica. Ora c’è da temere lo stile dei “berlusconiani”».

rum», invocava Cicerone chiamando alla collaborazione fra i politici in buona fede. Dopo le tensioni della domenica in piazza Duomo riuscirà lo spirito del Natale a riportare il confronto nell’alveo della politica, emarginando le faziosità violente e gli estremismi istigatori? «In questi giorni ho sentito vicini anche alcuni leader politici dell’opposizione. Se da quello che è successo deriverà una maggiore consapevolezza della necessità di un linguaggio più pacato e più onesto nella politica italiana, allora questo dolore non sarà stato inutile». Con queste parole Silvio Berlusconi ha salutato ieri il suo ritorno ad Arcore. Aprendo a quel richiamo al buon senso lanciato da più parti, specie dal presidente Napolitano e dall’Udc di Casini. Con la speranza di un ritorno della politica, latitante da troppo tempo. E davvero l’aggressione di domenica in piazza Duomo appare a molti un punto di svolta decisivo, un bivio dove scegliere tra un rapido precipitare degli eventi e un sussulto di responsabilità. Se lo augura Pier Ferdinando Casini, che ha offero una sponda «costituzionale» al Pdl e al Pd contro lo strapotere dei falchi.

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TRA GUERRA E PACE

L’OPINIONE DI RUSCONI

Casini, elogio dell’equilibrio. E se il premier dice sul serio…

«No, io non ci credo, il Carroccio lo impedirà»

L’ex commissario europeo analizza il flop della Conferenza

Vi spiego il ko di Copenhagen Retorica, marchiani errori scientifici e manipolazione dei dati: per questo il summit sui cambiamenti climatici non darà i frutti sperati dalla comunità. Ma la colpa è anche della demagogia messa in campo da Al Gore e da Brown di Carlo Ripa di Meana

di Riccrado Paradisi

Contestazioni, aggressioni, attentati

ROMA. «Queste bombe sono anarchiche, ma il pericolo di infiltrazioni e strumentalizzazioni esiste»: lo dice a liberal Otello Lupacchini. In magistratura dal 1979, consulente delle Commissione parlamentare Antimafia, Lupacchini si è occupato, fra l’altro, degli omicidi del Pm Mario Amato, di Roberto Calvi, di Massimo D’Antona, nonché della strage di Bologna.

E Milano si svegliò una città divisa ove va Milano? E perché è diventata l’epicentro anche simbolico di un’inquietudine collettiva che trascende più spesso in episodi di una violenza anche fisica che sembravano appartenere alle memorie di un passato sanguinoso ancora recente?

Copenhagen voleva mettere al centro dell’attenzione gli orsi polari e invece è riuscita a far emergere i black bloc, incassando così un clamoroso fallimento. È una conferenza partita male: con atteggiamenti retorici e teatrali e soprattutto fondata su basi scientifiche sbagliate, messe sotto accusa prima dell’inizio dei lavori dalle manipolazione dei dati emerse con lo scandalo dell’East Anglia e, durante i lavori, quando Al Gore ha citato una fonte che a distanza di poche ore ha smentito ciò che l’ex vicepresidente americano gli aveva attribuito. La gestione del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, di Al Gore, del principe Carlo, del consigliere di Brown, Nicolas Stern, è stata demagogica.

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L’ordigno della Bocconi era molto rudimentale, dicono gli investigatori

«Bombe anarchiche. E non solo» Allarme degli esperti: c’è il rischio di infiltrazioni

gue a(10,00 pagina 9CON EUROse1,00

di Giuseppe Baiocchi

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

250 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

POLEMICHE A DISTANZA

Hillary e Wen, lo scontro è fra loro due di V. Faccioli Pintozzi È abbastanza ironico che, a una Conferenza sul riscaldamento climatico, cali il gelo. Eppure è quello che è avvenuto ieri a Copenhagen, dove si sta svolgendo l’atteso summit sui cambiamenti ambientali convocato dalle Nazioni Unite. E, al di là dell’inaspettata nevicata che ha imbiancato la capitale danese, il gelo era palpabile anche fra le varie delegazioni presenti. Che, dopo l’ultimatum e l’abbandono delle trattative da parte dei Paesi in via di sviluppo - crisi poi rientrata stanno correndo contro il tempo per presentare oggi una bozza che metta d’accordo i capi di Stato e di governo che dovranno firmarla. a pagina 9

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Dialogo. Il premier esce dalla clinica. Mentre si discute la proposta di mediazione e moderazione dei centristi

Prove di pacificazione

Berlusconi abbassa i toni, l’Udc offre una sponda contro i “falchi” In Senato, opposizione e Pdl insieme contro la Lega sul processo breve di Osvaldo Baldacci

ROMA.

“Concordia omnium bonorum”, invocava Cicerone chiamando alla collaborazione fra i politici in buona fede. Dopo le tensioni della domenica in piazza Duomo riuscirà lo spirito del Natale a riportare il confronto nell’alveo della politica, emarginando le faziosità violente e gli estremismi istigatori? «In questi giorni ho sentito vicini anche alcuni leader politici dell’opposizione. Se da quello che è successo deriverà una maggiore consapevolezza della necessità di un linguaggio più pacato e più onesto nella politica italiana, allora questo dolore non sarà stato inutile».

Con queste parole Silvio Berlusconi ha salutato ieri il suo ritorno ad Arcore. Aprendo a quel richiamo al buon senso lanciato da più parti, specie dal presidente Napolitano e dall’Udc di Casini e Buttiglione. Con la speranza di un ritorno della politica, latitante da troppo tempo. E davvero l’aggressione di domenica in piazza Duomo appare a molti un punto di svolta decisivo, un bivio dove scegliere tra un rapido precipitare degli eventi e un sussulto di responsabilità. Per la verità le reazioni di tutta la settimana hanno fatto temere il peggio: la denuncia di un clima di istigazione alla violenza da molti è stata vissuta non come una presa di coscienza ma come un’ulteriore arma da brandire contro l’avversario. Ogni episodio, ogni frase sono stati occasione di strumentalizzazione e contrapposizione, nelle trasmissioni televisive come nelle aule parlamentari. Nelle ultime ore il clima sembra essere improvvisamente cambiato. Con significativi spiragli di distensione. Aveva cominciato il premier già dalla clinica col messaggio sul sito Pdl: «Ripeto a tutti di stare sereni e sicuri. L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio». Ma anche i suoi uomini sembravano non aver recepito il messaggio. Poi è arrivata mercoledì la proposta del comitato di presidenza del Pdl di un patto democratico con Pd e Udc riportare i toni nell’alveo della civiltà. Da parte sua il Pd, pur costretto a fare i conti con distin-

Il rilancio dei moderati, dal «patto costituzionale» alla soluzione del nodo della giustizia

Casini, elogio dell’equilibrio E se il premier dice sul serio... di Marco Respinti ilvio Berlusconi offre la propria dolorosa disavventura in pegno affinché la politica tutta ritrovi l’equilibrio perduto e Pier Ferdinando Casini propone un’alleanza autentica a tutela dei nostri assetti istituzionali. Due segnali decisivi, che fanno ben sperare. S’incrociano, infatti, e si ripetono i richiami ad abbassare i toni della politica. E invece alziamoli, questi benedetti toni. La nostra modesta proposta è questa. Nel degrado e nel bailamme che ci circondano, fra le calunnie e gli sberleffi che ci aggrediscono, non sarebbe infatti ora di elevare il discorso generale sull’amministrazione della cosa pubblica, sul governo per il bene comune, sul ruolo e sul senso delle istituzioni? Perché così è impossibile continuare. La disaffezione alla politica, segnalata a scadenze fisse dal termometro elettorale ma non coincidente sempre e solo con esso, è infatti palpabile nei luoghi d’incontro concreto degl’italiani, cosa altra e diversa dalle stanze dei palazzi, dai salotti degl’intellettuali e dalle case chiuse della televisione. I tatticismi per addetti ai lavori di cui vive quotidianamente la politica italiana sono completamente estranei alla vita della gente reale. E tutto ciò che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, accapiglia i contendenti – uomini di governo e di opposizione, commentatori e critici, osservatori e massmediologi – è incomprensibile all’uomo comune.

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riforme van fatte con intese larghe; ma poi questi fervorini si sfaldano come sabbia perché in realtà non ci crede alcuno e la partigianeria smaccata prevale. Ma le riforme vanno sempre fatte. Ci sono compiti da svolgere ed è ora di rimboccarsi le maniche. Con chi ci sta. Gli assenti, infatti, hanno per definizione sempre torto. C’è per esempio forte necessità di un concertazione autentica a tutela dei nostri assetti istituzionali a scanso di ogni forzatura pericolosa; lo dice ora Pier Ferdinando Casini, e non è la medesima cosa che sognare una impossibile somma aritmetica di partiti eterogenei, come peraltro qualcuno sarà malevolmente subito tentato d’insinuare.

Ci sono compiti da svolgere: è ora di rimboccarsi le maniche con chi ci sta. Gli assenti hanno sempre torto

È quindi giusto che la politica torni. Forse sta già tornando. Per la politica vera, infatti, non solo non è ancora giunta l’età della pensione, ma la sua necessità è cogente. È infatti proprio quando la gestione della cosa pubblica scade, scivola su bucce di banana, di fatto abdica alla propria funzione di guida e di sicurezza, persino d’indicatore morale, che c’è bisogno di tornare alla politica. L’Italia ha ancora una volta di fronte scadenze importanti, vi sono di continuo scadenze importanti per l’Italia, passi nodali da compiere, sfide enormi d’affrontare, riforme da attuare una benedetta, sacrosanta volta. Si dice sempre, con sfoggio di retorica bolsa, che le

La giustizia, per esempio, in Italia davvero non quadra. Così, se per le grandi riforme van cercate intese possibili più che larghe, è al contempo concretamente doveroso lavorare per garantire stabilità e governabilità. Approvando cioè la norma sul “legittimo impedimento”per il premier a comparire alle udienze dei procedimenti penali quale imputato o parte offesa, e questo secondo la formulazione, di enorme buon senso, proposta da Michele Vietti. Cercare di lavorare autenticamente a vantaggio di questo Paese richiede infatti l’intelligenza pratica di aprire il più possibile la tavola degl’invitati ai discorsi seri ma soprattutto alle opere concrete di garanzia istituzionale – è la proposta di Casini –, e assieme – è l’iniziativa di Vietti – di liberare politica e istituzioni dal killeraggio continuo. Il grande Edmund Burke, maestro certo di tutti coloro che prendono ancora sul serio quella nobile cosa umana che si chiama politica, diceva e ripeteva che il compromesso è il sale dell’amministrazione del bene comune; il compromesso come strumento d’incontro in uno spazio preciso, alla luce del sole, sotto gli occhi della gente, e garantito a monte da quel “pregiudizio” di cui lo stesso Burke era vate, ossia non la maldicenza a priori, ma il retto convincimento morale di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato onde irrorarne la politica. Prima che la politica degenerata si arroghi il diritto di stabilirlo da sé. La politica come elegante e sinuosa ancella della dignità della persona e del bene comune: regalatecela per l’anno nuovo. www.marcorespinti.org

guo e precisazioni, aveva espresso nel gesto della visita di Bersani in ospedale la manifestazione di migliori intenzioni. «Alcuni esponenti dell’opposizione - ha dichiarato ieri Berlusconi - sembrano averlo capito: se sapranno davvero prendere le distanze in modo onesto dai pochi fomentatori di violenza, allora potrà finalmente aprirsi una nuova stagione di dialogo». Poi c’è l’Udc. Cui va oggettivamente riconosciuto di aver da sempre cercato di mantenere la calma quando tutti intorno la perdevano. Di aver sempre difeso le istituzioni, il primato della politica, la civiltà del confronto, il ruolo costruttivo dell’opposizione senza personalismi. Questo ruolo che solo pochi mesi fa sembrava disperato e incongruente con i tentativi di assassinio del centro, si sta ora invece imponendo come necessario.

Merito quindi al partito di Casini di aver tenuto il centro non solo politico ma anche istituzionale. Ancora nelle ultime ore è da notare come l’Udc si stia facendo colomba con le colombe e falco con i falchi. L’apertura al Pdl sul legittimo impedimento, come via alternativa al processo breve, è un esempio. Il provvedimento andrà in aula dal 25 gennaio e l’Udc ha dato un contributo decisivo. È bastato spostare l’attenzione dalle vicende personali pro o contro Berlusconi per arrivare a trovare una ipotesi che guardi agli interessi di tutti i cittadini. Un altro esempio di questo clima “nuovo” è il voto favorevole di ieri garantito ieri dal Pdl, in Commissione giustizia del Senato, all’emendamento al ddl sul “processo breve” che interviene sui reati di immigrazione. A chiedere di cambiare la norma erano stati i “finiani”. E questa volta il partito maggiore del centrodestra ha votato, insieme all’opposizione, contro la Lega. Allo stesso tempo però l’Udc mantiene la sua fermezza nei confronti degli estremisti di entrambi gli schieramenti. E non cede alle pressioni dei falchi del Pdl, spesso cattivi consiglieri anche del premier Berlusconi. Per sua natura da due anni l’Udc rifiuta la divisione del campo tra pro e contro Berlusconi, e vuole invece parlare di


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Gian Enrico Rusconi e il richiamo all’equilibrio istituzionale

«Non ci credo, la Lega farà saltare tutto»

«Più che dei comportamenti del Cavaliere, ora c’è da preoccuparsi per quelli dei suoi emuli» di Francesco Capozza

Schifani, Facebook e il salotto di Nonna Speranza di Marco Palombi

ROMA. Che l’Italia viva politicamente aggrappata a un passato che non vuole finire è diventato oramai quasi un luogo comune, ma non smette per questo di essere vero. Plasticamente, si potrebbe dire, ci ha pensato Renato Schifani ieri mattina a ricordarci che la maggior parte dei rappresentanti del popolo vivono ancora nel salotto di Nonna Speranza tra «Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)» (Guido Gozzano). A tali residui della Belle Époque il world wide web appare sconcertante come il primo aeroplano ai vicini di casa dei fratelli Wright.Tanto è vero che il presidente del Senato, in quella sorta di fabula togata che è la cerimonia degli auguri con la stampa parlamentare, ha sostenuto la seguente tesi: su Facebook si leggono «dei veri e propri inni all’istigazione alla violenza. Negli anni ’70, che pure furono pericolosi, non c’erano questi momenti aggregativi che ci sono su questi siti. Così si rischia di autoalimentare l’odio che alligna in alcune frange». Se le Br avessero avuto internet, sembra paventare Schifani, avrebbero potuto arruolare tra le loro file anche Tartaglia. «Una cosa è certa – ha scandito la seconda carica dello Stato - qualcosa va fatto, perché non si può accettare che si pubblichino istigazioni all’odio violento». E così, allegramente, senza aver mai aperto un social network e avendo col web lo stesso rapporto dei loro nonni, cioè nessuno, ministri e parlamentari si apprestano a regolare una cosa che è già regolata, essendo ad esempio - l’istigazione a delinquere già punibile anche sul web. Questo, ovviamente, a meno che non si voglia limitare la libertà d’accesso alla rete o d’espressione della rete. Si vedrà: l’esame del ddl preparato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, infatti, è stato rinviato dal Cdm «per approfondimenti» e quindi bisognerà aspettare ancora per sapere se si tratta di una legge inutile o dannosa.

Casini e Bersani. Sotto, il premier lascia l’ospedale contenuti. E ne ha saputo pagare il prezzo. Ma la maggioranza deve sapere, dice Casini, che se il Pdl volesse montare un’escalation contro la Costituzione, la Corte Costituzionale, il presidente della Repubblica, la magistratura in quanto tale e il Parlamento come luogo centrale della democrazia, allora l’Udc non ci sta. Insomma, se l’alternativa è tra Berlusconi e la Costituzione, l’Udc non può avere dubbi nel scegliere la Costituzione. C’è poi il tema del partito della Nazione: Casini lo ha ribadito di recente: non è un nome, è un concetto. Occorre riportare l’Italia al centro, rafforzare i legami tra gli italiani, unirsi per affrontare i problemi e rilanciare il Paese. Anche per questo c’è molta attesa per gli Stati generali del centro che l’Udc terrà oggi e domani a Roma. La barra al centro può segnare la strada attraverso la quale tutto il Paese può imboccare la via d’uscita dal pericoloso pantano in cui si trova: una via di uscita che ha un solo nome, cioè il ritorno della politica. Il tornare ad affrontare nel merito i problemi concreti, confrontando proposte e soluzioni, rispettando la legittimità delle idee altrui e soprattutto seguendo le regole. Certo, la voce del buonsenso è ancora esile, e il ritorno della politica è ancora più un’attesa che un fatto, e le colombe sono ancora poche in mezzo ai falchi. Ma in fondo al tunnel si intravede uno spiraglio di luce.

ROMA. Gian Enrico Rusconi non ama molto parlare alla stampa italiana. Da qualche tempo lo storico e professore di Scienza della politica preferisce dedicarsi ai suoi studenti dell’Università di Torino e, quando gli impegni accademici non lo obbligano a rimanere in Italia, passa volentieri il suo tempo nel buen ritiro berlinese. Lì, in Germania, ci spiega «mi chiedono in continuazione di scrivere o di tenere conferenze sullo stato attuale della politica in Italia». E lui, come sempre cortese, alla fine cede. Come concede a liberal un ragionamento su quello che sta accadendo negli ultimi giorni qui a casa nostra e, più nello specifico, un commento all’intervista a Pier Ferdinando Casini apparsa ieri sul quotidiano la Repubblica. Professor Rusconi, avrà certamente letto quell’intervista, che idea si è fatto del momento attuale e delle sue parole? Penso che certe prese di posizione siano “azzardate”. Che intende, mi scusi? Beh, io ho visto molti falchi volare, spesso travestiti da colombe. E non parlo di Casini. La verità sa qual è? Negli ultimi quindici anni la politica italiana ha avuto un senso solo grazie all’esistenza di Berlusconi. Nel bene o nel male quest’uomo è riuscito a catalizzare su di sé lo scontro che una volta non era sulle persone, men che meno su una persona, ma sulle politiche di governo, sulle azioni, sui fatti insomma. Oggi la politica italiana è tutta imperniata attorno a quello che nelle mie conferenze in Germania chiamo “berlusconismo”. Un vento nuovo, che può piacere o meno, ma che ha mutato radicalmente la società e la politica. E sa che altro le dico? No, che cosa? I personaggi che vedo nell’attuale agone politico sono delle foglie smosse ora più ora meno - e spesso loro malgrado - da quel vento. Tutti tranne uno, ovviamente. E chi sarebbe? Ma mi pare ovvio! Sto parlando di Umberto Bossi e della Lega Nord, che nonostante le critiche che spesso si attirano, sono in grado di mantenere un potere immenso di ricatto nei confronti del presidente del Consiglio tenendo di fatto sotto scacco l’intera maggioranza.

Quindi in questo caso dà ragione a Casini quando dice che l’agenda di governo la fa la Lega? Mi pare evidente: è sotto gli occhi di tutti. Professore, che cosa si dice lassù a Berlino dell’aggressione a Berlusconi e dei risvolti politici che questa potrebbe avere? Guardi, non mi faccia passare sempre per filo-tedesco... Le dico onestamente che i tedeschi sono sempre molto freddi e composti nel reagire a questi episodi. Così come freddi e imperturbabili sono nel prendere delle decisioni politiche concrete ed immediate, c’è un esempio recentissimo che calza a pennello come paradigma, vuole che gliene parli? Ma sì, dica pure. Beh, sarò telegrafico. Qualche settimana fa c’è stato un piccolo scandalo che ha investito il ministro della Difesa, che tra l’altro tirava in ballo il suo predecessore. La cancelliera l’ha sostituito con immediatezza, senza polemiche e senza indugio. In Italia pensa che una cosa analoga accadrebbe mai? Temo di no, ma torniamo a Casini. Nell’intervista che citavamo il leader dell’Udc ha ripetuto quanto detto il giorno prima nell’aula di Montecitorio e cioè che è fortemente contrario alla censura di Internet e della piazza. Che ne pensa lei? Non posso che essere d’acordo, ovviamente. Chiunque sappia qualcosa di come funziona Internet sa benissimo che è tecnicamente impossibile, lo scriva, im-pos-si-bi-le, censurare quanto messo in rete. E poi, in fondo, internet non è altro che la proiezione mediatica e contemporanea di quello che una volta accadeva al bar. C’era chi beveva un bicchiere di troppo e giù insulti, anche pesanti, al governo, a questo o a quel leader. Così come non si poteva intervenire sull’alticcio del bar dello sport, oggi non lo si può fare su quegli “imbecilli”che scrivono certe cose su internet. Secondo lei ha ragione chi dice che l’incidente di piazza Duomo costituisce la santificazione di Berlusconi? Non lo so... bisogna vedere lui adesso come reagirà, che cosa dirà. È una faccenda un po’ controversa...

