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Solo i saggi posseggono delle idee; la maggior parte dell’umanità ne è posseduta

Samuel Taylor Coleridge

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 5 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Rebus irrisolto dopo il vertice dei democratici pugliesi a Roma: mandato esplorativo a Boccia per «allargare la coalizione»

Anno nuovo, Pd vecchio

L’ennesimo rinvio sul caso Vendola e i tentennamenti sulle riforme: per Bersani anche il 2010 si apre con un partito fermo, stretto tra vocazione di governo e ricatti di sinistra e Idv di Errico Novi

di Riccardo Paradisi

di Ruggiero Capone

La politica ha delle ragioni che il buon senso non comprende. Già, perché non è facile comprendere l’opportunità politica né la convenienza del Pd nel dilazionare fino all’estenuazione le trattative per le alleanze con l’Udc.

«Il Pd ha vissuto l’illusione che in Italia fosse possibile scomparisse la sinistra. Rimpiango il rapporto tra i cattolici e i comunisti d’un tempo». Savino Pezzotta commenta i tentennamenti del Pd per le candidature alla Regionali.

ROMA. Con una certa mestizia, alla fine della riunione sul caso Puglia, il senatore democratico Alberto Maritati annuncia che tutte le opzioni restano aperte. «Nessun candidato è escluso», quindi nemmeno Vendola, e «non si esclude neanche il ricorso alle primarie», cioè a un ballottaggio “di coalizione” che di fatto sottrae al partito il potere di scegliere il proprio destino. Resta appena vivo il lumicino lasciato nelle mani di Francesco Boccia, deputato del Pd vicino alla segreteria che, secondo l’intesa raggiunta nel summit convocato da Enrico Letta, entro domani dovrà completare una consultazione interna sulla propria candidatura. Al parlamentare toccherà discutere con lo stesso Vendola e chiedergli di ragionare sui programmi anziché sulle pretese personali, fino a metterle completamente da parte. Impresa ardua, che forse non a caso viene affidata a un dirigente di seconda linea, particolarmente indebolito dopo la rinuncia del sindaco di Bari Michele Emiliano. Così il Pd, o almeno il suo vertice, rinuncia nella sostanza a darsi una svolta strategica in senso riformista.

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LA TELENOVELA PUGLIESE

PARLA SAVINO PEZZOTTA

La sindrome «Coraggio, dell’autolesionismo o poi sarà tardi»

Il governo locale teme un contraccolpo psicologico a favore di al Qaeda

Occidente in fuga da Sana’a Usa e Gb abbandonano le ambasciate. La Ue si spacca

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CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

La vita e l’operato di Craxi devono essere rivisitati e rivalutati. Ma pensare a una strada, a un giardino o a un mezzobusto è solo toponomastica elettorale di Giancarlo Galli

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sti. Di fronte al rischio di attentati paventato dal gruppo “alQaeda in Yemen” molte ambasciate sono state chiuse, prime fra tutte quelle di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il pericolo però è che così il governo di Sana’a sia costretto ad affrontare i crescenti problemi di instabilità interna senza l’adeguato sostegno dei governi stranieri. a pagina 8

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Il Muro di Bettino

a sensazione (un po’ penosa) è che si tratti di espedienti a sfondo elettorale. Considerato che il centrodestra, in vista delle prossime chiamate alle urne (regionali a marzo, municipali nel 2011), paventa un’ondata leghista a Milano & Lombardia; nonché un crescente consenso dell’Udc, qualora i “casiniani”decidessero di correre da soli. Mentre per il Pd va prendendo quota la candidatura di Filippo Penati, ex comunista, ex sindaco di Sesto san Giovanni, ex presidente della Provincia. Ecco allora la sindachessa Letizia Moratti cavare dal cilindro un coniglio rosa col garofano rosso in bocca: intitolare un luogo significativo della città a Bettino Craxi.

di Antonio Picasso escalation in cui sta precipitando lo Yemen non presenta ancora le caratteristiche di una guerra aperta tra l’Occidente e al-Qaeda. Al momento siamo di fronte a un’impennata dell’attenzione mediatica e a una riduzione delle attività diplomatiche straniere in questo lontano angolo della Penisola arabica, molto “frequentato” dai terroristi qaedi-

L’idea del sindaco Letizia Moratti

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Oggetti smarriti. Il veltroniano Vassallo infierisce: «Metodi poco trasparenti nelle trattative sui candidati»

Democratici al buio

Resta senza soluzione il rebus Puglia: «È un partito di depressi», dice Rusconi. E dall’opposizione interna riparte la polemica di Errico Novi segue dalla prima Resta imprigionato nella tela delle vecchie alleanze e soprattutto brucia con ogni probabilità le chances di vittoria in due regioni importanti come la Puglia, appunto, e il Piemonte, dove le barricate di Mercedes Bresso hanno prevalso sulla prospettiva dell’alleanza con l’Udc. È una scena piuttosto desolante da cui il partito di Pier Ferdinando Casini trarrà oggi le proprie conclusioni, in una riunione convocata da Lorenzo Cesa con il segretario pugliese Angelo Sanza e gli altri dirigenti regionali. Manca evidentemente alla segreteria di Pier Luigi Bersani il coraggio sufficiente per cambiare senso di marcia e, con esso, il quadro delle alleanze. Tra i democratici trae incoraggiamento il dissenso di chi trova «poco convincente per gli elettori il tipo di negoziato condotto finora», come dice a liberal il deputato e politologo Salvatore Vassallo. E soprattutto conforta le valutazioni ne-

gative fatte dall’esterno, per esempio dal professore dell’università di Torino ed editorialista della Stampa Gian Enrico Rusconi: «Il Pd è in una condizione disperata, c’è poco da fare. Non riesce nemmeno a cogliere e a contrastare il drammatico distacco dalla politica che quindi anni di berlusconismo hanno provocato in questo Paese». Lo studioso torinese peraltro non è nemmeno tra quelli che avrebbero voluto a tutti i costi un’alleanza Bersani-Casini, anche se «non c’è dubbio che Di Pietro politicamente non va da nessuna parte», eppure verifica «una assoluta incapacità da parte dei democratici di chiarire cosa si vuole essere. Giacché è questo l’interrogativo preliminare che andrebbe sciolto, decisamente prima del sistema di alleanze».

Incomprensibile la strategia di non allearsi con l’Udc in tutta Italia

Pd e autolesionismo di Riccardo Paradisi

a politica ha delle ragioni che il buon senso non comprende: viene da pensarlo osservando la condotta che il Pd ha scelto di seguire in questa partita per le alleanze di coalizione in vista delle prossime regionali. Già, perché non è facile comprendere l’opportunità politica né la convenienza dei democratici nel dilazionare fino all’estenuazione le trattative per le alleanze con l’Udc, considerando che appunto chi dovrebbe essere maggiormente interessato a un’intesa è evidentemente il partito di Pierluigi Bersani più che quello di Pier Ferdinando Casini. Il Centro infatti ha chiarito da mesi che per lui queste elezioni regionali costituiscono un banco di prova per la propria autonomia e serviranno a confermare, se non ad implementare, il consenso già guadagnato alle ultime elezioni politiche.

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tro gli attacchi all’Udc a sostegno di Vendola, ci sia in realtà la volontà di colpire e mettere in crisi proprio la segreteria Bersani.

Il Pd invece è ancora sospeso tra l’essere conseguente alla svolta riformista e pragmatica annunciata dopo la sua elezione alla segreteria da Pierluigi Bersani e antichi e mai risolti richiami giustizialisti. L’esempio paradigmatico è quello pugliese dove nel Pd si oscilla tra posizioni opposte: continuare a percorrere la strada dell’alleanza con l’Udc oppure rinunciare, accettando le condizioni del governatore uscente Nichi Vendola? Il lavoro del vicesegretario del Pd Enrico Letta è concentrato a far passare la linea dell’alleanza con l’Udc che all’ala riformista del Pd sembra ovviamente l’unica linea ragionevole. Ma appunto non è facile. La campagna contro l’alleanza col centro è talmente intensa tra l’altro da far venire il legittimo sospetto che dietro tanto autolesionismo, die-

Pier Ferdinando Casini non ci ha girato molto intorno: «A sinistra è in atto una guerra senza esclusione di colpi. C’è chi vuole utilizzare una sconfitta alle regionali per liquidare la segretaria Bersani e la sua svolta riformista». Dopo il passo indietro del sindaco di Bari Emiliano si attende da parte dell’Udc la nuova candidatura del Pd, che potrebbe essere quella del lettiano Francesco Boccia già battuto da Vendola nelle precedenti primarie del 2005. E Vendola darà battaglia anche stavolta: non fa che ripetere che lui «non mollerà» a meno che le primarie non decretino il contrario. La sconfitta della linea lettiana in Puglia sarebbe in particolare uno smacco per Massimo D’Alema, essendo stato lui il primo ad aprire all’Udc. Ma non c’è solo la Puglia. In Piemonte per esempio, altra regione tutt’altro che marginale, il Pd ha scelto di spingere su Mercedes Bresso, candidatura non particolarmente gradita all’Udc e se ci sono spiragli in Liguria, Marche e Basilicata dove l’allargamento della coalizione sembra essere riuscito. Nel Lazio non si riesce ancora a trovare un candidato che possa far siglare l’intesa a entro e Pd: Nicola Zingaretti che sarebbe stato sostenuto dall’Udc e sul quale Casini non ha mai nascosto una preferenza non è disposto a lasciare la presidenza della provincia. In Umbria dove buona parte del Pd non vuole la ricandidatura dell’attuale governatore Maria Rita Lorenzetti l’Udc potrebbe andare da sola. Una strategia incomprensibile quella del Pd, rinunciataria nei confronti di un programma di vaste coalizioni con il centro per spostare in senso riformista e moderato l’asse della sinistra. Limitarsi a vincere nelle regioni tradizionalmente rosse sarebbe per Bersani una prima prova d’arresto.

Se avesse chiaro il proprio percorso, il Partito democratico avrebbe evidentemente qualche possibilità di realizzare la vocazione riformista. È d’altra parte difficile candidarsi a rinnovare il Paese se ci si confina in un rifugio minoritario. In altre parole non sarebbe più sensato scardinare le resistenze di Bresso o di Vendola e scegliere l’alleanza con i moderati, la sola che sembra in grado di garantire opportunità di vittoria in regioni come il Piemonte o la Puglia? Rusconi ragiona

«Un vero leader non lascia che si scateni il caos nelle regioni, interviene a costo di sbagliare», dice lo studioso torinese con liberal sul fatto che «probabilmente quest’ultima affermazione è vera», ma dice che «il ragionamento rischia di ridurre tutto a una mera questione tattica. Invece il Pd avrebbe bisogno di darsi, prima di ogni altra cosa, una consistenza ideale. È avvilente che si debba andare alla ricerca di se stessi muovendosi nell’alternativa tra altri due partiti, cioè che si debba di fatto collocare all’esterno la definizione della propria identità». Certamente vero. Ma quando si decideranno, i democratici, a optare con chiarezza per una vocazione riformista e quindi inconciliabile con quella di chi le riforme non vuole nemmeno sentirle nominare, come Antonio Di Pietro? Secondo lo studioso che ha dedicato una parte significativa del suo lavoro al sistema politico tedesco, è sorprendente che i democratici non avvertano l’urgenza della loro principale missione, quella di «contrastare il ribaltamento culturale provocato da Berlusconi e basato sulla passività dell’opinione pubblica, sul disincanto. Il problema è che al Pd spetterebbe proprio il compito di recuperare una cornice che assomigli almeno a un quadro di ideali».

Ci vorrebbe insomma capacità di riportare tra i cittadini un minimo di partecipazione: obiettivo irraggiungibile finché i democratici resteranno invischiati nelle sabbie mobili del dubbio, in quello che per Rusconi è «il trappolone dell’alleanza, con cui il tema dell’identità viene sovrastato». La coalizione con cui affronatare una tornata elettorale «dovrebbe derivare da quello che si vuole essere». Ma oggi il partito di Bersani, come quello di Veltroni «è un partito di depressi». E non si può dire che sia cambiato molto rispetto alla precedente segreteria: «Temo che le difficoltà, le contraddizioni in cui si è avvitato l’ex leader soffochino anche quello attuale, e la cosa non può che sorprendere, visto che si tratta di due figure completamente diverse. Certo è che un vero capo partito non lascia che in Puglia si scateni quello a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni: interviene e decide a costo di sbagliare».


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Intervista al presidente della Costituente di Centro

«È l’ora del coraggio, dopo sarà troppo tardi» Pezzotta: «Di fronte alle incertezze di oggi viene da rimpiangere l’antico buonsenso del Pci» di Ruggiero Capone

Il metodo? Secondo un altro osservatore come il politologo bolognese Salvatore Vassallo, che è anche deputato di area veltroniana del Pd, tutto sarebbe stato possibile «se si fosse agito con trasparenza. E invece il gruppo dirigente nhon ha saputo uscire dalle ambiguità, sia rispetto alla strategia di coalizione che riguardo alla coerenza con le regole interne». Bersani, incalza Vassallo, «aveva preso durante la campagna congressuale l’impegno a non discostarsi dallo statuto per quanto riguarda il criterio di scelta dei candidati: aveva assicurato cioè che le primarie di coalizione sarebbero rimaste in piedi. In quel modo una vicenda come quella pugliese avrebbe potuto svolgersio alla luce del sole, con candidati che legittimamente si sottoponevano al voto degli elettori, compreso Vendola. A meno di non voler dichiarare chiusa l’intesa con l’area politica che fa capo all’attuale governatore. Scelta che evidentemente sarebbe costata troppo a certi dirigenti nazionali noti per la loro raffinata e superiore abilità nel condurre le trattative. I risultati si sono visti», chiosa spietato Vassallo, «e c’è solo da confidare che il nostro elettorato alle Regionali faccia valere lo spirito di appartenenza e non il disappunto per lo spettacolo messo in scena».

