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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 30 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«Le manifestazioni dell’opposizione sono una mascherata organizzata da americani e sionisti», tuona il tiranno in difficoltà
Teheran sfida il mondo
Ahmadinejad minaccia Londra e Washington, poi scatena i pasdaran contro la rivoluzione dell’Onda Verde: oggi nella capitale sfileranno le milizie. E la polizia arresta Nushin Ebadi di Enrico Singer
Abraham Yehoshua, controcanto da Israele
«Ma qui la pace è possibile. A piccoli passi»
«La road map tra Est e Ovest è congelata ma non è morta. Nei Territori, i palestinesi dovrebbero ”proteggere” i coloni, mentre gli israeliani dovebbero impedire nuovi insediamenti» di Antonio Picasso
HAIFA. «L’unico vero problema è quello degli insediamenti nel West Bank e a Gerusalemme Est. A tutti gli effetti, non c’è nient’altro che faccia da ostacolo al processo di pace». Lo scrittore israeliano, Abraham Yehoshua, è categorico nel sintetizzare un problema che va avanti da oltre sessant’anni e nel riportarlo a un’unica soluzione. Il narratore e drammaturgo israeliano è famoso in tutto il mondo per le sue opere che trasmettono un messaggio di tolleranza interreligiosa. Yehoshua parla osservando il tramonto che fugge velocemente dietro i palazzi di Haifa. Davanti a noi un sole di fine dicembre comunque caldo delinea la skyline di questa città che riesce, al contrario di molte altre in Medio Oriente, a far convivere ebrei, musulmani, cristiani e drusi. L’ottimismo di Yehoshua contrasta con il trend di questi ultimi mesi. È solo dell’altro giorno la decisione del Ministero dell’Interno israeliano di concedere il nulla osta per la costruzione di altre 700 abitazioni a Gerusalemme Est. La scelta appare arbitraria e non potrà che riaccendere le polemiche in seno all’Autorità Palestinese. Senza contare che è stata contestata dalla setssa amministrazione Obama. Il vigore ottimistico dello scrittore israeliano tuttavia è forse ispirato proprio dall’esempio di tolleranza che gli viene offerto da Haifa.
anno arrestato anche Nushin Ebadi, la sorella di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace che proprio ieri liberal ha indicato come donna dell’anno, simbolo della rivolta democratica. Hanno lanciato nuove minacce all’Occidente e hanno promesso un «pugno in bocca» a Londra. E per oggi hanno organizzato una manifestazione inquadrata dai pasdaran che dovrebbe dimostrare la forza del regime. Così Teheran lancia la sua sfida al mondo.
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IL REGIME ALLO SBANDO
LA TIMIDEZZA DELLA FARNESINA
L’ANTITERRORISMO DEBOLE
Sta per nascere un nuovo leader
Roma, silenzio colpevole
E in America torna la paura
di Gennaro Malgieri
di Giancristiano Desiderio
di Daniel Pipes
a sorella di Shirin Ebadi è stata arrestata. È stato arrestato anche IbrahimYazdi, il primo ministro degli Esteri nel 1979 di Khomeini. Nei giorni scorsi il nipote di Moussavi, principiale oppositore di Ahmadinejad, è stato assassinato. La fondazione dell’ex-presidente Mohammed Khatami, ideologo della modernizzazione iraniana, è stata devastata.
Onda verde di Teheran è più lunga e “anomala” di quanto non immaginiamo. Il regime del sanguinario Ahmadinejad, coperto chissà ancora per quanto da Alì Khamenei, fa la voce grossa nei confronti di Londra e grida al «complotto internazionale». New York, Londra e Parigi protestano rumosorsamente: mentre l’Italia resta timida.
l semisuccesso conseguito dal 23enne Umar Farouk Abdulmutallab nell’innescare un esplosivo il giorno di Natale dovrebbe aprire gli occhi dell’opinione pubblica americana sul deplorevole stato del controterrorismo otto anni dopo gli attentati dell’11 settembre. Non basta l’ottimismo di Janet Napolitano a scacciare la paura.
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I QUADERNI)
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Dopo la crisi, il prezzo del petrolio farà risalire l’inflazione
Quanto ci costa il 2010 Gas, trasporti, assicurazioni : ecco tutti gli aumenti di Francesco Pacifico
Il caso delle ferrovie e la crisi dei monopoli
ROMA. Arriva un 2010 ca-
Ma una soluzione c’è: più concorrenza
rissimo. Se la recessione del 2009 ha frenato assieme livelli di domanda e offerta, nel 2010 la ripresa, con il suo basso plus di attività, potrebbe portare non poche tensioni sui prezzi. E ravvivare uno spettro ormai dimenticato come quello dell’inflazione. Utenze, trasporti, servizi bancari e assicurativi fino al canone Rai: sono tante le voci in salita nei bilanci delle famiglie.
uando ci si interroga su quali saranno i probabili aumenti che verranno a colpire il reddito reale di tanti italiani, è fatale che l’attenzione si orienti immediatamente sui troppi monopoli e, di conseguenza, sulle mancate privatizzazioni e liberalizzazioni che l’Italia attende.La soluzione è lì: più concorrenza significa prezzi più ragiovenoli e soprattutto servizi migliori.
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• ANNO XIV •
NUMERO
256 •
WWW.LIBERAL.IT
di Carlo Lottieri
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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L’analisi. I maggiorenti del regime tramano contro l’opposizione e contro il tiranno sperando di sopravvivere alla protesta
Chi comanda a Teheran?
La guerra civile ormai coinvolge tutti i leader e tutti i poteri: nessuno si fida più di nessuno e i giovani sono lasciati a se stessi di Gennaro Malgieri a sorella di Shirin Ebadi è stata arrestata. È stato arrestato anche Ibrahim Yazdi, il primo ministro degli Esteri nel 1979 di Khomeini. Nei giorni scorsi il nipote di Moussavi, principiale oppositore di Ahmadinejad, è stato assassinato. La fondazione dell’ex-presidente Mohammed Khatami, ideologo della modernizzazione iraniana, è stata devastata. Quindici i morti accertati negli ultimi giorni, centinaia i feriti, incalcolabile il numero degli arrestati. La rivoluzione contro il regime dei mullah ha le sue vittime, i suoi carnefici. Il volto di Neda campeggia in tutte le manifestazioni. Ad esso si affianca quello di Alì Hussein Montazeri, anima del primo khomeinismo, morto in esilio a Qom poco più di una settimana fa. Il presidente del
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È tra i giovani rivoluzionari che dovrà nascere un nuovo leader per il Paese: una figura in grado di conciliare la storia e l’identità iraniana con i prinicìpi della religione Majilis, Larijani, si appella a Moussavi e a Karrubi perché facciano cessare i moti di piazza: richiesta che è impossibile accogliere. L’Iran è esploso. È guerra civile a Teheran, a Shiraz, a Isfahan, a Tabriz. Il regime trema. Nessuno ha più paura di dire apertamente e a squarciagola ciò che fino a qualche tempo fa veniva sottaciuto: «Khamenei assassino, la tua leadership è illegittima». Nel mirino c’è, naturalmente, il fantoccio della Guida Suprema: Ahmadinejad, l’usurpatore, il truffatore, il tiranno.
Dopo sei mesi dalle elezioni l’Iran è ingovernabile. E nella sua dabbenaggine politica, il presidente non tenta neppure un accomodamento con gli oppositori. Manda avanti i delinquenti in divisa da pasdaran e da basiji con il mandato di stroncare giovani vite, di minacciare i loro familiari, di chiudere giornali e radio, di creare un clima di terrore del quale lui stesso, con i suoi sgherri, sarà la vittima più illustre, do-
Ora Frattini batta un colpo La solidarietà aiuta la rivoluzione di Giancristiano Desiderio Onda verde di Teheran è più lunga e “anomala” di quanto non immaginiamo. Il regime del sanguinario Ahmadinejad, coperto chissà ancora per quanto da Alì Khamenei, fa la voce grossa nei confronti di Londra e grida al «complotto internazionale». Il presidente Obama, infatti, ha condannato con fermezza la repressione in Iran, altrettanto ha fatto la Francia, mentre il governo londinese non si è per nulla lasciato intimorire.
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Una sola cosa è certa: la forza, spirituale e materiale, dell’Onda verde dei giovani che a Teheran stanno facendo la Storia della loro patria - perché è chiaro a tutti che non è certamente Ahmadinejad l’autore della storia contemporanea iraniana - sarà più forte e resistente se i governi del mondo democratico faranno sentire la loro voce. È davvero un peccato che al momento la voce italiana non si sia fatta sentire con altrettanta decisione e convinzione come hanno fatto Stati Uniti, Francia, Inghilterra. Eppure, proprio l’Italia, diciamo dalla data simbolo dell’11 settembre 2011, è tra quei Paesi che più hanno creduto alla necessità di una sfera mondiale della democrazia più ampia possibile come migliore risposta al pericolo del terrorismo e del fondamentalismo. Gli equilibri internazionali sono sempre delicati e si fondano su un intreccio, a volte palese a volte più opaco, di interessi economici e relazioni diplomatiche consolidate nel tempo. Anche il nostro Paese ha un suo ruolo internazionale e cura i suoi legittimi interessi ora commerciali ora energetici. Nessun interesse, per quanto lecito e cospicuo, può però minimamente mettere in ombra il sacrificio grande e umanissimo che l’ultima e più giovane generazione iraniana sta consumando non solo sull’altare della vita pericolosa e poliziesca di Teheran, ma sullo scacchiere inpo Khamenei, naturalmente. Sarà questo, infatti, lo sbocco inevitabile della nuova rivoluzione iraniana, trent’anni dopo quella che riportò il clero sciita al potere ed alla cacciata dello Shah. Non ci sarà un Kapuscinski a documentarla, ma i pochi giornalisti occidentali che con difficoltà la seguono ed i tanti occidentali che la guardano in diretta attraverso Facebook e Twitter, capiscono che non è l’islamismo, per quanto da nessuno uffi-
ternazionale e al cospetto del mondo e delle sue televisioni. Quanto sta accadendo in Iran è qualcosa che per la sua quantità e per la sua qualità è destinato a modificare in un modo o nell’altro il regime teocratico di Teheran e volendo usare il parametro del realismo e del tempismo, piuttosto che quello dei valori e dei diritti, è bene che l’Italia faccia sentire ora e non dopo la sua voce con maggior nettezza. Le parole del ministro Frattini - per esser chiari - sembrano poca cosa al cospetto della “rivoluzione verde” di Teheran. Anche le proteste che ci sono state e che continuano a Roma, in via Nomentana, davanti ai cancelli dell’ambasciata della Repubblica Islamica, chiedono un sostegno. «Morte al dittatore» dicono i giovani iraniani in Italia, ma altrettanto si dice a Teheran. La lotta politica e morale ha ormai superato la linea del non ritorno e la rivoluzione potrà cessare solo con una repressione sanguinaria o con la fine del regime di Ahmadinejad.
Tuttavia, l’Onda verde sembra aver fatto breccia in quella classe media dell’Iran che può decidere ora più che mai il destino di un Paese diventato così importante negli equilibri mediorientali. Il regime teocratico iraniano è in forte difficoltà non perché, come ripete Ahmadinejad, ci sia un “complotto” ordito fuori dall’Iran, ma perché la spinta e la speranza per la conquista del miglioramento e della libertà vengono dal cuore giovane di Teheran. È bene che questa speranza abbia il sostegno anche del governo di Roma.
cialmente ripudiato, a guidare i rivoltosi, ma il nazionalismo iraniano. Il regime degli ayatollah aveva fino a poco anni fa rappresentato un forte sentimento della nazione coniugandolo con la religione musulmana.Venuto meno il primo, è fa-
tale che cada con esso il secondo. Gli iraniani vogliono riappropriarsi della loro storia, della loro cultura e della loro libertà. Quando accolsero Khomeini di ritorno dal lungo esilio parigino resero omaggio all’eroe della nazione che non si era prostituita agli interessi stranieri. Oggi Ahmadinejad e Khamenei hanno sposato la causa del terrorismo internazionale e difendono una casta corrotta, perciò hanno tradito l’Iran. Al fine di imporre la loro volontà hanno cancellato l’essenza dell’islamismo e dunque l’identità nella quale il popolo per trent’anni s’è riconosciuto. La religione è divenuta nelle loro mani lo strumento per legittimare la repressione, quando invece i padri dei ragazzi che oggi manifestano la consideravano come l’arma più potente per ottenere la liberazione. È stato questo l’errore fatale del regime. Montazeri l’aveva capito, perciò nel 1989 fu costretto a levare le tende e a riparare nella città santa di Qom. La nazione e la religione dovevano e potevano stare insieme: dividendole il clero sciita di stretta osservanza si è giocato il ruolo che aveva. Ed è uno degli sconfitti che ancora crede, tuttavia, nella possibilità di Khamenei di riprendere nelle sue mani la situazione aizzando il burattino che ha fatto eleggere.
Ma i mullah sanno che i primi ad essere spazzati via dall’onda che monta saranno proprio loro. Chi li difenderà? Forse i riformisti che hanno avversato, anche quelli che facevano parte del clero come Khatami? S’illudono. La gente sa
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Gli Stati Uniti hanno dato legittimità al regime teocratico
Abbiamo perso un anno (per colpa di Obama) La politica del “dialogo” voluta dalla Casa Bianca è fallita. Adesso dobbiamo incoraggiare i dissidenti di Charles Krauthammer artedì scorso, Mahmoud Ahmadinejad non ha semplicemente fatto spallucce alle irresponsabili aperture di Obama sul termine ultimo per trovare una soluzione circa la questione del nucleare. Ci ha letteralmente sputato sopra, affermando che l’Iran «continuerà a resistere» fino a quando gli Stati Uniti non si saranno sbarazzati delle 8.000 testate nucleari da loro possedute. Così cala il sipario sul 2009, l’anno del cosiddetto “impegno”, della mano tesa, delle scuse gratuite e delle centrifughe in azione, dei razzi a due stadi e dell’installazione segreta per l’arricchimento dell’uranio che ha consentito all’Iran di muovere sostanziali passi in avanti verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare. Abbiamo perso un anno. E non un anno come tanti altri. Sono stati dodici mesi di opportunità gettate copiosamente al vento. In Iran, quello che volge alla conclusione è stato un anno di rivoluzione, iniziato con delle elezioni contestate e culminato questa settimana con grandi manifestazioni per commemorare Montazeri e per chiedere non già il riconteggio dei voti, bensì il rovesciamento della dittatura teocratica. Obama ha risposto prendendo le debite distanze da questo rinnovato anelito di libertà. Prima uno scandaloso silenzio. Poi qualche dichiarazione a denti stretti. Infine l’imperterrito dialogo con il regime assassino. Con offerte su offerte, gesti su gesti - non nei riguardi dell’Iran, ma della “Repubblica Islamica d’Iran”, come Obama ha sempre, e rispettosamente, definito quei fascisti travestiti da religiosi - gli Stati Uniti hanno conferito legittimità ad un regime che di un qualche riconoscimento nutriva il disperato bisogno.
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che la corruzione e la repressione hanno avuto il supporto teologico delle madrasse dove imam abietti predicavano l’odio e non li perdoneranno. Si salveranno, come hanno sempre fatto, in virtù del potere economico che detengono, i bazarì che potranno contribuire alla ricostruzione dell’Iran, ma molti pagheranno a caro prezzo i ricchi oboli versati agli ayatollah. Riformisti, conservatori, rivoluzionari, affaristi: s’intrecciano e si affrontano tutti. È una guerra civile anomala quella che si sta dispiegando a Teheran. Nel palazzi del potere si fanno calcoli e quelli di Khamenei non tornano. Come non tornano neppure quelli di Karrubi, di Moussavi, di Khatami. Ognuno sa di dover pagare un prezzo. Presto potrebbe non esserci più un potere riconosciuto. E i giovani dell’Onda Verde non sapranno a quale leader votarsi. Su questa prospettiva lavorano, forse con un ottimismo mal riposto, i capi militari dell’esercito, dei pasdaran , dei basiji che hanno dalla loro le armi da usare al momento opportuno. Potrebbe venir fuori dal vuoto politico una giunta militare. Sarebbe l’esito peggiore della rivoluzione.
I possibili nuovi padroni potrebbero ottenere la legittimazione in quanto possessori dell’arma nucleare da far valere all’esterno e all’interno. A quel punto anche i mullah più riottosi dovrebbero sottostare alla legge della forza bruta. Difficile dire, in uno scenario siffatto, che fine farebbero i giovani che stanno animando la rivolta. Ma sarebbe impensabile una normalizzazione come quella che seguì
trent’anni fa all’avvento del khomeinismo. Oggi i rivoltosi dispongono di una rete di sostegno e di complicità internazionali – ancora troppo timide per quanto riguarda quelle offerte dai governi occidentali – che potrebbero giocare un ruolo tutt’altro che marginale nella vicenda. L’ideale sarebbe che Khamenei, spintosi troppo il là nel sostenere Ahmadinejad, indicesse nuove elezioni legislative e presidenziali. Sarebbe la sconfessione di se stesso, ma salverebbe l’Iran ed avvierebbe un processo di democratizzazione che in parte lo riscatterebbe dalle sue immani colpe. Ma non accadrà. Anche perché l’Iran è politicamente solo, o meglio in brutta compagnia: Hamas, Hezbollah, Al Qaeda. Nessuno degli amici del regione dei mullah permetterebbe che una nuova leadership ritirasse gli appoggi di cui godono i padroni del terrore. Perciò sembra che l’Iran non abbia una via d’uscita. E invece dall’Iran ci si deve attendere di tutto. Perfino che tra i giovani rivoluzionari emerga una nuova figura, che neppure immaginiamo, di leader. Non sarà un Grande Ayatollah, né un militare ambizioso capace di farsi proclamare Shah in Shah, re dei re, ma qualcuno che sappia parlare al popolo e reinventare la nazione iraniana senza rinnegare l’Islam. Lo stanno cercando nelle università e negli internet café, nel bazar e sulle lunghe strade che hanno visto i trionfi del potere assoluto, laico e religioso, nell’ultimo mezzo secolo. Ci vorrà tempo. Intanto scorrerà ancora sangue, ma il vecchio regime non si risolleverà più.
dice segreto fatto di piccoli colpetti sulle pareti. Essi compresero di non essere soli, compresero che l’America sarebbe stata al loro fianco.
Invece Obama si è tenuto così in disparte che nel Giorno dell’Odio Antiamericano (il 4 novembre, anniversario dell’assalto all’ambasciata statunitense a Teheran), i contro-manifestanti proUsa hanno urlato «Obama, Obama, o stai con noi o con loro». Tale fredda indifferenza costituisce un tradimento dei nostri valori; una bestialità strategica di prim’ordine. Dimenticatevi i diritti umani. Supponiamo che l’unico problema che vi stia a cuore sia quello del nucleare. Come disinnescare la bomba? I negoziati hanno imboccato un vicolo cieco, e qualsiasi sanzione adottata dall’Onu risulterebbe debole, parziale, forzata e tardiva. L’unica, reale speranza è rappresentata da un cambiamento di regime. Come dovremmo agire, allora? Mediante pressioni dall’esterno ad esempio con tagli sulle forniture di carburante - atte a corroborare e sostenere quelle dall’interno.Tali azioni dovrebbero essere finalizzate non ad un cambiamento della politica nucleare dell’attuale regime (ciò non avverrà mai) ma a facilitare il cambiamento del regime stesso. Forniamo in segreto ai dissidenti quel sostegno di cui hanno bisogno per comunicare tra loro ed aggirare la censura, sulla scia di quanto avvenuto con, ad esempio, Solidarnosc in Polonia negli anni ’80. Ma di eguale importanza sarebbe anche un’incisiva retorica e un altrettanto forte sostegno diplomatico dai più alti livelli, allo scopo di denunciare a pieni polmoni la barbarie e le persecuzioni di cui si è macchiato il regime. Nello specifico portando alla luce casi concreti, come quando i leader occidentali fecero propria la causa di Sharansky e Sakharov durante l’ascesa di quel movimento dissidente che diede il proprio contributo alla disgregazione dell’impero sovietico. Questa rivoluzione avrà successo? Le probabilità sono poche, ma la ricompensa sarebbe immensa. Il suo effetto domino si estenderebbe dall’Afghanistan all’Iraq (in entrambi i conflitti, l’Iran sostiene attivamente gli insorti che da tempo ormai uccidono i soldati statunitensi ed i loro alleati) al Libano e a Gaza, dove gli amichetti di Teheran, Hezbollah e Hamas, si stanno preparando ad imbracciare le armi. In un modo o nell’altro, l’Iran dominerà il 2010. O vi sarà un attacco israeliano, o l’Iran giungerà - e varcherà - la soglia del nucleare. A meno che non intervenga la rivoluzione. Per questo, sarebbe imperdonabile non fare tutto quello che è in nostro potere per sostenere questa sollevazione popolare.