Sono d’accordo con Casini quando dice che non si può imbavagliare la piazza né censurare internet: è tecnicamente impossibile


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Riflessioni. Ancora una volta il Nord sembra anticipare il resto del Paese mostrando tutta la drammaticità della situazione

E Milano si svegliò divisa

I fischi per Piazza Fontana, l’aggressione al premier, l’esplosione: la «capitale morale» è diventata un luogo pieno di contraddizioni di Giuseppe Baiocchi ove va Milano? E perché diventa l’epicentro anche simbolico di un’inquietudine collettiva che trascende più spesso in episodi di una violenza anche fisica che sembravano appartenere alle memorie di un passato sanguinoso ancora recente e dalle cicatrici non completamente rimarginate? Si dirà, ed è vero, che le manifestazioni di intolleranza (dai fischi alle vittime di Piazza Fontana nel 40° anniversario della strage al ferimento del Presidente del Consiglio fino all’ordigno trovato alla Bocconi) sono voci sgradevoli di una infima minoranza se non di attentatori isolati. Ma la città e il suo tessuto economico e civile sembrano oggi più slabbrati e confusi di quanto la sua storia, il suo prestigio e la sua potenza dovrebbero chiaramente dimostrare.

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In realtà tutta la metropoli appare aver perduto la sua dote originale, che l’aveva fatta grande: e cioè la sua naturale capacità“digerente”. Ovvero, sempre aperta al nuovo e agli“homines novi” che arrivavano da tutto il mondo, la tendenza peculiare ad “inglobare”, ad accogliere e a rielaborare, metabolizzando il contributo esterno in modo da fornire sempre linfa diversa e vitale al suo carattere concreto tipicamente “ambrosiano”, che nella forza del lavoro e nell’accettazione della creatività, ne faceva la locomotiva anche culturale del Paese e uno degli esempi trainanti dell’intera Europa. Certo, il fervore di iniziativa e di lavoro non si è fermato: e la tipica frenesia produttiva milanese à ben lungi dall’essersi arrestata. Eppure oggi si coglie un senso di smarrimento e di incertezza estranei alla natura propria del vivere lombardo. Pesa, più di quanto forse si pensi, la crisi finanziaria che ha indotto a tirare i remi in barca alla scintillante prosperità dei numeretti di Borsa e al variopinto mondo dei consulenti e degli investitori professionali. Morde nella carne popolare una crisi economica che lambisce la solidità del mondo delle imprese, chiamate ad un ennesimo ripensamento della loro organizzazione e costrette ad accelerare processi innovativi per competere su mercati sempre più planetari. Ma soprattutto non è visibile un centro unitario e riconosciuto di una complessa società civile, per sua natura interclassista

Ieri vertice in Prefettura: l’ordigno dell’università era rudimentale

Dopo lo scoppio alla Bocconi, sale il livello d’attenzione MILANO. Vertice in prefettura, ieri mattina, per discutere le misure da adottare dopo l’attentato fallito all’Università Bocconi, rivendicato dalla Federazione Anarchica Informale. Al vertice erano presenti il prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi, il questore Vincenzo Indolfi, il comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri colonnello Sergio Pascali e il comandante provinciale della Guardia di Finanza generale Attilio Iodice. Nel corso dell’incontro è stata effettuato un approfondito esame della situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica in città, a seguito del ritrovamento dell’ordigno inesploso ritrovato in un tunnel dell’Università Bocconi. È stato deciso di intensificare i servizi di sorveglianza presso gli obiettivi considerati a rischio e di elevare il livello dell’attività investigativa per prevenire il ripetersi di episodi analoghi. Il prefetto Lombardi ha anche sentito il sindaco Letizia Moratti. con cui ha concordato di seguire congiuntamente l’evolversi della vicenda.

Gli uomini della Digos stanno lavorando a una informativa da trasmettere alla procura di Milano su quanto accaduto alla Bocconi. L’informativa arriverà sul tavolo del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro che coordina le indagini. Stando ai primi accertamenti l’ordigno, costituito da un cilindro metallico infilato all’interno di una conduttura per tubi elettrici che si trova nel tunnel dell’università, sarebbe esploso solo in parte, e in particolare nel suo inneDopo l’aggressione al premier, il Duomo è diventato un luogo doppiamente simbolico di Milano. In alto, l’entrata della Bocconi, dove martedì notte è esploso un ordigno rudimentale

sco. L’esplosivo, invece, circa un chilogrammo di polvere simile alla dinamite, sarebbe rimasto intatto. Ciò si spiegherebbe col fatto che il rudimentale ordigno sarebbe stato costruito male, anche se il timer ha funzionato perfettamente. Resta ora da capire come sia stato possibile collocare la bomba nel tunnel dell’ università, aperto dalle 7 alle 20 e di solito molto frequentato dagli studenti che lo usano per passare dalla scuola di direzione aziendale o dal pensionato alle aule dell’ateneo.

A d o g ni mo d o , il pacco bomba di Milano era stato involontariamente annunciato nel volantino di rivedicazione dell’attentato di Gradisca d’Isonzo. In quel volantino, arrivato martedì sera al direttore del Cie, iniziava con le parole 1dopo i due chili di dinamite di Milano». Il volantino di Gradisca è stato in parte distrutto dall’esplosione ed è stato ricostruito dagli agenti della Digos di Gorizia. Nel volantino di Gradisca non c’erano riferimenti al luogo dell’attentato. Gli autori delle due azioni probabilmente hanno pensato che il pacco a Gradisca d’Isonzo sarebbe arrivato a destinazione dopo lo scoppio della bomba all’interno della Bocconi.

e mai priva di connotati cristiani. E anche le figure di riferimento abituali (dal sindaco al cardinale al Presidente della Regione) appaiono comunque parziali e non completamente rappresentative. Non è, sia permesso, un problema di persone e di ruoli, quanto piuttosto di uno stato latente della città, che appare da lungo tempo fratturata e non riesce a rinsaldare le rotture, nonostante la ripetuta ritualità delle esortazioni al dialogo, termine mai tanto proclamato quanto poco messo in pratica. La frattura ha origine nella stagione tumultuosa di Mani Pulite. Come sempre succede, Milano anticipa (è accaduto nella storia con il Risorgimento, il fascismo, la Resistenza) salvo poi trovarsi a disagio, se non addirittura “contro”, i risultati finali dei processi di cambiamento che aveva per prima contribuito a innescare. E la sovraesposizione giudiziaria degli anni 1992-93 ebbe il risultato di cancellare per via manettara e sanculotta la tradizione del centro-sinistra ambrosiano di stampo riformista senza costruire una linea alternativa. E anche il giustizialismo (che aiutò di fatto soltanto la Lega) minò al suo interno, e forse per sempre, quella sinistra senza popolo molto vogliosa di ereditare la città, ma incapace per sua spocchia di costruire il consenso.

Non è un caso infatti che da allora sia stata regolarmente sconfitta (e sono passati più di 15 anni) in tutte le occasioni elettorali: prima dal leghista Formentini e poi dalle robuste armate berlusconiane di Albertini e della Moratti. Certo questa sinistra presidia ancora i salotti borghesi, la cultura, l’editoria, le accademie: ma nella sua impotenza si fa gregaria acritica dei Santoro e dei Travaglio (che di milanese hanno proprio ben poco) e, giocando tra girotondi e sciarpe viola, coltiva e diffonde nient’altro che il rancore. Dall’altra parte c’è sì il maggioritario consenso moderato e pratico di chi da tempo ha scelto il male minore, ma con un ceto politico che appare “frenato”e subalterno in una corte monarchica che si è trasferita a Roma e che non riesce a rendere “milanese” lo Stato, quanto ad efficienza e riforme, e che Milano spesso trascura (vedasi Malpensa o le infinite polemiche sull’Expo). Il centro di Milano è il Duomo: è quasi simbolico che il presidente Berlusconi sia particolarmente amareggiato per essere stato colpito proprio a Milano, in Piazza del Duomo, e fatto abbondantemente sanguinare da un Duomo in miniatura. Segno che sta diventando elemento di divisione incanaglita quello che era per sua natura l’impronta dell’unità, fino a figurare sul panettone. Già


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«Sono bombe anarchiche. Ma non solo» Il magistrato Otello Lupacchini, esperto di terrorismo, parla dell’ordigno all’università di Riccardo Paradisi n magistratura dal 1979, consulente delle Commissioni Parlamentari d’inchiesta Antimafia e Mitrokin, Otello Lupacchini si è occupato, fra l’altro, degli omicidi del Pm Mario Amato, del banchiere Roberto Calvi, del professor Massimo D’Antona, nonché della strage di Bologna e del massacro brigatista di via Prati di Papa a Roma.

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Sulle Br Lupacchini ha scritto anche un libro Il ritorno delle Brigate rosse (Koinè editore) e di recente ha pubblicato Malagente (Cairo) un romanzo ambientato nei torbidi anni Novanta diTangentopoli, uno scenario che coinvolge servizi e procure, agenti segreti e pentiti gestiti senza scrupoli. Otello Lupacchini è un magistrato che ha strumenti raffinati per analizzare merito e contesto dell’attentato alla Bocconi di Milano, collegato dagli investigatori della Digos alla Cie di Gradisca di Isonzo a Gorizia. e rivendicato da ”Sorelle in armi- Nucleo Mauricio Morales/FAI”. Una delle tante sigle della galassia anarchica. Ma appunto chi sono questi anarco-insurrezionalisti che da anni punteggiano di bombe la cronaca italiana? «Sono una realtà divenuta inafferrabile – dice Lupacchini – anche se sono ormai molte le operazioni rivendicate dalle cellule anarcoinsurrezionaliste anche attraverso l’uso di esplosivo e libri bomba. Al sindaco di Torino Sergio Chiamparino recapitarono L’idiota di Dostoevskyij. Una tendenza retrò e al tempo stesso situazionista che non rende naif o meno pericolosi questi soggetti. Perché da loro ci si può sempre attendere l’escalation criminale. La pericolosità deriva dalla loro strutturazione non militarizzata, una realtà inafferrabile, liquida peraltro difficilmente infiltrabile dalle forze di polizia». Però attenzione, avverte il magistrato, questa organizzazione destrutturata non significa assenza di coordinamento e di regia. Lupacchini ricorda infatti che gli anarcoinsurrezio-

nalisti sono riusciti a compiere azioni coordinate a livello continentale. E poi «se questo tipo di organizzazione si presta a essere inafferrabile da parte delle forze di polizia potrebbero essere però infiltrate da soggetti interessati a fare invece i provocatori.Tanto più che c’è un’eterogeneità degli obiettivi che rendono molto ampia la gamma di intervento: gli anarcoinsurrezionalisti possono scegliere come terreno di lotta l’animalismo o l’intervento sul carcerario, possono colpire in nome delle politiche bancarie o delle politiche sociali. Non sempre riconducibili a dominatori comuni in un clima dove peraltro non ci sono più le grandi forze ideologiche». Dietro le sigle cangianti dunque potrebbe esserci un’organizzazione agile ma efficace. Ma qual è la regia? La centrale, se ce n’è una, che coor-

ni di piazza Fontana: «Con la gazzarra di piazza contro le autorità milanesi, addirittura il coinvolgimento nella contestazione dei parenti delle vittime. Nella cultura anarchica la cultura della bomba non è estranea. Nel romanzo di Konrad L’agente segreto vediamo la cellula anarchica guidata da un’ambasciata straniera che si orienta verso un’attentato a Greenwich: dove viene mandato uno psicolabile».Anche Massimo Tartaglia è uno psicolabile: «Tutto si tiene, ma vede questo non significa che dietro Tartaglia ci sia necessariamente qualcuno che lo ha mandato, affermare questo significherebbe scivolare nel delirio interpretativo. Certo però che la pressione ideologica, l’odio reiterato può spingere qualcuno a introiettare determinati con-

Se si abbandonasse la rissa frontale continua si potrebbero consolidare equilibri istituzionali. Prosciugando il mare in cui pescano gli estremisti

perché il Duomo non ha solo un significato religioso: non lo ricorda più nessuno, ma è l’unica cattedrale del mondo che non appartiene ai preti. Infatti la “proprietà” del Duomo è da sempre del 1popolo di Milano e della diocesi che lo volle e lo costruì pagandolo del suo». È di amministrazione laica e fino alla sciagurata riforma del fisco di Visentini, quando si pagava «l’imposta di famiglia» ai Comuni, i capifamiglia della diocesi corrispondevano volentieri una

dina o ispira queste azioni? «Non dobbiamo immaginare una grande Spectre. Le operazioni delle centrali anarchiche si svolgono su un livello continentale come gli attacchi a Jean-Claude Trichet e a Romano Prodi. Centrali organizzative che fanno partire degli input messi in atto da quelli che operano sul territorio. Ma sfugge la cinghia di trasmissione. Per tutti vale il paradosso del tribunale di Bologna che scarcerò tutti gli anarchici inquisiti nel 2006 a seguito dell’attentato a Prodi: non si sapeva che cosa ci fosse dietro». Ecco il paradosso degli anarcoinsurrezionalisti: visibili dal punto di vista ideologico ma polverizzati nel territorio, mimetizzati e dunque difficilmente individuabili. La bomba di Milano esplode nell’anniversario della morte di Giuseppe Pinelli e questo è un altro indizio dice Lupacchini: l’esplosione del resto è stata preceduta dalle vicende celebrative dei quarant’an-

vincimenti che innescano una reazione sconsiderata». Lupacchini non stabilisce un collegamento diretto tra l’attentato a Berlusconi e quello alla Bocconi. «Siamo di fronte a un indizio equivoco come si dice in gergo tecnico. Certo però che l’iperattività degli anarchici si iscrive sempre in un contesto di rottura degli equilibri sociali, in un’atmosfera di alta tensione». Una galassia dunque non strutturata quella neoanarchica, che strategicamente si propone uno spontaneismo di breve durata, nella tattica del mordi e fuggi. Ma per questo anche facilmente infiltrabile da chi ha in animo provocazioni.Torna lo spettro del doppio stato dei servizi deviati? «Non parlerei di doppio Stato. Ci sono situazioni però nelle quali l’equilibrio si può raggiungere attraverso l’entropia da parte di soggetti non meglio identificati.

piccola quota delle loro tasse alla Veneranda Fabbrica del Duomo. Chissà se si tornerà a questa saggia impostazione: ma era il modo pratico e concreto con cui tutti, cristiani e atei, baciapile e mangiapreti, si sentivano orgogliosi di casa propria. E intorno al Duomo, oltre che col lavoro e la possibilità di farsi una strada tutti alla pari, si trasformavano rapidamente in “milanesi” le migliaia e migliaia di immigrati da tutte le latitudini e da tutte le credenze.

Ora anche il Duomo (o meglio il suo sagrato) è stato violato, nel silenzio attonito e imbarazzato, dalla preghiera islamica in chiave anti-israeliana. E forse la Chiesa ambrosiana, che si consuma e si logora nell’accoglienza e nel soccorso benedetto a tutti gli ultimi in difficoltà, potrebbe ricordare che accogliere significa anche accertare la disponibilità a riconoscere l’impronta del luogo nel quale si arriva e lasciarsi coinvolgere nella sua vita e nella sua storia. O almeno co-

Mi spiego meglio: alla fine degli anni Ottanta s’è verificato un evento epocale. La caduta del regime comunista e la fine della guerra fredda. Determinate situazioni si sono dissolte ma determinate professionalità – come gli agenti segreti – si sono reimpiegate. Poche volte ci si chiede che fine hanno fatto strutture, beni, soprattutto uomini dei servizi occidentali o sovietici, eppure è una domanda che ci si dovrebbe porre. Ma queste sono riflessioni generali».

Nello specifico Lupacchini sostiene che il botto della Bocconi segnala la situazione di rottura di un equlibrio. «Che si sia rotto perchè qualcuno ha soffiato sulla protesta o perché qualcuno ha interpretato la situazione in modo così pessimista da voler creare ordine con il disordine non si può dire in assenza di prove e indizi. L’una ipotesi però potrebbe non escludere l’altra». S’è rotto un equilibrio, il Paese vive uno stato di fibrillazione e Lupacchini non se la sente di sottoscrivere tanto facilmente anche la fine delle Br. Non si spiegherebbe dice, per quale motivo i brigatisti continuano a venire arrestati: sono deiezioni di qualcosa d’esaurito, o sono nuove leve in fase di riorganizzazione?» E però se il cielo sopra di noi è di nuovo grigio la democrazia italiana secondo Lupacchini sarà in grado di superare anche questo nuovo autunno della sua ragione. «Una democrazia che in tutti questi anni è riuscita a resistere nonostante tutto a a questo tipo di tensioni è una democrazia forte. La democrazia però deve camminare sulle gambe degli uomini. Se si abbandonasse questo stato permanente di polarità frontale tra forze politiche, se si entrasse nella reciproca tolleranza, si potrebbero consolidare equilibri istituzionali sempre in bilico. Prosciugando il mare in cui pescano i mascalzoni che mettono bombe. Finché si reagisce razionalmente non si fa il loro sporco gioco». sì è sempre stato da Ambrogio, che non respingeva nessuno, in poi, lungo il corso dei secoli. Se Milano anticipa, anche per il Paese le prospettive non sono rassicuranti. A cominciare da Milano si aspetta un “medico”, magari un anestesista-rianimatore, che compare poco e opera molto. Che sappia sedare i rancori, isolando e sanzionando i violenti, e appunto “rianimare” la metropoli, prospettandole un destino coerente con la sua anima.


diario

pagina 6 • 18 dicembre 2009

Tempi supplementari. Il consiglio dei ministri autorizza una proroga alla sanatoria. L’aliquota cresce “soltanto” tra l’1 e il 2 per cento

Scudo, a caccia di altri 30 miliardi Tremonti si nasconde: «Ancora nessuna stima sulle entrate dell’operazione»

ROMA. Tempi supplementari per quello che Emma Marcegaglia ha definito «un male necessario». Ieri il consiglio dei ministri ha autorizzato la proroga chiesta da Giulio Tremonti per lo scudo fiscale. Se nella prima tranche si sarebbe recuperato una cifra più alta degli 80 miliardi di euro denunciati dal ministro, l’obiettivo finale dovrebbero essere i 110-115 miliardi stimati dalla maggioranza di centrodestra. Va da sé che se l’Erario – accanto ai 3,7 miliardi usati dal Tesoro per coprire le più svariate misure – si ritrovasse tra gli 1,5 e i 2 miliardi in più, a quel punto sarebbe impossibile per Tremonti negare nella prossima manovra di primavera un taglio all’Irpef, all’Irap oppure una diversa politica di detrazioni per le famiglie. Nel decreto Milleproroghe, licenziato 24 ore fa da Palazzo Chigi, è previsto che una prima estensione al termine ultimo per regolarizzare i capitali sarà fissata al 28 febbraio. Chi aderisce entro quella data alla sanatoria, pagherà un’aliquota del 6 per cento, un punto percentuale rispetto a quella attuale. Vengono confermati gli obblighi di trasparenza e le guarantigie (anonimato e autodenuncia sui soldi e sui beni da far rientrare) previsti nei mesi scorsi. Chi invece regolarizzarà i suoi capitali dall’estero entro il 30 marzo, pagherà un’aliquota del 7 per cento. L’obiettivo del governo dovrebbe essere quello di recuperare 30 miliardi di euro. Ma il ministro, come in passato,

di Francesco Pacifico

ne considerazioni. Ieri, attraverso una nota, l’Aipb (l’associazione italiana private banker) ha confermato le stime fatte dal suo presidente Paolo Molesini e comunicate nel corso del Forum del settore lo scorso fine ottobre. Che per la verità parlò di una forchetta tra gli 80 e i 100 miliardi di euro. Soprattutto l’Aipb ha annunciato che attraverso gli sportelli dei loro associati sono state concluse operazioni per 41,2 miliardi di euro. A detta degli esperti, il fatto

Stime opposte su quanto rientrato e reinvestito nell’economia reale. Timori sulle reali adesioni delle aziende. Boom di condoni per arte e gioielli non ha voluto rilasciare stime o commentare quelle in circolazione. «Anche questa volta», ha spiegato, «l’operazione è stata cifrata un euro». Intanto ci si interroga su quanto detto in questi giorni dal ministro. Su frasi come «la più grande manovra da 150 anni a questa parte» oppure «la maggior parte di capitali sono stati rimpatriati». In attesa che arrivino i primi dati ufficiali oggi e che nelle prossime settimane Banca d’Italia faccia chiarezza su come sono stati utilizzati i soldi dello scudo, è possibile fare alcu-

che soltanto la metà del riscosso totale sia passato per un intermediario fa temere che il grosso delle operazioni non abbia riguardato le aziende. Le uniche che possono riportare capitale da iniettare nell’economia reale. Racconta il titolare di uno dei maggiori studi di tributaristi italiani: «Con gli scudi precedenti, e che hanno portato all’emersioni beni e capitali per 78 miliardi, abbiamo registrato operazioni per 1,2 miliardi di euro. Questa volta siamo intorno a 2-3 miliardi». Taglie troppo piccole per le grandi

Confindustria: Pil nel 2010 +1,1%. Occupazione: -8,2

Ripresa sì, ma lenta ROMA. Se il futuro prossimo sarà all’insegna di una ripresa timida – 4 anni prima di tornare a correre come ai livelli precrisi – il presente parla di una disoccupazione sempre più alta.

