2009_12_29

Page 1

91229

La libertà non è una cosa

di e h c a n cro

che si possa dare; la libertà, uno se la prende, e ciascuno è libero quanto lo voglia essere

9 771827 881004

James Baldwin di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 29 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Donna dell’anno 2009 Ahmadinejad le ha arrestato il marito, confiscato i beni, sequestrato la medaglia di premio Nobel per la pace, chiuso il suo centro per i diritti umani. «Mi è rimasta solo la voce» ha detto di recente. Ma è una voce potente, simbolo di tutte le donne musulmane in lotta per la libertà. Insomma, la spina nel fianco di un regime in crisi sempre più sull’orlo dello scontro finale

Shirin Ebadi Sette pagine speciali con interventi di: Forbice, Salemi, Hirsi Ali, Cervellera, Bolton, Moaveni

I tiranni ormai vanno anche contro i princìpi del 1979

La morte del Grande Ayatollah è stata il punto di svolta

Il regime costretto ad ammettere: 15 morti negli scontri

Dall’attentato di Detroit al rapimento in Mauritania

E il regime alla fine tradì se stesso

Adesso il futuro è nel nome di Montazeri

di Gennaro Malgieri

di Michael Ledeen

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Enrico Singer

angue sulla Ashura. La rivolta nel giorno della festa più sacra degli sciiti si è trasformata in un massacro. Quindici iraniani (ma chi può dire con esattezza quante sono le vittime della repressione?), nella sola Teheran, sono stati uccisi dai basiji e dai pasdaran. Nelle altre città, dopo la morte dell’Ayatollah Hussein Alì Montazeri, i violenti interventi delle forze dell’ordine hanno cercato di stroncare le proteste dei giovani contro il regime. a pagina 2

er giorni il movimento degli oppositori al regime di Teheran ha cercato di strappare l’autorizzazione ufficiale per organizzare una manifestazione, ma questa gli è stata sinora negata. Come ha argutamente commentato un utente di twitter, il Grande Ayatollah Montazeri ha tentato di venire in soccorso del movimento verde con la propria morte. Le manifestazioni svoltesi a Qom sono state abbondantemente documentate. Da queste si possono trarre molti importanti elementi di riflessione che riguardano le dimensioni e l’organizzazione della protesta popolare.

a festività dell’Ashura nasce nel mondo sciita per commemorare il martirio dell’imam Husayn e di 72 suoi partigiani ad opera delle truppe del califfo omayyade Yazid I. La strage avvenne il 10 del mese di muharram (Ashura vuol dire in arabo “decimo”) e il lutto per l’evento dura 40 giorni. La morte dell’imam e dei suoi fedeli diede infatti nuovo slancio al movimento sciita. Colpendo l’Onda verde in occasione di questa festività, il regime di Teheran ne ha portato la statura da movimento di protesta a semi-religioso: i leader dell’opposizione ad Ahmadinejad non sono più degli agitatori, ma iniziano ad assumere sembianze da leader religiosi. a pagina 4

a una parte l’attentato fallito al jet della Delta Northwest con il quale al Qaeda voleva chiudere l’anno. Dall’altra, la rivolta dei giovani di Teheran, che non si ferma e che sfida il regime, nonostante la repressione violenta e i morti. Due vicende che possono apparire lontane e scollegate in questo ultimo, drammatico scorcio di 2009. Ma che sono, invece, intrecciate.

S

P

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

a pagina 2

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

Ecco perché Così l’Europa è diventata ormai è quasi una guerra civile obiettivo sensibile

L

255 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

D

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 15

19.30


prima pagina

pagina 2 • 29 dicembre 2009

L’analisi. Nelle pieghe della guerra civile in corso in Iran, c’è anche il senso profondo del rapporto fra Stato e religione

Se l’Iran tradisce se stesso

Ormai a Teheran lo scontro è tra l’asse Khamenei-Ahmadinejad, con la sua spirale di terrore, e chi vuole ritornare ai principi del 1979 di Gennaro Malgieri angue sulla Ashura. La rivolta nel giorno della festa più sacra degli sciiti si è trasformata in un massacro. Quindici iraniani (ma chi può dire con esattezza quante sono le vittime della repressione?), nella sola Teheran, sono stati uccisi dai basiji e dai pasdaran. Nelle altre città, tra cui Isfahan, Shiraz, Tabriz, Najafabad che ha dato i natali al Grande Ayatollah Hussein Alì Montazeri, morto una settimana fa, i violenti interventi delle forze dell’ordine hanno cercato di stroncare le proteste dei giovani contro il regime. Oltre ai morti accertati, numerosi sono stati i feriti e centinaia gli arrestati. Khamenei e Ahmadinejad hanno gozzovigliato attorno al tavolo della crudeltà festeggiando così il ricordo del martirio dell’imam Hussein, nipote di Maometto, che nel 680, a Karbala (attualmente in Iraq) affrontò il martirio, alla testa di settantadue uomini, sfidando i quattromila soldati del malvagio califfo Yazid, nome evocato dai manifestanti iraniani per indicare il nuovo tiranno che li opprime. L’Ashura da ricorrenza religiosa è diventata così una orrenda carneficina.

S

Dopo sei mesi di guerriglia, assassinii, deportazioni, persecuzioni il regime si è fatto, dunque, sentire senza risparmiarsi nulla: neppure l’uccisione del nipote di Hossein Moussavi, principiale avversario di Ahmadinejad. E ha impedito manifestazioni come quella dell’ex-presidente Mohammad Khatami disperdendo la folla con gli idranti. Il mondo, attraverso Facebook e Twitter, ha assistito impotente a tanta violenza. Tra i contestatori, oltre all’invocazione di Montazeri, si è levato prepotente il grido inneggiante a Neda Agha Soltan, la giovane e bellissima iraniana uccisa da un sicario basiji nei giorni caldi delle contestazioni dopo il voto truccato del 12 giugno. La sua morte è stato il paradigma di una rivoluzione che non accenna a placarsi, ma che al contrario si intensifica, giorno dopo giorno: ai giovani iraniani non fanno più paura il carcere-fortezza di Evin, gli stupri che tra quelle tetre mura si consumano, le intimidazioni ai loro familiari, le ristrettezze in cui sono costretti a vivere, i processi-farsa a cui sono sottoposti. Hanno negli occhi il volto seducente di Neda che gli sgherri di Khamenei non ce l’hanno fatta a cancellare. L’assassinio li ha fortificati rendendoli meno docili e più determinati. L’“onda verde”, per quanto oppressa, dimostra la sua irrefrenabile vitalità ed il regime non vive giorni tranquilli.

È stato scritto che con la morte di Montazeri il movimento riformista sarebbe stato cancellato. Certo, ha subito un duro colpo. Ma proprio i moti che hanno infiammato le piazze iraniane negli ultimi giorni dimostrano che i gio-

Il futuro dell’Onda è nel segno di Montazeri di Giancristiano Desiderio er giorni il movimento degli oppositori al regime di Teheran ha cercato di strappare l’autorizzazione ufficiale per organizzare una manifestazione, ma questa gli è stata sinora negata. Come ha argutamente commentato un utente di twitter, il Grande Ayatollah Montazeri ha tentato di venire in soccorso del movimento verde con la propria morte. Le manifestazioni svoltesi a Qom sono state abbondantemente documentate. Da queste si possono trarre molti importanti elementi di riflessione.

P

In primo luogo, le (enormi) dimensioni della protesta. Da mesi si registrano manifestazioni imponenti contro il regime, le quali non sembrano destinate a cessare. In secondo luogo, la disciplina della folla. Cosa che capita di rado, specialmente se si considera come proprio in questi giorni in Iran si celebri il periodo di lutto, in cui la passione tocca picchi estremi. A ciò si aggiunga la dimensione politica (Montazeri era un simbolo della resistenza alla teocrazia) e il fatto che mischiati tra la folla si annidassero provocatori al soldo del regime, i quali tentavano di disturbare i cori disciplinati dei manifestanti. Quello iraniano è un movimento organizzato, non un gruppuscolo di contestatori esagitati. Da ultimo, occorre segnalare quanto il regime appaia spaventato. La guida suprema e i suoi accoliti si affannano alla ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi per sopravvivere. E dunque vacillano, e pongono in essere i gesti più inappropriati. Tutto ciò ricorda i più maldestri episodi dell’epoca Gorbaciov, quell’assurda ricerca di un modo per risultare sufficientemente vili da far infuriare il popolo, ma non altrettanto risoluti nell’asserire il proprio potere, la qual cosa genera la più pericolosa delle reazioni di massa: disprezzo per l’autorità e per il ruolo da questa ricoperto. L’ayatollah Montazeri, d’altro canto, si è oramai tramutato in leggenda, ed il suo potere è cresciuto a dismisura. Quel regime che egli stesso aveva contribuito a plasmare, e

che si è successivamente rivelato essere un demoniaco fallimento, si trova ora ad affrontare un movimento di massa ispirato dal coraggio e dall’indefessa onestà del defunto religioso. Costituisce uno dei più evidenti paradossi della storia il fatto che i leader del movimento verde ancora in vita contribuirono anch’essi alla creazione della Repubblica Islamica ma in seguito, riconoscendone l’indole malefica, si siano ad essa ribellati.

Alcuni di noi, da tempo impegnati in un’estenuante battaglia contro il terribile regime di Teheran, hanno avuto la fortuna di ricevere nel corso degli anni sagge osservazioni da parte di Montazeri, e sono fiducioso che, con il passare del tempo e con i cambiamenti che avranno luogo in Iran, gli studiosi possano infine meravigliarsi al cospetto della profondità intellettuale del Grande Ayatollah e delle molteplici attività in cui egli si impegnava. I capi del regime ben conoscevano il suo attivismo, motivo per cui lo temevano, ma dubito che avessero la benché idea di quale fosse il vero ruolo di Montazeri, persino dopo i novant’anni. Il Grande Ayatollah ha compiuto tutto ciò mentre si trovava agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Qom. Liberato ora da tale spregevole condizione di cattività, egli è libero di esercitare la propria leadership con rinnovata energia.

vani rivoluzionari non hanno nessuna intenzione di arrendersi. E che la “normalizzazione” auspicata da Khamenei nella sua ultima uscita pubblica, quando ha platealmente minacciato gli oppositori, non è alle viste. I riformisti ovviamente si sentono costantemente minacciati. La loro vitalità anche intellettuale, comunque, sta mettendo radici. I funerali di Montazeri, per quanto “violentanti” dalla presenza armata dei pasdaran tra i partecipanti, hanno fatto sentire alla nomenclatura sciita che il suo spirito continuerà a guidare il movimento. Nessuno, insomma, arretra di un passo. E, pur non mettendo in discussione la rivoluzione khomeinista, tradita dall’usurpatore Khamenei, le nuove generazioni che si sono abbeverate ai testi di Khatami ritengono con l’ex-presidente, ideologo a tutti gli effetti dell’«onda verde», che «quale sia il ruolo della religione nella nostra epoca, quale il ruolo dell’uomo nel gestire il proprio destino, quale il rapporto tra religione e modernità, il rapporto tra forma di Stato religiosa e liberalismo, il rapporto tra religione e democrazia: queste, e centinaia

Chi pensasse ai giovani rivoluzionari iraniani come ad atei invasati, a irredimibili apostati, a laicisti estremisti sarebbe fuori strada di altre, sono problematiche importanti e ben vive nel nostro tempo, che lo vogliamo o no. Se non ce ne occupassimo, saremmo i soli assenti dalla scena. Se vuole essere adeguato al proprio tempo, l’uomo deve comprenderne gli interrogativi


prima pagina

e i bisogni, deve impegnarsi nell’arena dove anche gli altri uomini cercano risposte ai medesimi interrogativi, e proporre le risposte migliori e più logiche. Questo significa essere presenti nel tempo».

Ecco. Gli iraniani, soprattutto i più giovani, non chiedono altro che di «essere presenti nel tempo». La loro rivoluzione non è soltanto contro un barbaro tiranno o contro un establishment oppressivo e corrotto, ma per l’affermazione di un protagonismo civile che li leghi alla modernità senza tradire i principi dell’islamismo. E sono con vinti che essere musulmani e democratici allo stesso tempo è possibile o, quanto meno, è una sfida tutta da verificare. E condividono, con Khatami, l’assunto secondo il quale la religione non impedisce all’uomo di realizzare una soddisfacente vita materiale e, nel contempo, «lo esorti ad entrare in una sfera molto più ampia rispetto al mondo materiale». Khatami stesso, più volte, ha ribadito che «in quanto credente, ho fede che il futuro appartenga alla religione, e in quanto essere pensante, riesco già a scorgere tracce e segnali di un’accoglienza favorevole da parte del mondo di oggi nei confronti della religione». Chi pensasse ai giovani rivoluzionari iraniani come ad atei invasati, ad irredimibili apostati, a laicisti estremisti sarebbe fuori strada. L’islamismo non è in discussione. Vogliono soltanto che esso venga declinato insieme con il rispetto dei diritti umani. Operazione impossibile, forse, agli occhi di tanti occidentali, ma se tale idea venisse assecondata non soltanto dal regime, ma anche dagli interlocutori esterni dello stesso, è probabile che l’esperimento riuscirebbe. Del resto, l’Iran non è un Paese arabo dove l’applicazione della sharia è totalizzante e pervade i costumi da tempo immemo-

rabile. In esso le culture hanno sempre convissuto più o meno armonicamente. Il bisogno di tornare “persiani” non significa rompere con una religione che non ingabbi le potenzialità espressive di un popolo che per sua indole è generoso e gentile. Al punto che si ribella agli aiuti che Ahmadinejad offre agli Hezbollah e agli estremisti palestinesi, oltre al ricovero che sembra dia ad alcuni esponenti di Al Qaeda. E neppure sono contenti, gli iraniani, che il loro Paese diventi una potenza nucleare paventando più i rischi che i vantaggi che un’ipotesi (che è molto più di un’ipotesi, naturalmente) di

A questo punto l’Occidente, più che puntare a sanzioni che ricadrebbero sul popolo, dovrebbe investire direttamente nella rivolta

questo genere comporta. Eppure la sfida della coppia diabolica Khamenei-Ahmadinejad è tutta rivolta a creare le condizioni per cui innescare nella regione una spirale di terrore fatalmente allungherebbe la sua ombra su tutto l’Occidente. Il quale risulta, al momento, impotente a fronteggiare le aspirazioni nucleari iraniane. E reprime coloro i quali, all’interno, giovani ed intellettuali in primo luogo, si oppongono ad una escalation che potrebbe costare cara al Paese.

È curioso notare come nessuno abbia finora sottolineato che un articolo della Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, precisamente l’articolo 90, se venisse applicato innescherebbe un processo di revisione della politica governativa non soltanto sul programma nucleare. In esso si legge: «Chiunque ritenga di dover contestare il funzionamento dell’Assemblea nazionale, dell’Esecutivo o delle strutture del Sistema Giudiziario, può inoltrare per iscritto le proprie rimostranze all’Assemblea Nazionale, che ha il dovere di compiere indagini in merito e di rispondere in misura adeguata. Nei casi in cui la contestazione riguardi il Potere Esecutivo o il Potere Giudiziario, l’Assemblea Nazionale affida ad essi il compito di eseguire indagini e di fornire adeguate risposte, e ne comunica il risultato entro un periodo ragionevole. Qualora l’oggetto della rimostranza sia ritenuto di interesse generale, il risultato viene reso pubblico dall’Assemblea Nazionale». Abbiamo citato questo articolo, per dimostrare, una volta di più, come la rivoluzione khomeinista sia stata tradita. L’Assemblea Nazionale, il Majilis insomma, è un organismo pletorico, nel quale più dei due terzi dei componenti rispondono alla Guida Spirituale avendo questi, con il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, depennato tutti i candidati riformisti. Perciò, a chi dovrebbero appellarsi gli

29 dicembre 2009 • pagina 3

iraniani? Barack Obama, che nella sua infinita presunzione, ha dimostrato di non conoscere nulla della realtà iraniana, diversamente non avrebbe “teso la mano” ad Ahmadinejad, potrebbe utilmente chiedere, sia pure retoricamente, il rispetto della Costituzione varata da Khomeini a cominciare da quell’articolo 20 che retoricamente recita: “Nel rispetto delle norme islamiche tutti gli individui cittadini della nazione, sia uomini, sia donne, sono uguali di fronte alla protezione della legge e godono di tutti diritti umani, politici, economici, sociali e culturali”. Sembra una barzelletta. Ma per difendere questa barzelletta, Montazeri si è fatto vent’anni di esilio, molti dei quali punteggiati da lunghi periodi di detenzione. E sempre perché continuano a credere in questa “barzelletta”, molti iraniani vengo uccisi, torturati, detenuti, spogliati dei loro diritti civili. La Costituzione, insomma, nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad è diventata carta straccia.

Cosa può fare l’Occidente, oltre a denunciare lo scempio che va quotidianamente in scena in Iran? Isolare il paese politicamente è il minimo. Sarebbe però un errore se ricorresse al boicottaggio i cui effetti si riverbererebbero sulla popolazione. Deve investire sulla rivolta. Appoggiare il movimento riformista in ogni modo. Anche finanziandolo copiosamente. E’ un altro modo per combattere una guerra giusta. Senza dimenticare che il 48% degli iraniani ha poco più di trent’anni. La maggior parte di loro non era nata quando Khomeini tornava da “liberatore”a Teheran. I giovani che mostrano il loro volto di fronte alla brutalità dei basiji e dei pasdaran sono l’Iran di domani. Che può essere islamico e democratico. Ma soprattutto persiano. Orgoglioso di una cultura e di una civiltà che nessuno ha potuto fin qui cancellare.


prima pagina

pagina 4 • 29 dicembre 2009

Analisi. Il regime ha tradito Khomeini e la popolazione, ma colpendo durante l’Ashura si è avviato verso il baratro

L’alba della guerra civile

L’Onda non è più sola: la società e i militari hanno deciso di aiutarla di Vincenzo Faccioli Pintozzi a festività dell’Ashura nasce nel mondo sciita per commemorare il martirio dell’imam Husayn e di 72 suoi partigiani ad opera delle truppe del califfo omayyade Yazid I. La strage avvenne il 10 del mese di muharram (Ashura vuol dire in arabo “decimo”) e il lutto per l’evento dura 40 giorni. La morte dell’imam e dei suoi fedeli diede infatti nuovo slancio al movimento sciita, che riuscì a combattere e vincere una battaglia decisiva contro coloro che volevano schiacciarlo. Colpendo l’Onda verde in occasione di questa festività, il regime di Teheran ne ha portato la statura da movimento di protesta a semireligioso: i leader dell’opposizione ad Ahmadinejad non sono più degli agitatori, ma iniziano ad assumere le sembianze di Husayn e dei suoi fedelissimi.