Sharansky ricorda l’effetto rivitalizzante che il discorso di Reagan sull’Impero del Male produsse in chi si trovava prigioniero nei Gulag
Perché tutto ciò è così importante? Per il semplice fatto che le rivoluzioni hanno successo in quel particolare momento, in quell’impercettibile distorsione storica, in cui il popolo, e soprattutto coloro che detengono il potere, comprendono quanto il regime abbia smarrito l’autorità divina. Per quale assurdo motivo Washington si è prodigata con tale costanza nel concedere affermazione ad una dittatura che di affermazione è alla disperata ricerca? Al di là dell’ostracismo e della delegittimazione nei confronti di questi moderni gangster, dovremmo incoraggiare i dimostranti ed infondere loro forza. Non sono discorsi banali. Se inseguiti, picchiati, arrestati e imprigionati, i dissidenti possono facilmente diventare preda dello sconforto e dell’isolamento. Natan Sharansky ricorda l’effetto rivitalizzante che il discorso di Ronald Reagan sull’Impero del Male produsse in quanti si trovavano prigionieri nei Gulag. Cella dopo cella, la notizia si diffuse mediante un co-
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Repressione. La polizia politica del regime per ritorsione contro le prese di posizione di Shirin Ebadi le arresta la sorella
Il giorno delle milizie
«L’opposizione è uno spettacolo che fa vomitare»: Ahmadinejad organizza una contromanifestazione con i manganelli contro l’Onda di Enrico Singer anno arrestato anche Nushin Ebadi, la sorella di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace che, proprio ieri, liberal ha indicato come donna dell’anno, simbolo della rivolta democratica e di tutte le donne musulmane in lotta per la libertà. Hanno lanciato nuove minacce all’Occidente e hanno promesso un «pugno in bocca» a Londra. E, per oggi hanno organizzato una manifestazione inquadrata dai pasdaran che dovrebbe dimostrare la compattezza del regime. È un attacco a tutto campo quello lanciato dalla dittatura di Ah-
Quei guardiani che ricattano come fossero ”normali” mafiosi
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Il capo del regime accusa «americani e sionisti di mettere in scena la carnevalata della protesta». E il ministro degli Esteri minaccia un «pugno in bocca» a Londra madinejad che ieri è arrivato a dire che le manifestazioni dell’opposizione non sarebbero altro che «una nauseante mascherata, una messa in scena organizzata dagli americani e dai sionisti».
È una prova di forza che cerca di mascherare le debolezze di un sistema di potere che è assediato dalle proteste e che è anche diviso al suo interno. Ma, nei fatti, alza ancora il livello dello scontro e lo porta ad
di Vincenzo Faccioli Pintozzi ooshin Ebadi non ha la grinta della sorella, quella Shirin che liberal ha incoronato donna dell’anno 2009. Nushin è una docente di medicina che non ha mai abbandonato l’Iran, non ha mai intrapreso attività politiche e si è sempre sottratta a ogni richiesta di intervista o di pubblico incontro. Nushin è una cittadina iraniana come tante altre, e come tante altre avrà anche lei le sue opinioni politiche. Ma, sempre come il resto dei suoi connazionali, se le tiene per sé. Eppure, Nushin è stata arrestata ieri l’altro dalle forze di polizia paramilitari fedeli al regime di Ali Khamenei e di Mahmoud Ahmadinejad. Proprio quei pasdaran che, nei gloriosi anni della Rivoluzione islamica khomeinista tesa ad abbattere una delle ultime monarchie assolute del mondo moderno, erano assurti agli onori della cronaca e alla pubblica ammirazione per la dedizione alla causa, il disprezzo del pericolo e l’orgoglio nazionalista che aveva in altri anni abbandonato la terra di Persia.
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Oggi, però, è arrivato il momento di ridare il giusto peso storico ai protagonisti di quella che, sempre di più, sta assumendo i contorni di una guerra civile. Ed è quindi lecito accostare gli ex eroi della Rivoluzione ai più spregevoli mafiosi dell’Italia degli anni Ottanta, ai sicari della Yakuza giapponese o ai membri delle fratel-
lanze segrete della Cina imperiale. In Iran assistiamo impotenti a vendette trasversali, a omicidi su commissioni, ad arresti eccellenti che cercano di mettere un bavaglio a quelle pochissime voci libere che ancora hanno la voglia di credere in un futuro migliore per Teheran. È fin troppo facile vedere oltre le manette ai polsi di Nushin il segnale alla più celebre sorella, premio Nobel per la pace e attivista per i diritti umani attualmente residente negli Stati Uniti: smettila di parlare di democrazia, lascia perdere l’appoggio all’Onda verde, pensa ai fatti tuoi.
L’arresto di Nushin segna un punto di svolta, perché non colpisce più i membri militanti del movimento democratico guidato da Mousavi e Karroubi: inizia a incidere anche sulla vita di semplici, onesti cittadini che portano addosso un marchio che il regime degli ayatollah valuta potenzialmente pericoloso. Da qui alle retate a casaccio, all’arresto di amici che si incontrano per chiacchierare, alla delazione retribuita il passo è molto breve. E se fino ad ora abbiamo assistito ad uno scontro di poteri che poteva sembrare interno – i leader sopracitati dell’Onda verde non sono propriamente dei campioni di democrazia, e non lo sono mai stati – gli arresti di ieri portano il segno un poco più in là. E stupisce che non lo capisca un governo che ha fatto della compattezza nazionale il proprio segno distintivo. Teheran ha sempre accusato le interferenze esterne per spiegare i disordini interni, e ha cercato il più possibile di riportare il proprio popolo sotto la bandiera islamica. Colpendo una donna del popolo, la seconda per ordine di clamore dopo la povera Neda, ha dichiarato in maniera inequivocabile che – una volta di più – il nemico è all’interno dei confini nazionali. Forse, però, i teocratici governanti iraniani non hanno capito che ormai quel nemico li ha circondati. E non può essere sconfitto.
una quota mai raggiunta finora. L’arresto di Nushin è stato annunciato dalla stessa Shirin Ebadi. «Mia sorella non fa politica, insegna medicina all’università di Teheran e l’hanno presa perché non possono colpire direttamente me», ha detto l’avvocatessa alla Cnn. Nushin, che ha 47 anni, è stata prelevata dalla sua abitazione da tre agenti e da una donna dei servizi segreti e portata in carcere. «Non so dove è detenuta né con quale accusa è stato giustificato l’arresto. La verità è che l’hanno arrestata per costringermi a mettere fine al mio lavoro. Lei non ha fatto nulla di male, non è coinvolta nelle mie attività in difesa dei diritti umani e non ha mai partecipato ad alcuna protesta», ha aggiunto Shirin Ebadi che ha lasciato l’Iran dalle elezioni presidenziali dello scorso giugno. All’ondata di arresti - sarebbero più di tremila le persone finite in carcere negli ultimi tre giorni - si aggiungono le intimidazioni. Anche il presidente del Parlamento, Ali Larijani, ha definito «controrivoluzionari» i manifestanti scesi in piazza e ha chiesto per loro «le pene più severe» invitando Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi, diventati i leader del movimento, a «tornare in sé».
Punta di lancia della repressione scatenata da Ahmadinejad sono, naturalmente, i pasdaran. E sono proprio i guardiani della rivoluzione che hanno annunciato dal loro sito Javan che oggi - quando in Italia saranno le 12,30 - scenderanno in piazza a Teheran i sostenitori del regime. Alla manifestazione hanno già aderito una serie di organizzazioni fi-
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Per Sergio Romano è in atto una guerra di potere e l’Occidente non ha armi reali per intervenire
«Addio ayatollah, è l’ora degli oligarchi» «Il regime di Teheran sta cambiando: l’Europa può solo osservare il caos» a spirale violenta contro opposizione e piazze cittadine continua in Iran.Arresti tra i membri dell’Onda verde e morti nelle strade fanno il paio con l’occhiuto controllo del web e dei mezzi di comunicazione. Sembra di rivivere i prodromi della rivoluzione del 1978-’79, quella khomeinista, ma di segno opposto. Una battaglia per il potere che non si gioca solo nelle strade. Abbiamo chiesto all’ex ambasciatore e storico Sergio Romano di tracciare i contorni degli avvenimenti iraniani. I leader dell’opposizione Moussavi e Karroubi ai domiciliari, i giovani iraniani uccisi negli scontri di domenica. Che cosa sta accadendo in Iran? Dobbiamo chiederci cosa stia accadendo all’interno del regime. Le passate elezioni hanno stravolto i rapporti di forza all’interno del regime sciita. Dalle presidenziali in poi la situazione è diventata, per certi aspetti, pre-rivoluzionaria, anche se poi potrebbe concludersi con il ristabilimento dell’ordine. Perché? Evidentemente l’opposizione si è rivelata più forte, più consistente, più rumorosa di quanto tutti – persino in Iran – si immaginassero. Ciò ha provocato una reazione contraria di chi non desidera il cambiamento del carattere autoritario del regime. Chi sono? Non mi sembra che siano gli ayatollah. Nel clero ci sono posizioni molto diverse, con molte presenze di leader religiosi anche nel campo dell’opposizione e in quello riformista. Ahmadinejad, ho l’impressione che sia diventato irrilevante. Noi continuiamo a pensare che l’Iran sia quello dell’attuale presidente, mentre probabilmente non è così. Anzi, sarebbe stato un interlocutore ideale per gli Usa, perché dopo la vittoria elettorale sembrava disposto a concludere un accordo.Aveva fatto delle dichiarazioni in tal senso. Il partito di chi non vuole le riforme si è organizzato in corso d’opera, dopo la contestazione delle urne. È formato in parte dall’establishment che non è ecclesiastico. Sono le generazioni dei veterani della guerra contro l’Iraq, durata dal 1980 all’88. È stata una guerra dura e sanguinosa. E come è accaduto altre volte nella
di Pierre Chiartano
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logovernative: dall’Associazione islamica dei commercianti, al Centro nazionale responsabile delle mosche, all’Istituto della propaganda islamica. I pasdaran hanno anche invitato i sostenitori del regime a riunirsi dopo la manifestazione di fronte alla casa del leader riformista Mir Hossein Mousavi per chiederne pubblicamente l’arresto in quanto «traditore dei principi della Repubblica islamica».È un invito che suona come un avvertimento lanciato a Mousavi. Gli stessi pasdaran hanno nuovamente accusato l’Occidente di sostenere l’opposizione interna. Secondo i guardiani della rivoluzione i media stranieri starebbero «conducendo una guerra psi-
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Basji e pasdaran: ora sono loro che contano e non il presidente Ahmadinejad. Sono la versione più brutale, fatte le debite differenze, dei kemalisti che conquistarono il potere in Turchia più di un secolo fa
storia, ha prodotto una generazione delle trincee, come l’avrebbe definita Mussolini. Cioè di veterani che hanno progressivamente conquistato posizioni di potere all’interno della società iraniana. Un potere più economico che politico. Controllano aziende importanti, controllano una parte del mercato dell’export e delle risorse naturali e non desiderano perdere le posizioni conquistate. A questo punto – ma faccio solo ipotesi – hanno anche deciso che il potere lo devono esercitare anche politicamente. Gli ayatollah dovrebbero esere solo gli strumenti del loro potere. È già intervenuto un mutamento genetico all’intermo del regime.
cologica» per rovesciare lo Stato islamico. «Chi ha architettato i disordini pagherà presto il prezzo della sua insolenza», si legge in un comunicato dei pasdaran in cui è anche scritto che «la sedizione nel Paese è arrivata alla sua fine».
Le frasi più violente sono quelle pronunciate dal presidente Mahmoud Ahmadinejad e riferite dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Per il capo del regime, le manifestazioni dell’opposizione sono una «nauseante mascherata promossa dall’estero: dagli americani e
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Un vera lotta interna? Si è aperta una contrapposizione in cui Ahmadinejad conta poco, i basij e i pasdaran, cioè i veterani della rivoluzione e della guerra irachena vogliono approfittare di questa occasione, non soltanto per conservare il potere, ma addirittura per consolidarlo e istituzionalizzarlo. Sono la versione più brutale dei “giovani turchi”, dei kemalisti quando conquistarono il potere in Turchia più di un secolo fa. Con le dovute differenze. Quelli erano laici, questi musulmani con un’altra formazione e provenienza sociale, però la partita che si sta giocando è simile. Per questo, che in Occidente ci si stracci le vesti sul rispetto dei diritti uma-
dai sionisti». Ahmadinejad ha affermato testualmente che «la nazione iraniana ha visto molte di queste mascherate, di queste carnevalate che sono uno spettacolo scritto da sionisti e americani, che ne sono gli unici spettatori. Si tratta di uno spettacolo che fa vomitare, ma quelli che l’hanno pianificato e quelli che vi hanno partecipato si sbagliano di grosso se pensano di colpire l’Iran». La tesi del complotto ordito all’estero, di Stati Uniti, Israele ed Europa che sarebbero i burattinai che muovono i fili della rivolta contro il regime è il motivo con-
Sopra e nella pagina a fronte, due immagini degli scontri di questi giorni in Iran. In alto, l’ambasciatore Sergio Romano. A sinistra, Shirin Ebadi: il regime ha arrestato sua sorella
ni è totalmente inutile. È un esercizio senza senso. E finanziare l’Onda verde? Non sapremo neanche chi finanziare. Si sta formando qualcosa che non vediamo, per via della chiusura del regime, che non conosciamo perché gli attori si celano dietro le quinte del potere. È solo una lotta di regime o c’è la variabile indipendente della popolazione, magari quella più giovane e urbana che va anche oltre le intenzioni dell’opposizione politica? Non c’è dubbio che i riformisti come Moussavi e Karroubi entrambi candidati perdenti alle elezioni, sanno di avere dietro una parte importante della società iraniana. Quella più giovane: la popolazione è formata dal 70 per cento di trentenni. Un punto contro il regime... Sì, nelle città, ma gli altri, nel Paese rurale, contano anche loro. Ci sono ceti sociali meno alfabetizzati che sono stati molto favoriti dal regime, con sussidi e previdenze. Ciascuno ha il suo popolo dietro. Tutti i discorsi che si fanno in Occidente suonano ridicoli, perché non tengono conto di una realtà che non possiamo neanche misurare, perché parliamo di un regime opaco. Non è una situazione libanese? No, perché lì parliamo di una suddivisione di tipo etnico e di natura diversa. In Iran è di tipo sociale, con leadership in formazione. Anche Moussavi e Karroubi dovranno modificare la loro strategia. È un’opposizione che guida o che segue la protesta? Probabilmente non lo sanno nemmeno loro. È un magma diverso da quello pre- elettorale. Non sappiamo ciò che sta accadendo.Vediamo solo che la protesta non cede, come nel 1978/’79. Allora tutto partì dalla riforma agraria dello Scià. Morti nelle piazze e commemorazioni alimentarono poi la rivolta. Oggi l’islam non è in discussione. Ne parlano più i manifestanti che i tenutari del regime. Europa e Occidente che devono fare? Possono solo stare alla finestra.
duttore che si ritrova anche in altre dichiarazioni ufficiali, non meno violente di quelle di Ahmadinejad. Anche il presidente del Parlamento, Larijani, ha detto che lla «mano tesa» offerta dal presidente americano, Barack Obama, negli ultimi mesi era soltanto «una mossa opportunistica per colpire gli interessi dell’Iran e dei musulmani».
«Un pugno in bocca» è la minacciosa promessa che il ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki, ha rivolto a Londra «se la Gran Bretagna non cesserà di dire stupidaggini sulla repressione delle proteste in Iran». Il capo della diplomazia britannica, David Mi-
liband, aveva definito «molto preoccupante» la «mancanza di autocontrollo» delle forze di sicurezza iraniane negli scontri che hanno insanguinato il giorno della festa della Ashura con un bilancio di almeno quindici morti e decine di feriti. Anche altri Paesi europei hanno espresso la stessa posizione con toni più o meno decisi e, tra questi, l’Italia non si è certo distinta per particolare fermezza. Secondo Mottaki «le dichiarazioni di alcune autorità straniere tradiscono le cose vergognose che hanno fatto. Finora non abbiamo reso pubblici i dossier sulle loro attività. Ma il popolo sa che cosa hanno fatto e quando». Un’altra minaccia.
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La polemica. Malgrado l’ottimismo della ministro degli interni Janet Napolitano, Washington ha abbassato la guardia
Il fallimento di Detroit
I servizi di intelligence americana hanno dimostrato falle incredibili in occasione del fallito attentato. Per questo negli Usa torna la paura di Daniel Pipes l semisuccesso conseguito dal 23enne Umar Farouk Abdulmutallab nell’innescare un esplosivo il giorno di Natale dovrebbe aprire gli occhi dell’opinione pubblica americana sul deplorevole stato del controterrorismo otto anni dopo gli attentati dell’11 settembre.
I
L’episodio ha visto coinvolto un nigeriano seduto al posto 19A – proprio sul serbatoio del combustibile, sopra l’ala e vicino al finestrino dell’aeromobile – del volo 253 della Northwest Airlines diretto da Amsterdam a Detroit. Come detto in sintesi dal Wall Street Journal, tutto è accaduto quando l’Airbus 330-300 con a bordo 289 passeggeri stava per atterrare a Detroit. Il giovane si era intrattenuto nella toilette del velivolo per una ventina di minuti e una volta tornato al suo posto ha detto di avere mal di stomaco, e si è messo addosso una coperta, secondo la denuncia del Ministero della Giustizia Usa. Quando il volo era in fase di atterraggio al Detroit Metropolitan Airport, prima di mezzogiorno, come dichiara la denuncia, Abdulmutallab ha innescato il dispositivo. I passeggeri hanno sentito dei ru-
Perché dopo i tanti “avvertimenti”, e dopo la denuncia del padre miliardario, nessuno ha controllato i movimenti e le intenzioni del futuro attentatore?
investigatori sono giunti alle conclusioni che solo un fortuito malfunzionamento ha impedito l’abbattimento dell’aereo della Northwest Airlines.
Il padre di Umar Farouk, Umaru Abdulmutallab, expresidente della First Bank of Nigeria, e uno dei più importanti uomini d’affari del suo Paese, di recente si è recato all’ambasciata Usa di Abuja per denunciare «le idee radicali e i contatti con gli estremisti» di suo figlio, inducendo la burocrazia statunitense a inserire il ragazzo in una lista di sospetti terroristi che ha circa 550.000 nomi, il TSDB (Terrorist Screening Data Base). Ma non lo hanno inserito nella lista di circa 15.000 persone che devono essere sottoposte a ulteriori controlli, e men che meno nella “no-fly list” contenente circa 4.000 nominativi, che non sono autorizzati a volare negli Stati Uniti. Né hanno revocato ad Abdulmutallab il
Ecco le «mutande esplosive» di Umar Farouk Abdulmtallabh WASHINGTON. L’emittente americana Abc ha pubblicato in esclusiva la foto delle mutande-bomba indossate Umar Farouk Abdulmutallab quando ha tentato di farsi esplodere sul volo Amsterdam-Detroit. Nella foto che ripubblichiamo qui accanto si vede chiaramente l’indumento intimo bruciacchiato e un sacchetto di polvere cucito nel cavallo degli slip. Intanto, negli Usa sono stati pubblicati i diari dell’attentatore: «Mi sento solo e depresso. Non ho nessun buon amico musulmano con cui parlare»: è solo uno dei 300 messaggi pubblicati su un forum online da un certo «farouk1986» che, secondo una ricostruzione del quotidiano americano Washington Post, sarebbe il nick name di Umar Umar Farouk Abdulmutallab. «Non ho nessuno con cui parlare», dice un messaggio del gennaio 2005 (quando Abdulmutallab si trovava in Togo dove frequentava un collegio). «Non ho nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno che mi sostenga, mi sento depresso e solo. Non so che fare. E poi penso che questo senso di solitudine mi possa portare altri problemi», si legge in un messaggio dell’epoca, quando Abdulmutallab aveva 19 anni. I testi di ’farouk1986’, scrive il Washington Post, parlano del suo essere un buon musulmano, in lotta tra estremismo e moderazione. Barack Obama è nel mirino dei conservatori Usa che lo accusano di aver abbassato la guardia nella lotta al terrorismo internazionale
visto turistico di due anni per poter recarsi anche più volte negli Usa. E nemmeno uno sceriffo dell’aria lo ha accompagnato al suo volo. Malgrado questi molteplici fallimenti, Janet Napolitano, ministro della Sicurezza interna degli Stati Uniti ha asserito che il sistema «ha funzionato davvero e bene» a Detroit. Questa miopia accresce le mie preoccupazioni riguardo al modo in cui si fa rispettare la legge negli Usa. Di fatto, se il sistema avesse funzionato, Abdulmutallab non sarebbe mai salito sull’aeromobile, e men che meno avrebbe innescato un ordigno esplosivo.
