ISSN 1827-8817 91223
Come rimedio alla vita di
di e h c a n cro
società suggerirei la grande città. Ai giorni nostri, è l’unico deserto alla portata dei nostri mezzi
9 771827 881004
Albert Camus di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 23 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un’altra giornata di polemiche e problemi in tutta l’Italia del Nord: città in tilt, aeroporti bloccati dalla neve e treni a rilento
È finito il modello Milano
Oggi i gravi disagi per il gelo. Ieri le fratture sull’Expo, il caso Prosperini, lo scudo fiscale, la resa alla Lega. Ormai è aperta sfiducia tra i cittadini e i Palazzi del potere “romanizzati” Continua nei partiti il confronto-scontro sul dialogo
Alla ricerca di un armistizio
Berlusconi telefona a Napolitano e sigla la pace con il presidente. Il Quirinale: «Con il premier ho sempre avuto buoni rapporti» SERVE UNA SVOLTA
FEDERALISMI VERI E FALSI
Il coraggio di convocare un’Assemblea Costituente
Regionali, la differenza tra il Centro e la Lega
di Gennaro Malgieri
di Francesco D’Onofrio
e “colombe” hanno ripreso a volare. Ma non sappiamo dove si poseranno. E nessuno si fa illusioni. Tantomeno il capo dello Stato che ha giustamente richiamato tutti ad un sano realismo ritenendo che se il tempo di un riformismo possibile è giunto, bisogno dimostrarlo con i fatti, a cominciare dall’”uso”più consapevole costituzionalmente accorto del Parlamento. È probabile che c’è chi voglia approfittare del clima deterioratosi per rilanciare un patto di pacificazione fondato sull’“inciucio”.
bbiamo iniziato dal Partito il cammino delle riforme istituzionali: attendiamo che gli altri siano all’altezza di questo compito. L’Udc aveva infatti ripetutamente affermato di rifiutare qualsiasi alleanza politica nazionale con il Pd e il Pdl proprio perché riteneva che in vista della riforma federalista dello Stato occorreva che i partiti nazionali – e quindi anche l’Udc – si comportassero da soggetti federali anche in riferimento alle prossime scadenze elettorali regionali.
a pagina 8
a pagina 9
L
A
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
di Giancarlo Galli
Penati e Pecorella condividono l’allarme
ria e vento di bufera, sotto i cieli di Lombardia (e non solo per la neve e il ghiaccio), a tre mesi dalle elezioni per il rinnovo del parlamento regionale, col Governatore uscente Roberto Formigoni che (favoritissimo nei sondaggi) s’appresta a conquistare il suo quarto mandato. Forte del sostegno incondizionato di Pdl e Lega; e contrapposto all’ex comunista Filippo Penati, già sindaco di Sesto San Giovanni e poi presidente della Provincia, ora portabandiera del Partito democratico. Tutto indicava un clima “quasi” sereno, stabile, sul barometro della politica. Almeno nel perimetro della maggioranza, specie dopo che il sindaco della Madonnina, Donna Letizia Moratti (criticata per alcuni atteggiamenti ritenuti “personalistici”sull’Expo in cantiere per il 2015, una non sufficiente attenzione ai problemi di una metropoli divenuta disordinata, caotica, sporca), aveva compiuto un gesto significativo. segue a pagina 2
«Addio capitale morale, senza più classi dirigenti»
A
di Errico Novi
ROMA. Come svanisce un mito? SempliRoberto Formigoni
Letizia Moratti
Piergianni Prosperini
cemente «sopravvive alla realtà». Capita anche nel caso di Milano, almeno a giudizio di Filippo Penati, che nel capoluogo lombardo ha guidato l’amministrazione provinciale fino a giugno scorso. «Il mito della città dinamica, della capitale morale, sopravvive: ma quella Milano lì non esiste più». Cancellata da cosa? Dal «rilassamento», e dalla conseguente perdita di quella «virtù anticipatrice» in cui si è concretizzato per oltre un secolo il ruolo di locomotiva del Paese. Penati è d’accordo con Giancarlo Galli e la «caduta morale» della città. Naturalmente l’interpretazione suggerita da sinistra può essere considerata parziale, come risponde, dal versante opposto, un altro testimone della nuova milanesità, Gaetano Pecorella, uno degli avvocati di punta della squadra del premier. Per il quale, comunque, Milano si trova nel pieno di una crisi culturale e di leadership profondissima. a pagina 3
Nuove centrali a Montalto, Trino, Caorso, Porto Tolle e Termoli
Ecco la mappa del nucleare Il governo: soldi e forniture gratis per i comuni scelti di Alessandro D’Amato
Più spazio al mercato libero delle risorse
Purché non sia energia di Stato
ROMA. Il governo ha deciso i criteri in base ai quali saranno scelti i siti che ospiteranno le nuove centrali nucleari. E ha deciso anche quali compensazioni avranno i comuni e per i cittadini interessati: si tratta di finamnziamenti statali alle amministrazioni e energia gratis per gli utenti. In base ai criteri, i luoghi scelti saranno: Montalto di Castro,Trino Vercellese, Caorso, Porto Tolle e Termoli.
nizia a entrare nel vivo la “lunga marcia” dell’Italia verso l’energia atomica. Ma è bene evitare toni troppo trionfalistici. Non c’è dubbio che oggi il nucleare sia assai sicuro e pulito: i morti causati dal ricorso a questa fonte di energia sono davvero pochi se paragonati a quelli causati dagli incidenti legati ad altre fonti: dal carbone al petrolio.
a pagina 4
a pagina 4
• ANNO XIV •
NUMERO
253 •
WWW.LIBERAL.IT
di Carlo Lottieri
I
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 23 dicembre 2009
L’analisi. La «capitale morale» è al centro di roventi polemiche, dalla sicurezza ai disagi sempre più gravi per il gelo
Che fine ha fatto Milano? Non c’è solo la neve: ci sono le liti sull’Expo, lo scudo fiscale, gli arresti, la resa al leghismo. E la «romanizzazione» della classe dirigente di Giancarlo Galli segue dalla prima Rinunciato all’etichetta di “indipendente”, con la quale era stata eletta nella “coalizione di centrodestra per prendere la tessera del Popolo della Libertà.
D’un tratto, il passaggio dalla bonaccia alla tempesta. In un susseguirsi di eventi vieppiù drammatici, sicuramente inquietanti, nonostante sia probabilmente sbagliato, di certo avventato, andare alla ricerca di un “filo” che li colleghi, sebbene il berlusconiano Guido Podestà, neopresidente della Provincia, dichiari a voce alta: “Mi pare che la Giustizia sia stata un poco ad orologeria”. L’orologio cui fa riferimento Podestà, è quello che scandisce il “tintinnar di manette”. Finisce in carcere la signora Rosanna Gariboldi, moglie del potente assessore regionale alla sanità Giancarlo Abelli. Le vicende
morì per avvelenamento, in circostanze mai chiarite, il finanziere Michele Sindona.
Prosperini è figura particolarissima. Un medico-farmacista ormai ultrasessantenne, gettatosi con un’esuberanza anche fisica” in politica. Negli Anni Novanta, cavalcando il giustizialismo di Mani Pulite, e sco-
Piergianni Prosperini, l’assessore appena arrestato, è passato dal giustizialismo dei tempi di Mani pulite alla spavalderia predicata da Bossi non chiamano in causa il marito, ma il disagio è egualmente forte. Nulla comunque a confronto con l’arresto clamoroso mentre sta registrando per una TV locale, di Piergianni Prosperini: l’assessore lombardo allo Sport ed al Turismo. Subito portato nel carcere di Voghera divenuto famoso nelle cronache giudiziarie poiché lì (1986)
prendo il Carroccio leghista. Sicuro di sé sino alla spavalderia, un po’ guascone, non se la fila con l’Umberto Bossi. Passa ad Alleanza Nazionale, lieta di accoglierlo. Comprensibile: il Prosperini è quasi una star (i critici preferiscono il termine “macchietta”), sul piccolo schermo. Linguaggio rozzo, ma diretto, efficace: «buca il video,
fa voti…» dicono. E gli viene affidato l’assessorato a Sport e Turismo. Da dove, come e perché sia partita l’indagine della magistratura ancora non sappiamo. Al momento, abbiamo unicamente a disposizione i capi d’imputazione: Prosperini, anche per sdebitarsi degli spazi a lui concessi, avrebbe favorito la concessione ad un gruppo di Tv lombarde, della milionaria campagna promozionale sul turismo. Ipotesi di “mazzette”, versamenti in paradisi fiscali. Arresto certo, accuse da provare:, incarcerazioni a raffica.
Sconcerto in Regione Lombardia: i più (Formigoni in primis, dichiarano solidarietà a Prosperini); l’opposizione è prudente, non infierisce, ma... è evidente che la mina: (ad orologeria o meno), esplosa all’inizio della campagna elettorale, può avere effetti devastanti .
Gli episodi succintamente rievocati, costituiscono tuttavia solo un risvolto del terremoto che sta facendo tremare Milano. In un susseguirsi di scosse: la contestazione di piazza alla sindachessa Moratti, durante la cerimonia in ricordo dell’attentato in piazza Fontana, Banca dell’Agricoltura, del 1969. Spettacolo d’inciviltà, subìto anziché contrastato. Il dì seguente, piazza Duomo,l’aggressione a Silvio Berlusconi. Con la gente comune, quella che si parteggia ma non condivide la violenza, a chiedersi: e le forze dell’ordine? I servizi di sicurezza? Seguirà un altro gesto terroristico (fortunatamente abortito): la dinamite collocata dagli anarchici “informali” (chissà che significa!), negli scantinati dell’Università Bocconi. Giustamente Giuseppe Baiocchi (liberal, 18 dicembre), s’interroga: «Dove va Milano?». Mettendo in luce la sostanziale debolezza dell’attuale classe dirigente, e della stessa borghesia, dei salotti. Un pun-
prima pagina to di domanda che apre la strada ad un’analisi-diagnosi, molto severa. Per dirla con Piero Bassetti, indimenticabile primo Governatore della Lombardia (dal I970 al I974, quando si dimise dopo la strage di piazza della Loggia, a Brescia): «C’è una caduta dei freni etici e mo-
i cordoni della borsa è un doloroso mistero. Conclusione: da “sindaco dimezzato”, le quotazioni della Moratti sono bruscamente calate. L’adesione al Pdl cui abbiamo fatto cenno all’inizio, considerata da molti una resa magari per propiziare un mandato-bis, nel 2011. Il “non capire” genera incomprensioni, ansie.
Pr e n d i a m o
rali». In questo, purtroppo, la Milano che faceva da locomotiva al treno Italia, trascinandolo verso l’Europa, s’è omologata all’andazzo nazionale. In buona parte perdendo quel titolo di “Capitale morale”, di cui andava orgogliosa sin dall’Ottocento; senza avere avuto il colpo di reni necessario per riprendersi dallo choc di Mani pulite: Anni Novanta, il crollo del craxismo che qui aveva le radici.
Frequentando imprenditori e banchieri, si rimane colpiti da un’atmosfera di rassegnazione, che rima con “incomprensione” per quel che succede in Roma
Abbiamo uno Stato indebitato per 1800 miliardi, un dato prossimo al 120% del pil. Ecco perché il governo lavora a far cassa. E basta Capitale. Primo esempio: due anni fa la Moratti, impegnandosi senza risparmio” ottenne l’assegnazione dell’Expo universale del 2015. Successo indubitabile.Vittoria con la maiuscola. Donna Letizia, comprensibilmente intenzionata a sfruttare il successo, venne brutalmente stoppata, ridimensionata nel ruolo. Il suo miglior collaboratore (Paolo Glisenti) messo nella condizione di lasciare. Perché l’ostracismo? Pur evitando dietrologie, restano i fatti: un Expo cui ormai pochi si appassionano, con i progetti che avrebbero dovuto rinverdire i fasti del 1906, ridotti ai minimi termini. Dire che gli ambrosiani non abbiano né capito né gradito, è il minimo. Per quali ragioni Berlusconi non sia intervenuto a sostegno della Moratti, spinto il recalcitrante superministro Giulio Tremonti ad allargare (anziché stringere)
un
sec ondo
evento, d’estrema attualità: lo scudo fiscale (il rientro di capitali e beni detenuti all’estero). Giulio Tremonti, coriaceo valtellinese, s’è prodigato allo spasimo. Sin quasi a sfiorare l’incidente diplomatico con la Svizzera. Quanti miliardi davvero emergeranno è al momento più oggetto da cabala che da statistiche; ma il punto è un altro: che bisogno c’era mai se, come si afferma, le finanze nazionali godono di buona salute? Oppure nei bilanci pubblici vi è una malattia oscura, una specie di “febbre greca”. Il riferimento è ad Atene, sommersa: da un indebitamento di 300 miliardi (120 per cento del Pil). In Italia il debito accumulato, che continua a salire nonostante la crisi, gli annunci di “tagli agli sprechi”, è di 1800 miliardi. Anche qui prossimo al 120 per cento. Lo scudo ha dunque una nobile valenza etica o serve piuttosto a far cassa, con urgenza, a tappare buchi? I lombardi, gente concreta, di fronte alle ultimissime notizie dal fronte politico, s’interrogano. La Lega ha imposto a Berlusconi le candidature a Governatori per il Veneto (il ministro Luca Zaia), ed il Piemonte (Roberto Cota). In Lombardia, obtorto collo, ingoiato il Formigoni-quater, convinto d’imbrigliarlo. Infatti i sondaggi danno al Carroccio la palma di primo partito. Che accadrà in Padania nell’ipotesi di un tris vincente?
Altra faccia della medaglia: un voto che frantuma le ambizioni leghiste. A Torino, Venezia, nella stessa roccaforte lombarda. Specie dopo che l’Udc ha deciso di correre in solitario; mentre il Governatore Veneto Giancarlo Galan, clamorosamente trombato, è tentato di “mettersi in proprio”, unendo spezzoni del Pdl, Udc, rutelliani, Pd. Fantapolitica, però… La sensazione dominante, è che al Nord: tutto può accadere, poiché fortissima è l’inquietudine; che nessuno sappia leggere nella sfera di cristallo i sentimenti profondi dell’elettorato immenso. Quello che, certo, non ama, Romacapitale ma nutre anche seri dubbi sulle potenzialità del leghismo, come forza di governo. Pertanto il voto di marzo (divenuto più politico che amministrativo), condizionerà gli equilibri nazionali. La ”partita dei governatori” s’è insomma trasformata in un match-chiave, per l’intero Paese.
23 dicembre 2009 • pagina 3
Maggioranza e opposizione per una volta si trovano d’accordo
«Una ex capitale morale che non sa più innovare» Filippo Penati e Gaetano Pecorella condividono l’allarme: la città vive una grave crisi culturale di Errico Novi
ROMA. Come svanisce un mito? Semplicemente «sopravvive alla realtà». Capita anche nel caso di Milano, almeno a giudizio di Filippo Penati, che nel capoluogo lombardo ha guidato l’amministrazione provinciale fino a giugno scorso. ««Il mito della città dinamica, della capitale morale, sopravvive: ma quella Milano lì non esiste più». Cancellata da cosa? Dal «rilassamento», e dalla conseguente perdita di quella «virtù anticipatrice» in cui si è concretizzato per oltre un secolo il ruolo di locomotiva del Paese. Naturalmente l’interpretazione suggerita da sinistra può essere considerata parziale, ma certo Penati non ha difficoltà nel condividere l’impietoso giudizio di Giancarlo Galli: una nuova «caduta dei freni etici e morali» simile a quella denunciata trentacinque anni da Piero Bassetti e causata dalla «debolezza della classe dirigente». «È così, e io vedo una spiegazione proprio nell’egemonia del centrodestra, da una parte incapace di assicurare un ricambio della classe dirigente e dall’altra forte del sostegno direi anche culturale oltre che politico delle categorie, delle associazioni: dall’Unione industriali alla Camera di commercio, alle fondazioni».
dell’Expo. Come se persino l’orgogliosa autorevolezza davanti allo Stato centrale si fosse persa, insieme appunto con la famosa «capacità anticipatrice». Ma la crisi secondo Penati non è recente: «Il rito ambrosiano ha funzionato fino a venti anni fa, nell’amministrazione: allora sì che c’era la capacità di innovare». E oggi? Non è che l’illusione separatista della Lega ha assorbito ogni velleità di affermazione autonoma, fino a spegnerla? «La Lega non prende voti a Milano per la spinta federalista, ma per la paura, alimentata e percepita anche in chi non condivide certo il pianerottolo di casa con gli stranieri. Si commettono continui errori nelle politiche di integrazione e la città rischia di essere sempre più schiacciata dai processi globali, anziché coglierli come opportunità».
Ci si può accontentare di un’analisi contestuale? Si può cioè ridurre tutto al declino di un’Europa in cui Milano era crocevia economico, strategico per il Continente e di conseguenza anche per l’Italia? O c’è forse qualcosa di ingiustificabile in questa debolezza a reggere l’impatto della globalizzazione? Gaetano Pecorella, che si definisce «un milanese vero, giacché ho sempre lavorato e vissuto qui», non esita a riconoscere che davvero l’aria è diversa: «Se si fa un confronto con la cosiddetta Milano da bere, quella degli anni Ottanta, non si può fare a meno di notare che allora c’era tutta un’altra vivacità culturale, per esempio. Penso al Piccolo Teatro e a Streheler. Quella di oggi è decisamente meno attiva, la vita culturale è sotto tono». Giancarlo Galli allora non ha ecceduto in severità: «Va ricordato che la città di fine anni Ottanta si avvantaggiava di un processo di sviluppo esteso a tutto il Paese, e che quella di oggi risente invece della crisi in cui si trova tutta l’Europa. Ciò non toglie che oggi il tono complessivo sia piuttosto giù, anche se poi un paragone con le condizioni in cui versa un’altra parte del Paese, e mi riferisco a quel Mezzogiorno in cui mi sono calato molto negli ultimi mesi come presidente della Ecomafie, be’, questo paragone ci fa apparire Milano ancora come un altro mondo».
Su tutto grava il grande equivoco leghista del separatismo mascherato da lotta per l’autonomia. Un problema che ricade sulle scelte politiche
Il rilassamento nasce dunque da qui, «dal collateralismo dei centri di potere. Anche dal ritardo della sinistra, non c’è dubbio, che ha sottovalutato l’avanzata della Lega e di Forza Italia nei quartieri periferici». L’imprevedibile stato di assopimento «non verrà certo modificato dalla vicenda Prosperini: non ho il sentore che ne sia derivata una scossa morale né che ci saranno terremoti in termini di consenso». La cifra del male oscuro, dice l’ex presidente della Provincia di Milano, «è nella parola normalizzazione: è il termine adottato in campagna elettorale da Berlusconi e Bossi, che si sono spesi molto a giugno. L’obbiettivo era normalizzare, cioè rendere omogenea l’amministrazione provinciale alle altre, già nelle mani di Pdl e Lega. Preso tutto, assicurato un controllo assoluto sulle istituzioni, il processo di allentamento della tensione si è accentuato». E oggi all’ex capitale morale manca persino il colpo di reni per esigere dal governo i fondi
politica
pagina 4 • 23 dicembre 2009
Il progetto. Il governo vara due decreti che regolamentano la definizione dei siti e le compensazioni per i cittadini
Ecco l’Italia nucleare
Montalto di Castro, Trino Vercellese, Caorso, Porto Tolle e Termoli: qui sorgeranno le nuove centrali in cambio di soldi e forniture gratis di Alessandro D’Amato
ROMA. Generosissime compensazioni e uno speciale sconto sull’elettricità. Il governo punta a convincere con le “buone” i comuni a ospitare le nuove centrali nucleari: l’esecutivo ha infatti approvato due schemi di decreti legislativi portati in Consiglio dei Ministri dal responsabile dello sviluppo economico Claudio Scajola, uno sulla «localizzazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica e nucleare, di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio, nonché misure compensative e campagne informative», e l’altro sul «riassetto della normativa su ricerca e coltivazione delle risorse geotermiche». Le località non sono comunque ancora state definite: nel decreto si dà mandato all’Agenzia per la sicurezza nucleare di definire le zone cosiddette eleggibii. I criteri sono l’assenza di sismicità, la vicinanza dell’acqua e distanza da zone densamente abitate; le future centrali potranno sorgere in aree già sedi di centrali o che comunque abbiano una buona capacità di trasmissione elettrica.