L

La morte del Grande Ayatollah Montazeri, detonatore delle ultime proteste in ordine temporale, impone al tutto il sigillo rivoluzionario di cui necessitava per l’ultimo colpo di reni. E nel Paese si inizia a parlare apertamente della caduta del dittatore. La repressione governativa e le vittime degli ultimi due giorni, infatti, non hanno fermato la protesta in Iran. Anche ieri dalla capitale iraniana sono arrivate notizie di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. La televisione di Stato iraniana, che non ha mai spesso di definire l’Onda verde “un movimento

anti-rivoluzionario”, ha ammesso che gli scontri dei giorni scorsi hanno causato la morte di quindici persone. Citando fonti del ministero dell’Interno, il megafono del regime ha detto che «quindici persone sono state uccise durante i disordini. Delle vittime, più di dieci appartenevano a gruppi anti-rivoluzionari, mentre cinque facevano parte di gruppi terroristici». Sul numero di morti c’è però ancora grande incertezza. La morte di Seyed Ali Mousavi, nipote del leader dell’opposizione Mir Hossein Mousavi, ha sca-

stretti collaboratori: Morteza Haji, segretario della fondazione, e Hasan Rasooli, il vice presidente. Nel mirino delle forze dell’ordine iraniane è finito anche Alireza Beheshti, il più stretto collaboratore del riformista Mousavi. I poliziotti hanno poi arrestato all’alba, nella sua casa, anche uno dei dissidenti più noti del Paese; Ebrahim Yazdi, già vice-premier e ministro degli Esteri nel primo governo post rivoluzione e guida del Movimento per la Libertà in Iran, ovvero uno dei gruppi più attivi nell’opposizione al governo di

La morte del nipote di Mousavi è stata pianta anche da intellettuali un tempo organici a Teheran. È l’ultima crepa nel muro della dittatura tenato – per il suo valore simbolico – persino una lettera aperta firmata da alcuni intellettuali un tempo “di regime”, che chiedono scusa per l’accaduto. Teheran però non si ferma, e cerca in tutti i modi di decapitare il movimento. Senza capire che la testa è oramai troppo stratificata nella società per estirparla, che siamo oramai all’alba di una guerra civile. Le forze di sicurezza hanno comunque eseguito ieri diversi arresti eccellenti. Secondo quanto riporta il sito dei deputati riformisti Parlemanews, le forze di sicurezza iraniane hanno fatto irruzione nella Fondazione “Baran”, diretta dall’ex presidente riformista Mohammad Khatami, e hanno arrestato due suoi

Ahmadinejad. E proprio questo è un terzo segnale, dopo la morte di Montazeri e quella del giovane Mousavi, di quanto sia ormai estesa la protesta e preoccupato l’atteggiamento del regime. Il quarto segnale proviene, come anticipato alcuni giorni fa da liberal, da una delle sezioni chiave del sistema-Paese Iran: i militari. I veterani della guerra Iran-Iraq hanno deciso infatti di prendere posizione contro la repressione esercitata negli ultimi mesi dal governo iraniano ai danni dei manifestanti riformisti e starebbero lavorando a un piano d’azione in sostegno della popolazione. La notizia, arrivata ieri, è contenuta in una lettera pubblicata dal sito dell’opposizione al-

l’estero Peiknet, nella quale un gruppo di ex militari iraniani che hanno combattuto contro l’Iraq negli anni Ottanta annuncia che presto «si assisterà a un intervento radicale contro il governo delle forze militari vicine alla popolazione». I militari che hanno affrontato l’esercito dell’ex rais Saddam Hussein godono da sempre del sostegno della popolazione e sono considerati come eroi della patria.

Nelle scorse settimane anche un gruppo di comandanti dell’esercito nazionale iraniano (Artesh-e Melli) aveva divulgato un simile annuncio, lanciando un duro monito ai Guardiani della Rivoluzione (pasdaran) e alle forze paramilitari (Basij), affinché fermassero l’ondata repressiva nei confronti dei cittadini.Le forze armate iraniane sono in gran parte costituite da due corpi militari: quello dell’esercito nazionale, che ha il compito esclusivo di difendere i confini, e quello dei Pasdaran che - oltre alla difesa dei confini - ha anche il compito di intervenire sulle questioni inerenti l’ordine pubblico e la sicurezza interna, affiancando le forze di polizia. I pasdaran, meglio equipaggiati dell’esercito nazionale, sono tradizionalmente fedeli alla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Che però, in questi giorni, ha deciso per una linea di minore visibilità e non ha dato il suo parere sulla vicenda in corso. Ovviamente, tutto questo ha scatenato il solito ballo

di condanne. L’Unione Europea ha condannato il regime iraniano per «l’uso della violenza contro dimostranti che cercavano di esercitare la loro libertà di espressione e il diritto a riunirsi in modo pacifico». Con un comunicato diffuso ieri a nome dell’Unione, la presidenza svedese definisce poi una grave violazione dei diritti umani «gli arresti arbitrari dei dimostranti. La libertà di espressione ed il diritto a riunirsi in modo pacifico sono diritti umani universali che devono essere rispettati. L’Iran si è impegnato a farlo come partecipante alla Convenzione internazionale per i diritti civili e politici».

Amnesty International ha condannato «l’ulteriore e del tutto evitabile perdita di vite umane durante le commemorazioni religiose dell’Ashura» e ha chiesto alle autorità di garantire «il diritto di riunirsi pacificamente e di esprimere la propria opposizione nei confronti del governo». Dura persino la Russia, da tempo amica e alleata dell’Iran, che si è detta «preoccupata per le violenze in Iran» e ha esortato il regime alla moderazione. In un comunicato del ministero degli esteri diramato ieri a Mosca si legge infatti: «Gli avvenimenti di questi ultimi giorni in Iran ci preoccupano. In questa situazione è essenziale dare prova di moderazione, cercare compromessi in osservanza della legge e fare sforzi politici per evitare un’escalation nel confronto».


Donna dell’anno 2009

Shi ri n Eba di Perché abbiamo scelto l’avvocatessa iraniana

Ahmadinejad le ha arrestato il marito, confiscato i beni, sequestrato la medaglia del Nobel per la pace, chiuso il suo centro per i diritti umani. «Mi è rimasta solo la voce» ha detto di recente. Ma è una voce potente, spina nel fianco di una teocrazia in crisi, icona di tutte le donne musulmane in lotta per la libertà

Il simbolo di un popolo che lotta per la libertà contro un regime feroce di Aldo Forbice hirin Ebadi, la coraggiosa avvocatessa iraniana, premio Nobel 2003 per la pace, è certamente un simbolo della democrazia e della libertà del popolo iraniano. È per questo motivo che liberal l’ha scelta come “donna dell’anno 2009”, proprio mentre il suo martoriato Paese si trova sull’orlo di una guerra civile che potrebbe provocare la caduta del regime teocratico. Negli ultimi mesi altre donne, giovani e meno giovani, sono state al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, vittime di un regime teocratico sempre più oppressivo, che non si cura di spargere sangue innocente tra i dissidenti. Pensiamo, in particolare, per riferirci solo al 2009, a Neda Soltan, 26 anni, uccisa da un pasdaran durante una manifestazione del giugno scorso per protestare contro i brogli elettorali che hanno portato alla presidenza il falco Ahmadinejad. Pensiamo ancora alla giovane pittrice Delara Darabi, giustiziata per un delitto che non aveva commesso. E che cosa dire poi delle trenta madri di giovani assassinati fatte arrestare dal regime islamico mentre si recavano, come tutte le settimane, al parco Laleh nel centro di Teheran per chiudere giustizia?

S

Nemmeno l’Argentina dei colonnelli aveva osato arrestare le “Madri di Plaza de Mayo”. Il regime degli ayatollah non si è fatto alcuno scrupolo. Fra quelle madri trascinate in carcere c’era anche la mamma di Neda, quella di Sohrab Aarabi, un ragazzo sparito durante una manifestazione di protesta. E ancora, pensiamo a un’altra femminista, Rezvan Noghan, condannata a sei mesi di carcere e a dieci colpi di frusta da parte del Tribunale rivoluzionario di Teheran. Ad altre tre femministe erano state comminate le stesse pene. Ma di che cosa erano state accusate queste quattro donne? Avevano partecipato, insieme ad altre 32 amiche, a una manifestazione davanti al tribunale dove si svolgeva un processo a cinque femministe. E come non ricordare, scegliendo fior da fiore, il caso di Negar Azizmoradi, una giovane iraniana fuggita in Turchia perché si era dichiarata atea? Ad Ankara, Negar è stata arrestata e se dovesse essere estradata potrebbe essere condannata all’impiccagione. Le donne in Iran rischiano ogni giorno una condanna alla fustigazione, all’impiccagione e alla lapidazione per sospetto adulterio o per prostituzione. E tutto questo mentre gli ayatollah intensificano campagne “moralizzatrici”, che impongono alle donne di vestirsi in modo monacale, coprendo cioè completamente il loro corpo, lasciando scoperti solo parte del viso e le mani, con vestiti larghi in modo da non far notare le forme. La “polizia religiosa” ferma per strada le donne, le porta nei propri uffici, dove vengono interrogate, schedate e ammonite dal continuare a indossare vestiti“sconsigliati”. Spesso vengono chiusi anche i negozi e i parrucchieri che non rispettano “le regole religiose”. Sono sempre più numerose le donne vittime, le dissidenti che sfidano ogni giorno il regime teocratico. Sono ormai decine di migliaia, se consideriamo tutte le giovani arrestate, torturate, vittime dei pasdaran, dei basij, della polizia, durante le manifestazioni di giugno e luglio scorsi. Ma Shirin Ebadi, più di tutte, rappresenta le donne iraniane. E soprattutto negli ultimi tempi è diventata un simbolo della lotta per la democrazia e la liberta di questo grande paese di millenaria civiltà, ma che in questi ultimi decenni sta vivendo il“sonno della ragione”. In una intervista di pochi giorni fa il Premio Nobel ha detto: «La risoluzione dell’Onu contro l’Iran è stata molto importante perché esprime una condanna forte della comunità internazionale contro uno Stato che sta violando, ogni giorno, i diritti degli esseri umani». È per questo suo impegno che è stata costretta a fuggire da Teheran, dove aveva uno studio legale specializzato nella difesa dei dissidenti e dove aveva sede l’associazione da lei presieduta (il Centro dei difensori dei diritti umani). segue a pagina 6

29 dicembre 2008 - liberal - pagina 5


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi Dagli studi in Giurisprudenza ai libri-denuncia, passando per l’esilio, la dissidenza e il Nobel per la Pace. Ritratto ragionato della ribelle iraniana che, per vocazione, ha scelto di dare voce agli intellettuali arrestati, ai torturati, ai prigionieri in carcere, agli oppositori minacciati dal regime e a chiunque decida di lottare per la libertà

I testi di Azar Nafisi vengono spesso citati dalla Ebadi nei suoi discorsi, sempre più “politici”

Una risorsa da non sprecare per la democrazia di domani segue da pagina 5 Le sono state sequestrate tutte le proprietà, il conto in banca, il premio Nobel e la medaglia per la Legion d’onore. Diversi collaboratori e il marito dell’avvocatessa sono stati arrestati, subendo maltrattamenti dai pasdaran. Il ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr, ha dichiarato: «Siamo scioccati. È la prima volta che le autorità di un paese confiscano un Premio Nobel per la pace». La Ebadi ha commentato con amarezza: «Dopo il Nobel hanno sequestrato tutti i miei beni. Si sono presi persino la medaglia che mi hanno dato a Oslo: era in una cassetta di sicurezza assieme ad altri premi e riconoscimenti. Hanno preso tutto. Per fortuna mi è rimasta la voce». L’attribuzione del Premio Nobel per la pace a Shirin ha sempre infastidito le autorità iraniane. «Ma a me - ha dichiarato la Ebadi - ha portato fortuna, permettendomi di portare le mie parole in tantissimi Paesi. Purtroppo da questi Paesi ne manca solo uno, il mio».

Shirin, da Parigi dove vive da anni, si spostava a Teheran, per difendere in tribunale le vittime del regime. Ed è per questo che da anni cercava di tenere un profilo“basso”, cioè faceva di tutto per non irritare eccessivamente gli ayatollah, soprattutto quelli vicini ad Ahmadinjad, per non fornire pretesti e per cercare di “strappare”dal carcere (e dalle condanne a morte) il più possibile donne e uomini perseguitati dal regime. Per queste ragioni l’avvocatessa evitava accuratamente di presenziare a convegni internazionali sull’Iran, rifuggiva da ogni contatto con la resistenza iraniana, continuava a professarsi rigorosamente “musulmana” e non esprimeva mai opinioni pubbliche contro la pena di morte. Si sfilava da ogni invito, sottraendosi persino alle interviste sollecitate dai giornali, dalle radio e tv perché la visibilità poteva nuocere al suo delicato rapporto col regime. Io stesso, in diverse occasioni ho provato a intervistarla per la radio, ma Shirin, diplomaticamente si rendeva irreperibile. Nel suo recente libro autobiografico, La gabbia d’oro (Rizzoli) le cautele sono però cessate, ed ha deciso di svelare pienamente il suo reale pensiero nei confronti della tirannia del regime islamico. Ha rivelato, ad esempio, l’angoscia di quando, insieme a un gruppo di altre donne, si è recata nel deserto di Khavaran per scoprire le fosse comuni: «I corpi di migliaia di oppositori politici, caduti sotto i colpi dei pasdaran, erano stati ammassati lì, uno sull’altro come spighe falciate. Non meritavano neppure un funerale o una sepoltura in un cimitero musulmano.«Zedd-e enghelab», controrivoluzionari. «Nessuna cerimonia. Forse vi faremo sapere dove si trova il corpo». Solo questo si sentivano dire le famiglie dei condannati. La morte si scopriva dopo settimane, mesi di silenzio, incertezza, assenza». Shirin ha descritto poi, con parole di rabbia, di dolore, di esasperazione, le peripezie, le diffidenze, le ostilità del regime quando si era illusa, per eseguire un mandato dei parenti delle vittime, di “av-

pagina 6 • liberal • 29 dicembre 2009

viare le pratiche”per costruire a Khavaran un monumento in onore degli assassinati. Ovviamente l’ostinazione dell’avvocatessa è stata sconfitta dall’odio del regime e dell’allora sindaco di Teheran, che non volle incontrarla. Quel sindaco si chiamava Mahmoud Ahmadinejad. Il Centro dei difensori dei diritti umani, diretto da Shirin Ebadi, è stato chiuso, senza alcun preavviso, dalla polizia. Ma a questo proposito è giusto ricordare un’altra donna coraggiosa, che ha patito sofferenze inaudite: Narges Mohammadi, vice direttore del “Centro”, giornalista e madre di due bambini. Narges è stata licenziata dalla Società per le ispezioni industriali, dove lavorava da molti anni, senza alcuna spiegazione.

Il suo direttore le ha solo riferito: «Gli ordini sono arrivati dall’alto». Ha scritto una lunga lettera, cortese ma sdegnata, ad Ahmadinejad, in cui ha affermato, fra l’altro: «Mi permetto di chiedere: per quale colpa i miei bambini devono essere vittime delle vendette del regime?». Ma le donne vittime del regime, come si è detto, sono molte, moltissime, come scrive anche una battagliera scrittrice iraniana, Azar Nafisi (autrice del best seller Leggere Lolita a Teheran, Adelphi), esule negli Usa. Scrive Nafisi: «Nel 1979 un gruppo di persone salì al governo del mio Paese, del-

Il “Centro dei difensori dei diritti umani” è stato chiuso, senza alcun preavviso, dalla polizia. E il suo vicedirettore, giornalista e madre di due bambini, licenziata in tronco per ordini “superiori” le sue tradizioni e della sua religione e ci disse che il nostro modo di credere, provare, pensare, guardare era sbagliato. Giustificarono le leggi brutali sostenendo che questo fosse quello in cui gli iraniani, i musulmani, credevano. Le parole “democrazia” e “diritti umani” furono considerate concetti occidentali e le donne che lottavano per i loro diritti, marionette dell’Occidente; gli autori che scrivevano della libertà di espressione, i giovani che reclamavano una vita libera e prospera, vennero condannati in nome dell’Islam e dell’Iran». I testi di Azar Nafisi vengono spesso citati da Shirin Ebadi, nei suoi discorsi. Ci sono molte cose in comune fra queste due donne, ma il premio Nobel non è solo una intellettuale impegnata, un avvocato carismatico che difende i diritti delle donne, ma negli ultimi tempi ha assunto sempre più marcatamente un ruolo politico. Ora rappresenta una“risorsa”per la democrazia iraniana di domani, per l’Iran del dopo repubblica islamica.

e pigre estati all’ombra dei ciliegi e le sere d’inverno sotto il korsi, il sapore degli halva sfrigolanti di burro e le discussioni sulla moda europea: l’adolescenza di Shirin Ebadi, musulmana, 62 anni lo scorso giugno, premio Nobel per la pace nel 2003, affiora di tanto in tanto nei suoi libri, nei suoi discorsi, con un senso di perdita, con una nostalgia battagliera, perché non c’è un passato al quale tornare, ci sono soltanto futuri possibili.

L

Quando l’ho incontrata per la prima volta, nel 2006 (era appena uscito in Italia il libro Il mio Iran. Una vita di rivoluzione e speranza), Shirin Ebadi aveva gli occhi brillanti, di fuoco, i capelli corti, un rossetto molto rosso, e aveva l’aria di una donna concreta, con un forte senso della giustizia e dell’ingiustizia. Una che aveva ambizioni legittime ed è stata costretta a mettersi fuori dal sistema perché non aveva scelta. Credeva, voleva credere, in una rivoluzione guidata dalle donne, quella rivoluzione che le donne non hanno fatto in nessuna nazione. Lei, però, ha avuto il Nobel, non senza polemiche, perché a qualcuno, la signora, tanto pacifista non sembrava. Anzi. Al governo iraniano sembrava, e sembra ancora, decisamente pericolosa. Nel 2008 la polizia ha chiuso i suoi uffici, a metà dicembre 2009 le hanno sequestrato l’appartamento, la pensione che riceveva come ex giudice dal ministero di Grazia e Giustizia, il conto in banca e tutti i premi, incluso il Nobel e la Legion d’onore. Minacciano di arrestarla, ma non per motivi politici, no, semplicemente per evasione fiscale appena metterà piede in Iran: lo Stato reclama


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi

Shirin Ebadi, Signora della Rivoluzione Fermo immagine sulla riformista che fa paura a Teheran di Roselina Salemi

410mila dollari di imposte (una bella aliquota). E, cosa molto buffa, si parla tanto dei soldi. Lei, dagli Stati Uniti, sostiene che i premi, secondo la legge iraniana non sono tassabili. Il governo norvegese e quello svedese hanno chiesto indignati l’immediata restituzione della medaglia e il dissequestro del conto dove Shirin Ebadi ha depositato il milione e trecentomila dollari ricevuti dal Comitato («Sono soldi suoi, legittimamente percepiti ed esentasse in tutti i paesi del mondo»). Ma la verità è che, dopo la condanna a morte del 2000, questa è l’unica cosa che il governo può farle: metterla in condizioni di stare alla larga dall’Iran. «Vivo in uno stato di esilio effettivo», ha commentato mentre andava all’Onu, «ma troverò il modo di tornare».

È sempre tornata, alla fine. Ha un marito a Teheran, il coraggioso Javad Tavassolian (le scarne notizie da Teheran dicono che è stato minacciato e picchiato), ha due figlie, un passato, e non è la prima volta che rischia. Forse ha cominciato a rischiare, senza saperlo, laureandosi in Legge nell’Iran dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. Mentre studiava, la monarchia corrotta e dilaniata dalle faide interne, produceva gli anticorpi che l’avrebbero distrutta. L’occidentalizzazione forzata e la presenza americana producevano i germi della rivoluzione islamica. Shirin Ebadi entra in magistratura nel ‘69, prende il dottorato in diritto privato nel ’71 e diventa presidente di una sezione del tribunale di Teheran nel ’75. Una donna in carriera, diremmo. Brillante, determinata. La sua vita sarebbe stata un’altra senza la rivolta che ha consegnato il potere a uno stato teocratico. Ma nessuno può scrivere

la propria storia. Fuggito lo Scià, spazzato via il Trono del Pavone, trionfa l’integralismo. L’ayatollah Khomeini, che riesce a trovare ampi sostegni anche all’estero, inaugura il nuovo corso. Nel ’79 è costretta a lasciare la magistratura perché la legge islamica non prevede che una donna possa giudicare. In realtà, la legge islamica prevede per la donna un ruolo di totale sottomissione, altro che carriera. Lei non si arrende, fa ricorso e ottiene, come “esperta di legge”, di poter collaborare con il tribunale. Comincia a scrivere. Saggi, articoli, interventi e poi, nel 1992, ottiene di poter esercitare la professione di avvocato. La sottovalutano. E si trova ad essere, per scelta, per vocazione, il punto di riferimento dei dissidenti, degli intellettuali arrestati senza ragione, torturati, chiusi in carcere, degli oppositori minacciati e delle loro famiglie. Si costituisce parte civile nei processi contro i servizi segreti. I casi di cui si occupa escono dai confini dell’Iran e invadono il mondo. La storia di Ahmad Batebi, lo studente rinchiuso nel carcere di Evin, diventa il simbolo dell’oppressione. Che cosa aveva fatto? Era apparso nel ’99 sulla copertina del settimanale The Economist mostrando la maglietta insanguinata di un compagno.