Guardando avanti , il Tsa mori scoppiettanti simili a petardi, hanno avvertito un odore di bruciato e qualcuno si è perfino accorto che la gamba dei pantaloni del ragazzo e la parete dell’aereo erano in fiamme. Dalle successive indagini si è appreso che l’attentato è stato organizzato dai capi di Al-Qaeda in Yemen, che hanno fatto in modo che 80 grammi di Petn (pentaeritrolo) venissero inseriti nelle tasche segrete cucite nella biancheria intima di Abdulmutallab. Gli
(Transport Security Administration), l’autorità statunitense per la sicurezza, ha emesso un decreto d’emergenza che richiede ai viaggiatori in partenza per gli Usa di sottoporsi a «un’accurata perquisizione» al cancello d’imbarco, con una speciale attenzione alla parte superiore delle gambe e al tronco e ad un controllo scrupoloso del bagaglio a mano, con attenzione alle siringhe.
Nell’ultima ora di volo, i passeggeri dovranno rimanere seduti, potrebbero non accedere al bagaglio a mano o tenere in grembo oggetti personali. Più diletto potrebbe seguire, riporta il New York Times: «I passeggeri che si recheranno all’estero si limiteranno a portare con sé a bordo un solo bagaglio a mano. (…) Su un volo, in partenza dall’aeroporto di Newark, gli assistenti di volo terranno le luci della cabina accese per l’intero viaggio invece di smorzarle per il decollo e l’atterraggio. (…) Tutti i bagagli a mano verrebbero ispezionati ai posti di controllo di sicurezza e poi nuovamente all’imbarco. (…) In pratica, le restrizioni implicano che i passeggeri dei voli che durano 90 minuti o anche meno non potrebbero molto probabilmente lasciare affatto i loro posti».
Come si domanda tristemente Phyllis Chesler: «Saremo tutti sottoposti a controlli della biancheria intima prima di imbarcarci sui nostri voli? Se sarà così, al Qaeda ben presto nasconderà degli esplosivi nelle cavità del corpo. Saremo tutti sottoposti a controlli anche lì?». In altre parole, poiché le agenzie di sicurezza Usa si rifiutano di prendere la saggia precauzione di concentrare le loro risorse sul piccolo target pool di sospetti, vale a dire i musulmani, circa l’1 per cento della popolazione, centinaia di milioni di passeggeri devono sopportare l’onere di costi aggiuntivi, di disagi e della perdita della privacy. Lo sventato attentato di Detroit invalida diversi aforismi che ho affinato nel corso degli ultimi anni. Nell’ordine: «Se le forze dell’ordine Usa avessero prestato agli attentatori dell’11 settembre quell’attenzione che da allora hanno prestato al controterrorismo, l’11 settembre non avrebbe mai avuto luogo». «Se l’Improvvisa sindrome da jihad insorta in individui isolati resta al di là delle capacità delle istituzioni americane di fermarla (vale a dire il cecchino di Fort Hood dello scorso mese), i terroristi legati ad Al-Qaeda sono invece sotto sorveglianza». «Le autorità governative tengono il terrorismo sotto controllo, pertanto noi analisti liberi professionisti possiamo invece focalizzare l’attenzione sulle forme non-violente dell’Islam radica-
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Ieri è scattato un (falso) allarme bomba all’aeroporto di Malpensa
«E adesso riformiamo le forze di sicurezza»
«Mancano coordinamento e competenze specifiche»: Enzo Bianco annuncia una proposta bipartisan di Francesco Capozza
ROMA. Enzo Bianco è stato ministro dell’Interno,
Due soldati italiani feriti da un militare in Afghanistan KABUL. Due soldati italiani sono rimasti feriti in modo lieve in Afghanistan, a Bala Morghab. «I due militari - ha dichiarato il tenente colonnello Marco Mele, portavoce del contingente italiano, ai microfoni di SkyTg24 - sono stati prontamente medicati nell’infermeria della base ed hanno già ripreso servizio». Secondo le prime ricostruzioni, un militare afgano avrebbe aperto il fuoco ferendo lievemente i due italiani. L’attacco del militare afghano contro i soldati del contingente Isaf in Afghanistan è stato un «atto volontario». Lo ha riferito sempre il portavoce Marco Mele: «Il militare afghano è in stato di fermo ed è tenuto sotto osservazione nell’ospedale del campo poiché è rimasto ferito dalla pronta reazione dei militari Isaf e dell’esercito afghano presenti sul posto». Intanto, un soldato britannico è morto in seguito a un’esplosione nel sud dell’Afghanistan. Il militare, appartenente al 3/o Battaglione «The Rifles», è rimasto ucciso mentre era in pattuglia nella zona di Kajaki, nella provincia meridionale di Helmand. Il decesso porta a 244 il numero dei soldati britannici morti in Afghanistan dall’inizio delle operazioni nel 2001, di cui 107 nel solo 2009.
le conosciuto in vario modo come “jihad invisibile”, “sharia strisciante”, “islamismo rispettoso della legge” o “islamismo 2.0”».
L’incidente della Northwest Airlines mi riporta indietro all’11 settembre quando scris-
si un’amara analisi su come il governo Usa sia «tristemente venuto meno al sommo dovere di proteggere i cittadini americani dal male». Quel fallimento continua. Che dimensione deve assumere un disastro per incoraggiare un serio approccio al controterrorismo?
presidente del Copaco - il Comitato parlamentare sul controllo dei Servizi - (l’attuale Copasir), e presidente della commissione Affari Costituzionali. Non solo, quindi, è per così dire“a conoscenza dei fatti”ma, per sua stessa ammissione, «appassionato» di intelligencee riforma dei Servizi. Riforma quest’ultima che ha contribuito in prima persona ad estendere nel 2007 quando presiedeva la prima Commissione di palazzo Madama. Senatore Bianco, dopo l’allarme sul volo Amsterdam-Detroit, la rivendicazione da parte di al Qaeda del rapimento dell’italiano in Mauritania e, notizia di ieri, il pacco sospetto fatto brillare a Malpensa, si respira di nuovo un clima simile a quello dopo l’11 settembre. Siamo agli stessi livelli d’allerta? Innanzi tutto farei una distinzione tra i vari episodi. Per quanto riguarda l’attentato sventato sul volo americano Amsterdam-Detroit non dispongo di informazioni dirette, ma la mia sensazione è che ci sia in effetti un ritorno in piena attività di un terrorismo con forte ascendente fondamentalista-islamico. La cosa che più mi preoccupa però è l’estendersi a nuovi paesi delle cosiddette “cellule”. La Nigeria, da dove proviene l’attentatore del volo DeltaNorthwest, per esempio, ha una forte presenza musulmana ed è tra gli stati africani più emergenti. Si sapeva di cellule terroristiche in Eritrea, in Sudan, in Somalia, il fatto che da oggi dobbiamo aggiungere anche la Nigeria a quell’elenco mi lascia stupefatto e preoccupato. Sul pacco fatto brillare ieri a Malpensa mi pare evidente che lo stato d’allerta è massimo ma le Forze dell’Ordine hanno agito in modo ineccepibile evitando rischi, nonostante quello fosse un falso allarme. Sulla rivendicazione da parte di al Qaeda del rapimento di Sergio Cicala e della compagna, il ministro degli Esteri Frattini ha ammesso che potrebbe essere verosimile, ma ha negato ogni possibile trattativa. Sta facendo bene? Il ministro si sta muovendo bene a mio avviso, sono però scettico sul fatto che i rapitori di Cicala possano essere dei componenti di al Qaeda. Scettico perchè, senatore? Perchè hanno agito in modo diverso rispetto a come siamo soliti veder operare al Qaeda, mi sembra più l’azione di bande locali, magari in collegamento indiretto con qualche cellula. Ha letto dei nuovi dispositivi di sicurezza su tutte le rotte da e per gli Usa? Pare addirit-
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tura che Obama abbia invocato dei veri e propri “sceriffi dell’aria”. Sì, e ho letto anche delle nuove normative su come i viaggiatori dovrebbero comportarsi a bordo degli aereomobili: non alzarsi nell’ultim’ora di volo, essere scortati alla toilette. Suvvia, ma non siamo ridicoli! È indubbio che ci debbano essere delle reazioni e dei controlli più approfonditi, ma si cerchi di farlo razionalmente, altrimenti l’unico risultato è il terrore indotto nei passeggeri.Tanto più che, come si è visto nel caso dell’attentatore nigeriano, qualcosa nella sicurezza non ha funzionato visto che era stato già segnalato e schedato, esattamente come accadde l’11 settembre 2001. Questa è la conferma che garantire un sistema di sicurezza totale non è possibile? Purtroppo in America come pure in Italia dopo l’11 settembre non si è messo mano ad una vera e propria riforma capillare delle Forze dell’Ordine. Ma lo sa che negli Stati Uniti i Servizi, l’intelligence e le Forze dell’Ordine - più di venti corpi diversi - hanno tutti una competenza generale e quasi nessuno ne ha una specifica? E in italia? In Italia siamo messi anche peggio. Le faccio un esempio, a vigilare sul mare e sulle nostre coste sono chiamati indistintamente: la Marina Militare, la Polizia di Stato, la Guardia Costiera, la Guardia di Finanza, i Carabinieri e in certi casi, come in Sardegna, la Guardia Forestale. Le pare logico un così ampio dispiegamento di forze e di energie? In effetti no. È necessario che si trovi un accordo su una riforma in tal senso, che deve durare vent’anni e perciò non può essere fatta a colpi di maggioranza. Io faccio un appello al buonsenso e annuncio già da oggi che a gennaio proporrò in commissione Affari Costituzionali al Senato un’ indagine conoscitiva sulle Forze dell’Ordine e sulla necessità di ridisegnarne i ruoli e il campo d’azione. Senatore Bianco, viste le sue competenze e i ruoli che ha ricoperto in passato non posso non chiederle cosa pensa dell’aggressione a Berlusconi... Sul caso Berlusconi dico solo che è impensabile che la scorta del presidente del Consiglio sia formata da uomini da lui stesso assunti. La sicurezza del premier è un bene collettivo e perciò anche mia, per questo dico che dovrebbe essere tutelata da corpi addestrati dallo Stato e ad esso facenti esclusivo riferimento, come accade per tutte le alte cariche.
Dopo l’11 settembre è cambiato il mondo, eppure noi 8come gli Usa, del resto) ancora non ci siamo adeguati ai nuovi pericoli. È arrivato il momento di farlo
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L’intervista. La crisi tra israeliani e palestinesi, la situazione dei coloni e il futuro di Gaza: ecco l’opinione del grande scrittore
«Una pace a piccoli passi» «La road map tra Est e Ovest non è morta ma solo congelata: un’ipotesi di convivenza in Cisgiordania c’è», parola di Yehoshua di Antonio Picasso
HAIFA. «L’unico vero problema è quello degli insediamenti nel West Bank e a Gerusalemme Est. A tutti gli effetti, non c’è nient’altro che faccia da ostacolo al processo di pace». Lo scrittore israeliano, Abraham Yehoshua, è categorico nel sintetizzare un problema che va avanti da oltre sessant’anni e nel riportarlo a un’unica soluzione. Il narratore e drammaturgo israeliano è famoso in tutto il mondo per le sue opere che trasmettono un messaggio di tolleranza interreligiosa. Yehoshua parla osservando il tramonto che fugge velocemente dietro i palazzi di Haifa. Davanti a noi un sole di fine dicembre comunque caldo delinea la skyline di questa città che riesce, al contrario di molte altre in Medio Oriente, a far convivere ebrei, musulmani, cristiani e drusi. L’ottimismo di Yehoshua contrasta con il trend di questi ultimi mesi. È solo dell’altro giorno la decisione del Ministero dell’Interno israeliano di concedere il nulla osta per la costruzione di altre 700 abitazioni a Gerusalemme Est. La scelta appare arbitraria e non potrà che riaccendere le polemiche in seno all’Autorità Palestinese. Il vigore ottimistico dello scrittore israeliano tuttavia è forse ispirato proprio dall’esempio di tolleranza che gli viene offerto da Haifa. Professore, sembra che per una congiuntura internazionale sfavorevole il processo di pace in Medio Oriente sia congelato. Gli Stati Uniti hanno dimostrato di porre l’Afghanistan dinnanzi a qualsiasi altro impegno di politica estera e sono stati seguiti a ruota dai governi europei. Questo cosa significa? Dovremo aspettare quanto e cosa per assistere a un nuovo step positivo nel dialogo tra israeliani e palestinesi? È vero, il processo di pace è fermo. Ma congelato non significa morto. Al di là degli impegni e delle priorità dei governi stranieri, io credo che gli sforzi più concreti spettino solo alle istituzioni locali, perché saranno poi loro ad arrivare a un risultato. Quello che mi chiedo è cosa Israele sia dispo-
sta ancora a concedere ai palestinesi. Finora Ramallah ha rispedito al mittente tutte le proposte, compresa quella di riportare i confini alla situazione pre-1967 (precedente alla “Guerra dei Sei giorni”, quando gli israeliani fecero proprie le Alture del Golan, occuparono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, ndr). Se l’offerta di ritirarsi completamente da Gaza, come è stato fatto, e concedere una giurisdizione autonoma della Cisgiordania non basta, significa che bisogna concentrarsi in modo concreto sulla questione “insediamenti”. Vale a dire? Vale a dire bloccando le agevolazioni per i coloni che ancora vogliono andare a vivere tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Nel solo 2009, il governo Netanyahu ha concesso il suo nulla osta per la creazione di 6500 insediamenti nella regione. È un atteggiamento svantaggioso per tutti. D’altra parte, ne ho parlato proprio in questi giorni con esponenti di primo piano dell’establishment politico a Gerusa-
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La soluzione nei territori è riconoscere la doppia cittadinanza ai coloni nonché il diritto di risarcimento nel caso scegliessero di non rimanere sotto il governo dell’Anp
lemme e ho percepito la loro disponibilità a fare pressione sull’Autorità Palestinese (Anp) affinché essa riconosca gli insediamenti già esistenti come una realtà permanente e ne faccia una propria comunità minoritaria all’interno della sua area di competenza. In questo modo ai coloni che vi abitano verrebbe riconosciuta la cittadinanza dell’Anp.
Immagini di palestinesi e coloni ebrei nei Territori. Nella pagina a fianco, lo scrittore Abraham Yehoshua, A suo parere una soluzione politica e diplomatica per la Cisgiordania, malgrado tutto esiste
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Lei quindi pensa che sia possibile la creazione di un nucleo sociale ebraico all’interno di uno Stato palestinese “in divenire”? Esatto. Ovviamente ai coloni verrebbero riconosciuti la doppia cittadinanza, palestinese e israeliana, nonché il diritto di risarcimento nel caso scegliessero di non rimanere sotto il governo dell’Anp. Tutto ciò non sarebbe certo una novità. In molti Paesi sparsi per il mondo ci sono comunità con il doppio passaporto. Molti italiani nei diversi Paesi americani vivono in questa situazione e non hanno alcun problema. Inoltre noi abbiamo già fatto una cosa simile a Gaza nel 2005. Israele ha ritirato le sue truppe dalla Striscia dando ai coloni una possibilità di scelta: restare oppure andarsene, previo compenso economico in quanto avrebbero perso tutti i loro averi. Dal nostro punto di vista l’operazione allora ebbe successo. L’idea di una minoranza ebraica in uno Stato palestinese non rischierebbe
di creare una debole minoranza esposta a pericoli politici, di convivenza etnica e di sicurezza? Per quale motivo? I cinquecentomila coloni ebrei che vivono nei Territori costituiscono appena l’1% della popolazione totale della regione, mentre gli arabi con passaporto israeliano sono il 20% tra gli abitanti di questo Paese. Questi ultimi non sono certo una minaccia per la vita di Israele. Al contrario, Haifa offre un esempio che pochi sanno osservare. Qui la tolleranza è un valore che esiste non solo nella teoria, ma soprattutto nella quotidianità cittadina. Ad Haifa arabi ed ebrei vivono fianco a fianco senza problemi etnici o religiosi. Per quale motivo, mi domando io, non sarebbe possibile esportare questo modello altrove? Resta da capire però se i coloni oggi presenti nel West Bank siano favorevoli a lasciare le proprie case, ad abbandonare la loro Israele. Questa è una buona doman-
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mocratiche e secolari che hanno fondato lo Stato di Israele. È evidente però che il suo Paese presenti alcuni problemi di natura politica. Solo l’altro giorno il leader di Kadima, Tzipi Livni, si è incontrata con il premier Netanyahu per saggiare l’eventualità di un ingresso del suo partito nel governo. Il fatto che Kadima entri nel governo o meno ha poca importanza, almeno sul lungo periodo. Oggi, trascorso un anno ormai dalle elezioni parlamentari, l’esecutivo funziona e va avanti con le proprie gambe. Non ha bisogno di appoggi esterni per sopravvivere. Il problema è che a Israele manca un partito di centro. Si tratta di un’assenza storica che ha inciso sensibilmente sulla stabilità della nostra vita politica. Questo appare evidente oggi, ma è stato lo stesso in passato.