ROMA. Savino Pezzotta è il presidente della Costituente di centro, guida i lavori per aggregare al centro (con l’Udc) un’ampia rete di movimenti, associazioni, pezzi di società civile che si richiamano al moderatismo d’impronta cattolica. Quotidianamente opera un monitoraggio delle eventuali intese a centro con tutte le forze partitiche. Un studio che s’è intensificato in questi giorni, ed alla luce delle imminenti regionali, che vedono in molte regioni l’Udc come vero ed unico ago della bilancia. Il rapporto tra Udc e Pd è davvero discontinuo, e in certe regioni l’alleanza del centro col Pdl sembra davvero strumentale a favorire altrove intese col Pd. Ma le elezioni sono sempre una grande incognita, e Pezzotta invita tutti a fare meno crociate politiche e ad allearsi con sempre più buon senso. Perché il Pd è così freddo, frenato, ad allearsi col centro in regioni importanti (ed in bilico) come Piemonte e Puglia? Spesso sembra che voglia rinunciare all’alleanza con Casini. Poi perché insiste su candidati come la Bresso in Piemonte o altrove con gente poco votabile dalla compagine cattolica e moderata? Il caso delle intese tra Udc e Pd segue la regola del meno peggio. Il caso della Bresso non è per me un vero problema, rientra nella normale trattativa, nel sentire o meno un candidato come condivisibile. Allora qual è il vero problema? Quello che che succede all’interno del Pd e quello che provoca la Lega al Nord nel paese. Se ogni italiano leggesse la Padania si renderebbe conto che il disegno del Carroccio è un altro. La Lega sta scardinando il sentire democratico e il senso d’umana solidarietà. Fanno vere e proprie crociate contro gli esclusi. Da sindacalista ha nostalgia del sano proletariato d’un tempo, quello che non cedeva alle derive populiste? Leon Bloy ci ha esortati a non cedere alla disperazione di non essere santi. Aggiungendo che è giunto il momento che chi fa politica inizi a vedere l’invisibile attraverso il visibile. Forse il Pd di Bersani non ha queste capacità, e sottovaluta l’esistenza dell’ampia area di elettorato moderato, riformista, cattolico, pronto a riconoscersi in un’alleanza che non sia berlusconiana ma nemmeno giustizialista? Il Pd ha vissuto l’illusione che in Italia fosse possibile scomparisse la sinistra. Grande illusione. Quest’illusione ha affermato nel Pd più linee radical-laiciste. Qualcosa di gelido e disu-

In alto, Pierluigi Bersani. A destra, Savino Pezzotta. Nella pagina a fianco, Nichi Vendola

mano, che fa rimpiangere il vecchio rapporto tra cattolici e comunisti d’un tempo. Il Pd non ha avuto il coraggio di trasformare la sinistra seguendo l’insegnamento dei social-democratici tedeschi. Così oggi l’ex elettorato proletario è in balìa del giustizialista Di Pietro o della populista Lega. Fino a che punto l’area dell’elettorato dell’ex sinistra si sente più vicina a Di Pietro piuttosto che al Pd? E Casini potrà essere avvertito come decisivo da chi non sa fare a meno d’un certo bagaglio poco moderato? Lo sforzo di Fini, quello d’una destra democratica, sarebbe buono se venisse emulato da una certa sinistra. E comunque, sia a destra sia a sinistra, ho visto che s’è voluto separare la cultura dalla politica. È entrata nei partiti la cultura del fare, priva d’una visione di lungo periodo. Questa storiella dei partiti ignoranti è un proierzione mediatica o un dato reale? C’è una sottovalutazione dei fatti da parte dei due grandi partiti. Il Pd sottolvaluta l’esistenza d’una alleanza. Ritiene il centro un terzo incomodo. E questo non mi piace. Io ho una visione mite, temperata, e non mi piace quello che vedo in televisione e nel paese. Non mi piace chi pensa di fare un’Italia divisa in due partiti secchi, sempre pronti all’accentuazione dello scontro. Un partito cuscinetto c’è ovunque, penso ai liberali in Gremania e in Inghilterra. Il bipartitismo rompe ogni intesa e non consente le convergenze. Nei momenti di difficoltà le forze maggiori ovunque si mettono insieme. La presenza dei liberali consente di ricreare le alternanze. Senza una terza forza un sistema politico è privo di riarticolazione. In Italia la laicità rischia d’essere incrinata dall’estremismo laicista. Estremismo è anche Di Pietro: il problema del Pd è l’Idv? Il problema del Pd è che un piccola forza, l’Idv, che inibisce lo sviluppo del partito di Bersani. L’Idv ha una funzione catatonica, trattiene la crescita del Pd, mantenendo gli ex Ds nello stadio d’eterni appesi a un partito bimbo. Ecco che logicamente si crea l’eccedenza berlusconiana. E qualcuno furbo cavalca l’antiberlusconismo, che è l’altra faccia della medaglia berlusconiana. E l’opposizione? Bersani è goffo politicamente. Goffaggine tipica di chi viene manovrato. Priva di rotazione al vertice. Io vengo dal sindacato, dove al massimo ci sono due mandati. Anche il Pd deve imparare a non formare incrostazioni.

Il Pd non ha avuto la forza di trasformare la sinistra seguendo l’insegnamento dei socialdemocratici tedeschi. Così oggi l’ex elettorato proletario è in balìa di Lega e Idv


politica

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Scenari. Dietro a un’inutile toponomastica di convenienza si nasconde l’imminente chiamata alle urne

Il Muro di Bettino

Ecco perché l’idea di intitolare una via a Craxi sa molto di strumentalizzazione a sfondo elettorale di Giancarlo Galli a sensazione (un po’ penosa) è che si tratti di espedienti a sfondo elettorale. Un Amarcord strumentale, insomma. Considerato che il centrodestra, in vista delle prossime chiamate alle urne (regionali a marzo, municipali nel 2011), paventa un’ondata leghista a Milano & Lombardia; nonché un crescente consenso dell’Udc, qualora i “casiniani” decidessero di correre da soli. Mentre per il Pd va prendendo quota la candidatura di Filippo Penati, ex comunista, ex sindaco di Sesto san Giovanni, ex presidente della Provincia.

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Ecco allora, in un periodo di letargo politico imposto dal clima natalizio e vacanziero, la sindachessa Letizia Moratti cavare dal cilindro un coniglio rosa col garofano rosso in bocca: intitolare un luogo significativo della città (piazza, strada, giardino che sia) a Bettino Craxi. Qui nato, nel quartiere di Lam-

La vita e l’operato di Craxi devono certo essere rivisitati e rivalutati; ma a cosa servono una strada, un giardino, un mezzobusto? brate e morto esule nel gennaio 2000 ad Hammamet, Tunisia. Donna Letizia ha da poco preso la tessera del Pdl, rinunciando a quell’autonomia che ne aveva caratterizzato l’elezione. La si può comprendere: i “reduci” del craxismo sono ancora numerosi, dispersi. Basta guardare la famiglia. Stefania, figlia prediletta del leader, occupa posizioni ministeriali nella galassia berlusconiana; il fratello Vittorio (in arte Bobo) si muove sull’opposto versante: tornassero assieme, un bel tesoretto di voti! Da destra, i nostalgici di altra matrice non hanno perso tempo e battuta. Carlo Fidanza, mattatore in consiglio comunale, antico cuore missino trasmigrato in An, infine eurodeputato Pdl, rilancia: un luogo, una targa se la merita pure Giorgio Almirante. Per chi non ricordasse: fra i fondatori del Msi dopo aver partecipato alla Re-

Breve dimostrazione della netta differenza tra lui e i craxiani

Ma fu un “male necessario” per battere il consociativismo di Giancristiano Desiderio er parlare di Craxi utilizziamo un nome molto grande, ma che tutto sommato non è estraneo alla vicenda politica del leader socialista: Marx. Quando si vuole parlare bene di Marx si usa fare questa (corretta) distinzione: Marx è una cosa e i marxisti un’altra. Perché non fare la stessa cosa con Craxi? La distinzione gli calza a pennello ed è il modo più giusto, oltre che onesto, per affrontare l’inevitabile ennesimo dibattito che è sorto intorno alla sua figura da quando si è saputo che Letizia Moratti gli vuole dedicare una strada. Dunque, una cosa è Craxi e un’altra sono i craxiani. Segue dimostrazione.

P

Bettino Craxi governò bene a lungo, quando i governi duravano solo otto o nove mesi. Riuscì a mettere un freno al sindacalismo spinto, riuscì a rifare il Concordato, diede una nuova linfa alla scarsa dignità nazionale con Sigonella e dintorni. Soprattutto, non subì l’ideologia dell’arco costituzionale, mise in crisi il compromesso storico e la stessa egemonia della sinistra comunista generando una sinistra moderna, quella che oggi tutti chiamano sinistra riformista dimenticando che il primo riformista in Italia fu proprio Craxi. Tutti questi sono meriti di Craxi segretario del Psi. Poi, com’è noto, ci sono i demeriti: abusò del potere, fu un campione della partitocrazia e non esitò a usare la corruzione contribuendo ad accrescerla. In una sola parola: generò il craxismo come male necessario per contrastare le due chiese che aveva davanti e con le quali doveva gareggiare: la Dc e il Pci. Voi cosa avreste fatto? Per giudicare Craxi bisogna sforzarsi di capirlo, non di condannarlo. La storia non può essere giustiziera. I meriti di Craxi sono superiori ai suoi demeriti o, se si vuole, i suoi demeriti sono effetti collaterali dei suoi meriti. In fondo, quello che è il peccato più grave che gli viene attribuito - la corruzione - non è storicamente e politicamente una sua invenzione. L’origine della corruzione italiana fu il consociativismo o democrazia consociativa: opposi-

zione e maggioranza governavano insieme il Paese e il classico sistema di controllo e limitazione del potere che è tipico delle democrazia più mature e responsabili è sempre stato assente nella democrazia governata dalla ideologia dell’arco costituzionale. Craxi pur opponendosi a questo “arco” fino a cercare di spezzarlo non poté fare a meno di usare i suoi stessi mezzi politici - lottizzazione e occupazio-

ne dello Stato - e finanziari - finanziamento illecito del partito. C’è poi il capitolo della cosiddetta Grande Riforma. Chi se non Craxi fu il primo a introdurre il tema di una riforma costituzionale in grado di chiudere il capitolo della Repubblica dei partiti per inaugurare il necessario capitolo della Repubblica dei cittadini? Fu lui a indicare la strada del presidenzialismo o semipresidenzialismo e non siamo ancora oggi alle prese con questo “problemino” per cercare di dare maggiore stabilità istituzionale alla democrazia dell’alternanza? Qui il grave errore di Craxi fu quello di non credere fino in fondo alla Grande Riforma (e, visti i risultati, forse non aveva tutti i torti). Quando Francesco Cossiga cominciò a “picconare” e Mario Segni s’inventò il referendum, Craxi disse: «Andate al mare». Un errore del craxismo, più che di Craxi.

pubblica di Salò. È scomparso nel 1988, è nato a Salsomaggiore nel 1914. Che c’entra Milano? Poco importa, ha da pensare il dinamico Fidanza: bilanciare! Traduzione: se un omaggio a Craxi può irrobustire il versante sinistro del centrodestra, con Almirante si recuperano le frange “nere”. Gli irriducibili. Lo ammetto. I miei possono essere cattivi pensieri, processi ad intenzioni che vorrebbero essere nobili. Tuttavia non riesco a sottrarmi alla mia incurabile allergia per la strumentalizzazione della toponomastica. Comprendo i riconoscimenti per i cittadini illustri, ma perché di stagione in stagione (politica) sacrificare antenati per fare posto a Lenin, Stalin, Mao, salvo poi… Provincialismo succube delle mode; quindi deprecabile. Torniamo al dunque. Che Milano debba tributare un omaggio a Giorgio Almirante, lascia basiti. Non era di qui, e nulla risulta abbia fatto per la città della Madonnina. Lasci perdere, egregio Fidanza! Altra musica, altro ragionare per Benedetto (Bettino) Craxi. Pur non essendo mai stato attratto dal personaggio politico, gli ero in non poca misura amico. Sin da quando, stessa età, stessi giovanili vizietti (balli studenteschi, gli interminabili poverini), le strade presero a divaricarsi. Bettino professionista della politica; io giornalista. Restò una solida amicizia, nella sfera del personale.

Andavo di tanto in tanto a fargli visita più che in via del Corso a Roma, nel suo covo milanese. In Galleria. Un ufficio popolato di cimeli garibaldini. Passava da quelle parti anche un giovanotto saltellante e dinamico, cartella sotto il braccio: Silvio Berlusconi, imprenditore edile che andava costruendo la città satellite di Milano2. Fu Bettino a presentarmi a Silvio: «Un uomo che farà strada, peccato non capisca un cazzo di politica», disse nel suo linguaggio rude ed essenziale. Il giovane Claudio Martelli, ingaggiato per sbrigare pratiche clientelari, annuiva. Era il 1976, e dopo l’ennesima batosta elettorale patita dal Psi, Bettino, fe-


politica

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A sinistra e sopra, due immagini di Bettino Craxi. Nella pagina a fianco, Craxi insieme con Gianni De Michelis e Ugo Intini delissimo di Pietro Nenni, era stato eletto, in un tumultuoso congresso, segretario del partito. Scalzando Francesco De Martino, fautore di un’alleanza coi comunisti. Per quasi un lustro, Bettino non immemore, mi gratificò di un “posto a tavola” (d’obbligo: pasta e fagioli, abbacchio), al Raphael di Roma, eretto a Quartier Generale dei fedelissimi: Margherita Boniver, Francesco Forte, Gianni De Michelis. Mi etichettava di «libero democristo»; e non rifiutava punzecchiature. Punto di robusta convergenza, il rifiuto dell’inciucio Dc-Pci. Fu per suo

ingovernabile». Confessava di «sentirsi prigioniero». Del «Sistema». E solo, scomparso Pietro Nenni. Con la revisione del Concordato, immaginò di aver catturato la benevolenza della Chiesa, del Vaticano. Poi fu travolto da tangentopoli. In un’ultima cena al Raphael, disse all’incirca: «Perché solo io? Piano baracca e burattini…». Fuga in Tunisia, per sfuggire alle manette. Un paio di volte lo raggiunsi telefonicamente ad Hammamet. Era l’ombra di se stesso. Non riusciva a comprendere perché fosse divenuto il capro espiatorio del malcostume italico. «Torna, e muori in trincea», gli suggerii. Riagganciò, e non ci sentimmo più. Conclusione. Ho conosciuto, frequentato Bettino Craxi. Apprezzando e non condividendo in egual misura. Che sia stato uno Statista con la maiuscola, esistono però pochi dubbi. Quanto alla corruzione, al clientelismo, solo chi non li ha praticati ha il diritto di lanciare pietre. Cioè nessuno o quasi. Ma è fuggito, e questo non riesco a digerirlo.

S’abbia il coraggio civile di dire tutta la verità attorno alla sua figura, che fu scomoda per gli “inciucianti” ma allo stesso tempo macchiata dall’ombra della fuga finale ad Hammamet tramite che potei incontrare François Mitterrand e Willy Brandt. Bettino era, diremo oggi, un “terzaforzista”. Quasi una follia, all’epoca. Un giorno, siamo nell’81, mi telefona la signora Anna. Altra amicizia che viene da lontano (i balli e le bisbocce studentesche). «Al Bettino piacerebbe che tu, proprio perché non sei socialista…». Immediata precisazione: «Se trovi un editore, ci sta, si fida…». Raffele Crovi, cattodemocristiano che dirigeva la Bompiani mi disse: «Ci sto!». Partorisco Benedetto Bettino, apprezzabile successo in libreria, anche perché preannuncia l’inimmaginabile: Craxi a Palazzo Chigi, primo presidente del Consiglio socialista della Repubblica italiana. Craxi-premier mi piaceva sempre meno. Lasciavo cadere gli inviti a Palazzo Chigi. Ma alloggiavo al Raphael, e qualche volta si fece l’alba. Lui a fumare, bere, nonostante l’incalzare del diabete. Discussioni interminabili su un’Italia «ingovernata perché

Di fronte all’ipotesi di un riconoscimento toponomastico a Bettino Craxi, pur travagliato da una cinquantennale amicizia che non si cancella, resto dunque perplesso. La vita, l’operato di Craxi devono assolutamente venire rivisitati e rivalutati; ma a che servono una strada, un giardino, un mezzobusto? S’abbia il coraggio civile di dire tutta la verità attorno alla sua figura, che fu estremamente scomoda per gli “inciucianti” (pardon, i “consociativi”) di ogni colore. Senza tuttavia dimenticare la “fuga finale”, la cui ombra continua a pesare e peserà sulla sua memoria. Comunque, sono ultrasicuro che ogni strumentalizzazione farebbe rivoltare Bettino nella tomba.


diario

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Istat. Solo nel 1954 i prezzi erano cresciuti di meno. In calo soprattutto affitti, acqua, elettricità e combustibili

Festività: i consumi tengono L’inflazione cresce a dicembre, ma nel 2009 è ai minimi da mezzo secolo ROMA. Lieve accelerazione per

trend assimilabile a quello dell’anno scorso».

di Guglielmo Malagodi

l’inflazione a dicembre. Secondo la stima diffusa ieri dall’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), a dicembre segna un aumento dello 0,2% rispetto a novembre, mentre su base tendenziale cresce dell’1% (era +0,7% a novembre). In base alla stima provvisoria, l’indice armonizzato Ipca registra una crescita dello 0,2% su base mensile e un aumento del 1,1% su base tendenziale. L’inflazione al netto dei prodotti energetici aumenta dell’1,2%.