La storia di Zahra Kazemi, giornalista arrestata per aver fotografato, solo dall’esterno, proprio il carcere di Evin, e poi assassinata dopo incredibili violenze, diventa il manifesto dei diritti delle donne. Siamo nella fase in cui Shirin Ebadi e i suoi collaboratori del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, (una ventina, molte donne) pensano che un’opposizione interna sia ancora possibile, che una forma di de-

mocrazia esista ancora. Questo spiega il lavoro “all’americana”: la raccolta di prove, documenti, materiali. Shirin Ebadi realizza un video sulla repressione delle manifestazioni studentesche. E uno scoop che le costerà caro. Il fondamentalista islamico Amir Farshad Ebrahimi racconta di essere stato ingaggiato dall’ala conservatrice del governo per aggredire e intimidire i riformisti durante riunioni e assemblee. La sua dichiarazione, filmata e autenticata, comincia a circolare, e

il governo reagisce con durezza. Shirin Ebadi, accusata di «disturbo alla quiete pubblica», viene processata e condannata alla sospensione della professione di avvocato per cinque anni (combatte e ottiene poi una sentenza più favorevole), ma nelle stanze segrete il suo nome finisce in cima a una lista di persone che stanno diventando scomode perché creano disturbo. Una lista di condannati a morte. È allora che gioca l’ultima carta: far sapere a tutti che cosa sta succedendo in Iran. Nel 2003 arriva il Nobel, accolto gioiosamente a viso scoperto, senza chador, all’aeropor-

to di Parigi, il Nobel che le permette di essere ascoltata, di raccogliere sostegno e fondi. Ma nell’Iran in bilico tra futuro e medioevo niente cambia, anche con le elezioni. La seconda volta che ho incontrato Shirin Ebadi, nel 2007, c’era in lei un grande entusiasmo e, nello stesso tempo, una rabbia a stento trattenuta. «In Iran, uno dei vicepresidenti del nuovo governo di Ahmadinejad è una donna» spiegava, «e in Parlamento siedono 13 deputate. Eppure, il governo islamico ha imposto leggi discriminatorie e oggi, da noi, la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo. Ho fatto il giudice, l’avvocato, il docente universitario. Ho scritto libri tradotti in tutto il mondo, ho vinto il Nobel e altri premi, eppure, se voglio testimoniare in tribunale non sono accettata se non accompagnata da un’altra donna che conferma le mie parole. Per venire qui ho dovuto chiedere il permesso a mio marito. Le donne non possono accettare simili condizioni. Per questo il movimento femminista in Iran è molto forte, anche se non ha un leader né una sede». Quel giorno Shirin Ebadi ha rivelato il “progetto ambizioso” delle iraniane: una campagna di un milione di firme contro le leggi discriminatorie, da raccogliere in due anni e da offrire all’attenzione de mondo. Che il movimento delle donne esista, sotterraneo, potente come un fiume carsico, è vero. «Ogni sabato sera», racconta Shirin Ebadi, «il comitato delle Madri in Lutto dell’Iran si riunisce in un parco. Protestano in silenzio, vestite di nero, tenendo in mano le foto dei figli imprigionati e uccisi. Tantissime studentesse sono dietro le sbarre. Pensate a Neda Soltani, la ragazza colpita a morte durante gli scontri con la

polizia a Teheran, esempio della repressione violenta. Andate su YouTube. È dalle donne che arriverà la risposta alla domanda di libertà». Ho rivisto Shirin Ebadi nel 2008, quando è uscito La gabbia d’oro. Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana (Rizzoli), autobiografia di un popolo che in pochi decenni è passato attraverso sconvolgimenti storici e politici inimmaginabili. Nel libro, Shirin e Parì, amiche d’infanzia, si perdono e si ritrovano, divise dalle scelte degli altri, e la storia delle due ragazze, è anche quella di un pezzetto di mondo diventato una pedina nella grande scacchiera internazionale. I singoli destini sono irrilevanti. I giornalisti la incalzavano. Le chiedevano giudizi sulla politica americana e sulla corsa al nucleare dell’Iran. Lei scuoteva la testa: «Non sono un leader politico dell’opposizione, sono soltanto un avvocato che difende i perseguitati». Perciò tutto è più difficile.

Che cosa farà adesso Shirin Ebadi? (perché è scontato che non si arrenderà). È più facile dire che cosa vorrebbe fare. Incontrare Barack Obama. Ottenere un sostegno più incisivo dalla Commissione Onu per i Diritti Umani di Ginevra. Mobilitare l’opinione pubblica internazionale. E poi, nonostante tutto, vorrebbe tornare in Iran. Alle pigre estati all’ombra dei ciliegi e alle sere d’inverno sotto il korsi, al sapore degli halva sfrigolanti di burro e alle discussioni sulla moda europea. Il passato è scivolato via, e il futuro non c’è ancora. «Nulla mi spaventa più», dichiara. Perché aver paura significa già aver perso».

29 dicembre 2009 • liberal • pagina 7


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi

La celebre attivista somala ci spiega la condizione delle musulmane nel nostro continente

Tutte le eroine d’Europa di Ayan Hirsi Ali el mondo musulmano le eroine non mancano di certo. Ma qui in Occidente i loro nomi non riescono quasi mai a varcare le soglie dei confini nazionali. Legittimo dunque che se ne ignori l’esistenza. Meno legittimo che non venga dato ascolto alle eroine musulmane in Occidente. Ed è di loro che vi voglio parlare. Una delle mie eroine è Samira Ahmed, un’affascinante ragazza di 24 anni con grandi occhi marroni da cerbiatta, capelli ricci e un sorriso che indurrebbe persino il volto più tetro a illuminarsi e ricambiarlo.

N

La giovane è animata da un’insaziabile curiosità e da una forte volontà di essere sé stessa. Nata in una famiglia che abbandonò il Marocco all’inizio degli anni ’80 per stabilirsi nei Paesi Bassi, Samira è una dei dieci figli di quella famiglia. Nell’estate di qualche anno fa, presi parte alla sua cerimonia di laurea presso un istituto superiore di scienze pedagogiche di Amsterdam. Samira venne insignita del diploma in pedagogia e ricevette un punteggio record di 10 (il più alto possibile) per la propria tesi. Questo è il lato più celebrativo della storia di Samira, poiché esiste anche un lato tragico. Quando giunsi all’istituto, venni ricevuta come tutti gli altri ospiti in una zona in prossimità dell’auditorium dove la cerimonia avrebbe avuto luogo. Notai una classe allegra, un totale di 35 studenti. Erano accompagnati da familiari e amici, i quali chiacchieravano, porgevano regali e mazzi di fiori avvolti nel cellophane. Ma nessuno della famiglia di Samira venne: nessun fratello, nessuna sorella, nessuno cugino, nessun nipote. Due anni prima, Samira era stata costretta a fuggire di casa poiché desiderava vivere in una casa dello studente come le sue amiche olandesi Sara e Marloes. A casa divideva la camera da letto con alcuni dei suoi fratelli e non poteva godere della benché minima privacy. Ogni movimento che faceva all’interno dell’abitazione era sotto gli occhi della madre e delle sorelle; fuori di casa, i fratelli la tenevano costantemente sotto controllo. Volevano impedire a qualsiasi costo che si occidentalizzasse. All’interno delle mura domestiche, Samira aveva patito

terribili violenze fisiche e psicologiche. La sua famiglia trovava sempre un pretesto per farle domande, frugare tra le sue cose e proibirle di mettere piede fuori di casa. Veniva picchiata frequentemente. Tra la sua comunità girava voce che avesse un ragazzo olandese. Le punizioni si fecero più dure. Samira non poteva più tollerare un tale stato di cose e decise di andarsene. Poco più tardi, nell’estate del 2003, si mise in contatto con me. Mi recai con lei dalla polizia per sporgere denuncia ai danni dei fratelli, che avevano minacciato di ucciderla. Secondo questi ultimi, la morte di Samira era l’unico modo di lavare l’onta che ella aveva arrecato alla propria famiglia per essersene andata di casa. A mio parere, nei paesi dell’Unione Europea con un’ampia popolazione musulmana si possono annoverare tre categorie di donne musulmane. In primo luogo, vi sono le ragazze come Samira: con grande forza di volontà, intelligenti e desiderose di avere la possibilità di plasmare il proprio futuro lungo un percorso scelto in totale indipendenza. Tra loro e una completa assimilazione con la società occidentale si frappongono molti ostacoli, e alcune possono addirittura perdere la vita nel tentativo di coronare il proprio sogno. In secondo luogo, vi sono ragazze e donne che si dimostrano molto dipendenti e legate alle rispettive famiglie ma che riescono sapientemente a condurre una doppia vita. Invece di contrapporsi alle proprie famiglie e discutere della loro osservanza ai costumi e ai precetti religiosi, queste ragazze utilizzano un approccio più discreto.

pagina 8 • liberal • 29 dicembre 2009

Quando sono assieme agli altri membri della famiglia indossano il velo e tra le mura domestiche obbediscono a ogni capriccio dei genitori o dei loro uomini. Fuori di casa conducono una vita per nulla diversa da quella della donna occidentale media: hanno un lavoro, vestono alla moda, hanno un fidanzato, bevono alcool, partecipano alle feste e riescono persino a starsene lontane da casa per un po’ di tempo. Il terzo gruppo annovera invece le donne totalmente vulnerabili. Alcune di queste ragazze vengono importate come mogli o dipendenti domestiche dal paese d’origine degli immigrati presso cui si recano a vivere. Alcune di queste sono figlie di famiglie conservatrici. Una volta entrate nella pubertà, vengono tolte

Alcuni governi dell’Ue hanno riconosciuto la necessità di lottare contro ogni forma di violenza ai danni delle donne.Tuttavia la strada da percorrere è ancora lunga affinché queste possano condurre una vita senza paura da scuola e rinchiuse a casa. Le ragazze vengono spesso educate ad essere assolutamente obbedienti: svolgono le mansioni domestiche senza fiatare. La loro volontà indivi-

duale viene piegata all’etica del servizio insegnata loro tra le mura domestiche e messa in pratica con il rispettivo marito o con le persone che le importano e le schiavizzano. Queste ragazze sanno a malapena leggere o scrivere. Quando convolano a nozze, danno alla luce tanta prole quanta la loro fertilità consente di fare. Quando abortiscono, molte di loro interpretano l’accaduto come volontà di Dio.

È da tempo ormai che sostengo che il modo più efficace da parte dei governi dell’Unione Europea per dialogare con le proprie minoranze musulmane consiste nel riconoscere i diritti di quelle donne musulmane che vivono all’interno dei propri confini. Lo strumento migliore per liberare queste donne dalla loro condizione di asservimento è l’istruzione. Tuttavia il sistema educativo di alcuni paesi Ue attraversa un periodo di crisi dovuto a un’eccessiva negligenza nella gestione, in special modo per ciò che concerne l’istruzione dei bambini immigrati. Paghiamo il prezzo di una mescolanza di formazione e ideologia. In ogni caso, consentitemi di focalizzare la mia attenzione sull’importante tema della liberazione delle donne dal giogo delle superstizioni e dei costumi tribali. L’ostacolo maggiore che impedisce alle donne musulmane di condurre una vita degna e libera è rappresentato dalle violenze - fisiche, mentali e sessuali - commesse da parte dei familiari più stretti. Propongo qui di seguito solo alcuni esempi delle violenze perpetrate su ragazze e donne appartenenti a culture islamiche: - All’età di quattro anni, le bambine subiscono la mutilazione degli organi genitali: alcune di loro patiscono mutilazioni così gravi che muoiono a causa delle infezioni; altre rimangono traumatizzate a vita e in seguito saranno vittime di ripetute infezioni agli apparati riproduttivo e urinario. - Le adolescenti vengono prelevate da scuola a forza e tenute dentro casa al fine di bloccare il loro percorso formativo, soffocare le loro capacità di elaborazione mentale e reprimere la loro volontà. - Le vittime di incesti e abusi sessuali vengono picchiate, deportate o uccise per evitare che sporgano denunce;

- Alcune donne incinte vittime di incesti o abusi sessuali vengono costrette dai loro padri, fratelli maggiori o zii a interrompere la gravidanza per non disonorare il buon nome della famiglia. Nell’era degli esami del Dna, le ragazze sarebbero in grado di dimostrare di essere state violentate. Tuttavia, invece di punire i violentatori, la famiglia tratta la figlia come colei che macchia con il disonore tutto il nucleo famigliare. - Le ragazze e le donne che protestano contro i maltrattamenti subiti vengono picchiate dai loro parenti, al fine di ridurle a una condizione di perenne servitù, equiparabile alla schiavitù. - Molte ragazze e donne che non riescono a sopportare le sofferenze inflitte loro si tolgono la vita oppure sviluppano varie forme di disturbi psicologici, quali ad esempio esaurimenti nervosi e psicosi. - Una ragazza musulmana in Europa corre più rischi di essere costretta dai genitori a sposarsi con uno straniero rispetto alle ragazze di altro credo religioso. In un tale matrimonio - che, essendo forzato, inizia per definizione con una violenza - la donna non fa altro che concepire figli. Molti dei pargoli frutto di una tale unione cresceranno in un ambiente famigliare i cui membri non sono né legati da un rapporto d’amore né interessati al benessere dei propri figli. Le figlie condurranno una vita tanto soggiogata quanto quella delle loro madri; i figli - in Europa - saranno degli emarginati a scuola, attratti da svaghi che variano dall’oziare per


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi

Condanna la teocrazia di Teheran, ma critica il relativismo culturale

Una donna scomoda, anche per l’Occidente di Bernardo Cervellera

le strade all’uso di sostanze stupefacenti al fondamentalismo islamico radicale.

I legislatori europei non hanno ancora compreso il grande potenziale insito nella liberazione delle donne musulmane. Stanno gettando al vento la migliore opportunità per fare dell’integrazione musulmana un successo nello spazio di una generazione. Da un punto di vista morale, i governi hanno bisogno di sradicare la piaga della violenza contro le donne nel continente. Ciò renderebbe chiaro ai fondamentalisti quanto gli europei prendano le proprie costituzioni sul serio. La maggior parte dei violentatori ritiene infatti che la retorica occidentale che proclama l’uguaglianza tra uomo e donna rappresenti un concetto codardo e ipocrita, in quanto, in nome della libertà di culto, i governi occidentali tollerano gli abusi ai danni di milioni di donne musulmane. Donne come Samira potrebbero così educare i propri figli a vivere in una società moderna. Esse pianificherebbero la creazione di un nucleo famigliare con un compagno scelto da loro stesse. Tale pianificazione riduce le possibilità di emarginazione dei figli. Donne come Samira conferiscono un grande valore all’istruzione e porrebbero pertanto l’accento sull’importanza di quest’ultima per i loro figli.Tengono molto al lavoro e aspirano a fornire il proprio contributo all’economia del Paese in cui vivono. Esse fornirebbero a un’incanutita economia europea le risorse umane di cui questa necessita invece di gonfiare semplicemente i costi

hirin Ebadi, è una donna scomoda per il suo Paese. Prima donna musulmana a ricevere un premio Nobel per la pace; prima donna a svolgere il compito di giudice in Iran (poi revocatole dalla dittatura khomeinista); prima donna a battagliare in un’arena mondiale per i diritti umani in un Paese alla mercé dei Guardiani della rivoluzione e degli ayatollah. È la spina nel fianco del regime iraniano. Come avvocato, nel ’99 ha difeso la famiglia del dissidente Dariush Forouhar, trovato ucciso in casa ad opera di estremisti. E ha pure promesso che difenderà le famiglie degli uccisi durante la rivoluzione“verde” nel giugno scorso, dopo le elezioni farsa che hanno visto la rielezione di Ahmadinejad e le manifestazioni fermate con l’uccisione di Neda, gli arresti e i processi di centinaia di giovani desiderosi di democrazia. Il potente regime di Teheran, che si prepara ad avere una bomba nucleare, capace di oscurare siti internet e arrestare chiunque, ha paura di lei. All’inizio del mese è riuscito a sequestrare il suo premio Nobel, ha picchiato il marito, messo a soqquadro la casa, bloccato il conto bancario, citato in giudizio la Ebadi per non aver pagato le tasse del suo premio (che invece secondo le leggi iraniane è esentasse). Negli stessi giorni Shirin Ebadi in Gran Bretagna riceveva un premio sui diritti umani e lei non ha smesso di parlare dei tentativi di metterla a silenzio.

S

che il problema è di eliminare tutte le testate nucleari del mondo e in particolare in Medio Oriente, compreso Israele. E pur distanziandosi anni luce dalle folli affermazioni di Ahmadinejad sull’Olocausto, ritorna a suggerire che la via della pace passa attraverso la pace fra Israele e Palestina, con due Stati sovrani.

Perfino la sua difesa della donna è difficilmente sfruttabile dalle agguerrite femministe dell’ovest. Perché la Ebadi si proclama musulmana e pur rifiutando la poligamia, non accetta l’identità fra islam e oppressione della donna che fa tanto comodo a molti politici delle nostre parti. Lei stessa, che combatte per un maggior spazio per le donne nel mondo iraniano, afferma nelle sue interviste che a casa cucina, cura il marito, le figlie, come una qualunque donna del suo Paese. E sebbene ella sia molto critica verso il suo governo, continua a dire che una guerra contro l’Iran non serve perché renderebbe solidale il popolo con i governanti in nome della difesa della nazione. Il suo lavoro, il suo impegno, la sua testimonianza sfuggono agli incasellamenti ideologici contrapposti e fanno emergere un amore alla sua terra e al suo popolo che non sa di scatola chiusa, ma di vero amore alla persona e alla sua dignità, ovunque egli si trovi, in Oriente o in Occidente. La Ebadi ha criticato spesso il mondo islamico e i suoi tentativi di fare delle glosse e dei “ma” alla lista dei diritti umani universali. Con questo ella condanna certo i regimi che rivendicano il loro caso speciale sui diritti umani, difendendo i loro abusi. Ma condanna anche il relativismo culturale di molti in Occidente, così facili ad accondiscendere su questo tema per interessarsi soltanto dei loro commerci. Conoscere Shirin Ebadi e la sua testimonianza è scoprire che l’Iran non è solo Ahmadinejad e Khamenei, che l’islam non è tutto e solo contro Israele, che le donne non sono tutte carriera e disprezzo del matrimonio e della cura della casa. E nemmeno che lei è un’eccezione unica. Come ha spesso ripetuto, «l’Occidente dovrebbe capire che l’Iran ha più di 2.500 anni di civiltà e che ci sono migliaia di donne come Shirin Ebadi» in Iran.