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Il problema è che a Israele manca un partito di centro. Si tratta di un’assenza storica che ha inciso sensibilmente sulla stabilità della nostra vita politica ieri come oggi
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Gli ebrei che vivono nei Territori costituiscono appena l’1% della popolazione totale della regione, mentre gli arabi con passaporto israeliano sono il 20% di questo Paese
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da, che sia le autorità israeliane sia quelle palestinesi dovrebbero porsi. L’esempio di Gaza che citavo prima è riuscito dal nostro punto di vista, ma non da quello palestinese. Ciò che non è stato fatto è mettere nero su bianco la smilitarizzazione della regione. Una cosa che invece in questo caso dovrebbe essere integrata preventivamente negli accordi sulla Cisgiordania. Israele offrirebbe ai suoi concittadini il diritto di resta-
re, oppure di andarsene con un equo compenso. L’Autorità Palestinese dovrebbe al contempo garantire agli abitanti non arabi e non musulmani di vivere in una condizione di sicurezza e di tolleranza. Se avesse successo, sarebbe un’impresa di portata storica. Se avesse successo sì, ma è anche l’unica strada che io riesco a vedere per uscire da questa situazione. È la sola via per la pace. A suo giudizio ci sono le condizioni politico-sociali per realizzarla? È fuori discussione che Israele stia attraversando una delicata fase di trasformazione. Da secolare e laica che era, oggi la sua popolazione appare evidentemente molto più osservante dei precetti religiosi. Questo elemento potrebbe mettersi di traverso alle tante questioni che sono oggetto dei negoziati di pace. Penso al caso Shalit, all’identità e alla organizzazione delle nostre Forze armate, come alle modalità
di presentazione della proposta che ho tracciato finora ai diretti interessati, vale a dire ai coloni. È logico che un apparato istituzionale che ambisce a definirsi Stato ebraico trovi maggiori difficoltà nel confrontarsi con soggetti altamente “religiosizzati” come ve ne sono nel contesto arabo-musulmano. Sono altrettanto naturali però le affinità tra un esercito israeliano composto da soldati ebrei praticanti e i coloni, i quali sono anch’essi i più rispettosi della dottrina. È innegabile che tutto questo potrebbe rappresentare un ostacolo sia politico sia pratico. Già mi immagino le polemiche all’interno della Knesset (il Parlamento israeliano, ndr), come pure l’aperto rifiuto, da parte dei nostri ragazzi in uniforme, di intervenire contro i loro concittadini. Israele sta cambiando così tanto? Israele si sta evolvendo. Ma tutto questo è naturale per un Paese con sessant’anni di vita e con il bagaglio di storia tu-
multuosa che si porta sulle spalle. D’altra parte – e questo lo dico come agnostico educato in una famiglia rispettosa della religione – non è immaginabile un’Israele senza Torah. Possiamo pensare al nostro Paese escludendo qualsiasi legame con la Bibbia? No, questo non è possibile. Va anche detto però che il processo di trasformazione è molto più sociale che politico. Quando si legge che Israele vuole definirsi uno Stato ebraico non bisogna stupirsi e tanto meno preoccuparsi. L’accezione era già nel progetto dei nostri padri fondatori, uomini ai quali non si poteva certo attribuire un’impostazione politica vincolata dai dogmi religiosi. Il fatto che nel Paese ci siano oggi molti più ebrei che dedicano una parte della loro quotidianità alla preghiera è una questione demografica, dovuta ai passati flussi migratori dall’Europa orientale e alla crescita della popolazione. Questo però non va a incidere minimamente sulle istituzioni de-
Concludiamo con i palestinesi. A suo giudizio, com’è la situazione all’interno dell’Autorità Palestinese? In realtà a Ramallah le cose vanno meno peggio di quanto sembri. La Presidenza di Abu Mazen e il suo Primo ministro, Salam Fayyad, hanno imboccato la strada giusta per lo sviluppo economico e la stabilità politica della regione. Ci vorrà del tempo, ma siamo anche solo all’inizio di questo percorso. E Gaza? Un anno fa scoppiava la guerra. Quello è un discorso a parte. Israele si è ritirata dalla Striscia nel 2005, sottolineando come la questione debba essere gestita unicamente dai palestinesi. “Piombo fuso”, l’operazione militare messa in atto dalle nostre truppe alla fine dello scorso anno, ha piegato le gambe all’apparato militare di Hamas. Ma non ha messo sotto assedio la popolazione locale. Tutt’altro, gli abitanti di Gaza possono entrare e uscire liberamente per andare in Egitto. Su questo Israele non può, non vuole ed è giusto che non intervenga. D’altra parte ci sono miliardi di dollari che restano in attesa di essere investiti per la ricostruzione. Cosa si aspetta a utilizzarli?
diario
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Tradimenti. Secondo Saverio Romano le famiglie come le imprese dell’isola meritano un governo migliore
«Lombardo non rispetta i siciliani» Il segretario regionale dell’Udc accusa il governatore di trasformismo ROMA. «Raffaele Lombardo vara il suo terzo governo all’insegna del più autentico e bieco trasformismo e manda un messaggio molto chiaro agli elettori siciliani: il vostro voto non ha alcun valore, perché sono io a decidere con chi governare. Il resto, la crisi economica o sociale, non conta». Saverio Romano, segretario dell’Udc in Sicilia, non usa giri di parole sull’ultimo ribaltone di Lombardo. Cosa c’è dietro? Soltanto la volontà di perpetuare una esperienza fallimentare, qual è stata quella di Lombardo alla Regione. Eravate suoi alleati. L’aver contribuito a farlo eleggere è una scelta per la quale abbiamo più volte chiesto scusa ai siciliani. E tornare a votare? Certo. Altrimenti qualcuno dovrà spiegare ai siciliani come fa il il Pd - che alle ultime regionali candidava, perdendo, alla presidenza Anna Finocchiaro – oggi tenga in vita Lombardo e la sua giunta. E cosa dobbiamo raccontare noi agli elettori dell’Udc e del Pdl, che al contrario le elezioni le abbiamo vinte e che ora siamo all’opposizione. Dieci assessori su dodici sono stati confermati. La giunta non non può essere una semplice sommatoria di nomi, ma deve nascere dalla condivisione di un progetto politico proposto agli elettori e da loro approvato. Tutto il resto è mero trasformismo, volgare inciucio. Ribaltone. Al quale ha partecipato anche l’Api di Rutelli. Riuscire a dare un senso a questa operazione di Alleanza per l’Italia è molto difficile. anche perché prescindere dal ruolo dell’Udc nella politica di centro mi sembra ambizioso. Al ribaltone partecipano anche i fedelissimi di Micciché e i finiani. Il Pdl in Sicilia, più che altrove, è stato abituato ad assecondare gli umori del suo fondatore e qui i sintomi di una sua decomposizione sono più evidenti. Il dopo-Berlusconi è iniziato non soltanto a livello nazionale. Come giudica il Pd? Quando noi dell’Udc abbiamo lanciato i primi sospetti, il segretario Giuseppe Lupo ha sempre negato la possibilità di un appoggio esterno... Peccato che uomini indicati dal Pd, come l’assessore all’Industria Marco Venturi, erano già presenti nella Lombardo bis. Il Pd lo fa per le riforme. E sia, ma il Partito democratico
di Franco Insardà
Il popolo del centrosinistra sceglierà il candidato
Emiliano rilancia: primarie Roma. Il braccio di ferro tra il sindaco di Bari Michele Emiliano e il presidente uscente Nichi Vendola si risolverà con le primarie. Dopo la bagarre dell’assemblea regionale per Emiliano, che è anche presidente del Pd in Puglia, Per il sindaco di Bari e presidente del Pd in Puglia, Michele Emiliano, la decisione sulla candidatura alla presidenza della Regione «va rimessa al popolo». Il sindaco di Bari ha posto come «unica condizione la modifica della legge regionale che gli impedisce di candidarsi alla presidenza della Regione senza dimettersi dalla carica di sindaco». Emiliano ritiene di «non poter ulteriormente lasciare nell’angoscia consiglieri comunali, i cittadini di Bari, i militanti del Pd e dell’Udc e degli altri partiti». A questo proposito secondo il sindaco la data «più giusta per lo svolgimento delle primarie è il 24 gennaio. In tal modo
sarà’ possibile consentire al Consiglio Regionale di approvare il 19 gennaio l’emendamento “salva Bari” e parallelamente di svolgere tutti i passaggi necessari per far partire la macchina organizzativa delle primarie». Dunque anche Emiliano chiede le primarie per imprimere una accelerazione al chiarimento interno al Pd e al centrosinistra dopo le accuse fatte a Vendola di avere inviato le sue truppe per disturbare l’assemblea regionale. Sul punto Vendola aveva dichiarato: «Io non ho truppe, non do ordini. C’è invece un popolo di iscritti e militanti del Pd che non è in grado di subire diktat». Angelo Sanza, coordinatore regionale dell’Udc, si dice sconcertato per quello che sta accadendo: «Speriamo che ci sia un rinsavimento, anche perché i cittadini sono esterefatti. Più che di politica, in questo momento, parlerei di episodi stravaganti».
dica da subito su quali riforme c’è l’accordo. E una volta fatte si ritorni subito al voto, altrimenti vorrà dire che qualcuno era in malafede. Esiste un dissenso interno anche nel Pd: se le cose dovessero andare male c’è il rischio che il partito di Bersani in Sicilia venga definitivamente travolto? Il rischio c’è perché viene messa in dubbio l’identità, la serietà e la coerenza di un partito che dice una cosa e ne fa un’altra. A mio avviso una forza politica può assumersi la responsabilità di governo solo quando a volerlo sono gli elettori. In tutti gli altri casi, e parafrasan-
l’agricoltura e l’artigianato sono in crisi, ma adesso anche il comparto dei servizi è allo stremo e sempre più giovani partono per non tornare più. Se ci aggiungiamo lo sfacelo del servizio dei rifiuti e il blocco della spesa comunitaria, quale può essere il giudizio su questo presidente della Regione? Rifiuti, sanità, riforma burocratica, politica energetica e formazione professionale. Senza dimenticare Termini Imprese. Un’agenda politica impegnativa, ma con quante possibilità di successo? Pochissime. Un governo può affrontare queste sfide solo se legittimato dal voto popolare, ma non è questo il caso. Alle difficoltà oggettive si aggiunge anche il disinteresse del governo nazionale nei confronti delle istanze del Mezzogiorno. E questo avviene perché l’agenda politica nazionale è dettata dalla Lega. Che certamente non ha interesse per il Sud. In questo scenario quale sarà il ruolo dell’Udc? Noi continueremo a svolgere in modo responsabile il ruolo di una forza di opposizione. E soprattutto lavoriamo per il ritor-
L’esponente centrista: «Il nostro partito, in tale contesto, rivendica e svolge un’opposizione intransigente nei confronti di questo governo» do Shakespeare e il suo Amleto, vuol dire che c’è del marcio non solo in Danimarca ma anche nel Pd siciliano. La scommessa di Raffaele Lombardo non è meno rischiosa. Ha perso Udc e parte del Pdl. Lombardo ha commesso l’errore di compromettere e rompere successivamente una alleanza con quei partiti che lo hanno fatto eleggere e con i quali ha condiviso un programma di governo. Le sue mire espansioniste gli hanno annebbiato la vista e ora sta portando a spasso la Sicilia verso la rovina. Siamo in recessione economica, le imprese chiudono o licenziano,
no alle urne, perché questa vergogna finisca il più presto possibile. Non è in gioco soltanto il futuro della Sicilia, ma anche la dignità del suo popolo. Siamo a fine anno: che cosa si augura per la Sicilia e i siciliani? Auspico una ripresa dell’orgoglio da parte della società civile. E che le imprese, le famiglie siciliane riescano a superare le odierne difficoltà con quel coraggio e quello spirito di solidarietà che ci appartiene per generosità e per cultura. Ma mi auguro soprattutto, per il bene della Sicilia, che Raffaele Lombardo se ne vada a casa. Ha già fatto abbastanza danni.
diario
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Consegnato alla famiglia il tesserino che non aveva potuto ritirare
Annuncio della Moratti in vista del decennale della morte
L’Ordine dei giornalisti ricorda Matteo Bonetti
È ufficiale: Milano avrà la sua Via Craxi
ROMA. Ieri mattina l’Ordine dei giornalisti ha ricordato Matteo Bonetti, il giovane giornalista romano scomparso all’improvviso lo scorso 25 settembre, all’età di 24 anni, mentre si trovava in vacanza a Zara. Alla presenza di Bruno Tucci e Gino Falleri, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Ordine regionale del Lazio e del Molise, e di Enzo Iacopino, segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti, nella sede regionale di piazza della Torretta a Roma si è svolta la cerimonia di consegna del tesserino da giornalista pubblicista che Matteo non aveva fatto in tempo a ritirare. Il tesserino è stato consegnato affettuosamente dal presidente Tucci ai genitori Almerico e Clarita e alla fidanzata Bianca. Alla consegna erano presenti anche gli amici e i colleghi dell’agenzia di stampa “Inedita”, dove Matteo lavorava da anni e della quale era stato uno dei fondatori.
MILANO. Il 19 gennaio saranno
“Sono estremamente contento - ha dichiarato a margine della cerimonia il padre Almerico - che, anche a posteriori, sia stata riconosciuta quella contagiosa voglia di fare che Matteo aveva e che sia stata ricordata e premiata
Un’evasione da record Lo scudo vale 95 mld Tremonti: pagate multe per quasi 5 milioni di euro di Alessandro D’Amato
ROMA. Lo scudo fiscale ha permesso il rimpatrio di 95 miliardi di euro, «ben oltre i 6 punti di Pil» e le più rosee previsioni dell’epoca del varo del provvedimento. Lo rende noto il ministero dell’Economia, spiegando che «95 miliardi di euro è il volume delle operazioni. Su questo volume, il 98% è fatto da rimpatri effettivi in Italia. Sono numeri che marcano uno straordinario successo - continua la nota - segno di forza della nostra economia e di fiducia nell’Italia. E anche di intelligenza. L’impegno dei principali Paesi del G20 è infatti nel senso che: “Il tempo dei paradisi fiscali è finito per sempre”. Portare o tenere i soldi nei paradisi fiscali non conviene più, né economicamente né fiscalmente. Il rendimento è minimo, il rischio è massimo». Il termine di riapertura delle operazioni di rimpatrio con maggiorazioni di aliquota ad aprile 2010 - sottolinea quindi il comunicato - è «ultimo e definitivo. L’alternativa in tutti i Paesi G20 è costituita solo dall’applicazione delle nuove e molto efficaci norme antievasione».
E che il conquibus sia ingente
calorosamente la passione che metteva nel giornalismo come nella vita. All’Ordine dei giornalisti - ha concluso va il nostro sentito ringraziamento, con la certezza in futuro di poter avviare una collaborazione tra l’Odg e la imminente associazione onlus intitolata a Matteo, che stiamo con impegno costruendo giorno per giorno”. L’associazione si muoverà nell’ambito del sociale, per continuare il lavoro che Matteo Bonetti, parallelamente alla sua attività giornalistica, aveva iniziato da consigliere municipale come presidente della Commissione Affari sociali del II Municipio di Roma.
nomi e le piccole imprese non sono più visti come evasori».
Elogi allo scudo arrivano naturalmente anche dal resto del governo. «Tanti complimenti e un sentito grazie al ministro Tremonti per la sua operazione riguardante lo scudo fiscale, che, visti i risultati, rappresenta la più grande manovra economica di tutti i tempi» ha detto il ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli con il consueto sprezzo per il ridicolo. Che poi, con la misura che lo contraddistingue, ha assegnato senza mezzi termini un «10 e lode» al ministro dell’Economia. «È la più grande manovra di tutti i tempi, non solo e non tanto per i quattro miliardi e 750 milioni di nuove entrate, comunque necessarie, ma soprattutto perché quasi 100 miliardi di euro rientreranno e verranno investiti in Italia, ridando ossigeno, vero e tanto, alla nostra economia». Più entusiasta ancora Paolo Bonaiuti: «Un grande risultato: soldi che rientrano in circolo nel nostro Paese per la difesa dei posti di lavoro esistenti e per la creazione di nuovi». Insomma: il governo del miglior premier degli ultimi 150 anni si è addirittura superato e ha prodotto la manovra migliore di sempre.
Calderoli: «È la più grande manovra di sempre». La Corte dei conti contesta l’ottimismo riportato in Finanziaria
ne è prova che la cifra rappresenta quanto recuperato dalla Guardia di Finanza in 4 anni e mezzo di lotta all’evasione fiscale, secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre.Tra la seconda metà del 2004 e il 2008, l’azione di contrasto messa in atto ha «sottratto» agli evasori 95,3 miliardi di imponibile. Ma la differenza si vede osservando gli incassi: con lo scudo si presume che, in termini di imposta, l’erario porterà a casa poco meno 5 miliardi di euro, la Cgia stima che l’imposta realmente riscossa per l’attività antievasione tra la metà del 2004 e il 2008 sia stata attorno ai 9 miliardi di euro. Secondo Giuseppe Bortolussi, direttore del Ufficio studi della Cgia di Mestre, appare evidente «che questi ingenti capitali vanno ascritti alla grande evasione internazionale e aver appreso che nel 2010 l’azione di contrasto dell’amministrazione finanziaria sarà concentrata prevalentemente su questo versante, ci consente di dire che il quadro generale è completamente mutato rispetto a qualche anno fa. I lavoratori auto-
Ma qualche voce meno entusiasta c’è. Lunedì la Corte dei conti aveva espresso dubbi sul gettito derivante dalla lotta all’evasione, affermando che «sussiste il problema dell’incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all’evasione, a causa dell’assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori». In particolare le norme sul contrasto ai paradisi fiscali, gli arbitraggi fiscali internazionale e sullo scudo fiscale «appaiono insistere sulla stessa base imponibile», sostiene la Corte, e «sono legate tra loro da un rapporto di alternatività». Lo stesso ragionamento aveva spinto la magistratura contabile a criticare le misure che vengono coperte con gli attesi incassi da gioco, come per esempio quelle riguardanti gli interventi in Abruzzo.
passati dieci anni dalla morte in Tunisia di Bettino Craxi e, se possibile, attorno alla figura del leader socialista le polemiche sono ancor più vivaci che un tempo. La riabilitazione iniziata anche a sinistra, ad esempio dal Piero Fassino di Per Passione (ma va segnalata anche la benedizione postuma di Vittorio Feltri, inventore del greve soprannome «Cinghialone»), non sembra trovare più argini sostanziali. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, ha addirittura annunciato che intende dedicargli una via della città. «È cosa buona e giusta: così si esce definitivamente da anni che definire squallidi è riduttivo», ha scandito Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e sindaco di Milano prima di Tangentopoli.
Per l’ex delfino Claudio Martelli invece «la riabilitazione è già compiuta, ma finché non ci sarà una robusta forza socialista, democratica e liberale, Craxi sarà sempre in esilio». La vede diversamente, per restare nel centrodestra, Matteo Salvini della Lega: «Milano ha almeno cento personaggi illustri che non sono passati per San Vittore, che hanno veramente dato lustro alla città e meritano venga loro dedicata una via». Icastico Saverio Borrelli, il cui pool fece condannare Craxi: «Trovo indecoroso, offensivo, intitolare una via, una piazza o qualunque cosa ad un personaggio che è morto da latitante». Ovviamente, come sempre quando si alzano i toni, ci è finito in mezzo anche Giorgio Napolitano, reo di aver accettato (ma la sua presenza non è certa) l’invito ad un convegno della Fondazione Craxi per il decennale dalla morte: «Mi auguro – ha detto Antonio Di Pietro - che il capo dello Stato, se parteciperà a un ricordo su Craxi, lo ricordi per quello che è stato: un politico, un presidente del Consiglio, un corrotto, un condannato, un latitante». «Volgarità senza precedenti» per Sandro Bondi. E al 19 mancano ancora tre settimane.
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li asini volano. Sappiamo benissimo tutti che non è così, ma la cultura oggi dominante non lo considera certo un ostacolo. Rivendica invece il poter proferire qualsiasi affermazione come la testimonianza suprema della libertà di opinione. Ma fra la possibilità di potere formulare una certa proposizione che sia corretta nei suoi termini grammaticali e il fatto che per ciò stesso il contenuto di essa possa essere anche solo preso in considerazione quale ipotesi di verità ci passa l’oceano. La mente umana ha la possibilità logico-grammaticale di dire che gli asini volano, ma gli asini continuano a non volare, né si sentono spronati a spiccare il volo per il solo fatto che noi glielo suggeriamo a parole. A dire così oggi si passa però per retrogradi, si fa la figura dei reazionari, qualcuno ti dà pure dell’intollerante. Eppure è evidente come non ogni e qualsiasi possibilità del linguaggio umano coincida con un aspetto veritativo del reale. La possibilità grammaticale e linguistica di una certa affermazione sulle cose è infatti condizione necessaria ma non sufficiente della sua proferibilità giacché non coincide con la plausibilità minimale del suo contenuto. Nemmeno come ipotesi di lavoro. Affinché si possa seriamente lavorare, occorrono infatti proposte iniziali che non ingannino né illudano, insomma che facciamo avanzare lungo strade diritte senza spingere su binari ciechi. Servono cioè, anzi sono indispensabili ipotesi di lavoro che non rendano risibili, offensive per la ragione e quindi squalificate in partenza le nostre affermazioni di contenuto a proposito della realtà che ci circonda.