Ieri prima il Centrostudi di Confindustria ha annunciato che il 2009 si chiuderà con un calo del Pil del 4,7 per cento, mentre nel 2010 e nel 2011 il segno positivo sarà rispettivamente dell’1,1 e dell’1,3. Quindi l’Istat ha comunicato che nel terzo trimestre 2009, rispetto allo stesso periodo del 2008, il numero degli occupati registra una riduzione dello 0,9 (-222mila unità). In totale la disoccupazione a ottobre ha raggiunto quota 8,2 per cento. Nel terzo trimestre 2009 sono stati 508mila i senza lavoro in più: under 35 tra precari ai quali non è stato rinnovato il contratto o postdiplomati che non riescono entrare nel mondo del lavoro.

Tornado alla crescita del Paese, Confindustria ha rivisto al rialzo le sue stime precedenti, rilevando che l’uscita dalla crisi sarà data principalmente dalle performance legati all’export (+4 e +4,2 per cento rispettivamente nel 2010 e nel 2011, dopo il -22 del biennio precedente). E se l’inflazione nel 2010 salirà all’1,4 per cento (per attestarsi al 2 nel 2011), i consumi cresceranno tra 12 mesi dello 0,8 e dell’1,3 tra 24 mesi.

Ma questo non basta a spazzare le tanti nubi che si annidano sul nostro futuro. «L’Italia», si legge nell’ultimo rapporto di viale dell’Astronomia, «era già in crisi prima della crisi. Non basterà superare la nottata della tempesta finanziaria per rimetterla in marcia. E, per questo, sta al Paese cambiare passo». Soprattutto per quando riguarda gli investimenti in conoscenza, capitale umano e ricerca.

aziende o multinazionali che si sperava di colpire. Tra l’altro l’Aipb fa notare poi che, rispetto alle precedenti due edizioni, «una parte importante del totale scudato ha riguardato immobili e quote societarie (in alcuni casi arrivando ad un rapporto uno a uno con gli importi finanziari) e per la prima volta sono stati regolarizzati anche opere d’arte e gioielli». Molti addetti ai lavori temono che le ottime condizioni garantite da Tremonti abbiano fatto presa più sui singoli risparmiatori che sulle aziende. Racconta un professionista: «Sono stati molti gli italiani che hanno approfittato della cosa per regolarizzare uno yacht, una casa all’estero oppure delle stock option pagate da società straniere». Ma i nodi fondamentali per capire se quella dello scudo è stata un’operazione vincente, sono soprattutto due: quanta parte cash all’estero e davvero rientrata (e non soltanto regolarizzata) e dove questa liquidità è stata reinvestita.

Spiega Tommaso Di Tanno, ordinario di diritto tributario all’università di Siena e in passato tra i principali consulenti dell’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco: «Tutta questa operazione è stata condita da una certa alterazione della verità. Intanto Tremonti dovrebbe specificare quanti soldi davvero rientreranno in Italia. E soltanto allora potremmo parlare di un’operazione epocale. Perché al momento non lo è». Il tributarista e tra i massimi esperti del settore aggiunge: «Questo non è uno strumento per combattere i paradisi, perché per fare questo occorre un’organizzazione e tecniche di polizia tributaria che la nostra Agenzia delle entrate non ha. Altrimenti quelli che hanno i maggiori patrimoni all’estero non verranno mai a dirlo allo Stato». Sempre l’Aipb nella sua nota fa notare che «le masse gestite dal private banking tornano ai livelli del 2007 al netto dell’effetto scudo: 361 miliardi». E che la clientela diminuisce le posizioni liquide a favore dell’amministrato e del gestito. Se questo è il trend, c’è il rischio che in azienda sia rientrato poco e che il grosso segue il corso dell’equity o del mattone. Altro che l’agognata economia reale.


diario

18 dicembre 2009 • pagina 7

Un affare da 70 miliardi che modifica il mercato

Avrebbero avuto a che fare con lui nel reparto penitenziario del Pertini

Un colosso delle vendite: la Coin compra Upim

Caso-Cucchi: altri tre medici indagati per omicidio colposo

VENEZIA. Il gruppo Coin ha raggiunto un accordo - con un consorzio formato da Investitori Associati, Pirelli Re, Deutsche Bank e la Famiglia Borletti - per l’acquisto del 100% del capitale sociale di Upim, in cambio di una quota del 7,5% del capitale di Coin. È previsto che la quota venga assegnata con un aumento di capitale riservato e, in minor misura, attraverso l’utilizzo delle azioni proprie detenute in portafoglio. Il closing dell’operazione dovrebbe avvenire entro gennaio 2010. Upim, con vendite nette per 430 milioni di euro, è presente sul territorio nazionale con 135 negozi diretti con il marchio Upim e 15 negozi con il marchio BluKids, oltre ad una rete gestita in franchising con più di 200 negozi. L’acquisizione - afferma una nota - consentirà di acquisire una posizione di leadership nel settore dell’abbigliamento in Italia e di aumentare l’efficienza operativa del gruppo Coin ottimizzando le risorse e le competenze a disposizione.

ROMA. Quasi ogni giorno, ora-

La partecipazione del 7,5% destinata agli azionisti Upim sarà soggetta ad un periodo di lock-up di 24 mesi a partire dalla data di esecuzione del contratto. Al termine l’azionista di maggioranza della Coin

«Basta con l’Ilva»: Taranto spaccata dal referendum Schemi saltati: con i Verdi c’è anche la Cgil ma non i comunisti di Ruggiero Capone

TARANTO. Si respira una bella arietta per i vicoli della Taranto vecchia, come del resto nel periferico agglomerato di Statte. E sembra proprio che il rigore invernale sia destinato ad essere riscaldato dagli animi dei tarantini. Soprattutto dopo il sì del Tar al referendum consultivo per la chiusura dell’Ilva. «Decida Taranto»: così i giudici amministrativi di Lecce hanno accolto il ricorso degli ambientalisti, dando tre mesi al Comune per organizzare il voto e, nel contempo, condannando l’amministrazione tarantina per aver snobbato le istanze di “Taranto Futura”, associazione promotrice della consultazione popolare. Un paio di giorni fa, al grido «meglio disoccupati che inquinati», un gruppo di studenti, capitanato da insegnati e responsabili d’associazioni ambientaliste, attraversava il corso principale di Taranto. Poi costeggiava villa Peripato e, mentre sembrava disperdersi tranqullamente, veniva folgorato dalle urla primitive d’un passante. Chi sarà mai? Soprattutto, che vorrà? «Taranto va bonificata»,spiega un insegnate che appoggia il comitato di Fabio Matacchiera (padre dell’ambientalismo tarantino senza se e senza ma), «dall’Ilva, dall’industrializzazione, dalla cultura che il reddito familiare possa determinarsi solo ed esclusivamente dalla produzione industriale, sia grande che mediopiccola».

te degli attuali occupati, che sarebbero adibiti a bonificare una immensa area». «E chi paga la bonifica?», ribattono Vendola, Pdl, Pd, Udc e altre liste moderate. Verdi e ambientalisti non rispondono più, e affidano il verdetto a referendum e tribunali. Così il Comune di Taranto prende tempo. «Si al referendum ma non in concomitanza delle Regionali», può sintetizzarsi così quanto deliberato in Consiglio. Insieme con un emendamento al regolamento del referendum, con il quale s’estende l’interpretazione del Testo unico degli Enti locali: quest’ultimo vieta le consultazioni referendarie in concomitanza con elezioni locali. L’emendamento che rafforza il principio di «non concomitanza» è passato, quindi al momento (in attesa di ricorsi più che probabili) il referendum, sulla chiusura totale o parziale dell’Ilva, non si terrà durante le Regionali.

Intanto la cittadinanza sta a guardare, aspettandosi ogni giorno una nuova mossa del comitato promotore del referendum, soprattutto del suo leader, Nicola Russo. L’assessore regionale all’Ecologia, Michele Losappio, il presidente delle Pmi di Puglia Cosimo Romano e il segretario della Cgil di Taranto Luigi D’Isabella hanno già espresso la propria contrarietà al referendum. Le repliche però non sono mancate: «Il referendum è un diritto costituzionale, che permette ai cittadini di esprimere il proprio parere: nel caso del referendum Ilva, si traduce nel diritto alla salute di tutti», ribadisce Fabio Matacchiera. L’avvocato Russo, che presenta l’iniziativa ambientalista, dice che «la gente deve sapere, perché non è giusto che si continui a tacere». Mentre il dottor Mazza, ematologo del comitato ambientalista, ha reso pubblici i dati sulle sindromi acute riscontrate sui bambini per via dell’aria avvelenata. Serpeggia il malessere sociale tra italsiderini e commercianti, lo si respira nei bar come nelle sedi pubbliche. E dopo che l’avvocato Russo ha mostrato sulle tivù locali la sentenza del Consiglio di Stato che ha dato ragione alla Regione Liguria per la chiusura dell’area“a caldo”dell’Ilva di Genova, il prefetto ha invitato tutti alla calma. Difficile, davvero, da mantenere.

Anche Vendola contro il fronte ecologista. E il Comune, incerto tra salute e lavoro, fa saltare l’election day con le Regionali

avrà diritto a esercitare un’opzione d’acquisito per la durata di 90 giorni ad un corrispettivo pari a 70 milioni di euro. Gli accordi tra le parti prevedono inoltre che prima del perfezionamento della transazione l’indebitamento finanziario netto di Upim sia ridotto, rispetto a quello al 30 settembre 2009, per 52,5 milioni di euro e che vengano raggiunti con altri creditori di Upim accordi volti a ridurre ulteriormente l’indebitamento della società. Inoltre, a sostegno dell’operazione, è previsto che Carpaccio Investimenti - socio di riferimento della società - conceda a Coin un finanziamento soci per un ammontare di 26,5 milioni.

mai, nuovi tasselli del “casoCucchi”si aggiungono ai precedenti. La nuova notizia è che ci sono altri tre medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre scorso, sotto inchiesta da parte della procura di Roma per l’ipotesi di reato di omicidio colposo. I loro nominativi, secondo quanto si è appreso, stanno per essere iscritti nel registro degli indagati su iniziativa dei pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, titolari dell’inchiesta giudiziaria. A questi sanitari gli inquirenti sono arrivati dopo un ulteriore esame della cartella clinica del giovane romano. Da

Posizioni piuttosto dure che hanno spinto la stessa Cgil a sostenere più volte il referendum. Mentre c’è odore di lotte e spaccature nella sinistr, tra ambientaliti e partiti comunisti: la posizione di questi ultimii è di difesa del salario degli operai siderurgici, mentre i Verdi appoggiano la chiusura immediata dell’Ilva «senza se e senza ma». Posizione che ha spinto il presidente della Regione Nichi Vendola a rispondere agli ecologisti: «Non si può chiudere una fabbrica come si chiude la porta di casa». La posizione di Vendola è in questo caso gradita anche al Pdl e a tutti gli esponenti delle formazioni moderate. «Contestiamo nel merito e nella sostanza le parole di Vendola», ribattono gli ambientalisti, «posti di lavoro non se ne perdono, sarebbe solo necessario cambiare mansioni per la maggior par-

quella documentazione sarebbe emerso che i tre hanno avuto a che fare con il detenuto nel reparto penitenziario del Sandro Pertini.

Questi ulteriori indagati si aggiungono a tre colleghi dello stesso ospedale (a loro volta iscritti per omicidio colposo) e a tre agenti della polizia penitenziaria in servizio nel tribunale di Roma (omicidio preterintenzionale). Stefano Cucchi arrivò all’ospedale come detenuto del carcere Regina Coeli di Roma. Il suo arresto avvenne tra la notte del 15 e 16 ottobre, quando fu trovato nel Parco degli Acquedotti, sempre nella Capitale, con addosso venti grammi di droga. Portato in carcere con l’accusa di spaccio, il giovane geometra romano è morto solo sei giorni dopo in circostanze ancora non ben definite. Le gravi lesioni riportate e le foto scattate al momento dell’autopsia, divulgate anche dai mass media, evidenziano un corpo irriconoscibile di un uomo che, a tutti gli effetti, sembrerebbe essere stato pestato a morte. Durante gli interrogatori molti testimoni (tra cui alcuni medici del Pertini e il direttore di Regina Coeli, Mauro Mariani) hanno dichiarato che entrato in prigione Stefano riportava già delle gravi lesioni (al collo e alle vertebre).


mondo

pagina 8 • 18 dicembre 2009

Clima. Gli Stati Uniti offrono 100 miliardi di dollari ai Paesi del Terzo Mondo, ma non è così che si riduce l’inquinamento del pianeta

Dagli orsi ai black bloc Il flop di Copenhagen tra retorica, errori scientifici e manipolazione dei dati di Carlo Ripa di Meana segue dalla prima Un forte contributo in questa direzione è venuto anche da Barack Obama. E così una capitale ben organizzata e dieci lunghi giorni a disposizione hanno prodotto un autentico flop. Ma è comunque preferibile un fallimento ad un cattivo compromesso, ammesso che ce ne sia ancora il tempo. Le parole di Obama hanno fatto spesso miracoli, ma mi pare che la sua capacità di illusionista si stia riducendo: nel caso global warming infatti non ha avuto dalla sua tutto il Congresso. Quanto alla proposta avanzata dall’amministrazione americana per bocca di Hillary Clinton (gli Usa darebbero 100 miliardi di dollari ai Paesi del Terzo Mondo per ab-

battere le loro emissioni), si iscrive nella politica dei doni, tentando di occultare il mancato impegno degli Usa. Probabilmente i destinatari di questa cifra saranno contenti, ma il problema non si risolve certo così.

Non sono infatti le emissioni dei Paesi emergenti a costituire il problema. Se si vuol abbattere l’inquinamento del pianeta bisogna cominciare col farlo negli Usa, in Cina e, a seguire, in India, in Messico, in Brasile. La Conferenza ha constatato molte cose importanti di cui occorrerà tener conto. Prima di tutto è emerso che non è all’ordine del giorno la fine della civiltà industriale basata sul carbone, che include la siderurgia, la metalmeccanica, la petrol-

chimica. La carbon free non è pronta. Il potere politico infatti non ha imboccato la strada del nucleare che è il modo vero per ridurre il Co2. Si è visto che la green industry è molto esile: lo costatiamo con un pizzico di ironia proprio nel momento in cui propongono una nuova generazione di biciclette con pedalata assistita, messe a punto da un italiano.

Non voglio buttarla sullo scherzo, l’argomento è troppo serio, ma occorre riconoscere che non si vive di reti digitali intelligenti, peraltro carissime, che dovrebbero sostituire tutti gli elettrocondotti, le grandi reti energetiche eccetera. Non basta che l’Enel abbia delle tecnologie per chiudere nelle minie-

re dismesse il Co2 in eccesso. La conferenza di Copenaghen è nata ed ha sviluppato in modo abnorme le attese sulla base di una cattiva cultura. Non so ancora come finirà, ma Al Gore ha già proposto di fare un nuovo summit in Messico a metà dell’anno. Anche lì non succe-

derà però nulla di nuovo, se non verrà rimossa la teoria della responsabilità umana global warming. Se vogliamo fare davvero qualcosa, dobbiamo compiere uno scrupoloso approfondimento scientifico del problema e smetterla di consegnarci agli apocalittici di pro-

Le Conferenze internazionali diventano sempre più spesso passerelle per i dittatori di tutto il mondo

Hugo, Mahmoud e gli altri. Lo show dei regimi COPENHAGEN. Non solo Barack Obama, Angela Merkel, Gordon Brown e Nicolas Sarkozy. La Conferenza Onu di Copenhagen sul clima è anche un palcoscenico per dittatori. Che non si fanno sfuggire l’occasione per puntare il dito contro gli Stati Uniti e il resto delle nazioni industrializzate, accusate di aver portato il mondo sull’orlo del disastro ambientale in nome del Dio capitalista. Lo ha fatto martedì mattina il presidente venezuelano Hugo Chavez, chiedendo giustizia per i popoli sfruttati e sostenendo che «se il clima fosse una banca, una banca capitalistica, l’avrebbero già salvata». Dimenticandosi però che il suo Paese, dove l’industria petrolifera rappresenta un terzo del Pil, non è esattamente un modello di sviluppo sostenibile. Nel pomeriggio della stessa giornata è intervenuto il “compagno” Robert Mugabe, presidente di uno Zimbabwe devastato dal suo regime che dura da quasi trent’anni. «Abbiamo di fronte delle economie dominanti basate un modello sbagliato e distruttivo dell’ambiente che aspira a governare il mondo», ha sostenuto Mugabe, chiedendosi perché «i Paesi colpevoli del Nord del mondo non mostrano lo stesso spirito fondamentalista che applicano ai nostri Paesi in via di sviluppo sui diritti umani

di Alvise Armellini sulla questione più urgente dei cambiamenti climatici». E poi il vecchio presidente 85enne si è scagliato contro «le sanzioni illegali imposte unilateralmente dall’Occidente contro lo Zimbabwe», che gli impediscono di mettere piede in Europa salvo in caso di eventi sotto egida Onu. Lo stesso “salvacondotto” è valso per Mahmod Ahmadinejad, rieletto lo scorso giugno dopo uno spargimento di sangue tra i manifestanti che contestavano il risultato delle elezioni.

Ieri il presidente iraniano ha risparmiato alla sua platea danese l’antisemitismo che in passato lo aveva spinto ad invocare l’eliminazione di Israele «dalla scena geografica mondiale», lanciandosi invece nella retorica anticapitalista. «Gli Stati Uniti, con il 5 per cento della popolazione mondiale, consumano il 25 per cento del petrolio e dell’energia, oltre il 18 per cento del legname e il 14 per cento delle risorse idriche», ha sottolineato, accusando Washington di aver basato la propria politica estera nel corso degli ultimi cent’anni sullo sfruttamento delle risorse energetiche del resto del mondo. «È chiaro - ha continuato Ahmadinejad - che le attuali condizioni climatiche sono il risultato di un sistema di pensiero basato su convincimenti egoistici e megalomani prevalenti in alcuni Paesi».