Storicamente, invece, il dato sull’anno che si è appena concluso: il 2009 ha fatto registrare l’inflazione più bassa da 50 anni a questa parte. L’indice dei prezzi al consumo ha registrato nei 12 mesi scorsi del 2009 una variazione del +0,8%, segnando un record dal 1959 quando fu pari a -0,4%. Nel 2008, invece, l’inflazione era salita del 3,3%. L’Istat aggiunge che anche l’indice Ipca - quello usato in sede Ue - ha registrato un aumento dello 0,8% rispetto al 3,5% del 2008. Sulla base dei dati finora pervenuti gli aumenti congiunturali più significativi dell’indice per l’intera collettività si sono verificati per i capitoli Bevande alcoliche e tabacchi (più 1,8%), Ricreazione, spettacoli e cultura (piu’ 0,7%) e Trasporti (più 0,5%). Variazioni nulle, invece, si sono registrate nei capitoli Prodotti alimentari e bevande analcoliche e Istruzione. Variazioni negative si sono verificate nei capitoli Comunicazioni (meno 0,4%), Abitazione, acqua, elettricità e combustibili

qualche timido segnale di ripresa anche se in linea con la debolezza della domanda interna: previsioni dunque sostanzialmente confermate.

ROMA. Gli stipendi lordi deIn particolare «la ristorazione - si legge in un comunicato - durante le festività ha sostanzialmente tenuto rispetto all’anno precedente facendo registrare un lieve calo intorno all’ 1%, grazie anche all’effetto del contenimento dei prezzi praticato nei ristoranti, a fronte dei circa 10 milioni di clienti che hanno scelto di fe-

Nessun crollo delle vendite a Natale e Capodanno. Anzi, qualche segnale di ripresa anche se la domanda interna resta debole (meno 0,3%) e Servizi ricettivi e di ristorazione (meno 0,1%). Gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli Bevande alcoliche e tabacchi (più 4,4%), Altri beni e servizi (più 3,0%) e Istruzione (più 2,4%). Una variazioni tendenziale negativa si è verificata nel capitolo Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (meno 2,3%). Insieme ai dati sull’inflazione, ieri le federazioni associate alla Confcommercio hanno diffuso anche gli ultimi dati sui consumi a Natale e Capodanno. Nessun crollo delle vendite, anzi

Gli stipendi degli italiani sotto la media europea

steggiare al ristorante Natale e Capodanno. Una flessione decisamente più marcata si è registrata nel milanese nel periodo natalizio a causa delle difficoltà di mobilità stradale connesse alle forti nevicate registrate in quell’area». Per quanto riguarda l’abbigliamento, la Federazione Moda Italia sostiene che «la partenza dei saldi generalmente molto anticipata ha determinato un fermo totale della vendita dei capispalla a partire dai primi di dicembre. Gli accessori di abbigliamento, tipicamente regali natalizi, hanno registrato un

gli italiani sono più bassi del 32,3% rispetto alla media europea. È il dato evidenziato ieri dal Corriere della sera in un servizio in cui il quotidiano ricorda che nell’ultima graduatoria dell’Ocse «i salari lordi italiani sono più bassi del 32,3% rispetto alla media europea a quindici. Naturalmente siamo ben sotto la media dei 30 paesi Ocse, con un 16% abbondante in meno». «Secondo le ultime classifiche dell’Ocse - scrive il Corriere - gli stipendi netti degli italiani sono al ventesimo posto nella classifica dei trenta paesi più industrializzati. E si si considera lo stipendio al lordo delle ritenute fiscali e dei contributi, la nostra classifica migliora solo di una posizione».

A parità di potere d’acquisto, lo stipendio di un lavoratore italiano single senza figli è pari a 30.245 dollari e nella

graduatoria siamo davanti solo alla Repubblica ceca, l’Ungheria, il Messico, la Nuova Zelanza, il Portogallo, la Slovacchia e la Turchia.

Colpa delle tasse, ma non solo. Perché pesano molto anche i contributi sociali, in particolare quelli a carico dei datori di lavoro. Fatta la somma, la pressione tributaria complessiva sulla busta paga media di un italiano è pari al 46,5% del costo del lavoro, ed è più alta solo in Germania, Belgio, Austria e Francia. Così l’Italia occupa la posizione numero 19 nella graduatoria del costo del lavoro: con un valore di 39,9 siamo quasi alla metà della Germania (61,6) e di gran lunga sotto la Francia (51,2). Anche se, sottolinea il Corriere della Sera, «negli anni il nostro Paese non pare proprio che sia riuscito a sfruttare questo vantaggio competitivo».

Le famiglie - continua la nota hanno voluto mantenere vive le tradizioni legate al particolare periodo, aiutate in questo dalle forti politiche promozionali pianificate dalle aziende, quest’anno ancora più presenti rispetto agli anni passati. I consumatori hanno privilegiato i prodotti di gastronomia, quelli regionali e in generale il prodotto made in Italy. Non sono mancati anche gli acquisti dei prodotti da regalo in tutti gli altri settori: bene l’elettronica, trainata dalle vendite dei televisori di ultima generazione anche grazie all’introduzione del digitale terrestre, ma si sono dimostrati vivaci anche gli acquisti dei prodotti per l’arredamento della casa, degli articoli sportivi, della profumeria e del bricolage. Dinamiche le vendite di abbigliamento anche se, come di consueto, c’è grande attesa per i saldi, che anche quest’anno si presentano come una grande occasione per acquisti convenienti e di qualità. Dettaglio alimentare: i consumi per i negozi tradizionali hanno sostanzialmente tenuto, registrando un timido incremento che si attesta attorno allo 0,5%. Sono calati sensibilmente i pacchi aziendali, ma in compenso il trend del regalo utile con prodotti tipici di qualità è in costante aumento. Positivi anche i dati delle vendite per il cenone della Vigilia e di Capodanno, segno che anche quest’anno in tanti hanno preferito consumarli a casa. Leggero incremento delle vendite anche nei mercatini, che sono risultati sempre affollati. Nel suo complesso non superiori all’1%, ma segnali contrastanti fra i diversi settori merceologici. Nel dettaglio non bene l’abbigliamento e le calzature, positive le vendite dei prodotti tessili per la casa, degli articoli prettamente natalizi e dei casalinghi e degli articoli da regalo, molto bene la piccola oggettistica e la bigiotteria. Si è speso meno nel Mezzogiorno e nelle aree insulari, meglio al centro-nord. Le vendite di libri nel 2009, infine, hanno fatto registrare un leggero calo rispetto a quelle dell’anno precedente ma il mercato ha parzialmente recuperato i volumi abituali nel periodo natalizio, confermando l’abitudine degli italiani a considerare il libro tra i regali preferiti perché sempre gradito, utile ed economico.


diario

5 gennaio 2010 • pagina 7

Lunga telefonata tra il ministro Alfano e il p.g. Di Landro

Panico alla Regione. Sede evacuata, poi pericolo rientrato

La procura di Reggio: «Vuol dire che ci temono»

Pacchi bomba, falso allarme a Venezia: erano regali

ROMA. «Lunga telefonata tra il

VENEZIA. Tre caricabatterie universali e una bella lampada da tavolo. Questo il contenuto dei quattro pacchi arrivati ieri mattina alla sede della Regione Veneto, a Venezia. Dunque nessun pacco bomba, come si era pensato in un primo momento, ma tanta tensione a Palazzo Balbi: specie dopo l’attentato di Reggio Calabria di ieri e il moltiplicarsi di allarmi per ordigni esplosivi veri e falsi. La sede della Giunta regionale è stata evacuata dopo che lo scanner aveva evidenziato fili elettrici sospetti: immediatamente bloccati, i pacchi sono stati posti all’attenzione degli artificieri. Uno dei pacchi è stato fatto anche brillare per prudenza. I successivi accertamenti effettuati dalla polizia del com-

procuratore generale di Reggio Calabria, Salvatore Di Landro, e il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. Nel corso del colloquio, il ministro ha espresso al procuratore generale sostegno e fattiva partecipazione assicurando tutto l’aiuto necessario non solamente per ciò che è indispensabile al buon funzionamento dell’ufficio ma anche a dare tutti i segnali utili a mostrare la forza e la capacità dello Stato di reagire immediatamente e duramente. Il ministro della Giustizia ha, inoltre, invitato il procuratore generale e tutti gli uomini del suo ufficio, ad andare avanti contando nel costante appoggio del governo».

Nella voce di Ratzinger l’eco di papa Wojtyla Il discorso di Benedetto XVI il 1° gennaio 2010 di Luigi Accattoli

A renderlo noto, attraverso un comunicato, è stato ieri il ministero della Giustizia dopo che il procuratore generale di Reggio Calabria aveva spiegato i motivi che, secondo lui, avevano portato all’attentato dei giorni scorsi. «I criminali - ha detto Di Landro in un’intervista - sono portati a pensare che nel processo d’appello le cose si sistemano, quando questo non avviene, quando anche qui si rendono conto che prendono bastonate, qualcuno può avere la tentazione di reagire». «Per dimensioni, caratteristiche e

ROMA. Le classi scolastiche multietniche possono costituire una “profezia” dell’umanità futura: lo ha detto il Papa con un’immagine viva nell’omelia per la Giornata della pace, il 1° gennaio. Era una parola pungente perché la maggioranza del nostro Parlamento il 15 ottobre approvò una mozione della Lega contro le classi miste. Un altro monito toccante Benedetto l’ha pronunciato quello stesso giorno all’Angelus, rivolto “ai gruppi armati” di qualunque tipo: «fermatevi e abbandonate la via della violenza». Gli appelli del Papa acquistano forza quando si calano in situazioni conflittuali ed è il caso di ambedue questi richiami.

La minaccia terroristica ha marcato il periodo natalizio e l’avvio del nuovo anno in varie parti del mondo mentre le classi miste composte da bambini autoctoni e stranieri sono oggetto di scontro politico sia in Italia sia in Germania, cioè in ambedue le “patrie” del Papa tedesco. «Fin da piccoli, è importante essere educati al rispetto dell’altro, anche quando è differente da noi» ha detto Benedetto a introduzione dell’accenno alle scolaresche multietniche: «Ormai è sempre più comune l’esperienza di classi scolastiche composte da bambini di varie nazionalità, ma anche quando ciò non avviene, i loro volti sono una profezia dell’umanità che siamo chiamati a formare: una famiglia di famiglie e di popoli». Va notata la delicatezza dell’inciso «anche quando ciò non avviene». Il Papa esprime una chiara preferenza per le classi miste, altrimenti il suo accenno non avrebbe avuto senso, ma ben sapendo che sulla materia vi è divisione politica, precisa che anche quando le classi miste non si realizzano, quella “profezia” dell’umanità futura ci raggiunge attraverso la compresenza in altri momenti della nostra vita associata di bambini provenienti da diverse parti del mondo. Dopo l’inciso inserito per rispetto di chi la pensa diversamente, il Papa è tornato a svolgere la parabola dell’infanzia anticipatrice dell’umanità futura avendo di nuovo in mente un’aula scolastica o un ambiente a essa assimilabile: «Più sono piccoli questi bambini, e più suscitano in noi la tenerezza e la gioia per un’innocenza e una fratellanza

che ci appaiono evidenti: malgrado le loro differenze, piangono e ridono nello stesso modo, hanno gli stessi bisogni, comunicano spontaneamente, giocano insieme». La conclusione è stata forte nel contenuto e nelle parole, tese a scongiurare che gli adulti non abbiano a seminare inimicizia tra i piccoli che “spontaneamente”tra loro si rapportano: «I volti dei bambini sono come un riflesso della visione di Dio sul mondo. Perché allora spegnere i loro sorrisi? Perché avvelenare i loro cuori?».A intendere appieno l’accenno papale alle classi miste può aiutarci quanto ebbero a rispondere i suoi collaboratori alle domande dei giornalisti durante una conferenza stampa del 27 novembre scorso presentando il “messaggio”per la giornata del migrante, in calendario per il 17 gennaio. In quell’occasione l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Consiglio per i migranti, in risposta a una giornalista tedesca che segnalava la “maggiore opportunità di apprendimento”che avrebbero i bimbi immigrati in classi mirate ai loro bisogni, invitava a ovviare alle difficoltà dell’inserimento aumentando gli “insegnanti di sostegno”, mentre il sottosegretario allo stesso dicastero, l’africano Rugambwa, si diceva contrario a “introdurre la segregazione nella scuola”.

Gli appelli del pontefice acquistano forza quando si calano in situazioni conflittuali ed è il caso di ambedue questi richiami

professionalità degli attentatori - spiega il procuratore generale - sulla matrice mafiosa non credo ci possano essere dubbi. Sia sui processi in grado di appello e sia sulla confisca dei beni ho impostato il lavoro con il massimo del rigore e del controllo. Possiamo dire, alla luce di quanto è accaduto, che l’idea di Procura generale che si va delineando non è piaciuta. Forse qualche illuso si era illuso che tenessimo un profilo più basso». «L’attentato, assicura ancora Di Landro, non frenerà l’attività: «le indagini vanno avanti con determinazione, i successi sono tangibili, la strada è lunga e difficile noi continuiamo a fare il nostro mestiere».

Questa è poi stata la chiamata al disarmo rivolta dal Papa a terroristi e guerriglieri d’ogni paese: «Nel primo giorno dell’anno, vorrei rivolgere un appello alle coscienze di quanti fanno parte di gruppi armati di qualunque tipo. A tutti e a ciascuno dico: fermatevi, riflettete, e abbandonate la via della violenza! Sul momento, potrà sembrarvi impossibile, ma se avrete coraggio, Dio vi aiuterà, e sentirete tornare nei vostri cuori la gioia della pace». In quel «fermatevi» chi ha buona memoria degli appelli di pace di Papa Wojtyla avrà sentito l’eco di una parola da lui gridata il 18 dicembre 1994, con riferimento ai «responsabili delle guerre lontane e vicine» e in particolare a quelli che allora facevano strage in Bosnia: «A questi diciamo oggi, sei giorni prima del Natale: fermatevi, fermatevi davanti al Bambino!». www.luigiaccattoli.it

missariato di San Marco, hanno confermato poi che i pacchi recapitati da un corriere, contenevano oggetti inoffensivi, regali di Natale spediti dall’Enel e consegnati in ritardo. La stessa Enel, infatti, ha attestato che si trattava di regali diretti agli assessori Giancarlo Conta, Renzo Marangon, Renato Chisso e al portavoce del presidente della Regione, Franco Miracco.

Intanto, il questore di Venezia Fulvio Della Rocca ha confermato la circostanza e ha fatto notare che i meccanismi di prevenzione hanno funzionato a dovere. «Passati allo scanner della Regione - ha spiegato infatti il questore - i pacchi sono sembrati sospetti: circostanza confermata quando a fare la medesima operazione sono stati gli artificieri». In particolare, ambiguo è apparso il fatto che i plichi «avevano solo il recapito dei destinatari - ha sottolineato Della Rocca - e nessun riferimento di partenza». È stato a quel punto che le procedure di sicurezza hanno spinto a far esplodere uno dei pacchi con microcariche mirate e in condizioni di sicurezza garantite dagli artificieri. «Che fossero regali destinati ad assessori e al portavoce del presidente - ha concluso il questore - è stato confermato dall’Enel, mittente dei plichi».


mondo

pagina 8 • 5 gennaio 2010

Terrorismo. Il governo si sente abbandonato dall’Occidente teme un contraccolpo psicologico a favore di al Qaeda

In fuga da Sana’a Ue spaccata su come affrontare la crisi in Yemen. Usa e Gb chiudono le ambasciate di Antonio Picasso escalation in cui sta precipitando lo Yemen non presenta ancora le caratteristiche di una guerra aperta tra l’Occidente e al-Qaeda. Al momento siamo di fronte a un’impennata dell’attenzione mediatica e a una riduzione delle attività diplomatiche straniere in questo lontano angolo della Penisola arabica. Di fronte al rischio di attentati paventato dal gruppo “al-Qaeda in Yemen” molte ambasciate sono state chiuse, pri-

L’

no ricevuto il plauso del Consigliere del Presidente Obama per l’antiterrorismo, John Brennan, in merito all’impegno che stanno spendendo per contrastare i combattenti qaedisti. D’altra parte, Brennan stesso ha negato la possibilità che gli Usa si impegnino direttamente in Yemen.