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Ecco, nel mondo dei “secondo me”e degl’“io penso” il solo immaginare questo è eresia, e infatti i risultati si vedono abbondantemente. E non è certo il caso di tirare in ballo, con affettata pretesa intellettualistica, il cosiddetto “pensiero debole”; qui semmai è il caso di un pensiero nullo. Quello cioè che impera dopo la morte della buona filosofia e della scienza (conoscenza) rigorosa, che altro non sono se non forme raffinate e sublimi del caro vecchio buon senso comune degli uomini. Ricordarlo nel regno degli opinionismi e degli opinionisti è bene, e cade ancora meglio il farlo una volta in più a conclusione di questo 2009, dedicato alla celebrazione dei quattrocento anni dalle prime osservazioni astronomiche effettuate dal fisico e matematico pisano Galileo Galilei (15641642). Giacché è da Galilei che si usa comunemente parlare di “metodo scientifico”. Essendo il campo d’indagine della scienza il piano fisico della realtà, il metodo d’indagine appropriato è infatti quello detto “induttivo”, codificato in ciò che si chiama “metodo sperimentale” o ancora, appunto,“metodo galileiano”. In base a esso, i fatti precedono sempre le idee. E l’indagine induttiva che ne è il nocciolo si configura come un processo di astrazione che consente di elaborare una regola generale partendo dai dati particolari e dalla loro verifica empirica contro ogni ragionevole dubbio. Le regole generali di descrizione del reale fisico che così si possono scrivere prendono allora il nome di “leggi” e queste rendono ragione oggettiva del riprodursi dei fenomeni, eccezioni comprese. Di fronte a nuove conoscenze e a nuovi aspetti di precedenti conoscenze, le leggi fisiche possono essere poi corrette e riformulate o persino abbandonate. Ma non mentono mai, nemmeno quando divengono desuete e inservibili.
il paginone
L’ipotesi evoluzionistica è impenetrabile alle norme che prevedono l’esist
Galileo e i (veri) ne A 400 anni dalle prime osservazioni astronomiche del fisico pisano, impera la dittatura degli “opinionisti”. E il metodo scientifico non va più di moda. Come il buon senso di Marco Respinti do induttivo scientifico). Ora, la prima - la «sensata esperienza» - è ciò che comunemente viene oggi chiamato“esperimento”, il quale può essere compiuto praticamente o anche solo astrattamente, ma sempre in base a una formulazione teorica precisa che escluda oltre ogni ragionevole dubbio la presenza di risultati arbitrari. La seconda - la «necessaria dimostrazione» - è l’analisi matematica rigorosa dei risultati dell’esperienza, tale da trarre da questa ogni conseguenza in modo necessario (cioè non casuale e non arbitrario) e non opinabile, e che va poi ulteriormente verificata attraverso altre esperienze. Affinché un oggetto possa essere studiato dalla scienza fisica è però indispensabile la sua osservabilità di principio, cioè la registrazione mediante strumenti di natura varia della sua esistenza da cui la possibilità di una sua descrizione. Che l’oggetto, cioè, esista e sia, se non altro in linea di principio, conoscibile. Il metodo sperimentale galileiano procede dunque attraverso una serie di proposizioni successive, il ragionamento sperimentale, che induco-
Il sistema, già codificato nell’antichità da Archimede di Siracusa, si fonda su due assunti principali: la «sensata esperienza» e la «necessaria dimostrazione» Determinate leggi fisiche oggi magari superate sono infatti state adeguatissime in un preciso momento storico, quando le conoscenze fisiche a disposizione permettevano solo quelle formulazioni. Erano quindi leggi vere in quell’ambito e a quelle condizioni; e in quell’ambito e a quelle condizioni restano quindi sempre vere, anche se l’ambito e le condizioni sono poi mutate giacché più ampie sono le nostre conoscenze del reale fisico. Le leggi scientifiche non errano mai proprio perché sono scientifiche, cioè basate su fatti e non su opinioni. Può persino darsi il caso di leggi fisiche che valgono nello spazio fisico che ora noi conosciamo, ma che (ipoteticamente) valgono diversamente o addirittura non valgono qualora si potesse leggere il nostro spazio fisico diversamente o si scoprissero spazi fisici diversi (ma comunque non meno fisici e sempre dotati di regole conoscibili). Certe nostre leggi fisiche continuerebbero a valere in questo spazio fisico poiché fondate su fatti verifi-
cati, veri, in questo spazio fisico. Il metodo scientiico codificato da Galilei che in gran parte è peraltro il ricupero dei criteri messi a punto durante l’epoca ellenistica in base soprattutto ad alcune opere del matematico, astronomo e ingegnere magnogreco Archimede di Siracusa (287212 a.C) - si fonda dunque su due assunti principali: la «sensata esperienza» e la «necessaria dimostrazione», per utilizzare le parole vergate, nella Giornata Prima di quel trattato, dall’autore del Dialogo di Galileo Galilei sopra i due Massimo Sistemi del Mondo Tolemaico e Copernicano, composto tra il 1624 e il 1630, e pubblicato, dopo avere ottenuto l’imprimatur ecclesiastico, del 1632 (per poi essere inserito, nel 1633, dalla Congregazione della Sacra Romana e Universale Inquisizione, o Sant’Uffizio, nell’Indice dei libri proibiti allorché Galilei prese a confondere fisica e metafisica, scienza matematica e religione, in parte proprio tradendo la lucidità con cui aveva formulato i canoni del meto-
no la descrizione finale di un fenomeno attraverso la formulazione di una legge. Dunque, anzitutto l’osservazione di un dato fenomeno, la formulazione di una ipotesi che lo possa spiegare, la previsione di una o più conseguenze dipendenti da quell’ipotesi, la verifica sperimentale delle conseguenze e la conclusione che consiste nel confermare oppure nel confutare l’ipotesi iniziale. Una volta che le conseguenze confermano le ipotesi, si può parlare di oggettività delle osservazioni e da qui si costruisce una legge.
L’insieme delle leggi configura una teoria come teoria generale di spiegazione che consiste nell’elaborazione di un modello interpretativo dei fenomeni in grado di collegare organicamente le diverse ipotesi, gli enunciati e le proposizioni in quanto verificate. Il modello teorico si serve dunque delle conoscenze certe ottenute attraverso le conferme sperimentali, l’ipotesi no: resta ancora a monte del-
il paginone
tenza dei fenomeni, la loro osservabilità e la verifica empirica delle ipotesi
emici della scienza
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tocalchi, alla tivù e nei dibattiti pubblici i loro assertori e i loro contestatori come invece oggi avviene. Tornare alla questione principale, quella del metodo scientifico galileiano, è allora davvero decisivo in un mondo come il nostro dove sempre più spesso pare proprio che, almeno a sentire alcuni, gli asini abbiano preso a volare.
Per farsi una buona idea d’insieme della situazione e della posta in gioco è dunque utilissimo uno strumento accurato ma sicuramente fruibile anche da noi specialisti qual è il bel libro Con Galileo oltre Galileo (Sugarco, Milano, pp.242, ¤18,00), appena pubblicato a quattro mani da Luigi Negri, vescovo della diocesi di San Marino-Montefeltro, già docente di Teologia e di Storia della filosofia, e dal matematico e statistico Franco Tornaghi. C’è dentro, ovvio, anche tutta la questione del famoso “caso Galileo”, ma soprattutto vi è l’apprezzamento del “Galileo divin uomo” (per dirla con Antonino Zichichi), e forse forse, che è cosa ancora più importante, la rivendicazione matura e limpida di una impostazione conoscitiva indispensabile alla formulazione di quel pensiero
La cultura oggi dominante rivendica il poter proferire qualsiasi affermazione come testimonianza suprema della libertà di opinione
la verifica e dell’accertamento. Non dice ancora nulla di attualmente verificato e quindi non è ancora scienza come conoscenza certa. Le basi di una scienza come conoscenza certificata sono allora le osservazioni di fenomeni naturali che possono essere ripetute, da cui deriva la preoccupazione di una descrizione dei fenomeni e delle conclusioni in termini selezionati, rigorosi e univoci.
Oggigiorno tutto questo è straordinariamente di moda per esempio di fronte all’affermazione evoluzionistica circa l’origine e lo sviluppo della vita sulla Terra, ovvero l’ipotesi avanzata per la
prima volta e descritta in maniera sostanzialmente compiuta dal naturalista, geologo e agronomo britannico Charles Robert Darwin (1809-1882) secondo cui da un organismo unicellulare semplice, nato casualmente sul nostro pianeta, sarebbe discesa l’intera catena delle specie viventi pluricellulari e complesse, uomo compreso. Ciò avverrebbe per effetto di un continuo processo di speciazione dovuto a successive modificazioni genetiche, tale per cui alcune specie, più adatte, sopravvivono, mentre altre, deboli, si estinguono. Ma è qui che casca l’asino. L’ipotesi evoluzionistica è infatti impenetrabile alle norme del metodo
scientifico, che necessita prima dei fenomeni, poi della loro osservabilità diretta, quindi della verifica sperimentale empirica degli assunti ipotetici ricavati dal fenomeno e dalla sua osservabilità (dal fenomeno osservato perché osservabile), dunque della riproducibilità degli esperimenti per sintesi, cioè in laboratorio, in modo che la costanza dei risultati possa portare all’elaborazione di una legge generale (e magari delle sue eccezioni). Mai si sarebbe pensato che argomenti per certi versi tanto specialistici e di per sé apparentemente così poco “giornalistici” avrebbero finito per far accapigliare su quotidiani e ro-
forte, pieno e rotondo che porta alla verità delle cose. La famosa condanna di Galilei da parte della Chiesa Cattolica, infatti, fu l’esito della contraddizione in cui cadde il padre stesso del metodo scientifico, il quale almeno per un momento, quando chiese cioè alle Sacre Scritture giudizi di tipo fisico-matematico che a esse non competevano, mancò del realismo su cui si fonda la scienza (è l’oggetto a dettare il metodo d’indagine, così che se si confondono oggetti e metodi si compiono abusi gravi) e insomma fu lui quello poco scientifico. Per questo con Galileo è cosa buona e giusta spingersi oltre Galileo stesso, riportando la scienza fisica entro quel limite che le è proprio, l’approssimazione successiva, il dubbio metodico, la costante relativizzazione dei propri risultati, limite che la rende così strumento di conoscenza sublime. Da questo punto di vista ancora insuperato resta pure il “vecchio” The Achievement of Galileo, pubblicato originariamente nel 1979 a cura di James Brophy e Henry Paolucci, e nel 2001 rieditato a cura di Anne Paolucci (The Bagehot Council - Griffon House Publications, Smyrna, Delaware), così come servono bene la causa della vera conoscenza le stigmatizzazioni operate da Giorgio Israel in Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale, e documenti di malascienza (Lindau, Torino 2008) nonché da Thomas “Tom”Bethell in Le balle di Newton. Tutta la verità sulle bugie della scienza (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2007). Dove si mostra che gli asini non volano e che, se talora profetano, per certo sempre ragliano. (www.marcorespinti.org)
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economia
L’inchiesta. I prezzo del petrolio ha prodotto una lunga serie di rincari che peseranno sulle famiglie: anche l’inflazione risalirà in pochi mesi
Quanto ci costa il 2010 Gas, trasporti, banche, assicurazioni: arrivano gli aumenti. Ecco come e quanto (e perché) di Francesco Pacifico
ROMA. «Con i tempi che corrono, anche la vera per sposarsi sarà più cara l’anno prossimo»: nelle parole dell’economista Giacomo Vaciago non s’intravvedono soltanto gli effetti dell’oro ormai stabilmente sopra i 1.100 euro all’oncia. Se la recessione del 2009 ha frenato assieme livelli di domanda e offerta, nel 2010 la ripresa, con il suo basso plus di attività, potrebbe portare non poche tensioni sui prezzi. E ravvivare uno spettro ormai dimenticato come quello dell’inflazione. Che per la cronaca dovrebbe raggiungere quota 1,4 per cento. Il doppio di quanto registrato quest’anno.
Utenze, trasporti, servizi bancari e assicurativi fino al canone Rai che passerà da 107,5 a 109 euro: sono tante le voci nei bilanci delle famiglie che dovrebbero registrare ritocchi all’insù. Adusbef e Federconsumatori hanno già quantificato un salasso annuo pari a 596 euro, legato però per due terzi a una serie di balzelli presenti nell’ultima Finanziaria. Un allarmismo che ha scatenato le ire del governo: «È assolutamente pretestuoso», ha replicato il viceministro all’Economia, Giuseppe Vegas, «affermare che la manovra comporterà una stangata per i cittadini. Non è stata introdotta alcuna tassa, se non un aumento delle tasse aeroportuali, che però sono legate a dei piani di sviluppo non ancora presentati». Di certo c’è che l’anno prossimo non si ripeterà quel combinato disposto tra bassa inflazione, calo del prezzo del petrolio e aumenti contrattuali firmati con un caro vita più alto, che nel 2009 ha quanto meno blindato il potere d’acquisto dei salariati. Si teme invece che il risicato aumento dell’attività non sia sufficiente a recuperare il terreno perduto. E siccome la nuova riforma contrattuale considera il livello di produttività il benchmark per distribuire ricchezza e assorbire mano d’opera, sono più di uno i campanelli d’allarme in un’Italia dove la disoccupazione si accinge a superare il 10 per cento. Al riguardo nota l’economista Vaciago: «Negli anni scorsi i consumatori stavano meglio perché potevano ricorrere al de-
Solo la rottura dei monopoli favorisce il consumatore
Ma la soluzione è la concorrenza Q di Carlo Lottieri
uando ci si interroga su quali saranno i probabili aumenti che verranno a colpire il reddito reale di tanti italiani, è fatale che l’attenzione si orienti immediatamente sui troppi monopoli e, di conseguenza, sulle mancate privatizzazioni e liberalizzazioni che l’Italia attende. Fortunatamente, il tempo dell’Iri di Romano Prodi è ormai definitivamente alle spalle. Ma le dismissioni degli anni Novanta sono state non solo pasticciate (fatte a favore di questo e quel nuovo “oligarca”), ma quel che è peggio sono state lasciate a metà. Basti prendere una delle situazioni che più sono all’ordine del giorno, specie all’indomani dell’ultima nevicata: le ferrovie. Come ha sottolineato Claudio Brenna in uno studio pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, la situazione dei trasporti ferroviari è terribile essenzialmente a causa di una carenza di competizione: e le cose vanno peggiorando, dato che negli ultimi mesi Trenitalia è riuscita «dapprima a farsi contrattualizzare dei servizi che dovrebbero essere gestiti in regime di concorrenza nel mercato, ed in seguito a farsi garantire che tali servizi siano esenti da concorrenza».
Quello ferroviario è però soltanto uno dei molti monopoli che ingessano l’economia italiana: impedendo alle nostre imprese private competere a livello internazionale. Si tratta di monopoli di estensione nazionale (energia e poste, ad esempio), ma anche in molte occasioni ancorate ad aree territoriali più ristrette, poiché i servizi delle vecchie municipalizzate continuano ad essere erogati in situazioni che vedono le famiglie e le imprese senza opportunità di scelta. Per giunta, queste realtà sono complessivamente inefficienti e inadeguate, ma molto care al ceto politico e a quel complesso mondo che vi ruota attorno. Basti ricordare che soltanto una realtà come A2A (la multi-utilities nata dalla fusione tra la milanese Aem e la bresciana Asm) è in grado di distribuire più di 500 posti in consigli di amministrazione di varia natura. Per non parlare di quell’universo più che mai chiuso che
sono le banche, dove Palazzo Koch gioca da sempre una funzione di garanzia contro ogni ipotesi autenticamente competitiva: come la penosa vicenda di Zopa e del suo “social lending” è lì a dimostrare.
Non manca nemmeno chi sostiene che le liberalizzazioni farebbero crescere i prezzi. Tornando ai treni, è vero che se si passasse a una logica concorrenziale e si eliminassero gli aiuti a Trenitalia si potrebbe assistere a un aumento dei prezzi dei biglietti. Non bisogna però dimenticare che oggi la qualità di tali servizi è pessima e, soprattutto, che attualmente il costo di tale mezzo di trasporto è sostenuto anche e soprattutto da chi non l’utilizza. Quando si considera le possibili conseguenze di una liberalizzazione bisogna allora valutare il costo complessivo: ricordando ad esempio che tutti noi finanziamo il trasporto ferroviario con i biglietti, ma anche e soprattutto con il maxi-contratto sottoscritto dallo Stato e dal monopolista (che nell’ultima occasione ha incassato 170 milioni di euro). Se si guarda la realtà nel suo complesso e si vuole proteggere famiglie e imprese, la sconfitta dei monopoli è allora non solo auspicabile, ma necessaria. A tal fine sarebbe importante che l’Antitrust lasciasse perdere i fantomatici «cartelli delle orecchiette» su cui si è tanto (inutilmente) concentrato in passato, difendendo davvero i consumatori italiani contro i monopoli legali e le regole liberticide che soffocano il mercato, intralciando la libertà d’impresa. Basti pensare all’ultima vicenda che riguarda Ryanair, in lotta con l’Enac e pronta a cancellare dal prossimo 23 gennaio le proprie rotte domestiche se le verrà imposto di ridurre la propria attenzione alla sicurezza. La vicenda è significativa, perché la compagnia irlandese guidata da Michael O’Leary rappresenta una delle forze che negli ultimi anni più hanno operato a favore dei consumatori italiani: permettendo a studenti universitari e pensionati di girare l’Europa anche senza spendere troppo. Eppure ha spesso trovato ostacoli e impedimenti.
bito. Di conseguenza oggi o si tira la cinghia oppure si aumenta la produttività. Altrimenti i mancati ricavi vengono scaricati sulla clientela finale». Emblematiche al riguardo le ultime decisioni del mondo delle assicurazioni. La Confindustria del settore, l’Ania, ha annunciato che la congiuntura costringerà le compagnie ad alzare in media i premi per il rc auto del 2,73 per cento. Il presidente Fabio Cerchiai ha spiegato che le imprese si sono trovate a dover affrontare una riduzione del 3,5 per cento in questo comparto e che sono a rischio 5mila agenzie. Parole che non hanno convinto Giancarlo Giannini, il presidente dell’Isvap: «Gli aumenti dei premi non sono la risposta giusta alle difficoltà del settore rc auto e per certi versi rischiano di aumentarle. Le compagnie dovrebbero potenziare e rendere più efficienti le strutture di liquidazione dei sinistri. Così abbatterebbero i costi, creando i margini per ridurre i prezzi. Inoltre, fatto non secondario, si prevengono le frodi». Quindi, non sarà questo clima a risolvere i problemi di domanda interna. Eppure due saranno le varianti per decifrare l’invasività dell’inflazione: il prezzo del petrolio e il livello dei tassi d’interesse.
Come si legge in un paper dell’ufficio studi del Monte Paschi di Siena presentato a inizio dicembre, «l’inflazione resterà molto contenuta per tutto il 2010 se il prezzo del petrolio non salirà entro i prossimi tre mesi oltre i 100 dollari. Le pressioni più forti infatti si dovrebbero verificare fino a marzo 2010, poi la situazione dovrebbe stabilizzarsi su livelli contenuti (intorno all’1 per cento) sia in Italia sia in area Euro». Segnala l‘economista Da-
economia
vide Tabarelli, presidente di Nomisma energia: «Sul mercato c’è un surplus nell’offerta di greggio». Ed è questo è il motivo per il quale l’Opec ha deciso due settimane fa sia di non aumentare la produzione sia di tenere il prezzo di un barile tra i 70 e gli 80 dollari. A oggi nessuno può dire con certezza se i Paesi produttori ci riusciranno, fatto sta
velocità che collega Torino e Salerno, ha già presentato un conto molto salato ai viaggiatori: da gennaio i 48mila posti sui Frecciarossa, Frecciargento o Eurocity costeranno in media il 17,8 in più in seconda classe e il 9,5 per la prima. Il famigerato articolo che in Finanziaria prevede anticipazioni tariffarie di 3 euro a passeggero su ogni singolo bi-
Saranno fondamentalmente due le varianti per decifrare l’invasività dei rincari: tutto dipenderà dal prezzo del greggio e dal livello dei tassi d’interesse. Insomma, un problema globale che, aggiunge Tabarelli, «si va verso un forte equilibrio. Il consensus dice che il prezzo oscillerà tra gli 80 e i 90 dollari, noi siamo più ribassisti e guardiamo ai 60 dollari. E la cosa può portarci a escludere aumenti sulle bollette della luce – i prezzi alla Borsa elettrica sono bassi – o sulla benzina».
Non sono della stessa idea i consumatori, che in un recente vertice al ministero dello Sviluppo economico hanno trovato nel governo un alleato nella critica ai meccanismi di formazione del prezzo della benzina. Il sottosegretario Stefano Saglia ha annunciato per gennaio «un intervento normativo per la razionalizzazione della rete». L’obiettivo è colpire la frammentazione, «incrementando gli iper-self e i selfservice; liberalizzando gli orari e il non-oil; incentivando le pompe bianche». Non è escluso un piano per incidere sulla periodicità dei rincari. In attesa di capire se la benzina raggiungerà un nuovo picco, il mondo dei trasporti sembra già essersi messo al riparo. E nel modo peggiore.Trenitalia, assieme con il servizio alta
glietto a favore dei gestori aeroportuali, potrebbe fare da volano al rincaro di altre voci. In primis a quelle sulla sicurezza. «Si configura una vera e propria stangata tariffaria pari ad almeno 65 euro l’anno a carico dei viaggiatori, tanto per far uscire il settore dei trasporti dalla gravissima crisi», accusano Elio Lannutti e Rosario Trefiletti. Nota l’economista e direttore del Cerm, Fabio Pammolli: «Sul fronte dei servizi pubblici di rilevanza economica (soprattutto la gestione delle acque e il trasporto su gomma e su rotaia), si va accumulando ormai da anni un ritardo infrastrutturale che, nelle attuali condizioni di finanza pubblica, non è agevole riassorbire facendo leva sul solo bilancio dello Stato o degli enti locali. Il dato allarmante, che sta emergendo, non riguarda solo la levitazione dei costi e delle tariffe, ma anche il divario tra costi e qualità e adeguatezza delle prestazioni».