La soluzione, secondo la visione del leader di Teheran, arriverebbe soltanto «se le società seguissero i valori e gli insegnamenti dei profeti».Quindi è necessario formare «un gruppo di lavoro» per elaborare «un criterio di felicità e benessere» basato sugli insegnamenti divini, creare «un nuovo sistema economico» che non punti più sul consumismo, obbligare i Paesi ricchi «a rispettare i loro obblighi internazionali» e tagliare drasticamente le spese militari degli Stati Uniti. «Non potremmo rispettare gli obiettivi di questa conferenza dimezzando il bilancio militare degli Usa?» ha insistito Ahmadinejad, chiedendo a Washington di tagliare da 250 a 50 miliardi di dollari le spese per la ricostruzione dell’Afghanistan, destinando le risorse ricavate alla riduzione delle emissioni di Co2. E ha concluso ribadendo il diritto di tutti i Paesi a sfruttare «fonti di energia pulite e rinnovabili», a partire dal nucleare che l’Occidente teme possa venire utilizzato da Teheran per lanciare una bomba contro Israele. Parole in libertà, che sicuramente non influiranno sull’esito di un negoziato che rimane appeso alla contrapposizione tra Cina e Stati Uniti, le due principali potenze economiche del mondo. C’è solo da sperare che nella giornata di oggi si trovi la quadra di un accordo onorevole. Altrimenti quella di Copenhagen potrebbe passare agli annali come l’ennesima passerella per Mahmoud, Hugo e compagni.


mondo

18 dicembre 2009 • pagina 9

Fra scettici e ottimisti, oggi i 120 leader si riuniscono per firmare i risultati

Lo scontro Hillary-Wei apre lo sprint finale di Vincenzo Faccioli Pintozzi

fessione. A Copenhagen proprio questa è mancata, e quindi è diventato insensato favorire l’arrivo di decine di migliaia di giovani da tutto il mondo. L’unico effetto che si è raggiunto è stato quello di eccitarli e di lanciarli contro la polizia, guidati dai black bloc. Le questioni da affrontare per essere risolte hanno bisogno prima di tutto di buona scienza e non del piagnisteo, per giunta talora violento, sull’ingiustizia economica. In questo quadro l’Europa deve ripensare a chi affidarsi, non può mettersi nelle mani

è scoppiato uno scandalo sovranazionale. Basta leggere l’Herald Tribune di lunedì dove si ricorda che «al seguito delle rinnovabili arrivano le frodi». E si citano fra i Paesi dove sono avvenute illegalità: Italia, Spagna e Portogallo.

Lo smacco è terribile. Non si può continuare a percorrere piste sbagliate. Ci si romperebbe la testa. Chi ha posto il problema nel modo giusto è il presidente ceco Vaclav Klaus. L’Italia deve prepararsi ad una stagione di smascheramento del

Se vogliamo fare davvero qualcosa, serve uno scrupoloso approfondimento scientifico del problema. Smettiamola di consegnarci alle lobby di tendenza e agli apocalittici di professione delle lobby di tendenza del Cancelliere dello Scacchiere, di un maturo Principe ereditario, degli enarchi di Parigi e di Legambiente e Greenpeace a Roma. Così si crea solo frustrazione e retorica. In Italia, ad esempio, un’opinione diversa esisteva: basta vedere cosa hanno scritto liberal e ilFoglio e le analisi del centro Bruno Leoni. Ci sono poi illustri scienziati: da Antonino Zichichi a Franco Prodi, a Franco Battaglia. E anche nel mondo politico non è mancato lo scetticismo, basti pensare il presidente della Commisione Ambiente del Senato, Antonio D’Alì. Lo stesso governo è apparso fra i meno demagogici e dogmatici: penso ad alcune obiezioni che all’inizio dell’anno vennero dal ministro Prestigiacomo e dallo stesso Berlusconi. Nonostante ciò però l’Italia non ha giocato alcun ruolo. Non ha pesato. Vorrei ricordare poi che sull’eolico

grande circo che è stato creato. La green economy riconosca che per il momento è largamente chimerica. Dobbiamo chiedere verifiche esterne alle analisi dell’Iccp, che ha dato vita anche a delle vere e proprie manipolazioni. Prima di Copenaghen dovevamo organizzare in Italia, a Volterra, un incontro che ponesse la questione del pianeta in modo diverso. Volevamo invitare Vaclav Klaus, uomini politici come Casini e D’Alì, numerosi grandi scienziati e tutti coloro che a livello internazionale sono scettici sul global warming. Questo convegno avrebbe dovuto contestare le basi scientifiche di Copenhagen. Purtroppo non è stato fatto. Qualcuno ha pensato che non che non ce l’avremmo fatta a mettere in discussione i presupposti scientifici del vertice sul clima. I fatti hanno dimostrato che avremmo dovuto organizzare proprio questo.

COPENHAGEN. È abbastanza ironico che, a una Conferenza sul riscaldamento climatico, cali il gelo. Eppure è quello che è avvenuto ieri a Copenhagen, dove si sta svolgendo l’atteso - per alcuni “storico” - summit sui cambiamenti ambientali convocato dalle Nazioni Unite. E, al di là dell’inaspettata nevicata che ha imbiancato la capitale danese, il gelo era palpabile anche fra le varie delegazioni presenti. Che, dopo l’ultimatum e l’abbandono temporaneo delle trattative da parte dei Paesi in via di sviluppo - crisi poi rientrata - stanno correndo contro il tempo per presentare oggi una bozza che metta d’accordo i capi di Stato e di governo che dovranno firmarla. Nella notte, infatti, la Cina ha fatto sapere di non vedere «alcuna possibilità di raggiungere un accordo operativo in questa settimana» e ha suggerito di limitarsi a una «breve dichiarazione politica di qualche genere». La notizia è stata poi smentita dal primo ministro di Pechino Wen Jiabao che, con un comunicato, ha ribadito che «la Cina ha tutto l’interesse a raggiungere un accordo giusto ed equo» per tutti. E in queste parole potrebbe contenersi la trappola tesa per seppellire l’accordo una volta per tutte. La Cina contesta infatti il ragionamento che vuole sullo stesso piano tutte le nazioni, e chiede agli Stati Uniti tagli superiori rispetto a quelli degli altri Paesi: la motivazione è data dal quantitativo di Co2 emesso dagli Usa - primi inquinatori al mondo - e dal fatto che lo sviluppo industriale dei “poveri” è fondamentale per la loro sopravvivenza economica. In ogni caso, il dubbio verrà sciolto oggi, quando nella capitale danese arriverà anche l’attesissimo presidente americano, Barack Obama. Il suo Segretario di Stato, Hillary Clinton - nell’insolita veste di battistrada obamiano - ha detto ieri che gli Stati Uniti «sono disposti a dare il loro contributo allo sforzo globale per il fondo da 100 miliardi di dollari annuali fino al 2020 per aiutare i Paesi poveri a adottare tecnologie pulite».

to lo scrutinio della legge e dei media». Ma nei negoziati la Cina si sta opponendo in tutti i modi all’idea di ogni qualsiasi controllo o ispezione internazionale sui livelli delle emissioni dei gas serra. La Casa Bianca, preparando l’arrivo del protagonista più atteso, spiega che «un accordo vuoto sarebbe molto peggiore di nessun accordo», mentre la presidenza danese ha fatto sapere che non presenterà una proposta ufficiale di accordo e, in un tentativo in extremis di salvare il summit, ha annunciato la creazione di due gruppi di lavoro.

In partenza da New Delhi, il premier indiano Manmohan Singh ha contribuito ad accentuare il pessimismo ripetendo che «l’India non accetterà alcun accordo sul clima che rallenti i suoi sforzi per alleviare la povertà di

La Clinton rilancia il fondo di sostegno per i Paesi in via di sviluppo e chiede a Pechino “trasparenza” nel controllo sulle emissioni. La Cina ribatte: «Ognuno pensi alla propria situazione»

Ma ha anche puntato l’indice contro la Cina, facendo capire che l’impegno statunitense «non sarà possibile senza la trasparenza», ovvero se Pechino insisterà nel voler impedire le verifiche sul proprio territorio per il controllo delle emissioni di Co2. «Dopo anni di diplomazia - ha detto la Clinton - gli Usa sono pronti a fare i passi necessari per raggiungere un accordo completo e operativo». Gli risponde dopo poche ore il vice ministro degli Esteri, Hu Yafei, che sottolinea: «La Cina si impegna a tagli trasparenti delle emissioni dei gas serra, ma non accetterà una supervisione internazionale diretta. Noi promettiano di rendere le nostre azioni trasparenti, promettiano che la loro applicazione avverrà sot-

milioni di persone». Il nodo è sempre lo stesso: i Paesi ricchi si contrappongono a quelli emergenti e a quelli più poveri sulle entità dei tagli delle emissioni di Co2 e sugli aiuti da destinare alle economie più deboli. Il sudanese Stanislaus Lumumba Di-Aping, portavoce del G77 dei non allineati, ha chiesto che «si cominci a negoziare dal documento di Kyoto, che per anni è stato l’elemento della discordia tra Pvs e gli Usa, che non hanno mai ratificato il protocollo». Per quanto riguarda l’Unione europea, sempre più frammentata fra delegazioni e rappresentanze varie ed eventuali, spicca la posizionei del Cancelliere tedesco Angela Merkel, che prima di partire per Copenhagen (dove è arrivata nel pomeriggio di ieri) ha ammesso che le notizie provenienti dal summit «non sono buone». La leader tedesca, che rappresenterà all’incontro anche il primo ministro italiano Silvio Berlusconi, ha espresso la speranza che l’arrivo dei leader alla Conferenza Onu «possa sbloccare i negoziati, attualmente in stallo. Attualmente i negoziati non sono promettenti ma certamente mi auguro che la presenza di oltre 100 capi di Stato e di governo possa dare il giusto impulso all’evento». Oggi avremo la risposta.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Salviamoci dalla Rete cattiva maestra opo l’aggrerssione al presidente del Consiglio, sono nate due scuole di pensiero su Internet e la violenza: quelli che dicono che c’è bisogno di dare una stretta alla Rete perché non si può tollerare che si inneggi alla violenza e al male; e, viceversa, quelli che sostengono che non bisogna censurare la libertà di espressione che va in onda sulla Rete. È quasi superfluo aggiungere, ma evidentemente lo aggiungiamo, che sia la prima scuola sia la seconda scuola di pensiero hanno i loro buoni motivi.

D

La Rete è effettivamente uno spazio di libertà pressoché assoluta e il suo fascino e la sua forza, ma forse anche il suo utilizzo e la sua funzionalità dipendono proprio da questa libertà illimitata o quasi. Andare a incidere su questa libertà virtualmente assoluta utilizzando la censura significherebbe modificare anche la funzione di Internet. D’altra parte, una prima forma di controllo e censura non ha certamente atteso l’aggressione al capo del governo e gli inneggiamenti folli e violenti alla mano di Massimo Tartaglia: la Rete è già ora passata al vaglio di un controllo e di un filtro per evitare che su quello schermo portatile e così estremamente “liquido” passino immagini, informazioni, comunicazioni di cui potrebbero essere vittime soprattutto bambini, fanciulli, ragazzini e minori in genere. Internet è per molti versi un mondo a parte e un’avventura selvaggia, ma se entra con estrema facilità e velocità nelle case e nella vita delle famiglie, forse, la sua selvatichezza e la sua alterità dovranno pur fare i conti con la civiltà. O no? Forse, capita ad Internet ciò che accadde già alla televisione. Anche il piccolo schermo ad un certo punto fu messo sotto accusa e un grande filosofo come Karl Popper la indicò come una “cattiva maestra”: un suo scritto, peraltro noto in Italia ben più dei libri più importanti del filosofo viennese, recava proprio questo titolo - Cattiva maestra televisione - ebbe un gran successo e lanciò quella che alcuni definirono una provocazione ma che, invece, Popper pensava come una concreta proposta: la patente per chi fa televisione. Sul modello della critica popperiana si potrebbe parlare di «cattivo maestro internet« o «Rete, la seconda cattiva maestra». Ciò che diceva Popper era semplice e condivisibile: il potere educativo della televisione è enorme e siccome è soprattutto diseducativa è bene che ci sia una patente per chi fa la televisione come c’è una patente per chi guida un’automobile. Ebbene, la stessa cosa si può ripetere per Internet: ha un potere educativo enorme e influisce in maniera negativa sulla vita dei più giovani (ma non solo). La società italiana di pediatria proprio oggi presenta a Pisa la ricerca annuale sulle abitudini e gli stili di vita degli adolescenti e il risultato odierno era prevedibile: la vita dei più giovani è letteralmente nelle mani della Rete e della televisione. Al di là dell’aggressione al premier, è questo il “dato”che ci deve far riflettere, ma anche agire.

Ru486, ecco perché contraddice la legge 194 Con la pillola l’aborto torna ad essere un fatto “privato” di Luca Galantini o stop imposto dalla Commissione Sanità del Senato alla procedura di immissione in commercio della pillola abortiva Ru486 ha provvidenzialmente riproposto in termini legislativi la drammatica questione della centralità della vita umana. La Commissione Sanità si è appellata alla necessità di ulteriori pareri scientifici che siano in grado di garantire la assoluta compatibilità tra il complesso normativo della legge 194 che disciplina l’aborto in Italia e la pratica della Ru486. Come ha opportunamente sottolineato il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, in una materia di legge così nodale come la tutela della vita umana è eticamente doveroso che prevalga il principio di precauzione, in virtù del quale l’interesse primario al bene comune della società civile impone che un tale strumento abortivo non venga adottato sintantoché non si raggiunga la ragionevole scientifica certezza che non leda la salute fisica e psichica della donna.

L

vista dall’art.2, è sovente aggirata in nome di una spicciola cultura veterofemminista sessantottina che afferma semplicisticamente - e disumanamente - il diritto di eliminare «un grumo di sangue chiamato embrione» (Mariuccia Ciotta, il Manifesto, 29.12.2005).

Ora la drammatica leggerezza con cui attraverso la legge si legalizza la cessazione di una vita umana ha raggiunto il suo parossistico vertice: l’introduzione dell’uso della pillola Ru486 rende ancor più vuota la prospettiva del valore di una vita umana, banalizzandola in una asettica pratica chimica da svolgere sbrigativamente tra le pareti di una struttura ospedaliera e nella solitudine del proprio bagno di casa . Questa nuova pratica appare in contrasto con tutto lo spirito della legge 194, nata – si disse – con lo scopo di socializzare l’aborto, di evitare che rimanesse un evento privato, solitario, clandestino, in particolare con l’art.15 della legge 194/78, che impone l’adozione delle tecniche più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna durante l’interruzione di gravidanza. Accanto ai noti e mai smentiti pericoli per la salute fisica e psichica della donna che comunque il governo non potrà non considerare debitamente, anche nell’ipotesi di ricovero ospedaliero per l’attuazione della pratica abortiva attraverso la Ru486 - come conferma il Sottosegretario Roccella - si erge tuttavia come uno spettrale macigno sulla coscienza del legislatore il dramma che si consuma in Occidente, ove la legge sempre più spesso diventa lo strumento nefasto per scardinare - e non viceversa garantire - i presupposti etici e valoriali delle leggi della società civile.

Come diceva anche Amato, quella norma era ipocrita perché contraddiceva le sue stesse premesse. E adesso è anche peggio

Perché troppo spesso si omette di rammentare che proprio nel dettato normativo della stessa legge 194 la tutela della salute e del bene della maternità è al centro delle procedure ospedaliere di aborto. Già, ma qual è il bene della maternità, e qual è il bene della persona umana che è in gioco? Con mestizia bisogna riconoscere che quando si parla di aborto – o meglio, di interruzione volontaria della gravidanza, come la legge 194/78 definisce con glaciale indifferenza la cessazione di una vita umana – pochi siano consapevoli che non si tratti di un diritto assoluto, quanto piuttosto di un’opzione, una dolorosa opzione che la legge consente. Sono trascorsi oltre trent’anni da quando il legislatore ha “istituzionalizzato” quest’opzione, che certamente ha contribuito a “socializzare”l’aborto, ad evitare che per la donna rimanesse un evento clandestino, traumatico, ma che altrettanto certamente non ha eliminato quel fardello immenso di dolore che si accompagna ogniqualvolta una vita umana si spegne. Come anche un intellettuale laico e alieno al mondo cattolico ebbe a riconoscere, Giuliano Amato, la legge 194/78 in verità è una legge ipocrita perché si è rivelata un comodo strumento maltusiano di limitazione delle nascite, in barba al dettato dell’art.1; è una legge ipocrita perché la funzione di informazione e assistenza preventiva alla donna affidata ai consultori al fine di superare le cause che inducono all’aborto, funzione pre-

Smontaggio pezzo per pezzo del concetto di famiglia come società basata sul matrimonio e sul diritto naturale, rimozione del concetto di sacralità ed intangibilità della vita umana, utilizzazione strumentale degli embrioni secondo logiche eugenetiche che richiamano l’empirismo darwinista della legge della giungla – vinca il più forte, morte al più debole -, schizofrenica cesura tra l’identità sessuale secondo natura della persona e identità di genere che l’individuo si attribuisce a suo piacimento. Se c’è una battaglia culturale per cui valga la pena impegnarsi è proprio quella del ricerca delle radici del valore antropologico della vita: con buona pace per quella classe politica che troppo spesso confonde la laicità con il laicismo.


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La direzione del Pdl ha deciso di cedere alla Lega due Regioni. Ora il Pd è di fronte al dilemma delle nuove alleanze

In Veneto scoppia il caso Galan Il governatore licenziato dalla maggioranza pensa di candidarsi comunque di Gaia Miani

VENEZIA. «Bossi e Berlusconi hanno fatto in Veneto le svendite di fine anno perciò se Galan rompesse con il Pdl, l’Udc sarebbe disposto ad appoggiare una sua candidatura». Antonio De Poli, segretario regionale dell’Udc in Veneto, ha commentato così, ieri, la decisione di Pdl e Lega di non presentare alla guida della Regione Veneto l’attuale governatore Giancarlo Galan, ma un candidato scelto dalla Lega Nord (alla quale è stato assegnato anche il candidato alla regione Piemonte). E che cosa farà allora il governatore uscente?

Dopo le primissime dichiarazioni a caldo, esternate due giorni fa subito dopo aver appreso la notizia («non candidarmi è peggio di un tradimento»), nel pomeriggio di ieri, interpellato dalle agenzie di stampa che gli chiedevano le sue prossime mosse, Galan ha dichiarato che comunque «sono solo trascorse appena poche ore dalle mie dichiarazioni sulla mancata candidatura e mi vedo costretto a precisare che quanto deciderò sul mio futuro sarà annunciato al termine del periodo di riflessione che mi sono riservato». Intorno al governatore uscente, c’era da aspettarselo, si sono scatenati i più disparati commenti politici, chi di solidarietà, chi di corteggiamento nel caso della formazione di eventuali liste,

chi pure di polemica. Il presidente della Provincia di Belluno, Gianpaolo Bottacin (Lega Nord), ieri ha dichiarato: «Sono convinto che il leone Galan, che tanto ha fatto per questa Regione, pur ferito non chinerà la testa. Avrà da tempo già considerato un “piano B” per il suo

tura alla regione Veneto assegnata alla Lega «non sarà un dramma, come invece dice Galan». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti (ospite di Un caffè con... di Skytg24), riferendosi alla delusione del governatore ha più pacatamente augurato una futura soluzione che magari possa mettere d’accordo tutte le parti in causa: «Galan - ha sottolineato ieri Bonaiuti - è stato un ottimo governatore e manifesta la sua delusione. Però ci sono esigenze di alleanze e abbiamo con la Lega un’allenza salda. Sono convinto che troveremo una soluzione come sempre abbiamo fatto, troveremo la quadra». Da parte sua il Partito democratico deve costruire la sua proposta programmatica per la Regione. Rosanna Filippin, segretario del Pd del Veneto, è convinta che il Partito democratico debba lavorare sodo «per allargare il consenso sul Veneto a tutte le forze politiche e civili responsabili, contrarie a consegnare la regione al populismo della Lega. Stiamo inoltre lavorando - ha aggiunto Filippin - all’individuazione di una candidatura che nascerà nel territorio e che non sarà certo frutto di accordi romani, come è stato per il centrodestra. Perché, a differenza del centrodestra che sbandiera il federalismo per poi farsi

«Bossi e Berlusconi lo hanno svenduto», dice l’Udc De Poli. «Se lascerà il Pdl, noi staremo con lui» futuro, nel caso il candidato regionale fosse andato alla Lega Nord, come è avvenuto». l presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, il leghista Edouard Ballaman, parlando con i giornalisti ha aggiunto che la candida-

imporre le candidature da Roma, noi il territorio lo ascoltiamo e lo rispettiamo davvero». Intanto, per il Carroccio, in pole position per la candidatura alla presidenza della Regione Veneto ci sarebbe il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia (ma ci sarebbero anche il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’attuale vicepresidente della Regione, Franco Manzato). Il nome del candidato leghista dovrebbe essere annunciato probabilmente tra sabato e domenica.