Ma la localizzazione vera e propria sarà affidata anche ai soggetti che si candidano a guidare le centrali. Con questa procedura, il ministero, ricevute le richieste del degli operatori provvederà a trasmettere alla Conferenza Stato-Regioni e all’Agenzia per la sicurezza Nucleare l’elenco completo delle aree per una valutazione di merito. L’Agenzia avrà 60 giorni per esprimere il pro-
Il vero nodo è la liberalizzazione del mercato dell’energia
Sarà un affare soltanto se non sarà energia di Stato di Carlo Lottieri nizia a entrare nel vivo la “lunga marcia”dell’Italia verso l’energia atomica. Ma è bene evitare toni troppo trionfalistici. Non c’è dubbio che oggi il nucleare sia assai sicuro e pulito. Come da tempo viene sottolineato da tanti scienziati, i morti causati dal ricorso a questa fonte di energia (anche calcolando il disastro di Chernobyl, più da imputarsi all’inefficienza del regime sovietico che a problemi tecnologici) sono davvero pochi se paragonati a quelli causati dagli incidenti legati ad altre fonti: dal carbone al petrolio. Nonostante l’opposizione degli ambientalisti più radicali, attualmente l’energia estratta dall’atomo non pone quindi veri problemi. Ed è anche significativo che in molti Paesi – ma in Italia siamo in ritardo pure su questo – vi siano pure numerosi verdi che stanno iniziando a rivedere le loro posizioni, in considerazione del fatto che l’atomo è una delle poche alternative realistiche agli idrocarburi, all’origine dei gas serra.
un’eventuale futura legislatura (tra tre anni o anche dopo) – una maggioranza diversa possa pretendere di buttare il tavolo per aria: magari perché ricattata da qualche gruppuscolo presunto ambientalista. Perché è importante non ignorare quanto afferma il nuovo presidente dei Verdi italiani, Angelo Bonelli, secondo cui «il nucleare è una vera e propria truffa che gli italiani non vogliono, come dimostrano le oltre 20 mila firme raccolte da noi Verdi, solo nello scorso week-end, durante le primarie dell’energia». È normale che Bonelli dica questo, ma è indispensabile – prima di iniziare a investire in quella direzione – che le figure più rappresentative di entrambi gli schieramenti si esprimano senza ambiguità e siglino, sul tema, un patto di ferro. Perché bisogna assolutamente evitare di ripetere ciò che avvenne nei decenni scorsi, quando costruimmo centrali nucleari (da Montalto di Castro a Caorso) che nella migliore delle ipotesi abbiamo sottoutilizzato.
Se il nucleare oggi è molto più affidabile ed ecologico di tante altre soluzioni, i problemi veri sono di tipo economico. Ottenere energia in questo modo esige infatti investimenti a lunga scadenza e un dispendio considerevole di risorse. Al momento attuale, quando si considera l’insieme dei costi è difficile ritenere che quella nucleare sia un’energia a buon mercato, anche se mantiene una sua ragionevolezza: dato che rappresenta una garanzia, una specie di polizza assicurativa, di fronte ad ipotesi di crisi petrolifere o comunque di prezzi alle stelle delle altre fonti. È significativo, in questo senso, che i Paesi del mondo occidentale non puntino sul nucleare come sulla soluzione definitiva, ma cerchino invece di individuare un mix, al cui interno una quota è coperta da questi impianti, che permettono un alto grado di autonomia e sottraggono a ricatti di carattere politico. Proprio per gli alti investimenti che esige, è necessario che si arrivi al nucleare attraverso un ampio accordo politico. Bisogna insomma assolutamente scongiurare il pericolo che – in
In secondo luogo, è bene che questo ritorno al nucleare sia nel segno del privato e della concorrenza tra soggetti indipendenti. È vero che il sistema energetico italiano è ancora largamente dominato da imprese sostanzialmente pubbliche, dato che le privatizzazioni degli anni Novanta sono state parziali. Ma questa deve essere proprio l’occasione per riaprire il discorso, che ora si fa più importante dato che è necessario – per varie ragioni – che vi sia la più ampia distanza tra chi controlla e chi è controllato. Giuste o sbagliate che siano, le apprensioni degli italiani di fronte al rischio di incidenti o disastri sono reali: e di esse bisogna tenere conto. Ma proprio per questo è bene che le aziende incaricate di produrre e gestire le nuove centrali non siano baracconi pubblici, ma invece siano imprese private: e che siano chiamate a rendere conto dei criteri di sicurezza e della gestione delle scorie di fronte a soggetti terzi. Il ritorno al nucleare può essere una buona opportunità, anche se non si tratta certo della soluzione di tutti i problemi. Ma sarà una scelta saggia solo se sarà accompagnato da un processo di privatizzazione e liberalizzazione, oltre che da una solida intesa (questa sì, autenticamente istituzionale) tra tutte le forze maggiori: affinché le risorse investite in tale direzione non siano buttate via. Il Paese non se lo può proprio permettere.
I
prio parere tenendo presente i requisiti tecnici (sistema di raffreddamento, distanza dalle aree abitate e fenomeni sismici) e quelli ambientali (suolo, risorse idriche, valore paesaggistico e storico culturale dell’area). Individuate delle aree che rispettino questi criteri, il dicastero guidato da Scajola convocherà i rappresentati delle Regioni per sottoporre nuovamente l’elenco delle aree giudicate idonee. Se le Regioni interessate manifestassero il proprio parere negativo in sede di Conferenza Unificata allora verrebbe istituito un apposito Comitato interministeriale per un ulteriore approfondimento tecnico che vedrebbe il Mse, il ministero dell’Ambiente e il ministero dei Trasporti da un lato e le regioni interessate dall’altro.
L’annuncio ufficiale dei primi tre luoghi, dove i lavori cominceranno entro il 2013, sarà fatto solo dopo le elezioni regionali I siti finora considerati in pole position per ospitare una centrale sono sostanzialmente cinque: Montalto di Castro,Trino Vercellese, Caorso, Porto Tolle in provincia di Rovigo e Termoli. A questi si aggiungono Chioggia, Monfalcone, Borgo Sabotino, Garigliano, Oristano e Palma. Ma la rosa di scelta per le prime due o tre centrali, la cui prima posa è attesa per la fine della legislatura, dovrebbero essere Montalto, sul quale i tecnici dell’Enel puntano molto, e una località del Nord-Est, probabilmente in Veneto. Anche se la recente giubilazione di Giancarlo Galan, che non sarà ricandidato per fare posto a un leghista, potrebbe di colpo riaprire i giochi: di sicuro l’argomento sarà sollevato durante la campagna elettorale dal centrosinistra, sia nel Lazio che nelle regioni settentrionali, e probabilmente toccherà qualche nervo scoperto nell’anima popolana del Carroccio. Ed è proprio per questo che i criteri definiti ieri dal governo, che identificano in modo chiaro i luoghi in cui sorgeranno le nuove centrali, non produrranno per il momento nomi e consultazioni:ci sono le elezioni regionali e nessuno vuole farle con la spada di Damocle di una centrale nucleare sulla testa. Insomma, l’appuntamento si sposterà alla primavera prossima, probabilmente tarda: in quella fase si passerà alla consultazione con gli abitanti dei comuni interessati, che
politica
23 dicembre 2009 • pagina 5
L’investimento ha ragioni più finanziarie che politiche
«Ma possiamo ancora pagare il petrolio?» «Il rapporto costi-benefici è a favore dell’atomo», secondo l’economista Alessandro De Nicola di Osvaldo Baldacci
ROMA. L’energia nucleare non è la panacea di ogni male, ma tutto sommato adesso conviene provare a investirci. Magari con un po’ più di serietà scientifica. Ne è convinto Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society. L’economista punta molto sul tema del rapporto costi-benefici, che andrebbe approfondito meglio. Un calcolo che vale sia a livello nazionale che locale. Professore, qual è la sua posizione in materia di energia nucleare? È un tema delicato, in cui vanno tenuti presenti i rischi e il rapporto costi-benefici. Per quanto riguarda il tema della sicurezza quelli che come me non sono scienziati nucleari non possono dare un giudizio profondo, ma si devono fidare degli specialisti. Certo, l’esperienza fin qui vissuta ci insegna che in cinquant’anni le centrali nucleari hanno fatto meno vittime di qualsiasi altra fonte di energia, comprese le centrali idroelettriche con i loro drammatici crolli. Per quanto riguarda invece il discorso costibenefici? Il problema dei costi è più preoccupante e richiede un ragionamento più approfondito. Negli ultimi tempi sono uscite persino le prime ammissioni dei francesi sulla scarsa convenienza economica del nucleare. Però il problema va inquadrato in un contesto più ampio. Penso che si debba puntare sul nucleare non come panacea di ogni male, ma nella misura in cui puntiamo contemporaneamente su tutte le energie alternative a carbone e petrolio. Per intenderci, è evidente che tutte queste energie alternative, il nucleare come il solare l’eolico e via dicendo, sono più care degli idrocarburi. Ma carbone e petrolio sono fonti esauribili, forse non così presto come dicono certi catastrofisti, ma comunque in esaurimento. E parallelamente i costi aumenteranno. Ci aspetta forse anche una carbon tax, per dire. Dobbiamo quindi farci una domanda importante: possiamo permetterci i futuri costi dell’energia da idrocarburi? Per questo credo investire sul nucleare aia ancora conveniente, a patto di non dimenticare le altre questioni fonda-
“
Il ministro Claudio Scajola (qui con Gianni Letta) è l’artefice della rivoluzione nucleare decisa dal governo sarà gestita da un magistrato. Sarà disciplinata anche la fase di stoccaggio, i cui costi e gestione sono affidati al soggetto titolare della concessione (contrariamente alla fase di decommissioning affidata alla Sogin), che una volta quantificati i costi di smaltimento li comunica al soggetto titolare per contribuire al fondo appositamente creato per tutte le attività di smaltimento. Al titolare dell’autorizzazione unica spetterà anche contribuire con adeguate misure compensative a vantaggio delle persone residenti e delle aziende operanti nei territori interessati in ragione dei Kw prodotti e autorizzati.
Nel frattempo, il governo renderà pubblico il suo piano nucleare in un libro bianco in cui metterà per iscritto i propri obiettivi: le intenzioni sono di mettere in funzione quattro reattori entro il 2020 e poi altri 4-6 (dipenderà dalla grandezza) nel decennio successivo. Il tutto allo scopo ambizioso di arrivare ad una capacità installata di 13 mila Mw, che dovrebbe essere, secondo i criteri, in grado di soddisfare un quarto del fabbisogno nazionale. Per le aree l’iter autorizzativo prevede l’utilizzo dei criteri internazionali decisi dalla Aiea e dall’Ocse. L’Agenzia effettuerà una Valutazione Ambientale Strategica, mentre al ministero dell’Ambiente spetterà la Valutazione d’impatto ambientale. Il decreto prevede compensazioni molto generose: contributo una tantum in fase di costruzione dell’impianto (circa 30
milioni di euro per reattore, ovvero 6 milioni all’anno per 5 anni) che andranno a imprese, Comune ospitante e confinanti, mentre per gli abitanti il prezzo dell’elettricità sarà fissato a 0,3 euro per M/Vh per un minimo 60 anni; con l’Ici (13 milioni di euro l’anno) si arriverà a circa 20 milioni totali che entreranno nelle casse dei municipi. Una cifra simile a quella che toccherà al territorio che accetterà di ospitare il deposito delle scorie nucleari, frutto della precedente stagione dell’atomo all’italiana: qui ad essere favorita è una località del Sud, ma le opzioni sono ancora tutte aperte; e si deve fare presto, visto che per la fine del prossimo decennio saranno di ritorno i rifiuti che oggi si trovano a Sellafield e in Francia, dove sono sottoposti al riprocessamento per ricavarne combustibile nucleare.
Ma c’è ancora un’incognita irrisolta nel piano nucleare: l’istituzione dell’Agenzia, che temporalmente sarebbe dovuta arrivare prima del decreto di ieri, ma è rimasto tutto bloccato perché non si trova un accordo su chi dovrà presiederla. Tra i nomi che si fanno c’è quello di Carlo Jean, ex presidente di Sogin costretto a dimettersi dopo le polemiche sulla sua gestione “allegra” (tra cui l’apertura di un costosissimo ufficio di rappresentanza in Russia), Maurizio Cumo, successore proprio di Jean alla Sogin, e Guido Possa, ex presidente di McDonald’s Italia e considerato un fedelissimo del premier Berlusconi.
mentali come la razionalizzazione del consumo energetico e gli investimenti anche nelle altre energie alternative. Ma anche qui con criterio e con una strategia complessiva. In questo senso, come si sta muovendo l’Italia? Ho la sensazione che tutta questa grande questione venga affrontata in modo un po’ facilone. Non si è dato in carico a un organismo tipo l’Enea di fare studi complessivi, anche in contraddittorio, facendo una grande sintesi. Non si possono esprimere solo politici e singoli scienziati. È mancato un grande dibattito nazionale non stereotipato, un grande momento di riflessione guidata da autorità esperti anche di diverso orientamento, che fornisca una base condivisa su alcuni fatti come rischi e costi. Per avere almeno una piattaforma comune per far decidere in modo informato e da cui ciascuno possa derivare la sua posizione, per arrivare non dico a una sintesi condivisa, ma almeno a una sintesi. C’è anche il problema delle comunità locali... Intanto la cosa migliore è seguire la via più semplice: se ci sono comunità locali con le giuste caratteristiche che sono più favorevoli di altre, si scelgano subito quelle. È innegabile che una centrale nucleare può portare benefici economici, anche ad alto livello. Per esempio, centinaia di persone di alto profilo e soprattutto di alto reddito che vanno a vivere in quelle zone. E tutto un ricco indotto. Oltre ai vantaggi delle infrastrutture e delle attività economiche connesse. Certo, case e terreni possono acquistare valore se sono abbastanza vicini, o anche perderlo, se sono troppo vicini. Detto questo sono dell’idea che di fronte al problema della persuasione dei locali gli interventi a pioggia non siano la soluzione migliore: piccoli benefici e incentivi rischiano di non essere abbastanza efficaci e convincenti e allo stesso tempo creare una rete di servitù che poi rischiano di rimanere ad oltranza, anche magari quando la centrale non ci sarà più. Meglio una soluzione unica, generale, uguale e astratta per tutti, un bel risarcimento a chi lo deve a vere e la chiudiamo là.
Però in questi mesi è mancato un dibattito nazionale, articolato e al limite anche aspro, grazie al quale alla fine arrivare a una decisione condivisa
”
diario
pagina 6 • 23 dicembre 2009
ROMA. Tutto in meno di 24 ore. Ieri pomeriggio Sergio Marchionne ha ribadito a governo e sindacati che senza le infrastrutture necessarie è antieconomico produrre auto a Termini Imerese. Questa mattina si apre il primo cantiere del Ponte di Messina. Ha il via la costruzione dell’infrastruttura per eccellenza, quella in grado di avvicinare la Sicilia al resto d’Italia. Di renderla finalmente competitiva. Al vertice con l’Ad di Fiat come alla posa della prima pietra del Ponte (che infatti è stata rimandata) avrebbe dovuto partecipare Silvio Berlusconi. Ma l’impossibilità del premier dovuta al folle gesto di Massimo Tartaglia non è l’unico punto di contatto tra due vicende che chiudono in sé un sessantennio di programmazione siciliana. A Termini Imerese, e in parallelo alla crescita dello stabilimento, la politica locale ha sempre vagheggiato l’idea di realizzare una piattaforma logistica. Quindi il sogno di trasformare l’Isola nella porta dell’Italia verso l’Africa. Peccato che ci siano voluti più di 30 anni anche alla Fiat per rendersi conto che mancava una strada agevole per congiungere la fabbrica alla vicina autostrada per Palermo. Il Ponte sta per nascere in una Sicilia che di fatto viaggia ancora su un monobinario tra Messina, Palermo e Catania. Ma non per tutti questa è una contestazione banale. Racconta Calogero Mannino, oggi parlamentare siciliano dell’Udc e in passato ministro del Mezzogiorno e dei Trasporti: «Un direttore generale dell’Anas, Massimo Perotti, mi spiegò che il nostro sistema infrastrutturale, le strade e i binari, andavano programmate in base al traffico portato del Ponte e viceversa». Di conseguenza niente Ponte, niente autostrade e ferrovie per girare sull’isola. Oggi sta per arrivare il Ponte,
La Fiat passa lo Stretto Basta auto a Termini Oggi intanto arriva la “prima pietra” per il Ponte di Francesco Pacifico te parte grazie ai due miliardi di euro in pancia a Stretto di Messina spa, controllata da Fintecna, che è sua volta l’ente liquidatore dell’Iri. Ma non c’è stata la corsa di altri privati, men che meno locali, a partecipare con Impregilo al project financing. Non a caso Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia e del Banco di Sicilia, uno che si definisce «un sostenitore laico del Ponte», fa notare: «Sarebbe stato meglio se questo progetto fosse stato integrato al programma per la costruzione di un sistema infrastrutturale lo-
Luci e ombre sull’Isola: la mega infrastruttura sta per nascere in una regione che viaggia ancora su un monobinario tra Messina e Palermo eppure chiude lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, ultimo vero baluardo dell’industria pesante in Sicilia. E tra il 1970, anno di apertura della fabbrica, e il 2009, anno dell’avvio dei lavori dell’infrastruttura, non sembrano passati 36 anni. Oggi come ieri protagonista è ancora uno Stato, che programma dall’alto un progetto di sviluppo nel quale il territorio non sembra avere un ruolo. E forse non lo vuole neppure avere. La Fiat “delocalizzò” in Sicilia allettata dagli incentivi a fondo perduto della Cassa del Mezzogiorno. La costruzione del Pon-
cale di ponte e strade». In questa logica la più faraonica opera dall’Unità d’Italia in poi finisce secondo l’imprenditore per diventare «un’importante infrastruttura alla quale è sbagliato attribuire funzioni miracolistiche. Perché non può cambiare le sorti economiche della Sicilia». Ricorda invece il direttore delle Ragioni del Socialimo, Emanuele Macaluso: «Termini si fece in un momento nel quale il nostro territorio aveva ancora un minimo di potere contrattuale con lo Stato e con la grande indsutria. Ricordo ancora la
Marchionne alza i livelli della produzione italiana
Un milione di auto Roma. «Ma lei dottore, parla in americano o in italiano?». Un po’ per rompere il ghiaccio, un po’per far capire i termini della questione, Gianni Letta non poteva trovare modo migliore per introdurre il vertice con Sergio Marchionne con governo e sindacati per illustrare i piani del Lingotto per l’Italia.
E i piani dell’azienda sostanzialmente prevedono di portare a un milione le vetture costruite nei confini domestici, il ritorno della Panda in Italia (sarà realizzata a Pomigliano d’Arco) e la chiusura di Termini Imerese dal 2011. Infatti l’amministratore delegato di Fiat non sembra essersi fatto intenerire dal richiamo alla bandiera: «C’è una forte disparità dei livelli di utilizzo della manodopera tra gli stabilimenti auto di Fiat italiani ed esteri». Di conseguenza non seguire questa regola, «sarebbe una rovina». Anche perché, ha aggiunto,
«le previsioni della domanda per le auto nel 2010 saranno stabili e l’operazione Chrysler è un tassello fondamentale per il futuro della Fiat». Facendo intendere che l’America e non l’Europa è il vero mercato. L’Ad ha poi spiegato che nei prossimi due anni Fiat investirà in Italia 8 miliardi di euro. «Vogliamo che l’incontro di oggi (ieri, ndr) sia tutt’altro che rituale. Noi abbiamo un piano ambizioso per la Fiat in Italia».