Shirin continua a dire che una guerra contro l’Iran non serve, perché renderebbe solidale il popolo con la dittatura in nome della difesa della nazione

Mesi prima alcuni suoi collaboratori e collaboratrici sono andati in prigione; lei è stata minacciata di morte eppure continua la sua battaglia, denunciando le frodi elettorali, chiedendo più spazio ed equità per le donne in Iran e la separazione fra l’islam e lo Stato, gli ayatollah e il governo. Ma Shirin Ebadi è una donna scomoda anche per l’Occidente. Pur accusando con forza le violenze che subiscono gli iraniani, le umiliazioni per i diritti umani, le manipolazioni elettorali, lei è stata sempre contraria alle sanzioni che la comunità internazionale impone sul suo Paese. Il motivo, lei dice, è che queste sanzioni impoveriscono il popolo e rafforzano il regime. E pur criticando le mire nucleari di Teheran, lei non ha mai smesso di dire

della spesa sociale. I figli di quelle donne musulmane che hanno coronato il proprio sogno si dimostrano più inclini ad avere un atteggiamento positivo nei confronti delle società in cui vivono. Essi impareranno già in tenera età ad apprezzare la libertà e l’opulenza in cui vivono; forse comprenderanno persino quanto vulnerabili tali libertà siano, e si adopereranno per difenderle. Perché i leader europei sono così lenti nel riconoscere il grande ruolo che le donne musulmane potrebbero svolgere nell’ambito di un positivo processo d’integrazione degli immigrati che risiedono all’interno dell’Ue? Parte della responsabilità è da attribuirsi alla passività delle università e delle organizzazioni non governative nell’affermare i diritti delle donne migranti.

La comunità accademica condanna unanimemente la violenza sulle donne, indipendentemente dal fatto che questa venga commessa dalla famiglia o dallo stato, ma si è rivelata poco solerte nell’investigare e fornire dati e un necessario quadro giuridico che consentano ai legislatori di fare della tutela delle donne una reale priorità. Nonostante esistano facoltà arabe e islamiche, la maggior parte dei centri universitari europei si riducono a centri di attivismo a sostegno della causa palestinese, invece che fungere da centri di ricerca e di insegnamento per studenti musulmani. Le organizzazioni non governative tacciono in maniera imbarazzante su questa lotta per l’affermazione dei diritti umani. Sì, è vero, ne esiste una in Norvegia, la Human Rights Service - gestita dalla coraggiosa e determinata Hege Storhaug - che dedica molta attenzione al problema. Ma nei Paesi più grandi, nessuna Ong monitora la frequenza con cui viene commesso un omicidio d’onore in uno Stato membro, o la percentuale di giovani musulmane a cui viene praticata un’escissione, o quante siano le ragazze strappate alla scuola e costrette a condurre una vita di virtuale schiavitù. In ogni caso, vi è spazio per l’ottimismo. In Europa cresce la consapevolezza circa l’ampiezza e la persistenza delle violenze ai danni di donne e giovani musulmane, giustificate adducendo fattori culturali o religiosi, commesse in famiglia. Alcuni governi hanno riconosciuto la necessità di lottare contro ogni forma di violenza ai danni delle donne. Tuttavia vi è ancora molta strada da percorrere prima che ragazze come Samira possano condurre una vita senza essere ossessionate dalla paura.

29 dicembre 2009 • liberal • pagina 9


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi

Il ruolo dell’opposizione al di fuori dell’Iran può essere essenziale per minare le fondamenta della dittatura

Una leader per il dopo-Ahmadinejad Malgrado la propaganda del regime, Shirin Ebadi è un genuino esempio di patriota di John R. Bolton a morte di Hossein Ali Montazeri, il più anziano tra gli ecclesiastici legati all’opposizione, ha fatto riversare nuovamente per le strade i dissidenti iraniani, nel corso delle esequie, in segno di protesta. Queste manifestazioni costituiscono un’ulteriore riprova del fatto che la rabbia popolare per i vasti brogli posti in essere nelle elezioni presidenziali dello scorso 12 giugno non si è ancora sopita, a dispetto degli straordinari sforzi compiuti dalla leadership iraniana nel tentativo di dipingere il paese come unito su tutte le questioni più importanti. Come molti analisti sanno ormai da tempo, la realtà appare decisamente diversa: la Rivoluzione Islamica del 1979 è ormai largamente impopolare.

L

Sin dal 12 giugno, le azioni repressive all’interno del paese si sono intensificate, ed il potere ha continuato a scorrere dagli ayatollah al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. Le Guardie Rivoluzionarie si attestano su posizioni tanto estremiste a livello teologico quanto quelle dei mullah, ma dispon-

gono altresì di armi, la qual cosa consente loro di detenere un ferreo controllo sul programma iraniano finalizzato allo sviluppo di armamenti nucleari e di elargire finanziamenti ed armi alla rete terrorista sparsa in tutto il globo.

Il simbolo più celebre a livello internazionale dell’opposizione al regime iraniano è Shirin Ebadi, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2003 e primo giudice donna dell’Iran. La Ebadi preoccupa così tanto le autorità al punto che, nel tentativo di screditarne l’immagine, le è stato impedito di fare ritorno nel paese pena l’arresto, essendo stata accusata (e con lei suo marito) di reati fiscali. Di recente, le autorità le hanno addirittura confiscato il medaglione del Nobel (quantunque sembra che esso sia stato successivamente restituito). Ogni regime che si spinge sino a tali estremi denota evidentemente gravi attriti con il popolo che governa. Vi sono essenzialmente tre motivi che giustificano l’impopolarità della Rivoluzione Islamica. In primo luogo, dopo aver deposto lo Shah il nuo-

pagina 10 • liberal • 29 dicembre 2009

vo regime ha distrutto l’economia del paese, dilapidando ingenti risorse petrolifere, le quali non hanno apportato sostanziali benefici alla popolazione nel suo complesso. Per l’iraniano medio, il confronto con quanto i vicini stati arabi hanno

Spiegare il vero significato di un attacco alle strutture nucleari del Paese potrebbe essere cruciale per consolidare, e persino accrescere, l’opposizione popolare nei riguardi degli ayatollah compiuto rappresenta una costante, palpabile dimostrazione dei fallimenti di Teheran. Gli ayatollah sono stati indotti in

errore in misura tale da non aver nemmeno operato adeguati investimenti nelle infrastrutture - ivi compresi i poli di raffinazione - necessarie all’estrazione di petrolio, risorsa base delle attività economiche del paese. Le prospettive interne dell’Iran sembrano pertanto peggiorare, e la sua rilevanza internazionale a livello economico sta conoscendo una battuta d’arresto persino in un periodo in cui il prezzo del petrolio si attesta su livelli piuttosto elevati. La corruzione, gli abusi di potere ed i profitti degli ayatollah e delle loro famiglie sono anch’essi ben noti, e contribuiscono ad alimentare il malcontento per ciò che concerne la gestione tanto dell’andamento economico quanto dello scenario politico.

In secondo luogo, il giovane popolo iraniano si rivela profondamente insoddisfatto. Esso vanta un livello d’istruzione mediamente alto e, rivolgendo lo sguardo verso l’altra sponda del Golfo o verso il mondo in generale, si rivela incline ad abbracciare quegli stili di vita più liberi di cui gli irania-

ni potrebbero godere nel caso in cui il giogo che la Sharia impone al paese venisse definitivamente spezzato. Dato che i cittadini al di sotto dei 30 anni costituiscono più dei due terzi della popolazione, “giovane” non rappresenta esclusivamente un riferimento demografico, ma il centro di gravità della società iraniana. Per loro, ed in particolar modo per le giovani donne, la Ebadi assurge a vera e propria eroina, ed il loro malcontento non rappresenta di certo un segnale benaugurante per la longevità del regime.

Da ultimo, in Iran aleggia un sostanziale malcontento di matrice etnica che accomuna arabi, kurdi, turkmeni, beluci e molte altre minoranze, foraggiate in parte dai finanziamenti sauditi. Poiché la popolazione etnicamente persiana costituisce solo poco più del 50 percento del totale, le minoranze ed i loro malumori potrebbero rivelarsi degli elementi di forte destabilizzazione. Naturalmente, tali motivi di malcontento non coincidono interamente, ed in realtà spesso configgono tra loro, ma il li-


DONNA DELL’ANNO 2009

Shirin Ebadi

A tu per tu con Azadeh Moaveni, scrittrice, giornalista e co-autrice con il Premio Nobel di “Iran Awakening”

«La pace è dalla parte delle donne iraniane» di Luisa Arezzo

ROMA. Giornalista e scrittrice, Azadeh Moaveni è cittadina americana ma cresciuta a Teheran. Esperta di Medioriente, è una delle poche corrispondenti Usa a collaborare in maniera continuativa dal 1999 con l’Iran; scrive sui diritti delle donne, le culture giovanili e le riforme islamiche per Time, The New York Times e The Washington Post. Ha pubblicato due romanzi ed è co-autrice con il Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi di Iran Awakening. È combattiva e ottimista e dell’Iran dice: «Non si può reprimere a lungo un Paese ricco di donne sofisticate, ambiziose e istruite. La storia è dalla parte delle donne iraniane. La caduta del regime è solo una questione di tempo». Moaveni, qual è il messaggio di speranza che Shirin Ebadi diffonde nel suo Paese? Per molti anni ha cercato di far capire che l’islam e la democrazia - o meglio, che l’islam e la parità dei diritti fra uomini e donne - fossero riconciliabili. Ha sostenuto con passione la democrazia e ha dichiarato in modo convincente che un governo democratico è quello che rispetta i diritti dei suoi cittadini in quanto individui. Persone. Come viene percepito in Iran il Nobel per la pace alla Ebadi? La maggior parte degli iraniani ne va fiera ed è consapevole che il suo lavoro è stato ed è estremamente coraggioso. La sua strategia è ineccepibile: introduce dei cambiamenti pacificamente ma con forza all’interno della struttura del governo. Nel 2003 la notizia venne accolta con entusiasmo dalla maggioranza della popolazione, all’epoca (e figuriamoci oggi) profondamente frustrata dallo status quo ma preoccupata che il cambiamento di regime potesse destabilizzare il paese. Le donne in particolare erano gratificate dalla candidatura al premio perché Shirin rappresentava un modello di donna iraniana coraggiosa e istruita che andava contro il cliché della donna pia, assoggettata al marito e al padre, che è così tipico in occidente. Si è trattato di una spinta enorme per il movimento femminile in Iran, che rappresenta - non va dimenticato - il movimento della società più significativo dell’intero paese. Secondo lei la Ebadi rischia l’arresto se torna a Teheran? Ha sempre rischiato di essere messa in prigione, ma in questi giorni il timore è più concreto. Basti pensare al trattamento che il governo ha riservato a suo marito, ai suoi genitori e fratelli. È una situazione terribile per lei, non solo perché rischia l’arresto al suo rientro, ma anche perché il regime la intimidisce volutamente: un’affermazione sbagliata all’estero può costare moltissimo alla sua famiglia. Il regime cerca di tapparle la bocca. Che rapporto ha con il regime? Come lo contrasta?

vello d’insoddisfazione popolare nei riguardi del governo non può essere sottaciuto. Se nell’ultimo decennio gli Stati Uniti avessero operato in maniera efficace, apertamente o segretamente, al fine di fornire un sostegno concreto all’opposizione, le fraudolente consultazioni di giugno avrebbero potuto rappresentare l’occasione ideale per un reale cambiamento di regime. Sfortunatamente, né Washington né l’opposizione iraniana si sono dimostrate pronte ad approfittare dell’occasione, e tutto è sfumato.

Esperta di Medioriente, la Moaveni è ottimista: «Non si può reprimere a lungo un Paese ricco di ragazze sofisticate, ambiziose e istruite. La caduta del regime è solo una questione di tempo» Il suo è stato sempre un rapporto combattivo e di confronto, anche nel corso dell’era riformista del presidente Khatami. L’ala razionale e pragmatica del regime - che ovviamente adesso è totalmente emarginata e senza potere - rispetta moltissimo la Ebadi. Ma quelli che io chiamo “gli intransigenti” e che oggi controllano il Paese, la considerano terribilmente fastidiosa e si augurano che scompaia. Lei ha sempre affrontato il regime con battaglie giudiziarie, usando come strumenti la legge e la dottrina dell’islam. Inoltre ha un ottimo rapporto con i media e questo le è stato molto utile per opporsi al regime. Secondo lei l’Occidente e le democrazie liberali sostengono concretamente la Ebadi?

Oggi il governo di Ahmadinejad prosegue nelle proprie azioni repressive, imbastisce persino processi spettacolo contro ex candidati alla presidenza e leader dell’opposizione. Ci si chiede seriamente se tale disarmata opposizione, divisa al proprio interno e priva di una vera leadeship, sia realisticamente in grado di far cadere il regime nel prossimo futuro. La morte di Montazeri pone in evidenza la difficile situazione dei dissidenti, ma evidenzia altresì il ruolo che Ebadi ed altri oppositori del regime al di fuori dell’Iran potrebbero ricoprire nel minare alle fon-

damenta la Rivoluzione Islamica. Inoltre, la Ebadi potrebbe svolgere un ruolo importante in seguito ad un’eventuale attacco militare preventivo ai danni del programma iraniano di proliferazione nucleare.

Il comune buonsenso, alimentato dalla propaganda di Teheran, vorrebbe l’opinione pubblica del paese stringersi attorno ad Ahmadinejad in seguito ad un attacco di quel tipo, esattamente il contrario di ciò che auspichiamo. Ma in realtà potrebbe non essere questa la reazione, e leader come la Ebadi

Visto che i freddi calcoli sembrano condurre l’attuale posizione dell’Occidente verso l’Iran - la questione nucleare è chiaramente preminente rispetto al resto - direi che la Ebadi e le cause che simboleggia sono state più che trascurate. Qual è, a suo giudizio, l’apporto più importante che la Ebadi restituisce alle donne e al popolo iraniano? Prima che le proteste di quest’estate portassero le battaglie degli iraniani a conquistare le prime pagine di tutti i giornali del mondo, il nobel conquistato dalla Ebadi ha significato tantissimo. Per la prima volta le donne hanno avuto l’impressione che l’Occidente si interessasse a loro e che potesse riconoscerle lo studio, il pensiero sofisticato e le ambizioni che nutrono. Shirin è il simbolo che a volte, nonostante i diktat cinici della real politik, il mondo può fermarsi a guardare come gli iraniani stanno combattendo per IL cambiamento. Cosa significa essere una donna in Iran? Significa venire da una ricca tradizione di potere femminile, ma sopportare anche una orribile condizione di repressione moderna. Le donne in Iran scrivono i libri in cima alle classifiche, dirigono i film più visti, gestiscono le gallerie d’arte più importanti e rappresentano più del 60% della popolazione universitaria. Ciò nonostante davanti alla legge sono trattate come cittadine di seconda classe. Quali sono i principali problemi che una donna, socialmente impegnata, deve affrontare in Iran? La prima arena di conflitto è ovviamente la famiglia. È una struttura patriarcale e profondamente conservatrice, indipendente dal governo. Una donna lavoratrice deve obbedire al marito e cucinare sette pasti, complicati e di successo, a settimana. In molti casi, benché istruite devono mettere da parte l’idea di una carriera quando si sposano. E ovviamente, a prescindere dai loro straordinari curricola, non possono ambire a posizioni manageriali nel governo o negli affari. Come vengono percepite queste “guerriere” dalle altre donne in primis e dagli uomini? Gli uomini iraniani non sanno proprio come conciliare queste moderne aspettative delle donne con quello che si sono sempre aspettati dalle loro mogli e figlie. È un terreno estremamente conflittuale ed è proprio in casa che si combatte la metà delle battaglie per i diritti delle donne. Quali sono le donne, oltre lei e la Ebadi, realmente impegnate per l’Iran? Ci sono molte donne che sono straordinariamente attive. Un nome per tutte: Shadi Sadr, la leader della campagna “Un milione di firme”. Ma per una che ce la fa, tantissime finiscono in prigione. Non dimenticatelo.

potrebbero in tal senso fare la differenza in modo sostanziale. Ella rappresenta un genuino esempio di patriota iraniano, come i suoi connazionali ben sanno, malgrado la campagna propagandistica a suo discapito messa in atto dal regime. Un’azione finalizzata a distruggere o arrecare seri danni al programma di armamenti nucleari di Teheran non rappresenterebbe in alcun modo un’offensiva contro il popolo iraniano. Al contrario, l’obiettivo sarebbe la difesa di tutti coloro che danno voce alla propria preoccupazione per le aspirazioni egemoniche dei Pa-

sdaran. Il punto critico è ben compreso tra gli esponenti della diaspora iraniana in Europa ed in America, e potrebbe altresì essere chiaro all’interno dell’Iran. Il disporre di leader quali Shirin Ebadi disposti a spiegare il vero significato di un eventuale attacco militare potrebbe rivelarsi un elemento cruciale al fine di consolidare, e persino accrescere, l’opposizione popolare nei riguardi degli ayatollah, rendendo così un cambio di regime un’eventualità realmente concretizzabile. Ciò costituirebbe un successo, ed un preludio ad un altro Premio Nobel.

29 dicembre 2009 • liberal • pagina 11


pagina 12 • 29 dicembre 2009

il paginone

Si chiama «Visioni Celesti» l’esposizione, aperta alla Biblioteca Nazionale, che recupera scritti, disegni (e lllusioni) dei Seicento

Il cielo in una stanza

Quando l’uomo scoprì le stelle: una mostra a Roma ripercorre le meraviglie della scienza delle origini di Dianora Citi

ROMA. Entrare alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma in questi giorni può riservare una piacevole sorpresa: visitare una bellissima e curatissima mostra dal titolo Visioni celesti: scienza e lettura degli astri a Roma (fino al 20 marzo 2010; apertura, fino al 5 gennaio, dalle ore 9.00 alle ore 13.00; dal 7 gennaio, lun.-ven. dalle 10.00 alle 18.00). Non c’è da meravigliarsi: negli ultimi anni, grazie all’ufficio stampa e promozione culturale diretto da Maria Grazia Villani, la nostra maggiore e prestigiosa istituzione di“conservazione libraria” si impegna validamente anche nella organizzazione e sponsorizzazione di eventi culturali. Solo in questo ultimo anno numerose sono state le mostre che si sono alternate nei locali al piano terreno.

«La proposta dell’Unesco di proclamare il 2009 Anno Internazionale dell’Astronomia è stata l’occasione e lo stimolo per la realizzazione di quest’ultima rassegna», ci dice il direttore della Biblioteca, Osvaldo Avallone. Qualsiasi pretesto è buono per «valorizzare il patrimonio che la Nazionale Centrale conserva e incrementa dal 1876, anno della sua fondazione». L’idea è quella di allestire un’esposizione sulla cultura scientifica romana del Seicento, quando gli studi delle scienze matematiche e di quelle astronomiche si confon-

mo, matematico, stimato da Galileo) o Christoph Grienberger (professore di matematica e scienze, successore di Clavio nella cattedra di astronomia al Collegio Romano), ricordiamo il grande erudito padre Athanasius Kircher (1602 1680), docente di matematica, fisica e lingue orientali.