La scelta sul ministro Zaia risulterebbe la più probabile anche perché, negli ultimi giorni e più volte, il dicastero dell’agricoltura sarebbe stato offerto al governatore uscente, Giancarlo Galan, che però avrebbe rinviato al mittente l’offerta “compensativa”. «La politica ha i suoi tempi. Quindi decideremo con calma - ha spiegato Il segretario veneto della Lega Nord Paolo Gobbo Ci consulteremo con Bossi e poi valuteremo il gradimento del Pdl». Qualunque sarà la decisione, in Regione non si esclude una “lista Galan” all’interno del Pdl, per contrastare la straripante messe di voti prevista per il Carroccio alla prossime elezioni di marzo 2010, promossa dal consigliere regionale del Pdl Dario Bond.

Scosse. Si contano i danni a Marsciano e restano aperte le ferite della cattiva ricostruzione del 1997

Perché l’Umbria trema ancora di Riccardo Paradisi Umbria ha chiesto che per il Distretto sismico della Valle del Tevere sia dichiarato lo stato di emergenza. Lo ha fatto con una lettera del Presidente della Giunta regionale, Maria Rita Lorenzetti, al capodipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nella quale «con riferimento in particolare anche ai danni privati ed ai costi notevoli per il ripristino delle condizioni di sicurezza per la viabilità e le persone, si richiede la dichiarazione dello stato di emergenza per tutto il territorio del distretto sismico della Valle del Tevere».

L’

1997 e ora, con più lieve intensità, lo scorso 15 dicembre. Le scosse che avevano devastato l’Abruzzo avevano fatto sentire nell’aprile scorso i propri effetti anche in Umbria, nel ternano soprattutto ma coinvolgendo anche il capoluogo umbro. Per questo si era attivato a Perugia, all’inizio dell’estate, un team di ingegneri, geometri e geologi che dopo un’analisi sul territorio perugino concludevano che molti quartieri del capoluogo umbro – il centro storico, Madonna alta e Fontivegge – potrebbero risentire gravemente di eventuali scosse. La mappa del rischio di un’eventuale terremoto a Perugia è molto estesa. Circa l’84% degli edifici risultano realizzati prima del 1985 e quindi, ad eccezione di quelli costruiti tra il 1982 e il 1985, senza il rispetto della normativa an-

A Perugia la mappa del rischio è estesa. L’84% degli edifici risultano realizzati senza normativa antisismica

Un rituale questo della richiesta dello stato di emergenza che in Umbria si ripete a cicli fissi. La regione infatti è stata colpita da diverse ondate sismiche: nel 1982, nel

tisismica. Il 12% dei fabbricati è di recente costruzione e pertanto costruiti nel rispetto della normativa antisismica. Insomma si capisce perché l’Umbria dopo le ultime scosse si senta di nuovo profondamente minacciata.

A questo si deve aggiungere che anche la qualità e i ritardi della ricostruzione dopo l’ultimo sisma degli anni Novanta avevano lasciato ferite profonde nel tessuto umbro. Nell’aprile dello scorso anno a Foligno – città particolarmente colpita dal terremoto del ’97 – il tribunale ha fatto un sopralluogo su edifici che ad un anno dalla fine dei lavori di ristrutturazione cadevano a pezzi. Per questo in Umbria si ha paura della natura ma anche della cattiva politica.


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a religione cristiana per l’Occidente non è una semplice coccarda da mettere sul bavero della giacca. Il concetto di libero arbitrio e il Cristo morto sulla croce sono legati indissolubilmente allo spirito di libertà che ha permeato il mondo anglosassone, l’America e poi un parte dell’Europa per secoli: le sue istituzioni, l’arte, la cultura, la lingua, il diritto e le tradizioni. Un Dio che vuole che l’uomo “scelga” il bene, che sia buono per volontà e non per natura, è un messaggio rivoluzionario. Non poteva rimanere senza ricadute dirette nelle cultura, nella tradizione filosofica e politica dei Paesi che l’hanno abbracciato e declinato nella storia. Sembra un paradosso ma la libertà nasce sulla Croce, così come la separazione tra terra e cielo. Essere al centro del dibattito politico per tanto tempo ha richiesto al cristianesimo, di ogni coté, di elaborare teorie sofisticate, in grado di soddisfare non solo le grandi trasformazioni del mondo, ma capaci di resistere alle critiche più feroci. Lo strutturalismo sembra ormai al tramonto, ma negli Usa è montata una nuova polemica, oseremmo dire un po’ meno “sofisticata”. Questa volta legata alla grande crisi finanziaria, poi diventata economica, che ci ha portato a uno dei più lunghi periodi recessivi della storia moderna. Il fuoco alle polveri è partito da una rivista di area democratica - meglio dire liberal - The Atlantic Magazine.

L

Una pubblicazione nata come Atlantic Monthly nel 1857 a Boston. È indirizzata a un pubblico di lettori esperti, che potremo definire come classe dirigente americana e tratta questioni legate alla politica estera, all’economia, ma anche alle nuove tendenze culturali. Un recente articolo titolava «È stato il cristianesimo la causa della crisi?». Insomma una provocazione che ha fatto alzare più di un sopracciglio - forse dovremo parlare di levata di scudi - nelle cosiddetta bible belt, grande serbatoio

Il mensile “liberal” all’attacco: «Il crack causato dai promotori del “Vangelo della prosperità” che hanno moltiplicato gli effetti negativi di un capitalismo senza limiti etici e funzionali» di voti repubblicani. Insomma l’intervento si domanda come e perché il «Vangelo della prosperità» abbia influito, promosso, sostenuto e moltiplicato gli effetti negativi di un capitalismo che di per sé ha dimostrato alcuni limiti etici e funzionali. La risposta è arrivata a stretto giro di posta, da un’altra rivista legata a un think tank più conservatore, l’American Enterprise Institute. Dalle colonne di The American si è cercato di rispondere in maniera intelligente, dando a Cesare quel che è di Cesare, è il caso di dire. La critica è assolutamente legata alla realtà statunitense, alla presenza e al seguito che hanno avuto in certi periodi del secondo dopoguerra alcuni telepredicatori. Ma nasce su di un terreno fortemente religioso che può aiutare a capire meglio l’America, soprattutto se la

L’accusa è di aver manipolato i passaggi della Bibbia dove si parla di una “ricca

Cristo si è ferma La rivista democratica “The Atlantic” attribuisce al cristianesimo la responsabilità della crisi. Ma da destra arriva la risposta di “The American” di Pierre Chiartano si osserva dalla sponda orientale dell’Atlantico. L’accusa (The Atlantic) nei confronti di questi “pastori” di un capitalismo sconsiderato è di aver manipolato alcuni passaggi della Bibbia, dove si parlava di una terra promessa, ricca e prospera. La difesa (The American) ribatte che nessuno che conosca bene il testo sacro della cristianità potrebbe prendere sul serio una simile teoria. Ma non ha alcuna importanza, perché la maggior parte dei seguaci di questi predicatori catodici non ha mai studiato la Bibbia seriamente. Non sarebbe un

fenomeno nuovo. Sono secoli che alcune correnti cristiane promuovono l’idea che Dio possa premiare la fede con la ricchezza e la prosperità. Cadrebbe così un primo assioma della requisitoria, che legge il fenomeno di questa interpretazione creativa del Vangelo come apparso ex nihilo. Si tratterebbe, in realtà, di un fiume carsico della fede settaria e spezzetta-

ta negli Usa - che riemergerebbe periodicamente. Da una parte i conservatori ne ammettono l’esistenza, dall’altra negano che abbia mai avuto nella storia alcun collegamento fattuale con crisi finanziarie o recessioni economiche.

«Il Vangelo della prosperità ha

avuto una fase calante negli anni Ottanta, con la crisi di alcuni lancia-sermoni. Ma questo non ci avrebbe salvato da crisi di mercato - dopo un decennio di disintossicazione - come quella del 1997 o del Duemila». Non solo, ma la crisi del 1929 e la Grande depressione furono precedute addirittura dal Movimento dell’evangelismo sociale. Tutto il contrario dei fiumi di miele o della mano del Signore che si muove in vece di quella “invisibile” di smithiana memoria. Pauperismo puro e duro. Insomma bolle speculative e crisi conseguenti sarebbero legate più al concetto d’irresponsabilità che a quello di Spirito Santo. Greg Forster firma di The American e autore dell’arringa cartacea, si spinge oltre. «Legare questa particolare interpretazioni del Vangelo alle crisi finanziarie, sarebbe come attribuire il crash di Aol all’elezione di Vladimir Putin o alla vittoria dei Rams prima volta in mezzo secolo - al Super Bowl». In pratica si tratterebbe di una corrente di fede minoritaria rispetto al mainstream cristiano e spesso parassita, rispetto alla verità rivelata delle sacre scritture. Dove c’è accordo fra le due tesi è sulla profonda influenza della cultura e della fede cristiana nel modellare un sistema economico. Nessun collegamento a specifici eventi, ma una condivisione dei valori di fondo che ne costruiscono le fondamenta. E di come una certa arrendevolezza della cultura cristiana del Paese possano aver spianato la strada a delle cattive abitudini.

Consumismo, decadimento morale, corruzione politica e cattivi costumi sono spesso le voci di un lungo elenco che gli stessi uomini di fede americani indicano come alla base del disastro economico in cui ci troviamo. Ma - spiega la rivista conservatrice - ciò che più ha influito sul de-


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a” terra promessa. La difesa: «Nessuno può prendere sul serio questa teoria»

ato a Wall Street?

cadimento dei costumi in economia sarebbe lo scarso coinvolgimento della cultura cristiana nel voler insegnare una via di fede per lo sviluppo e la gestione della ricchezza. Insomma cristiani colpevoli, ma per assenteismo. E dentro ci sarebbero non le sette declinate in migliaia di regole, ma la principale corrente evangelica e la Chiesa cattolica romana. Quindi prima di lanciare accuse contro Wall Street - suggerisce Forster -– servirebbe guardare «dentro di noi». Superare «l’inerzia culturale» che avrebbe portata la Chiesa a un cedimento catastrofico nell’insegnamento biblico e nella formazione teologica di una coscienza laica. In breve, le generazioni precedenti riuscivano a mantenere meglio una prospettiva della vita legata agli insegnamenti biblici, quando si allontanavano dal contesto religioso. Le fede veniva applicata in ogni aspetto della vita.

Nel lavoro soprattutto. Ed è questa fondamentalmente la tesi dei conservatori dell’American Enterprise. Ricominciare a «pensare in termini biblici riguardo l’economia». Certo la moltiplicazione dei pani e dei pesci potrebbe fuorviare, ma l’approccio religioso alla vita, nella società americana, è qualcosa da prendere seriamente, battute a parte. La base del ragionamento è non considerare i soldi e il lavoro come degli elementi non estranei alla fede. Le sacre scritture affermano che l’uomo sia stato creato a immagine e somi-

La replica conservatrice: «Sono secoli che alcune correnti religiose promuovono l’idea che Dio possa premiare la fede con la prosperità. E non c’è alcun nesso con l’ultimo collasso dei mercati finanziari» glianza di Dio. Una parte di questa affermazione significa che l’uomo è dotato di una mente creativa che gli indica come è giusto fare le cose e di un corpo che gli permette di farle. Gli economisti chiamano questa abilità «capitale umano». Quindi l’uomo è nato per essere creativo e per accudire il mondo attraverso questa sua capacità. È questo che potremmo definire «il mandato culturale» degli esseri umani. Una missione che può essere portata a termine attraverso il lavoro. Citando gli evangelisti Luca e Paolo loro attribuivano a Gesù questa frase: «I lavoratori meritano il loro salario». Quindi Dio non ha mai promesso ricchezze e prosperità, ma qualcuno può raggiungerle. Basta che non lo faccia con la deificazione del denaro, che trasformi i soldi da mezzo a fine. In pratica il lavoro permetterebbe di utilizzare i nostri “talenti” in maniera proficua. Anche il concetto di peccato ha delle implicazioni dirette nel nostro modo di costruire i sistemi economici.

L’intero ordine del creato ha subito un cambiamento a causa del nostro essere peccatori. Ciò ha delle conseguenze sul mondo e anche sulla natura umana. Il peccato ha fatto sì che sulla terra l’uomo non possa mai ottenere piena soddisfazione in nessun ambito, che le cose le debba ottenere con sofferenza, che debba lavorare duramente per ottenerle. Gli economisti chiamano questo fenomeno «scarsità» e l’economia è la scienza che spiega la risposta umana al fenomeno della scarsità. La cura del creato avviene attraverso il superamento della scarsità che si ottiene per mezzo del lavoro produttivo. Gli economisti - un tempo i fisiocrati - chiamano questo processo «creazione di valore» o «creazione della ricchezza» che diventano una sorta di imperativo morale da perseguire per gli uomini, secondo la visione di Forster. Insomma, per semplificare molto, il tentativo di leggere la Bibbia in una maniera utile per poterla coniugare con i comportamenti dell’homus economicus, utilizza una serie di passaggi. In ognuno di questi la mano invisibile di Adam Smith sembra perdere la forma terrena e prendere le sembianze spirituali della mano del Signore.

L’egoismo che ci porta a perseguire solo il nostro interesse e la cura di noi stessi, si trasforma. «Ama il tuo prossimo come te stesso» ne diventa la nuova chiave di lettura. La cifra per rompere il diaframma di un universo economico

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totalmente secolarizzato. Il grimaldello che ci permette di seguire la fede anche trattando obbligazioni e certificati di credito. Sì, ma come? L’amore che dobbiamo nutrire per gli altri nasce dall’amore che abbiamo per la nostra persona. Il fatto che il mio lavoro sia pagato, non diminuisce il fatto che attraverso il mio talento all’opera io mi metta al servizio degli altri. Si pensa erroneamente che un sistema economico debba basarsi sulla «cupidigia», oppure un «egoismo liberato», che sia questa la benzina che spinge la macchina della creazione della ricchezza. Niente di più sbagliato, per i nuovi interpreti della Bibbia che rispondono alle accuse della rivista The Atlantic. «Sarebbe l’anarchia». Ma come si fa a gestire il confine tra cupidigia e la naturale cura dell’uomo per se stesso e la sua famiglia? Arrivano due risposte. La prima assomiglia tanto – in apparenza – a quella data dallo strutturalismo, ovvero cambiamo la testa della gente. Facciamoli diventare altruisti. Si può fare, attraverso l’educazione, in famiglia, nelle scuole e nelle chiese. Le politiche economiche non possono fare nulla per ridurre l’invidia sociale, l’egoismo e la cupidigia. È un dato prettamente culturale.

Così arriviamo al secondo metodo. Occorre punire chi danneggia gli altri col proprio egoismo, e premiare chi, invece, si mette al servizio altrui. In questo caso la politica può agire con l’uso della legge. E poi, ecco il meccanismo che più di tutti gli altri sarebbe l’anello di congiunzione tra mondo spirituale e gestione del vil denaro. La democrazia dei consumatori - quale è quella statunitense - piegherebbe anche i più incalliti egoisti all’altruismo. Le imprese che fanno più soldi sono quelle premiate dai consumatori. Chi si mette al servizio del consumatore guadagna. In questa maniera chi vuole solo trarre beneficio per sé dal proprio investimento, finisce per legarsi alle imprese al servizio di chi acquista. Insomma, come fregare gli egoisti. Infine arriva il capitolo della Redenzione. I testi sacri ci insegnano che mostrarsi servili verso i ricchi o commendevoli verso i poveri sia sbagliato. La ricchezza o la sua mancanza, non sarebbe segno di merito. Siamo tutti peccatori e degni di merito alcuno. Punto. Legare la proprietà delle cose al merito della persona è sbagliato e contrario a ciò che insegnano i testi sacri. Chi lavora merita il salario solo per il lavoro che svolge, il carattere della persona è irrilevante in proposito. E la svolta a favore del Vangelo sociale è una perenne tentazione. Quando abbiamo scelto all’inizio dell’altro secolo per una sua interpretazione da sinistra è stato un disastro. Quando alla fine del secolo abbiamo optato per la sua versione di destra (il conservatorismo compassionevole) il risultato è stato altrettanto negativo. La Bibbia non contiene certo un piano per gestire l’economia di una nazione, come la politica non è l’aspetto più importante della nostra vita. Seguire la religione può aiutare a formare una coscienza individuale impermeabile alle aberrazioni della cultura utilitaristica. Guardare all’uomo come fine e non come mezzo aiuta a non considerare gli individui come “unità economiche”. È il filtro benefico che attenua il nostro naturale egoismo, con buon pace dei redattori di The Atlantic.


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Balcani. Tra cinque anni cade il centenario della prima Guerra mondiale. Ma Sarajevo sarà ancora esclusa dall’area Schengen

Arriva la Slavina Domani l’Ue apre i confini a serbi, macedoni e montenegrini. In attesa di Bosnia e Albania di Laura Delsere la svolta di un’epoca per lo spazio ex jugoslavo. Dal 19 dicembre serbi, macedoni e montenegrini entreranno senza visto nella Ue. Anche Bosnia e Albania sono nella lista bianca di Schengen ma con via libera da luglio 2010, una volta adempiuti i circa 50 requisiti di Bruxelles: varchi di frontiera potenziati, passaporti biometrici, cooperazione tra le polizie sono «riforme che rendono l’Europa più sicura e i visti inutili» ha detto Giuliano Amato, oggi nel board di European Stability Initiative. Con Slovenia e Croazia già in area Schengen, per far tornare i Balcani occidentali in Europa manca però il Kosovo, privo perfino di una road map sui visti. In tre Stati è la fine delle file alle ambasciate. Ma segna un riavvio della storia europea, dopo anni di stallo, dovuto alla “fatica dell’allargamento” tra i 27, ma anche ai contenziosi bilaterali nei Balcani. Il nuovo slancio viene dal trattato di Lisbona, con le sue fondamenta istituzionali più adatte all’espansione. Ma i visti a più velocità hanno alzato anche nuovi muri a Sud-est: «La Ue lascia al freddo i Paesi più fragili, che hanno vissuto le tragedie peggiori» per l’europarlamentare verde Daniel Cohn Bendit. L’attesa

È

nell’area ex-jugoslava è in un sondaggio Gallup, su un campione di 1.000 interpellati per Paese: la liberalizzazione dei visti è “la priorità regionale” (88%) con la “lotta alla corruzione” (86%). Seguite, per lo sviluppo del Sud-est, dal commercio transfrontaliero, dalla costruzione di più ponti e varchi di frontiera tra i Paesi, dall’estradizione dei criminali di guerra. Per gli osservatori, non ci sarà emigrazione di massa dalla regione dopo il 19 dicembre. Molti sono troppo poveri o anziani per partire, con i giova-

nella Ue dei 27. Da notare però che Berna ha appena votato il blocco di lavoratori europei extra-Ue. Storicamente sono gli albanesi a emigrare di più. Ma a Sud-est da anni le partenze sono in calo, specie in Montenegro e Kosovo, gli ultimi Stati a proclamare l’indipendenza. Ma per la vicinanza geografica, il 60 per cento afferma rientrerà in due anni.

Nei blog dei Balcani si parla di visti quanto di calcio e politica, indica Gallup. Svolta attesa, perfino mitizzata. E ritorno al

Su 24,7 milioni di residenti nei Balcani occidentali, il 21 per cento vorrebbe emigrare. Ma solo il 17 lo farà entro il 2010, cioè 720mila: di cui solo 120mila “sicuri” di partire per Usa e Ue ni per lo più già emigrati. Anche per Gallup0, su 24,7 milioni di residenti nei Balcani occidentali, il 21 per cento vorrebbe emigrare. Ma solo il 17 lo farà entro il 2010, cioè 720mila, di cui solo 120mila “sicuri” di partire. Verso le prime 4 maggiori destinazioni europee, gli analisti Gallup contano 15mila potenziali arrivi in Germania, 13mila in Usa, 12mila in Italia e altrettanti in Svizzera. In totale 70mila. Pochi a fronte dei 3,5 milioni di emigrati annui

passato. Dal 1967 il regime di Tito consentiva liberi spostamenti agli jugoslavi,“privilegiati” rispetto al Patto di Varsavia. «Scambiammo la democrazia con lo shopping di jeans ad ovest», ha scritto la giornalista Slavenka Drakulic. «Caduto il comunismo, la Polonia aveva Solidarnosc, la Cecoslovacchia Havel, noi non avevamo un’opposizione democratica. Il nazionalismo era l’alternativa, con Milosevic e Tudjman che rivendicavano l’identità etnica anziché riforme democratiche e di mercato». Così a novembre 1993, mentre entrava in vigore il trattato di Maastricht, a Sud-est cadeva Vukovar, prima di una serie di città-martiri. Nel dopoguerra la Ue puntò sulla stabilità, non sull’integrazione. «Ma ora è tempo di una Salonicco 2» per Christophe Solioz, ceo del think tank Ceis (Centre for European Integration Strategies), verifica della conferenza 2003 che affermava «il futuro dei Balcani è nella Ue». Oggi l’area è avviata all’adesione: la Croazia sarà nella Ue dal 2011, la Macedonia attende la data dei negoziati, la valutazione del Montenegro è in corso, con la richiesta dell’Albania, Serbia e Bosnia si preparano all’Asa (Accordo di stabilizzazione e asso-

ciazione). Non il Kosovo, dove la Ue lavora allo state building. Tra gli sponsor regionali c’è l’Italia.«L’Europa tenga aperte le porte ai Balcani - ha ribadito il Presidente della Repubblica Napolitano - senza riserve e ripensamenti». In primo piano i corridoi di trasporto, la finanza (solo in Serbia è italiano il 25 per cento delle banche e il 44 delle assicurazioni) e l’energia: dal gas alle rinnovabili, per le quali - dice la Bocconi - sono previsti 27 miliardi di euro di investimenti italiani nell’area entro il 2020.