Nella sua generalità, il livello di allerta è decisamente critico. È certo che il fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-De-

Il responsabile americano Brennan nega la possibilità che gli Stati Uniti si impegnino militarmente nella regione, ma apprezza gli sforzi yemeniti contro i combattenti qaedisti me fra tutte quelle di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il pericolo però è che così il governo di Sana’a sia costretto ad affrontare i crescenti problemi di instabilità interna senza l’adeguato sostegno dei governi stranieri. Da un lato infatti le autorità yemenite han-

troit abbia dato nuova linfa ad al-Qaeda, sia in termini operativi, sia da un punto di vista di immagine. Un elemento, questo, per cui l’organizzazione di Osama bin Laden si è dimostrata sempre molto sensibile. Dall’episodio sono emerse le correlazioni fra il terrorista nigeriano, Umar Farouk Abdulmatullab, e “al-Qaeda in Yemen”. Da almeno tre anni le attività di questa cellula terroristica locale si stanno sviluppando in modo tentacolare. Il gruppo ha attecchito nel contesto tribale yeme-

nita. Ha sposato la causa della pirateria che infesta il Golfo di Aden, in quanto forza destabilizzante per il commercio globale. Infine ha attivato un canale di dialogo con gli Shabaab in Somalia, anch’essi guerriglieri che hanno fatto impropriamente dell’Islam una fonte di ispirazione per la loro lotta armata. Nella sua strategia globale, Osama bin Laden, la cui famiglia peraltro è di origine yemenita, non ha mai dimenticato quello che per gli occidentali era fino a ieri un remoto angolo dell’Islam. Non è un caso che la cellula yemenita abbia avuto il privilegio di potersi fregiare del nome dell’organizzazione, “alQaeda in Yemen” appunto, alla pari di quella attiva in Iraq (alQaeda in Mesopotamia) e nel Sahara occidentale (al-Qaeda per il Maghreb Islamico, Aqmi).

Va detto che da mesi le truppe governative hanno incrementato gli sforzi per circoscrivere i focolai di violenza e guerriglia che sono comunque parte integrante del contesto tribale altamente instabile del Paese. Proprio ieri le forze di polizia si sono scontrate con un gruppo di combattenti legato a Nazih al-Hang, ritenuto un esponente di rilievo del gruppo qaedista locale. La sparatoria,

avvenuta nella regione di Arhab a 40 chilometri a nord di Sana’a, ha provocato la morte di due guerriglieri e il ferimento di altri tre. Al-Hang è riuscito però a fuggire. Chi ha visitato lo Yemen conosce le asperità della regione, dove gli scontri a fuoco fanno parte della quotidianità. Qui le tribù ribelli al governo centrale, i combattenti jihadisti, oppure i delinquenti comuni possono trovare facilmente un nascondiglio irraggiungibile dall’esercito, sia per la conformazione del territorio, sia perché i fuggiaschi ottengono frequentemente il favore dei capi villaggio locali.

In questo senso lo Yemen non è molto dissimile dall’Afghanistan, dove l’ospitalità verso chi

combatte un nemico assume il valore di una regola sacra e inviolabile. Al-Hang, grazie anche al fatto di essere un mujaheddin locale, può aver trovato rifugio ovunque, nei paesini di montagna che dominano le vallate e che per questo impediscono il successo per qualsiasi tipo di raid da terra con effetto sorpresa. Il fatto che molti villaggi all’interno del Paese possono essere raggiunti esclusivamente a dorso di mulo oppure a piedi, rallenta le ricerche da parte delle forze regolari, che si muovono su vecchi fuoristrada e sono armati di strumenti di comunicazione e di combattimento altrettanto antiquati. Ad al-Qaeda si aggiunge inoltre la presenza della minoranza zaiditha, di confes-

Il ministero degli Esteri italiano cerca di arrivare a un accordo comune con l’Unione Europea

La Farnesina: «Per ora, rimaniamo» ROMA. L’ambasciata italiana a Sana’a «per il momento non chiuderà». Lo ha confermato ieri la Farnesina, interpellata a seguito dell’annunciata chiusura delle sedi diplomatiche di alcuni Paesi - quali Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone e Francia -, a seguito dell’aumento della minaccia terroristica in Yemen. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in mattinata aveva chiesto una concertazione europea sulla chiusura delle ambasciate. «La linea resta quella di cercare un accordo a livello di Unione Europea ha affermato il capo ufficio stampa della Farnesina, il ministro Massari -. Frattini ha parlato questa mattina con l’Alto rappresentante europeo per la politica estera, Catherine Ashton, per esprimere questa opinione». Una prima risposta alla questione, sollecitata dall’Italia, potrebbe arrivare già venerdì a Bruxelles. In quella data, infatti, è previsto un incontro a livello di Cops, il Comitato politico e di sicurezza dell’Ue, la struttura permanente che vigila sulle situazioni internazionali nell’ambito della politica estera e di sicurezza europea (Pesc), fornisce pareri

al Consiglio, sia su richiesta sia di propria iniziativa, vigila sull’implementazione delle politiche concordate e gestisce le eventuali crisi nell’ambito della Pesd per conto del Consiglio. In ogni caso, l’ambasciata d’Italia «è operativa al cento per cento, pur avendo sospeso per oggi l’accesso al normale pubblico». Lo ha confermato l’ambasciatore italiano nello Yemen Mario Boffo: «Si tratta di una decisione che verrà rivista giorno per giorno, alla luce della situazione».

La feluca ha poi precisato che la sospensione dell’accesso del normale pubblico «è una misura cautelativa, ma blanda» e che al momento «non si pensa ad ulteriori restrizioni». «Non confondiamo questa misura con la chiusura dell’ ambasciata, che nel linguaggio diplomatico ha un significato diverso. Significa che nessuno risponde al telefono, il personale rimane a casa». Secondo Boffo, «le ambasciate europee non hanno né fatto né pensato nulla del genere. Men che meno la nostra».


mondo

5 gennaio 2010 • pagina 9

Un uomo elude i controlli di routine e blocca l’aeroporto di Newark

Ancora distrazioni nella sicurezza Usa di Vincenzo Faccioli Pintozzi a notizia, l’ultima in ordine di tempo, rischia di sparire nel novero di tutte le altre che le sono simili: un uomo ha eluso i controlli di sicurezza al Liberty International di Newark, il secondo aeroporto di New York per traffico passeggeri, bloccando completamente lo scalo per quasi sette ore. I voli sono stati fermati e tutti i passeggeri che avevano effettuato il check-in hanno dovuto essere nuovamente controllati. L’uomo avrebbe attraversato delle barriere di sicurezza nel Terminal C. L’allarme ha obbligato il personale prima a fermare i controlli di sicurezza, poi addirittura riconvocare i passeggeri già ai cancelli di imbarco e procedere di nuovo allo screening di tutti. Gli aeroporti americani sono in massima allerta dopo il tentato attacco kamikaze sul volo Amsterdam-Detroit del giorno di Natale, un incidente bloccato dai passeggeri, e che il presidente Usa Barack Obama ha direttamente collegato ad Al Qaida nello Yemen. Secondo nuove direttive di Washington in vigore da ieri, i cittadini in arrivo negli Stati Uniti da 14 Paesi - inclusi Pakistan, Arabia Saudita e Nigeria - saranno sottoposti a controlli più severi in tutto il mondo. Dalla vigilia di Natale, il giorno in cui il presidente Barack Obama ha lasciato Washington per volare alle Hawaii per le vacanze di fine anno, sembra passato un secolo, non nove giorni. Il dibattito politico, per settimane dominato dalla riforma della sanità, è ora tutto spostato sul terrorismo e sulle conseguenze del mancato attentato su un volo diretto a Detroit, tanto che l’incidente ora potrebbe addirittura portare al primo mini-rimpasto della squadra di governo democratica. Gli addetti ai lavori guardano al vertice di oggi alla Casa Bianca con “tutti i responsabili” dell’antiterrorismo come un possibile momento di svolta. Sulla scrivania dello Studio Ovale Obama trova la più delicata delle gatte da pelare: il clamoroso svarione dell’intelligence americana; come è possibile a otto anni dalle stragi dell’11 settembre che un estremista nigeriano noto al dipartimento di Stato sia riuscito a salire a bordo di un volo intercontinentale con una bomba negli slip?. L’inchiesta del governo sull’incidente ha concluso che si trattato di un ”errore umano” ( l’ammissione di John Brennan, il principale consigliere di Obama in materia di antiterrorismo) e lo stesso presidente ha fatto capire che potrebbero cadere delle teste.

L

sione sciita, anch’essa fiera avversaria di Sana’a e del potente vicino saudita. Peraltro, stando a un loro comunicato, sarebbe solo di ieri l’ultima incursione aerea compiuta dall’aviazione di Riyadh nel nord del Paese. Bollettino dell’attacco: 16 civili uccisi e altri 19 feriti.

L’attuale quadro di situazione ricalca significativamente quello di altri scenari, sempre nel quadrante allargato del Medio Oriente, dove in passato i governi occidentali - presi alla sprovvista - hanno paventato il timore della nascita di un nuovo focolaio di terrorismo, ma al tempo stesso hanno evitato fino all’ultimo di intervenirvi. In Yemen sembra che stia accadendo proprio questo. Il Paese è da anni un centro di reclutamento, addestramento e di rifugio per i discepoli di bin Laden. Ancora ieri il quotidiano panarabo Asharq alawsat ipotizzava il legame fra i qaedisti iracheni e quelli attivi sulle montagne dello Yemen. Paventava inoltre la collaborazione tra membri di al-Qaeda ed ex membri del partito Baath di Saddam Hussein - esperti in fatto di guerriglia - affinché l’impatto operativo si dimostri più efficace rispetto a come è stata portato avanti finora nell’area di fronte al Corno d’Africa. Lo Yemen infatti sarebbe un’ottimale cinghia di trasmissione fra l’“Af-Pak war” e i vari punti di interessi per al-Qaeda in Africa: Somalia, Sudan e Maghreb. Ne risulta che, stando alla situazione attuale l’organizzazione di bin Laden stia recuperando terreno, soprattutto per

Sopra, l’ambasciata olandese nella capitale dello Yemen. A destra, un uomo viene esaminato con il body scanner. Nella pagina a fianco, il ministro degli Esteri italiano quanto riguarda l’aspetto psicologico delle sue attività terroristiche. La ritirata così disordinata dei più influenti governi occidentali dalla capitale yemenita infatti ha il sapore di un “si salvi chi può” di fronte a un pericolo non calcolato. Il Presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh, teme le ripercussioni delle scelte di Washington e dei suoi alleati. A Sana’a, come a Kabul e come presso la maggior parte dei governi mediorientali, la forza di chi governa è dettata da complicate trattative tribali che per la nostra cultura risultano anacronistiche. La chiusura delle ambasciate straniere potrebbe apparire, agli occhi dei sostenitori locali di Saleh, come un abbandono del Paese al proprio destino. Il rischio è che questi ultimi facciano altrettanto e, invece di restare uniti intorno al governo di Sana’a, diventino interlocutori acquistabili da al Qaeda. Forse è anche per questo che, sempre ieri il capo della diplomazia yemenita, Abou Bakr al-Kourbi, si è recato in visita in Qatar. Temendo l’abbandono dell’Occidente, Sana’a cerca un appoggio presso i governi arabi. D’altra parte, fa da contrasto positivo la proposta del ministro Frattini che ha chiesto un’azione coordinata all’interno dell’Unione europea, proprio in risposta ad alQaeda e come garanzia al governo yemenita che non venga lasciato solo.

retta nella dinamica dell’attentato, che stato preparato nella penisola araba, ma ha la colpa di avere detto, a caldo, che «la sicurezza americana ha funzionato», rimangiandosi le parole quando ormai era troppo tardi.

La colpa di Napolitano è tutta politica: con un exploit percepito come “dilettantismo” ha scoperto il fianco di Obama sul nodo del terrorismo proprio alla vigilia di una scandenza delicatissima, quella della chiusura del carcere di Guantanamo Bay. Napolitano - e questo è forse l’elemento più pericoloso per il governo - espone i democratici all’accusa di essere troppo “soft” nella lotta ad al Qaida, il cavallo di battaglia del precedente governo repubblicano. Sullo sfondo di queste polemiche i democratici devono fare i conti con la prospettiva di una disfatta nelle elezioni di mezzo termine di novembre, l’occasione per

L’opposizione repubblicana chiede la testa del segretario per la Sicurezza Interna, Janet Napolitano. L’ex governatrice dell’Arizona aveva declassato troppo presto il problema dell’attentatore

Quali? L’opposizione repubblicana chiede quella del segretario per la Sicurezza Interna Janet Napolitano, l’ex governatrice dell’Arizona. Il ministro non ha una responsabilità di-

i repubblicani di riconquistare la maggioranza alla Camera dopo quattro anni di opposizione. In attesa del vertice di oggi, intanto, molte cose sono già cambiate negli Stati Uniti. Il mancato attentato avrebbe anche dato una spallata alle cautele legate alla privacy che finora hanno impedito agli scanner a raggi x di essere utilizzati per i controlli all’imbarco. I nuovi dispositivi potrebbero diventare ben presto la norma, mandando in pensione il vecchio metal detector. Anche la politica estera del governo ha deviato dalla sua traiettoria “prenatalizia”, tutta centrata sulla guerra in Afghanistan, con la chiusura dell’ambasciata americana in Yemen. Sembra dunque senza sbocco questa politica estera statunitense, sempre più incastrata dall’aumento delle abilità dei terroristi. Ed ecco che, come detto, sparisce la riforma sanitaria dalle prime pagine dei giornali e torna la minaccia di al Qaeda. Più debole, forse, ma pericolosamente decentrata.


economia

pagina 10 • 5 gennaio 2010

Metalmeccanici. Uno stabilimento Fiat ancora una volta teatro di una svolta epocale

Fiom, l’ora della verità A Termini Imerese i sindacati si giocano una partita decisiva di Giuliano Cazzola he fare alla Fiat di Termini Imerese? Nella storia sindacale del dopoguerra è toccato più volte alla Fiat di diventare il teatro delle svolte epocali. Nel lontano 1955 la sconfitta della Fiom-Cgil nelle elezioni della Commissione interna degli stabilimenti torinesi (i voti della lista crollarono dal 65% al 36%) aprirono una profonda riflessione nel gruppo dirigente dell’organizzazione, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio il quale fu protagonista della revisione critica.Val la pena di ricordare le parole del leader sindacale, pronunciate cinquant’anni or sono, a commento della sconfitta: parole di una modernità sconcertante, perché valide ancora oggi: «Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda».

C

«Il fatto che la Cgil - proseguiva Di Vittorio - sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore... La situazione oggettiva ci obbliga concludeva a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda». Dopo averlo a lungo contrastato, la Cgil aderiva, in

questo modo, a quel modello della contrattazione collettiva, articolato su due livelli - uno nazionale, l’altro decentrato - che pochi anni dopo sarebbe divenuto la caratteristica peculiare delle relazioni industriali in Italia, tanto da essere sostanzialmente confermato anche dall’accordo quadro del 22 gennaio 2009. Anni dopo fu sempre la Fiat a dare il segno che avrebbe presto assunto l’«autunno caldo», questa volta a favore dei lavoratori.

Ai primi di settembre del 1969, quando stavano per iniziare le trattative per lo storico contratto dei metalmeccanici, la Fiat annunciò di dover effettuare alcune migliaia di sospensioni per esigenze produttive. I leader sindacali sostennero subito che questa misura era una ritorsione contro il rinnovo contrattuale; pretesero l’intervento del Governo - era ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin - allo scopo di far rientrare il provvedimento. Altrimenti non sarebbero stati disponibili ad avviare il negoziato. La vicenda suscitò un enorme scalpore: tutta la categoria si metteva in gioco per i lavoratori della Fiat. La vertenza aveva innestato, così, la quarta fin dall’inizio. Il ministro del Lavoro convocò l’Avvocato e riuscì ad ottenere sia pure in due tempi - il ritiro delle sospensioni. Venne poi nel autunno del 1980, un altro momento della verità per il sindacato.