Circa lo stabilimento di Termini Imerese Marchionne ha confermato la volontà di interrompere la produzione con la fine del 2011 a causa di «condizioni di svantaggio competitivo. Lo stabilimento è in perdita e la Fiat non può più permetterselo. Siamo disposti a discutere proposte di riconversione con la Regione Sicilia e con gruppi privati e a mettere a disposizione lo stabilimento».
trattativa tra il il presidente di Sicilindustria, La Cavera, e l’avvocato Agnelli. Oggi con chi parli: Marchionne guarda alla macroeconomia della sua azienda, i problemi sociali non lo toccano. Basta vedere come discute». Non è bastata l’onda della globalizzazione per spazzare via il concetto di clausola sociale, quasi sempre alibi della nostra politica e della grande industria per ottenere consenso. Perché oggi come allora si parla soltanto ai posti di lavoro, non degli effetti nefasti delle imposizioni economiche dall’alto. E ben si stanno materializzando nella chiusura dello stabilimento di Termini, con il portato di frustrazione e degrado, che segue sempre in questi casi. Come dimostra al nord la “desertificazione” di Arese o al Sud quella di Bagnoli. «Non voglio ribaltare le leggi dell’economia», aggiunge Macaluso, che dal 1946 al 1957 è stato leader della Cgil regionale prima di assurgere tra i leader miglioraristi del Pci a livello nazionale, «Ma il problema sociale esiste. Bisogna industriarsi perché non si può pensare di risolvere tutto tagliando l’occupazione. Che si fa allora con gente di 45 o 55 anni, che è troppo vecchia per andare in pensione e troppo giovane per trovare un altro lavoro?». Verrebbe da rispondere che la si rottama. «Il problema che non si fa più programmazione. Che manca alla guida del Paese chi riesce a dare un indirizzo o fa una selezione delle priorità. Tutto si gioca sull’immagine, sulla grandezza delle cose, sui lustrini. Non è certo costruendo il Ponte che dai una risposta all’immondizia che trabocca dai cassonetti di Palermo o ai lavoratori di Termini».
Negli ultimi dieci, in una Sicilia che cresce la metà del resto d’Italia, si sono persi 50mila posti di lavoro. Cinquemila di essi soltanto nei tre grandi poli di Palermo (alla Fincantieri), Termini (Fiat) e Catania (Stm). Per non parlare delle crisi ai petrolchimici di Gela o Prioli. Di riflesso, e 48 ore fa, Salvatore Moncada ha annunciato la costruzione del più grande parco eolico italiano a Campofranco (Caltanissetta). L’Enel, la Sharp e la stessa Stm stanno per lanciare in grande la produzione di pannelli fotovoltaici. Intanto i distretti di Mazzara del Vallo (pesca) e Caltagirone (ceramica) conquistano i mercati di mezzo mondo. «Ma servono infrastrutture e investimenti», dice Mariella Maggio, leader della Cgil siciliana, «per far sì che queste eccellenza, nate sul territorio, non restino delle nicche e diano la ricchezza che si sta perdendo sul versante industriale. Le strade e i binari prima del Ponte».
diario
23 dicembre 2009 • pagina 7
Tentativi. Alla Camera è iniziato ieri il dibattitto sul disegno di legge: divisioni anche nella maggioranza
Cittadinanza, la Lega detta legge I “finiani” presentano emendamenti in linea con il testo Granata-Sarubbi ROMA. Per Gianfranco Fini basta lavorare e pagare le tasse per diventare italiano. Si è italiani, indipendentemente dal colore e dalla razza, dei genitori. Per Roberto Cota, capogruppo della Camera della Lega e candidato governatore in Piemonte, uno schema simile «è incompatibile per il programma del Pdl e le norme “estensive” sono frutto di un’ideologia scollegata dalla realtà». Inutile dire chi tra i due – nonostante soffi vento di dialogo – abbia avuto per il momento ragione. Dopo il disegno di legge bipartisan Granata-Sarubbi, ieri alla Camera è arrivato il testo presentato dalla relatrice Isabella Bertolini. Che va chiaramente in direzione opposta. Basti pensare che il figlio di stranieri nati in Italia, per avere la cittadinanza, non soltanto deve aver passato dieci anni – e senza mai essersi mosso – dal territorio nazionale. Ma deve poter vantare un diploma, tra l’altro preso con buoni voti, la conoscenza della lingua e un percorso di formazione che gli garantisca di trovare un lavoro. Il confronto sul testo, come era prevedibile ha evidenziato non soltanto le diverse posizioni tra maggioranza e opposizione, ma anche le diversità di vedute all’interno del Pdl tra l’ala “finiana” che per gli immigrati vuole delle norme estensive e quella più ortodossa. Secondo Andrea Sarubbi è singolare sostenere che «sono necessarie le riforme e la prima volta che due persone cercano il dialogo, questa diventa un inciucio». Il deputato del Pd, nel suo intervento in Aula si è detto, però, fiducioso sul fatto che «ci sono ampi margini per trovare un accordo alto sulla cittadinanza». Fabio Granata, cofirmatario del disegno di legge bipartisan, ha seguito fino alla fine il dibattito e ha invitato l’opposizione a «superare il clima elettorale, andando oltre le regionali, per approvare una norma innovativa sulla cittadinanza». A sostegno di Granata si è aggiunto il vice capogruppo del Pdl, Italo Bocchino, secondo il quale «il testo della relatrice Bertolini è un ottimo testo di partenza. Ovviamente bisogna essere pronti al dialogo e alla discussione, stando attenti ai tempi e ai modi di questa riforma, per non politicizzarla, riprendendola dopo
i 10 anni (che siano proprio 10 e non 13 o 14), ma in cui ci sia un decorso di esami, confronti linguistici, storici, culturaliL’esperienza ci dimostra che le vie facili hanno sempre portato a disastri».
di Franco Insardà
Le differenze tra i ddl Bertolini e quello bipartisan
Il problema dei minori ROMA. Il testo del quale è stata relatrice Isabella Bertolini è arrivato in Aula dopo l’esame della commissione Affari costituzionali e il parere favorevole delle commissioni Giustizia, Esteri, Finanze, Lavoro e Politiche europee. Il testo in discussione mantiene sostanzialmente invariate le norme vigenti in materia di cittadinanza, ma prevede per gli un immigrati particolare “percorso” da seguire per ottenere la cittadinanza italiana. Gli immigrati, tra l’altro, dovranno dimostrare di risiedere in Italia da almeno dieci anni e dopo otto dovranno fare domanda di frequenza per corsi obbligatori di storia e cultura italiana ed europea. La proposta bipartisan Sarubbi-Granata intende, invece, ridurre a cinque anni i tempi per il rilascio della cittadinanza e introdurre lo “ius soli” per assicurarla automaticamente a chi nasce in Italia.
«Le differenze con il testo Bertolini ci sono - dice Fabio Granata -, ma il criterio di fondo è rispettato, nel senso che si passa da un’ottica concessoria e quantitativa a un’ottica qualitativa. Anche sui termini sono soddisfatto perché, pur prevedendo dieci anni, si tratta di un termine certo, alla scadenza del quale si è cittadino e poi si accetta l’idea dell’esame, della conoscenza della storia e del giuramento sulla Costituzione». Sulla cittadinanza ai minori non viene recepito nulla ma, conclude Granata: «Nel nostro testo si prevede l’accoglienza e l’integrazione piena dei minori nati in italia da genitori stranieri, regolarmente residenti da almeno 5 anni, e dei giovani di seconda generazione che hanno manifestato, civilmente, la loro volontà di essere italiani. Ma registriamo un’ampia convergenza che fa ben sperare».
le elezioni regionali, quando sarà più facile trovare la convergenza su alcuni argomenti». Ma Bocchino ha anche aggiunto che «il problema dell’immigrazione è’ una trave che poggia su due pilastri: il primo è quello della lotta alla clandestinità, il secondo è l’integrazione. Molto si è fatto sul primo pilastro, ora: dobbiamo lavorare sul secondo». L’integrazione, però, è l’argomento principale che divide al punto che la stessa Bertolini ci ha te-
Lo stesso leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, nel ritenere necessarie «nuove regole di fronte a un nuovo straordinario fenomeno come quello dell’immigrazione nel nostro Paese» ha replicato alla Lega che «la cittadinanza non è nel programma di governo, ma di certo lo è in quello dell’Italia e degli italiani». Pur evidenziando «le troppe questioni irrisolte nel testo» ha ritenuto necessario continuare nella discussione su una questione «che non può più essere rimandata». Casini ha anche sottolineato l’importanza per l’Italia dell’apporto degli immigrati, «fondamentale sia sul piano lavorativo ed economico che su quello della natalità. Si può rinunciare all’apporto di 4,5 milioni di lavoratori stranieri in regola? A cinque miliardi di tasse che ogni anno versano al nostro fisco? E ai 7 bambini su 10 che nascono da stranieri nel nostro Paese possiamo dire che non li vogliamo? Cosa guadagniamo dalla presenza sul nostro territorio di migliaia di nuovi emarginati?». Per Fabio Granata conta il risultato: «Tra il testo che abbiamo messo a punto con Sarubbi e quello illustrato dalla Bertolini ci sono delle differenze, per questo motivo abbiamo
Casini, pur evidenziando «le troppe questioni irrisolte nel testo» ha sottolineato l’importanza per l’Italia dell’apporto degli immigrati nuto a chiarire che «la cittadinanza non rappresenta un mezzo per una migliore integrazione, ma la conclusione di un percorso».
Per il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto la cittadinanza «è stata portata in Aula per una forzatura politica non essendo ancora maturata in commissione, ma non avendo neanche una reale priorità rispetto allo stesso problema dell’immigrazione». Nel merito Cicchitto si è dichiarato favorevole che «un processo di assimilazione come la cittadinanza abbia tempi certi. Il testo Bertolini combina insieme
presentato degli emendamenti. Ritengo però importante che sia iniziata la discussione e ci siano state delle aperture anche da parte di Cicchitto, dell’Udc e di una parte del Pd. Il 12 gennaio riprenderemo la discussione e penso che, passate le elezioni regionali, gli animi saranno più sereni per approvare a larga maggioranza una legge di civiltà. È chiaro, in piena campagna elettorale, la Lega non sia disponibile a certe aperture che il suo elettorato non digerirebbe. Dopo tutto sarà più semplice. Abbiamo aspettato 16 anni, possiamo tranquillamente pazientare altri tre mesi».
politica
pagina 8 • 23 dicembre 2009
Pacificazione. Volano le colombe della maggioranza e dell’opposizione: la politica deve cogliere l’occasione propizia
Quel tavolo che non c’è
Casini, Bersani e Berlusconi sono d’accordo: è arrivato il momento di cambiare la Costituzione. Ora serve il coraggio di un’Assemblea di Gennaro Malgieri e “colombe” hanno ripreso a volare nei cieli della politica. Ma non sappiamo dove si poseranno. L’incertezza regna sovrana. E nessuno si fa illusioni.Tantomeno il capo dello Stato che ha giustamente richiamato tutti ad un sano realismo ritenendo che se il tempo di un riformismo possibile è giunto, bisogno dimostrarlo con i fatti, a cominciare dall’”uso”più consapevole costituzionalmente accorto del
L
Parlamento. È probabile che c’è chi voglia approfittare del clima deterioratosi come mai era accaduto nella storia della Repubblica per rilanciare un patto di pacificazione fondato, come volgarmente si dice, sull’“inciucio”. Disprezzabile la parola, inaccettabile il concetto. Sarebbe meglio parlare di ricerca di possibili intese in Parlamento per rimettere il Paese e la vita politica su binari accettabili. Ma sfidare il buonsenso e quel minimo di galateo politico che ancora ci rimane per far sapere a tutti che la sola cosa da fare è un compromesso al ribasso, ci sembra francamente umiliante per la politica.
Comunque, se va respinta l’arroganza di coloro che cercano un compromesso per salvarsi l’anima ed anche qualche altra cosa, va pure detto, con cauta soddisfazione, che tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra (con l’eccezione dell’Idv, partito sfasciacarrozze, incapace di articolare un pensiero politico) si fa strada la necessità che la contrapposizione frontale a lungo andare produce soltanto un clima da guerra civile striscian-
te i cui esiti sono facilmente immaginabili avendo già vissuto esperienze dominate dalla delegittimazione delle parti. E oltretutto non apre nessuna prospettiva, neppure quella delle elezioni anticipate che, comunque, non risolverebbero i problemi sul tappeto ed acuirebbero lo scontro, accentuerebbero la paralisi, getterebbero il Paese nel caos. Parlarsi, confrontarsi, in Parlamento e fuori, è già qualcosa, ma non basta. È perciò indispensabile che tutta
zioni di un accettabile dialogo sulle cose da fare.
A questo punto, se tutti offrono la loro buona volontà affinché la legislatura, dopo il faticosissimo e, per certi versi, inconcludente inizio, diventi “costituente”com’era nella premesse, sarebbe opportuno che nessuno si arroccasse a difesa della la propria lista di istituti da riformare. E, soprattutto, che nessuno escludesse a priori strumenti idonei allo scopo. C’è
Occorre formare una nuova Costituente, eletta con metodo proporzionale, che abbia la chiara finalità di ridisegnare il patto tra governati e governanti l’opposizione democratica e tutta la maggioranza (anche all’interno degli stessi schieramenti) riconoscano che soltanto sul terreno delle riforme è possibile l’incontro e, dunque, il mutamento di clima. Berlusconi sembra esserne convinto e le sue parole, dopo la degenza in ospedale, non lasciano spazio ad equivoci. Come convinti lo sono Bersani e Casini, principali interlocutori, in questo momento del Cavaliere (con l’appendice di D’Alema), per tentare di ricreare le condi-
bisogno di tessere trame accettabili e praticabili affinché si trovi, come dice Casini, «una via d’uscita all’eterna transizione italiana». Il leader dell’Udc immagina una «riforma dello Stato». Ne conveniamo. Che sia una Convenzione, una nuova Bicamerale, un sistema analogo, magari imperniato sul lavoro di commissioni parlamentari, non ha importanza. Ma ci permettiamo di rilevare, come liberal ha già fatto in tante occasioni, che l’ambizioso progetto non può concretizzarsi con il
solito ricorso alle modalità previste dall’articolo 138 della Costituzione. Se, come sembra della dichiarazioni di molti, socialisti d’antan (Formica e De Michelis tra gli altri), Cossiga, Tremonti, Frattini, lo stesso D’Alema, per non dimenticare Casini e Buttiglione, si vuole procedere alla indispensabile revisione della seconda parte della Carta costituzionale, la citata disposizione risulta inadeguata perché essa deve ritenersi limitata alle ipotesi di modifiche specifiche del tessuto normativo, tali comunque da non incidere sugli aspetti fondanti dell’ordinamento che è proprio ciò di cui si ha bisogno. Infatti, quando si parla di riforma integrale della seconda parte della Costituzione (ma non è detto che alcuni principi contenuti nella prima non debbano essere soggetti quantomeno ad una riflessione), s’intende intervenire sulla forma di Stato, con particolare riguardo ai rapporti tra poteri centrali e locali e a quelli tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni, e sulla forma di Governo, ridisegnando quindi le attribuzioni del capo dell’esecutivo e perfino l’elezione di questi, oltre alla ridefinizione
politica
23 dicembre 2009 • pagina 9
Il senso della proposta dell’Unione di Centro per le riforme
È anche dalle Regioni che rinasce la Nazione
I grandi partiti devono trasformarsi in realtà federali per affrontare la sfida delle nuove regole di Francesco D’Onofrio bbiamo iniziato dal Partito il cammino delle riforme istituzionali: attendiamo che gli altri siano all’altezza di questo compito. L’Udc aveva infatti ripetutamente affermato di rifiutare qualsiasi alleanza politica nazionale con il Pd e il Pdl proprio perché riteneva che in vista della riforma federalista dello Stato occorreva che i partiti nazionali – e quindi anche l’Udc – si comportassero da soggetti federali anche in riferimento alle prossime scadenze elettorali regionali.
A
Berlusconi telefona a Napolitano
Il Colle: «Rapporti sembre buoni con il premier» ROMA. Ieri mattina Silvio Berlusconi ha telefonato al presidente Napolitano per uno scambio di opinioni dopo il discorso del capo dello Stato alle alte magistrature sulla necessità di una larga condivisione per le riforme. Al termine del colloquio, Berlusconi e Napolitano si sono scambiati gli auguri di Natale. «Mi ha fatto piacere che il presidente del Consiglio abbia chiamato apprezzando le linee generali del mio discorso» ha detto Napolitano parlando con i giornalisti durante lo scambio degli auguri al termine dell’incontro con il corpo diplomatico al Quirinale. A chi gli chiedeva se ci fosse stato un ”disgelo” nei rapporti con il premier, il capo dello Stato ha risposto con una battuta: «Io sono per natura scongelato...». Quindi ha precisato che i rapporti personali con Berlusconi «sono sempre stati buoni: una cosa sono i rapporti personali e un’altra quelli tra le istituzioni, quando vengono toccate le prerogative istituzionali io reagisco nel modo che mi pare più opportuno». Quanto al clima politico il presidente ha osservato che i rapporti tra le istituzioni sono «normali, diversi quelli tra le forze politiche: questi se li devono vedere loro».
dei rapporti con il potere giudiziario e quello legislativo. Insomma, anche l’ipotesi di un semipresidenzialismo non può essere aprioristicamente scartata, mentre dovrebbero essere accantonate tutte le tesi tendenti a ridurre la Grande Riforma ad una resa dei conti con la magistratura.
Il Parlamento, francamente, non ci sembra il “luogo”dove la vasta e complessa materia può essere affrontata con il solo ed inadeguato strumento dell’articolo 138 per le ragioni ricordate, dunque. Occorre, perciò, un’Assemblea costituente, eletta a suffragio universale, con metodo rigorosamente proporzionale, che abbia la chiara finalità di ridisegnare i nuovi assetti costituzionali e rinnovare il patto tra governati e governanti. Per questo l’intervento diretto dei cittadini alla determinazione di un organismo, limitato nel tempo e nel mandato, può essere decisivo per ricomporre la frattura tra società civile e società politica. La legittimazione della possibile nuova Carta dei diritti e dei doveri, dei poteri e delle soggettività diffuse, dell’amministrazione centrale e degli enti locali, deriverebbe direttamente dal popolo attraverso le sue rappresentanze partitiche, specchio di interessi ed ideali, aspirazioni e sensibilità civili e culturali. Nelle ultime tre legislature sono state presentate numerose proposte di legge per l’elezione appunto di un’Assemblea costituente, è il segno che una vecchia idea, oltretutto suggestiva dal punto di vista della partecipazione popolare, possa fare breccia nel lacerato tessuto politico italiano allo scopo di contribuire a risanarlo. Evitare la discussione sarebbe miope. Soprattutto in questo momento.
Su questo punto occorre infatti massima chiarezza: il federalismo che intendiamo realizzare comporta o no uno specifico ruolo politico-istituzionale delle singole regioni? I programmi elettorali sono distinti da Regione a Regione, anche in vista del più volte preannunciato federalismo fiscale, o no? È ipotizzabile una trasformazione federalistica dello Stato italiano senza che i partiti politici – soprattutto quelli nazionali – dimostrino nei fatti di elaborare proposte di governo anche distinte Regione per Regione, o no? L’assemblea nazionale delle regioni ha pertanto reso visibile anche fisicamente il fatto che si erano svolte assemblee di programma in ciascuna delle regioni interessate. Si sta pertanto realizzando sul piano politico di partito un fatto di grande rilievo istituzionale generale: la trasformazione federalistica dello Stato implica che anche i partiti politici si trasformino in soggetti capaci di essere ad un tempo italiani e regionali e quindi complessivamente si candidino a governare l’Italia che è in via di diventare federale.
grande disponibilità questo passaggio storico di trasformazione dei vecchi partiti nazionali e di nascita di nuovi soggetti partitici federali; chi invece affonda le proprie radici o in fatti di pura suggestione populista o in generiche affermazioni di riformismo tendenzialmente classista può non cogliere la trasformazione in atto e continuare a far finta di ritenere vigente una sorta di bipartitismo coatto. Chi invece – come la Lega Nord – ha fatto e fa del federalismo un punto decisivo anche della propria organizzazione interna, avrebbe dovuto ben comprendere che la questione delle alleanze elettorali regionali non era e non poteva far parte di una scelta esclusivamente nazionale o di partito o di alleanza. Si tratta ora di passare alla fase operativa del complesso cammino fino ad ora svolto dall’Udc: raccordo nazionale indispensabile in vista della Costituente di Centro; radicale apertura alle diverse ipotesi che le assemblee regionali hanno posto in evidenza: scelta tendente a costruire un nuovo polo politico di centro; intesa elettorale sia con il Pd sia con il Pdl, o con parti di essi, a seconda degli orientamenti emersi in ciascuna regione.