Riordinò la collezione di «varie cose curiose e di prezzo» donate da Alfonso Donnini al Collegio nel 1651, e diede così l’avvio alla costituzione di un particolare Museo di antichità, arte, tecnologia, curiosità e scienza, che, per il suo alto livello scientifico, ebbe l’onore di una visita della regina Cristina di Svezia. Il Collegio custodisce uattro biblioteche minori oltre alla Bibliotheca Major o Secreta dei gesuiti. Dopo la proclamazione dello Stato unitario italiano, nel 1876 Ruggero Bonghi, ministro dell’istruzione, sceglie, per il prestigio culturale che lo accompagna, il cinquecentesco palazzo del Collegio Romano come sede della nuova Biblioteca Nazionale intitolata a Vittorio Emanuele II. Viene inaugurata il 14 marzo: la Bibliotheca Secreta gesuita costituisce il nucleo originario della nuova istituzione, cui si aggiungono i fondi (manoscritti, incunaboli, autografi e a stampa) di altre 69 biblioteche conventuali devoluti al Regno d’Italia nel 1873, dopo la soppressione delle corporazioni religiose di Roma. Nel 1975 la Biblioteca viene trasferita nella sede attuale di Viale Castro Pretorio in un edificio appositamente costruito e diventa la Nazionale Centrale. Tormiamo al 2009. «La Mostra di oggi è il frutto di un anno di lavoro di ricerca, fatto con passione e sacrificio», racconta Flora Parisi. «Un impegno faticoso ma di grande soddisfazione: più si approfondiva l’esame dei cataloghi antichi riguardanti i fondi gesuiti e degli altri enti religiosi, più trovavamo materiali preziosi. Pensavamo di non avere molta documentazione di argomento astronomico: siamo

Gli scienziati più in vista sono Cristoforo Clavio (astronomo, matematico, stimato da Galileo) e Christoph Grienberger, ma anche l’erudito padre Athanasius Kircher devano tra loro. Il progetto è interessante e la dottoressa Parisi, responsabile del settore acquisti della Biblioteca e curatrice della mostra, fa proprio, come lei stessa dice, il motto elaborato per l’International Year of Astronomy «The Universe,Yours to Discover» (“L’Universo, a te scoprirlo”) e lo applica alla ricerca di scoperte all’interno dell‘universo Biblioteca. «Non avremmo mai pensato di trovare tanto materiale e così eccezionale!». Queste le poche parole di Flora Parisi di fronte alla meraviglia di calendari, lunari, orologi solari e meridiane, atlanti e globi celesti, trattati di astrologia, incunaboli, prime edizioni del XVI e XVII secolo, manoscritti inediti di astronomia, foto rare, e altri oggetti esposti nelle sale.

Facciamo un passo indietro, nella Roma del XVI secolo. Sant’Ignazio di Loyola dopo la fondazione della Compagnia di Gesù istituisce il Collegio Romano per gli studi. La componente matematica e scientifica rappresenta uno degli elementi di maggiore risalto del Collegio e la sua fama si lega agli insegnanti e agli allievi che divennero negli anni personalità eminenti della cultura. Oltre a nomi come Cristoforo Clavio (astrono-

invece molto orgogliosi di aver trovato testi scientifici mai pubblicati e di splendido valore artistico. Il Manoscritto Gesuitico 1653, per esempio, da solo potrebbe essere sufficiente per una mostra a se stante: nel catalogo erano indicati genericamente disegni di Vincenzo Miotti. L’abate veneziano, vissuto nel Settecento, era noto per i suoi studi sull’astronomia; progettò numerose macchine per spiegare il moto dei pianeti. Aprendo il fascicolo abbiamo scoperto i progetti, gli schizzi e una serie di bellissime


il paginone mo. Nei manoscritti non è raro trovare testi di anonimi. Ma l’argomento, uno studio di preparazione ai testi classici di trigonometria e astronomia, e i testi matematici riportati, di autori come Teodosio di Bitinia, Menelao di Alessandria e altri, ci hanno fatto ricordare che Clavio, nel primo volume della sua Opera Matematica aveva dedicato i Prolegomena ai matematici antichi. Altri manoscritti, con glosse autografe riconosciute appartenenti a Cristoph Clavius, già posseduti dalla Nazionale, ci hanno confermato che la scrittura dell’anonimo apparteneva invece al grande matematico, principale redattore della riforma del calendario grego-

29 dicembre 2009 • pagina 19

più traccia visibile del suo autore: sulla legatura il nome è stato cancellato per motivi di censura e sulla prima carta resta l’iniziale e la finale, ant...ni. L’autore è stato riconosciuto in Antonio de Dominis, gesuita di origine dalmata, morto a Roma nel 1624, dichiarato eretico e condannato al rogo post mortem. L’opera è un trattato sulle maree, il cui movimento è attribuito ad una forza, simile a quella magnetica, esercitata dalla luna e dal sole. La presenza del manoscritto nella Bibliotheca Major del Collegio Romano dimostra come i gesuiti conservassero e consultassero tutto ciò che potesse accrescere la loro forma-

prima nominato Cristina di Svezia. La regina, convertita al cattolicesimo, riveste un particolare ruolo nel mondo culturale romano del Seicento, interessandosi di astronomia, alchimia e astrologia. A quel tempo il sapere astrologico “naturale”, concernente gli effetti fisici dei moti astrali, era distinto da quello“giudiziario”, relativo alla previsione degli eventi legata alle posizioni dei corpi celesti. La nuova scienza astronomica, nata in seguito alle nuove leggi di Keplero e alle osservazioni di Newton, relega l’astrologia nell’ambito della superstizione e della magia. Malgrado la condanna papale dell’astrologia giudiziaria

Tutta una sezione è dedicata a Galilei: ci sono le prime edizioni del «Sidereus Nuncius» e del «Dialogo sopra i due massimi sistemi», nonché la copia del primo telescopio

Frontespizio dell’Harmonia Macrocosmica di Andrea Cellario. A destra: alcune delle Tavole dell’Atlante Celeste di Cellario. Nella pagina a fianco: il Globo di Greuter del 1636 e, in alto, una carta del Gesuitico 601 attribuito a Crostoforo Clavio

rappresentazioni, ad inchiostro e matita acquerellati, di macchine per la misurazione del tempo, di orologi lunari e solari, di strumenti copernicani e sfere armillari con le indicazioni delle disposizioni delle ruote, del numero dei denti e del peso dei meccanismi.

Un’altra avventura l’abbiamo vissuta con il Manoscritto Gesuitico 601, un cartaceo del XVI secolo, piccolo (solo dieci centimetri per otto), catalogato come Miscellanea di testi matematici di autore anoni-

riano voluta da papa Gregorio XIII nel 1582».

zione scientifica, anche se di un autore censurato.

Il gesuita tedesco (il cui vero cognome era Schlüssel, chiave in italiano, clavis in latino) è considerato uno dei più autorevoli astronomi del suo tempo, tanto che Galileo Galilei gli fa visita a Roma nel 1611 per discutere con lui le prime osservazioni eseguite con il telescopio. Ironia della sorte: a Clavio, che non credette alla presenza di montagne sulla Luna, è ora dedicato uno dei maggiori crateri lunari. Tutta una sezione dell’esposizione è dedicata a Clavio e Galilei, di cui vediamo una prima edizione (1610) del Sidereus Nuncius e del Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632), nonché la copia del primo telescopio di Galileo, gentilmente prestata dall’Università di Tor Vergata. Un’altra piccola scoperta fatta grazie alla Mostra: il Manoscritto Gesuitico 1664. Il testo non porta

Infine la descrizione del pezzo forse di maggiore impatto visivo dell’esposizione: l’Harmonia Macrocosmica seu Atlas universalis (1661) di Andrea Cellario. Si tratta del più spettacolare atlante celeste mai stato pubblicato. La grandiosità del cielo è vista attraverso la rappresentazione delle 12 costellazioni cui Cellario destina i nomi dei 12 apostoli, volendo cancellare il mondo mitologico greco dalle denominazioni dei cieli. La copia posseduta dalla Biblioteca Nazionale è l’unica completa delle 29 tavole (di circa 30 per 30 centimetri), stampate in bianco e nero e poi colorate e acquerellate a mano. Questa operazione rende ogni copia un unicum e l’esemplare in mostra, acquistato a Roma nel novembre del 1908 per 45 lire, presenta una particolare vivacità cromatica. Abbiamo

e di ogni genere di divinazione, grandi scienziati dell’epoca si dedicano alla redazione di oroscopi, redditizi economicamente e molto richiesti da nobili e prelati. Il Manoscritto Vittorio Emanuele 838 contiene alla carta 593recto l’oroscopo della regina Cristina: la data di nascita è il 18 dicembre 1626; il suo giorno natale era venerdì, il suo ascendente nel “Cuore del Leone”(Cor Leonis). Per vedere ancora le cinture zodiacali e i fusi di globo celeste del Coronelli, gli astrolabi arabi, le lettere autografe di Angelo Secchi, astronomo e ultimo direttore dell’Osservatorio del Collegio Romano, le foto rare dell’Osservatorio del Campidoglio, distrutto nel 1937, gli strumenti contemporanei dell’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica e dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario basta andare alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, a Viale Castro Pretorio 105. Da qui parte la battaglia comune per affermare il valore della cultura e riconoscere come la ricerca di oggi si poggi sul sapere di ieri.


pagina 14 • 29 dicembre 2009

mondo

Allarme internazionale. Il terrorismo è sempre più globale. Per i servizi inglesi, ci sono cinque cellule pronte a colpire

Il ritorno di al Qaeda Dopo l’attentato fallito sul volo per Detroit, rivendicato il rapimento dei due italiani di Massimo Ciullo

ROMA. Il fallito attentato al volo 253 Delta-Northwest, il rapimento dei due turisti italiani in Mauritania e l’escalation yemenita hanno messo ancora una volta in evidenza che la partita contro il terrorismo internazionale non si gioca (e soprattutto non si vince…) solo in Afghanistan. Nonostante il massiccio impegno degli Usa e dei suoi alleati occidentali, la rete del terrore in franchising targata al Qaeda continua a raggiungere i suoi bersagli. Rispetto al dopo 11 settembre 2001, la sicurezza non è affatto aumentata, per il semplice fatto che qualsiasi altissimo livello di attenzione non potrà mai garantire l’irraggiungibile “rischio zero”. Le polemiche divampate nelle ultime ore a Washington e il deprecabile scaricabarile di responsabilità tra intelligence e autorità politiche aumenta considerevolmente l’auto-stima dei terroristi che, pur non avendo provocato vittime, sono riusciti ad innescare una nuova spirale di panico in Occidente.

Le misure di sicurezza sono state rafforzate in tutti gli aeroporti del mondo. Le nuove procedure, attivate su richiesta statunitense, «si applicano a tutti i voli diretti verso gli Stati Uniti e per un periodo di tempo indefinito», hanno reso noto le autorità aeroportuali olandesi. Ma il presidente Barack Obama ha ordinato anche la revisione delle liste dei sospetti terroristi dopo l’attentato fallito a Detroit. I database usati dai ser-

I terroristi hanno confermato il sequestro aggiungendo che è avvenuto in risposta ai «crimini commessi dal governo italiano in Afghanistan e Iraq» vizi statunitensi sono sotto esame a seguito del tentato attacco condotto dal nigeriano. Secondo i primi riscontri, il 23enne faceva parte delle liste dei sospetti e per questo non sarebbe potuto mai salire su quell’aereo. «Ci sono una serie di database con l’elenco delle persone sospette in diverse agenzie del governo.Vogliamo rendere più efficace lo scambio di informazioni tra queste agenzie», ha detto il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs. E l’intelligence britannica ha confermato che ci sarebbero cinque cellule attive in Europa. Omar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore nigeriano, era stato inserito nella lista dei sospetti (un elenco di ben 550 mila nomi) ma aveva un regolare visto americano. «Il presidente ha chiesto che queste liste vengano revisionate», ha affermato Gibbs. Quattro giorni prima dell’attentato fallito a bordo della Delta Airlines, l’emittente araba Al Jazeera ha pubblicato un video in cui un membro di Al Qaeda nello Yemen minaccia vendetta contro gli Stati Uniti, accusati di aver effettuato un raid contro un campo di addestramento nel Paese.

Si tratta del primo comizio pubblico di un guerrigliero di Al Qaeda nello Yemen. Il monito è pubblicato su un sito web islamico e datato 20 dicembre. Secondo il gruppo, al raid avrebbero partecipato 5 caccia bombardieri Usa. Il ministero della Difesa di Sana’a ha dichiarato che Al Qaeda stava progettando attentati contro istituzioni governative come l’ambasciata britannica nella capitale. Le forze di sicurezza yemenite, nelle ultime 48 ore, hanno arrestato 29 sospetti guerriglieri. La presenza della rete terroristica nello Yemen si è intensificata nell’ultimo anno, così come è aumentata la capacità operativa dell’ala maghrebina

Qui sopra, l’aereo della Delta-Northwest sulla pista di Detroit dopo il fallito attentato. A sinistra, i due italiani rapiti da al Qaeda. Nella pagina a fianco, gli attacchi di Londra e di New York

Due kamikaze si fanno esplodere tra la folla

Strage in Pakistan durante la festa religiosa degli sciiti KARACHI. È di almeno 25 morti e 50 feriti il bilancio delle vittime dell’attentato suicida avvenuto ieri a Karachi, capitale commerciale del Pakistan, durante una grande processione religiosa che celebrava l’Ashura, la più importante festività religiosa degli sciiti. La grande città del sud del Paese è in preda al panico e alle devastazioni visto che per ore e ore migliaia di persone hanno attaccato centrali della polizia, ma anche negozi e uffici governativi. In molte zone manca ancora l’elettricità e sono oltre 40 le autovetture date alle fiamme, alcune delle quali della polizia. In fiamme, anche il piano di un palazzo dove hanno sede uffici governativi. Migliaia di fedeli si trovavano lungo la centrale Ma Jinnah Road quando si è avvertita una forte esplosione, seguita da colpi di arma da fuoco. Subito dopo lo scoppio, c’è stato un fuggi fuggi generale che ha provocato la morte, per schiacciamento, di alcune persone. Nonostante le vittime e le urla dei feriti, la processione è continuata in un’altra direzione, mentre alcuni fedeli si sono scagliati contro i giornalisti che stavano seguendo la processione e contro gli uomini della sicurezza colpevoli, a loro giudizio, di non averli protetti dall’attentato, nonostante fossero stati dispiegati molti agenti e paramilitari.

Un cineoperatore di Geo tv è stato ferito e ricoverato in ospedale. Fiamme, fumo e distruzione, oltre ad una folla inferocita, sono ancora ben visibili nelle immagini in diretta della televisione pachistana. Il ministro dell’interno, Rehman Malik, ha confermato che si è trattato di un attentato terroristico. La polizia di Karachi ha annunciato di aver recuperato i cadaveri di due kamikaze, mentre una persona sarebbe stata arrestata in relazione all’attentato. I governi locale e nazionale hanno lanciato messaggi di distensione invitando tutti alla calma per agevolare le operazioni dei soccorsi, ma migliaia di fedeli sono ancora per strada e si registrano molti casi di danneggiamenti, saccheggi e atti di vandalismo.

dei seguaci di Osama bin Laden. Il gruppo di al Qaeda nel Maghreb islamico ha rivendicato con un messaggio audio inviato alla tv satellitare Al-Arabiya, il rapimento di una coppia di italiani sequestrata in Mauritania due settimane fa. Sergio Cicala, 65 anni, e la moglie Filomen Kabouree, 39 anni e originaria del Burkina Faso, sono stati rapiti assieme al loro autista ivoriano lo scorso 18 dicembre nella Mauritania orientale, al confine con il Mali, nell’ultimo di una serie di sequestri di stranieri da parte di gruppi armati in Africa.

Nella rivendicazione, Salah Abu Mohamed, portavoce del gruppo conferma il rapimento aggiungendo che è avvenuto in risposta ai «crimini commessi dal governo italiano in Afghanistan e in Iraq». Il sito web dell’emittente araba ha pubblicato anche una foto della coppia circondata da uomini armati. Insomma, la sponda sud del Mediterraneo sarebbe diventata la nuova terra d’elezione per i fondamentalisti islamici. Marocco, Algeria e Tunisia, negli ultimi mesi hanno registrato un incremento considerevole degli attacchi e dell’attività di propaganda, messi in atto da gruppi locali, trasformatisi in succursali di Al Qaeda. Principali protagonisti del “nuovo corso” del terrorismo maghrebino, sarebbero gli algerini del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento e i marocchini del GICM (Gruppo Islamico per il Combattimento Marocchino), che nel 2006 si sarebbero coalizzati sotto la nuova sigla “al Qaeda Maghreb”. Il riconoscimento ufficiale della nuova alleanza è stato confermato dal numero 2 di al Qaeda, Aymán Al Zawahiri, nel video “celebrativo” dell’11 settembre 2006. Uno degli obiettivi dichiarati dalla nuova formazione terroristica è quello di trasformare il Maghreb in una sorta di testa di ponte per gli attacchi in Europa, con l’aiuto dell’algerino Jalid Abou Bassir, ritenuto uno dei capi di al Qaeda nel vecchio continente. Notizia confermata anche da un terrorista marocchino arrestato in Belgio, Mohamed Reha, che ha dichiarato agli inquirenti che «non si preparavano solo operazioni di Jihad in Marocco, ma si stava lavorando anche per espandere il nostro movimento jihadista verso tutti i paesi del Maghreb, con l’aiuto dei nostri fratelli algerini del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento». La penetrazione del terrorismo islamico in Africa, segue ora rotte diverse rispetto alla prima infiltrazione, attraverso la penisola arabica, in Sudan e nel Corno d’Africa. Il dato più preoccupante è che entrambi i gruppi hanno collegamenti logistici e basi d’appoggio nelle principali città dell’Europa occidentale. La loro specialità infatti è quella della falsificazione dei documenti e del traffico di armi e stupefacenti. Particolari che sono venuti alla luce, ad esempio, durante il processo per gli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid, dove la maggior parte degli imputati è di nazionalità marocchina. Allo stesso gruppo apparterrebbero gli attentatori che fecero strage di turisti spagnoli il 17 maggio del 2003 a Casablanca.


mondo

a una parte l’attentato fallito al jet della Delta-Northwest con il quale al Qaeda voleva chiudere l’anno facendo strage delle 289 persone che erano a bordo e bombardando letteralmente Detroit con i rottami dell’aereo che, nei piani del kamikaze, dovevano cadere sulla città come micidiali proiettili. Dall’altra, la rivolta dei giovani di Teheran, Tabriz, Isfahan, Mashad e Shiraz che non si ferma e che sfida il regime, nonostante la repressione violenta e i morti. Due vicende che possono apparire lontane e scollegate in questo ultimo, drammatico scorcio di 2009. Ma che sono, invece, intrecciate a filo doppio perché alla radice c’è lo stesso male: l’estremismo fondamentalista. Che nel caso di al Qaeda indossa i panni del terrorismo che porta la guerra santa alle democrazie occidentali. E che, nel caso dell’Iran, è al potere e, pur di resistere in sella, non esita a massacrare il suo popolo che cerca di riconquistare la libertà. Osama bin Laden e Mahmoud Ahmadinejad, due facce del fondamentalismo che piega la religione e ne tradisce il messaggio per fini politici: uno ancora arroccato, forse, nelle montagne dell’Afghanistan, l’altro chiuso nel palazzo presidenziale di Teheran. Ma per l’Occidente due facce di un unico problema. Come affrontare il terrorismo di al Qaeda e quello di Stato.

D

Partendo, putroppo, da una considerazione amara: quello che è stato fatto, finora, non ha avuto gli effetti sperati. Soltanto un miracolo - l’innesco della bomba si è inceppato ha evitato che l’aereo Amsterdam-Detroit esplodesse in fase di atterraggio. L’attentatore era riuscito a imbarcarsi con 80 grammi di pentrite infilati in un preservativo cucito all’interno delle mutande, nonostante tutti i controlli e le perquisizioni. Non solo. Umar Farouk Abdulmutallah, il ka-

29 dicembre 2009 • pagina 15

Doppia sfida all’Occidente: attentati e fondamentalismo di Stato

Osama-Ahmadinejad l’asse del terrore di Enrico Singer

mikaze figlio del banchiere nigeriano con casa a Londra, aveva un regolare visto per entrare negli Stati Uniti, il che dimostra come al Qaeda sia in grado di trovare manovali della morte in ambienti sempre più insospettabili e distanti dall’Afghanistan, il terreno in cui si è concentrato il fronte militare della lotta al terrorismo. E dove Barack Obama ha deciso di inviare altri 30mila soldati che si uniranno agli altri diecimila uomini dei previsti rinforzi dei Paesi europei della Nato. Non a caso le cellule qaediste si sono moltiplicate nello Yemen - dove il kamikaze era stato istruito e armato - in Somalia e nello stesso Maghreb dove sono stati rapiti i due italiani che sono

nelle mani di una delle filiazioni locali della rete terroristica di Osama. L’offensiva del terrorismo fondamentalista, insomma, non è sterilizzata. Certo, è stata costretta a rimodulare i suoi obiettivi e a spostare le sue basi, ma la “guerra al terrorismo” che dichiarò George Bush all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 sttembre 2001 - e che Barack Obama sta continuando a combattere - non è vinta. E deve trovare una nuova strategia affiancando quanto più possibile alle operazioni militari, l’azione di intelligence e quella politica. Una responsabilità che non ricade soltanto sull’Amministrazione di Washington. Ancora una volta è l’Europa a dimostrarsi l’anello

debole della catena dell’azione antiterrorismo. La prova? Se per l’attacco alle Torri Gemelle, contando sull’effettosorpresa, al Qaeda spedì i suoi kamikaze a dirottare jet di linea in partenza da città americane, per l’attentato di Natale ha usato l’aeroporto europeo di Amsterdam per violare lo spazio aereo americano che, dopo l’11 settembre, è molto più protetto. Le misure concrete da prendere devono essere concordate tra le due sponde dell’Atlantico e tra i governi. Ma ancora più importante è ricostruire un clima di collaborazione, un fronte comune che, da qualche anno a questa parte, si è allentato. Come le incertezze - poi fortunatamente superate - sulla mis-

sione in Afghanistan hanno dimostrato. La minaccia è comune e la riposta deve essere altrettanto comune. Altrimenti, ancora una volta, non sarà efficace.