Le tre sigle concordano sull’analisi, ma non sulla strategia

Cgil, Cisl e Uil: unità o ennesima spaccatura? di Vincenzo Bacarani

ROMA. Fra pochissimi giorni la questione dello stabilimento Fiat di Termini Imerese tornerà al centro dell’attenzione di governo e sindacati. Giovedì infatti gli operai rientreranno in fabbrica dopo la cassa integrazione e sembrano decisi a ricominciare il lavoro con un’assemblea permanente. La decisione del gruppo torinese di interrompere la produzione di auto nello stabilimento siciliano a partire dal 2012 ha avuto numerosi effetti.

Da una parte il governo, soprattutto attraverso il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola, da qualche tempo sta operando un pressing - peraltro nemmeno tanto convinto - sull’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne (secondo il quale 5 stabilimenti di auto in Italia sono troppi), nel tentativo di farlo tornare sulla propria decisione. L’ultimo tentativo in ordine di tempo è stato operato l’ultimo giorno del 2009 quando Scajola ha detto che lo stabilimento di Termini Imerese «non va ridimensionato».Tuttavia ha aggiunto che «nel frattempo cercheremo all’estero se ci sono interessi di altri produttori a venire in Sicilia». Insomma, un pressing che sembra più un atto dovuto che una strategia, tanto più che per quanto riguarda gli incentivi per il settore auto il governo intende prima vedere come si comporteranno gli altri Paesi europei, fermo restando per il 2010 il bonus rottamazione. Sulla questione dello stabilimento Fiat siciliano è intervenuta anche la Chiesa attraverso l’arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, che si è detto preoccupato per la vicenda: «Se non c’è un rinnovato impegno, è forte il rischio di compromettere l’avvenire delle nostre terre», ha affermato. Intanto, in attesa di un “tavolo tecnico”promesso da Scajola per dopo le feste tra governo, sindacati e Fiat, le organizzazioni di categoria dei metalmeccanici sono già sul piede di guerra. E, quasi paradossalmente, la situazione critica di Termini Imerese potrebbe rappresentare per i tre maggiori sindacati (Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil) l’occasione per mettersi alle spalle le divisioni e ritrovare un’unità che è

stata lacerata soprattutto dalla firma separata sul rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici (la Fiom non ha firmato l’accordo sottoscritto da Fim e Uilm). L’intenzione di mettere, almeno momentaneamente, da parte le polemiche c’è, ma continuano a esistere alcune divergenze sulle metodologie, divergenze che appaiono non di poco conto. La questione Termini Imerese diventa senza dubbio importante per valutare la forza dei tre maggiori sindacati dei metalmeccanici, ma soprattutto per saggiare la loro unità. Se nei giorni seguenti all’annuncio della chiusura, Fim, Fiom e Uilm sembravano essere sulla stessa lunghezza d’onda. Oggi, in questi giorni che dovranno decidere come muoversi in una molto complicata vertenza, cominciano a emergere divergenze sulle strategie da adottare.

La Fiom non vuole pronunciarsi ufficialmente e attende l’esito dell’assemblea dei lavoratori prevista per giovedì per valutare la situazione. Ma la sinistra radicale della Fiom, che ha un peso non indifferente all’interno dell’organizzazione, preme per un confronto duro e immediato con azienda e governo. Confronto duro e immediato che vuol dire: sciopero subito, occupazione della fabbrica. Non sarà facile per il segretario generale, Gianni Rinaldini, gestire la situazione perché l’apparente ritrovata unitarietà di intenti potrebbe trasformarsi, nel giro di pochi giorni, in un ulteriore, lacerante strappo con le altre due organizzazioni sindacali. «Allo stato attuale - dice a liberal Rinaldini - c’è una posizione unitaria. L’unica differenza è che con le altre organizzazioni ragioniamo rispetto a strategie normali e tradizionali. Noi facciamo presente che c’è in programma la chiusura di uno stabilimento che occupa 1400 lavoratori e che ne coinvolge altri circa mille nell’indotto. Giovedì, al rientro dalla cassa integrazione, ci sarà un’assemblea e i lavoratori decideranno eventuali azioni di lotta. Consideriamo che sarà la prima giornata di lavoro seguente all’annuncio della chiusura della fabbrica, quindi è comprensibile che tra i lavoratori ci sia voglia


economia

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L’azienda torinese si trovava a dover fronteggiare una situazione di mercato decisamente critica e priva di prospettive a breve. Aveva inizio la grande ristrutturazione produttiva del decennio Ottanta. Dapprima furono richiesti migliaia di licenziamenti. Poi, dopo la caduta del Governo di allora, presieduto da Francesco Cossiga, la Fiat colse l’occasione per aggiustare il tiro tramutando la richiesta di licenziamenti in 23mila sospensioni. I sindacati che erano scivolati, per sostanziale debolezza, in uno sciopero ad oltranza, coi picchetti davanti ai cancelli, non furono in grado di convincere i lavoratori a cambiare forma di lot-

di discutere della questione, di avere maggiori notizie, di sapere quali potrebbero essere le prospettive e che tipo di iniziative intendono prendere i sindacati. Ne discuteremo, ma - ripeto - tra le organizzazioni sindacali sulla vicenda c’è una posizione unitaria». Il leader Fiom cerca dunque di abbassare la temperatura del confronto tra i sindacati e infatti la conferma di una posizione unitaria arriva da Antonino Regazzi, segretario generale della Uilm, che però vuole sottolineare le divergenze con la Fiom sulla strategia da seguire.

«La battaglia - spiega Regazzi - sarà lunga e bisogna gestirla con intelligenza. Ma non seguiremo la Fiom sullo sciopero immediato e a oltranza. La chiusura è annunciata per il 2012 e in questo lasso di tempo dobbiamo lavorare per favorire alcune soluzioni». La Uilm teme che una risposta sindacale immediata troppo aggressiva possa drammatizzare la situazione e alla fine danneggiare i lavoratori stessi. D’altro canto non crede che il mercato dell’auto sia destinato a una contrazione, tutt’altro. Spiega infatti Regazzi: «Oggi nel mondo si producono 800 milioni di vetture. E’previsto che tra 15 anni le auto prodotte saranno 2 miliardi. In tutta Europa il settore dà lavoro a 12 milioni di persone. Noi non siamo d’accordo sul fatto che l’Italia debba produrre meno auto addirittura del Belgio e della Polonia. Il governo e la Regione Sicilia devono impegnarsi a salvare la grande produzione di auto. In quest’ottica ci chiediamo: perché chiudere Termini Imerese?». E la domanda che si fa il leader Uilm non è poi tanto retorica in quanto non sono in pochi a pensare che lo stabilimento siciliano possa interessare anche altre case automobilistiche per una produzione destinata all’Europa. «Non dimentichiamo - aggiunge e conclude il segretario generale della Uilm - che il Mediterraneo può tornare a essere un importante perno del commercio mondiale. Del resto, lo stabilimento siciliano era sorto proprio nell’ottica di porsi in un’area, quella del Sud Europa, che all’epoca era dotata di notevoli potenzialità dal punto di vista degli scambi commerciali e dei collegamenti”. E la Fim-Cisl condivide le posizioni di Regazzi sia sul giudizio negativo della decisione della Fiat sia sui metodi più giusti da adottare per tutelare i posti di lavoro. Il segretario generale, Giuseppe Farina, afferma che «la posizione dei sindacati è unitaria, c’è un’unità di intenti e di prospettive perché la posizione della Fiat non è accettabile». Prosegue Farina: «Riteniamo che la

cedeva all’azienda spazi di manovra, salvo condannarsi ad un inesorabile ed accelerato declino. L’insuccesso alla Fiat, così, fu benefico. E trasformò radicalmente l’approccio culturale verso i problemi del sistema delle imprese. Nel decennio Ottanta l’apparato produttivo passò attraverso un tritacarne: interi settori, che erano stati l’ossatura dell’apparato industriale (la siderurgia, la petrolchimica, la navalmeccanica e in genere le industrie a partecipazione state) subirono trasformazioni profonde e sopportarono conseguenze pesanti sull’occupazione e sulle condizioni di lavoro. Il sindacato, dopo lo shock della

cosa migliore al momento sia prendere atto della situazione e che vada tenuta una posizione prudente. Noi insisteremo per mantenere la produzione di automobili a Termini Imerese e siamo anche pronti a valutare altri produttori di veicoli, non è mica detto che debba essere a tutti i costi la Fiat. Ci sono altre aziende nel mondo. Ma siamo anche disponibili a un confronto con altri tipi di produzione, sempre industriale, che possano coinvolgere anche l’attuale indotto auto».

Insomma, la Fim adotta una strategia ad ampio raggio difendendo la vocazione automobilistica dello stabilimento siciliano, ma aprendo anche ad altre soluzioni che possano essere in grado di evitare la disoccupazione per circa 2400 persone. «Abbiamo in corso un confronto - spiega sempre Farina - con le parti. Abbiamo di fronte ancora due anni di produzione perché la chiusura è stata decisa per gli inizi del 2012 e io penso che fino a quando c’è del lavoro da fare, è bene continuare a lavorare. Anzi, uno dei modi migliori per difendere lo stabilimento è quello di mantenerlo in vita». Ecco perché la Fim è contraria a strategie aggressive, come quella prospettata dalla Fiom con lo sciopero a oltranza, che per alcuni sindacalisti rappresentano solo fughe in avanti. «Se andremo a scioperare a oltranza - dice il leader Fim distruggeremo lo stabilimento». Quindi una presa di distanza dalla Fiom? Farina mette le mani avanti: «Dico una cosa. Che fino ad oggi il caso lo abbiamo gestito insieme. Ma sull’idea di occupare la fabbrica non sono d’accordo. Il miglior modo per ottenere qualche risultato è mantenere alta la mobilitazione, ma nello stesso tempo è assolutamente necessario mantenere in attività lo stabilimento». Si preannunciano dunque giorni caldi, soprattutto per Fim, Fiom e Uilm che dovranno valutare se la chiusura annunciata dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, dove attualmente si produce la ipsilon, può diventare un’occasione per ritrovarsi sulla strada dell’unità o se invece sarà l’ennesimo motivo di dissenso che potrebbe provocare una spaccatura (con la Fiom da una parte e Fim e Uilm dall’altra) difficile da sanare. Forse più difficile di quella sul rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici. La risposta potrebbe arrivare abbastanza presto, forse già giovedì, dopo l’assemblea dei lavoratori Fiat.

Rinaldini (Fiom): «Abbiamo gli stessi obiettivi». Regazzi (Uilm): «Lo sciopero a oltranza può essere uno strumento controproducente»

È necessario che tutte, le federazioni dei metalmeccanici, tornate miracolosamente unite per gestire la delicata vertenza, chiariscano fin dall’inizio i termini delle loro rivendicazioni ta, rientrando al lavoro e adottando iniziative di sciopero di più lungo respiro. Così l’azione andò avanti per 35 giorni. Fino a quando, il 14 ottobre, si svolse a Torino una grande ed inaspettata manifestazione di 40mila lavoratori, tra capi, tecnici ed impiegati, in difesa del diritto al lavoro. L’evento suscitò grande impressione e indusse i vertici sindacali a pervenire ad un accordo che venne vissuto dalle “avanguardie”come una sconfitta. Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo torinese ricordò, alcuni anni dopo, la conclusione della vertenza con queste parole: «La svolta del 1980 fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito hanno riacquistato il diritto di esistere in Italia grazie soprattutto a noi, alla nostra fermezza». Anche nel sindacato si avviò una riflessione autocritica, ma soltanto dopo la sconfitta, mentre prima - in nome di una falsa unità di classe - l’intero movimento confederale si schierò a sostegno di una lotta persa in partenza, perché partiva dalla negazione della crisi come dato oggettivo, che non con-

Fiat, assunse quasi sempre posizioni negoziali e di collaborazione, finalizzate a salvare l’unità produttiva anche a costo di amministrare costi sociali enormi.

Oggi, l’appuntamento con il destino è fissato a Termini Imerese. La Fiat, a causa delle nuove dislocazioni sui mercati internazionali, non può fare a meno di liberarsi dello stabilimento di Termini Imerese (e di quello di Pomigliano d’Arco). È assolutamente necessario, allora, che le federazioni dei metalmeccanici, tornate miracolosamente unite per gestire quella delicata vertenza, chiariscano fin dall’inizio i termini della loro piattaforma rivendicativa. Un conto è operare, insieme al governo e alle Regioni interessate, affinché, nelle località investita dallo tsunami della ristrutturazione, restino dei poli produttivi in grado di salvare le fabbriche, l’indotto e l’occupazione. È un impegno, questo, a cui neppure la Fiat può sottrarsi, come vorrebbe fare. Pretendere invece che quelle unità continuino a sfornare unicamente automobili - quando è più conveniente farlo altrove in qualche parte del mondo - sarebbe un’impostazione sbagliata, condannata in partenza alla sconfitta.


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ascasse il modo, un inglese true blue, noi diremmo doc, alle cinque del pomeriggio onora sempre l’appuntamento con la tazza del tè. In Albione il tè sa del resto (ancora) d’impero. Il suo rito, pur se lontano le mille miglia dall’omonima cerimonia giapponese epperò non meno metodico, ritmico, liturgico, sposa il gotico delle cattedrali e il verde della valle del Tamigi ai sapori e agli odori della Thailandia, della Cina, dello Sri Lanka quando ancora si chiamava Ceylon e persino della Russia in un cliché comprensibile solo dentro il canone occidentale. Fu del resto per una tazzina di tè che gl’inglesi imperiali di Londra si persero gl’inglesi di quel pezzo notevole d’impero che era il Nordamerica. Le nuove leggi sulla tassazione varate dal parlamento britannico tra il 1765 e il 1767 scontentarono infatti profondamente i coloni dell’America Settentrionale. In cambio dell’inusitata pressione fiscale, questi chiedevano infatti almeno un’adeguata rappresentanza a Westminster, ma - è proprio il caso di dirlo Westminster faceva orecchie da mercante. Così il “Sugar Act” approvato nel 1764 tassò inopinatamente zucchero, caffè e vino, lo “Stamp Act” del 1765 gravò d’imposte assurde il trasferimen-

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to di certi documenti delle colonie alla madrepatria e il “Townshend Act” del 1767 zavorrò vetro, carta e pitture. Ma la classica goccia che fece traboccare la misura fu appunto una goccia di tè. La prima ad andarci di mezzo fu la Compagnia delle Indie Occidentali, che importava sulle coste nordamericane le preziose foglie cinesi per l’infuso nazionale e che cadde vittima di un grandioso boicottaggio da parte dei contrabbandieri coloniali. Coloniali, i britannici dell’America Settentrionale, lo erano infatti per certo, certamente erano pure avviati a divenire degli americani vero nomine, eppure nei loro petti batteva sempre un cuore inglese; alla tazzina delle cinque, insomma, non pensavano proprio di rinunciare.

Fu così quindi che la merce, carissima, della Compagnia delle Indie Occidentali venne snobbata a favore di quella immessa sul mercato, senza tasse aggiuntive, dai commercianti dei Paesi Bassi. La Compagnia, subito indebitatasi, ricorse allora prontamente all’aiuto di certi suoi lobbysti di fiducia e di gran pelo, i quali riuscivano immancabilmente a ottenere trattamenti politici di

il paginone Un movimento di massa anti-statalista guida una ribellione pacifica contro favore dentro Westminster. Era il 1773 quando il parlamento britannico varò in gran fretta il “Tea Act” con cui la Compagnia in crisi fu messa in grado di vendere tè alle colonie senza versare dazi alla Gran Bretagna.Vendendolo dunque a metà del prezzo di prima, il tè della Compagnia finì presto per risultare più a buon mercato di quello venduto nella stessa Gran Bretagna, a immediato detrimento dei mercanti e dei contrabbandieri coloniali. Questo smaccato favoritismo ebbe però vita breve.