Non sorprende che il Pd e il Pdl abbiano voluto mantenere una linea esclusivamente nazionale, ignorando del tutto la grande trasformazione in atto nel paese
Non sorprende che Pd e Pdl abbiano voluto mantenere una sorta di linea esclusivamente nazionale, ignorando di fatto la trasformazione federalistica in atto che l’Italia sta realizzando. Sorprende invece che un soggetto politico come la Lega Nord – che ha fatto della trasformazione federalistica dello Stato la sua bandiera ideale più rilevante – abbia concorso ad una scelta tutta nazionale per quel che concerne anche le candidature di alcune delle regioni in cui si voterà. Quale scempio della trasformazione federalistica del nostro Paese! Chi - come l’Udc - ha antiche e solide radici autonomistiche affronta con fatica ma anche con
Si tratta con tutta evidenza di una scelta difficile e faticosa ma strategicamente vincente perché il solo fatto che essa vedrà la luce il prossimo marzo rappresenterà il primo e più rilevante contributo dell’Udc alle riforme istituzionali, convinti come siamo che anche il federalismo fiscale alla fine dovrà fare i conti con i nodi che noi avevamo indicato votando contro la delega: con quali risorse si farà fronte al pagamento degli interessi sul debito pubblico? il principio costituzionale della progressività delle imposte resterà a caratterizzare il federalismo fiscale come vincolo nazionale o come vincolo nuovo per l’autonomia fiscale di ciascuna regione? Occorrerà ridefinire le funzioni proprie di Stato e Regioni anche modificando il Titolo V della Costituzione o si dovrà lasciare questo Titolo allo sbando come sarebbe il caso se si passasse a dare attuazione al federalismo fiscale senza sapere quali sono le funzioni proprie di Comuni, Provincie (non erano da sopprimere), Città metropolitane (oggetto misterioso perché fino ad ora del tutto inesistenti) e Regioni?
panorama
pagina 10 • 23 dicembre 2009
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Se il Natale porta neve e cinepanettoni ue o tre cose sul Natale. La neve. Era annunciata da tempo e se anche delle previsioni del tempo non c’è molto da fidarsi è bene stare con le antenne dritte. Perché d’inverno è più facile che faccia freddo e venga giù la neve rispetto alla primavera e all’autunno. Infatti, la neve è arrivata e con la neve il bianco Natale. Molti, però, questo Natale rischiano di ricordarlo a lungo per i disagi in strada, in stazione, in aeroporto. Basta l’inverno rigido per far fermare un intero Paese e se non è fermata tutta l’Italia è solo perché il gran freddo e la neve si sono fermati sulla classica “linea gotica” e hanno risparmiato il Sud, altrimenti dalle Alpi al Vesuvio giù giù fino alla Sila e all’Etna il Belpaese si sarebbe bloccato nel congelamento, tutto unito per una volta come un grande ghiacciolo a mollo nel Mediterraneo. Possibile che bastano due giorni di neve per mettere in ginocchio un paese che pur ritiene e dice di essere “moderno”? Eppure, sono proprio i luoghi simbolo che sono entrati in crisi: strada, stazioni, aeroporti. Certo, se devono funzionare per forza andando così incontro a dei disastri annunciati è molto meglio fermare tutto o quasi; tuttavia, pur bisogna chiedersi: siamo davvero un paese moderno?
D
C’è poi l’altra cosa, la seconda. Abbiamo passato qualche settimana a discutere del surriscaldamento del Pianeta. Abbiamo sentito dire che c’è stato negli ultimi 150 anni un innalzamento della temperatura di almeno 4 gradi e di questo passo si andrà incontro a delle sciagure umane e naturali perché i ghiacciai polari si scioglieranno e la terra arida non darà più i suoi frutti. Siamo davvero preoccupati, non tanto per noi che - tutto sommato - pur non avendo l’età di Matusalemme comunque faremo in tempo a vivere come si è sempre vissuto, quanto per coloro che verranno dopo. Poi, però, si viene a sapere che nel Nord del nostro Belpaese il termometro è sceso al di sotto dello zero per la bellezza di ben 29 gradi. Possibile? Mi sembra una cosa un po’ esagerata. Togliamo allora dieci gradi, anzi facciamo cifra tonda e diciamo che nel Veneto si è registrato un secco meno 15 gradi. Roba da far battere i denti. Ma allora, scusate la franchezza, il surriscaldamento del Pianeta è vero o è falso? So già la risposta: proprio perché il Pianeta è surriscaldato abbiamo questi rovesci drastici di clima e quindi non ci sono più le mezze stagioni. Insomma, la scienza più sofisticata va d’accordo con il più comune dei luoghi comuni. C’è qualcosa che non va. La terza cosa. Con il Natale e con il panettone, con la neve e i disagi sono arrivati anche loro, immancabili: i cinepanettoni. De Sica e la Ferilli hanno fatto registrare il doppio degli incassi di Pieraccioni. Si vede che sono stati più bravi, cioè più volgari, hanno detto qualche parolaccia e qualche scemenza in più. Pieraccioni, che indulge con moderazione alla volgarità, è fermo al palo. Come i passeggeri dei treni. Siamo un Paese moderno. Buon Natale.
La campagna elettorale (in Italia) non finisce mai L’ipotetico osservatore Usa non capirebbe lo scontro continuo di Anna Camaiti Hostert l discorso pronunciato da Obama in occasione della sua accettazione del premio Nobel per la pace ha avuto, tra gli altri, il consenso da molti leader repubblicani che si sono espressi in suo favore. Newt Gringrich, ad esempio, ex speaker della Camera dei deputati e possibile candidato repubblicano alla Casa Bianca alle prossime elezioni presidenziali ha trovato il discorso «davvero speciale». Al di là della terminologia (guerre giuste e il male nel mondo) e del taglio del discorso che ha rimandato direttamente a certe dichiarazioni di George W. Bush, Obama, come qualcuno ha commentato, è stato coraggioso, inattuale e realista, pur continuando a celebrare, sulle orme di Martin Luther King e di Gandhi, i principi della non violenza e ad affermare che nessuna guerra può essere esaltata perchè con la violenza, Obama ha ripetuto, non si va da nessuna parte.
I
Quello che sorprende gli europei e in particolare gli italiani, specie di questi tempi, non è tuttavia il contenuto delle sue parole che lo avvicinano a posizioni più conservatrici care ai repubblicani, ma il riconoscimento da parte di un avversario politico e ancor di più il mutuo rapporto tra governo e opposizione pur nella bufera precedente l’approvazione di una riforma sanitaria che divide aspramente i due schieramenti parlamentari. L’opposizione, per parola di uno dei suoi più eminenti rappresentanti, elogia il discorso di un presidente che nel paese rappresenta tutti i cittadini. In questo senso gli Stati Uniti sono una vera democrazia dove gli elettori, dopo la battaglia tra i due contendenti alla Casa Bianca, considerano il vincitore il leader legittmo dell’intero paese, pur se non ne condividono le vedute e non l’hanno votato Esiste infatti un clima politico svelenito da contrapposizioni ideologiche e attacchi ad personam. E non è una semplice questione di correttezza formale, proprio a differena che da noi dove anche le forme contano, specie in certe trasmissinoi tv dove gli ospiti politici dei diversi schieramenti danno uno spettacolo che certo non incoraggia comportamenti democratici, sostenuti e pungolati in ciò dagli esponenti del circo mediatico il cui scopo principale è accrescere l’ audience della trasmissione. E fin qui non ci sarebbe niente di male da parte dei giornalisti (creare un dibattito anche arroventato è parte del loro mestiere) se non il fatto che la stragrande maggioranza di essi si appoggia ed è appoggiata da un partito politico che ne ha determinato la carriera. Quindi gli stessi non
si limitano a incoraggiare una discussione accesa ma imparziale: fanno solo a gara per dimostrare la loro lealtà ai rispettivi padrini politici.
Per un giornalista americano ciò sarebbe impensabile. Perfino dei più grandi tra di loro, da Ted Koppel a Peter Jennings non si è mai conosciuto e non si conosce l’orientamento politico anche dopo anni che sono andati in pensione o sono scomparsi. È davvero un problema basilare di democrazia. I politici infatti, in tutti le apparizioni pubbliche continuano a interrompersi violentemente parlandosi addosso, intralciando non solo un proficuo dibattito, ma impedendo anche ai telespettatori, a cui si rivolgono, di capire le diverse posizioni. Nessun leader politico americano potrebbe partecipare ai nostri dibattiti televisivi. È come se, cadute le ideologie e non essendo più in presenza di un nemico da combattere, sia esso il fantasma del fascismo o l’ombra del comunismo, cadessero tutte le remore di correttezza democratica e si scatenasse una caccia all’uomo che non ha altro scopo se non quello di creare caos e confusione. Ne emergono individui privi di qualsiasi scrupolo e sentimento etico che creano nel paese un clima avvelenato da risentimento e da odi personali che impedisce un dibattito politico sui veri problemi del paese. Inoltre nella gente si istilla il tarlo di una violenza autorizzata che viene proprio da quegli scranni da dove dovrebbe venire l’esempio più alto di tolleranza e di pacatezza. Gli eredi di una Prima Repubblica basata su un consociativismo malato e privo di qualsiasi rappresentanza sociale si sono trovati orfani di una vera e propria tradizione democratica alle spalle, dopo un primo spaesamento e una sorta di horror vacui, di creare nuovi principi e nuove regole.
Anche gli avversari hanno lodato Obama dopo il discorso di Oslo: da noi sarebbe impossibile
Tuttavia non l’hanno fatto e, come diceva ancora ieri l’altro il presidente Napolitano, è difficile intravedere un «clima costituzionale». Si dovrebbe determinare davvero un nuovo inizio fatto di nuove regole, che come direbbe Hannah Arendt, sono quelle che poi sedimentano il corpo della tradizione e la cultura di un paese di cui i cittadini possano andare fieri. Nulla di questo è stato e se un leader o anche un semplice cittadino americano si trovasse in Italia rimarrebbe sorpreso dal clima da campagna elettorale permanente che si vive nel quotidiano e in secondo luogo dalla incapacità dei leader politici di essere super partes e rappresentare l’interesse comune.
panorama
23 dicembre 2009 • pagina 11
Chi vuole il sistema alla francese, chi vuole quello alla tedesca: così il partito del Nazareno si è bloccato
La guerra delle correnti nel Pd Dalemiani, bersaniani e minoranza: tutti in ordine sparso sulla strada delle riforme di Antonio Funiciello
ROMA. La pausa natalizia può fare bene al Pd. Un po’come a quelle squadre di calcio che cominciano male il campionato e provano, durante le feste, a fare il punto della situazione per correggere quanto c’è da correggere. Ancor più che, proprio come il campionato di calcio si decide solitamente in primavera, anche quello politico conoscerà la sua fase risolutiva a fine marzo con le elezioni regionali. La tenuta politica dei democratici si misurerà in rapporto al contenimento della sconfitta annunciata delle tredici regioni al voto (delle quali undici guidate dal centrosinistra). Certo, il fatto che il regista dei democratici (Bersani) e il principale centravanti (Franceschini) paiono continuare ad avere differenze sensibili nella strategia di gioco, complica le cose. Mentre poi l’allenatore (D’Alema) in panchina pare disinteressarsi del scarso rendimento dei suoi e si tiene in altre faccende affaccendato.
governo, grida di tutto contro l’opposizione che non lo fa governare. E siccome con l’apertura della campagna elettorale per le Regionali 2010, che coinciderà l’anno venturo con la ripresa della (scarsa) attività parlamentare, c’è da credere che tutti i propositi di dialogo vadano in
carica. Che più cerca di muoversi con l’autonomia che il suo mandato gli attribuisce, più appare isolato. Ad oggi, l’accettazione che ha ricevuto da parte di tutti (alleati e avversari interni) la sua gestione plurale, non dà l’idea di un “armiamoci e partiamo”, quanto di un “armiamoci e partite”. Proprio nella cosiddetta “gestione plurale”si possono così ravvisare tutti i limiti dei primi sessanta giorni della segreteria Bersani. Il seminario di Cortona, che l’Area Democratica di Veltroni e Franceschini ha tenuto nei giorni scorsi, ha mostrato con chiarezza la spaccatura interna al Pd. Ancorché nessuno metta in discussione in bipolarismo, tra i democratici ci sono, al momento, due posizioni inconciliabili. Bersani e D’Alema sono convinti di poter chiudere la transizione istituzionale con una legge elettorale di tipo tedesco e un nuovo parlamentarismo che riequilibri poteri e prerogative. Veltroni e Franceschini, d’altro canto, sponsorizzano la ricetta - che era pure nel programma elettorale del Pd alle scorso politiche - del doppio turno alla francese con un rafforzamento dell’esecutivo, per quanto non lo affermino con questa schiettezza. Sono due diverse scelte di sistema che è impossibile far convivere in uno
Il corto circuito non fa bene ai democratici e rende problematica la campagna elettorale per le Regionali fumo, il giro dalemiano orienta la sua tattica d’attacco a risultati delle regionali acquisiti. Sia che il Pd tenga, sia che non tenga, il dopo regionali sarà caratterizzato dal tentativo di influenzare più decisamente le mosse del segretario in
I dalemiani in verità mostrano una certa insofferenza verso il diverso posizionamento che Franceschini e Veltroni richiamano per il Pd e non fanno che ripetere che il congresso l’hanno vinto loro e la linea, quindi, è quella del leader Maximo. Peccato che più lo ripetono (Latorre, Letta, etc.) più somigliano a Berlusconi quando, per motivare ritardi e deficienze dell’azione di
stesso partito. E, difatti, non convivono affatto.
La scelta della gestione plurale è uno dei tanti piccoli paradossi di casa nostra. Pare proprio che la sinistra italiana non sia capace di articolare una classica dialettica politica tra chi vince il congresso e chi la perde, tra maggioranza e minoranza. O c’è la scissione (e gli esempi, dall’inizio del secolo scorso, sono innumerevoli) o c’è la gestione unitaria (di cui la versione “plurale” di Bersani è l’accezione edulcorata). Con la conseguenza che se il governo volesse affondare in Parlamento sulla legge elettorale, tanto per fare un esempio, si ritroverebbe a che fare col segretario del maggiore partito dell’opposizione che la pensa in un modo e il suo capogruppo alla Camera che sostiene tutt’altro. Un corto circuito che non fa bene ai democratici e rende problematica la già difficile campagna elettorale per le regionali e assai incerta la traversata nel deserto che separa il Pd dalle prossime elezioni politiche. Avrebbe avuto più senso che chi il congresso democratico l’ha vinto si fosse imbarcato in una gestione politica del partito, sulla base del mandato che iscritti ed elettori democratici gli hanno conferito. La gestione plurale rischia di essere un’ancora destinata a restare incagliata per molto tempo.
Candidature. Il segretario locale dei democratici ”lancia” il sindaco di Bari. Ma solo per bruciarlo
E in Puglia la sinistra si divide su Emiliano di Marco Palombi
ROMA. «Chiedo al sindaco di Bari Michele Emiliano di candidarsi alla guida della regione Puglia nel 2010». Il segretario regionale del Pd, il dalemiano Sergio Blasi, ieri all’improvviso ha spinto sulla pubblica piazza una voce che circolava già da settimane senza avvisare nessuno, neanche Nichi l’interessato. Vendola - attuale governatore che ha già annunciato che si ripresenterà nonostante i cortesi inviti al ritiro del Pd - ha risposto sostanzialmente: bene, allora facciamo le primarie. Il Pd, però, le primarie non le vuole. E allora? Il centrosinistra si presenterà diviso? Il fatto è, raccontano fonti pugliesi, che l’annuncio di Blasi – che per la cronaca fino a lunedì esprimeva privatamene opinioni assai negative sull’uomo che ora vuole candidare – non punta affatto a favorire la corsa di Emiliano, semmai a bruciarla.
rischiano di diventare un incubo per i pugliesi giacché spesso e volentieri fraintendono l’esercizio del potere», attaccava Emiliano a fine settembre. Intanto sono diventati un incubo per lui: ieri durante il Consiglio comunale di Bari – eletto, giova ricordarlo, da pochi mesi – persino quelli della sua lista civica sono andati a dirgli che avrebbero lasciato la coalizione se si fosse azzardato a riportare la città al voto. Gli avvertimenti d’altronde non erano mancati mai: «Emiliano non può considerare il Pd come “cosa sua” – minacciava tre mesi fa il dalemaboy Ugo Malagnino – il pericolo è che la gente si rompa le scatole una volta per tutte». Per ragioni che appartengono al mistero gaudioso del risiko dalemiano, però, era stato lo stesso Lìder Maximo a sponso-
Il nodo resta sempre quello delle primarie volute dal governatore uscente Vendola e osteggiate dal suo concorrente
I rapporti tra il sindaco-sceriffo e i Red di Puglia d’altronde non sono affatto amichevoli. «I dalemiani
rizzare la candidatura Emiliano alla regione per recuperare l’appoggio elettorale di Udc e Idv.
Cosa sta facendo allora il “suo” Blasi? Semplicemente, spiegano, la sollevazione che si è scatenata ieri in Puglia servirà al segretario regionale per dire a D’Alema: «Vedi? Emiliano non lo vuole nessuno». Vedere al proposito la dichiarazione del segretario provinciale del Pd di Bari, Ginefra: Blasi parla per sé. I giochi, insomma, sono aperti e lo rimarranno fino all’assemblea del Pd di lunedì prossimo: ad oggi, in buona sostanza, partito e coalizione – per non parlare della regione - sono ostaggi di una guerriglia tra gente che ha cominciato a litigare nella Fgci vent’anni fa e non ha ancora trovato il modo di metterci una pietra sopra. «Stiamo facendo ridere tutta l’Italia», ha detto qualche giorno fa il sindaco di Bari, sottovalutando il fatto che non sempre il ridicolo è anche divertente.
il paginone
pagina 12 • 23 dicembre 2009
Prima di tutti venne Robert Conquest: l’illustre studioso degli orrori segu
Emissioni di fond
Dietro al fallimento di Copenhagen riemerge l’equivoco che maschera la «lotta al capitalismo» con una finta battaglia per l’ambientalismo di Marco Respinti icordate il recente viaggio del presidente degli Stati Uniti di America in Cina? Ricordate le aspettative, le promesse e i voli pindarici della vigilia finiti poi nel sostanziale fallimento delle trattative, con Pechino che diceva niet a ogni e qualsiasi richiesta di Washington? E ricordate anche come però, dopo qualche settimana, quando la Cina se n’è saltata fuori dicendo che si sarebbe messa d’impegno per cercare di ridurre le emissioni nell’atmosfera terrestre dei gas prodotti dalle combustioni industriali e ritenuti nocivi al clima del pianeta, tutti abbiano applaudito, scordandosi in fretta la clamorosa débâcle incassata da Barack Hussein Obama e salutando il gesto “a sorpresa” di Pechino come una grandiosa prova di buona volontà da parte del Paese asiatico? Ecco, se la cosa non fosse tragica, scapperebbe da ridere.
R
Stiamo infatti parlando della Cina, cioè di quel Paese capital-comunista che si mantiene grazie a un sistema colossale di campi di lavoro in cui sono rinchiusi migliaia e migliaia di prigionieri “politici” che forniscono manodopera schiavistica a costo zero; la Cina, che mescolando marxismo-leninismo e caricature offensive del mercato sopravvive ancora al crollo del socialismo reale, chiusa dentro un regime dispotico e vessatorio; la Cina,
dove ogni anno vengono messe a morte migliaia di persone nel più totale disprezzo del diritto, e le minoranze etniche e religiose (spesso fatte di milioni di persone) vengono perseguitate scopertamente; la Cina, che lucra commerciando gli organi espiantati dai cadaveri dei prigionieri che condanna a morte; la Cina, dove alle coppie viene imposto l’aborto di Stato dopo la nascita del primogenito. Ebbene, questa Cina, questa Cina fatta ancora così, è quella a cui si è perdonato tutto soltanto perché, in preparazione del vertice sui mutamenti climatici della Terra organizzato dalle Nazioni Unite a Copenhagen, ha detto che prima o poi proverà a mandare in cielo qualche puzza di meno.