Se si accettano scommesse sul greggio e sulle ripercussioni sui settori a esso legati, è invece certo che il primo salasso dell’anno arriverà dal gas: a gen-
naio, e dopo quattro trimestri di ribassi, l’authority per l’energia dovrebbe annunciare un aumento del 2,8 per cento. Nomisma energia ha calcolato un rincaro pari a 26 euro a famiglia. Di conseguenza c’è soltanto da sperare che l’inverno si mantenga mite come è stato finora. A ben vedere i consumatori stanno già scontando questo generale trend rialzista, che dovrebbe manifestarsi in tutta la sua portata già dal prossimo mese. Il Codacons ha denunciato che l’ondata di maltempo di metà dicembre ha fatto salire i prezzi di frutta e verdura tra il 5 ed il 10 per cento. Anche su quei prodotti che arrivano dai caldi mercati del Sud del mondo. L’Adoc ha segnalato che i pezzi più pregiati del presepe costano il 25 per cento in più rispetto all’anno scorso. Altroconsumo, invece, si è soffermata sulla settimana bianca: tra attrezzature e accessi agli impianti si spende il 3 per cento in più rispetto al 2008.
Ma il caso più interessante è quello della pasta. Seppure la materia prima, il grano, sia calata della 30 per cento, secondo la Coldiretti c’è un ricarico del 400 per cento sul prezzo finale: dai 18 centesimi al chilo per il grano duro si arriva agli 1,4 euro per la stessa quantità di pasta. Più in generale Unioncamere, nel suo bollettino “Vendite flash”, fa sapere che «i prezzi di pasta, olio, latte stanno tornando ai livelli precedenti alla crisi, dopo i forti rincari provocati nel corso del 2008 dalle oscillazioni dei prezzi delle materie prime agricole ed energetiche». Il tutto, mentre il resto dei prodotti «venduti negli iper e supermercati italiani sta scendendo, invogliando così le famiglie a riempire di più il
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carrello della spesa». Alla base di tutti questi rialzi ci sono sia le speculazioni sulle materie prime (che fortunatamente non si sono ancora estese ai beni strumentali) sia il tentativo di pezzi dell’economia reale di sfruttare il boom di fiducia registrato tra i consumatori. Ma su queste due fenomeni così lontani, sarà decisivo il costo del danaro.
Nell’ultima riunione di dicembre il governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, ha confermato che i tassi sono adeguati. Ma dall’Eurotower hanno già chiarito che non faranno le barricate per evitare che il combinato disposto tra alta liquidità e bassa produttività porti l’inflazione sopra il 2 per cento. Di conseguenza, c’è già chi vede all’inizio del secondo semestre dell’anno venturo un
anche in relazione alla crescita degli spread. «Per quanto riguarda banche e assicurazioni», segnala l’economista Fabio Pammolli, «il problema è ben noto e non sorge oggi. Nei giorni scorsi il presidente dell’Antitrust, Catricalà ha sottolineato che “serve una legge di principio minima. Chi è proprietario di azioni in più banche deve scegliere in quale CdA o Consiglio di sorveglianza stare. E lo stesso vale per le assicurazioni. Una legge di principio come questa darebbe un assetto migliore e più fiducia ai consumatori”. Se tutti partecipano in tutti, inevitabilmente, gli stimoli concorrenziali e l’emulazione delle best practice rallentano». Ma a dare l’ultimo colpo alle buste paghe, a renderle più pingui nel 2010, saranno le amministrazioni decentrate. I vincoli al patto di stabilità interno e i
Sulle famiglie si farà sentire parecchio anche il costo del denaro: Adusbef e Federconsumatori hanno stimato un aumento annuo pari a 120 euro. Ma non sempre sarà solo «tutta colpa della Bce» primo rialzo dei tassi d’interessi, fermi da quasi un anno all’1 per cento. Se da un lato questa decisione dovrebbe rendere più onerose le speculazioni sulle materie prime, dall’altro l’aumento del costo del danaro avrebbe forti ripercussioni sulla capacità d’indebitamento degli italiani: sulla propensione a fare mutui così come sul ricorso al credito al consumo. Le associazioni temono che le istituzioni finanziarie possono approfittarne per rincarare i servizi bancari. Comprendendo la parte mutui, Adusbef e Federconsumatori hanno stimato un aumento annuo pari a 120 euro,
trasferimenti sempre più risicati dal centro potrebbero spingere le amministrazioni ad aumentare la fiscalità di loro competenza. In questa chiave ha “rasentato” lo scandalo l’annuncio dell’assessore bolognese al Bilancio, Villiam Rossi, di alzare dell’1,8 per cento la Tarsu pur di recuperare un miliardo in più per le casse comunali. Grazie a lui la Confindustria e la Cgil locali hanno dimenticato i vecchi dissapori e si sono unite contro l’esosità di un amministratore, forse reo soltanto di fare sempre più fatica a pagare i servizi primari come l’assistenza agli anziani.
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Sequestrato in Thailandia un carico di missili e lanciarazzi arrivati da Pyongyang ndrei Lan’kov, noto orientalista russo e specialista della Corea, in una analisi pubblicata lo scorso 12 novembre nel Seul’skii vestnik, osservava come nell’ultimo anno e mezzo la consueta tattica di Pyongyang (test missilistici e nucleari seguiti da dichiarazioni bellicose e dalla successiva disponibilità al negoziato) sembra non aver dato i frutti di cui in passato ha beneficiato la dirigenza comunista di Kim Jong Il. L’estrema virulenza delle dichiarazioni nordcoreane ha portato a un risultato sorprendente: «Nessuno nell’establishment statunitense crede più che la Corea del nord possa rinunciare alle armi nucleari». Anche il repentino cedimento con Seoul, effettuato con il fine di ottenere aiuti economici, si è trasformato in un autogol, poiché la destra sudcoreana è giunta alla conclusione che «la sola tattica che funziona con Pyongyang è una linea dura e senza compromessi».
A
Questi errori di una Corea del nord in genere ben più attenta alle tattiche negoziali si spiegano con la sempre più gravosa situazione interna del paese, peraltro isolato
Se il traffico d’armi tiene in vita il regime L’economia nordcoreana sull’orlo del collasso: gli unici profitti arrivano dai commerci illegali di Fernando Orlandi la sua applicazione la si deve alla buona volontà dei singoli paesi. In alcuni casi, è stata applicata con successo. Ad esempio, in luglio una nave che probabilmente trasportava armamenti destinati al Myanmar, per evitare i controlli ha dovuto rientrare in patria e in agosto negli Emirati Arabi Uniti è stata sequestrata l’Anl-Australia, una nave battente bandiera delle Bahamas che trasportava armi destinate all’Iran, indicate nei documenti di carico come attrezzature petrolifere. Una vicenda dai contorni ancora non del tutto chiariti riguarda il recente sequestro di un carico di armi nordcoreane
La destinazione finale degli armamenti sarebbe stata il Medio Oriente: probabilmente l’Iran oppure gruppi come Hamas o Hezbollah internazionalmente e sottoposto a sanzioni delle Nazioni Unite. Una situazione decisamente difficile, dove la sopravvivenza è anche garantita dagli aiuti umanitari inviati dal “nemico”. Già, perché la bancarotta sociale ed economica del regime (che pur non rinuncia alle spese militari e agli armamenti nucleari) progredisce. Oramai l’unico comparto dell’economia che funziona e permette di introitare preziosi divise convertibili è quello degli armamenti, sia convenzionali che quelli ancora più ambiti della tecnologia missilistica e nucleare. Analisti del settore stimano che Pyongyang introiti all’incirca un miliardo di dollari all’anno da questi traffici illegali. A seguito del rifiuto della Corea del nord di interrompere il suo programma di arricchimento dell’uranio e dopo l’ennesimo lancio di missili balistici, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato la Risoluzione 1874, che invita gli stati alle ispezioni e alla distruzione del materiale entuale reperito. La risoluzione, tuttavia, non è vincolante, e
avvenuto il 12 dicembre in Thailandia, quando su segnalazione dell’intelligence statunitense viene controllato un Ilyushin Il-76T (4LAWA) in scalo tecnico per il rifornimento di carburante.
Nel volo di andata l’aereo cargo, decollato dall’Ucraina, aveva fatto tappa per il rifornimento in Azerbaijan, Dubai, Emirati Arabi Uniti e Bangkok, per poi terminare il volo a Pyongyang, dove aveva imbarcato il carico, anche questa volta, attrezzature per l’industria petrolifera. A detta degli arrestati il volo di ritorno prevedeva ulteriori fermate nello Sri Lanka e negli Emirati Arabi Uniti. La destinazione finale, a loro dire, sarebbe stata l’Ucraina. Questa versione non è ritenuta credibile da chi indaga, e fonti statunitensi hanno fatto sapere che la reale destinazione delle armi il Medio Oriente, probabilmente l’Iran o qualche organizzazione quale Hamas o l’Hezbollah. L’Ilyushin è un aereo cargo ideale per i traffici illegali, essendo stato
Sopra, l’esercito nordcoreano. A fianco, il presidente Kim Jong-Il
progettato per atterraggi anche su piste di fortuna e dalle dimensioni ridotte. Il carico era costituito da 35,8 tonnellate di armi, fra cui missili portatili terra-aria e due lanciarazzi multipli semoventi da 240 mm (sono delle armi offensive particolarmente insidiose, sviluppate dai nordcoreani). Gli armamenti, il cui valore è stimato in circa circa 18 milioni di dollari, sono stati trasferiti nella base militare dell’aviazione thailandese di Takhili, dove si sta procedendo all’inventariamento e all’elaborazione della relazione per il Comitato per le sanzioni alla Corea del nord dell’Onu.
I cinque uomini dell’equipaggio, tutti ex militari, quattro kazaki e il pilota bielorusso Mikhail Petukhov, arrestati e ora detenuti nel carcere di Klong Prem, rischiano una pesante condanna detentiva. Radilbek Adimolda, del Ministero dell’aviazione civile del Kazakhstan ha reso noto che i suoi connazionali erano in congedo dalla East Wind, una compagnia aerea priva-
ta del suo Paese. In qualche modo questa vicenda è paradigmatica di come avvengono molti traffici illegali di armi: un insieme di società e passaggi di proprietà, un vero e proprio sistema di scatole cinesi, con compagnie che sorgono e poi improvvisamente scompaiono, per impedire la ricostruzione delle loro attività.
I piloti erano stati assunti a contratto dalla compagnia aerea georgiana Air West, che solo da alcuni mesi aveva registrato l’Ilyushin. Lo stesso aereo, in precedenza era appartenuto alla compagnia privata kazaka East Wind, presso la quale gli stessi uomini avevano lavorato in precedenza. L’aereo era poi stato venduto alla Beibers, compagnia aerea privata del Kazakhstan, che in ottobre l’aveva ceduto alla Air West. Secondo fonti kazake, anche l’Air West è società giovane, registrata nel 2008 a Batumi, ma il suo ufficio operativo si trova in Ucraina. Per questo volo l’aereo sarebbe stato noleggiato a una altra società ucraina, la SP Transport Limited. Della SP Transport Limited sembra esistere un clone, questo secondo registrato in Nuova Zelanda il 22 luglio. Entrambe, tuttavia, hanno uno stesso direttore, tale Lu Zhang. La SP Transport Limited della Nuova Zelanda sembra essere a sua volta una ulteriore scatola, controllata da un unico azionista, la Vicam Limited di Auckland (anche questa una società relativamente giovane), che ha un direttore residente a Port Vila, nella Repubblica di Vanuatu, arcipelago del Pacifico con poco più di duecentomila abitanti, noto alle cronache anche per essere un paradiso fiscale. La Vicam Limited sembra essere di proprietà o essere stata creata dal Gruppo GT, anch’esso con sede a Vanuatu. Una occhiata al sito web del Gruppo GT è interessante (www.gtgroup.com.vu). Nella pagina iniziale è pubblicizzata la vasta gamma di servizi che offre, società offshore, “per la privacy, l’elusione fiscale legale, l’indipendenza e la libertà finanziaria”. Insomma, costituisce anche società ombra, l’ideale per i traffici illegali. Dovesse davvero essere applicato da tutti i Paesi, il sistema delle sanzioni alla Corea del nord stabilito dall’Onu assesterebbe un colpo importante al regime di Pyongyang, costringendolo probabilmente ad assumere una postura diversa sulla scena internazionale e a farla ritornare al tavolo negoziale.
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In molti affermano di aver visto la Vergine sul tetto di una chiesa
Dopo l’esecuzione in Cina di un cittadino britannico
I copti egiziani: «La Madonna è apparsa nei cieli del Cairo»
È crisi diplomatica tra Londra e Pechino
IL CAIRO. Un’apparizione della
LONDRA. È crisi diplomatica tra Gran Bretagna e Cina. Il ministero degli Esteri britannico ha convocato l’ambasciatore cinese a Londra, la signora Fu Ying, dopo l’esecuzione di un cittadino britannico, Akmal Sheikh, giustiziato ieri mattina con un’iniezione letale dopo essere stato condannato a morte con l’accusa di narcotraffico. Londra aveva ripetutamente chiesto clemenza per il 53enne Sheikh, sostenendo che l’uomo soffrisse di disturbi mentali, ma le autorità cinesi hanno definito «insufficienti» le prove a sostegno di questa tesi. Il premier
Madonna in Egitto. È accaduto al Cairo nella chiesa dedicata alla Vergine e a San Michele nel quartiere di Waaraq al-Khodr, a Giza. A darne notizia l’arcivescovado dei copti ortodossi di Giza. «Rivestita di luce, la Vergine è apparsa sulla cupoletta della chiesa – dice Anba Teodosio vescovo di Giza – vestita di un abito bianco lucente con una cintura regale di colore azzurro con in capo una corona al di sopra della quale era posta la croce che sovrasta la cupoletta. Le altre croci che circondano la chiesa emettevano luci splendenti. Tutti gli abitanti del quartiere hanno visto la Vergine spostarsi e apparire sul portale tra i due campanili. L’apparizione è durata dall’una di notte fino alle quattro del mattino».
L’Egyptian Gazette riporta che «in molti affermano di aver visto di persona laVergine sul tetto della chiesa di San Michele, con le braccia aperte verso di loro, mentre intorno si spandeva odore di incenso e volava uno stormo di colombe. Un fatto che si sarebbe ripetuto almeno due volte». Ora si attende che il papa copto Shenouda III, ritornato nei giorni scorsi dagli Usa al Cairo, istituisca un comitato che si occupi di investigare sulle presunte apparizioni e anche di decidere sulla ragguardevole somma raggiunta dalle offerte lasciate dai fedeli.Tra le centinaia di persone che ogni notte si radunano di
E ora Obama sogna la riforma della scuola Dopo la sanità, la Casa Bianca punta agli atenei di Rossella Fabiani
ROMA. Vinta (quasi certamente) la battaglia sulla riforma della sanità, il prossimo fronte caldo della Casa Bianca passerà per gli atenei americani. Il sistema statunitense è il più caro al mondo ed è costruito sul mito delle università d’eccellenza, quasi sempre private. I costi, però, sono un problema per molti ragazzi e per le loro famiglie. Per studiare ad Harvard, ad esempio, la retta si aggira intorno ai 50mila dollari all’anno. Troppi per un Paese colpito dalla crisi. Così una delle storie che si raccontano a New York è quella di una piccola università cattolica, la St. John’s, ateneo riconosciuto dalla Princeton Review come uno dei migliori del Nord Est che, tra l’altro, ha inaugurato un anno fa una sede a Roma. Alla St. John’s si è laureata quest’anno in economia anche Eleonora Berlusconi, la figlia del premier. Notizia, peraltro, ripresa dai giornali newyorkesi perché, paradossalmente, la St. John’s non è una scuola per ricchi. Come spiega Dominic Scianna, portavoce dell’ateneo, la missione dell’istituto è, fin dall’inizio - quando 140 anni fa i padri vincenziani aprirono la St. John’s, - portare all’università i più poveri, dare istruzione gratuita. La metà dei 15mila iscritti, infatti, è costituita da studenti che altrimenti non avrebbero mai frequentato un ateneo. Una retta alla St. John’s costa 28 mila dollari ogni dodici mesi, ma un sistema di borse di studio e prestiti copre la totalità delle spese per chi non può permettersele.Trecento milioni stanziati ogni anno da privati per rendere la St. John’s accessibile a tutti. Sarebbe, in fondo, proprio la politica che ha in mente l’amministrazione Obama che ha promesso di spendere 30 miliardi dei soldi dei contribuenti per contenere i costi degli atenei americani che ormai, in un Paese con il 10 per cento di disoccupazione in più, sono diventati proibitivi. Ma il presidente Obama è deciso a fare anche altro. Sottoponendo a una più seria valutazione, per esempio, la stessa classe dei docenti. E per attuare il suo poderoso progetto di riforma, si è messo al fianco come ministro, il risoluto Arne Duncan, già assessore all’istruzione di Chicago, laureato cum laude, amico e compagno di basket del presidente. Duncan è noto per avere assunto misure molto dure per migliorare le scuole di Chicago, che è il terzo distretto scolastico per grandezza negli Usa. Ha sferzato le scuole sca-
denti, ha sostituito i docenti incapaci ed è riuscito a innalzare i risultati degli studenti. L’amicizia di Duncan con Obama è cominciata sui campi di basket quasi vent’anni fa, ma si è approfondita da quando è diventato assessore all’istruzione di Chicago nel 2001. Duncan è stato quello che più di ogni altro ha aiutato il presidente a stendere il programma sull’istruzione, che comprende il reclutamento di migliaia di nuovi insegnanti, la sollecitazione agli amministratori locali ad adottare per i docenti incentivi in base al merito, la formazione dei dirigenti scolastici e una maggiore attenzione per l’educazione matematica e scientifica. Il programma ha anche indicato la necessità di aumentare gli investimenti federali per le scuole dell’infanzia, considerati molto più importanti rispetto a quelli spesi per recuperare ritardi nell’apprendimento.
Una delle maggiori sfide che il ministro deve affrontare è quella di ricostruire quel consenso bipartisan che permise a Bush nel 2001 di fare approvare la riforma “No Child Left behind”, nessun bambino sarà lasciato indietro. Già un tentativo di riscrivere la legge, immettendovi un’importantissima norma sulla scuola pubblica, è fallito per l’opposizione dei conservatori che non erano assolutamente d’accordo che la legge invadesse l’autonomia dei singoli Stati. Ma Obama rivendica una profonda riscrittura della legge del 2001, difendendo le norme sull’accountability (rendicontazione delle scuole) che impongono agli istituti progressivi miglioramenti. E non finisce qui. Per favorire la partecipazione attiva degli studenti nel progetto di riforma del sistema educativo, il presidente Barack Obama e il ministro dell’istruzione Arne Duncan hanno deciso di ascoltare direttamente le opinioni e le idee degli studenti utilizzando quello che probabilmente è oggi lo strumento di comunicazione con cui i giovani si trovano più a loro agio: i video autoprodotti. L’Amministrazione ha chiesto così ai ragazzi di ispirare con le loro storie e le loro idee l’azione legislativa - come dire di aiutare il governo a riscrivere la legge raccontando la scuola che vorrebbero e le cose che adesso non funzionano. Il concorso, che si è chiuso il 2 novembre scorso, è stato chiamato “I am what I learn”(sono quello che imparo) ed era rivolto a tutti gli studenti dai 13 anni in su.
Il presidente si affida al ministro dell’Istruzione Arne Duncan per riscrivere la legge voluta da Bush nel 2001
fronte alla chiesa sono già arrivati i venditori ambulanti che offrono cibo, bevande e sigarette. Qualcuno accende anche un fuoco per riscaldarsi, visto che le temperature notturne scendono fino a 9 gradi. Il quotidiano indipendente Al Dostour che parla di «migliaia» di copti richiamati dalle voci sulle apparizioni. E rileva che lo stesso presidente Nasser, appena uscito dalla bruciante sconfitta della Guerra dei Sei giorni del 1967, si era recato di persona per assistere ad un’altra apparizione della Madonna che sarebbe avvenuta nel quartiere di Heliopo(r.f.) lis l’anno successivo.
Gordon Brown si è detto «inorridito e deluso» per il fatto che «le persistenti richieste di clemenza non siano state tenute in considerazione» e ha condannato l’esecuzione «nei termini più forti». Brown si è detto anche «particolarmente preoccupato» che non sia stata compiuta «alcuna valutazione della salute mentale» di Shaikh. Il ministro degli Esteri britannico, David Miliband, ha ribadito che Londra si oppone all’uso della pena capitale in qualsiai circostanza. Anche il capo del Foreign Office ha espresso «profondo rammarico» per il fatto che siano state ignorate le preoccupazioni da lui espresse sul caso di Shaikh, comprese quelle «relative alla salute mentale».