Festa in strada a Skopje il 14 ottobre 2009, quando la Commissione Ue ha raccomandato una data per i colloqui di adesione. Diventa così più urgente risolvere la questione del nome (per ora Fyrom, Repubblica ex jugoslava di Macedonia), da cui dipende anche l’ingresso nella Nato. Il blocco è nel veto opposto da Atene, che teme ambizioni territoriali sull’omonima regione settentrionale greca. Ma la hidden diplomacy è in moto. La Macedonia è stata sull’orlo della guerra civile nel 2001. Oggi il 40 per cento di macedoni e albanesi ritiene che le relazioni tra i due gruppi nazionali siano migliorate. Tuttavia è il Paese ex jugoslavo dove, per Gallup, resta più alto il timore di nuovi conflitti. La capitale Skopje è nel cuore dei

delicati equilibri post-jugoslavi, a 15 chilometri dal Kosovo e a 30 dalla Serbia. Dopo un +5.5 per cento nel 2008, il pil 2009 chiuderà al -1 per cento. Culla della cultura slava e dell’alfabeto cirillico, porterà nella Ue una multiculturalità a base di chiese e minareti, con l’hajj (pellegrinaggio) alla Mecca parte della cultura nazionale.

Indipendente dal 2007, dopo la secessione pacifica da Belgrado ha fatto passi avanti. Resta però il marchio delle mafie e del riciclaggio, «su cui serve più volontà politica» ha stigmatizzato la Ue. Addirittura, per il think tank Us Congressional Reasearch Service, che fornisce rapporti al Congresso di Washington, il ruolo della criminalità nel Paese, «è in grado di ostacolare i processi di integrazione Nato e Ue». Intanto a inizio dicembre l’Alleanza atlantica ha dato il via al Piano d’azione per l’adesione del Montenegro. Ma ai moniti Ue l’esecutivo risponde con pressioni sui media indipendenti. La Commissione si pronuncerà a primavera 2010, ma il premier Milo Djukanovic si dice «sicuro che a fine 2010 il Paese otterrà lo status di candidato». Non mancano reazioni nella società, come il parziale boicottaggio delle amministrative da parte dell’opposizione o le proteste studentesche. Sotto osser-


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l’era Schengen, Fly Niki, EasyJet ed Emirates sono tra le compagnie aeree low cost che entro il 2009 avvieranno voli diretti per Belgrado, nuovo hub balcanico.

Indignati, ma con il loro governo, i bosniaci ancora in attesa: «I politici non hanno fatto abbastanza per ottemperare alle richieste Ue, e questo per restare al potere il più possibile» vazione anche le minoranze: i serbi sono 1/3 della popolazione, e uno su 4 tra loro dichiara di voler partire. Pesa anche la situazione economica, col pil passato nell’ultimo anno dal 6,4 per cento a zero. «Dopo il Muro di Berlino, ci siamo mossi in direzione opposta alla storia, dall’unione alla divisione. Almeno ora cadrà il muro della

libera circolazione» ha detto il presidente Tadic. Il 75 per cento dei serbi non è mai stato all’estero. “Per i politici è un bene che da vent’anni non conosciamo nulla di meglio” scrivono i giovani su www.needvisa.net, epopea on line degli europei di sud-est in cerca di visti. Rimandare ancora l’integrazione serba potrebbe portare a cambi di

direzione nella politica estera e di sicurezza di Belgrado. Il processo di adesione è bloccato dai Paesi Bassi, che lo scongeleranno all’arresto di criminali di guerra come l’ex generale Ratko Mladic. Il veto potrebbe ammorbidirsi, tuttavia il 51 per cento dei serbi è contrario all’arresto dell’ex ufficiale. Dopo il precedente di Kosovo e Montenegro, Belgrado ha appena concesso forte autonomia alla Vojvodina, non senza timori di nuove secessioni. In preda a disoccupazione dilagante, vanta però un ruolo chiave nell’area per Bruxelles e Mosca, quale motore (con Zagabria) dell’integrazione regionale, nodo energetico e commerciale. Col nuovo traffico passeggeri del-

All’appello manca l’Albania, in lista d’attesa. Membro Nato e secondo Paese a maggioranza musulmana dopo la Turchia a bussare alle porte Ue, è stato, sotto Hohxa, un regime tra i più chiusi al mondo, modello Corea del Nord. Così oggi i visti sono un’ossessione collettiva, cavalcata spregiudicatamente in campagna elettorale. Politicamente non paga spiegare l’Europa come un obiettivo da costruire in Albania, meglio farne una “terra promessa”. Così Tirana ha reagito anche con vittimismo al posticipo dei visti: «Esclusi 3 Paesi musulmani: Albania, Kosovo e Bosnia» recitavano alcuni titoli. Sullo sfondo, l’atmosfera di accresciuto nazionalismo panalbanese dopo l’indipendenza del Kosovo. Intanto dal 26 novembre, la Turchia ha revocato il visto per chi viene da Tirana. Nel Paese più euroentusiasta dell’area, il pil 2009 è al 2 per cento, nonostante la recessione globale.Anche la Bosnia è rimasta tra i “senza-visto”, ma il ‘no’ è solo per i musulmani, con croati e serbi agevolati dal doppio passaporto. «Il governo non ha fatto abbastanza per ottemperare alle richieste Ue» commenta Enisa Bukvic - presidente della comunità bosniaca in Italia - e dietro l’indifferenza dei politici potrebbe esserci l’intento di restare al potere il più possibile, e consolidarsi con la paura e le divisioni etniche», come con le minacce di secessione della Repubblica Srpska. «I visti Ue sarebbero stati un segnale fondamentale prosegue Bukvic - e in grado di ridimensionare i partiti nazionalisti. Così invece avremo nuovi muri e la frustrazione dei bosgnacchi esclusi, dopo le sofferenze sempre vive della pulizia etnica e degli stupri, è molto forte». Da notare che il business annuo dei visti in Bosnia è 25 milioni di euro. Ma ora c’è amarezza sulla stampa anche per il referendum svizzero antiminareti, «segno che la multireligiosità abituale nei Balcani non è benvenuta». I titoli sono sulla prossima “sparizione della

Bosnia”, perché le norme sui visti aumenteranno la frammentazione etnica e il timore di violenze. «È un incredibile errore politico» per l’ex Alto Rappresentante della Comunità Europea in Bosnia, Schwarz-Schilling. Il quotidiano Dani è uscito con la foto di Sarajevo durante la guerra titolando: «Assediati di nuovo». Per il croato Novi list: «con un passaporto serbo in tasca il boia di Srebrenica Ratko Mladic potrà viaggiare nella Ue senza visto, le sue vittime no». La Bosnia è uno Stato debole oggi, ma non un failed State. E ad ottobre è stata eletta al Consiglio di sicurezza dell’Onu per il 2010 e 2011. Ma più il sogno Ue si allontana, più potrebbe destabilizzarsi.

Per il Kosovo, l’esclusione è rappresentata da una grande K stampata sul passaporto, in segno di discriminazione. È la provocazione della stampa di Prishtina, contro l’assenza di criteri per i visti al Kosovo, riconosciuto da 22 dei 27 Stati Ue. «Con i miliardi di euro impiegati nel piccolo Stato, l’Unione potrebbe avviare queste riforme - ha detto Giuliano Amato - riducendo i rischi di un nuovo ghetto». Le norme sui visti per i serbi escludono quelli del Kosovo, ma sul fiume Ibar il divieto è considerato facilmente aggirabile, spostando la residenza a Belgrado o Novi Sad. «Avrà gli effetti di una pulizia etnica» per l’Assemblea dei comuni serbi in Kosovo, e sarà in contraddizione con l’obiettivo Ue di un Kosovo multietnico. Sarà più forte la “fuga” dalle campagne, poco sicure e senza lavoro. Intanto Prishtina ha negoziato accordi di riammissione con Belgio, Germania e Svizzera per facilitare l’abolizione del visto. Tra 5 anni, l’Europa si misurerà con il centenario dallo scoppio della Prima Guerra mondiale, ad agosto 2014. Facile immaginare che sarà Sarajevo il centro delle celebrazioni, per riavvolgere il nastro di un secolo di guerre in Europa. Allora Sarajevo sarà ancora capitale di uno Stato senza sviluppo, o è possibile che i leader Ue useranno l’anniversario per annunciare l’integrazione riuscita dei Balcani occidentali nell’Unione? Passa anche dai visti di oggi questa nuova visione.


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Storie. Imbarazzo per Asmara, mentre Nairobi valuta la richiesta di asilo uga per la vittoria. Il film con Sylvester Stallone e Pelè ha fatto scuola. È successo in Africa, dove a cogliere un’occasione sportiva per dileguarsi è stata una nazionale quasi intera. Dodici calciatori dell’Eritrea in occasione di una partita in Kenya non si sono ripresentati per tornare in patria. E non è neanche la prima volta. I dodici giocatori della nazionale di calcio dell’Eritrea, scomparsi nel nulla a Nairobi qualche giorno fa, hanno chiesto asilo politico alle autorità locali che stanno ora studiando la possibilità di riconoscere loro lo status di rifugiati. Un funzionario del governo kenyano ha dichiarato che non possono tornare a casa perché rischiano di essere uccisi. Prima della partenza per il Kenya, i giocatori avevano dovuto giurare al governo eritreo che sarebbero ritornati in patria senza problemi. Racconta la Bbc che gli eritrei erano stati eliminati la scorsa settimana dalla Cecafa Senior Challenge Cup, una competizione a cui partecipano i Paesi dell’Africa orientale e centrale. Quando sabato l’aereo della squadra è tornato a casa, a bordo c’erano soltanto il commissario tecnico e un dirigente. L’accompagnatore della squadra ha aspettato invano all’aeroporto, ma i calciatori non si sono presentati. Alla fine il jet è partito senza di loro. A Nairobi la comunità eritrea è folta e tra loro molti sono gli espatriati in fuga dal regime di Asmara. Per questo sarà molto difficile rintracciare i dodici atleti scomparsi, probabilmente ospiti di amici o parenti, o comunque di altri dissidenti. È la terza volta che la nazionale eritrea, invitata a qualche competizione internazionale, rifiuta di tornare in patria. Il segreta-

F

Fuga per la vittoria nel Continente Nero La Nazionale di calcio eritrea si nasconde in Kenya per sfuggire al regime di Afeworki di Aldo Bacci

trea non è comparsa neanche una riga della notizia. Dopo però la conferma delle autorità sportive nazionali e internazionali, anche il governo eritreo non ha potuto tirarsi indietro. L’ammissione, il commento e le belle promesse che suonano di minaccia sono arrivate per bocca del ministro dell’Informazione Ali Abdu:

Gli africani erano stati eliminati la scorsa settimana dalla Cecafa Senior Challenge Cup. Sull’aereo per il ritorno c’era solo l’allenatore rio generale della Cecafa, Nicholas Musonye, ha confermato la scomparsa dei ragazzi: «Sono sicuramente a Nairobi, qui abbiamo tanti eritrei e devono essere da qualche parte». Ha aggiunto che accerterà i fatti e consegnerà alla polizia un resoconto. Musonye ha commentato che «la federazione eritrea ha fatto del suo meglio per allestire una squadra per il torneo, sfortunatamente i ragazzi avevano altre idee». Inizialmente dal governo di Asmara erano arrivate solo smentite e sulla stampa eri-

«Non è una buona notizia ha dichiarato alla Bbc - ma comunque se decideranno di rientrare in patria riceveranno un caloroso benvenuto, sebbene l’abbiano tradita. Questa è la loro casa dove possono tranquillamente vivere e lavorare». La reazione governativa ha destato sarcasmo nella diaspora eritrea, nella quale i dissidenti scappati con fughe rocambolesche - come racconta Massimo Alberizzi sul Corriere della Sera - sostengono che chi torna in Eritrea finisce direttamente in galera o

L’Eritrea ha una posizione strategica

Un Paese in lite con tutti n Paese chiave in lite con tutti. Per la sua posizione strategica sul Mar Rosso l’Eritrea si trova ad essere l’epicentro di molti interessi, e a dover scegliere in che modo perseguirli. Per ora sembra che il regime abbia scelto la via della durezza e della violenza, sia all’interno che all’esterno. Dei suoi vicini nessuno è rimasto immune da guerre che hanno coinvolto l’Eritrea. Il conflitto maggiore dopo la lotta d’indipendenza è quello con l’Etiopia, una guerra che tra il 1998 e il 2000 ha causato 80 mila morti e che periodicamente si riaccende. Nel 2008 è stata piccola ma aperta la belligeranza con Gibuti, con scontri di confine e vittime per un piccolo territorio conteso. Asmara è in conflitto anche con lo Yemen per la sovranità

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sulle isole Hanish. Anche per questo a volte Asmara è stata accusata di sostenere alcuni ribelli yemeniti, e d’altra parte l’accusa viene ripetuta per l’appoggio a diversi gruppi ribelli nella regione, dall’Etiopia al Sudan fino soprattutto alla Somalia. Nella guerra civile somala l’Ertrea è considerata un regista occulto, strettamente alleata dei movimenti integralisti islamici in chiave antietiopica e antioccidentale. Di fatto più in generale l’Eritrea è ritenuta uno dei sostegni del fondamentalismo islamico armato, nonostante la sua popolazione sia per metà cristiana. E ha sempre destato preoccupazione la possibile saldatura islamista delle due rive dello stretto del Mar Rosso: Eritrea e Somalia con lo Yemen. In questi giorni teatro di un’insurrezione. (A. Ba.)

in un campo di rieducazione. In Eritrea infatti vige un regime molto duro che nel corso degli ultimi anni si è andato inasprendo e se l’è presa un po’ con tutti, dall’opposizione agli ex colonizzatori italiani, dai Paesi confinanti verso cui ha scatenato diverse guerre al contesto somalo in cui alimenta la guerriglia islamista. Come nel film Interpreter con Nicole Kidman (ispirato però allo Zimbabwe), il leader dell’Eritrea ha una storia complicata e involutiva.

Isayas Afeworki, negli anni ’70 e ’80, era considerato un eroico e sincero combattente per la libertà, leader della lotta di indipendenza dall’Etiopia allora governata dallo spietato regime comunista di Menghistu. Per motivi etnici ma anche per la sua posizione più aperta sul mare e per la sua storia di prima colonia italiana, l’Eritrea aveva una sua identità culturale e una maggior propensione al dialogo con l’Europa libera. Ma una volta giunto al potere Afeworki si è trasformato in feroce dittatore che non si è risparmiato di arrestare e far sparire in un campo di concentramento tutti gli altri eroi della guerra d’indipendenza, in quel momento ministri del suo governo. Il pretesto per una delle sue più clamorose epurazioni il 18 settembre 2001, fu il fatto che ministri e alti funzionari del governo avevano «osato» criticare la mancanza di libertà e avevano chiesto democrazia e giustizia: accusati di tradimento sono stati arrestati. Eppure non dovevano avere tutti i torti: in Eritrea non esiste la costituzione; sono vietati i partiti politici; non si sono mai tenute elezioni; tutti devono fare un servizio militare dalla durata illimitata; non ci sono giornali liberi e per libertà di stampa l’Eritrea è l’ultimo Paese in Africa; è in cima invece tra i più poveri. L’Onu ha denunciato che migliaia di persone scappano ogni mese dal Paese. Molte di queste arrivano anche in Italia, Paese con cui hanno diversi legami: provengono dall’Eritrea molti dei richiedenti asilo e anche molti dei migranti che combattono la disperazione con le carrette del mare. Proprio a causa delle condizioni disumane del loro Paese di provenienza, gli eritrei di solito non devono essere considerati migranti clandestini ma secondo il diritto di Italia, Ue e Onu hanno le carte in regola per essere considerati profughi che hanno diritto alla protezione internazionale.



cultura

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Libri. Arrigo Petacco ricostruisce il processo di Unità nazionale attraverso l’impresa del patriota e gli intrighi di Camillo Benso

Le tre Italie sventate Quando Garibaldi e i suoi eroici Mille scongiurarono i regni tramati da Cavour di Pier Mario Fasanotti entre il conte Camillo Benso di Cavour si sfregava maniacalmente le mani e rifletteva su come sedurre Napoleone III di Francia, Giuseppe Garibaldi armava i suoi e partiva per la «folle avventura». Obiettivo: unificare l’Italia. Se non ci pensava lui, oggi probabilmente avremmo tre regni italiani: quello del Nord a guida torinese col sostegno economico (e trainante) della Lombardia, quello del Centro (a governarlo chissà chi), e quello del Sud (la dinastia dei Borbone non accettò le sinuose, e tardive, avances del conte). A Cavour, che parlava o francese o il dialetto piemontese, quasi mai l’italiano, la penisola unificata interessava poco, anzi niente. Documenti alla mano, questa è la messa a fuoco del Risorgimento diplomatico, e francamente poco guerresco o rivoluzionario, che fa Arrigo Petacco ne Il regno del Nord (Mondadori, 167 pagine, 19 euro). Patriota in senso stretto Cavour non lo fu mai, diffidente com’era nei confronti degli “straccioni” meridionali, sui quali, al Parlamento di Torino, molti senatori si sbizzarrivano con frizzi e lazzi: un ottuso leghismo ante litteram, si potrebbe dire.

M

alla pigrizia fisica e intellettuale dell’inetto marito Francesco, soprannominato dal padre (Ferdinando II) “Lasa”, diminutivo di lasagna. Dotata di charme e carisma, fu lei a fare il soldato-comandante a Gaeta, spronando quel che rimaneva dell’esercito con il giglio sulla bandiera a battersi con dignità e coraggio (morì a Monaco nel 1925, molto avanti negli anni).

Arrigo Petacco, rigoroso con le fonti storiografiche ma un po’“narrativo”nella formulazione delle ipotesi, ci racconta dell’incontro di Plombières-lesBains (sede di un grandioso stabilimento balneare, alle pen-

chiarata ufficialmente - all’Austria che dominava l’alta Italia, con epicentro politico-economico a Milano. Se Cavour parlava stentatamente italiano, era fluente il nostro idioma in bocca a Napoleone. Era stato a lungo in Italia, aveva aderito (nel 1831) alla Carboneria e, secondo alcune leggende, aveva prestato giuramento massonico a favore della causa italiana. Ci sono scritti di Cavour che chiarissimamente spiegano i suoi intenti: «Con la Francia sarebbe tutta l’Italia. Niuno può dubitare del Piemonte, ma Napoleone avrebbe con sé anche le militari: 200mila soldati francesi e 100mila piemontesi, la scelta di La Spezia come base di sbarco dei cugini d’Oltralpe.