Anche da Teheran arriva un messaggio simile per l’Occidente: cambiare strategia. E, ancora una volta, tanto Barack Obama che i leader europei dovranno ripensare le mosse fin qui giocate nella interminabile partita a scacchi con il regime di Ahmadinejad. Il caso dei piani nucleari iraniani è esemplare. La linea della mano testa inaugurata da Obama si era materializzata in una proposta formalizzata dall’Aiea (l’agenzia internazionale per l’energia atomica) che avrebbe consentito all’Iran di sviluppare un programma atomico civile rivolgendosi in Europa o in Russia per l’arricchimento dell’uranio. Proprosta che Teheran ha prima dato l’impressione di accettare e poi ha respinto proprio mentre ha acuito la repressione delle manifestazioni di protesta annunciando che «l’opposizione sarà spazzata via». Che cosa devono pensare quei giovani che scendono in piazza e che rischiano la vita pur di rivendicare i loro diritti? Che l’Occidente è con loro, come assicurano le prese di posizione ufficiali delle Cancellerie, o che gli interessi economici, alla fine, prevalgono sulle affermazioni di principio e spingono a stringere anche patti con il diavolo? Il messaggio, anzi l’urlo, che si alza dalle piazze di Teheran e delle altre città in rivolta è tanto più significativo perché dimostra che l’altra faccia del terrorismo fondamentalista - quello che è riuscito a conquistare il potere tradendo gli stessi ideali della rivoluzione khomeinista - è ormai contestato con manifestazioni sempre più forti e incisive. E, forse, nel 2010 proprio dall’Iran potrebbe arrivare la prima vittoria sul terrorismo.


politica

pagina 16 • 29 dicembre 2009

Oltre i poli. I centristi confermano: alleanze su base locale. Appoggio a Emiliano (Puglia) e alla Polverini (Lazio)

Il puzzle delle Regionali

Gli uomini di Casini pronti a correre da soli in Lombardia e in Veneto di Franco Insardà

ROMA. Le tessere del mosaico delle prossime Regionali si stanno definendo l’una dopo l’altra. Con l’Udc che appare sempre di più l’ago della bilancia. La posizione dei centristi è stata quella che, in moltissime occasioni, ha espresso Pier Ferdinando Casini e che è stata confermata nell’Assemblea nazionale delle regioni. Il partito non farà alleanze nazionali, ma, dando vita a un polo di centro autonomo, convergerà sui singoli candidati presidenti. «Il nostro sarà un patto pubblico con gli elettori delle varie regioni - dice a liberal il portavoce nazionale dell’Udc, Antonio De Poli - che nulla ha a che fare con la nostra

ramenti. A Roma le possibilità che i centristi si schierino con l’ex segretario dell’Ugl, Renata Polverini, sono aumentate dopo la quasi sicura rinuncia a scendere in campo del presidente della provincia, Nicola Zingaretti.

del Pdl di puntare sul leghista Roberto Cota, l’Udc ha deciso di appoggiare il presidente uscente Mercedes Bresso. Anche in questo caso la decisione è stata obbligata, visto che, da tempo, il partito di Casini aveva annunciato che non avrebbe condiviso l’opzione leghista.

In Veneto, invece, la cacciata di Giancarlo Galan per far spazio a Luca Zaia ha spinto i centristi a correre in solitaria, schierando il portavoce Antonio De Poli. Stessa soluzione si sta valutando anche per la Lombardia, ma al momento una decisione definitiva non è stata ancora presa. Ma non saranno poche le regioni dove si sfide-

Annullata l’assemblea del Pd pugliese. Angelo Sanza: «Spero che Nichi Vendola receda dai suoi propositi» posizione a livello nazionale. Ancora una volta l’asse del Nord tra Bossi e Berlusconi, con la loro gestione di potere più milanese che romana, ha finito per mercificare le candidature. Tanto che abbiamo assistito a un mero scambio tra regioni, ministeri e garanzie di durata del governo. Il peggior tipo di gestione del potere che nulla ha a che fare con l’autonomia e il federalismo tanto sbandierato».

Proprio l’autonomia e il federalismo tanto sbandierato sono stati i punti di partenza per valutare e verificare le candidature e i programmi. In Piemonte, dopo la scelta

ranno i due poli. Al Centronord, dove sono molto probabili le riconferme delle giunte di centrosinistra, il partito di Casini è pronto a schierare i suoi esponenti locali più in vista. Per esempio in Emilia Romagna lo Scudocrociato sarà affidata a Gianluca Galletti. Ancora al vaglio le candidature, e sempre in solitaria, per Umbria e Toscana. Accordo col centrosinistra per la riconferma del governatore ligure, Claudio Burlando e di quello marchigiano Gian Mario Spacca. Ma le partite più grosse si giocano nel Lazio, in Puglia e Campania. In queste tre regioni l’Udc rappresenta il vero ago della bilancia ed è quindi corteggiatissimo dai due schie-

La Corte dei Conti contro la legge di Tremonti

Finanziaria senza fondi? ROMA. Il ricorso a forme di copertura «dagli esiti incerti (lotta all’evasione ed all’elusione fiscale) comporta il rischio di coprire maggiori spese o minori entrate strutturali con maggior gettito frutto di quantificazioni ottimistiche e poco trasparenti e comunque non facilmente verificabili a consuntiL’avvertivo». mento, riferito alle coperture individuate dalla manovra estiva, è contenuto nella Relazione della Corte dei Conti «sulla tipologia delle coperture adottate e sulle tecniche di quantificazione degli oneri relative alle leggi pubblicate nel quadrimestre maggio-agosto 2009». Secondo i magistrati contabili, in particolare, «le incertezze sono accentuate dalla necessità di un raccordo tra le disposizioni (e relative stime degli effetti di gettito) relative al contrasto ai paradisi fiscali e agli ar-

bitraggi fiscali internazionali e quelle relative allo scudo fiscale che appaiono insistere sulla medesima base imponibile e che sono legate tra loro da un rapporto di alternatività».

Più in generale, sussiste «il problema dell’incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all’evasione, a causa dell’assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l’effettivo recupero di evasione dagli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima. La sostanziale inesistenza di procedure di rilevazione diretta ex post degli effetti stimati ex ante costituisce un limite che, oltre ad incidere negativamente sulla trasparenza delle manovre antievasione, impedisce anche di correggere gli errori e le approssimazioni con cui vengono formulate le valutazioni degli effetti finanziari dei provvedimenti».

Situazione diversa in Puglia dopo che Michele Emiliano, sponsor Massimo D’Alema, ha dato la disponibilità ad accettare la candidatura, ma ieri è stata annullata l’assemblea regionale del Pd che avrebbe dovuto dare il placet. Angelo Sanza, coordinatore regionale dell’Udc, auspica «la più larga unità del Pd intorno al suo presidente per poter discutere del programma di legislatura regionale». Quindi invita il governatore uscente Nichi Vendola a «recedere dal suo proposito, ritenendo importante, con l’arrivo dell’Udc, una discontinuità rispetto al passato». Intanto sull’altro versante il Pdl non ha ancora definito chi sarà il candidato, anche se ormai sembra una formalità la designazione del pm antiterrorismo Stefano D’Ambruoso. Acque molto agitate nel golfo di Napoli sia nel Pdl sia nel Pd. Sul fronte centrodestra si registra la difficoltà a mettere insieme le varie anime, ancora scosse per l’inchiesta che riguarda il sottosegretario Nicola Cosentino. Il tam tam vuole che il socialista Stefano Caldoro abbia la meglio sul presidente dell’Unione industriale di Napoli, Gianni Lettieri, che nei mesi scorsi era stato convinto a candidarsi direttamente da Silvio Berlusconi. C’è aria di primarie, invece, sul versante opposto dove ancora non si è arrivati a un accordo tra il “bassoliniano” Ennio Cascetta e il sindaco di Salerno Enzo De Luca, nemico storico dell’attuale governatore. A sparigliare ci ha pensato l’Udc che ha dichiarato di vedere di buon grado l’ex presidente di Antonio Confindustria, D’Amato alla guida di una coalizione di centrosinistra. Tutto definito, infine in Basilicata con l’Udc schierato con il centrosinistra e in Calabria, dove i centristi appoggiano il Pdl.


società

29 dicembre 2009 • pagina 17

Dopo Natale. Una singolare ricerca del portale di compravendite in rete ROMA. È il più annoso dei dilemmi del dopo-bagordi: che cosa farsene dei regali sgraditi? Non è ancora arrivata l’Epifania e già si fanno i primi bilanci dei regali ricevuti e si pensa a come riciclare quelli inutili e imbarazzanti che inevitabilmente ogni anno ci ritroviamo sotto l’albero. Da un’indagine di Tns Italia per eBay.it, è emerso che l’Italia è uno dei maggiori paesi dediti al riciclo di regali. Sono infatti 13 milioni gli italiani che vorrebbero riciclare i regali ricevuti quest’anno e tra questi, 5 milioni hanno intenzione di venderli utilizzando come canale preferenziale il noto portale di aste on line eBay: un fenomeno in netta crescita rispetto agli anni passati, in cui i nostri connazionali che si rivolgevano all’e-commerce per riciclare i doni erano un milione. In un solo anno il numero si è quintuplicato. Con motivazioni inoppugnabili.

Infatti, sarà per via del periodo economico particolarmente difficile, ma tra i principali motivi per cui gli italiani pensano di riciclare i regali inutili al primo posto, con il 47%, c’è il risparmio, il 33% pensa invece di utilizzare i proventi della vendita per regalarsi ciò che desidera, mentre il 18% si pagherebbe le spese natalizie. Chi pensava che gli amici avessero più gusto della vecchia zia o che fossero le persone a conoscere meglio i desideri dei destinatari, si sbagliava: nel 54% dei casi sono proprio loro a rifilarci i regali meno graditi e più imbarazzanti, seguiti al secondo posto dai parenti (46 %) e al terzo dai colleghi di lavoro per il 9% dei casi. E perché proprio su Ebay? Perché il riciclo del regalo di Natale, una tradizione antica quasi quanto le festività, è anche un’abitudine pericolosa: il rischio che il donatore lo venga a sapere aumenta esponenzialmente a seconda della ristretta cerchia in cui si ricicla. Su Internet questi rischi sono ridotti al minimo: i potenzialmente interessati sono una platea sterminata proveniente da tutta Italia, e

C’è la crisi, meglio riciclare i regali Cinque milioni di italiani venderanno su ebay molto di ciò che hanno apprena ricevuto di Alessandro D’Amato

L’82% dei giovanissimi è sempre in Rete

Cresce l’uso di Internet ROMA. Permangono forti differenze generazionali nell’uso di Internet: naviga l’82% dei giovanissimi tra gli 11 e i 19 anni mentre tra le persone di età compresa tra i 60 e i 64 anni solo il 22,8% si collega al web. È quanto emerge da una ricerca ad hoc dell’Istat e riferita al 2009. Nel dettaglio, il 47,5% della popolazione di 3 anni e più utilizza il personal computer e il 44,4% della popolazione di 6 anni e più naviga su Internet. Rispetto al 2008, aumenta la quota degli utenti sia del personal computer (2,6 punti percentuali) sia di Internet (4,2 punti percentuali). In particolare, si registra un incremento significativo nell’uso quotidiano:

la possibilità di incontrare il donatore diventa infinitesimale. A patto che non sia anche lui un utente di Ebay o un frequentatore di motori di ricerca e negozi on line: in tal caso il rischio aumenterebbe in maniera esponenziale. Ma gli italiani evidentemente non ci pensano, o hanno già preso le opportune contromisure: dopo soli tre giorni dal Natale, sono già oltre 8000 i regali non graditi o risultati doppi apparsi sul sito. La tendenza è sempre in crescita: l’anno scorso, lo stesso giorno, se ne contavano circa 6.000, mentre nel 2007 erano 4.000 e nel 2006 addirittura meno di 2.000.

Anche perché sembra proprio che il dono sgradito sia appannaggio del Belpaese. Guardando all’anno scorso, secondo l’indagine di Tns In-

ternazionale, estesa a livello europeo, l’Italia si conferma al primo posto tra i Paesi con il maggior numero di regali inutili: su 6 regali ricevuti almeno uno era inutile ed è costato ai nostri connazionali in media 44 euro. Quanto alla reazione degli italiani alla vista di un regalo che non piace, oltre la metà mente fingendo stupore positivo (56%), soprattutto per quanto riguarda le donne (60% contro il 52% degli uomini), il 40% preferisce ringraziare senza troppi entusiasmi, il 7% addirittura non reagisce. Ma gli italiani sono solo al secondo posto, con austriaci e inglesi, nella classifica europea dei più bravi a mentire: è l’Irlanda infatti ad avere il primato, con il 71% che finge di essere soddisfatto del dono. Non vale lo stesso per Spagna e Germania, dove il 9% è disposto ad ammettere che il regalo non era esattamente quello che si aspettava. E chi sono i più «facili al riciclo» d’Italia? È il sud ad avere il primato assoluto, sia per i regali meno azzeccati che per il maggior numero di persone che si dedicano al riciclo subito dopo le feste. Il Nord Ovest si distingue invece, per la percentuale più alta di parenti che sbagliano dono e il Centro è il più tecnologico, perché si disfa dei doni poco graditi facendo ecommerce su eBay.

E i risultati si giovano pure di conferme esterne: anche

Dopo soli tre giorni, sono già oltre 8000 gli omaggi non graditi o risultati doppi apparsi sul sito. E la tendenza è in crescita

dal 24,4% al 27% per il pc e dal 17,7% al 21,8% per Internet. Il picco di utilizzo del personal computer e di Internet si ha tra i giovani di 11-19 anni (rispettivamente l’89% e più dell’82%), per poi decrescere rapidamente all’aumentare dell’età. Già tra le persone di 35-44 anni l’uso del personal computer (62%) e di Internet (58,2%) è molto più contenuto. Tra le persone di 60-64 anni solo il 25% usa il personal computer e il 22,8% naviga in Internet, mentre tra gli ultra sessantacinquenni l’uso di queste tecnologie è ancora un fenomeno marginale. Tali differenze dipendono in gran parte dal livello d’istruzione più basso delle persone anziane.

secondo un’indagine realizzata da Coldiretti attingendo ai dati della ricerca Xmas Survey 2009, sono proprio gli italiani insieme ai tedeschi e agli spagnoli a saper trarre profitto dai regali sbagliati ricevuti sotto le feste natalizie. Abbigliamento, oggettistica e dispositivi tecnologici sono gli oggetti che finiscono di più sulle bancarelle e sbarcano anche su internet sui negozi online. E, a sorpresa, i regali meno riciclati sono i prodotti enogastronomici, che sbarcano sulle tavole imbandite: sono quindi i doni più graditi? O forse sono più difficili da spedire mantenendone la conservazione? Bisognerebbe propendere per la prima ipotesi, visto che sempre secondo il sondaggio di Coldiretti, per il 39% degli italiani i regali più graditi sono proprio cibi e vini, il 21% sceglie invece un capo di abbigliamento, il 15% cd/dvd, il 13% novità hi-tech.


società

pagina 18 • 29 dicembre 2009

Paure. I servizi sono al centro di attenzioni e polemiche dopo i fatti di Roma e Milano. Parlano Mantovano e Margelletti

Questione di sicurezza Dalle aggressioni all’allarme negli aeroporti: ecco la mappa dei rischi e le presunte analogie di Francesco Capozza

ROMA. Esistono analogie tra l’aggressione al premier, avvenuto a Milano il 13 dicembre, e quella subita dal Papa la notte di Natale? Ce ne sono, senza dubbio, e gli amanti del noir e del retroscena si sono subito sbizzarriti nel trovarne di fondate (come, per esempio, il fatto che gli aggressori siano entrambi ritenuti psicolabili), come pure ad inventarne di sana pianta altre (c’è chi dice che l’aggressione a Berlusconi sia stata il frutto di una messinscena). Una su tutte però merita di essere approfondita, anche perché particolarmente ancor più

dirla parafrasando il ministro dell’Interno Roberto Maroni, potevano far perdere la vita a Silvio Berlusconi. Ma chi sono gli “angeli”che guardano a vista il primo ministro italiano e di che cosa dispongono per garantirne l’incolumità? Sono un centinaio di agenti (30 circa su più turni), dispongono di tecnologie supersofisticate, di un collegamento costante tra tutti gli addetti al servizio di scorta e con le centrali operative di polizia e carabinieri. Tuttavia, a proteggere Berlusconi ci sono uomini che lui stesso ha scelto, alcuni lo seguono da quando

ANDREA MARGELLETTI

Il problema è che in Italia la scorta esegue gli ordini della personalità scortata, un fatto che non accade in nessun altro Paese

d’attualità dopo il fallito attentato su un aereo americano di due giorni fa: l’innegabile “falla” nella sicurezza.

Analizziamo gli episodi. Nel caso del ferimento del premier il dispositivo di sicurezza che lo circonda deve essere a maglie strettissime perché nel contatto con la folla il rischio di un ordigno oppure un colpo d’arma da fuoco è altissimo. Ma in piazza del Duomo qualcosa non ha funzionato e il primo dei due anelli di agenti in borghese che protegge il capo dell’esecutivo è stato “bucato”. Non solo: dopo il ferimento provocato da Massimo Tartaglia c’è stato quello che i tecnici ritengono essere un secondo, gravissimo, errore. L’auto con il presidente del Consiglio è infatti rimasta ferma e Berlusconi, prima di essere portato via (ad una velocità molto bassa) è addirittura sceso e ha mostrato il volto insanguinato. Secondo il protocollo dei Servizi in caso di pericolo la personalità dovrebbe invece essere portata immediatamente via per scongiurare rischi maggiori. Due errori che, per

era alla Fininvest. Fino al 2007 erano inquadrati all’interno del Cesis, l’organo di coordinamento dei servizi segreti, ma con piena autonomia. E anche ora che dipendono dall’Aisi, l’intelligence interna, sono di fatto svincolati da qualsiasi tipo di gerarchia.Tranne da quella suprema, in questo caso rappresentata dallo stesso Berlusconi che decide spostamenti e fuoriprogramma anche all’ultimo minuto. Lo scambio informativo con il vertice - direttore è il generale Giorgio Piccirillo è costante, così come l’analisi di ogni possibile minaccia, ma alla fine le decisioni vengono

prese dal responsabile della scorta in accordo con i suoi collaboratori più stretti spesso in base alle volontà del presidente del Consiglio. Due giorni prima del comizio di Berlusconi dalla questura di Milano avevano comunicato la possibilità che in piazza ci fossero intemperanze. L’eventualità di contestazioni anche forti era stata però messa nel conto e infatti, come abbiamo visto, ci sono state. La sicurezza del capo del governo è stata però facilmente fallata dalla mano di uno squilibrato e di una statuetta. Statuetta che peraltro, come è possibile notare nei fotogrammi dell’aggressione, è rimasta in aria diversi secondi, giusto il tempo perché Tartaglia caricasse con energia il colpo.