Per certi estremisti, basta il pensiero: il vertice di Copenhagen si è risolto in un fiasco clamoroso proprio per gli ecologisti che sono rimasti con un palmo di naso Vale allora davvero la pena, dopo Copenhagen, rammentarsi di che pasta sono fatte le preoccupazione del mondo per il presunto danno che l’uomo e la sua industria stanno arrecando al pianeta. Del resto, per una cultura come quella ecologista, sacrificare qualche milione di cinesi sull’altare di certe previsioni meteorologiche, strampalate sul piano scientifico ma assai chic nei salotti buoni (tutti ricchi, tutti occidentali, tutti progressisti), è probabilmente solo una forma in più di scambio equo e solidale. Il problema vero dell’ecologismo oggi non è infatti il mutamento climatico della Terra; non è cioè l’accertamento rigoroso di quali siano le cause autentiche di certi modesti e peraltro periodici cambiamenti delle condizioni del pianeta, magari scoprendo poi sono del tutto naturali, persino cicliche, insomma indipendenti dallo sviluppo industriale umano. Il problema vero dell’ecologismo oggi è punire colui
che è stato stabilito essere, e soltanto per una precisa volontà culturale, il responsabile unico e malevolo dei “disastri”denunciati dal “pensiero verde”, vale a dire l’uomo.
Per questo all’ambientalismo interessa pochissimo se per comminare tale punizione esemplare all’uomo-virus i summit come quello di Copenhagen scialacquano miliardi di euro solo per un po’ di passerella, se l’inquinamento prodotto nel brevissimo arco di tempo interessato dai lavori del vertice Onu e proprio a causa dei lavori del vertice Onu equivale quello di una cittadina intera lungo un anno e soprattutto se alla fine non si conclude niente. Basta infatti il pensiero. Basta il pensiero perché il vertice di Copenhagen si è evidentemente risolto in un fiasco clamoroso, anzitutto per gli ecologisti che sono rimasti con un palmo di naso. Dal vertice gli ambientalisti si aspettavano infatti accordi importanti e invece si sono resi oggettivamente coprotagonisti di una farsa in due atti. Il primo atto della farsa ha avuto il sapore di una lotta di classe riadattata ai modi della globalizzazione, allorché i “Paesi poveri”si sono lamentati a gran voce dei Paesi ricchi rei di spingere sull’acceleratore dell’industrializzazione a danno dei popoli “diseredati” che ne pagheranno il prezzo ecologico. In realtà, è sembrata più una prova generale della “Dottrina Carlos” cara a Hugo Chávez, che da qualche tempo ha fatto proprio il verbo del terrorista Ilich Ramirez Sánchez, meglio noto con il nome di batta-
il paginone
uiti alla rivoluzione sovietica propose la relazione tra «verdi» e «rossi»
damentalismo co-commerciali cosiddetti emergenti rispetto a quelli storici di Stati Uniti, o comunque “Paesi ricchi”. In coda Africa e “poveri”, che non hanno alcuna intenzione di dare retta ai diktat ecologisti latori di previsioni funeste sul futuro climatico del mondo giacché se lo facessero creperebbe presto di quella fame e di quelle malattie che solo lo sviluppo industriale inviso ai verdi per ragioni squisitamente ideologiche può assicurare. A che è servito insomma Copenhagen? A nulla, come del resto frequentemente accade ai summit dell’Onu.
A destra, Wen Jiabao e, a sinistra, Barack Obama: i due protagonisti del fallimento del summit di Copanhagen. A fianco, lo storico Robert Conquest glia “Carlos”, il quale, scontando l’ergastolo a Parigi, ha trovato il tempo di farsi musulmano e d’intrattenere corrispondenza con il “dittatore costituzionale” venezuelano, suo compatriota. Carlos predica infatti la costituzione di un grandioso fronte unitario capace di raccordare tutti i litigiosi e divisi spezzoni dell’antioccidentalismo, dai socialcomunisti ai jihadisti islamici, onde architettare una offensiva finale comune e di tale prospettiva Chávez è notoriamente entusiasta. Quando dunque in Danimarca si sono visti Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua e Iran capeggiare la rivolta iniziale, a orecchie attente qualche campanellino di allarme avrebbe dovuto suonare.
Il secondo atto della farsa si è invece svolto all’insegna del “paga Pantalone”, allorché i “Paesi poveri”si sono resi conto che i “Paesi ricchi” sono appunto ricchi e che quindi, giocando sulla facilità con cui l’Occidente è da un po’ di tempo ben disposto ai mea culpa, non è difficile cavarne del denaro. Sono infatti 30 i miliardi di dollari stanziati dai “Paesi ricchi”che tra 2010 e 2012 fluiranno nelle casse dei “Paesi poveri”, per poi salire a quota 100 miliardi di qui al 2020, a parole per contribuire a digerire le “rapacità” dell’Occidente, di fatto per comperare l’indulgenza del mondo. Molto rumore per nulla, insomma. Per il momento, infatti, l’incasso di Copenhagen è solo questo: Stati Uniti (molte promesse, nessuna realizzazione) e Cina (sempre generosa solo di parole) gli uni contro l’altra economicamente armati sul piano dei commerci internazionali. Brasile e ancora Cina unite contro resto del mondo per analoghi interessi economi-
A rileggere però a posteriori questo gran gioco delle parti tornano alla mente pagine indelebili scritte nell’oramai lontano 2001. Le scrisse nientemeno che Robert Conquest, la prima e massima autorità mondiale sulle atrocità commesse dal regime comunista sovietico nella sua lunga permanenza al potere. Conquest ha pubblicato opere immortali, Il grande terrore (trad. it., Rizzoli, Milano 1999), Stalin. La rivoluzione, il terrore, la guerra (trad. it., Mondadori, Milano 2003) e Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica (trad. it., Fondazione Liberal, Roma 2004), riuscendo a raggiungere, ermeneuticamente parlando, il cuore stesso del progetto criminale comunista. Poi, dopo il crollo del regime sovietico, si è cimentato con opere importanti di bilancio storiografico: I dragoni della speranza. Realtà e illusioni nel corso della storia (trad. it., Fondazione Liberal, Roma 2007) e, prima ancora, Il secolo delle idee assassine (trad. it., Mondadori 2001). Proprio a quest’ultimo suo libro appartengono le pagine che, dopo Copenhagen, occorre tornare davvero a riconsiderare. «Molti dei problemi cui oggi ci troviamo dinanzi – osservava infatti al tempo Conquest – discendono [...] da atteggiamenti mentali che se non sono [...] riconducibili allo schema ideologico-totalitario, presentano tuttavia con esso somiglianze e affinità: nascono, insomma, dall’attribuzione di un valore, se non assoluto, certamente eccessivo alle nostre concezioni politiche». E, guarda caso, il raffinato studioso del marxismo-leninismo individuava proprio nell’ambientalismo l’esempio che fa al caso, concentrando la riflessione sulla figura del “militante”, ovvero l’“attivista” che «dedica la maggior parte delle sue energie al successo della causa» e che fonda il proprio zelo sul «credito che viene accordato a varie “certezze” prive di fondamento adeguato», ma di cui egli si fa portatore con toni quasi messianici. E, diceva appunto Conquest quasi dieci anni fa, ciò «lo vediamo a proposito di questioni quali il surriscaldamento del pianeta, il riciclo dei rifiuti e altre tematiche ecologiche, dove accade con una certa frequenza che affermazioni semplicistiche siano sottoscritte senza essere state seriamente vagliate». Infatti, «[...] quando si imputa al “capitalismo” la responsabilità dell’inqui-
namento si manca il bersaglio per almeno una decina di evidenti motivi: per esempio perché nell’Urss la situazione era assai peggiore, oppure perché in Inghilterra la situazione è migliorata notevolmente con la chiusura delle industrie di Stato [...]. In genere questi traviamenti sono accompagnati dall’idea che esista un nemico – una classe, un sesso, una razza – deciso a ostacolare qualsiasi cambiamento [...]».
Conquest vede dunque «l’aspirazione a un mondo migliore» tipica «dei giovani» venire messa «nel mondo occidentale odierno […] al servizio di istanze [...] ecologiche come quella del riciclaggio, di dubbia efficacia anche nel merito e spesso inculcate da insegnanti benintenzionati ma viziati da pregiudizi ideologici». E di tale egli pregiudizio fornisce esempio divertente in forma di apologo: «In una città dell’ovest, qualche anno fa un celebre scrittore di fantascienza americano, propugnatore di posizioni molto decise in materia di inquinamento, tenne
Sono trenta i miliardi di dollari che i cosiddetti “Paesi ricchi” hanno deciso di investire nell’immediato per comperare l’indulgenza del mondo un discorso a una grande assemblea di studenti. Tra l’ovazione generale, disse che ogni individuo poteva dare il suo contributo (“bravo, bravissimo, è vero!”). “Perciò alzatevi tutti in piedi e strappate la vostra patente” (silenzio tombale)». L’ambientalismo radicale, come ha visto bene Conquest, promette insomma un progresso ottenibile solo a prezzo del più completo regresso. E che la sua ansia palingenetica circa i destini prossimi del mondo, in cui sempre meno spazio viene riservato all’uomo-virus, debbano tutta la propria carica nichilistica al retaggio di quell’ideologia che proprio Conquest conosce bene e bene ci ha fatto conoscere, è ampiamente dimostrato dallo show che a Copenhagen è stato inscenato da un Chávez ecologista dell’ultima ora. Rivolgendosi ai Paesi fortemente industrializzati come se nulla fosse accaduto nel Novecento, Chávez ha infatti candidamente sentenziato: «Il socialismo […] è l’unico modo di salvare il pianeta». Viene in mente quel noto adagio, forse apocrifo e attribuito alla verve del senatore Giulio Andreotti: i verdi sono come i pomodori; quando maturano, diventano rossi. www.marcorespinti.org
23 dicembre 2009 • pagina 13
mondo
pagina 14 • 23 dicembre 2009
Baratto. Per salvare Gilad Shalit , Israele è pronta a scarcerare mille palestinesi. E tra questi c’è un capo molto scomodo
Terremoto Barghouti La liberazione del leader di Fatah spacca il governo Netanyahu. Ma anche Hamas di Enrico Singer è chi scommette che, a questo punto, è soltanto una questione di ore perché ieri, finalmente, un’intesa è stata raggiunta. Ma l’estenuante trattativa per lo scambio tra Gilad Shalit, il soldato israeliano catturato tre anni fa dai miliziani di Hamas, e mille palestinesi che si trovano nelle carceri d’Israele rimarrà in bilico fino all’ultimo. Fino a quando il baratto non sarà compiuto. La ragione di questa incertezza ha un nome e un cognome: Marwan Barghouti, il capo del Tanzim il movimento armato di Al Fatah - che è nella lista dei palestinesi da liberare e che è diventato il nodo di un groviglio in cui si contrappongono interessi politici e speranze della gente comune, manovre dei servizi segreti e lotte intestine. Tutto ruota attorno a lui. Il fatto è che Barghouti, nonostante sia rinchiuso da sette anni nel penitenziario di massima sicurezza di Hadarim, è il leader più amato e rispettato dai palestinesi, tanto in Cisgiordania che nella striscia di Gaza. È l’unico che è capace di
C’
farsi ascoltare da tutte le fazioni, l’unico che avrebbe l’autorità di imporsi anche agli estremisti di Hamas e che nelle prossime elezioni – se e quando ci saranno - potrebbe diventare il nuovo presidente dell’Anp al posto di Abu Mazen. Il suo ritorno sulla scena da uomo libero, insomma, sarebbe un terremoto. Che alcuni auspicano, ma che molti temono. Da una parte e dall’altra. Perché se il governo di Bibi Netanyahu si è spaccato sull’opportunità della sua liberazione, Hamas ha inserito il suo nome in cima alla lista contanto proprio sulle divisioni di Gerusalemme. E segretamente sperando in un rifiuto.
Come spesso accade nelle vicende mediorientali, ognuno ha la sua verità e, soprattutto, ognuno vuole difendere i suoi interessi e il suo potere. Così Marwan Barghouti è, al tempo stesso, un eroe o un assassino, un patriota o un terrorista, il possibile uomo del dialogo o il nemico più tembile. E questo vale sia che a giudicare siano gli
Manifestazioni contrappostre: nelle due foto grandi, palestinesi che chiedono la liberazione dei prigionieri in Israele e israeliani che reclamano il rilascio del giovane caporale Gilad Shalit (in basso a sinistra) catturato da Hamas tre anni fa. Sotto a destra, il leader di Fatah, Marwan Barghouti strateghi di Al Fatah o di Hamas, da una parte, oppure i politici di Kadima o del Likud, dall’altra. In mezzo c’è la storia di un uomo che oggi ha cinquantuno anni (è nato a Ramallah il 6 giugno del 1958), che è entrato in Al Fatah quando ne aveva 15 e che è stato arrestato dagli israeliani per la prima volta quando ne aveva 18 per
Gilad, da tre anni in mano ad Hamas NON aveva ancora vent’anni il caporale Gilad Shalit quando, il 25 giugno del 2006, fu catturato dai miliziani di Hamas vicino alla cittadina israeliana di Kerem Shalom, non lontano dal confine con la Striscia di Gaza. L’incursione fu sanguinosa. Due soldati israeliani uccisi, quattro feriti e un settimo - Gilad Shalit, appunto - colpito a una mano e a una spalla e portato via. Il commando arrivò e tornò indietro attraverso un tunnel di quasi tre chilometri scavato dalla cittadina palestinese di Rafah. Di Gilad si perse ogni traccia fino a che Hamas non ha dato prova che era ancora in vita e sono state avviate le trattative per lo scambio.
I dettagli dello scambio sono ora all’esame del gruppo estremista che catturò, tre anni fa, il caporale israeliano. Fino all’ultimo incertezza sulla sorte dell’ex responsabile delle milizie dell’Anp avere partecipato a una sommossa. In carcere ha imparato l’ebraico che parla perfettamente. Al suo rilascio, è tornato in Cisgiordania dove ha studiato nell’università di Bir Zeyt e dove si è laureato in storia e ha cominciato un dottorato in relazioni internazionali che non ha mai finito perché la militanza politica lo ha preso completamente. Da rappresentante degli studenti nel consiglio dell’ateneo a laeder della prima Intifada del 1987 il passo è breve. In quello stesso anno Marwan Barghouti è arrestato per la seconda volta dagli israeliani ed è espulso in Giordania.
Torna dall’esilio soltanto dopo gli accordi di Oslo del 1994 e due anni dopo, nel 1996, è eletto nel Consiglio legislativo palestinese, in pratica il Parlamento dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. La sua linea, allora, era netta: per lui il processo di pace israelo-palestinese è una necessità. Oratore capace di trascinare le folle, Barghouthi scala la struttura di Al Fatah e ne diviene segretario generale per la Cisgiordania.
Ma non solo: diventa anche il capo del Tanzim-Fatah che nasce nel 1995. Tanzim in arabo vuol dire semplicemente organizzazione e con questo termine è definita la macchina, anche militare, del partito palestinese. Storicamente il braccio armato era rappresentato dalla milizia di guerriglia Al Assifa (la tempesta), sciolta dopo l’avvio del processo di pace, i cui quadri finirono tutti nella Forza 17 (l’unità di élite che costituiva la guardia del corpo di Yasser Arafat ed ora quella di Abu Mazen) e nella neonata polizia dell’Anp. Ma Tanzim continuava a controllare tutte queste formazioni. Il 28 settembre 2000 la visita di Ariel Sharon sulla Spianata delle moschee, a Gerusalemme, scatena la seconda Intifada e il quadro muta. Il Tanzim-Fatah si diversifica dando vita a un sottogruppo chiamato le Brigate dei martiri di al-Aqsa che lancia i primi attentati sul territorio israeliano. Marwan Barghouti diventa il nemico pubblico numero uno, il palestinese più ricercato. Il 15 aprile 2002 viene catturato e deferito a un tribunale civile. Durante
mondo
23 dicembre 2009 • pagina 15
re più di un boccone amaro. Il moderato Abu Mazen, da parte sua, dovrà abbandonare ogni residua speranza di essere rieletto lasciando campo libero al nuovo leader della ritrovata concordia nazionale. Quanto basta per comprendere il perché del groviglio d’interessi contrapposti nel campo palestinese. Non a caso, quando fu pubblicato l’appello di Hadarim, ci fu chi definì Marwan Barghouti il “Mandela palestinese”, ma anche chi insinuò la possibilità che il leader del Tanzim-Fatah fosse stato manipolato in carcere dai servizi segreti di Gerusalemme.
tutto il processo, Barghouti rifiuta di riconoscere la legittimità dei suoi giudici. Dopo due anni di dibattimenti, il 20 maggio 2004, è dichiarato colpevole di cinque omicidi ed è condannato a cinque ergastoli più 40 anni di carcere.Tra i suoi difensori c’era anche sua moglie Fadwa, un’avvocatessa con la quale ha avuto tre figli.
Da allora Marwan è rinchiuso in carcere. Ed è qui che è cominciata la seconda fase della sua azione politica, culminata con una specie di proclama: il “documento dei prigionieri di Hadarim”, dal nome del penitenziario israeliano. Un testo che è considerato non solo la possibile base della pacificazione tra Al Fatah e Hamas che parte, non a caso, dalla voce dei detenuti delle diverse fazioni che si ritrovano insieme in carcere, ma anche la base del possibile dialogo tra palestinesi e israeliani, per il semplice fatto che riconosce almeno il diritto di Israele ad esistere. Il riconoscimento de facto di Israele, basta per fare di questo documento qualcosa di molto importante. Se non decisivo. Sotto l’appello di Hadarim, con quella di Barghouti c’è anche la firma di sheikh Abdel Khaleq Natsche, il leader più in vista di Hamas che è in carcere, e di altri esponenti del Fplp e della Jihad. Siamo nel 2006: il documento si
Condannato a cinque ergastoli per omicidio, ha lanciato dal carcere un appello all’unità, ma ha anche riconosciuto che con lo Stato ebraico si deve trattare. E potrebbe diventare il nuovo presidente abbatte come un pugno sul tavolo già devastato dei rapporti tra Al Fatah e Hamas che, il 26 gennaio di quell’anno ha vinto le elezioni spaccando praticamente in due il potere e lo stesso embrione di Stato palestinese con Gaza in mano agli estremisti e con il moderato Abu Mazen arroccato a Ramallah in Cisgiordania. Da allora a oggi la situazione non è molto cambiata e l’ipotesi di una riconciliazione palestinese passa sempre attraverso le proposte del “documento dei prigionieri di Hadarim”. Nel febbraio del 2007, a un anno dalla vittoria elettorale di Hamas, ci fu l’accordo della Mecca, mediato dal re saudita Abdullah Bin Abdulaziz, che aveva l’obiettivo di riportare la calma nei territori palestinesi arrivati sull’orlo della guerra civile. Abu Mazen e Khaled Meshaal, il leader di Hamas, presero l’impegno di collaborare davanti alla più preziosa reliquia della La Mecca, la sacra Kabaa. Ma la pace tra le fazioni non c’è mai stata, nonostante il succedersi di governi ufficialmente di unità nazionale sempre naufragati tra
le polemiche e le sparatorie. Quando si cominciò a parlare dell’ipotesi dello scambio tra Gilad Shalit e Marwan Barghouti, più di un mese fa, Abu Mazen aveva anche annunciato che le nuove elezioni presidenziali si sarebbero tenute il 25 gennaio prossimo. Adesso questo appuntamento è stato annullato e rinviato sine die: ulteriore prova di quanto la vicenda politica palestinese e quella personale di Barghouti siano strettamente connese.