Anche la Ue ha «condannato in modo assoluto» l’esecuzione di Akmal Sheik, in una nota diffusa a Bruxelles dalla presidenza svedese dell’Ue a nome dell’Unione Europea.L’Unione europea «riafferma la sua assoluta opposizione all’uso della pena di morte in tutte le circostanze e ricorda che qualunque errore della giustizia nell’applicazione della pena capitale rappresenta una perdita definitiva e irreparabile della vita umana», continua la nota. Per questo l’Ue si dice «convinta che l’abolizione della pena di morte sia parte integrante del rispetto dei diritti umani e della protezione della dignità umana».
cultura
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Percorsi. Ci sono tele in cui l’interiorità di chi le ha dipinte è più evidente che in altre: cercarle è quasi un azzardo critico
Se l’arte ha un’anima Conoscere i pittori attraverso i loro ritratti: è la sfida di un saggio di Beatrice Buscaroli di Massimo Tosti i vuole coraggio per mettere in discussione la figura di Caravaggio, alla vigilia del terzo centenario della morte, un’occasione in più per elevarlo sugli altari della critica. Ci vuole coraggio (se non impudenza) per mettere alla prova la sua sincerità e il suo verismo. «La sua verità è gran teatro. Che si sofferma sui volti, sulle smorfie, sulle sporcizie, sulle inezie del mondo che la pittura non era abituata a riprodurre, non solo per “decoro” (l’antico “decorum”), ma perché guardava più in alto delle piante sporche dei piedi che Caravaggio a tutti i costi volle affibbiare al contadino in preghiera nella sua Madonna del Rosario». Ci vuole una buona dose di sfacciataggine per trascinare le sue idee e attitudini di vita agli scenari dei giorni nostri. «Caravaggio è comuni-
C
in mostra Beatrice Buscaroli, critica e storia dell’arte, curatrice (con Luca Beatrice) del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, in un libro prezioso (I colori nelle mani, Marietti 1820 editore, 22 euro, 262 pagine più 16 tavole fuori testo) per chi ami l’arte e voglia scoprire le connessioni fra tanti capolavori della pittura e la vita privata, le emozioni, le passioni, le debolezze, di chi li ha concepiti. La chiave è proprio questa: raccontare gli artisti insieme con le loro opere. Cinquantasei ritratti (di pittori vissuti fra il XV e il XX secolo) «a figura intera, che uniscono le opere alle biografie, i lavori alle persone, ai loro scritti, alle loro lettere e diari, e li rendono più vicini, accostabili, talvolta simpatici, altre volte no». Con una venatura polemica: «Ho sempre pensato che gli storici dell’arte
Si comincia con Caravaggio, per il quale «la verità è un gran teatro». Ossia un grande palcoscenico fatto di volti, di smorfie, di sporcizie e, insomma, di tutte le inezie del mondo sta? È un radical-chic che spacca la faccia ai suoi amici e tira piatti di carciofi in osteria, ma poi si fa salvare dai potenti. Peccato che non viva adesso, sarebbe tanto adatto. È un rivoluzionario? La sua faccia, come ci viene tramandata dal bellissimo disegno a matita, ce lo rivela non simpatico, arrogante, prepotente».
Il coraggio (l’impudenza, la sfacciataggine) sono le doti – apprezzabilissime – che mette
avessero bisogno di avvicinarsi alla natura vera degli uomini che hanno fatto l’arte: solo così la storia diventa eterna, e nostra, possibile».
Il ritratto umano di Caravaggio è quello più tranchant e impietoso. Era un uomo che aveva eletto la brutalità a regola di vita, e che giudicava la verità immancabilmente “brutta”. «Caravaggio sovverte i principi del suo tempo, e dà risalto ai volti degli aguzzini più che a quelli
Qui accanto, la copertina de «I colori nelle mani» di Beatrice Buscaroli. Nelle immagini di queste pagine, alcuni dei ritratti citati nel saggio dei salvi della storia: pesca una donna annegata dal Tevere e la rende una Madonna». Ci furono altri pittori che diedero spazio al brutto (Bosch, Brueghel, Ghirlandaio, o – in anni recenti – George Grosz, Otto Dix, Salvador Dalì). Persino Velazquez, con i suoi nani o i bodegones (i dipinti nei quali raffigurava la povera gente) riservò molto spazio all’estetica della bruttezza, ma Velazquez fu davvero padrone della verità, perché i suoi quasi «sono sentimento e passione, conoscenza degli uomini e amore per il loro esistere, bello o brutto che sia, nobile o schiavo». Nel grande maestro spagnolo «la bravura, per quanto grandissima, cede e lascia il posto a un commovente, totale e assoluto amore per la vita». Non a caso, Luca Giordano (più o meno contemporaneo di Velazquez) definì Las meninas “teologia della pittura”.
Si racconta che il papa Innocenzo X, vedendo il ritratto che Velazquez gli aveva fatto, esclamò: «Troppo vero!».Velázquez rifiutò l’altissimo compenso che il papa gli aveva offerto. Sembra molto brutto il papa in
quel dipinto. Ma gli storici raccontano che Giovanni Battista Pamphili era talmente brutto da aver perfino generato qualche dubbio nei cardinali riuniti sei anni prima in conclave riguardo all’opportunità di eleggerlo. Eppure – a quei tempi – non esisteva la televisione e neppure la fotografia, e l’aspetto estetico era decisamente meno importante di oggi. Quel dipinto ossessionò per parecchi anni Francis Bacon, il “maestro del dolore”, che raccontava nelle
sue tele la crudeltà della vita. A Bacon Beatrice Buscaroli dedica l’ultimo dei suoi cinquantasei ritratti. Non a caso, si potrebbe dire, perché – questo è il suo giudizio – «con tutto il suo corrompere e ricostruire, Bacon tocca il fondo e il vertice di un sistema che ha secoli di tradizione e di storia, sfiora insieme l’abisso del nulla e la vertigine dell’assoluto, sempre rimanendo soltanto “dentro” la pittura. Quindi, il suo passaggio è ancora più fatale – limpido, necessa-
cultura
asmatico cronico quale lui fu, che trasmette a ogni istante della sua vita il rantolo doloroso del suo sopravvivere». Scrive l’autrice: «Il suo spasmo è il doloroso grido di un uomo che aspira a un ordine, a un futuro, a un segno».
rio – perché la pittura di questo nostro secolo deve anche a lui la sua sopravvivenza nella storia dell’arte». Bacon assimila «la forma, la bellezza dagli artisti che più amava» (Velazquez e Michelangelo, che ci ha lasciato un solo autoritratto, «deformato e atterrito» nella palle di San Bartolomeo, sulla parete del Giudizio Universale), ma la interpreta con il filtro della sua vita disordinata e con «il respiro incompiuto, sconnesso, sofferto, che è il suo». Un respiro «di
È affascinante rileggere la storia dell’arte frugando nell’anima degli autori. Fra i cinquantasei ritratti, manca quello di Van Gogh. Ma, forse, era inutile scrutare nell’esistenza di un artista che è stato vivisezionato da critici e psichiatri, componendo un quadro definito, e codificato, della sua tormentata esistenza. Ci sono, invece, molti degli artisti italiani che hanno segnato l’ultimo secolo e mezzo dell’arte: Silvestro Lega, Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Mario Sironi, Amedeo Modigliani, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Alberto Burri. E, per ciascuno di loro, il racconto della vita aiuta a comprendere il significato delle opere. Boldini fu l’ultimo pittore antico e chiude la storia dell’arte nel significato tradizionale. «È veloce di mano, rapido di sguardo, disegna sempre». È brutto, è basso, «sproporzionatamente creato come uno gnomo, tutto testa», lo chiamano il nano. Per gran parte del Novecento fu snobbato perché giudicato «troppo bravo». Dipinse ritratti fino alla morte, che lo colse con il pennello in mano (come era accaduto tre secoli prima a Tiziano, quasi centenario, afflitto dalla stessa paura: non riuscire a completare il proprio lavoro: Fu negli ultimi anni che dipinse Tarquinio e Lucrezia con quella «lunga ditata bianca
che attraversa la veste di Tarquinio e taglia la tela come un solco di Lucio Fontana»). Un giorno Boldini ricevette a Parigi la visita del giovane Filippo De Pisis, che ancora si divideva fra giornalismo e pittura. Si informò sui soggetti dei quadri del collega che era andato a intervistarlo. «Nature morte...», bisbigliò De Pisis. «Dio, che tristezza – replicò il vecchio – faccia ben delle cose vive!». Boldini morì a Parigi. che tra la fine dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento fu l’indiscutibile capitale mondiale dell’arte. E l’amicizia fra i vari pittori (provenienti da ogni parte del mondo) influenzò profondamente le opere di ciascuno di essi, che avevano l’opportunità di confrontarsi, di discutere, di misurarsi fra di loro.
Soltanto un paio di loro fecero eccezione: De Chirico e Modigliani. Modì era un bon vi-
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glianza. De Chirico era solitario per natura e per presunzione (legittima). Si riteneva il più grande pittore della sua epoca, e disprezzava tutti gli altri, con qualche rarissima eccezione. Di Dalì scrisse che «è l’antipittore per eccellenza; persino nella faccia, persino nel nome. Quelle orrende superfici su cui pesta e liscia degli orrendi colori, copiosamente verniciati, e che solo a guardarli fanno venire le nausee e le coliche saturnine, sono state imitate da altre persone della sua specie che, a loro volta, lo scimmiottano come possono e della pittura delle quali, il meno che si possa dire è che dovrebbe occuparsene l’ufficio d’igiene». Liquidò André Breton con una frase secca: «È il tipo classico del somaro pretenzioso e dell’impotente arrivista». Fece un unico fascio di alcuni maestri: «Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Modigliani, Matisse ed altri, sono stati nul-
Fra i grandissimi del Novecento, la studiosa inserisce anche Giorgio De Chirico che si riteneva il maggiore della sua epoca, e disprezzava tutti gli altri, con qualche rarissima eccezione vant, ma – allo stesso tempo – un solitario. Era bello e piaceva tantissimo alle donne (che ricambiava). Ma era anche drogato e malato. Rimase indifferente alla guerra, la Grande Guerra, che inghiottì tanti giovani artisti affascinati dalla Nemesi. Il sogno della sua vita era la scultura, ma le forze gli impedivano di usare a dovere lo scalpello. Nella pittura cercò di trasferire le proprie idee sulla plasticità. Dei suoi modelli gli interessava la posa, non la somi-
l’altro che fenomeni di impotenza, di ignoranza e di nullità, ed è impossibile in tutta la storia dell’arte trovarne di uguali». Di Monet, “pittore della luce”, scrisse che «è il pittore meno luminoso e dai colori più sudici e torbidi che sia esistito da cento anni a questa parte». La Buscaroli scrive che «possedeva la tecnica, la cultura, l’ironia, il senso di una storia che si svolge come un nastro e passa davanti e dietro la vita. Domò la pittura, senza diventarne schiavo. Si di-
vertiva a dipingere. Si dipingeva nudo come un vecchio lenone in mutande. Ma intanto spia, sornione, come un falco, da dietro gli occhi castani. E si diverte». E aggiunge un giudizio critico sulla critica, che riguarda – più o meno – tutto il Novecento: «Tutti potevano fare e disfare, inventare e nominare stili e movimenti, voltare la tela, tagliarla e bucarla, negarla fino alla sua fisica scomparsa, ma De Chirico fu avvolto, a un certo punto, dall’aura fallimentare che si accaniva su Marinetti, su tutti i futuristi, sul meglio che il Novecento italiano poneva sul piatto dell’arte europea. Si bocciò Modigliani, si compatì De Pisis, si lasciò che Mario Sironi morisse sdegnato e solo, si dimenticò Giacomo Balla, che passeggiava a Villa Borghese mentre i suoi quadri se ne andavano, come i Boccioni, nei musei d’Europa».
La maggior parte di quei critici miopi è morta da qualche decennio. Qualcun altro sopravvisse fino a prender per buone le teste di Modigliani ripescate in un canale di Livorno. Altri sono ancora al posto loro, e tentano disperatamente di tener buone le valutazioni di allora e conciliarle con quelle entusiastiche di oggi. Se ne potrebbe dedurre che gli artisti italiani, nell’ultimo secolo, sono stati di gran lunga migliori dei loro critici e dei mercanti che spacciavano per capolavori le croste dei loro protetti e tenevano basse le quotazioni dei pittori che non accettavano di dividere in parti uguali con loro. Ma questa è un’altra storia. Speriamo che un giorno la Buscaroli cominci a raccontarcela.
cultura
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Restauri. A Milano torna a vivere la storia sala di Via Rovello dove cominciò l’avventura di Giorgio Strehler e Paolo Grassi
Il Piccolo è diventato Grande di Valerio Venturi
MILANO. Non è un caso che il Piccolo Teatro di Milano abbia inaugurato la sede storia di via Rovello restaurata proprio in occasione dell’anniversario della strage di piazza Fontana: un tentativo di lenire il dolore di una ferita aperta con una notizia positiva; un modo per dire ai cittadini che il Piccolo c’è, con il suo teatro popolare, che è una realtà sostenuta e che ora acquisce nuovi spazi.
Conosciuto in tempi antichi come Palazzo del Carmagnola, l’edificio riscoperto fu donato da Lodovico il Moro a Cecilia Gallerani, la «dama dell´ermellino», secoli fa. Nel ‘700 divenne sede del Comune, quindi ospitò il Dopolavoro Civico. Durante la dittatura fascista fu stanza delle torture della Legione Muti; poi il luogo fu ri-nobilitato: il 26 gennaio 1947 la Giunta municipale deliberò la trasformazione dell’ex cinema Broletto di via Rovello in sala teatrale, quella che avrebbe dovuto ospitare il primo teatro stabile italiano: il Piccolo teatro di Milano. L’inaugurazione avvenne il 14 maggio del 1947 con L’albergo dei poveri di Maksim Gorkij. Paolo Grassi e Giorgio Strehler, al loro primo dì, sarebbero entrati – secondo leggenda – sferrando un calcio alla porta. Altri tempi. Il Piccolo di via Rovello 2 (oggi Sala Grassi) rimarrà sede principale per molti lustri; ma già dagli anni Sessanta, Strehler sognò un teatro nuovo e polivalente, che verrà realizzato effettivamente nel 1998 il su progetto di Marco Zanusso. Fatto sta che il «Grassi» riconsegnato alla capitale lombarda è luogo importante e di peso simbolico. Intanto perché il Piccolo ha un valore culturale e politico straordinariamente significativo. Non solo segnò la rinascita culturale e civile della città dopo la Seconda guerra, ma nel corso del tempo - dagli anni Cinquanta in poi - è stato un po’ il fulcro del dibattito politico-culturale milanese. Un polo progettuale guidato da Giorgio Strehler, PaoloGrassi e Nina Vinchi che di fatto il mondo invidiava a Milano. In fondo, così come l’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni allestito da Strehler prima con Marcello Moretti e poi con Ferruccio Soleri è diventato la bandiera della cultura italiana nel mondo, il teatrino di Via Rovello ne è stato la culla, l’ombelico creativo dal quale quello spettaco-
lo-modello ha preso vita. Proprio nella saletta nel cuore di Milano l’Arlecchio fu provato e allestito nel 1947, così come prima di chiudere i battenti per il restauro (all’inizio del 2008) proprio la riedizione dello storico allestimento strehleriano di quello spetta-
Qui sopra, Giorgio Strehler durante le prove dell’«Arlecchino servitore di due padroni» Carlo Goldoni, proprio nella sala di Via Rovello. Qui accanto, l’ingresso del teatro e sotto Ferruccio Soleri nell’ultima edizione dell’«Arlecchino»
La città recupera un luogo simbolico della sua rinascita culturale. Dal 28 gennaio arriva uno Shakespeare diretto da Lev Dodin
colo è stato l’ultimo ad essere ospitato in Via Rovello. Come a dire che il cerchio si è aperto e chiuso nello stesso segno, in attesa di guardare verso il futuro. E il futuro, ora, oltre alle attività produttive del Piccolo di Milano di Sergio Escobar e Luca Ronconi, è nella vitalità che alla sala e alla sua funzione storica vorrà essere data. Come in un percorso diretto fra passato e futuro. Non a caso, all’inaugurazione, facendo riferimento alla coincidenza con il quarantennale della strage di Piazza Fontana, il sindaco di Milano Letizia Moratti ha spiegato che «restituire la memoria ai sopravvissuti, ai familiari e alle vittime del terrorismo, al cuore della Città, è un atto dovuto. Il dolore, il lutto e la coscienza certa che il destino di coloro che in questi anni bui hanno perso la vita, riguardano tutti noi».
«Non eravamo certi di quel che avremmo trovato – ha detto l´architetto Pasquale Francesco Mariani, firmatario del progetto di restaro della sala la scoperta di una serie di pitture monocrome è stata molto importante». «Questo sarà un luogo da vivere in ogni ora del
giorno», ha spiegato il direttore del Piccolo Teatro Sergio Escobar. Ha fatto eco Letizia Moratti: «I milanesi ora hanno a disposizione un nuovo importante spazio, dallo splendido chiostro rinascimentale alla sala teatrale. Un luogo della tradizione e insieme del rinnovamento: qui saranno ospitati un caffè letterario-teatrale, punto d’incontro nel cuore di Milano anche in orari non di spettacolo, e un grande archivio teatrale. Nell’archivio saranno valorizzati i documenti già conservati dal Piccolo e acquisite nuove collezioni di materiali teatrali; sarà organizzato secondo un modello ”a rete”, nel quale, oltre a essere consultabili materiali originali, sarà possibile collegarsi con altre importanti collezioni sparse nel mondo, nella prospettiva dell’Expo 2015». Insomma, ci saranno un archivio, la storica sede teatrale e un inaspettato chiostro all’aperto. Poi le specifiche tecniche inerenti le sale di spettacolo: potenziata la tecnologia (utilizzati circa 50 chilometri di cavi), eliminate le barriere architettoniche, il teatro di via Rovello conserva volumi originali nel foyer e nella sala, piena di 499 poltrone rosse, radicalmente restaurate; le luminarie sono di Giò Ponti, il soffito è con i famosi “buchi” di Fontana, il parquet in rovere. Il palco è rimasto apparentemente uguale, ma le innovazioni tecniche nel backstage ci sono: il sistema-luci è digitalizzato, così come modernizzata è la cabina e il pavimento, ”sbotolabile”per movimenti di scena in verticale. Comodi – ed è fatto raro - i camerini. Ma come s’è accennato la ciliegina sulla torta è rappresentata dal rinvenuto chiostro bramantesco, ora riscaldato e chiuso con invisibili vetrate di cristallo da 850 chili l´una, illuminato da modernissimi led. Si tratta dello spazio destinato alle attività commerciali e di servizio: oltre alla caffetteria ci sono postazioni internet, una sala lettura, l’ingresso al teatro.
Un bell’insieme. Per l’Expo sarà punto di riferimento. Ma il Teatro Grassi funzionerà con regolarità già dal 28 gennaio: ad aprire, il grande rigista russo Lev Dodin con Pene d´amor perdute di Shakespeare. Milano plaude.
spettacoli
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Danza. Ha debuttato al teatro Vittoria di Roma «Play», la nuova coreografia di Giulia Staccioli per il gruppo Kataklò
Lo spettacolo del corpo di Diana Del Monte
ROMA. Sport e danza sono due dimensioni che hanno un’inevitabile punto di congiuntura: il corpo in movimento. Si tratta di due discipline che, pur guardando con uguale interesse verso la medesima direzione, lo fanno attraverso lenti diverse; per questo, nella realtà dei fatti, le divide una distanza pari a quella, enorme e marginale allo stesso tempo, che separa la visione dell’artista da quella dell’atleta. Eppure, è nel movimento che la bellezza del corpo umano si rivela in tutta la sua complessità e audacia. Potenzialità e limiti di questo strumento di conoscenza, primo interfaccia tra noi e il mondo, si sperimentano attraverso di esso e nel movimento ci viene mostrata la duplice essenza del corpo, “macchina organica” dagli ingranaggi perfetti, da una parte, e opera d’arte, materia plastica sensibile, dall’altra. Per questo, e a dispetto delle distanze tra questi due mondi, nel movimento arte e discipline sportive, a volte, si incontrano e sport e danza condividono il piacere e l’onere di lavorare con questo medium complesso e meraviglioso.