Nel secondo caso, la caduta di Benedetto XVI, la gendarmeria vaticana sta cercando da giorni di ricostruire gli spostamenti di Susanna Maiolo - la donna che si è gettata addosso al pontefice trascinandolo a terra - che non era armata, per capire se sia arrivata da sola nella Basilica. E, proprio come accaduto dieci giorni prima dopo l’aggressione a Silvio Berlusconi in piazza Duomo, si sta riesaminando il dispositivo di sicurezza. Bisogna infatti accertare come sia stato possibile per la donna scavalcare la transenna, ma soprattutto riuscire a far cadere il Papa. Le guardie erano disposte lungo il percorso, ma – come si vede dalle immagini – nessuna di loro era ai lati di Benedetto XVI mentre con gli altri cardinali camminava verso l’altare benedicendo la folla. Ed è proprio di questo “varco” che la donna ha approfittato. Questi i fatti, ma sul “bu-

ALFREDO MANTOVANO

Non vedo analogie tra le aggressioni al Papa e al premier e comunque i meccanismi di protezione hanno funzionato bene

co” nei dispositivi di sicurezza le opinioni sono discordanti. Per il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, per esempio «i meccanismi di protezione, in entrambi i casi, hanno funzionato bene». Per il vice di Roberto Maroni, «entrambe le personalità in questione non possono essere poste sotto una campana di vetro, anche per la peculiare caratteristica che vede entrambi molto legati al contatto con la gente». Mantovano, infine, nega categoricamente che gli agenti di scorta del premier avrebbero dovuto vedere la statuetta brandita da Tartaglia che – come i filmati al rallentatore dimostrano – è rimasta in aria per diversi secondi: «sfido chiunque a riconoscere, nella folla e tra tutte le

macchinette fotografiche e i videofonini, una miniatura come quella scagliata contro il presidente Berlusconi». Diversamente la pensa Andrea Margelletti, presidente del Cesi ed esperto di Intelligence che pur riconoscendo la «massima professionalità» degli uomini della scorta del premier («sono i migliori in circolazione, li conosco personalmente e posso dire che corrispondono al meglio dei nostri Servizi»), identifica quello che egli stesso ritiene «l’anomalia italiana».

«In Italia non è possibile garantire al 100% la sicurezza della personalità scortata - ci dice l’esperto - per un semplice motivo gli ordini vengono impartiti dalla personalità stessa.


società

29 dicembre 2009 • pagina 19

Fu Papa Wojtyla a dire che quella piazza è «la più pericolosa del mondo»

San Pietro, tutti i rischi di un luogo-simbolo Ma la Chiesa non può più evitare di incontrare la folla: l’ha dimostrato Benedetto XVI subito dopo l’incidente di Luigi Accattoli onosco tre motti che si addicono alla caduta del Papa la notte di Natale e il più appropriato è di Giovanni Paolo: «Nessun luogo è più pericoloso di piazza San Pietro». Lo disse al cardinale Decurtray che gli riferiva le chiacchiere su una centuria di Nostradamus tendenti a presentare come infausta la sua andata a Lione nel 1986. Papa Benedetto potrebbe aggiornare quel motto aggiungendo la basilica alla piazza.

C

In qualsiasi altro paese questo non sarebbe possibile e in caso di attentato alla vita dello scortato questo verrebbe letteralmente “gettato” in macchina e portato via a tutta velocità». Quindi, a sentire Margelletti, meglio di così non si poteva fare sia nel caso dell’aggressione al premier, sia in quella al papa. Anzi, nel caso di Ratzinger il presidente del Cesi ammette che «la sicurezza vaticana è stata prontissima, il pontefice è caduto solo perché la donna si è aggrappata alla veste, ma era già stata bloccata». E comunque, aggiunge Margelletti, «il papa si muove, come tutti i capi di stato del mondo, in un’area “sterile”, mentre nel caso dell’aggressione al presidente del Consiglio questi era in mezzo alla folla. Una cosa impensabile!». Intanto, dopo il fallito attentato sul volo AmsterdamDetroit, le misure di sicurezza in volo sono state fortemente irrobustite. Ecco come: nell’ultima ora di volo non è permesso alzarsi dal posto, non è ammesso avere una coperta addosso o un cuscino, non è permesso tenere alcun oggetto (come un computer), non è permesso accedere al bagaglio a

mano. Se un passeggero ha un bisogno impellente deve avvertire l’hostess che lo scorterà fino alla toilette. Sempre che non decida che sia rischioso. Sui monitor in cabina non sarà più mostrata la mappa con la rotta – per non dare punti di riferimento – e il comandante non darà indicazioni su luoghi di interesse. È difficile credere che queste misure possano bastare per contrastare un terrorista deciso a colpire. Il problema resta quello dei controlli a terra: l’aggressore va bloccato prima che salga a bordo e dunque serviranno nuovi sistemi per scoprire gli ordigni invisibili.

Il secondo detto riguarda la missione impossibile della sicurezza vaticana: «Il Papa o si difende da solo o non lo può difendere nessuno». Lo ripeteva – quando gli parlavi di Alì Agca – il cardinale Dino Monduzzi che fu Prefetto della Casa Pontificia. Sta a dire che se il Papa va per il mondo non sarà possibile impedire che un pazzo o un malintenzionato una volta o l’altra gli vada addosso. Il terzo motto è dell’ex portavoce Navarro Valls e dice il limite dell’autodifesa papale invocata da Monduzzi: «Il Papa non può essere invisibile». Gliel’ho sentito enunciare in risposta a chi lamentava l’esposizione alle folle di Papa Wojtyla nell’ultimo periodo, quando aveva difficoltà a anche a parlare. Sono ormai sessan-

Di quello scontro fanno parte, misteriosamente, l’attentato che poteva uccidere Giovanni Paolo e ogni altro rischio corso dai “vescovi di Roma” negli ultimi decenni.

L’attentato del 1981 ha creato la sensazione del pericolo costante ogni volta che il Papa esce dal suo appartamento. Quel pericolo teoricamente era noto. Già Paolo VI aveva rischiato di restare schiacciato dalla folla a Gerusalemme (1964) e aveva subito una specie di attentato a Manila (1970) quando un pittore travestito da prete l’aveva ferito al torace con un pugnale a forma di croce. Ma nessuno aveva immaginato possibile un’aggressione mortale in piazza San Pietro. Il segno del sangue ricomparso imprevedutamente nello scenario vaticano ha ingigantito la vigilanza attorno alla persona del Papa e i media hanno intensificato la copertura dei suoi spostamenti. Lo si vide subito il 4 ottobre 1981, per il primo ritorno a piazza San Pietro del Papa sopravvissuto a quegli spari: l’intero perimetro del colonnato transennato, la gente perquisita e ispezionata con i «metal detectors», i giornalisti appostati a gara con i poliziotti. Ma Wojtyla e i successori non hanno accettato di tenersi lontani dalle folle.

Sono ormai sessantasei anni che i pontefici escono dal Vaticano per incontrare i fedeli: il primo fu Pio XII dopo il bombardamento di San Lorenzo nel 1943. Una scelta forse rischiosa, ma ormai inevitabile

tasei anni che i Papi escono dal Vaticano e vanno tra la gente mettendo a rischio se stessi e le folle alle quali si mescolano. Iniziò a farlo Pio XII con le uscite che lo portarono nei quartieri romani di San Giovanni e di San Lorenzo dopo i bombardamenti alleati del giugno e dell’agosto del 1943. Ed è bello che sia stato il più schivo tra i Papi del Novecento a uscire tra le folle e che l’abbia fatto per solidarietà con i romani terrorizzati dalle bombe. Moltiplicò le uscite a Roma e in Italia Giovanni XXIII; Paolo VI le prolungò ai cinque continenti e Giovanni Paolo fece di ogni terra la sua patria. Benedetto si fa erede della loro ansia di avvicinamento all’uomo. Con i Papi Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani, Wojtyla e Ratzinger il Pontificato romano esce dalle regole di una tradizione secolare e si rimette all’avventura della «missione alle genti», che è anche scontro con il mondo.

Frutto della sindrome

dell’attentato fu la «Papamobile»: lo speciale veicolo con vetri antiproiettile che dal 1981 i Papi usano negli spostamenti all’aperto. È stato scritto che la «Papamobile» è la nuova «sedia gestatoria del Pontefice romano» (Gianni Baget Bozzo): e allora bisogna dire che risulta davvero difficile ai Papi scendere da quella sedia. Dopo la caduta della Notte di Natale in San Pietro è verosimile che anche Papa Benedetto sarà costretto a tornare a un uso intensivo del veicolo blindato, come si fece per alcuni anni con Giovanni Paolo dopo gli spari del “lupo grigio”Alì Agca. Sarà bene che lo faccia e sarà bene che venga aumentata ogni forma di prevenzione. Ma è cosa buona e giusta che Benedetto continui ad andare all’incontro con le persone. Fino a oggi per fortuna abbiamo visto solo dei “semplici” compiere stravaganti gesti di accostamento alla sua persona: il 9 luglio 2006 a Valencia, il 12 settembre 2006 a Ratisbona, il 6 giugno 2007 in piazza San Pietro. Ho veduto con piacere Papa Ratzinger tornare già l’altro ieri al contatto con la folla durante la visita alla mensa dei poveri di Sant’Egidio. Santità, continui così: il mondo spaventato di oggi ha bisogno della sua serenità nell’approccio all’uomo. www.luigiaccattoli.it


cultura

pagina 20 • 29 dicembre 2009

Il muro di Berlino/2. Alla vigilia del 1989 nel nostro Paese s’infiammò il dibattito sulla tenuta della perestrojka

E l’Italia puntò su Gorbaciov di Federigo Argentieri bbiamo già parlato (su liberal del 23 dicembre) delle tappe di avvicinamento alla caduta del Muro di Berlino ed eravamo arrivati al 1987. Durante quello stesso anno, il 1987, in cui l’Urss si preparava a celebrare il 70° anniversario della presa del potere dei bolscevichi, le riforme di Gorbaciov cominciavano ad avere effetto anche all’interno del paese. Particolarmente efficace, per certi versi straordinaria era stata la trasformazione del settimanale Notizie di Mosca da bollettino noioso e burocratico in autentico organo d’informazione, che si specializzò in analisi, inchieste e commenti tendenti a portare alla luce le vicende più oscure della storia sovietica, comprese quelle che neanche Krusciov a suo tempo aveva osato sollevare, come ad esempio i costi umani della collettivizzazione agricola dei primi anni Trenta. Il direttore di quella pubblicazione, che si chiamava Egor Yakovlev, giunse in visita in Italia nel marzo 1987 e tenne un incontro a inviti presso la sede dell’associazione Italia-Urss.

A

Fu prudente e diplomatico, ma non reticente. Il sottoscritto, che nel frattempo era stato trasferito dall’Istituto Gramsci al Centro studi di politica internazionale (CeSPI), presieduto da Giuseppe Boffa, ritenne opportuno porgli una domanda: era a conoscenza del libro di Robert Conquest The Harvest of Sorrow, uscito qualche mese prima, in cui si descriveva in dettaglio la carestia che nel 1932-33 aveva devastato Ucraina, Cau-

to vero, ma è certo che il destino dell’opera di Conquest (la cui versione italiana sarebbe stata pubblicata da liberal nel 2004) parlò più chiaro di qualunque schermaglia polemica: da un lato, infatti, la notizia della sua pubblicazione e gli estratti che ne venivano trasmessi da Radio Liberty avevano incoraggiato il sommovimento nell’Ucraina sovietica che sarebbe sfociato qualche tempo dopo nella formazione dell’organizzazione autonomista “Rukh”; dall’altro, in Italia, l’editore Garzanti - all’epoca fortemente influenzato in alcune sue scelte da una sedicente e alquanto saccente “scuola fiorentina”, che faceva capo a Giuliano Procacci - acquistava i diritti e traduceva il libro, per poi

testo, pubblicare The Harvest of Sorrow che denunciava la politica di Stalin come un genocidio veniva giudicato destabilizzante. A proposito di “destra”, va dato pieno credito a Ferdinando Adornato per aver fortemente voluto e organizzato una delle pochissime, se non l’unica, iniziativa del Pci a sostegno del dissenso sovietico, nel luglio del 1978, provocando minacciosi brontolii ma anche importanti riscontri positivi, come quello di Rosario Villari.

Ambasciatore italiano a Mosca durante la perestrojka era Sergio Romano, la cui statura culturale e il cui acume sono oggi noti a tutti. Meno noto è che egli si dimise dall’incarico e dalla carriera diplomatica nel marzo 1989, in conseguenza di un profondo dissenso con il presidente del Consiglio Ciriaco De Mita altra notevole intelligenza politica - sulla natura e le potenzialità delle riforme allora in corso. In sostanza (mi correggano gli interessati se sbaglio), Romano tendeva a non dare troppo credito alle possibilità di successo di Gorbaciov, mentre De Mita era convinto della necessità che l’Italia investisse energie e risorse nella sua riuscita. Rifacendomi a Zaslavsky e al suo già citato libro Dopo l’Unione sovietica, ritengo che avessero torto entrambi: l’uno sulla sostanza delle rifor-

Si sfiorò l’incidente nel 1987 quando il direttore del periodico riformista «Notizie da Mosca», Egor Yakovlev, cominciò a discuetere, a Roma, le tesi di Robert Conquest... caso settentrionale e Kazachstan provocando milioni di vittime? Yakovlev rispose: «Abbiamo anche noi i nostri studiosi dei problemi della collettivizzazione, ad esempio V.P. Danilov, e speriamo che possano rendere note le loro ricerche». Un simile scambio, però, non poteva passarla liscia davanti alla platea dell’Associazione Italia-Urss. Infatti Rita Di Leo, illustre esponente della cosiddetta sinistra operaista, si unì idealmente alle autorità tedesco-orientali, cecoslovacche e romene che già cominciavano a censurare Le notizie di Mosca (fatto senza precedenti nella storia), accusandomi di rappresentare «la destra del CeSPI». Sarà anche sta-

fermarsi e non pubblicarlo più. Il motivo era assai semplice: in esso si individuava un pericolo mortale per i corifei del “noifindal”, ossia per gli “intellettuali organici” secondo i quali Gorbaciov stava dando ragione al Pci, con cui alla fine dell’era di Brezhnev si era compiuto quello che Cossutta aveva definito uno “strappo”.

Assieme a Boffa, Procacci stava assumendo un ruolo importante nel decidere cosa l’area culturale influenzata dal Pci dovesse e non dovesse fare per coadiuvare la nuova politica di Mosca, che veniva talvolta e del tutto arbitrariamente definita come “togliattiana”. In tale con-

me, l’altro sul loro esito.Tornando al Pci, mentre all’Ucraina si negava qualunque legittimità anche identitaria (un andazzo oggi tutt’altro che scomparso nella galassia di sinistra e fortemente presente anche nel Pdl), si profilava uno scontro interno sulla lotta dei paesi baltici. Quando i movimenti indipendentisti lituano, lettone ed estone organizzarono una grandiosa manifestazione nell’agosto 1989, per ricordare l’infausto anniversario del patto Ribbentrop-Molotov e segnalare la loro intenzione di seguire la via polacca e ungherese, da Mosca la risposta fu negativa anche riguardo all’esistenza dei protocolli segreti di spartizione. Echeggiando fedelmente le dichiarazioni del «l’altro Yakovlev», Aleksandr, braccio destro di Gorbaciov, a Roma Boffa – che per altri versi era uno studioso d’indubbio valore – sen-

Qui sopra e in alto, due classiche immagini del Muro di Berlino nei giorni del 1989 in cui fu definitivamente abbattuto dalla popolazione dell’Est

tenziava la totale inopportunità e la natura eversiva di quell’evento, che aveva visto la partecipazione di oltre due milioni di persone e nessun incidente o violenza di sorta, senza dimenticare di ribadire il “giudizio storico” secondo cui i protocolli non esistevano.

Mesi dopo, il giovane ma già illustre studioso Pietro Dini venne al CeSPI a conferire su «I paesi baltici nella nuova Europa»: Boffa, con ostinazione ormai quasi patetica, voleva a tutti costi intitolare in altro modo («La questione nazionale in Urss oggi», o qualcosa del genere) la pubblicazione che ne derivò, ma per fortuna giunse troppo tardi. Abitava all’epoca a Roma, facendo la spola con Washington, un distinto signore di nome Stasys Lozoraitis, figlio dell’ultimo ambasciatore lituano in Italia. Quest’ultimo, dopo l’annessione del suo paese all’Urss avvenuta nel 1940 – corroborata a Roma dall’inaudita occupazione da parte sovietica della bella ambasciata di via Nomentana, ancora oggi sede del consolato russo, che i lituani oggi rivogliono indietro mentre la Farnesina preferisce guardare da un’altra parte – era rimasto fuori dalla mischia bellica e aveva trascorso il resto della sua vita a rappresentare il suo paese presso le uniche due potenze che non ne avevano riconosciuto l’annessione, ossia gli Stati Uniti e la Santa Sede.


sport

29 dicembre 2009 • pagina 21

Fantasisti. L’ultimo in ordine di tempo è Viktor Brumel, saltatore come il padre. Per non parlare di Villeneuve, Maldini...

Tutti i record dei figli di papà di Francesco Napoli e è lecito pensare che un commercialista, un avvocato o un dottore passino le redini ai propri figli di uno studio ben avviato; se è lecito pensare a un Gassman padre che inietta nel sangue dei figli Paola o Alessandro la scienza del palcoscenico o della cinepresa, così come avrà fatto il grande Eduardo con il suo Luca; e se è lecito ancora pensare che questo avvenga in tanti campi delle arti e mestieri dell’uomo, in Italia come all’estero, senza voler per forza parlare di nepotismi, perché dovrebbe andare diversamente nello sport? Esempi ce ne sono, e tanti, casomai è l’ingombro lasciato dai padri ai figli ad avere una misura sempre ben netta, quella delle prestazioni e dei numeri ad esse connesse. In fondo può essere sempre un buon modo per “ammazzare” il padre, così come si conviene alle freudiane latitudini, o, in chiave più letteraria, un ottima intelaiatura di un romanzo e, perché no, anche materia prima per la poesia, visto che quest’ultima in Italia ha da qualche tempo preso l’abitudine a riflettere sempre più sul padre, a proposito si legga utilmente Maurizio Cucchi o un Milo De Angelis. Ma torniamo

S

in cronaca. La notizia è di questi giorni: tal Viktor Brumel si è messo a saltare in alto, lui figlio di una leggenda dell’atletica e dello sport anni Sessanta, figlio di quel Valerij che alla sua età, diciassette anni, saltava grosso modo poco più di 2 metri, così come Viktor (2.03 e un quinto posto in una gara indoor) ma Valerij probabilmente resterà ineguagliato dal figlio, lui che era stato detto il Lord Brumel dell’atletica, che aveva nella sua breve carriera più volte superato se stesso con l’inconfondibile salto ventrale prima che un incidente motociclistico prima e quel gambero di Dick Fosbury lo mettessero da parte. Era, Valerij, una sorta di guascone dell’atletica, capace anche di correre veloce in poco più di 10 secondi i cento metri e di essere un orso nei rapporti con gli altri e cicala con se stesso, indulgente nel suo vivere spericolatamente. Fino al giorno di un maledetto incidente motociclistico. Non guidava lui, ma un’amica. Ricoverato all’ospedale un medico molto cinico (o immaginifico) riferì di aver visto non una gamba, ma una «marmellata di carne ed ossa». Gamba e piede avevano subito fratture in dodici punti diversi e ci vollero cinque ore per completare il primo dei 34 interventi chirurgici cui Valery sarebbe stato sottoposto prima di poter tornare a camminare. Mille giorni di gesso, 36 mesi di stampelle e l’ultimo intervento nel 1968 consentirono al lord del salto in alto di tornare a gareggiare, ma senza speranze e prospettive di rinnovare il successo

Tania e papà Giorgio, nonché mamma Carmen (Casteiner), chissà quale potrà essere l’argomento del giorno: il carpiato al posto del carpaccio, o il doppio avvitamento a proposito di forchetta e così discorrendo. Nel calcio poi è risaputo come il papà spesso si porti il figliolo ai campi e nello spogliatoio per istruirlo ai segreti del mondo calciopedatorio. Così può capitare tranquillamente che un papà venga superato di gran lunga dal figlio, vedi Paolo con Cesare (Maldini), o viceversa che il figlio sia soverchiato dalla grandezza del genitore. Mi risulta

esistere uno scadentuccio portiere figlio di Edson Arantes do Nascimiento, o più semplicemente Pelé. Ma anche lui: se il padre ha fatto più di 1000 reti in carriera, di tanti ruoli pro-

Si diventa «figli d’arte» anche nello sport:anche se non sempre chi viene dopo raggiunge i risultati della generazione precedente.Forse è per colpa del peso eccessivo della responsabilità

prio quello di estremo difensore doveva andarsi a scegliere?

degli anni d’oro. Il declino fu accelerato dall’ impasto di amarezza, rimpianto e inadeguatezza che plasmò il ritiro dall’agonismo.