Successe dapprima nelle dogane di New York e di Filadelfia, ma fu nel Massachusetts che la rivolta fece il botto. Venne il 16 dicembre di quel fatidico 1773, un giovedì, e i coloni britannici dell’America Settentrionale decisero d’inscenare il più plateale degli atti di protesta; vi riuscirono, e l’eco di quei fatti fece il giro del mondo dopo avere investito Londra come un ciclone. Travestiti da pellerossa mohawk e comandati dal leader coloniale Samuel Adams (1722-1802), che aveva le mani in pasto con il contrabbando, un gruppo di coloni gettò in mare 45 tonnellate di tè che stavano a bordo di alcuni vascelli della Compagnia all’ancora nel porto di Boston. Attendevano di essere regolarmente scaricate, ma la gran folla accorsa nei giorni precedenti in città voleva impedirlo. L’evento passò alla storia con il nome pittoresco di “Boston Tea Party” e il manipolo di “patriottici ribaldi” che aveva distrutto il prezioso carico della Compagnia si battezzò “Sons of Liberty”. Gli americani amano un mucchio questo tipo di cose e non di meno adorano questi appellativi. Esiste per esempio una organizzazione formale e famosa che si chiama “Daughters of the American Revolution”, che raccoglie i discendenti femminili di chi combatté nella Guerra d’indipendenza, che conta capitoli sparsi in mezzo mondo, che ha sede centrale a due passi dalla Casa Bianca, che è un ente intoccabile di alto valore morale per la preservazione della memoria storica e dell’identità nazionale, e che passa, a ragione, per una delle istituzioni principali del conservatorismo statunitense. E ci sono poi enti quali i “Sons of the American Revolution”, i “Children of the American Revolution”, “The Colonial Dames of America”, le “Daughters of the Republic of Texas”, “The Mayflower Society”, nonché le “United Daughters of the Confederacy” per tenere unito il mondo dei ricordi “sudisti” e i “Sons of the Union Veterans of the Civil War” per il coté “nordista”. Fu in quella Boston del 1773 che s’innescò il meccanismo che portò alla Guerra d’indipendenza americana (17751783), dizione assai più azzeccata di quella ingannevole di “Rivoluzione Americana”epperò pure essa forzata. Le armi coloniali crepitarono per rispondere al fuoco britannico, fortunatamente in otto anni fecero solo un pugno di morti, ma solo assai tardi e già nel mezzo della mischia saltò fuori la parola “indipendenza”. Solo

Il popolo americano contro Obama Come nel 1773 contro gli inglesi, la rivolta fiscale contro la Casa Bianca parte dal basso, con i “Tea Party” di Marco Respinti nel 1776, a metà anno. Dunque, non fu affatto una rivoluzione, quella guerra; non assomigliò in alcunché al giacobinismo ideologico, giustizialista e sovversivo, della Rivoluzione Francese; e non fu dettata mai dal livore di tutto distruggere. Fu semplicemente combattuta, alla fine di ogni altro sforzo possibile, come extrema ratio a difesa di una libertà di responsabilità e di autogoverno coloniali che contava un secolo e mezzo di vita e che si era retta bene grazie al sistema giuridico britannico, imperiale e “federale”, ma che un brutto dì era entrata in piena crisi per esclusiva colpa di u a Gran Bretagna immemore delle proprie tradizioni politico-istituzionali. Fu insomma un gesto

“pedagogico”, quello che compirono quei signori coloniali che si autodenominarono “patrioti”e che il 4 luglio 1776 divennero ufficialmente statunitensi; un gesto, cioè, atto a rieducare Londra allo spirito autentico di quelle libertà che avevano fatto grandi tutti e che bene era sintetizzato dallo slogan americano di quei giorni: «No taxation without representation». Una verità di governo antica almeno quanto la Magna Charta che si trasformò in scelta indipendentista tardi e inaspettatamente; cioè solo quando Londra costrinse, con la propria miopia testarda, le colonie allo strappo.

Ebbene, nell’Anno del Signore 2009 i “ricevimenti del tè”sono tornati in grande auge. Gli Stati Uniti di oggi sono infatti attraversati in lungo e in largo da un enorme movimento di popolo, conservatore e per nulla sovversivo, che chiede solo e ancora la libertà di sempre. Quella di essere cioè tassati secon-


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la politica economica “neo-keynesiana” dell’amministrazione democratica die e nelle città grandi di tutti gli Stati dell’Unione, con un numero di partecipanti che si conta ormai in migliaia di migliaia. Il messaggio è chiarissimo: ricordate quanto successe a Boston nel 1773? Non costringeteci, dice il popolo in continua crescita dei “Tea Party”, a una ennesima dimostrazione di forza. Che però, va detto subito, non significa mica il Sessantotto nelle strade, per carità. I conservatori detestano le piazzate di quel genere, inutili e controproducenti.

o o

do misure ragionevoli e non predatorie dal governo, di modo che l’indipendenza delle persone, delle famiglie e delle intraprese commerciali sia garantita in maniera autentica e lontana il più possibile da quelle forme tiranniche di “Stato servile”a suo tempo acutamente denunciate dallo scrittore anglo-francese Hilaire Belloc (1870-1953).

Il movimento si chiama appunto “Tea Party”; sempre presente e mai in ritirata, si configura come un esercito pacifico “in sonno”che si dà appuntamento in quei luoghi e in quei momenti precisi in cui esce allo scoperto per protestare sonoramente contro il “big government” (quello che noi chiamiamo statalismo), l’Amministrazione retta dal presidente Barack Hussein Obama e il bilancio fe-

derale sempre svantaggioso per individui, famiglie e business piccoli e medi. Oggi, poi, in tempo di crisi economica globalizzata, il movimento dei “Tea Party” ce l’ha specificamente con le politiche neokeynesiane perseguite dalla Casa Bianca, che vengono giudicate il contrario stesso di un aiuto all’economia, ovvero l’ennesima farsa di una spesa pubblica colossale a cui non corrisponde mai, dal New Deal in poi, un reale aumento dei benefici concreti per la gente e per le sue attività economico-imprenditoriali. La solita minestra, insomma, anzi la consueta tazza di tè: quella che costò alla Gran Bretagna il “miracolo” nordamericano e che oggi sta mettendo in serio imbarazzo i sorrisi preconfezionati di Obama. Tutto è iniziato il 15 aprile scorso, in coincidenza del Tax Day, l’ultima data buona per versare le tasse all’Internal Revenue Service (il fisco americano), ma il movimento ha avuto grande exploit il 4 luglio successivo, giorno di festa nazionale a celebrazione, nulla è per caso, dell’anniversario dell’indipendenza nazionale, il 1776 di Filadelfia figlio del 1773 di Boston. Del resto sono stati centinaia i “Tea Party” organizzati nelle cittadine piccole o me-

La guerra che i “Tea party” dichiarano allo statalismo viene piuttosto combattuta con la protesta civile e soprattutto attraverso le urne. Chi di democrazia ferisce, infatti, di democrazia poi pure perisce. Non si scordi, infatti, che nel novembre di questo nuovo anno 2010 gli americani saranno chiamati a rinnovare per intero la Camera dei deputati e un terzo dei senatori federali, e che tradizionalmente l’appuntamento delle mid-term elections vale pure termometro per valutare lo stato di salute dell’Amministrazione in carica. Ebbene, per nessuno è mistero che Obama sia ora ai minimi storici di gradimento, che le sue scelte politiche siano davvero goffe, che le contraddizioni fra quanto dice (o quanto disse) e quanto quotidianamente fa siano lampanti, e che lo scontento nei suoi confronti per un tasso di disoccupazione record sia enorme. Si aggiunga a ciò il fatto che i Repubblicani stanno cercando da tempo, e forse una buona volta seriamente dopo la scoppola elettorale del novembre 2008, di riaffilare le armi in vista delle politiche del 2012, ma soprattutto che i conservatori “di popolo”, i quali scelsero di votare John McCain (non tutti, ma comunque sempre molti) solo o soprattutto perché accanto a lui stava Sarah Palin a coprirne il fianco destro, una Sarah Palin per nulla scomparsa e che promette la rentrée, aggiungiamo dicevo tutto questo al piatto della bilancia, pensando soprattutto al fatto che i conservatori, non sempre coincidenti con i Repubblicani, hanno una gran voglia di rifarsi alla prima occasione utile, e allora sì che la sfida assume contorni intriganti. I conservatori, infatti, quelli che anima-

no il popolo dei “Tea Party”, renderanno certamente ai Democratici di Obama pan per focaccia alle elezioni del novembre prossimo, ma altrettanto sicuramente non hanno mica sposato alla cieca i Repubblicani. Anzi, il “movimento

delle tazzine”è in piazza ora proprio per alzare ancora e sempre la posta in gioco nei confronti del Partito Repubblicano. Il popolo attende sempre leader giusti e credibili. Altrimenti minaccia di andare da solo. Dove? Diritto per la propria strada: negli States succede più che da noi, e finisce sempre che è il ceto politico a tornare alla chetichella dalla gente, non viceversa. I“Tea Party”hanno per esempio riportato al popolo l’ex enfant prodige Newton L. “Newt” Gingrich, già presidente della Camera dei deputati (e nel frattempo convertitosi dal battismo al cattolicesimo, è bello ricordarlo), e soprattutto il suo collega Richard K.“Dick”Armey, ex capo della maggioranza alla Camera, oggi leader della fondazione FreedomWorks di Washington, ovvero uno dei motori principali dell’intero movimento. Se il 2009 è stato quello della mobilitazione di massa all’insegna dell’indignazione morale, per il nuovo anno l’universo dei “Tea Party” pensa alla politica. Armey sta infatti lanciando il “Take America Back”, braccio politico di FreedomWorks per raccogliere fondi e avanzare proposte alternative a quelle Democratiche in tema di tassazione, immigrazione illegale, libertà economica e ruolo dello Stato.

Ma i Repubblicani debbono farne ancora molta di strada per conquistarsi completamente i cuori e le menti dei “Tea Party”, l’opposizione gaia e colorata che riveste oggi di abiti nuovi il conservatorismo di sempre, la sgargiante “New Right” del secondo decennio del Terzo Millennio che eredita lo spirito della New Right degli anni 1970 e di quella che negli anni 1990 fu definita “Newt Right” per via di Gingrich, l’ennesima guasconata seria che l’America sana ha escogitato per rivitalizzare il Paese, l’“americanata” allegra e sapida. I “Tea Party” dicono e pure gridano che il loro voto è in vendita e che il voto di scambio non li scandalizza affatto. Ancora, e come sempre, i conservatori offrono appoggi aperti e schietti ai Repubblicani a patto che questi si comportino politicamente da galantuomini, sennò picche. Come dovrebbe accadere sempre nei Paesi civili. Ecco, gli Stati Uniti in cui il tempo sembra essere sempre fermo alla Boston del 1773 ci danno ancora una volta una grande lezione di novità. E una cosa è già certa sin d’ora. Ne vedremo delle belle, in questo lungo anno di campagna elettorale americana. Sorseggiando del buon tè. (www.marcorespinti.org)


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Fenomeni. Le flotte di tutto il mondo si sono preparate, ma gli Stati non sanno come rispondere alla minaccia

Il ritorno dei pirati In realtà non sono mai spariti dalla scena E con 300 ostaggi ripartono nel 2010 di Mario Arpino e ultime prodezze del 2009 ascrivibili ai pirati somali risalgono al 29 dicembre. Nel mare di Aden hanno intercettato un tanker battente bandiera britannica e, poco prima, un mercantile indiano. Non hanno poi perso tempo per inaugurare anche il 2010, catturando proprio il 1° gennaio il cargo inglese Asian Glory, assalito a più di mille chilometri al largo della costa somala. L’ultimo trimestre è stato tutto così: risulta che siano circa 300 gli ostaggi che si sono trovati a dover trascorrere il Capodanno in balìa dei pirati somali. Dopo qualche mese di relativa calma - che i tecnici leggono come dovuta al

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to costo/efficacia - oltre sessanta navi da guerra permanentemente in pattugliamento nell’area - sta ad indicare che questo dispositivo, tanto costoso quanto indispensabile, da solo non consegue lo scopo.

Le ingenti somme incassate dai riscatti devono aver permesso investimenti fruttuosi, se un pugno di ex pescatori, usufruendo oggi di moderne navimadre, riesce a vanificare - o quasi - la sorveglianza delle flotte militari. È’vero che anche recentemente la loro presenza ha consentito di mandare a vuoto un certo numero di attacchi, ma quelli che hanno successo, di fronte a un simile spie-

Dopo qualche mese di relativa calma, che secondo i tecnici sarebbe dovuta al Ramadan e alla stagione dei monsoni, questa redditizia attività piratesca ha subìto un nuovo impulso Ramadan e alla stagione dei monsoni - questa redditizia attività ha subìto un nuovo impulso. Le flotte militari oggi hanno migliorato il loro coordinamento, ma ciò non giustifica né euforia, né ottimismo. Resta l’amaro in bocca nel constatare come uno sforzo enorme abbia dato sino ad oggi risultati assai magri. In altre parole, il rappor-

gamento, sembrano davvero eccessivi. Per il 2009 - ma i dati sono incompleti - le statistiche parlano di un rapporto di uno a quattro tra successi e tentativi falliti. Chi ha potuto reagire perché era autorizzato a disporre a bordo di vigilanza specializzata, in genere ha fatto desistere gli assalitori. È accaduto anche ad una nave da cro-

ciera italiana, con a bordo vigilanti israeliani. Nulla di diverso di quanto fanno la banche, che spesso riescono a scongiurare furti e rapine, o le compagnie petrolifere - anche italiane - che sorvegliano i campi di estrazione. L’alternativa, per chi non vuole problemi, ma desidera comunque dimostrare che qualcosa sta facendo, è continuare a “pattugliare”, fare “presenza”, non potendo reagire non tanto perché la norma non lo consenta, ma perché costretto a mantenersi nel “politicamente corretto”. In effetti, le regole sul diritto del mare codificate nella Convenzione di Ginevra del 1958 e quelle stabilite dalla Convenzione del 1982, ora rinforzate da alcune risoluzioni dell’Onu, consentirebbero un’ampia gamma di opzioni.

Ma allora, se le regole già permettono di prendere misure incisive, compreso l’uso della forza quando l’imbarcazione pirata non risponda all’alt e risultino vani i tentativi di arrestarla, con tutte queste forze, quale è il problema? Il fatto è che, oltre a indubbie difficoltà di ordine pratico, non si può vincere se non si è determinati a farlo. È persino abbastanza chiara la giurisdizione penale, che, come hanno già fatto i francesi con la cattura di dodici

pirati, oppure l’Italia e la Spagna in eventi più recenti, già oggi consente esplicitamente l’azione penale da parte dello Stato cui appartiene la nave che ha effettuato la cattura.