Abbattere, dunque, le distanze, leggendo la poesia della pratica sportiva attraverso l’atletismo dell‘arte coreutica, epurare lo sport della sua componente competitiva per coglierne la bellezza delle forme, la dinamicità dei movimenti e, perché no, l’ironia di alcune sue manifestazioni: questi sono i principi programmatici su cui si fonda Play, nuovo spettacolo della compagnia Kataklò - athletic dance theatre, in scena in questi giorni al Teatro Vittoria di Roma. La compagnia, fondata nel 1995 da Giulia Staccioli, fa parte di quella tradizione di danza “atletica” che vede nella sua storia espressioni quali i Momix e, ancor prima, i Pilo-
bolus. Proprio a questi ultimi, storica compagnia statunitense fondata nel 1971 da Moses Pendleton, Jonathan Wolken e Alison Chase, dobbiamo la scoperta di quella bellezza essenziale del corpo atletico che nasce dal principio dell’efficacia, fondamento della pratica sportiva. È così che, negli anni Settanta, i Pilobolus mostrarono, per primi, quanto un corpo umano sa essere, nella pulizia delle sue linee, l’oggetto fisicamente più concreto e, contemporaneamente, più sinteticamente astratto della nostra realtà. I Momix, poi, nati da una costola dei Pilobolus, proseguirono in questa direzione, mostrando, e adeguando, la loro danza ad un pubblico sempre più ampio.
Un corpo atletico come simbolo di bellezza e salute è, da sempre, un’eredità ineludibile per l’occidente, un archetipo che, ormai insito nella nostra cultura, riemerge ciclicamente con più o meno forza dall’Antica Grecia ai nostri giorni. Nulla per noi è più affascinante della sapienza di un corpo disegnato dalla pratica sportiva, niente rapisce la nostra attenzione come i movimenti misurati dell’atleta. È in questa pratica, su questo corpo fenomenico forgiato dalla ripetizione come rituale di conoscenza, che questo genere di danza fonda le sue basi estetiche. La ripetizione, dunque, non come costruzione di movimenti abituali, ma come allenamento meditativo per il raggiungimento di una perfezione fortunatamente irraggiungibile, ma sentita come smpre più vicina. Il perfezionamento delle capacità della “macchina organica” che, portate all’apice, aprono il panorama della totale libertà corporea, tutto ciò rapisce il
danzatore/atleta che, da parte sua, non può che cedere al fascino della pratica sportiva così vissuta.
Dan zatrice della compagnia Momix sotto la direzione di Moses Pendleton tra il 1981 e il 1984, Giulia Staccioli può, dunque, rivendicare per la sua compagnia una discendenza diretta con le due storiche formazioni. È la stessa coreografa a sottolineare in maniera esplicita la sua discendenza artistica in questo ultimo spettacolo, citando proprio Pendleton. In Play, infatti, è in scena la rivisitazione della coreografia proposta e danzata dal coreografo dei Momix in occasione della chiusura delle olimpiadi invernali di Lake Placid del 1980 e trasmessa in diretta televisiva dalle emittenti allora presenti. Durante l’assolo, interamente danzato con i piedi bloccati negli scarponi fissati agli sci, il
Tre immagini di «Play», lo spettacolo del gruppo Kataklò diretto da Giulia Staccioli che ha appena debuttato al teatro Vittoria di Roma
Da un lato la tradizione di Pilobolus e Momix, dall’altro la scuola circense per un omaggio al mondo dello sport: quasi l’ennesima variazione di un archetipo creato dai greci danzatore sfruttava la resistenza opposta dalle due lunghe assi per eseguire impressionanti disequilibri e disegnare, così, figure virtuosistiche nello spazio delimitato dal proprio corpo ancorato al suolo. Già a suo tempo criticato come esempio di virtuosismo gratuito che mirava solo a colpire la fantasia di un pubblico di massa, qual’era, in effetti, quello a cui si rivolgeva all’epoca Pendleton, il pezzo rimane sempre di grande effetto visivo, anche a teatro e anche in assenza del suo interprete originale.
Nonostante ciò, i Kataklò sembrano riferirsi, con Play, più alla tradizione delle arti circensi o a quella degli artisti di strada, generalmente ed erroneamente considerata “mi-
nore”, piuttosto che alla “danza atletica”, come cita il loro nome. Lo spettacolo, infatti, instaura con il suo pubblico un rapporto leggero e immediato, puntando allo stupore generato da un virtuosismo esteticamente efficace, e sorvola sulla possibilità di un’analisi più profonda del tema, sia formale che simbolica; l’inserimento, infine, di brevi parti recitate, vicine alle “gags” di taglio televisivo/cabarettistico, ne accentua il carattere ludico e immediato. Lo spettacolo, composto da una lunga serie di brevissimi quadri totalmente indipendenti, se non per la tematica sportiva di fondo, può, inoltre, vantare alcuni divertenti “trucchi” scenici, come quello delle funi fluorescenti nell’episodio della box, in grado di strappare allo spettatore occasionale il sicuro applauso a scena aperta.
In chiusura i due episodi simbolicamente più incisivi: la sequenza del podio, con il coinvolgimento di tutta la compagnia, e quello della medaglia della vittoria, disegnata in aria e animata da un trio di danzatori su di un enorme trapezio circolare.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Le Figaro” del 29/12/09
Pechino senza grazia di Costance Jamet kmal Shaik era ossessionato da un’idea, un progetto. Dopo un pellegrinaggio in Polonia aveva deciso di andare in Cina per portare a compimento la sua iniziativa, Stravagante senza dubbio, ma innocua. Avviarsi verso una carriera di artista internazionale, con una canzone che portasse la pace nel mondo.
A
Era diventata un’ossessione per Akmal che era anche un cittadino inglese. In Cina invece della fama ha trovato una condanna a morte per traffico di droga. Secondo le notizie fornite dalla sua famiglia, Akmal soffriva di una malattia mentale. È il primo cittadino europeo ad aver subito una condanna capitale in Cina negli ultimi 50 anni. Da Londra attraverso il ministero degli Esteri sono state espresse proteste improntate allo sgomento per l’esecuzione. Il cittadino britannico di 53 anni è stato ucciso mediante iniezione letale, martedì, nella struttura penitenziaria di Urumqi, nella provincia dello Xinjiang. E dopo poche ore è arrivata la conferma anche dalle autorità di Pechino. L’accusa risale al 2008 quando avrebbe subito un processo durato appena 30 minuti, con l’imputazione di traffico di stupefacenti. La famiglia di Akmal sostiene che l’uomo sia affetto da anni da una sindrome bipolare che non lo avrebbe reso capace di intendere e di volere, al momento dell’arresto, nel 2007, con quattro chili di eroina. Le proteste britanniche sono state immediate. Il primo Ministro Gordon Brown si è detto costernato e deluso dal fatto che i reiterati appelli alla clemenza non siano stati ascoltati dalle autorità di Pechino. Nelle ore precedenti l’esecuzione il Foreign office aveva fatto un estremo tentativo
per convincere Pechino, convocando l’ambasciatore cinese. Gli sforzi puntavano a far pesare le condizioni mentali del condannato. Tutto inutile. Anche due cugini di Akmal erano giunti in Cina per poter presentare una richiesta d’appello al processo, davanti alla Corte suprema. Il cittadino britannico sarebbe stato inconsapevolmente coinvolto da un trafficante di droga in Polonia, spacciatosi per produttore discografico, secondo la versione fornita dai parenti. Il personaggio che lo avrebbe circuito promettendogli una carriera artistica nel grande Paese asiatico. Insomma avrebbe fatto di lui una star della pop music ed era stata stesa una prima versione della sua canzone che aveva come tema la storia di un «coniglietto» (presente anche su YouTube). Akmal si era stabilito in Polonia nel 2005, vivendo da disoccupato con espedienti e senza il sostegno della famiglia. Secondo il Guardian la sua malattia sarebbe peggiorata dopo il divorzio nel 2001.
Tuttavia la Corte suprema cinese non si è fatta convincere dalle ulteriori prove a discarico, mentre la stampa inglese pubblicava numerose testimonianze di cittadini polacchi che avvaloravano la tesi difensiva. La malattia mentale del prigioniero non veniva così considerata come un’attenuante e la richiesta di grazia «non ricevibile», scriveva in un documento ufficiale l’estrema corte
di Pechino. «I crimini sono perseguiti tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla nazionalità di chi li commette» la risposta delle autorità cinesi. I reati socialmente più pericolosi vengono puntiti con la pena di morte, affinché ci sia un forte deterrente sulle attività criminali, secondo il punto di vista cinese. «Infondere paura aiuta a prevenire i reati». I cugini di Akmal, Soohail e Nasir Shaik, lunedì sono riusciti ad ottenere il permesso di vedere il prigioniero condannato. La sola visita in carcere accordata dopo il suo arresto. E lui non si era reso conto cosa stesse accadendo fino a che i parenti non l’hanno informato. «È rimasto molto turbato quando lo abbiamo avvisato» ha affermato Soohal. In Cina la grazia accordata all’ultimo minuto non è quasi mai concessa ed è il Paese con il più alto numero di condanne a morte comminate ed eseguite al mondo.
Se il numero effettivo delle esecuzioni rimane un mistero celato dietro il segreto di Stato, Amnesty International ritiene che nel 2008 siano state almeno 1.700 i prigionieri “terminati”dalle autorità cinesi.
L’IMMAGINE
Nelle separazioni affidamenti in base al sesso. E i figli vanno sempre alla mamma Sono un giovane papà di una bimba di 7 anni separato da alcuni anni. Nonostante sia stata la mia ex moglie a sfasciare la famiglia, nonostante la nuova legge del 2006, sono stato relegato a fare il papà solo un giorno alla settimana. Oggi ho preso mia figlia e l’ho trovata un po’ turbata. Le ho chiesto perché, e mi ha raccontato che domenica dopo aver visto Berlusconi in tv con tutta la faccia piena di sangue, ha visto la mamma che saltava di gioia... e poi con tono forte e contento ha detto: «Hai visto che hanno fatto a Berlusconi? Se lo merita (ridendo). Con tutte le cazzate che dice!». Mia figlia fortunatamente era triste nel raccontarlo ed ha aggiunto: «è sbagliata questa cosa, vero babbo?». Io le ho risposto di sì e poi le ho chiesto di aver pazienza con la mamma (non è la prima di queste uscite). Questo è il risultato dell’operato dei giudici, che affidano i figli in base al sesso e non ai meriti e nemmeno alla sanità mentale. Si affidano alla mamma e basta, ma io continuerò a lottare per mia figlia.
Un giovane papà
SPESE CON CARTE PREPAGATE. ATTENZIONE AI COSTI Tempo di vacanze, di spese e di viaggi ed effettuare pagamenti con le carte prepagate trova notevole consenso. Le carte prepagate si possono paragonare alle carte telefoniche: si pagano in anticipo e si utilizzano fino ad esaurimento del budget. In effetti sono comode perché evitano di portare il denaro contante e perché per ottenerle non è necessario avere un conto corrente bancario. Possono essere “usa e getta” o ricaricabili, nominative o al portatore; è possibile effettuare pagamenti con i tradizionali circuiti, via Internet o prelievi nei bancomat. I tagli disponibili variano da 20 a 10.000 euro. Insomma la comodità esiste ma si paga
a caro prezzo. I costi relativi alla spesa per acquistare la carta, ai prelievi di contante, alla ricarica, alle spese per il rimborso del residuo e all’eventuale blocco per la carta smarrita incidono pesantemente sul conto finale rendendo questo strumento poco conveniente, anche se pratico.
Primo Mastrantoni
RIPRENDIAMOCI LA CULTURA Ho letto Cuori Neri e mi sono reso conto che dare la voce ai 21 giovani mitizzati, demonizzati, dimenticati, così come le loro storie, dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli, è stata un’impresa coraggiosa. Realizzare una memoria condivisa e non di parte, anche per confrontare quegli anni con la storia recente. Attra-
Nulla è come sembra Questa nube di gas e polveri situata vicino alla galassia denominata Piccola Nube di Magellano è in realtà una pacifica “nursery” cosmica, che ha dato origine, 5 milioni di anni fa, a un gruppetto di stelle, l’ammasso stellare Ngc 602 (al centro nella foto). I giovani astri secondo gli esperti, si troverebbero a circa 200mila anni luce da noi
verso foto sgranate tratte dall’album di famiglia o sfuggite dagli scartafacci processuali e dei rapporti di polizia, per capire nel profondo come si può giungere alla stessa voragine partendo dall’altra parte. I giovani della destra erano condotti alla dimenticanza, alla mera trasfigurazione di una realtà poco nota dal punto di vista umano. Come la fine di una
ciurma di sognatori senza volto, perché ritenuti a torto senza anima. Tra tutte le immagini quella di Almirante che non conosceva la brutalità della materialità e dell’attaccamento al denaro. La testimonianza della politica di quegli anni ci può far capire molte cose di quella attuale, attraverso un antico attaccamento ad una etica che oggi non esiste, e che allora
non poteva realizzarsi nella burocrazia di partito, ma affidata solitamente al singolo uomo che per non essere “allineato” ha pagato uno scotto ingiustificato. Riprendiamoci una certa cultura, per dimostrare che gli ideali non sono morti, ma vivono all’ombra dell’ipocrisia moderna, per mancanza di coraggio e di virtù.
Br
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Nell’anima mia è tornato il sereno Elda mia, grazie, grazie, grazie! Ti bacio mille volte. La tua letterina non me l’aspettavo; l’ho ricevuta stamane e l’ho aperta tremando, con il cuore che mi batteva violentemente, e l’ho letta e l’ho riletta con una gioia sovrumana, inesprimibile. Nell’anima mia è tornato il sereno: ero cupo, triste, come questo maledetto cielo che stilla acqua da tutti i pori; pensavo con un desiderio desolato a giovedì lontano. Tu m’hai ridonato tutto questo con questa letterina piena di sorrisi, di occhiate lunghe ed intense, di delicatezze divine, d’impeti che m’han dato de’ fremiti all’ossa, di sospiri che m’han fatto inumidire gli occhi. O Elda, scrivimi, scrivimi spesso così, scrivimi anche per la posta, perché vedo che pericolo non ce n’è più. Per precauzione (non ce ne sarebbe neanche bisogno) non ti firmare col tuo nome di donna, prendi un nome qualunque, per esempio, il mio secondo nome, Ugo. Ma del resto non guarderanno neanche alla firma; me mi trattano co’ guanti, per fortuna. Siete stati a Montughi? Come sarei venuto volentieri anch’io. Ma ci torneremo, ci torneremo quando io sarò costì, non è vero? Mi dici che mi vuoi tanto bene che chi sa se il mio ci arriverà. Quanto vuoi scommettere che il mio sorpassa il tuo? Gabriele d’Annunzio a Giselda Zucconi
ACCADDE OGGI
INFORMAZIONE E INTERNET Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha sostenuto che, in tema di pericolo per la pubblica sicurezza, Facebook è più pericoloso dei gruppi degli anni ’70, ed ha auspicato, in concordia col ministro dell’Interno, Roberto Maroni, di voler mettere ordine sul web. È pericoloso per tutti che la seconda carica dello Stato, con l’intento di porre freno a episodi come quello della violenza subita dal capo del governo Silvio Berlusconi, non chieda maggiore attenzione all’applicazione delle leggi e della prevenzione, ma indichi la libertà d’espressione e di opinione come il principale movente di quanto accaduto e, di conseguenza, il principale nemico da abbattere. Perché è questo che Schifani sta auspicando, proprio come nel regime fascista e in quello staliniano dove, non solo chi praticava violenza fisica contro le istituzioni veniva perseguito (com’è giusto che sia anche oggi in democrazia), ma anche chi esprimeva opinioni diverse da chi governava veniva sottoposto ai rigori della legge. Il paradosso di quello che auspica il nostro Schifani è che lo fa chiedendo censura per uno dei maggiori luoghi di discussione al mondo - Facebook - che non a caso
AI CONSIGLIERI DEL CONSIGLIO NAZIONALE: Su delibera del Consiglio Nazionale del 29/12/2009 è convocato il IV Congresso Nazionale del Centro Cristiano Democratico per il giorno 29/01/2010 alle ore 10.00 in Roma, via Torino n.146, presso il salone delle Confcooperative, per discutere e deliberare in ordine allo scioglimento del Centro Cristiano Democratico e la conseguente nomina del liquidatore.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
30 dicembre 1944 Re Giorgio II di Grecia dichiara una reggenza, lasciando il trono vacante 1947 Re Michele di Romania abdica 1953 Il primo televisore a colori viene messo in vendita al prezzo di circa 1.175 dollari 1965 Ferdinand Marcos diventa presidente delle Filippine 1968 Frank Sinatra incide My Way 1972 Gli Stati Uniti interrompono i pesanti bombardamenti del Vietnam del Nord 1987 Papa Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio di Papa Paolo VI 1993 Israele e il Vaticano stabiliscono relazioni diplomatiche 1996 I tagli al bilancio proposti da Benjamin Netanyahu innescano la protesta di 250.000 lavoratori che bloccano tutti i servizi di Israele 1997 - In Algeria il Gia uccide 400 persone in quattro villaggi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ha sede in un Paese, gli Usa, dove in materia di libertà di espressione e di opinione non sono secondi a nessuno. Paese che proprio in virtù di questa sua peculiarità è stato il maggiore liberatore del nostro Paese e dell’Europa dai regimi fascista e nazista. Noi non ci stupiamo più di tanto nel sentire certe affermazioni, anche se mostriamo preoccupazione quando vengono dalla scranni istituzionali così importanti. Siamo abituati a giudici italiani che sentenziano con censure la manifestazione della libertà d’espressione in rete; siamo abituati ad avvocati che difendono i loro clienti delinquenti quando di questi ultimi se ne parla in rete per le truffe che praticano a danno dei consumatori.
Vincenzo Donvito
ANIMALI IN SVENDITA Continuano a comparire su eBay annunci con richieste e offerte di animali messi in vendita, addirittura i cuccioli sono stati posti nella sezione low cost: animali in svendita! Questo nonostante il regolamento di eBay reciti: «La vendita su eBay di animali vivi, compresi gli animali domestici, è vietata». Il commercio di animali è in sé immorale: i nostri fratelli non sono oggetti o merci da scambiare. Acquistare o regalare un animale in modo irresponsabile comporta poi, in moltissimi casi, l’abbandono o il maltrattamento dello stesso. Chi desidera vivere con un animale, adotti uno dei troppi abbandonati nei canili e nei rifugi, anziché comperarlo come un accessorio, magari in saldo!
100%animalisti
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
ABBASSARE I TONI PER COMBATTERE LA VIOLENZA La politica è passione, impegno per gli altri, servizio al bene comune. Eppure ci sono episodi che fanno vacillare questa passione, che sconvolgono, che spingono a chiudersi nella dimensione privata, individuale. È quanto è accaduto a molti, dopo aver visto le immagini dell’aggressione al Premier Berlusconi. Un gesto di un folle che non può che essere condannato, in maniera assoluta, senza se e senza ma, senza lasciare alcuno spazio a farneticanti e pericolose dichiarazioni come quelle di Di Pietro e Rosy Bindi. Ma la condanna per quel gesto di incivile e intollerabile violenza non è sufficiente, bisogna fare di più, bisogna cominciare a interrogarsi, con grande serietà e responsabilità, sul clima pesante che caratterizza la vita politica e istituzionale del nostro Paese. Il dibattito pubblico non sempre riesce a svolgersi come giusto confronto tra idee diverse sul bene dei cittadini, ma troppo spesso è ricondotto ad un lacerante scontro di potere, in cui si tende a percepire i propri avversari come nemici da abbattere. Bisogna abbassare i toni, uscire dal meccanismo perverso secondo cui il confronto politico si trasforma in demonizzazione sistematica dell’avversario, da aggredire anche per quanto attiene alla sua sfera privata, con la presunzione di poter stilare la lista dei buoni e dei cattivi, da additare sui giornali, nelle televisioni, nelle manifestazioni di piazza. L’aggressione di piazza Duomo è giunta al termine di settimane difficili, con i giovani di Comunione e Liberazione aggrediti all’interno dell’università statale di Milano, con la violenta contestazione nel corso della manifestazione in memoria delle vittime della strage di piazza Fontana, ed ha anticipato l’ordigno esploso all’interno dell’università Bocconi di Milano, cui è seguita la rivendicazione di un sedicente gruppo anarchico. In questo modo cresce nel Paese il senso di insicurezza, di sfiducia nelle istituzioni, viene meno la coesione sociale, e si rischia di scivolare in pericolose derive che ricordano gli anni bui della vita del nostro Paese. Urge riportare il dibattito politico all’interno dei luoghi istituzionali, con senso di responsabilità, nell’interesse dei cittadini, recuperando la giusta dimensione della politica. Urge un atto di pacificazione, che potrebbe manifestarsi nella ripresa del dialogo tra le forze politiche sul terreno della riforma dello Stato, della giustizia e delle riforme economiche. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I
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