E ora il figliolo insegue il padre perduto e, d’altro canto, il povero Viktor avrà semplicemente pensato di restituire al padre quanto la sorte gli aveva tolto, così come avrà pensato, e son pronto a metterci la firma, anche Jacques, pensando al padre Gilles, Villeneuve, al quale ha portato quel titolo mondiale di Formula Uno che solo un incidente maledetto gli aveva negato. A Viktor Brumel vorrei dire che il suo attaccamento alla disciplina paterna vale anche per il quasi coetaneo Roberto. Cosa pensate che abbia scelto

questo povero Roberto (Azzaro), che salta in alto come mamma Sara (Simeoni) e papà Erminio (Azzaro), lui doppio figlio d’arte? Non vorrei poi stare a tavola in casa Cagnotto, neppure nei giorni di festa: tra

Qui sotto, Valerij Brumel. Sopra, Paolo e Cesare Maldini. In alto, Jacques Villeneuve, che non ha raggiunto la popolarità del padre Gilles

E a proposito di leggende: anche il Diego Armando Maradona junior, nato dalla fugace unione del vero Dieguito con Cristiana Sinagra, credo sia definitivamente eclissato in serie minori del nostrano calcio, a dimostrazione, questa volta, della fallibilità dei cromosomi o, forse, a dimostrazione che quello della maestria calcistica è di carattere recessivo e non si trasmette poi così facilmente. E di figli di papà calciopedatori famosi si potrebbe fare una sorta di nazionale. Resta però davvero incredibile quanto voluto da una dolce fanciulla, di nome Laila, ha cercato di emulare il padre, come alle femminucce spesso capita, ma, attenzione, il papà è stato davvero un grande. Il nome? Muhammad Alì o ancor meglio Cassius Clay.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “Times” del 27/12/2009

Liu, il prezzo della libertà di Jane Macartney l giorno di Natale dell’anno 2009, il governo cinese ha emesso la sentenza più dura mai stabilita da un giudice negli ultimi venti anni per crimini legati alla sovversione. Una Corte del popolo di Pechino ha infatti condannato a undici anni di galera uno dei più famosi dissidenti del Paese, una sentenza che ha provocato la condanna unanime della comunità internazionale. Liu Xiaobo, professore universitario e promotore di Charta ’08, è rimasto in silenzio davanti ai giudici della Corte intermedia del popolo n° 1, mentre questi lo dichiaravano colpevole di “incitazione alla sovversione dei poteri dello Stato”. Liu ha organizzato una petizione che chiede al governo cinese il rispetto dei diritti umani, diritti riconosciuti nella Costituzione di Pechino e nei trattati internazionali da questo firmati. Il verdetto di colpevolezza è una conclusione logica e normale, per un Paese dove le prove non sono necessarie - se i giudici hanno sentito abbastanza per farsi un’idea dell’accusato - e dove i verdetti per i casi “sensibili”sono decisi dal Partito comunista. Soltanto la severità della pena comminata è stata messa in dubbio. A Liu, che ieri ha compiuto 54 anni, non è stata data la possibilità di rispondere alle accuse; ma ha detto alla moglie che è pronto per presentare appello. Beichan, uno dei blogger più conosciuti dell’Impero di Mezzo, ha scritto sul suo diario virtuale: «Il Mandela della Cina è nato questo Natale». I manifestanti (a dire la verità un manipolo) che si erano riuniti fuori dal tribunale per ascoltare la sentenza di Liu sono stati allontanati dalla polizia. I crimini di Liu consistono nell’aver pubblicato sei articoli su internet (uno sul servizio cinese della Bbc) e aver organizzato Charta ’08, una petizione ispirata a quella Charta ’77 dei dissidenti

I

del movimento anti-comunista nell’allora Cecoslovacchia. Circa 10mila persone hanno firmato questa ri-edizione moderna della Charta. Fra le richieste inserite nella petizione c’è, ironia della sorte, l’abolizione della legge sulla sovversione. Nel testo si legge: «La Cina dovrebbe smetterla di considerare le parole e le opinioni come dei crimini». A Liu è stato permesso di parlare con la moglie per dieci minuti, dopo il pronunciamento del verdetto. Liu Xia, un’artista che non si è mai interessata troppo all’attivismo politico del marito, ha detto al Times: «Sia io che Xiaobo eravamo mentalmente preparati al verdetto che è stato deciso. E per questo, siamo calmi». Alla moglie del dissidente è stato permesso di entrare nel tribunale soltanto dopo il processo, che si è svolto lo scorso mercoledì per un totale di due ore. Insieme a due altri velocissimi incontri, uno in gennaio e uno in marzo, è stata la prima volta che ha potuto vedere il marito dopo l’arresto, avvenuto l’8 dicembre. Erano passate poche ore dalla pubblicazione di Charta ’08. Liu Xiaobo, spiega la moglie, aveva preparato una lunga e appassionata difesa.

Ma non gli è stato permesso di leggerla, dato che il tempo a sua disposizione era pochissimo. Alcuni amici, presenti durante il procedimento, hanno raccontato che Liu ha detto ai giudici: «A darmi forza e sostegno per venti anni è stato l’amore della mia Liu Xia». Lei, prima del verdetto, ha cercato

di sorridere ogni volta che incontrava lo sguardo del marito: «Così avrebbe potuto forse sentirsi un poco meglio». Dopo aver sostenuto il movimento democratico di piazza Tiananmen, nel 1989, Liu è tornato in Cina ed ha iniziato a criticare con forza il sistema mono-partitico dominato dai comunisti. Il suo caso ha riscosso un appello comune emesso dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Gregory May, diplomatico statunitense, ha detto fuori dal tribunale: «Continuiamo a chiedere al governo della Cina di rilasciarlo immediatamente, e di rispettare i diritti di tutti i cittadini cinesi, che devono essere liberi di esprimere pacificamente le proprie opinioni politiche». Mentre Navi Pillay, Alto commissario Onu per i diritti umani, ha definito il verdetto «una pesante ombra» sull’impegno espresso da Pechino a favore dei diritti umani. Secondo la Pillay, «la durissima condanna di Liu ha ristretto una volta di più la libertà di espressione in Cina». E Angela Merkel, cancelliere tedesco, ha concluso: «Deploro il fatto che la Cina, nonostante faccia grandi progressi in altre aree, sia ancora pesantemente contraria alla libertà di opinione».

L’IMMAGINE

La Corte costituzionale è sbilanciata: 11 membri tifano per la sinistra e 4 per la destra La sinistra dice di non attaccare le istituzioni ma demonizza il premier Berlusconi e colpevolizzò i capi di Stato Segni, Leone e Cossiga. Assimila la magistratura all’arbitro calcistico: non va criticato, neppure se sbaglia. Però l’arbitro risulterebbe contestabile, se appartenesse alla tifoseria d’una squadra. I magistrati rischiano d’apparire parziali, nel caso di divisione in correnti, nonché partecipazione attiva e sistematica al dibattito politico e partitico, pure nei media. Parte dell’ordine giudiziario ha condizionato la vita dei governi di destra e sinistra, da Tangentopoli in poi. Il pm Di Pietro disse di Berlusconi: «Io quello lo sfascio». Dal 1992 ad oggi i capi dello Stato hanno nominato giudici orientati a sinistra. Nei fatti, la Corte costituzionale è attualmente sbilanciata, perché 11 membri tifano per la sinistra e solo 4 per la destra. I magistrati e i giudici non vengono eletti dal popolo. Berlusconi si limita a evidenziare tali realtà oggettive. Egli è un realizzatore carismatico ed efficiente, amato da molti e odiato da pochi.

Gianfranco Nìbale

LETTERA APERTA A BERLUSCONI Onorevole presidente del Consiglio, come noto, la custodia cautelare - secondo quanto recita il codice di procedura penale - può essere disposta solo se si verifica una delle seguenti possibilità: pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga, pericolo di reiterazione di reati. Nel caso dell’aggressione nei Suoi confronti, non mi sembra che nessuna di queste esigenze cautelari giustifichi la detenzione in carcere di Massimo Tartaglia. Chi potrebbe ragionevolmente pensare, infatti, che questi, una volta rilasciato, possa inquinare le prove (a meno che non si voglia dar credito alla teoria del complotto), scappare in Sudamerica o ritentare il lancio sulle zucche altrui

di modellini del Duomo o del Colosseo? E allora perché, Presidente, Lei, che ha sempre affermato di fare del garantismo una bandiera e un motivo di vanto, non compie un gesto di grande valore simbolico chiedendo alla magistratura di rilasciare il Suo aggressore? Con osservanza,

Sempre insieme Che mondo sarebbe, senza gli amici? Per lo storno europeo si tratterebbe di una vera tragedia. Questo uccello, infatti, è un vero compagnone, e trascorre l’intera giornata nella sua “famiglia allargata”, formata da centinaia di esemplari. Insieme agli amici di volo migra, caccia e si nutre. Li abbandona soltanto per motivi di cuore, quando deve corteggiare la partner

Luca Tedesco

UN’AFFERMAZIONE CHE FA RIFLETTERE Le parole del premier mi giungono laconiche. Affermare che il calore, opportunamente conferitogli da tantissima gente dopo la violenza subita, lo spinge a continuare il suo mandato, significa che qualche limite lo si era anche posto, perché non si può fare finta di niente se gli at-

tacchi alla politica costruttiva convergono sempre in un punto. Il senso del bene comune traspare dal suo atteggiamento ed è oltremodo giusto, che tale situazione si possa misurare attraverso l’affettività risultante dei cittadini... Ma non basta. Occorre che in Italia ci si renda conto che le nostre arretratezze e le varie immobilità dipendono da atteggiamenti fissi e atavici e

non da capacità tecniche, politiche o imprenditoriali.

Gennaro Napoli

RUOLI PARITETICI La destra ha cercato, più intelligentemente di altri, di rimuovere la componente negativa del conservatorismo classico che ha costituito nella storia la sua repentina ascesa e la sua rapida discesa, visto che l’epoca moderna ha

imposto, con il crollo di tutti i totalitarismi, la spinta della società verso un futuro più liberista e umanitario. La sinistra, invece, rivela nella sua tortuosità, proprio una concezione di assolutismo, che deriva da tante brutte copie della socialdemocrazia sovietica, che neanche con Putin è riuscita ad assumere un ruolo paritetico con le democrazie occidentali.

Bruno Russo


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

…mentre il cuore ti afferma il contrario Vuoi che ti doni qualcosa che mi appartenga da tempo e di cui mi servo. Ci ho pensato. Ti porterò il mio fermacarte e due piccole saliere di smalto in cui metto il polverino e la ceralacca. Hanno il merito di aver passato lunghi giorni sulla mia tavola. Questi oggetti sono stati i testimoni muti di tante ore solitarie della mia vita. Che ora siano per te. Quando scriverai, ti ricordino il tuo amico. Sai che se volessi atteggiarmi a incompreso mi sarebbe facile? Nel tuo bigliettino mi dici di esser sicura che non ti ho mai amato, mentre il cuore ti afferma il contrario. Perché questa menzogna che ti dici da sola? Quando miguardi, non vedi che io ti amo? Andiamo, sorridi, dammi un bacio. Non volermene più se ti parlo di Shakespeare invece che di me. Mi sembra che sia più interessante, ecco tutto. E di che si dovrebbe parlare ancora una volta se non di ciò che è la preoccupazione esclusiva del nostro spirito? Per conto mio, non so come fanno a vivere quelli che sono, da mattina a sera, in uno stato estetico. Ho goduto più degli altri le gioie della famiglia, quanto un uomo dlla mia età le gioie dei sensi, più di molti quelle dell’amore, ebbene mai nessuno mi ha dato più diletto dei morti illustri di cui leggevo o contemplavo le opere. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

STAGIONE VENATORIA E TERMINI MASSIMI Dopo esser state sconfitte alla Camera, le lobby dei cacciatori ci riprovano ancora, presentando al Senato tre emendamenti al provvedimento As n. 1781, Comunitaria 2009, in discussione nella Commissione politiche dell’Unione europea. Invece di rispondere alle infrazioni comunitarie in materia di caccia, si va nella direzione opposta, cancellando i termini massimi per la stagione venatoria. Qualora questi emendamenti dovessero essere approvati, si configurerebbe un netto peggioramento della situazione di infrazione italiana, e un vero e proprio caos normativo e di contenzioso sicuramente deleterio e di cui non si sente alcuna necessità. Speriamo si possa scongiurare l’approvazione di questi emendamenti che per favorire una volta di più le lobby della caccia, rischiano di mettere ulteriormente il nostro Paese in conflitto con i richiami comunitari e, paradossalmente, proprio in forza di un provvedimento nato con l’intento di mettersi in regola con l’Unione europea.

Donatella

VIAGGI TUTTO COMPRESO Viaggi e vacanze in vista per il nuovo anno. I viaggi organizzati sono comodi, basta una firma e tutto è a posto o quasi. Abbiamo predisposto un elenco di consigli per i turisti che si affidano alle agenzie: leggere attentamente il depliant: oltre alla pubblicità ci devono essere scritte le condizioni genera-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

29 dicembre 1964 Giuseppe Saragat presta giuramento come quinto presidente della Repubblica italiana 1971 Giovanni Leone presta giuramento come sesto presidente della Repubblica italiana 1975 Una bomba esplode all’aeroporto La Guardia di New York, 11 vittime 1978 In Spagna entra in vigore la nuova Costituzione approvata dalle Cortes 1989 Ad Hong Kong scoppiano delle rivolte dopo che il governo decide di rimpatriare con la forza i rifugiati vietnamiti 1992 Fernando Collor de Mello, presidente del Brasile, si dimette in seguito alle accuse di corruzione 1996 Il governo del Guatemala e i capi dell’Unione rivoluzionaria guatemalteca firmano un accordo di pace che pone fine a 36 anni di guerra civile 1997 Hong Kong: a causa di una epidemia di influenza, vengono uccisi oltre un milione di polli 1998 I capi dei Khmer Rossi chiedono scusa per il genocidio in Cambogia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

li del contratto. Se non ci sono, eliminate quel tour operator o agenzia di viaggi. Farsi rilasciare copia del contratto con timbro e firma. Se l’agenzia vuole rilasciare solo la ricevuta della caparra, non firmate il contratto. L’anticipo o caparra non può superare il 25% del prezzo totale. Il saldo va effettuato 30 giorni prima della partenza, non prima. Nei casi invece in cui sia inadempiente il tour operator, il consumatore può recedere e pretendere il doppio della cifra. Controllare le ipotesi di aumenti previste dal contratto o dal depliant. Se non sono scritte, diffidate. In ogni caso gli aumenti non possono superare il 10% del valore originario del viaggio. Se improvvisamente non si può partire è possibile essere sostituiti, almeno quattro giorni prima del viaggio, o si può pagare la penalità. La penalità per i voli di linea è diversa dai voli speciali. Queste notizie devono essere riportate nel contratto. L’agenzia o il tour operator devono avere un’assicurazione per la responsabilità civile verso l’utente, che deve essere indicata nel contratto. Se, prima del viaggio, ci sono delle variazioni significative della vacanza (es: cambio della categoria dell’albergo, slittamento di più giorni della partenza), il contratto può essere annullato dal turista o si può scegliere una altra vacanza, anche più costosa, senza che questo comporti un aumento di prezzo. Se le variazioni avvengono durante il viaggio il tour operator deve rifondere la differenza di costo.

Primo Mastrantoni

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

IL COSMO (DEL MILITANTE) SUL COMÒ Ho avuto l’occasione di dibattere, come moderatore, con Marcello Veneziani alcuni temi d’attualità, in occasione di una manifestazione culturale ospitata dalla provincia di Pordenone e legata al ventennale della caduta del muro di Berlino. È stato inevitabile soffermarci sul fatto che in questi vent’anni il mondo è cambiato radicalmente, tranne che il Sud d’Italia. Veneziani ha lanciato una provocazione all’on. Brunetta e al governo e cioè l’iniziativa di un nuovo sbarco dei Mille. Si riferiva a una task force di funzionari e di dirigenti che, in qualche modo, pongano rimedio a una classe dirigente decisamente più immorale e corrotta rispetto al Nord. Il perno essenziale del ragionamento era che l’immoralità della classe dirigente meridionale è fondata dal fatto che, per mille motivi storici, culturali e politici, è formata non in base al merito ma da un sistema storicamente consolidato di cooptazione. Il tutto aggravato dal fatto dell’esistenza delle regioni e delle autonomie locali, che ne ha potenziato e moltiplicato l’effetto negativo. A mio avviso invece le cose non stanno così. Il sistema della cooptazione è ormai da tempo diffuso anche al Nord. La politica e il clientelismo è parimenti invadente, come l’effetto della sindacalizzazione protezionistica dei contratti collettivi eccessivamente garantisti e tutt’altro che diretti verso il merito e l’efficienza. Se nel Nord tutto questo, di per sé negativo in assoluto, esplica effettivi sociali, per il momento, minori, evidentemente la ragione è prima di tutto ambientale. Infatti la burocrazia al Nord è comunque in prevalenza composta da meridionali. Se il livello medio morale è più alto, è semplicemente perché operano in un ambiente più orientato, nelle piccole come nelle grandi cose, al rispetto delle regole. Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, per le statistiche del ministero degli Interni, sono le regioni con una media più alta di diffusione del rispetto delle leggi. Eppure in Friuli, la burocrazia è sicuramente in prevalenza non friulana. E tra l’alto gli episodi di corruzione più eclatanti non hanno coinvolto funzionari meridionali. Per questo ritengo che qualsiasi formazione politica che voglia emancipare definitivamente il Sud deve porsi il problema fuori dal coro e da luoghi comuni d’abitudine in tema di “legalità”. E tanto meno porsi su piano giacobino-dipietrista. Deve essere essa stessa fattore di educazione non nelle parole ma nei comportamenti quotidiani. E ai suoi iscritti, regalare con la prima tessera un libriccino di poche pagine come Cosmo del militante da tenere sul comò a portata di mano: Partiti e l’educazione della nuova Italia di F. De Sanctis. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.