Documenti alla mano, questa è la messa a fuoco del Risorgimento diplomatico, poco guerresco o rivoluzionario, che ci restituisce l’autore

Quanto a Vittorio Emanuele II, che dire? I Savoia, da allora fino alla seconda guerra mondiale, nei momenti difficili, sono sempre stati prontissimi a preparare le valigie. Il re si mostrò tiepidamente e tacitamente favorevole a Garibaldi, ma se la doveva vedere con un primo ministro, Cavour appunto, che faceva e disfaceva nella politica, interna e internazionale. Un gran fervore i Savoia non l’hanno mai avuto. A proposito di teste coronate, nessuno dei piemontesi è minimamente paragonabile a Maria Sofia Borbone, sorella dell’imperatrice Elisabetta (la romantica Sissi), la donna che rimediò

dici degli Alti Vosgi). Qui s’incontrarono in assoluta segretezza Napoleone III e Cavour. Il corteggiamento del piemontese era cominciato da tempo, tanto è vero che i suoi militari si batterono nella lontana Crimea, in una battaglia «di cui nessuno sentiva il bisogno». Ma fu un aperitivo diplomatico. Si trattava ora di riscuotere la riconoscenza dell’imperatore francese strappandogli la promessa di un appoggio militare nella guerra - che peraltro mai fu di-

Due Sicilie qualora si facesse abdicare Ferdinando e montare sul trono il figlio Francesco o meglio ancora un francese. Il papa non andrebbe toccato lasciandogli Roma e il terreno circostante. Raggiunta la pace dovrebbe poi farsi una Lega delle tre Italie. La Superiore sotto il re Sabaudo, la Inferiore sotto il re Borbonico se non si potesse mettere altri, la Centrale sotto il re che più conviene». Il conte sognava anche un’alleanza “latina”: Piemonte, Francia e Spagna.

L’Italia divisa in tre spezzoni gli andava a genio. Occorre ricordare che non avvertiva molto l’italianità della penisola? Oltretutto non s’era mai spinto più a sud di Firenze (e non lo fece nemmeno in futuro). Gli intellettuali che si esaltavano per l’unità italiana gli davano fastidio. L’idea la bollava come «una tragica corbelleria», alimentata da quel «fanatico» di Mazzini. Il suo era un cinico e cauto piano geografico-diplomatico. Contro l’Austria voleva muovere i fanti e la cavalleria,

ma assolutamente non «per una causa rivoluzionaria». Il colloquio con Napoleone III durò otto ore. «Sordida cospirazione» commentarono i ben informati viennesi. I problemi erano immensi. Tra questi si doveva annoverare la presenza di Francesco IV duca di Modena, regnante in quello che il poeta Giusti chiamava «il guscio di castagna». Il modenese, cugino dell’imperatore austriaco, si poteva permettere di guardare gli altri dall’alto in basso, sicuro di avere alle spalle un esercito di ben 300 mila uomini. In quegli anni gli successe il figlio Francesco V, detto “il duchino”, despota pure lui. L’accordo di Plombières venne raggiunto. A Napoleone III Roma non interessava per niente. Oltretutto la città era presidiata da una guarnigione francese. Tanto per far contenti tutti, il patto prevedeva che si attribuisse al Papa la presidenza onoraria della confederazione italiana comprendente i tre Stati. Si parlò anche di cose

E in cambio al sovrano di Parigi che cosa dare? Cavour dava per scontata la cessione della Savoia. Su Nizza qualche ritrosia, visto che il conte considerava i nizzardi più piemontesi che francesi. Napoleone III ascoltò in silenzio accarezzandosi il pizzetto, poi disse che la questione era tutto sommato secondaria ed era il caso di affrontarla più tardi. Vittorio Emanuele sapeva dell’incontro segreto? Non si sa. A Cavour interessava molto mettere le mani su Milano che era città florida e all’avanguardia. Basti pensare che aveva un “corpo”di oltre 500 ingegneri, tanti quanti ne aveva Parigi e il doppio di quelli torinesi. Il debito pubblico era stato risanato (con la vendita dei beni ecclesiastici) e l’istruzione era stata laicizzata. Milano aveva lo stesso numero degli ospedali di Londra (con un decimo della popolazione rispetto alla capitale britannica). Tornato a Torino, Cavour pensò a come ammorbidire certe ultime riluttanze del francese. Si confidò col fedele segretario Nigra al quale espose il suo piano ruffianesco: mandare alla corte di Parigi una gran bella donna per «…charmer politiquement l’Empereur, coqueter avec lui, le seduir….». Giustificazione: «Per la Patria questo ed altro». Si doveva cercare una “escort” non tanto di lusso, quanto nobile e assai spregiu-


cultura

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Viaggio nel secolo unitario sulle tracce dei fratelli Alexandre, Joseph e Nino

Storia dell’Ottocento (da Bixio a Bixio) di Dianora Citi ommaso Bixio, orafo di Chiavari, e Colomba Caffarelli ebbero cinque figli e due figlie, ma non avrebbero mai creduto di diventare i genitori di ben tre protagonisti del XIX secolo. Il destino delle femmine era stato deciso già alla loro nascita: un buon“matrimonio”. Dei cinque maschi il primo morì adolescente, il secondo partì giovanissimo per l’Oriente e di lui non si ebbero più notizie. I tre rimasti, ciascuno per proprio conto, fecero strada. L’opera di Massimo Nava, La gloria è il sole dei morti (Ponte alle Grazie), pur recando sul frontespizio la parola romanzo, può essere considerata una preziosa e documentata biografia dei tre fratelli Bixio, Alexandre - il maggiore, divenuto francese - Joseph - il secondo, divenuto americano - e Girolamo detto Niño, il piccolo bambino in spagnolo, e poi Nino, eroe del Risorgimento italiano.

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Sopra, Garibaldi dipinto nella battaglia di Milazzo. A destra, Bixio. A sinistra, la copertina del libro “Il Regno del Nord”. Nella pagina a fianco, Mazzini e Cavour scite, cara cugina. Usate tutti i mezzi che vi pare, ma riuscite». Dalle memorie del conte de Maugny: «…non dimenticherò mai quel ballo alle Tuileries dove la contessa di Castiglione apparve seminuda come una dea dell’antichità…».

dicata. La scelta cadde su Virginia Oldoini contessa di Castiglione, detta Nicchia. Era sposata, ma i costumi ottocenteschi non erano così rigidi come qualcuno penserebbe. Virginia era davvero bella e sensuale, conosceva quattro lingue e aveva, pur molto giovane, trascorsi amorosi degni di un curriculum di un’anziana cortigiana. Scriveva quel che le capitava nel suo “journal” (quasi interamente distrutto, forse dai servizi segreti sabaudi), compresi i tanti convegni amorosi (anche con i fratelli Doria). Incontrò anche Vittorio Emanuele, «il povero re, solo e triste», e si vestì con un “velour nero”. Ricevette una lettera d’incoraggiamento dal conte Poniatowski da Parigi: «Vieni dunque a infuocare il gran bastardo di Francia… il vecio ti bacia dalle tette ai piedi con lunghe soste al centro». Meno volgare il testo di Cavour a quella che sarà bollata da Urbano Rattazzi come «la vulva d’oro del Risorgimento»: «Riu-

Intanto Garibaldi, con l’appoggio più o meno palese degli inglesi che erano interessati alla Sicilia con l’ipotesi di farne una “grande Malta”, s’apprestava, con scarsissimi mezzi e tanto entusiasmo, ad affrontare quel Borbone che diceva d’essere protetto «dall’acqua salata e dall’acqua benedetta». I Mille erano esattamente 1089. Solo 150 indossavano le camicie rosse, gli altri erano in borghese (stiffelius, palandrane e cilindro). Nessun contadino, nessun operaio: erano tutti laureati o diplomati. Solo cinque o sei erano artigiani. Gli ufficiali borbonici a difesa di Napoli, dopo la conquista della Sicilia, furono corrotti. Poco sangue, tutto sommato. Maria Sofia spronava il suo re-consorte: «Monta a cavallo, François!». E lui: «Uffa con ‘sti cavalli, Sofì.Tutti mi vogliono far montare a cavallo». Quando l’Italia fu “fatta”, il conte di Cavour non disdegnò di avere sulla sua tavola le arance siciliane e i maccheroni napoletani. E si sfregò le mani.

L’andamento romanzato del libro ci racconta l’intreccio delle vite dei tre fratelli. Separati molto presto dai genitori e anche tra di loro, si ritrovarono fortunosamente negli anni della maturità, rinnovando ad ogni incontro il loro solidale legame familiare, talvolta aiutandosi l’un l’altro, talaltra incrociandosi su barricate politiche e ideologiche opposte. Tommaso Bixio, il padre orafo aveva deciso il futuro della prole seguendo un principio comune a quel tempo per le famiglie meno abbienti: uno solo potrà studiare, il maggiore. Alessandro dunque. Il ragazzo fu affidato alle cure del padrino, l’ex prefetto Stechs, che lo portò con sé a Parigi, assistendolo, anche economicamente, come un figlio. Alexandre a circa 15 anni lascia i genitori e non rivedrà più la madre. Prenderà la laurea in medicina, ma diventerà giornalista, editore, scienziato, politico, diplomatico, deputato, per poco tempo ministro, plenipotenziario, e mai medico. La vita sarà generosa con lui: avrà un matrimonio felice, con figli e nipoti, un’ottima posizione sociale, amico di scrittori e letterati come Dumas e Hugo, politici francesi e italiani come Lamartine e Cavour. I suoi Dîners académiques del venerdì, frequentati da funzionari di governo, deputati, banchieri, diplomatici, intellettuali, artisti, gli permetteranno di mantenere importanti contatti con la “crème” della società parigina liberale. Morì a 57 anni nel 1865. Per Giuseppe, che aveva cinque anni quando Alexandre partì per Parigi, la scelta paterna fu la leva militare. Fu tenuto a bottega ad aiutare nel lavoro di orafo, ma quando venne il momento di arruolarsi, la sua opposizione fu netta. Alternativa valida al rifiuto della divisa era la vocazione religiosa. Frequentò i collegi gesuiti a Roma e poi a Cagliari, ma negli anni intorno al 1840 capì che per la Compagnia di Gesù si stava preparando in Europa un brutto periodo. I rivoluzionari e i liberali, sia in Italia che in Francia, ritenevano che i religiosi,

soprattutto i gesuiti, fossero di ostacolo all’indipendenza nazionale e alla liberazione di Roma dal potere papale. Più di 5.000 religiosi europei partirono in esilio verso il“paradiso”americano. Giuseppe nel Nuovo Mondo si trasformò in “father Joseph”, fu missionario in Oregon a contatto con le tribù indigene indiane, si spostò in California, a San Francisco, dove fu uno dei fondatori dell’università cattolica. Prese parte alla guerra civile americana come cappellano sia tra i nordisti che tra i sudisti. Questo gli costò delle accuse di spionaggio e tradimento. Se ne andò per qualche tempo in Australia. Tornò poi in California dove morì nel maggio 1889. Di Nino, il terzo, il più piccolo e più noto (in Italia) fratello Bixio, è difficile parlare senza incorrere in una lista di eventi che hanno dell’incredibile, che per altro dimostrano come il suo impegno nel Risorgimento italiano non sia stato altro che una breve parentesi di avventure in una vita avventurosa. Occorre mettere però l’accento su di un paio di strane corrispondenze di vita tra Nino e i fratelli. La prima, il rapporto con la religione. Se Giuseppe fu gesuita, al SainteBarbe, il collegio frequentato da Alexandre a Parigi ove aveva studiato sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, Nino era stato battezzato solo a 13 anni poche ore prima di essere costretto dal padre a partire come mozzo su di un brigantino diretto in America del Sud. Nel suo immaginario credeva che Dio lo mandasse alla gogna. Fu forse da allora che non volle più sentir parlare di religione.

La loro vita ripercorsa nelle pagine del volume “La gloria è il sole dei morti”, scritto da Massimo Nava

D’altra parte Alexandre nel parlamento francese e Nino in quello italiano si ritrovarono ad appoggiare leggi anticlericali e avverse alla congregazione gesuita cui apparteneva il fratello Joseph. La seconda: il rapporto con le ferite e la morte. Il ruolo di Giuseppe durante la guerra civile americana come cappellano militare fu di dare conforto ai feriti, benedirli e spesso impartire l’estrema unzione. Malgrado la sua partecipazione attiva ad alcune battaglie non fu mai ferito. Alexandre era rimasto miracolosamente illeso durante i duelli di cui era stato testimone o protagonista, ma nel 1848 marciando contro le barricate una palla di fucile gli trapassò il polmone e una seconda lo colpì alla gamba destra. Piccola cosa e non mortale rispetto a Nino che nel ’49 ebbe la gamba sinistra squarciata a Roma dal fuoco francese, la destra rotta in Sicilia, una clavicola colpita a Calatafimi (si estrasse da solo il proiettile) e poi ancora cicatrici su petto, schiena, fronte, segni di battaglie, colpi di sciabole, fucili, o schegge di cannone, segni di una vita passata a sfidare e quasi cercare la morte sui campi di battaglia. La morte trovò lui, invece, nella cabina della sua nave a Sumatra nel 1873, sotto forma di una subdola e incombattibile infezione di colera a soli 52 anni.


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a musica e i ricordi: un binomio indissolubile. A volte basta ascoltare le prime note di una canzone per ritrovarsi catapultati in un altro spazio e in un altro tempo, ad esempio in quello dell’infanzia. Così, per un attimo, ritorniamo bambini e riviviamo emozioni che pensavamo ormai sepolte dentro di noi. Questo è l’effetto che una canzone come Un amore così grande, nella versione originale del tenore Mario Del Monaco, sortisce su Francesco Renga. Per il cantautore quel brano, composto appositamente per il “tenore dei tenori” nel 1976 e in seguito cantato da artisti di prim’ordine come Claudio Villa, Luciano Pavarotti ed Andrea Bocelli, riporta a galla il ricordo di un lungo viaggio in macchina fatto a bordo della vecchia Lancia Fulvia verde bottiglia del padre e rappresenta il suo primo incontro con la musica e in particolare con la voce ed il canto. Ma la musica non si limita a costellare i momenti importanti dell’infanzia di ciascuno di noi in quanto rappresenta una fedele compagna di viaggio in grado di supportarci durante tutto il corso della nostra esistenza.

sua straordinaria potenza vocale al servizio di un altro artista confrontandosi con “Il maestro della voce” Demetrio Stratos. E la vera protagonista di questo disco è proprio la voce, lo strumento più intimo che c’è, forse l’unico in grado di toccare le corde più profonde dell’anima. Da qui la scelta di mettere da parte gli strumenti della tradizione rock-pop e l’elettronica in generale per ritornare all’essenza della musica. Orchestra e voce appunto. E la scelta di cantare canzoni altrui è, per Renga, funzionale all’esigenza di usare la sua voce come unica forma espressiva senza piegarla all’urgenza di raccontarsi attraverso un testo scritto di proprio pugno. Eppure, paradossalmente, il testo scritto da un altro può rappresentarci anche meglio di un testo scritto da noi.

L

È un tributo dunque alla musica il nuovo album di cover di Francesco Renga intitolato Orchestra e voce e pubblicato il 13 novembre. Il disco, prodotto e arrangiato dal maestro Celso Valli e distribuito in due versioni (normale e deluxe) da Universal Music, rappresenta una specie di viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca delle radici musicali del cantante. Ogni canzone della tracklist sottolinea un momento importante nella sua vita, un punto di svolta che si è rivelato in seguito determinante per il suo percorso artistico. Così per Renga L’immensità, la canzone scritta nel 1967 da Mogol, Detto Mariano e Don Backy, e portata al successo da quest’ultimo e da Johnny Dorelli, è legata indissolubilmente alla figura della madre. Francesco è adolescente e decide di fingersi malato per evitare la scuola. Così resta a casa e rimane incantato dalla voce della madre che, intenta a sbrigare le faccende domestiche, intona L’immensità e La mente torna, il brano scritto nel 1971 da Lucio Battisti appositamente per Mina. Ed è lì, tra le quattro pareti di una casa di periferia in una giornata come tante, che Renga sviluppa ulteriormente la sua passione per il canto. Una passione talmente forte da spingerlo a pensare, come scrive nel booklet del cd, che il canto sia «La voce stessa di Dio o,

Musica. “Orchestra e voce”, il nuovo album di cover del cantautore italiano

Ritorno alle origini per Francesco Renga di Matteo Poddi

Nel disco, distribuito da Universal, l’artista reinterpreta alcuni classici del passato: da “Un amore così grande” a “L’immensità”

meglio, la cosa che più si avvicina all’idea che io […] ho di Dio». Flashback del passato fissati in istantanee rubate al logorio del tempo: ascoltare le tracce di questo album è come sfogliare le pagine di un album di famiglia. Sì, perché pur cantando canzoni di altri artisti

Renga riesce a infondervi tutta la sua personalità ed energia. Così, incredibilmente, un album di cover diventa ancora più intimo e personale di un album di inediti.

C’è da dire che, quello con il quale Renga si presenta nuovamente di fronte al pubblico, è

un disco fortemente voluto. Un disco che il cantante aveva in mente di realizzare da almeno vent’anni, da quando, nell’aprile del 1989, registrò la sua prima cover con i Timoria ovvero Pugni chiusi de I Ribelli. In quell’occasione per la prima volta, in uno studio di registrazione di Milano, Renga mise la

Qui sopra, il tenore Mario Del Monaco. In alto, un’immagine di Francesco Renga durante un’esibizione al Festival di Sanremo. A sinistra, la copertina del suo nuovo album “Orchestra e voce”

Quante volte ci è capitato di ascoltare una canzone e di pensare che parlasse proprio della nostra vita? Questa è la dimostrazione della potenza della voce, il più sensibile degli strumenti, in grado di trasmetterci emozioni, pulsioni e sogni che credevamo solo nostri. Sono solo due le canzoni scritte da Renga presenti nell’album: Angelo, il brano dedicato alla figlia Iolanda con il quale ha vinto nel 2005 la cinquantacinquesima edizione del Festival di Sanremo e Uomo senza età, canzone con la quale ha partecipato all’edizione di quest’anno del Festival e che è presente anche nella versione deluxe dell’album in forma di duetto con il soprano Daniela Dessì. Un album come questo fa crescere ancora di più l’attesa per il prossimo disco di inediti di Renga. La buona notizia è che il cantante non ha smesso di lavorarci anche durante la registrazione di Orchestra e voce e questo significa che l’attesa potrebbe finire già il prossimo anno. Dopo essersi lasciato definitivamente alle spalle il suo passato con i Timoria ed essersi affermato definitivamente come solista con quattro album osannati dalla critica e ben accolti dal pubblico, un album di cover sembra costituire una pausa nella carriera in costante ascesa di Renga. Eppure un ritorno alle origini è necessario nel momento in cui ci si vuole proiettare verso il futuro perché in fondo aveva ragione George Orwell quando scrisse: «Chi controlla il passato controlla il futuro». Dobbiamo dunque aspettarci da Renga un altro Cambio di direzione, per citare il titolo del primo singolo estratto dal suo ultimo disco di inediti Ferro e cartone? Quello che è certo è che Renga ci dimostra ancora una volta di non essersi seduto sugli allori e di non voler smettere di sperimentare e di sperimentarsi.


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Rivoluzioni. Grande attesa per la nuova pellicola di James Cameron “Avatar”, nelle sale italiane dal prossimo 15 gennaio

Se il cinema cambia pelle di Pietro Salvatori

er gli induisti l’avatar rappresenta l’assunzione di Dio in un corpo fisico, concetto che deriva da un termine sanscrito che significa “disceso”. Nelle comunità virtuali sorte con l’avvento di Internet, la parola ha assunto notorietà nell’accezione con la quale oggi viene riconosciuta come comune da milioni di persone. È l’immagine con la quale ci si presenta al mondo della rete, sia essa personale, di un personaggio famoso, o qualsiasi altra che più aggradi l’utente che vuole trasmettere una propria idea di sé, che si imprime di senso per l’interlocutore che interagisce senza un contatto diretto proprio a partire dall’immagine virtuale di cui ci si ammanta.

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Per i cinefili, il termine sta per assumere un terzo, nuovo significato. È in arrivo a metà gennaio il nuovo kolossal di James Cameron, Avatar per l’appunto. L’attesa è spasmodica, tale da aver forzato già molti dei segreti che il visionario regista di Titanic ha cercato di celare il più possibile. La storia, innanzitutto, coniuga al meglio i due significati del termine. Siamo nel 2154, in un pianeta chiamato significativamente Pandora, del tutto simile alla Terra, abitato da creature umanoidi dotate di ragione e coscienza, i Na’Vi. Alti tre metri, dalla pelle blu striata, respirano naturalmente l’aria di Pandora, letale invece per gli umani, che pur bramano di possedere il controllo sul pianeta per impossessarsi dell’Unobtainium, preziosissimo minerale generatore di potentissimi campi magnetici. Politica interstellare, controllo di risorse spaziali, flotte alla conquista del territorio indefinito e atemporale che circonda pianeti al di fuori del Sistema Solare. Gli umani, impossibilitati a respirare l’aria di Pandora, hanno sviluppato tecnologicamente un ibrido del quale si servono per muoversi sul pianeta, l’avatar, per l’appunto, del quale con-

trollano a distanza, ponendosi in una sorta di coma, azioni e coscienza. Siamo in presenza di un plot che strizza l’occhio al miglior Isaac Asimov, unito a quella miscela di azione che innerva sin dalle origini la saga di Star Trek, fino all’ultimo, immaginifico, capitolo a firma di JJ Abrams.