Certo, avere i pirati catturati a bordo è una “grana”che può divenire un problema politico oltre che pratico, vedi gli accordi con il Kenya o le prese di posizione del fantasioso giudice Garzon, per cui sembra che l’orientamento attuale (e forse anche l’ordine) sia quello di evitare di prendere prigionieri a bordo. Se poi ci dovesse essere

azione a fuoco da parte dei pirati, il principio dell’esercizio di un’autodifesa proporzionale non è mai stato negato, come non viene negato al normale cittadino aggredito in casa propria, al gioielliere o al gestore del supermercato. Che fare, allora, se non si può sparare? Occorrerebbe almeno distruggere le basi a terra o le navi-madre, cosa fattibile, ma a un prezzo così elevato di morti e feriti per “danni collaterali”, tale da volgere in un battibaleno a favore dei pirati l’iridata opinione pubblica mondiale. E allora? Gli attacchi, a meno di misure


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Corno d’Africa. La mafia ucraina e altri interessi dietro ai corsari somali

Alleanze criminali in alto mare di Pierre Chiartano irati, finanza e criminalità. Potremmo sintetizzare così la situazione che emerge all’orizzonte delle ormai insicure acque a largo della Somalia. Se le operazioni antipirateria nei mari del Corno d’Africa sembrano impantanate da normative improntate al politically correct, i nuovi bucanieri a bordo delle loro piccole imbarcazioni di legno e dei gommoni sembrano essersi organizzati. Rampini magnetici, reti di comunicazioni satellitari e una logistica in grado di supportare, a terra, navi madri e basi dove ospitare i vascelli sequestrati, non sembrano il frutto dell’improvvisazione e il fatto che un tentativo d’arrembaggio su quattro vada a buon fine neanche. Per comprendere meglio il fenomeno serve capire di quali alleanze e collaborazioni possano usufruire questi pescatori diventati pirati, che sembrano aver messo in scacco molte marine internazionali. «Usa e Gran Bretagna operano con determinazione, Francia e Spagna in maniera più ambigua. La Cina ultimamente si resa conto del pericolo e ha inviato delle unità a pattugliare la zona. Ma non dimentichiamoci che anche l’Iran ha una sua unità in quelle acque. Non si sa bene a fare cosa» spiega a liberal Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies ed esperto dei delicati equilibri di quell’area. Insomma, il business dei sequestri ha generato una serie di proventi che sicuramente non vengono reinvestiti in Somalia. Allora dove vanno a finire tutti questi soldi? Principalmente «prendono al strada di Dubai» spiega Pedde. Lì esiste la diaspora somala che gestisce capitali legittimi come quelli di provenienza illecita. E anche nella tempesta finanziaria che ha recentemente investito il piccolo emirato, rimane un punto di riferimento solido per le economie della regione. Società di telefonia mobile ed energetiche del Corno d’Africa hanno sede a Dubai. E non dimentichiamoci che anche Teheran da anni utilizza quell’enclave finanziaria per bypassare embargo e controlli sui capitali. Ma il legame più forte e determinante che sembra aver provocato il salto qualitativo dei membri della Tortuga africana, sarebbe quello con la mafia russa. «In particolare con quella ucraina» spiega il direttore dell’Igs. Si tratterebbe di un gruppo criminale russo con base in Ucraina che si sarebbe attivato nelle operazioni di riciclaggio del denaro proveniente dai riscatti, pagati da compagnie assicurative e di navigazione. Un’operazione difficile da concludere a Mogadiscio. E infatti Mosca non sembra per nulla interessata alla sicurezza del traffico marittimo internazionale in quelle acque così infide. Ma non ci sono prove di una regia moscovita dietro l’instabilità di un area così im-

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drastiche, non cesseranno fino a che il rischio per i pirati continuerà ad essere accettabile ed i loro introiti sostanziosi e protetti. Ci siamo messi in un culde-sac. Si deve riconoscere, allora, che ci si trova di fronte a una nuova mutazione della guerra asimmetrica, ma questa volta sul mare, e i pirati hanno imparato la lezione. Non sono talebani, e forse non sono nemmeno qaedisti, ma potrebbero presto diventarlo. Per ora, si contentano di usare gli stessi metodi, basandosi però su un sistema intelligence moderno, avanzato, ben gestito e, certamente, anche costoso. Sanno

pericolo, ma per contrastare l’infrastruttura logistica di comando e controllo e monitorare l’ intelligence dei pirati, non certo per dare protezione diretta a tutti i mercantili, cosa impensabile, o per dare la caccia ai barchini.

Non si può però pretendere di aspettare tutto dallo Stato, che non sempre è nella possibilità pratica di farsi carico della sicurezza di tutti i propri cittadini e i loro beni in ogni parte del mondo. Gli stessi armatori dovrebbero aver la capacità di consorziarsi per auto-proteggersi, imbarcando

Gli attacchi contro i mercantili, a meno di misure drastiche, non cesseranno fino a che il rischio per i pirati continuerà ad essere accettabile ed i loro introiti sostanziosi e protetti che mezzo mondo si ribellerebbe se venissero presi a cannonate, e sotto questo profilo si sentono ben garantiti. Il comportamento degli Stati è differenziato l’uno dall’altro.

L’Italia, ad esempio, “sconsiglia” l’impiego di squadre armate a bordo, mentre la Spagna, che era nella stessa posizione, dopo alcune disavventure ha deciso di consentirle. In ogni caso e qualunque siano le misure future, un’ampia rete di mezzi navali rimarrà sempre indispensabile come copertura di area nelle zone di maggior

sulla tratta pericolosa squadre specializzate, ed essere autorizzati a farlo. Questa soluzione, finora sdegnosamente snobbata dall’ufficialità, tornerà necessariamente attuale, visto che non c’è alcuna legge che possa negare il diritto di autodifesa, né su terra né in mare. Ci sono tante cose che si potrebbero fare accettando un minimo di rischio - esagera chi parla di pericolosa “escalation” - se solo avessimo l’onestà intellettuale di badare un po’di più al “praticamente utile”e un po’ di meno al “politicamente corretto”.

portante per l’Occidente e i suoi approvvigionamenti energetici. Anche perché, nell’aprile 2009, un’unità della marina militare russa, la Admiral Panteleyev, avrebbe catturato una nave con 29 pirati a bordo a circa 20 chilometri dalla costa della Somalia. È il mercato dei riscatti il boccone che avrebbe attirato la criminalità russa. Gli uligani avrebbero così puntato sui bucanieri, scambiando le reti da pesca con Rpg, Kalashnikov, satellitari e un canale privilegiato per reinvestire il denaro sporco.

Il Gruppo di contatto sulla pirateria (Gcp), costituito a New York nel gennaio 2009 e a cui partecipano una trentina di nazioni (tra cui l’Italia) e 5 organizzazioni internazionali (Segretariato dell’Onu, International Maritime Organization, Nato, Unione Africana e Unione Europea), sembra poter far poco, rispetto alla mutazione di un confronto asimmetrico, che vede il piccolo ma ben organizzato manipolo di corsari somali mettere in scacco una legge internazionale che pare galleggi male in quelle acque. Un esempio delle difficoltà che incontrano le unità antipirateria è ciò che è successo a marzo dello scorso anno. Il rilascio

I soldi sporchi dei riscatti pagati dalla compagnie marittime prendono la strada di Dubai, dove esiste una diaspora somala che opera sia nel settore finanziario legittimo che in quello illegale

di nove cittadini somali catturati dalla marina Usa nel Golfo di Aden a metà febbraio, perché sospettati di aver tentato l’assalto ad un mercantile indiano. Nonostante i marines avessero dichiarato di aver trovato a bordo dell’imbarcazione fermata «armi ed equipaggiamento comunemente usato negli attacchi di pirateria», il comando della Ctf-151 si è dovuto arrendere di fronte all’inesistenza dei pur minimi elementi di prova per giustificare l’estensione della loro detenzione nel carcere galleggiante Usns Lewis and Clark e una successiva deportazione in Kenya. I nove furono consegnati ad una motovedetta della Guardia costiera della regione nordorientale somala del Puntland, dichiaratasi unilateralmente “autonoma” da Mogadiscio.


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Afghanistan. Il Parlamento continuerà a lavorare fino alle nuove nomine a prima risposta del presidente afgano Hamid Karzai alla bocciatura da parte del Parlamento di molti dei nuovi ministri nominati è stata la sospensione della pausa invernale dell’assemblea nazionale. L’intervallo stagionale sarebbe dovuto iniziare oggi. Il Parlamento ritarderà invece la tradizionale sospensione dei lavori di 45 giorni, finché il presidente non abbia proposto nuovi ministri al posto di quelli che sono stati respinti durante la votazione a scrutinio segreto, è spiegato in una nota diffusa dal portavoce della presidenza. «Hamid Karzai, in un decreto, ha ordinato all’assemblea nazionale di rinviare la pausa finché i membri del gabinetto non verranno approvati», sottolinea la nota. I parlamentari dovranno rimanere a Kabul per esaminare e votare le nuove nomine dei ministri, dopo il rifiuto di gran parte delle candidature originali. Nel decreto emesso dal capo dello Stato si precisa che il nuovo esecutivo sarà presentato al voto di fiducia “tra diversi giorni” e istruisce il Parlamento a tenere la sessione aperta fino ad allora. Il “no”a 17 dei 24 candidati ministri è piombato su Kabul come un fulmine a ciel sereno. Quella che doveva essere una normale e scontata ratifica parlamentare si è trasformata in un atto di sfida alla debole leadership di Karzai. Alcuni degli aspiranti ministri avevano già fissato delle interviste per parlare delle loro politiche, e lo stesso presidente era in visita nel sud del Paese al momento delle votazioni in Parlamento. Fra i dicasteri chiave, ora senza un ministro, ci sono quelli dell’Energia, del Commercio e degli Affari femminili. Karzai è atteso a Londra alla fine di gennaio per una confe-

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Il “nodo di Karzai” stringe tutta Kabul Dopo un mese e mezzo di lavoro, il leader pashtun perde i suoi ministri di Massimo Ciullo

scrutinio macchiato da numerosi brogli, ha impiegato più di un mese e mezzo per presentare il suo progetto di governo ai deputati afgani. Il presidente ormai soffre ormai di una immagine deteriorata, sia per le accuse di corruzione che per le sospette frodi alle elezioni di questa estate, sospetti che gli valsero anche le critiche di potenze occidentali, fino ad

Quella che doveva essere una scontata ratifica parlamentare si è trasformata in un atto di sfida alla debole leadership del presidente renza internazionale, dove cercherà di ottenere ulteriori fondi per ricostituire le istituzioni militari e civili, e rischia di farlo senza poter dire chi gestirà molti dei finanziamenti. La massiccia bocciatura ha avuto naturalmente serie ripercussioni sull’immagine di Karzai, in costante calo di popolarità. La recrudescenza dell’attività di guerriglia dei Talebani poi, contribuisce ad alimentare il clima di incertezza e sfiducia verso le istituzioni che attanaglia il Paese da diversi mesi. Karzai, rieletto il 2 novembre dopo uno

allora sue sostenitrici. L’analista Haaron Mir spiega che Karzai si trova sotto pressione proprio a causa dei suoi alleati. «Dovrà tornare indietro, nominando i ministri che prima aveva escluso, o dovrà prendere in considerazione le richieste della comunità internazionale». Le potenze occidentali chiedono a Karzai una vera lotta contro la corruzione e la nomina di un esecutivo formato da ministri competenti. Ma la diffidenza popolare non ha solo il presidente come unico obiettivo. In molti hanno interpretato la boc-

Raddoppiato il numero di vittime Usa

Una settimana di sangue Il numero di soldati americani uccisi in Afghanistan è raddoppiato nel 2009 rispetto al 2008 e il 2010 si è aperto all’insegna della recrudescenza degli attacchi kamikaze. 03 gennaio: quattro soldati americani e uno britannico sono stati uccisi in due diversi attentati realizzati con bombe collocate lungo la strada nel sud dell’Afghanistan. 31 dicembre: due reporter vengono rapiti assieme ad alcuni accompagnatori afghani (un interprete, un autista e un’altra persona) nella provincia di Kapisa, situata a nord-est della capitale Kabul. La polizia ha reso noto che non si sa chi siano gli autori ma una collega dei sequestrati che ha chiesto di mantenere

l’anonimato ha detto: sono talebani. 30 dicembre: i talebani rivendicano l’assassinio del capo della sicurezza di Gardiz, Bismillah Jan. Il militare sarebbe saltato in aria insieme a tre guardie del corpo mentre stava salendo in macchina. 30 dicembre: un kamikaze si fa esplodere nella base militare americana Chapman provocando almeno otto morti, secondo un primo bilancio. La Cia conferma che sette delle vittime lavoravano per loro. I talebani rivendicano l’attentato affermando che il kamikaze era un ufficiale dell’esercito afghano con indosso la propria uniforme. 30 dicembre: nella provincia di Kandahar, cinque canadesi muoiono in seguito all’esplosione di una bomba su cui è passato il loro blindato. 30 dicembre: nella provincia di Oruzgan i talebani decapitano sei afghani, accusati di essere “spie”.

ciatura dei nuovi ministri come un tentativo della vecchia nomenclatura di perpetuarsi al potere. Sono stati respinti infatti, quelli che venivano considerati i “volti nuovi” del secondo governo Karzai, mentre alcuni vecchie conoscenze hanno riscosso la fiducia dei deputati dell’Assemblea nazionale. Tra le vittime illustri della lista presentata da Karzai c’è anche l’ex potente signore della guerra Ismail Khan, in lizza per un mandato di ministro dell’Energia. Khan era uno dei 10 candidati nominati da Karzai per far parte del suo esecutivo, anche se inizialmente si era schierato a favore del rivale del presidente, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah.

La scelta del boss della provincia di Herat, al tempo della guerra civile in Afghanistan, era stata fortemente criticata, perché tradiva le influenze dei poteri regionali nei confronti del leader di Kabul. I deputati afgani hanno accettato invece le nomine dei ministri dell’Istruzione, della Cultura e dell’Agricoltura e dell’Industria. I ministri uscenti dell’Interno, Hanif Atmar, e della Difesa, Abdul Rahim Wardak, che avevano il sostegno dei paesi occidentali, sono stati riconfermati. Atmar, di etnia Pashtun, la stessa del presidente Karzai, ha lavorato in organizzazioni umanitarie ma soprattutto è stato il capo dell’intelligence afghana nelle file del regime filo-comunista durante l’occupazione sovietica. È apprezzato dai diplomatici occidentali per aver lanciato una riforma della polizia, ma anche su di lui gravano sospetti di corruzione, reato per il quale è già stato inquisito e successivamente scagionato dal procuratore generale della capitale. Wardak invece, gode della fiducia incondizionata degli Usa: la scorsa settimana è stato pubblicamente elogiato dal capo del Pentagono Robert Gates. Per Washington si tratta dell’uomo giusto al posto giusto. Bocciata invece, Husn Bano Ghazanfar, l’unica donna presente nel nuovo gabinetto; Ghazanfar è una poetessa e insegna letteratura all’università di Kabul. Stessa sorte per il generale Khodaidad, candidato ad assumere la direzione della lotta al narcotraffico, attività in cui si è contraddistinto negli ultimi tre anni. Il militare ha pagato il prezzo delle sue denunce nei confronti di diversi personaggi di primo piano del passato governo, accusati di sponsorizzare il traffico di oppio.