Ma chi ha paura di Marwan Barghouti tra i palestinesi? Di sicuro la leadership di Hamas da Khaled Meshaal a Ismail Haniyeh - che ha dichiarato la guerra santa contro Israele fino alla sua distruzione e che non accetta i dei puntichiave del documento di Hadarim: il riconoscimento di fatto di Israele e l’accettazione degli accordi raggiunti negli scorsi anni. Con Barghouti libero e, probabilmente, candidato a diventare presidente dell’Anp, gli estremisti di Hamas dovanno ingoia-
E gli israeliani? Se al governo ci fossero ancora i centristi di Kadima, Marwan Barghouti sarebbe quasi certamente già libero. Ehud Olmert e Tzipi Livni facevano molto affidamento nella possibilità di stabilire un dialogo con una leadeship palestinese nuova che fosse capace di tenere a bada Hamas e consideravano Barghouti in grado di diventare un interlocutore credibile. Certo, anche per Olmert il passo non sarebbe stato facile perché proprio lui aveva teorizzato che Israele, per riportare a casa i suoi soldati fatti prigionieri, poteva liberare soltanto i detenuti palestinesi che non avessero le mani sporche di sangue: quelli, cioè, non condannati per avere ucciso. Ma la priorità di salvare comunque il caporale Gilad Shalit unita alle prospettive politiche di un cambio della guardia nel-
la dirigenza palestinese, avrebbero avuto un peso decisivo per accelerare la scelta finale. Per il governo guidato dal conservatore Benyamin Netanyahu, i termini del problema sono più complessi. Il gabinetto del premier, che è formato da sei ministri, si è riunito per due giorni consecutivi e soltano ieri all’alba ha stilato le sue condizioni per lo scambio che sono state trasmesse a Hamas dal mediatore tedesco, Ernst Uhrlau. È stata una notte di grande tensione. Netanyahu ha incontrato i genitori di Shalit, il capo di Stato Maggiore, Gabi Ashkenazi, il capo del Mossad, Meir Dagan e quello dei servizi segreti interni, lo Shin Beth, Yuval Diskin. I ministri erano divisi tre contro tre. Contrari i falchi: Il responsabile degli Esteri, Avigdor Liebermann, quello degli Affari strategici, Moshe Ya’alon, e Benny Begin, ministro senza portafoglio, ma pesante per il cognome che porta. Favorevoli il laburista Ehud Barak, ministro della Difesa, Eli Ishai, Interno, e Dan Meridor, Servizi segreti. I dettagli della proposta israeliana trasmessa ad Hamas non sono ufficialmente noti. Ma l’impressione è che il compromesso trovato preveda per Barghouti e per alcuni altri denetuni condannati per avere ucciso una liberazione condizionata all’esilio, forse in Arabia Saudita. In pratica Marwan Barghouti non potrebbe partecipare direttamente alla vita politica dell’Autorità nazionale palestinese se non come ispiratore esterno, come uomo-ombra del futuro politico del suo popolo. Almeno in una prima fase. È un compromesso che potrà placare le paure di tutti quelli che temono Barghouti tanto in Irsraele che tra i vertici di Hamas? E che lo stesso Barghouti accetterà? La risposta è ancora incerta. Ma arriverà molto presto.
quadrante
pagina 16 • 23 dicembre 2009
Servizi. I nomi erano nascosti nelle stanze del ministero dell’Interno udé krávo, la “Vacca rossa”, è oggi un giornale di culto, che non si trova neppure nelle librerie di antiquariato di Praga. Irrideva al Rudé právo, il “Diritto rosso”, l’organo del Partito comunista cecoslovacco, e venne pubblicato per una quindicina di numeri da Petr Cibulka, nato nel 1950, firmatario della Charta 77, e per questo perseguitato dal regime comunista, che in base ad accuse prefabbricate lo imprigionò ripetutamente, per complessivi cinque anni. Venne arrestato anche nei giorni della “Rivoluzione di velluto”, ma subito rilasciato, grazie alla mobilitazione dei manifestanti che chiedevano la sua liberazione. Nel 1992, in tre fascicoli del Rudé krávo, Cibulka pubblicò quella che è divenuta nota come la Cibulkovy seznamy, la “lista di Cibulka”, un lungo elenco di agenti e collaboratori della Stb, la Státní bezpecností, la “sicurezza di stato”, vale a dire la polizia segreta del regime comunista cecoslovacco. Qualche anno dopo, nel gennaio 2005, Bronislaw Wildstein, un giornalista che stava conducendo delle ricerche all’Istituto della memoria nazionale della Polonia, copiò, non autorizzato, duecentoquarantamila nominativi di un database riservato. Si trattava di collaboratori e informatori della polizia politica (ma nello stesso elenco erano mescolati anche i nomi delle loro vittime) e Wildstein, oppositore del regime comunista e noto fin dai giorni del Comitato studentesco Solidarnosc di Cracovia, decise di renderli noti con la pubblicazione su alcuni siti internet. Il suo giornale, Rzeczpospolita, lo licenziò, mentre la magistratura aprì una indagine. Ma la fritatta era stata fatta. In quella che sarà nota a tutti i polacchi come “Lista Wildstein” si trovava elencato ben
R
La “lista di Penc” che scuote Praga Rivelata l’identità di 135mila membri della polizia segreta. Alcuni ancora attivi di Fernando Orlandi
sta. Un corposo assaggio Penc l’aveva fornito qualche mese fa, all’inizio dell’estate, quando, polemizzando con il praghese e ufficiale Istituto per lo studio dei regimi totalitari, aveva reso pubblico un enorme elenco di persone che in qualche modo avevano avuto a che fare con la polizia segreta. Secondo Penc, l’Istituto «monopolizza l’interpre-
Lo scopo dell’operazione è quella di rendere pubbliche tutte le informazioni personali su tutti gli agenti della polizia politica due volte Stanislaw Wielgus, costretto alle dimissioni nel gennaio 2007, alcune ore dopo il suo insediamento a Primate di Polonia, successore del cardinale Józef Glemp.
Lo scorso 17 dicembre Stanislav Penc, un attivista ed ex dissidente (giovanissimo prese parte ai movimenti opposizione del 1988-89 e venne incarcerato con Václav Havel), ha pubblicato su un sito internet (www.svazky.cz) circa 13.500 nomi di agenti della StB in servizio nel 1989, l’ultimo anno del regime comuni-
tazione della storia», non rendendo pubbliche tutte le informazioni di cui dispone (l’Istituto attualmente preserva gli archivi della polizia segreta comunista, cui gli studiosi possono accedere). Secondo Pavel Zecek, il direttore dell’istituto che gestisce oltre 20 km. di documenti, Penc «sfonda porte aperte». Resta il fatto che, pur non pubblicando documenti (questi sono diponibili nell’archivio diretto da Zecek), il sito internet di Penc rende noti alcuni elementi preoccupanti. Primo fra tutti il fatto che almeno
Stanislav Pelc nel 1989 aveva solo 18 anni
Chi ha rivelato i nomi Omonimo di un grande centrocampista, Stanislav Penc nasce nel 1970, nella Cecoslovaccia della “nonrmalizzazione”, ancora sotto il trauma dell’invasione sovietica e dell’epurazione all’interno del partito. La parte migliore del paese, intellettuali, medici, tecnici e scienziati aveva scelto l’emigrazione, in una quantità tale che il comunistà francese Louis Aragon parlò di un “Biafra dello spirito” per indicare l’immiserimento intellettuale della nazione. Diciottenne, giovane muratore, nel 1988 Penc diventa un attivista e partecipa a varie iniziative dell’opposizione. Finisce sotto il mirino della sicurezza di stato per avere distribuito dei volantini in occasione del ventesimo anniversario dell’occupazione della Cecoslovacchia. È uno dei cofondatori del Club
pacifista John Lennon e della Sezione jazzistica di Artforum. Nel 1988-89 partecipa all’organizzazione di alcune dimostrazioni di attivisti in piazza Venceslao, nel cuore di Praga. Viene arrestato con Václav Havel, nel corso della “setttimana Jan Palach”, le dimostrazione che dal 15 al 21 gennaio 1989 prendono di sorpresa la polizia segreta cecoslovacca e che poi fanno da catalizzatore alle manifestazioni del novembre successivo che precedono la caduta del regime comunista. Nei primi giorni del novembre 1989, Penc è uno dei più giovani costitutori del Forum civico. Successivamente lascia Praga e si impegna politicamente a livello locale. Ritorna alla politica nazionale nel 2006, candidandosi alle parlamentari di giugno con i Verdi e perdendo il seggio per soli 75 voti.
settecento di questi agenti della polizia politica segreta del regime comunista sono ancora nei ranghi, ancora oggi operativi, vuoi alle dipendenze della polizia oppure del Ministero degli interni della Repubblica ceca. La “lista Penc” proviene da un documento fatto preparare da Richard Sacher il 15 febbraio 1990 quando, ministro degli Interni, sciolse la polizia segreta. L’obiettivo che si prefigge Penc è che l’Istituto rilasci ufficialmente questo elenco, assieme a tutte le informazioni personali su tutti gli agenti della polizia politica. Secondo Penc, che ha anche iniziato a raccogliere firme per la rimozione di Zacek dal suo incarico, negli anni di esistenza del regime comunista circa 85mila persone hanno lavorato per la StB.
La “lista Penc” riporta l’attenzione su una vicenda, a venti anni dal 1989, dalla caduta dei regimi comunisti in Europa centro-orientale, ancora irrisolta. Afferisce alla questione dei crimini dei regime, alle reponsabilità dei singoli e alle sanzioni di queste reponsabilità. Se tutto questo è chiaro e semplice per il totalitarismo nazista, ben più difficile lo è per quello comunista. A questo si aggiunge il peso della società, in parte corresponsabile del passato che a volte soccombe alla tentazione di dimenticare. Un giovane studioso, Tomás Bezák, ha analizzato le diverse vicende che hanno accompagnato la transizione in Europa centro-orientale e ha costatato che nei paesi in cui il regime comunista ha in qualche modo accompagnato la transizione, anche inconsapevolmente (come in Polonia e Ungheria con le “tavole rotonde”), è stato difficile fare i conti in modo chiaro con il passato, con il risultato che singole vicende oggi fuoriescono anche in modo dirompente dagli archivi. Pensiamo allo stillicio di notizie dalla Polonia, e all’esplosione dirompente di casi come quello citato di Wielgus, che mise in imbarazzo anche il Vaticano. Le “tavole rotonde”condussero a importanti accordi, ma ci fu un prezzo da pagare che ora molti non vogliono ricordare. Quel prezzo implicava un velo opaco su certe vicende del passato, soprattutto su quelle che avevano a che fare con la polizia segreta, e permetteva il rapido ritorno degli uomini della nomenklatura comunista in posizioni di potere, magari non più politico ma economico. La “lista Penc” riporta l’attenzione su queste vicende e ci fa riflettere sul problema della lustrazione nelle società totalitarie.
quadrante
23 dicembre 2009 • pagina 17
Frattini sarà in Africa l’11 e 12 gennaio per lavorare sul caso
Migliaia di persone evacuate. Il vulcano “potrebbe eruttare”
Mauritania, arrestato il “guardiano” degli italiani
Filippine, massima allerta per Mayon
KOBENY. È stato arrestato in Mauritania il presunto capo della banda che il 18 dicembre ha sequestrato una coppia di italiani, Sergio Cicala e la moglie Philomen Kabouree, mentre erano in viaggio su un pullman nel deserto vicino al confine con il Mali. È Abderrahmane Ben Meddou, originario di una tribù nordica del Mali. Ha detto di essere stato assoldato dal gruppo di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) con il compito di «sorvegliare e localizzare» la coppia di italiani e «con la promessa di un compenso di 22mila dollari da riscuotere a operazione completata». Ben Meddou è stato arrestato mentre, a bordo di un 4x4, cercava di lasciare la zona di Kobeny per rientrare in Mali.
MANILA. Gli esperti dell’istituto di vulcanologia e sismologia filippino (Phivolcs) valutano la possibilità di alzare al livello 5, il massimo della scala, l’allerta per l’attività del vulcano Mayon. Dal cratere giungono continue esplosioni e la cenere ha iniziato a ricoprire i villaggi dell’area. L’eruzione potrebbe avvenire «in ogni momento». Il vulcano Mayon è situato nella regione centrale del Paese, circa 360 km a sud-est di Manila, ha un’altezza massima di 2.460 metri. Da qualche giorno dal cratere fuoriesce una cenere molto fine, che ha ricoperto alcuni villaggi vicini. I sanitari avvertono che il pulviscolo potrebbe causare «gravi problemi respiratori o alla pelle». In
Le relazioni pericolose fra Beirut e Damasco Hariri incontra Assad, Suleyman i vertici di Teheran di Antonio Picasso
Intanto il ministro degli Esteri Frattini ha annunciato che sarà in Mauritania l’11 e il 12 gennaio, «per un viaggio già previsto ma utile per lavorare da vicino su questa vicenda». Quindi è tornato a invitare al silenzio stampa, perché «le supposizioni contribuiscono solo a inasprire la situazione». Il ministro ha spiegato che ci sono una serie di «iniziative in corso in raccordo con la Spagna che è impegnata da un mese e mezzo nella ricerca di tre cooperanti spagnoli rapiti». Ma è an-
n meno di 48 ore la politica estera libanese si è dimostrata iperattiva e, al tempo stesso, capace di quegli equilibrismi che sono propri solo dei governi del Medio Oriente. Domenica il primo ministro, Saad Hariri, era a Damasco per un summit con il Presidente siriano Bashar el-Assad. Lunedì il presidente della Repubblica, Michel Suleyman, si è recato a sua volta in visita ufficiale in Iran dove ha incontrato gli alti vertici del regime degli ayatollah. Entrambi i viaggi sono i potenziali indicatori di quella normalizzazione politica del Libano che tutti sperano. Adesso tocca alla sua classe dirigente approfittare del momento apparentemente favorevole. Per la visita di Hariri a Damasco, in particolare, bisogna tener conto delle ombre che gravano sul regime siriano di essere stato il mandante dell’assassinio del padre del premier, Rafiq, ucciso il 15 febbraio 2005. Stringendo la mano ad Assad, Hariri lo ha praticamente discolpato dal sospetto che egli stesso fosse coinvolto in prima persona nell’attentato.Va sottolineata poi la contemporaneità di questo avvenimento con la presenza di Suleyman in Iran. Nel momento in cui la Siria si sta svincolando dalla sua alleanza con Teheran, ritenuta da Assad troppo compromettente rispetto ai suoi progetti di normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Occidente, Beirut si incunea in questo sistema di alleanze regionale, stringendo una partnership finora ritenuta ibrida. La visita del Presidente libanese infatti è stata caratterizzata dalla volontà di definire una cooperazione reciproca e a 360 gradi fra i due Paesi. «L’Iran si sta adoperando per promuovere la sicurezza, l’unità e la stabilità dell’intera regione, in particolare in Libano», ha detto specificatamente il Ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki. Si tratta di una dichiarazione ricca di significati. Da tanto tempo infatti il regime degli Ayatollah non otteneva l’attenzione dei media internazionali per le sue attività di politica estera, se si esclude il dossier sul nucleare costantemente aperto. I fatti di violenza e instabilità interna hanno sempre dominato le prime pagine dei giornali. Ora con le
I
esternazioni di Mottaki è evidente che l’Iran ambisca a una visibilità nuova nel quadrante mediorientale.
Una visibilità caratterizzata non solo da negoziati per il raggiungimento o meno di un propria capacità nucleare, ma anche impostata su rapporti bilaterali con i governi regionali che Teheran ritiene strategici. Seguendo questo progetto, Mottaki non poteva che iniziare dal Libano, dove il regime vanta il suo più affidabile e affine alleato, Hezbollah. Accogliendo Suleyman e dimostrandogli la più schietta disponibilità nel voler progredire la partnership con Beirut, il governo di Teheran ha da un lato consolidato la sua amicizia verso tutto il Libano, dall’altro ha inviato un messaggio diretto proprio al “Partito di Dio”. Il ministro ha parlato di sicurezza, stabilità e unità, per il bene del “Paese dei Cedri”. Ora, dal momento che Hezbollah si ritiene il solo detentore degli strumenti politici e operativi per la resistenza nazionale contro il nemico israeliano, è evidente che queste parole fossero rivolte in particolare al Segretario generale del movimento, Hassan Nasrallah. Nel nuovo manifesto politico, che quest’ultimo ha diffuso recentemente, vengono ribadite le minacce anti-israeliane che hanno ispirato sempre l’intransigenza e l’aggressività del movimento sciita. Pur essendo oggi al governo con 2 ministri, Hezbollah sembra non voler concentrare le sue risorse sulle opportunità politiche che gli vengono offerte occupando simili posizioni di potere. Al contrario, pare non riuscire ad abbandonare la sua componente operativa, palesemente orientata a ricorrere alla violenza. È in riferimento a questo difetto - vale a dire al non sapersi trasformare in partito politico a tutti gli effetti - che Mottaki si è rivolto all’establishment libanese. Secondo Teheran, fatto il governo Hariri, è giunto il tempo per il Libano di muoversi nell’agone politico lasciando da parte le armi; eventualmente senza abbandonarle. Per gli interessi iraniani sul Mediterraneo e per Hezbollah stesso, adesso è il momento di fare politica
L’atteggiamento iraniano desta sospetti: mentre consolida l’amicizia con il Libano, manda segnali precisi al “Partito di Dio”
cora in dubbio la paternità di questo rapimento a danno dei nostri connazionali: il modus operandi sembra essere senza dubbio quello degli estremisti islamici, ma non si hanno certezze. In ogni caso, la Farnesina ha richiesto il silenzio stampa sulla vicenda, che crea comprensibile apprensione non soltanto negli ambienti diplomatici ma anche, e soprattutto, in quelli civili. L’idea più solida rimane quella che vuole un rapimento compiuto da banditi comuni, che poi per soldi avrebbero ceduto gli ostaggi ai fondamentalisti islamici. Una procedura del genere è in atto da anni nelle Filippine e in alcuni dei Paesi mediorientali meno estremisti.
pericolo migliaia di persone ad oggi ospitate nei centri di accoglienza predisposti nella zona, distanti otto km dalla “zona di evacuazione”.Testimoni oculari riferiscono che la cenere si è sparsa fino a 10 km di distanza dal cratere. Eric Tayag, capo del Dipartimento governativo per le epidemie, invita i residenti a restare chiusi in casa ed evitare di esporsi alle polveri.
Manila ha evacuato sinora 9.200 famiglie, per un totale di oltre 44mila persone, dalle zone considerate a rischio. Jimmy Sincioco, portavoce di Phivolcs, spiega che gli esperti sono in attesa di ulteriori “fattori di criticità” per “alzare il livello di allerta a 5”, il quale indica l’imminenza dell’eruzione. Quando si sentiranno forti esplosioni, aggiunge, e i terremoti nell’area del vulcano Mayon saranno avvertiti dagli abitanti di Legazpi, nella provincia di Albay, sarà «il momento della massima allerta». Le Filippine sono squassati da anni da fenomeni naturali come eruzioni vulcaniche, tifoni, maremoti ed inondazioni. Il governo centrale, però, non ha i fondi per creare dei programmi speciali per contrastare questi avvenimenti o quanto meno contenerne i danni.
cultura
pagina 18 • 23 dicembre 2009
Mostre. Due esposizioni raccontano le straordinarie tecniche fotografiche di due artiste differenti ma allo stesso tempo simili
L’Italia in grandangolo Sfondi e suggestioni del nostro Paese attraverso gli scatti di Woodman e Höfer di Alfonso Francia ue sguardi femminili e stranieri sull’Italia, raccolti e raccontati da due mostre toscane, ci ricordano che il nostro Paese non sempre è visto, quando va bene, come la terra del Sole e della buona cucina. Candida Höfer a Firenze e Francesca Woodman (organizzata a Siena) narrano attraverso fotografie di eccezionale originalità l’arte di due donne che hanno stretto un legame forte con la nostra cultura. Palazzo Strozzi ospiterà fino al prossimo 24 gennaio venti foto di grande formato realizzate dalla tedesca Candida Höfer, che ritraggono interni di ambienti storici fiorentini come il Teatro della Pergola e la Biblioteca Marucelliana. A Siena il complesso museale di Santa Maria della Scala è invece la sede, fino al 10 gennaio, di una personale dedicata a Francesca Woodman, fotografa americana incredibilmente precoce morta suicida a neanche 23 anni. Le due artiste non potrebbero essere caratterialmente più lontane, ma osservando i loro lavori notiamo qualche contatto interessante.