La firma, poi, non può che far gridare al kolossal a scatola chiusa. James Cameron è infatti il classico cineasta che non si getta a capofitto in un pro-

getto se questo non stimola innanzitutto la sua fantasia, la sua bambinesca sete di amore, avventura, e passione per l’incredibile. E il tutto a dispetto di una apparentemente fredda e priva di fantasia laurea in fisica. O forse proprio grazie ad essa. L’esordio alla regia si è rivelato un piccolo film unicamente per la ristrettezza del budget alla quale fu costretto. Ma già nel 1981, Piranha Paura mostrava nella trama i segni di quella ricerca dell’emozione che forse è la cifra sintetica di tutta una

Siamo nel 2154, in un pianeta chiamato Pandora, abitato da creature umanoidi dotate di ragione e coscienza: i Na’Vi. Alti tre metri, color blu striato, respirano un’aria letale per gli umani... carriera: pesci geneticamente modificati, agguati misteriosi, bombe salvifiche e catartiche. Ci sono tutti gli ingredienti di una carriera che continuerà con il botto. Seguiranno infatti Terminator, clamoroso successo che consacra come attore l’attuale governatore della California Arnold Schwarzenegger, che lo porterà al timone del secondo capitolo della saga di Alien, Scontro finale. Poi Abyss, osannato da buona parte della critica ma punito al botteghino, e la produzione di Strange Days, visionario affresco futuristico diretto dalla moglie Kathryn Bigelow.

Qui sopra, uno scatto del regista James Cameron e, in alto, un fotogramma del suo nuovo, attesissimo film “Avatar”

Nel 1997 la pellicola che probabilmente lo renderà immortale. Dirige infatti la coppia Di Caprio/Winslet in quel Titanic così tanto amato e osannato da creare vere e proprie psicosi collettive. File chilometriche ai botteghini, giovani fan adoranti capaci di spendere per ben venti volte i soldi del biglietto d’ingresso, fiumi di lacrime versati per una delle più grandi e ambiziose storie d’amore che il cinema ricordi. Al punto da rendere quasi scontato il primato di Oscar

vinti, ben 11, al pari di Ben-Hur. Giustificato, dunque, l’abbandono del copione di Project 880, originario nome di Avatar, in stesura già nel 1995 e accantonato per dedicarsi alla tragica traversata del transatlantico. Dopo dodici anni è giunto il momento che il talento visionario di Cameron ritorni ad imperversare sul grande schermo. Un’attesa paziente, giustificata dall’aspettare che la tecnologia digitale rendesse possibile tutto quello che il regista voleva mettere sullo schermo, senza limitazioni di sorta. Un cast poco gridato, che ha come unica stella acclarata Sigourney Weaver, sarà posto totalmente al servizio delle incredibili scenografie riprodotte seguendo l’immaginazione di un autore che, non dimentichiamolo, calcò i primi passi nel mondo del cinema come tecnico degli effetti speciali di Roger Corman, uno che in quanto a creatività non lasciava di certo a desiderare.

Il budget, nonostante l’attesa decennale perché il computer rendesse possibile abbattere i costi di produzione, è stato comunque faraonico. Si parla di 230 milioni per la realizzazione del film, ed oltre 150 per la promozione, arrivando a sfiorare l’incredibile cifra di 400 milioni di dollari. Le premesse per rientrare dalle spese ci sono tutte, anche se l’investimento è comunque rischioso. Il marketing sta già girando a pieno ritmo da prima dell’uscita. Magliette, gadgets, addirittura un videogioco targato Ubisoft hanno preceduto, e seguiranno, l’uscita in sala. Il Dday è fissato in quasi tutto il mondo per oggi. In Italia, però, non lo si potrà gustare tra una fetta di pandoro ed una partita di tombola. Per evitare l’agguerrita concorrenza natalizia, la 20th Century Fox, distributrice oltre che produttrice, ha deciso di spostare l’uscita nella penisola al 15 gennaio. E la battaglia al file-sharing è già iniziata.


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da ”Le Monde” del 17/12/09

Gli afghani di Sarkò di Sophie Landrin e Laetitia Van Eeckhout a trincea della difesa dell’identità nazionale può passare anche dalla televisione. Mercoledì, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha raccolto la sfida su Canal plus, per affrontare un «dibattito nobile» – come l’ha definito l’inquilino dell’Eliseo – il cui obiettivo sarebbe quello di «riflettere sulle condizioni dell’integrazione degli stranieri da ammettere nella Francia metropolitana (hexagone)».

L

Insomma da un presidente che si è fatto le ossa al ministero degli Interni col dialogo con le comunità straniere, specialmente quella musulmana, la più numerosa in un Paese europeo, non poteva che esserci apertura coniugata con la laica regola della legge. «Se ho deciso di organizzare questo dibattito è per riflettere insieme, tranquillamente, su cosa deve fare chi viene accolto nel nostro Paese, e cosa sia consentito fare alla Francia nei loro confronti». Nonostante le polemiche il capo dello Stato ha limitato il suo intervento all’identità nazionale legata agli immigrati. «Oggi, nel nostro Paese esiste un problema d’integrazione o non c’è? Sono io che ho inventato i ghetti in alcune zone delle nostre città, che ho permesso il sorgere di una forma di razzismo verso gli altri, della violenza contro i diversi, che ho promosso l’assenza della diversità nelle elite francesi?» si interrogava il presidente. Il 13 dicembre a La Croix il suo consigliere, Henri Guaino, aveva chiesto l’apertura di un tavolo «sull’economia, la scuola, la cultura, la lingua, il modello sociale, il patto civico, l’Europa e la globalizzazione». L’espulsione dei nove afghani – che ha scatenato le polemiche nel Paese – decisa dal ministro per l’Immigrazione, è stata sostanzialmente difesa da Sarkozy. «Francamente, riportare un afgano in Af-

ghanistan, dal momento che non vuole restare nel nostro Paese, rispettando il cuore dei dettami europei sui diritti dell’uomo e in perfetto accordo con le autorità britanniche – con un governo di sinistra – può essere un problema?». Nella mattinata di ieri Eric Besson aveva dichiarato che era stato rilasciato dalle sue agenzie un lasciapassare europeo, in conformità «con gli accordi presi con le autorità afghane». Però su questo punto c’è una controversia. Perché l’amabsciatore afghjano a Parigi, Omar Samara ha negato, spiegando che il destino dei nove cittadini afgani non dipende dalle autorità di Kabul ma dalla loro volontà. «Secondo le leggi e la politica afghana noi non rilasciamo dei lasciapassare per degli afgani che non vogliano rimpatriare volontariamente» ha dichiarato il diplomatico centrasiatico.

In disaccordo con Eric Besson, il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner ha affermato che «il numero degli afgani che verranno accolti per restare in Francia sarà superiore a quello di coloro che verranno respinti». Le polemiche erano montate anche dopo un’intervista rilasciata alla rete radiofonica Europe 1 dal ministro per la Famiglia, Nadine Morano. L’episodio avvenuto lunedì sera era stato ripreso dai lanci d’agenzia che riferivano che il ministro pensava che i giovani musulmani francesi dovessero amare il

loro Paese, trovare un lavoro e rispettare determinati codici di linguaggio e abbigliamento. Benzina sulle polemiche scatenate dal discorso di Sarkozy sulla difesa dell’identità nazionale, che i critici hanno letto come un attacco alla comunità islamica.

La Morano in un secondo intervento alla radio francese, ha contestato polemicamente l’interpretazione giornalistica del suo discorso pretendendo le scuse della corrispondente dell’agenzia. Il ministro si è dichiarata vittima della disonestà intellettuale di una operatrice dell’informazione che non poteva sintetizzare tre ore d’intervento in quelle battute galeotte. «Accetto le critiche» ha affermato la Morano, ma «non la disonestà che è difficile da accettare». France Bleu ha poi trasmesso la versione integrale, dove il significato tornava nei binari della moderazione istituzionale. A dimostrazione che anche da quelle parti il clima poltico pare incandescente.

L’IMMAGINE

Tromba d’aria colpisce un hangar della Marina Militare: fortunatamente solo feriti

Faremo cose che voi umani...

Una violenta tromba d’aria ha colpito l’hangar del II gruppo elicotteri della stazione elicotteri Marina Militare di Catania. Testimoni raccontano che una parte del tetto si è scoperchiato e la forza del vento ha risucchiato, scardinandola, una delle enormi porte scorrevoli di chiusura, facendola precipitare su un elicottero fermo. All’interno del velivolo tre sottufficiali specialisti tecnici elettronici che stavano effettuando dei test agli apparati, hanno visto la porta abbattersi su di essi ma fortunatamente la robusta cellula dell’elicottero li ha protetti. Illesi quindi ma sotto shock. Non altrettanto fortunati sono stati altri quattro specialisti che si trovavano all’esterno dell’elicottero. L’incidente avrebbe potuto trasformarsi in tragedia se non fosse stato per una pala del motore principale del velivolo che ha attutito lo schianto dell’enorme portellone. La storia, purtroppo, si ripete: il 31 ottobre 1964 una tromba d’aria sull’aeroporto di Catania-Fontanarossa causò la distruzione di buona parte della flotta di velivoli.

Automi di tutto il mondo... scaldate le giunture metalliche! È in arrivo un evento interamente dedicato a voi: le Olimpiadi Internazionali per Robot Umanoidi che si terranno a giugno 2010, nella città di Harbin, in Cina. Androidi di ogni nazionalità si sfideranno in 16 diverse discipline, dall’atletica al combattimento, alla danza

GrNet.it

UN NATALE IN CRISI Un Natale all’insegna della crisi, in un clima teso della politica che non si provava da anni. Attenzione a non fare paragoni con gli anni Settanta, allora era ben altra cosa e i paragoni certe volte, sembrano cercare una simbiosi che non esiste, ed è anche pericoloso fare. Per fortuna oggi molte brutture sono scomparse e forse relegate ai luoghi virtuali del web. Internet certe volte torna sul banco degli imputati, ma forse occorrerebbe solo una seria normativa internazionale.

Gennaro Napoli

NO AI TAGLI OCCUPAZIONALI SUGLI INFORMATORI In Italia dal 2008, circa 15mila informatori scientifici del settore farmaceutico, hanno perso il lavo-

ro per licenziamenti da parte di importanti multinazionali del settore. Solo in Sicilia, l’espulsione dal mondo del lavoro ha interessato circa 1700 professionisti e solo a Catania, dove operano 1000 informatori scientifici, la riduzione ha interessato il 25% di loro. La cosa che lascia più perplessi è che le aziende che hanno promosso una politica di trasferimenti forzati verso società di comodo, prossime al fallimento, o peggio hanno assunto atteggiamenti vessatori e mobbizzanti nei confronti di chi ha cercato di difendere il proprio posto di lavoro, sono tutte grandi multinazionali, per di più in piena salute, con bilanci altamente in attivo. Dietro questi licenziamenti, non c’è una vera e propria crisi ma solo un’immorale strategia specu-

lativa. Queste aziende, infatti, attraverso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali attingono a denaro pubblico. È ora di intervenire e porre fine a questa ingiustizia.

Domenico Scilipoti

TRANI, INAUGURAZIONE REPARTO CHIRURGIA E UROLOGIA Inaugurati i reparti di chirurgia e

di urologia dell’ospedale San Nicola Pellegrino di Trani alla presenza del Governatore Nichi Vendola e del direttore generale Asl Bat, dott. Rocco Canosa. Accolgo con orgoglio e con immenso piacere l’apertura di questi due rilevantissimi reparti del nosocomio tranese, ho visitato anche il reparto di ostetricia, nel quale i la-

vori tecnici per la riattivazione procedono spediti e senza sosta. Le scadenze, come ha dichiaratolo stesso dirigente Canosa, saranno rispettate e presto l’ospedale di Trani offrirà una completezza di servizi sanitari che una città importante come la nostra non può non offrire.

Carl Laurora


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Odio le piccole noie quotidiane Ma la sera non arriva mai. E due giorni dissipati son trascorsi da quando ho scritto quelle ultime parole d’inchiostro. Sono stati giorni dissipati, e accetto il rimprovero - prima che giunga - con la testa china e la bocca smorta, giallognola. Non so perché lo faccio, è sciocco e infantile, ma in quache modo inevitabile, specialmente in un sabato sera di sole in un paese sul mare dove, per gran parte del pomeriggio, ero rimasto coricato al sole, cercando di abbronzarmi la faccia e sembrare più in forma. Odio le piccole noie quotidiane: dimenticare lettere, perdere carte, le minuscole cadute, disdette e delusioni che saltano fuori ogni giorno frenetico, puntuali come il desiderio di suicidarsi. A sera tardi, nella sala da fumo deserta di un pub sul mare, mi sono trovato a un tratto bloccato da tre giovanotti dall’aria ributtante, con camicie colorate, che mi hanno chiesto, in modo quanto mai gentile alla Dick Turpin, le mie sigarette. Poiché tutti e tre avevano esattamente l’aspetto di Wallace Beery in uno dei suoi momenti meno gioviali, gli ho dato le sigarette e quanto bastava per ben tre pinte di birra. Allora hanno sorriso, o piuttosto mi hanno mostrato dieci (forse meno) denti rotti (fratutti e tre). Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson

ACCADDE OGGI

CALARASI E I SUOI RANDAGI Avevamo appena trasferito gli ultimi cani e i nostri 5 container ed eravamo in procinto di tagliare le recinzioni con un flessibile. Ma con un tempismo straordinario il comune di Calarasi ha chiuso l’accesso all’area attraverso alcuni agenti di polizia locale, impedendoci di rimuovere la cancellata e tutti i recinti realizzati da Std nel 2008. Di fronte al nostro tentativo di entrare, siamo stati minacciati di dover pagare una multa di varie migliaia di euro. Quest’ultimo episodio non è altro che la conferma della malafede degli amministratori comunali di Calarasi, che per due anni hanno volutamente impedito a Std di lavorare in modo legale sul terreno affinché lasciassimo libero il campo a quei funzionari corrotti che proprio attraverso la gestione del canile comunale potranno “drenare” risorse pubbliche. L’unico sollievo per Std è l’aver rimosso tutti i 270 cani da un terreno che nel giro di poche settimane tornerà ad essere il girone infernale trovato da Std nell’agosto 2006, dove migliaia di cani randagi verranno ammassati e uccisi nell’indifferenza generale e con l’aiuto della pseudo-associazione Sufletel.

Std

IPOCRITI E CINICI All’indomani della selvaggia aggressione a Berlusconi da parte di un psicolabile votante Pd, Antonio di Pietro e Rosy Bindi hanno avuto la sfrontatezza di affermare che il premier è

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

18 dicembre 1899 La Gazzetta dello Sport diffonde la notizia della fondazione del Milan football and cricket club 1909 Nasce il Casale football club, vincitore di uno scudetto nel campionato italiano 1914 1912 Viene scoperto l’Uomo di Piltdown: nel 1953 si scoprirà non essere altro che una truffa 1922 Nei pressi della stazione di Torino Porta Susa gli squadristi fascisti aggrediscono le organizzazioni popolari: 11 antifascisti uccisi, decine di feriti gravi 1932 Viene inaugurata la città di Littoria 1935 Viene inaugurata la città di Pontinia 1939 La nave da guerra tedesca Admiral Graf Spee, chiamata dai britannici pocket battleship (“corazzata tascabile”) viene fatta affondare dal suo equipaggio a largo di Montevideo 1958 - Il Niger diventa indipendente 1994 Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi presenta le dimissioni a Oscar Luigi Scalfaro

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

corresponsabile del clima d’odio venutosi a creare in Italia. Evidentemente neppure di fronte ad un maschera di dolore, gli ipocriti e i cinici riescono a stare zitti. Al di là della singola violenza subita dal capo del governo, qualcuno si sarà chiesto donde l’origine di tanta violenza in Italia. Non occorre scervellarsi più di tanto, la risposta è banale: dalla sinistra! I figliocci di Marx, sotto le più disparate sigle sindacali, politiche e culturali, dal dopoguerra in poi hanno cercato di sovvertire con tutti i mezzi possibili (leggasi strategia del piombo, stragi, sangue e morte) l’esito scaturito dalle urne elettorali. I “sinistri”di tutti i tempi e di tutte le latitudini, a parole hanno predicato e predicano la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e la pace, ma nei fatti non sopportano che qualcuno la pensi diversamente da loro, o peggio, che governi il Paese, L’homo “sinistricus” è antropologicamente portato alla prepotenza e al sovvertimento dell’ordine naturale: ieri con i fiumi di sangue portati dalle rivoluzioni, oggi (a parte il “solito” odio per il nemico) con il diabolico tentativo di spacciare l’aborto e l’omosessualità per diritti umani. La violenza e l’immoralità scompariranno dall’orizzonte della società italiana solo quando i nipotini riciclati di Stalin, vuoi che si chiamino Pd, vuoi che si chiamino Italia dei valori, si renderanno conto che il Muro è caduto da vent’anni. Pena il continuare a credere di essere vivi anche quando si è già morti.

Gianni Toffali - Verona

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LE ROYALTIES DEL PETROLIO PER LO SVILUPPO DELLA CITTÀ DI POTENZA I benefit delle royalties del petrolio in Basilicata devono essere trasferiti anche alla città di Potenza, per la mole di servizi che la città eroga al suo hinterland e all’intera comunità lucana. Da tutti riconosciuta come città di servizi, la città di Potenza ha svolto e svolge un ruolo centrale e di raccordo con l’intera regione. Senza nulla togliere agli altri comuni, Potenza, ancora oggi, ha tutte le potenzialità necessarie per continuare ad offrire servizi primari di eccellenza, che andrebbero però migliorati e qualificati. Tutto ciò è ancor più vero all’indomani della concretizzazione dell’ambizioso progetto, portato avanti dalle giunte di centrosinistra, e concretizzatesi nel piano strutturale metropolitano, mediante la definizione di un confine di città connessa al suo hinterland, per divenire una grande area riconoscibile come luogo di servizi avanzati e ad alta qualità della vita. Non si tratta di riproporre il vecchio slogan città-regione, o di attuare una forma di rivendicazionismo territoriale, quanto piuttosto di valorizzare un nuovo protagonismo del capoluogo anche rispetto alle priorità della programmazione regionale e rimuovere tutte quelle strozzature allo sviluppo ancora persistenti. I Circoli Liberal di Basilicata (Udc), fuori da ogni intento campanilistico, rilanciano la centralità e l’importanza strategica della città come volano di crescita per lo sviluppo dell’intera regione e intendono sottoporre al dibattito delle forze politiche, amministrative, culturali e imprenditoriali la necessità che la regione Basilicata impegni cospicue risorse provenienti dalle royalties del petrolio, per contribuire a superare problemi ancora aperti della città che, se risolti, produrranno ricadute positive sui centri dell’hinterland e sulla istituenda area metropolitana. Si tratta di comprendere che dalla risorsa petrolio è necessario ricavare un percorso di trasformazione dei cicli produttivi e industriali, ovvero, sfruttare questa importante ricchezza per sostenere processi di riconversione industriale investendo nei settori delle nuove tecnologie e nelle fonti alternative. Su tutte e in sintesi, i Circoli Liberal ritengono che la regione debba contribuire nella risoluzione di: 1. questione rifiuti con impiantistica dedicata; 2. vendita a costi agevolati di energia per la mobilità urbana; 3. acquisto di auto ecologiche in dotazione del parco mezzi comunale; 4. riqualificazione Bucaletto, con interventi di edilizia sociale e progetti comunitari o nazionali; 5. costruzione aeroporto civile; 7. dislocamento della centrale Enel di via del Gallitello e della Sider Potenza; 8. investimenti nel campo imprenditoriale delle innovazioni tecnologiche, dell’energia rinnovabile e del fotovoltaico attraverso l’istituzione di una agenzia per lo sviluppo; 9. rafforzamento del polo ospedaliero; 10. vantaggi fiscali per le aziende e le imprese che intendono aprire le loro attività nel capoluogo di regione. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L D I PO T E N Z A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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