D
Nata nel 1944 a Eberswalde, piccolo centro della Germania orientale a pochi chilometri da Berlino, Candida Höfer non è arrivata per caso a realizzare le opere esposte nella mostra. Si è formata nella Scuola di Düsseldorf, movimento diventato famoso proprio per l’attenzione che i suoi membri mettevano nell’analisi degli spazi abitati dall’uomo; è quindi una professionista nel senso migliore del termine. AlFrancesca l’opposto, Woodman era una semplice studentessa d’arte. Nata nel 1958 a Denver da
una coppia di artisti, crebbe a stretto contatto con l’Italia. I suoi genitori trascorrevano le vacanze estive in Toscana, e Francesca finì per frequentare a Firenze la seconda elementare. La passione per la fotografia (realizzò i suoi primi scatti a 13 anni appena) la indusse a trasferirsi a Roma per seguire i corsi europei della Rhode Island School of Design. Proprio a questo periodo risalgono molte delle foto ospitate nella mostra senese. Continuò a lavorare anche dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, a New York, dove si uccise gettandosi da un palazzo. Siena l’ha ricordata con una selezione ampia del suo lavoro, che comprende 114 foto e alcuni video e copre tutta la sua breve carriera.
Nei suoi scatti, realizzati in bianco e nero, Francesca Woodman ritrae quasi esclusivamente se stessa. Considerando la sua età si potrebbe pensare che fosse ancora condizionata da un certo narcisismo adolescenziale. Spiegava di preferire se stessa come modella per un motivo molto semplice: «Io sono sempre disponibile». Era una battuta certo, ma la sua scelta aveva qualche
suoi scatti il suo viso è nascosto, e lei stessa è quasi irriconoscibile. I suoi occhi sono celati dai capelli, dalle mani, oppure scansano lo sguardo dell’obiet-
to. Ogni elemento è ben identificabile, chiaro e comprensibile fin dalla prima occhiata. Non si pensi però che la tedesca sia per questo una semplice, per
A Firenze, Palazzo Strozzi ospiterà fino al prossimo 24 gennaio 20 foto realizzate dalla tedesca che ritraggono interni di ambienti storici fiorentini come il Teatro della Pergola e la Biblioteca Marucelliana logica. Per scattare una foto poteva impiegare anche delle ore, in attesa che si presentasse la giusta luce naturale. Molti suoi amici ricordano che quando andavano a farle visita la trovavano spesso buttata nuda in un angolo, in attesa del momento giusto per lo scatto. Solo la Francesca modella aveva la pazienza necessaria per sopportare la pignoleria della Francesca fotografa. Anche un altro particolare tende a far pensare che non scegliesse se stessa come soggetto per banale vanità. In quasi tutti i
tivo con una torsione del collo. La verità è che il suo corpo era un semplice strumento di lavoro, non l’oggetto di autocompiacimento di una ventenne.
Tanto è ambigua e suggestiva Francesca Woodman, tanto è rigorosa e impeccabile Candida Höfer. In una foto realizzata agli Uffizi ad esempio, la prospettiva dell’immagine è sorretta sui due lati da una schiera parallela di statue, che si interrompe alla fine del corridoio con un’ultima statua che sembra attendere lo spettatore, schiacciata tra il soffitto a cassettoni e il marmo del pavimen-
quanto tecnicamente dotata, fotografa da cartolina. Questo scatto, come gli altri esposti, mantiene una carica d’inquietudine che mette soggezione. Anche perché tutti gli interni da lei immortalati sono deserti: nonostante si tratti di ambienti creati dalla mano dell’uomo, gli essere viventi sono banditi, in quanto – parole sue – «sono una distrazione alla visione dello spazio». Possiamo quindi intuire, dall’ordine e dalla pulizia dei luoghi fotografati, che qualcuno è passato per queste stanze, ma non lo vediamo mai. Torna in mente la città ideale di Leon Battista Alberti; lì, dalle
cultura
In queste pagine, alcune fotografie delle due grandi artiste straniere Candida Höfer e Francesca Woodman. Attualmente sono due le mostre in Toscana che celebrano le fotografe: la prima a Firenze, fino al prossimo 24 gennaio; la seconda invece a Siena, fino al 10 gennaio 2010
eliminato. Così le stanze fotografate ci appaiono più o meno come dovevano vederle i loro antichi abitatori nei secoli passati.
finestre sbucavano alcune piante tenute sul davanzale, segno che c’era chi se ne prendeva cura. Ma in tutto il dipinto non avvistiamo neanche una presenza umana. La Höfer gioca con queste impressioni, escludendo dallo spazio catturato dal suo obiettivo qualun-
que elemento di modernità. Durante le sessioni di lavoro ha chiesto infatti che i cartelli, gli idranti, i segnali delle uscite di sicurezza, insomma ogni arredo moderno presente nei luoghi aperti al pubblico venisse
Gli ambienti scelti da Francesca Woodman, all’opposto, sono dimessi e polverosi, in stato di semiabbandono. Tra le sale della mostra si possono osservare decine di foto realizzate in grandi stanze arredate con poltrone sfondate o tavoli che si reggono malamente, rese ancora più tristi dalla carta da parati sgualcita che penzola sul pavimento. Il corpo pallido e nudo di Francesca compare in questi scatti come un’apparizione fuggente, nonostante lei cerchi in ogni modo di stabilire un legame fisico con gli oggetti nella stanza: si copre con la polvere dell’intonaco, si nasconde dietro un telo di plastica, si accoccola dentro una credenza aperta. Molti di questi ritratti risalgono al suo soggiorno romano, ma potrebbero essere stati realizzati in un vecchio appartamento a Brooklyn e nessuno si accorgerebbe della differenza. Era una delle rare americane che non si fermano alla solita selva di stereotipi sull’Italia. Qualunque altra studentessa d’arte sarebbe corsa con la sua macchina fotografica ai Fori Imperiali subito dopo essere
23 dicembre 2009 • pagina 19
sbarcata a Fiumicino, ma non Francesca Woodman; anche quando sceglieva come soggetti gli androni dei vecchi palazzi della capitale, sfuggiva alle rappresentazioni da cartolina, rivelando una Roma sconosciuta anche ai suoi abitanti. Nonostante ciò, a differenza di quel che accade con i lavori della Höfer, quasi mai riusciamo a identificare il luogo preciso scelto per gli scatti. L’americana amava l’indeterminatezza, non era interessata a garantire allo spettatore una certezza geografica. L’effetto di spaesamento è rafforzato dalla presenza di molti elementi ai quali è difficile attribuire un significato. La conchiglia che Francesca tiene in braccio in uno scatto senza titolo del 1976, ad esempio, rimanda alla Venere del Botticelli? E in caso affermativo, il telo di plastica trasparente che le copre metà del corpo dovrebbe ricordare il mare dal quale emerge la dea? Se lo spazio della Höfer è silen-
A Siena, il Museo di Santa Maria della Scala è la sede di una personale dedicata all’americana, che visse a Roma per studiare alla Rhode Island School of Design zioso e disabitato, quello di Francesca risuona di continuo. Le sue foto suggeriscono decine di rumori diversi: le risate degli amici che si prestano a farle da modelli si confondono col vento che fa sbattere una finestra quasi uscita dai cardini o col gocciolare del rubinetto rotto di una vasca da bagno.
Francesca cerca sempre di catturare nell’immagine queste fonti sonore e permette allo spettatore di avvertirne i toni senza sforzo. Essendo le sue foto popolate di persone, Francesca trasmette un’idea di movimento che la Höfer ignora volutamente. Gli scatti qui sono mossi, le figure umane spesso
sfocate e quasi indistinguibili. I corpi lasciano delle scie intorno agli oggetti, separando in maniera che più netta non si può ciò che è vivo da ciò che non lo è. Avvertiamo poi, soprattutto nei ritratti eseguiti assieme agli amici, un calore e un’intimità che negli enormi ritratti della Höfer non può trovare asilo. L’idea di familiarità in alcune opere di Francesca è rafforzata dal fatto che buona parte delle foto furono sviluppate in piccolo formato, come se dovessero finire in un album di famiglia qualunque. Le stampe della mostra fiorentina sono invece enormi, oltre due metri per due, e contengono decine di elementi scrupolosamente catturati dall’obiettivo con una nitidezza che non lascia spazio all’indecisione. Ogni particolare si svela definito per quello che è, senza margini di incertezza. Se Francesca si diverte a raccontare storie, Candida è un’impeccabile storiografa. Le accomuna ovviamente la maestria nell’uso delle tecniche fotografiche.
Entrambe ignorano le possibilità offerte dalle luci artificiali; gli ambienti devono risaltare con la giusta luce naturale, che entrambe sanno catturare all’istante giusto. Candida, che a differenza di Francesca ha vissuto la rivoluzione digitale nel suo campo, fa a meno dei ritocchi al computer. Quel che vede il suo occhio viene visto dallo spettatore, senza abbellimenti; d’altra parte come è possibile migliorare i palazzi signorili di Firenze? Alla fine, quel che accomuna due artiste tanto differenti, anche nel modo di posare lo sguardo sull’Italia, è nell’aver saputo creare fotografie prive di condizionamenti temporali. Tra tutte le foto esposte, non c’è n’è una che tradisca il periodo in cui è stata realizzata. Quelle di Francesca Woodman furono realizzate trent’anni fa, eppure sembra siano state scattate ieri. Di nessun’altra collezione di fotografie risalente alla fine degli anni Settanta possiamo dire lo stesso: quel decennio ebbe uno stile molto riconoscibile dal punto di vista estetico, e oggi le immagini di quel periodo ci appaiono datate. Allo stesso modo, gli scatti di Candida Höfer non sembreranno vecchie neanche tra cent’anni. Ancorandosi alle bellezze fiorentine di un passato lontano ed escludendo del tutto il tempo presente, l’artista tedesca ha fatto un dono senza scadenza al capoluogo toscano. Quando in futuro si dovranno descrivere con delle immagini alcune delle splendide bellezze di Firenze, ci si potrà affidare con fiducia a questi venti ritratti.
cultura
pagina 20 • 16 settembre 2009
Il Muro di Berlino/1. L’Urss e le sue aberrazioni attraverso le lucide analisi di Renzo Foa, Victor Zaslavsky e Candiano Falaschi
Gli inviati speciali (nella Storia) di Federigo Argentieri uesta serie di articoli, che si propone di riflettere sull’importante anniversario che si avvia alla conclusione – ossia il ventennale dalla caduta del muro di Berlino – non può iniziare in altro modo che con il ricordo di tre personaggi della vita culturale italiana, per molti versi affini, che svolsero un ruolo importante nella comprensione del mondo sovietico e nella denuncia delle sue aberrazioni.Vorrei in primo luogo dedicare un ricordo personale al direttore di questo giornale, Renzo Foa, scomparso già qualche mese fa, la cui mancanza si fa sentire acutamente non soltanto sul piano umano, ma anche su quello del ragionamento e della riflessione.
Q
Per ben 23 anni, quasi un quarto di secolo, sono stato unito a lui non solo da forte amicizia, ma da un’intensa solidarietà intellettuale e politica, il che non ha necessariamente significato coincidenza di opinioni, ma scambio continuo d’idee e di proposte. Ciò era tanto più curioso in quanto, oltre a qualche anno di differenza (ma sufficiente a non fare di me un“sessantottino”, che lui era ma solo per “dovere”generazionale) eravamo separati da ambienti d’origine completamente diversi: torinese-ebraico-laico-azionista il suo, cattolico e conservatore il mio, trasferitosi prima a Lussemburgo, poi a Bruxelles per motivi di lavoro di mio padre. Ci accomunava il fatto di aver
aderito al Pci per motivi di rigore intellettuale, organizzazione, cultura, senza alcun tipo di fervore bolscevico né, per la verità, molto zelo rivoluzionario. Entrambi vedemmo – lui dalla redazione dell’Unità, di cui era capo, io dall’Istituto Gramsci dove svolgevo ricerche sui “Paesi socialisti” – che l’elezione di Gor-
baciov a capo dell’Urss non era un fenomeno da sottovalutare, ma soprattutto che comportava un’occasione importante per svecchiare modi di pensare e di agire anche nel Pci. Si era ai tempi della segreteria di Natta, che di fronte ai segnali di tempesta chiaramente provenienti da Mosca non faceva altro che ripetere compiaciuto (spesso all’unisono con l’altro latinista Paolo Bufalini): «Noi, fin dal…», e citare vuoi la svolta di Salerno, vuoi l’8° congresso del Pci. Era diventato una specie di mantra, tanto che qualche spirito beffardo al Gramsci coniò il neologismo “noifindal”, che stava a significare immobilismo conservatore di fronte ai cambiamenti in corso e gravissima sottovalutazione delle loro possibili conseguenze. A questo punto è necessario cambiare direzione e introdurre un altro amico scomparso quest’anno, Victor Zaslavsky, su cui ha pubblicato recentemente un articolo Gabriella Mecucci.
il mondo occidentale, né verso il passato dell’Urss: ciò gli permise di comprendere con straordinaria lucidità non solo la portata dei cambiamenti, ma anche i loro limiti, tanto che nel giugno 1991 uscì dal Muli-
gherese che erano disponibili a rilasciare dichiarazioni al giornale di un “partito fratello”, cosa che li metteva al riparo da rappresaglie. Le interviste uscirono in autunno su l’Unità, cosa che provocò divergenze nella
Cresciuto intellettualmente nel periodo kruscioviano, Zaslavsky aveva pienamente condiviso non solo le speranze e le illusioni,
ma i frutti concreti della nuova politica, tra cui spiccava la possibilità di studiare con spirito critico, senza chiusure né verso In alto, una prima pagina del quotidiano “l’Unità” datata agosto 1989. Sopra, uno scatto storico della caduta del Muro di Berlino
no un suo agile studio il cui titolo era tutto un programma: Dopo l’Unione sovietica, che si ricollegava alla profezia del dissidente Andrei Amalrik nel suo pamphlet Sopravviverà l’Urss fino al 1984? (prefazione di Carlo Bo, Coines edizioni, 1970). Nessun altro in Italia poteva vantare la lungimiranza di Zaslavsky (per non parlare della preveggenza di Amalrik, deceduto in un incidente d’auto assai sospetto), ma alcuni di noi avevano capito che la perestrojka e la glasnost potevano condurre molto lontano.
Tornando a Renzo Foa, ricordo che nell’estate del 1986 gli suggerii di intervistare due veterani della rivoluzione un-
Il preziosissimo contributo dei tre intellettuali che animarono la cultura italiana, aiuta ancora oggi a comprendere meglio il mondo sovietico redazione: per porre riparo allo “sgarro”, un giornalista molto vicino ai servizi ungheresi (al punto da essere citato nel dossier Mitrokhin con nome e cognome, senza neanche lo pseudonimo) si precipitò a controintervistare un certo Berecz, ideologo del regime di Kádár. Purtroppo per lui, un refuso di stampa ne alterava il cognome in Bérencz, che in ungherese significa mercenario, cosa che
suscitava grande ilarità in Ungheria dove la notizia veniva diffusa da radio Free Europe, che aveva un ufficio di corrispondenza a Roma. A completare il quadro a favore dei rinnovatori, il quotidiano del Pci qualche giorno dopo pubblicava un lungo e interessante articolo del viceministro degli esteri di Imre Nagy, tale Heltai, che raccontava le vicende relative agli inganni subiti dal governo rivoluzionario del 1956 fino alla seconda invasione sovietica.
Nel frattempo, il giornalista Ugo Baduel aveva intervistato Natta, reduce dall’aver compiuto un’improvvida visita a Budapest, al quale - tra un “noifindal” e l’altro era riuscito a strappare qualche parola di solidarietà con Nagy. Senza esagerare, va detto che il ruolo svolto da questi articoli nel far evolvere la situazione ungherese a favore dei rinnovatori locali non fu secondario. Bisogna citare a questo punto anche Candiano Falaschi, già notista politico dell’Unità passato alla Rai come inviato speciale, che ebbe un ruolo fondamentale nel riportare letteralmente alla luce le vicende della rivoluzione del 1956 e di Imre Nagy. Ricordo benissimo che il 1986 si concluse con la cosa migliore che Gorbaciov potesse fare: una telefonata all’accademico Sakharov, da sette anni al confino per aver protestato contro l’invasione dell’Afghanistan, cui chiese di tornare subito a casa propria a Mosca. A quel punto si capì che non solo le riforme in Urss si stavano facendo sul serio, ma che Gorbaciov aveva forza e alleanze sufficienti per imporle anche ai più recalcitranti. L’anno 1987 passò velocemente, con un successo dopo l’altro, e in autunno si giunse al grande accordo sugli euromissili con gli Stati Uniti dei Reagan. Fu allora che iniziò a circolare la notizia che al posto della “dottrina Brezhnev” della sovranità limitata, l’Urss aveva elaborato la dottrina “Frank Sinatra”, basata sulla nota canzone My way, per cui ognuno avrebbe potuto fare a modo suo. Era una notizia scherzosa solo in apparenza, ma ancora una volta furono in pochi a capirne la portata.
cultura
23 dicembre 2009 • pagina 21
al Trecento al Settecento, la spartizione di ruoli tra sublime e comico e la divisione tra i generi letterari si andò consolidando in Europa fino ad assestarsi in un sistema di forme tanto più trasparenti quanto più estenuate. Il culmine del classicismo coincise con la crisi - con lo sviluppo di quel mostro ibrido che è il romanzo. Ancor prima della tempesta romantica, anche dove i modelli stilistici venivano apparentemente rispettati, una tinta ironica li tagliava oramai trasversalmente. Qui - la storia è risaputa - fa il suo ingresso sulla scena della Storia la popolosa borghesia. E uno dei primi segni della sua vocazione al melting pot è il riaffiorare del fiume carsico della satira, quella forma-non forma che aveva nutrito obliquamente i severi generi latini e che tra l’ultimo Medioevo e l’assolutismo illuminato era stata ridotta a pedissequo rovesciamento comico.
D
Il fiume riaffiora nei primi trent’anni del Settecento in Inghilterra; e si mimetizza ancora nei colori ingannevoli di un classicismo insieme solidissimo e sornione. Swift, Gay, Pope: gli amici dello Scriblerus Club produssero immortali parodie del melodramma e dell’epica, finti trattati di raggelato sarcasmo, allegorie saporite quanto cristalline della società contemporanea. Tra le onde bizzose del loro fiume s’immerse, durante l’esilio inglese, il giovane Voltaire: e i risultati del bagno si videro poi qualche decennio più tardi nel Candido e nel Dizionario filosofico, in Micromega e in Zadig. Allo stesso modo, questo classicismo irriverente e paradossale agì nella seconda metà del secolo su Baretti e Parini. È noto ad esempio quanto Il giorno debba al Ratto del ricciolo di Alexander Pope (il cui titolo è stato spesso tradotto con un Ricciolo rapito riecheggiante la Secchia del Tassoni). Ebbene, oggi Adelphi ripubblica il Ratto in una talentuosa versione di Alessandro Gallenzi: che squaderna davanti al lettore fitte schiere di endecasillabi in rima baciata, cui fanno da pendant le deliziose illustrazioni inventate a fine Ottocento da Aubrey Beardsley. Pope nacque a Londra nel fatidico 1688. Scolasticamente emarginato in quanto cattolico, e d’infelice costituzione fisica, esordì sotto le insegne poetiche di Dryden e Boileau, portando le forme letterarie di quella levigatissima cultura a una tale manieristica perfezione da cavarne quasi uno straniante passo ridotto di film muto. I romantici lo vituperarono poi come l’antipodo della Poesia: cioè della loro idea di poesia. Infatti Pope rappresentò al massimo grado il nitido razionalismo classicista, e
Libri. Adelphi ripubblica il “Ratto” di Pope, curato dal talentuoso Gallenzi
Il genio londinese che resuscitò la satira di Matteo Marchesini al tempo stesso quell’aereo decorativismo rococò di cui, come vide Praz, il ricciolo femminile reciso nel poema da un cavaliere villano è l’emblema più eloquente. Il fatto non avvenne solo nella fantasia del-
dispetti galanti, da scontentare subito tutti. Con una satira che affiora quasi involontariamente dalla più acuta ilarità, Pope miniaturizzò gli scontri di quell’Iliade di cui nel frattempo preparava una traduzione
in mente un altro ballo? Se Damone/non le stringe la mano con passione,/come potrà una vergine schermirsi/delle parole che le dice Tirsi?/I silfi sempre nuove vanità/portano nel confuso bric-à-brac/del suo cuore,
Oltre alla traduzione del curatore, questa edizione ha poi un altro pregio. In appendice, offre per la prima volta al lettore italiano il trattato “Per afferrare il ricciolo”, che l’autore pubblicò sotto pseudonimo nel 1715 l’autore. Perché questo «poema eroicomico in cinque canti», stampato per intero nel 1714, fu commissionato a Pope da John Caryll, improvvisatosi paciere tra due nobili famiglie cattoliche che avevano interrotto i loro rapporti appunto quando «il giovane Lord Petre aveva tagliato e sottratto a tradimento una ciocca di capelli alla bella Arabella Fermor». Ma l’idea che doveva imporre la tregua divenne in mano al poeta lo spunto per gettare uno sguardo così limpido, e dunque così oggettivamente impietoso, su quella società di
fruttuosa: riducendo duelli e ire, sfide e lamenti alla misura di un boudoir, di una partita a carte, di una gitarella sul Tamigi. E a far da dèi paganamente imperfetti, attivi e beffati, convocò in grotteschi conciliaboli e inviò in retoriche missioni gli spiritelli rosacrociani.
Ecco uno dei tanti scorci in cui l’autore infilza la frivola aristocrazia del tempo: «Qual tenera fanciulla sfuggirà/all’invito a una festa, se non ha/già In alto, un disegno di Michelangelo Pace
e in un lampo lo scompigliano:/lì parrucche e parrucche si d’elsa accapigliano,/fiocchi combattono altri fiocchi,/beau scaccia beau e cocchi urtano cocchi». Qua e là, la tecnica poi swiftiana del rimpicciolimento regala versi che non stonerebbero in bocca a Gozzano: «Houppettes, nèi, ciprie, bibbie, billets-doux». Oltre alla traduzione di Gallenzi, questa edizione del Ratto ha poi un altro pregio. In appendice, offre per la prima volta al lettore italiano il trattato Per afferrare il ricciolo, che Pope pubblicò sotto pseudonimo nel 1715.
Fingendosi un farmacista anticattolico e fanatico, l’autore scrisse una «parodia del pamphlet diffamatorio» in cui ridicolizzò i commentatori che pretendevano di sciogliere ogni allegoria poetica in attualità spicciola. Il fanatico arriva a vedere nel poema la trama d’un complotto papista, e a chiedere quindi severe punizioni contro Pope e il suo editore. Oggi il Ratto ci appare sotto una luce ben diversa da quella ostilmente proiettatagli addosso dai primi romantici. Qua e là si pensa perfino a un altro scrittore lucido e infelice, che analizzò le ansie dell’Ottocento con animo classicista e satireggiò apertamente, in un poema eroicomico, le «magnifiche sorti e progressive» sbandierate dal suo tempo: Giacomo Leopardi. Ma in Pope è ancora viva la fiamma lieve di una razionalità appagata di se stessa. E tuttavia anche in questa inattualità oraziana sta il suo fascino, che quasi c’invita al gioco di sostituire alle sue le nostre silhouettes sociali: come fece Brecht riscrivendo in chiave novecentesca L’opera di Gay. Ma nel Duemila, per ragioni opposte a quelle che determinavano la divisione tra i generi (ora tutto si confonde con tutto) la satira sembra di nuovo dissolversi in gratuita parodia. Difficile trovare punti archimedici, linee nette di distinzione e dunque di intelligenza con cui soprendere e “freddare” le troppe frivolezze di élites che ormai non meritano il loro nome.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal ”Los Angeles Times” del 22/12/09
I luoghi del giovane Gesù urante dei sondaggi archeologi nella cittadina di Nazareth, sarebbero stati scoperti dei resti di un’abitazione risalente al periodo di Gesù. Gli archeologi affermano che questa scoperta potrebbe gettare una nuova luce su come fosse la struttura del villaggio nel periodo in cui le scritture del Nuovo testamento collocano il passaggio di Gesù Cristo ragazzo.
D
Le abitazioni tornate alla luce sono una cinquantina, e le tombe scoperte lì vicino – si tratta di sepolture all’interno di grotte – coprono un area di circa quattro ettari. E raccontano di una vita difficile. La popolazione doveva essere formata da gente di umili origini, che usavano le grotte per rifugiasi durante le periodiche incursioni dei legionari romani. Così ha spiegato l’archeologa Yardena Alexandre, direttore degli scavi della soprintendenza israeliana (Israel antiquities authority). Sul sito sono stati trovati dei frammenti di argilla e gesso che dovevano fare da fondamenta per l’abitazione di «una famiglia ebrea semplice», ha aggiunto l’Alexandre. Grazie al lavoro attento di chi con picozzini e cazzuole è riuscito a far emergere dal fango e dalla terra i frammenti di muro senza danneggiarli. Nazareth occupa un posto molto importante nella storia del cristianesimo. È la città dove la tradizione religiosa afferma che Gesù sia cresciuto e dove un Angelo annunciò a Maria di aver in grembo il figlio di Dio. «Un luogo questo familiare per Cristo e i suoi contemporanei» afferma il direttore degli scavi. Un giovane Javeh potrebbe aver giocato con i suoi cugini in una di queste case – ha continuato l’archeologa. «È una logica deduzione». La scoperta fatta così vicino al periodo na-
talizio è stata molto apprezzata dai cristiani del luogo. «Loro dicono che se le persone non parlano, lo possono fare le pietre al loro posto» afferma un sorridente padre Jack Karam della vicina Basilica dell’Annunciazione, il luogo dove la tradizione biblica vuole che l’Angelo abbia parlato alla futura madre di Gesù. Alexandre ha spiegato che i primi resti sono emersi dagli scavi l’estate scorsa, ma è diventata chiara solo adesso la datazione storica risalente ai tempi di Cristo. La squadra di scavo ha scoperto i resti di un muro, un nascondiglio, un cortile e un sistema idrico che serviva a raccogliere l’acqua piovana dal tetto e distribuirla nella casa. La scoperta è avvenuta quando un’impresa edile ha cominciato i lavori nel cortile di un ex convento, per la costruzione di un centro cristiano, a pochi metri dalla Basilica.
Non è chiaro quanto sia grande la dimora. Il team della Alexandre ha calcolato una superficie di circa 85 metri quadrati, ma potrebbe essere ancora più grande, nel caso avesse ospitato più di una famiglia. Il gruppo di ricerca ha anche scoperto un’entrata segreta alle grotte, un rifugio contro le incursioni romane, molto frequenti in quell’epoca. La legione combatteva per sconfiggere i gruppi ribelli di ebrei e mantenere il controllo del territorio. La grotta avrebbe potuto nascondere sei persone per alcune ore. Comunque i soldati romani non si accanirono contro i ribelli di Nazareth, in quanto il villaggio non aveva al-
cun valore strategico in quel periodo. I militari di Roma erano più interessati ai grandi centri urbani e ai villaggi in cima alle colline. Alexandre ha affermato che grotte simili sono state trovate anche vicino a paesi della Galilea inferiore, nei pressi del villaggio biblico di Caana. Un’altra testimonianza degli scontri tra romani ed ebrei. La famiglia che avrebbe abitato la casa di Nazareth era lì per via della presenza del gesso. Un elemento utile per produrre i vasellami dove conservare gli alimenti.
Il ges so garantiva la purezza dell’acqua e dei cibi. Ci sono altri frammenti che risalgono al periodo dell’occupazione romana che va dal tardoellenico fino al 100 dopo Cristo. La datazione si è fatta raffrontandoli con altri resti trovati in Galilea. Vista l’alta densità urbanistica della Nazareth di oggi difficilmente si potrà allargare la zona di scavo.
L’IMMAGINE
Lavoro e lettura, basi della vita egregia, donano soddisfazione e saggezza Il lavoro è il mezzo principe per il riscatto dalla povertà. Il successo deriva tipicamente dalla dura, costante e diuturna applicazione. «Il talento è questione di quantità. Contano solo i buoi da lavoro», (J. Renard). La passione per il lavoro e la conquista attraverso il sacrificio recano soddisfazione. Come un motore in folle non fa avanzare il veicolo, così l’intelligenza oziosa è improduttiva. Oltre al lavoro, conviene coltivare la lettura, che dona saggezza ed è una conversazione con gli autori, spesso eminenti, del passato e del presente. La cultura fondamentale è scritta. Un libro ha un prezzo normalmente basso, ben inferiore al costo d’un pranzo in ristorante. La lettura - di libri e d’altra carta stampata - può comportare appagamento, ma anche fatica. Molti preferiscono il godimento, la spazzatura televisiva, il calcio, le automobili e le serate in trattoria. Demagoghi spacciano per cultura “eventi” strumentali al consenso elettorale: ad esempio l’effimero, gli ammassamenti, le feste, Franco Padova le godurie, i viaggi e le notti bianche.
INQUINAMENTO: REGIONE A RISCHIO MULTA INADEMPIENZE Che la regione Lazio rischi di essere multata dall’Unione europea non è una novità. Fino a quando la regione continuerà a predisporre interventi come la mappatura dei siti inquinati, senza agire concretamente al fine di risolvere il problema, i cittadini continueranno a respirare gas tossici. Inoltre, il parcheggio in seconda e in terza fila - che è sicuramente causa di inquinamento - è una prassi quasi obbligata dalla strutturale carenza di posti auto e il girare per ore alla ricerca di un parcheggio di certo non migliora la situazione. Sono molti i motivi che favoriscono l’inquinamento, in particolare nella Capitale, tra questi: i cittadini romani spesso sono costretti a girare ore e ore
alla ricerca di un parcheggio, perché l’urbanistica non si è ancora adattata alle esigenze della società contemporanea; i servizi pubblici locali come i mezzi di trasporto pubblico non funzionano come dovrebbero a causa di ritardi, corse saltate, autobus fermi nei capolinea. E i cittadini sono portati a prediligere la macchina invece che i mezzi pubblici; i servizi di bike sharing hanno presentato non poche criticità, poche postazioni e in punti sbagliati; gli stessi lavori per il potenziamento delle piste ciclabili sono rimasti bloccati a causa di problemi burocratici. Insomma, non sono pochi gli elementi che contribuiscono a inquinare l’ambiente dovuti ad una serie di criticità riscontrabili in diversi settori dei servizi pubblici. Inoltre, le
Ghiacciati e contenti Chissà se continuando a nuotare prima o poi si scalderà questo signore che si è concesso qualche bracciata nel freddissimo laghetto della città di Jinan (in Cina). Forse il “sirenetto” si è ispirato alle imprese di Lewis Gordon Pugh, 40enne inglese, famoso per aver nuotato nei luoghi più inospitali della Terra. Tempo fa ha sguazzato anche nelle gelide acque del Polo Nord
ultime misure adottate dalla regione Lazio, assessorato all’Ambiente appaiono dettate da una situazione di emergenza, più che da un piano organico per la risoluzione dei problemi.
Monia Napolitano
E SE FOSSE SOLO INVIDIA? Tra i tanti commenti della gente sul gesto efferato che ha avuto
come vittima il nostro premier, mi ha colpito quello di un oppositore che affermava che l’atto, in valore assoluto, è criticabile; è però giustificato se può portare ad uno stato di giustizia migliore: È un’apoteosi di logica terroristica che assomiglia molto ai comunicati delle Brigate rosse che, per l’appunto, giustificavano il loro operato con la prospettiva di una
giustizia migliore per tutti. Se non si combattono alla radice tali impulsi, si rischia di diventare soggetti della debolezza, manovrata da coloro che vogliono istituzioni tutte di un pezzo, ma poi le criticano proprio nel momento in cui queste dimostrano di esserlo, dando la sensazione di latente invidia.
Bruna Rosso
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Il cuore è disperatamente malvagio Mi perdonerete se prometto di non dimenticare in futuro e di essere più prudente? Non che voi dobbiate troppo disprezzarmi, d’altronde; né tantomeno desumere che io mi atteggi à la Byron e che vi dia ad intendere verità indicibili, la nostalgia di Lete e cose simili - lungi da me! Non ho mai commesso un omicidio e dormo sonni tranquillissimi, ma il cuore è disperatamente malvagio, questo è vero, e benché non osi dire di conoscere il mio, ho avuto notevoli occasioni, io che ho iniziato la vita dall’inizio, e non riesco a dimenticare nulla (eccetto i nomi, e la data della battaglia di Waterloo), e ho conosciuto uomini e donne buoni e malvagi, nobili e semplici, che hanno stretto la mano a Edmund Kean e a Padre Mathew. Avevo poi una certa facoltà di autocoscienza, molti anni fa, di cui John Mill si stupiva, e che ormai dovrebbe essere migliorata, se l’uso costante di qualche utilità - e intendendo nel complesso essere un poeta, se non il poeta... perché certe notti sono vanitoso e ambizioso - mi rendo giustizia e oso chiamare le cose con il loro nome tra me e me, dicendo audace «questo mi piace, questo lo detesto, questo lo farei, questo no», in ogni genere di circostanze e parlando e pensando in questa maniera tra me e me. Robert Browning a Elizabeth B. Barrett
ACCADDE OGGI
PER NATALE GLI ANGELI FANNO UN REGALO A FATIMA Gli Angeli Custodi esistono davvero e per Natale portano in dono due valvole cardiache nuove. Destinataria del prezioso dono è stata Fatima, una giovane donna marocchina giunta in Italia grazie all’impegno di Angels onlus, che si prefigge di garantire cure mediche salvavita a bambini e giovani provenienti da Paesi in guerra. La giovane donna è stata operata al policlinico Umberto I: si tratta del primo intervento cardochirurgico frutto della collaborazione fra la onlus, il policlinico e la Sapienza.Tale procedura costituisce di fatto l’inizio di un programma umanitario volto al trattamento chirurgico di bambini e giovani provenienti da paesi in guerra. L’intervento, una duplice sostituzione valvolare (mitralica ed aortica), durato 4 ore, è stato eseguito dalla equipe composta dal prof. Fabio Miraldi, dal dott. Antonio Barretta e dal prof. Giacomo Frati. Fatima è attualmente in ottime condizioni generali ed ha già iniziato un programma di riabilitazione cardiologica presso la Uoc diretta dal prof. Pastore. La giovane paziente marocchina è arrivata a Roma grazie al nipotino di Fatima che ha chiesto aiuto alla portavoce di Angels, Benedetta Paravia, la quale ha organizzato per la donna il viaggio e l’assistenza in Italia. Fatima non è però l’unica assistita di Angels. L’impegno dell’associazione ha già permesso di curare la piccola Bayan, una bimba libanese talassemica di due anni, che ha ricevuto il midollo dal fratellino Mohammed di 9 anni.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
23 dicembre 1978 Disastro aereo a Punta Raisi. Un DC 9 si schianta in mare e muoiono 108 persone 1979 Unità militari dell’Unione Sovietica occupano Kabul, la capitale dell’Afghanistan 1982 La Environmental Protection Agency raccomanda l’evacuazione di Times Beach (Missouri) a causa dei livelli pericolosi della contaminazione da diossina 1984 San Benedetto Val di Sambro: il rapido 904 Napoli - Milano, un treno carico di passeggeri, in gran parte in viaggio per le vacanze natalizie, viene devastato dall’esplosione di una bomba. Al termine dei soccorsi si conteranno 15 morti e più di 100 feriti 1987 Il Cnr registra il primo dominio internet italiano: cnr.it 1990 La Slovenia vota per secedere dalla Repubblica federale socialista di Jugoslavia 1995 Lech Walesa finisce il suo incarico da presidente della Polonia e lascia il posto a Kwasniewski
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Attualmente è in cura a Roma anche Tiba, bimba irachena con una malformazione cardiaca giunta con il suo papà da Bagdad.
Ilaria Ciancaleoni Bartoli
SUCCESSI ITALIANI Sospeso come un oggetto nel vuoto, tra i clamori inutili delle beghe politiche, occorre sottolineare un successo italiano, il primo volo dell’aereo DreamLine 787, fiore all’occhiello della sinergia tecnologica innovativa americana e italiana, che ha reso possibile strutturare un aereo civile che per la prima volta ha la fusoliera in materiale composito: l’azienda Italia è sana e primeggia nel mondo con Alenia Aeronautica di Finemaccanica, che dovrebbe essere un potente analgesico per l’allarmismo sulle crisi future.
Bruno Russo
LE ISTITUZIONI IN DIFESA DELLA DONNA L’attenzione ai problemi della donna è adesso un fatto rinnovato e più approfondito: un esempio sono i corsi di formazione sul cosiddetto “counseling preconcezionale” recentemente istituiti, per iniziativa del ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali: formare a livello nazionale, con un processo a cascata su tutto il territorio italiano la coppia che pianifica un bambino e vuole che esso nasca sano. Nonostante i progressi della scienza medica, l’età di genitori che mettono al mondo pargoli con malformazioni si è notevolmente abbassata.
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
IL COMPITO DEL CRISTIANO (II PARTE) Nella nostra provincia c’è stato ed è ancora in atto un forte processo di ricaduta di questi effetti. Anzi in qualche modo la provincia di Massa-Carrara ha contribuito fortemente a “spingere”questo processo. La crisi del Pd, per esempio, ha conosciuto momenti di grande conflitto, più che in altre parti. La crisi del centrodestra e la rinascita di un centro forte che è stato in grado di riorganizzarsi e addirittura di essere determinante alle ultime elezioni amministrative di Massa. In questo senso il processo di aggregazione al centro, sia dal centrodestra che dal Pd, è molto più veloce che da altre parti. In questa provincia si è già costituito il coordinamento provinciale dell’Unione di centro, che è acronimo anch’esso di Udc ma non è più l’Udc che solitamente usiamo indicare. In questa provincia infatti convivono un segretario provinciale dell’Udc, Franco Del Nero, e un coordinatore provinciale dell’Unione di centro, Marco Andreani. L’Unione di centro è già la fase propedeutica avanzata di un grande partito di centro che aggrega varie componenti moderate a partire proprio dall’Udc di Casini, i Liberal di Adornato, i popolari di De Mita, la Rosa per l’Italia di Pezzotta e i Protagonisti per l’Europa Cristiana di Magdi Cristiano Allam. Quindi l’Udc entra nell’Unione di centro. È un processo che ha trovato una sua prima definizione durante la campagna elettorale delle politiche del 2008, quando furono elevate le percentuali di ingresso al Parlamento (6% Camera e 8% Senato) e che vide l’Udc di Casini “aprire” ad altre componenti moderate. In corsa fu possibile cambiare solo l’acronimo dell’Udc che da Unione dei democratici cristiani e di centro divenne Unione di centro. Quindi Unione di centro è destinato, a breve, a cambiare con un soggetto nuovo, fondato contemporaneamente da tutte le formazioni moderate che aderiranno. Dopo l’avvio ufficiale di Allenza per l’Italia di Francesco Rutelli che “recupererà” gran parte della ex Margherita confluita nel Pd e poi il Centro sarà una cosa concreta. La svolta al centro, dopo il fallimento del Pd e del bipolarismo, pare essere accolta con grande speranza in tutta la provincia. È stata organizzata pochi giorni orsono la Conferenza provinciale di programmazione dell’Unione di centro, dove hanno partecipato i rappresentanti Udc, Movimento Liberal, Unione dei popolari e Una rosa per l’Italia. Sono intervenuti anche movimenti di area liberale e socialdemocratica che si riconoscono nell’identità di moderati e di popolari. La sala del Centro Congressi di Marina di Massa era gremita e questa è già un’immagine positiva della voglia di “ritornare al centro”. Siamo quindi alla vigilia di una nuova entità politica che smascheri l’artificialità delle attuali formazioni politiche, capace di interporsi tra i due blocchi di destra e di sinistra e di superare l’attuale sistema bipolare e l’impasse politico amministrativa da questo prodotta, e che dando rappresentanza alla proposta e al progetto politico dei moderati, possa contribuire alla risoluzione dei problemi che affliggono il Paese. Marco Andreani, COORDINATORE PROVINCIALE UDC
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30