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Il Burj Dubai supera gli 800 metri di altezza complessiva

La regione in subbuglio dopo l’arresto di un Lama

Dubai: apre il grattacielo più alto del pianeta

Soldati cinesi di nuovo per le strade del Tibet

ABU DHABI. Nonostante la

PECHINO. Un folto contingente

gravissima crisi che ha colpito il mondo finanziario, ieri è stato inaugurato in Dubai il grattacielo più alto del mondo. Con il Burj Dubai, una costruzione faraonica di acciaio e vetro che raggiunge oltre 800 metri di altezza, si trovano in Medio Oriente e Asia quattro delle prime cinque torri più alte al mondo. Seguono infatti il Taiwan’s Taipei 101, di 508 metri, e il Two IFC di Hong Kong, che raggiunge i 420. Il Burj Dubai, in mano alla Emaar Properties, società in parte controllata dal governo, è visibile a 95 km di distanza e conta circa 28 mila lastre di vetro sulle facciate esterne. Esso può vantare poi altri record: ha oltre 160 piani, di cui 49 dedicati a uffici, e 1044 appartamenti residenziali; 57 ascensori che servono fino a 504 metri di altezza; la più alta piscina la mondo, situata al 76esimo piano. L’dificio però dovrà affrontare notevoli prove tecniche e logistiche, data l’esposizione a possibili movimenti tellurici e ai forti venti cui è soggetta la penisola.

dell’Esercito di liberazione popolare cinese sta piantonando in questi giorni Thang Karma, nella contea tibetana di Nyagchuka, per intimidire la popolazione locale che chiede a gran voce il rilascio del lama Tenzin Delek (condannato senza prove a 20 anni di carcere per la sua fedeltà al Dalai Lama), del Panchen Lama e di tutti i dissidenti politici arrestati. Nell’ultimo anno, Pechino ha messo in galera circa 60 leader (politici e religiosi) tibetani. Il governo centrale cinese ha pure condannato l’abate tibetano Phurbu Tsering Rinpoche a 8 anni e sei mesi di reclusione per “appropriazione indebita di suolo pubblico e detenzione illegale

Con il nuovo grattacielo Dubai continua a voler esibire la propria magniloquenza, proprio nel momento più acuto della crisi economica mondiale, e dopo il prestito di 10 miliardi di

L’Iran: «Fra gli arrestati anche degli stranieri» Il regime accusa l’Occidente: fomentate violenza di Massimo Fazzi

TEHERAN. Mentre si abbassano le luci dei riflettori, o per meglio dire puntano i loro raggi verso la Penisola arabica, la situazione nell’Iran degli ayatollah continua ad essere esplosiva. Dopo la nuova repressione scatenata del regime iraniano, è stata rinviata la missione di una delegazione di europarlamentari in programma da giovedì nella Repubblica islamica. E da Teheran arriva una nuova sfida all’Occidente: il ministro dell’Intelligence, Heidar Mosleh, ha riferito che «diversi cittadini stranieri sono stati arrestati dalle forze di sicurezza durante gli scontri tra polizia e manifestanti» lo scorso 27 dicembre. «Stavano conducendo una guerra psicologica contro il sistema ed erano entrati in Iran due giorni prima dell’Ashura», ha accusato il ministro, senza specificare la nazionalità degli arrestati. La Farnesina ha comunque fatto sapere che, per il momento, non risultano italiani tra gli arrestati. La delegazione dell’Europarlamento ha fatto sapere di aver deciso di rinviare la visita perché i vertici della Repubblica islamica avevano cancellato dal programma tutti gli incontri con i parlamentari dell’opposizione. «La delegazione aveva intenzione di esprimere solidarietà al movimento di protesta», ha riferito il capo della delegazione dei Ventisette, la tedesca Barbara Lochbihler, «e questo è considerato troppo pericoloso dal governo iraniano e dai loro leader».

aggressioni e gli arresti non sono una dimostrazione del potere dello Stato, nè danno lustro al suo carattere islamico e repubblicano», hanno denunciato i docenti. «Per noi è molto difficile accettare che nella Repubblica islamica sia possibile che un gruppo di persone armate fino ai denti abbia il permesso di entrare nell’universita’ e aggredire gli studenti, figli di questa terra, distruggendo i loro beni e insultando i professori».

Ma niente sembra poter fermare la mano dura del regime contro gli oppositori: la Corte d’appello di Teheran ha condannato a sei anni di carcere e cinque in esilio in mezzo al deserto il giornalista Ahmad Zaidabadi, accusato di aver fatto propaganda contro la Repubblica islamica. Zaidabadi, 44 anni, fu arrestato nel giugno scorso durante le proteste contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. Il giornalista, ex leader studentesco, aveva partecipato alla campagna elettorale del leader dell’opposizione, Mehdi Karroubi. Intanto, sembra non avere sbocchi previsti neanche la crisi nucleare che continua a rappresentare il peggior grattacapo della comunità internazionale. Ieri mattina, infatti, la Francia ha criticato «l’ultima giravolta dell’Iran», che ha posto un ultimatum al gruppo del ’5+1’ su una offerta riguardante il suo programma nucleare. Lo ha detto il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner alla radio RTL: «Non possiamo accettare quello che vogliono imporci» ha dichiarato il ministro, rispondendo a una domanda sull’ultimatum. Sabato scorso l’Iran ha indicato la fine di gennaio come termine ultimo per pervenire a un accordo sullo scambio di combustibile nucleare con gli occidentali. «La comunità internazionale ha giusto un mese per decidersi se accettare o no le condizioni iraniane», ha dichiarato il ministro degli Esteri Manoucher Mottaki, citato dalla tv di Stato, «altrimenti Teheran arricchirà l’uranio a un livello maggiore - ha proseguito, per poi aggiungere perentorio - questo è un ultimatum».

Teheran attacca anche sull’uranio e lancia un ultimatum al 5+1, respinto con forza dal governo francese: «Basta giravolte»

dollari da parte dell’emirato di Abu Dhabi per salvare il proprio vicino dall’orlo del fallimento. Ciononostante, le autorità di Dubai si schermiscono sostenendo che tutti i più importanti edifici sono stati costruiti in periodi di depressione, dall’Empire State Building alle Petronas Towers. Inoltre, dicono, il 90 per cento degli spazi del Burj Dubai sarebbe già venduto. Anche se, al momento, non è possibile appurare chi siano i reali acquirenti. Alcuni analisti pensano però che dietro l’intera operazione vi siano degli speculatori edilizi, che avrebbero dato per venduti degli appartamenti in realtà ancora senza acquirente per avvicinare i reali compratori.

Intanto, contro la repressione e le violenze messe in atto dal regime, è scesa in campo la cultura di Teheran: un gruppo di docenti dell’università della capitale iraniana ha firmato una lettera aperta indirizzata al Leader supremo della Rivoluzione islamica, l’eredi di Khomeini Ali Khamenei, in cui ha criticato duramente i vertici della Repubblica islamica. Secondo il sito dell’opposizione Jaras, la missiva è stata firmata da 88 docenti delle facoltà scientifiche del principale ateneo della capitale. Gli assalti notturni nelle residenze e negli alloggi degli studenti indifesi, si legge nella lettera, «e gli attacchi quotidiani al campus, le

di munizioni”. In realtà, la condanna (emessa il 23 dicembre) è collegata ai moti anti-cinesi scoppiati in Tibet nell’estate del 2008. Il leader buddista, molto rispettato dalla popolazione, è stato arrestato il 18 maggio 2008: alcuni giorni prima, circa 80 monache avevano protestato contro la “ri-educazione patriottica” (una pratica di lavaggio del cervello) imposta dalla Cina nei luoghi di culto tibetani. Rinpoche, 53 anni, avrebbe confessato: i suoi avvocati dicono però che la confessione gli è stata estorta con la tortura.

Il lama ha già passato circa 15 anni in galera. Per protestare contro tutti questi arresti, il Congresso dei giovani tibetani (Organizzazione non governativa che rappresenta i tibetani in esilio) ha organizzato il 31 dicembre una marcia di protesta contro la repressione cinese della contea di Nyagchuka. Sventolando bandiere tibetane, i manifestanti si sono riuniti davanti agli uffici delle Nazioni Unite; qui hanno consegnato un memorandum sulla situazione della regione da girare al primo ministro indiano, Manmohan Singh, e al presidente cinese Hu Jintao. Nel corso della protesta, i partecipanti hanno condannato la repressione violenta del raduno pacifico.


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Riletture. La genialità drammatica del Bardo è l’aver colto, più che mai, qualcosa di metastorico nella storia e nella politica occidentale

Caio Giulio, “il Cesare” È la più grande tragedia politica di William Shakespeare, che trae il suo materiale direttamente da Plutarco di Franco Ricordi a più grande tragedia politica di Shakespeare, e forse di ogni tempo, fu scritta nel 1598. Per la prima volta il Bardo trae direttamente il suo materiale da Plutarco, e risulta assai utile leggere le Vite Parallele per poi, rileggendo la tragedia, rendersi conto della genialità drammatica di Shakespeare. Se abbiamo infatti perentoriamente attribuito tali qualità al testo in questione, è perché siamo certi che qui l’Autore abbia colto più che mai qualcosa di metastorico nella storia e nella politica occidentale, ovvero quel peculiare cesarismo storico-politico che, lungi dall’esaurirsi nella vicenda di Giulio Cesare, si riverbera poi nell’intero andamento di ciò che chiamiamo o interpretiamo come Storia, e che possiede una peculiarità che si può definire appunto cesaristica. Non è nemmeno un caso che il nome “Cesare” venga a rappresentare per eccellenza quello dell’imperatore in tutti i tempi, in particolare nelle lingue slave e germaniche, il Kaiser tedesco.Tuttavia il ruolo del titolo, in questo caso, cede sicuramente il passo ad altri personaggi che possono considerarsi anche più rilevanti di lui: in primis la figura epocale di Bruto, che troverà altre celebrazioni in poeti come Alfieri e Leopardi, mentre Dante Alighieri lo condanna insieme a Cassio nell’ultima bolgia dell’Inferno, maciullato da una delle teste di Lucifero.

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Tuttavia la più grande apologia del personaggio e della sua versione shakespeariana ce l’ha lasciata Friedrich Nietzsche, in uno straordinario aforisma del libro La Gaia Scienza; tra l’altro Nietzsche fa notare come, proprio in questa tragedia che per lui è certamente la più bella di Shakespeare, per ben due volte un poeta

venga ucciso ovvero scacciato: in particolare durante la forte scena della lite fra Bruto e Cassio nel IV atto.

Ebbene, quel poeta sarebbe lo stesso Shakespeare che, secondo Nietzsche, si sarebbe in tal modo inchinato di fronte alla grandezza di Bruto. La poesia, in certi momenti, deve

solo stare al suo posto! E non è certo una impostazione sbagliata nella lettura del testo che, fin dall’inizio, ci presenta una situazione politica compromessa dal grave pericolo della dittatura antirepubblicana. Lo ricorda Cassio a Bruto nel primo dialogo: ormai Cesare è un nome che viene evocato come quello di un Re, senza altra misura. Le sorti della Repubblica si stanno incrinando, e la folla non vede e non sente che una sola parola, suono o entità: Cesare, ovvero “il Cesare”.

Bruto lascia capire a Cassio la sua eventuale disponibilità per una azione preventiva, pur se violenta. Così Cassio accelera i tempi scrivendo missive a Bruto anche a nome di altri. Da parte sua Cesare è consapevole della propria eccezionalità di uomo, una persona che in qualche maniera è superiore agli altri, nella peculiare contingenza politica: e in questo ha l’ap-

poggio del fedelissimo Antonio, che esordisce con le parole «quando Cesare dice fa’ questo, è fatto». E mentre un indovino gli grida «Guardati dalle Idi di marzo», lui lo scruta per un attimo poi lo fa andare

A sinistra, una statua di Caio Giulio Cesare e la raffigurazione della morte di Cesare alla Curia di Pompeo. A fianco, la resa di Vercingetorige a Cesare; l’attore Albertazzi nei panni del grande condottiero romano; un dipinto del drammaturgo inglese William Shakespeare

via: «è un visionario», minimizza. Ma la congiura non si ferma, e Cassio si reca nella notte in casa di Bruto che, nel frattempo, ha preso la terribile decisione: «Dev’essere con la sua morte; è per il bene di tutti… consideriamo Cesare per quello che è: un uovo di serpente che, covato, potrebbe crescere nocivo; e uccidiamolo in guscio». Bruto è febbricitante, non dorme da una settimana, e la sua forte moglie

Porzia riesce con non poco sforzo a strappargli il segreto che stenta a condividere con lei. Ma ormai la decisione è presa, e l’indomani i congiurati attendono il dittatore.

Lui stenta ad arrivare: la notte è stata orribile, sono accaduti fenomeni soprannaturali, e la moglie di Cesare, Calpur-

nia, ha fatto sogni tremendi e scongiura Cesare di non recarsi al Senato. Ma Decio, che è fra i congiurati, si reca da Cesare annunciandogli che i Senatori intendono farlo Re. Lusingato e rasserenato, Cesare decide di andare.

Per la prima volta aveva ceduto alla paura della moglie, proprio lui che aveva pronunciato la celebre frase: «Il pericolo e io siamo due leoni partoriti nello stesso giorno. Io il più terribile». Si avverte la grandezza di Cesare, ma anche la sua assolutezza. E quando arriva in Senato, e vede l’indovino del I atto, sarà lui stavolta a provocarlo: «Le Idi di marzo sono arrivate», e l’indovino risponde: «Ma non ancora trascorse». Di lì a poco il grande delitto politico: l’implorazione di Cimbro, di tutti i congiurati che si uniscono alla sua richiesta di grazia per il fratello, e l’ultima battuta di Cesare: «Io sono fermo come la stella del settentrione, che per la sua immobilità non ha rivali nel firmamento». A questa grandiosa superbia Casca, personaggio fra i più plebei del testo, risponde con la


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no il loro “lavoro da vivi”, quasi a significare che la nostra vita è comunque finalizzata alla morte.

Così quando Bruto rimane solo, col suo libro, per la prima volta Shakespeare fa uso del soprannaturale nel suo teatro: lo Spettro di Cesare compare, terribile e rovente di vendetta, qualificandosi a Bruto come «il suo genio cattivo»; e gli intima la celebre frase «ci rivedremo a Filippi». Bruto è atterrito, nessuno ha sentito nulla tranne lui, solo di fronte allo Spettro e

prima pugnalata. E Shakespeare, orgogliosamente, inserisce qui il suo più grande luogo metateatrale: «Quanti secoli venturi vedranno rappresentata da attori questa nostra grandiosa scena», dice Cassio; e Bruto: «E quante volte dovrà cadere nei giochi teatrali, in paesi ancora non nati e lingue sconosciute».

L’Autore è consapevole del suo genio. Anche perché subito dopo, nella scena del Foro, crea una delle sue pagine memorabili: a Bruto che si esprime con parole intelligenti ma ragionate, posate, che spiegano il perché dell’uccisione di Cesare e per un primo momento convincono il popolo, subentra un Marc’Antonio che, ottenuta la licenza di parlare, compie il capolavoro retorico del dramma. Aveva promesso a Cesare,

piangendo sul suo cadavere, di scatenare la guerra civile. E ora ci riuscirà attraverso un vero e proprio show politico che, non a caso, è stato spesso paragonato all’odierna esternazione mediatica. E a differenza di Bruto che parla in prosa, egli si

Il ruolo di Cesare cede qui il passo ad altri personaggi che possono considerarsi anche più rilevanti di lui: in primis, la figura epocale di Bruto esprime in versi. La celebre invettiva «Amici, romani, concittadini, ascoltatemi!» ha una potente forza scenica, calcolata perfettamente anche attra-

verso le allusioni a Bruto e il gioco sull’ignoto testamento che Cesare aveva lasciato ai romani. Alla fine la sua retorica risulta assolutamente vincente sulla moderazione di Bruto, e il popolo viene così istigato alla peggiore delle guerre civili. Qui si fa sentire anche il retaggio della Pharsalia, opera terribilmente cruda di Lucano, giovane scrittore nipote di Seneca che Shakespeare conosceva.

E così il conflitto interiore di Bruto, la «guerra civile in cielo» che si paventava nel I atto, si trasforma nella più terribile distruzione interiore che possa darsi, la guerra civile romana. Ed è una guerra senza esclusione di colpi, tanto che all’inizio del IV atto Antonio, Lepido e Ottavio Cesare (che subentra solo qui) depennano a tavolino chi deve vivere o morire, in una scena che sembra un antico spoil system delle carriere. Sull’altro fronte Bruto e Cassio giungono ad un terribile scontro in cui si fa strada il sospetto della corruzione fra le loro truppe, e che riescono a superare solo attraverso la terribile notizia del suicidio di Porzia moglie di Bruto. I due generali riprendo-

a tutti. E finalmente il giorno arriva: «Oh poter già conoscere la fine di questo giorno, ma basterà che il giorno giunga alla fine, perché essa sia nota». Geniale battuta sulla relatività del tempo, cui fa eco l’ultimo saluto fra Bruto e Cassio: «Per sempre addio: se ci rivedremo ci sorrideremo alla vista; altrimenti avremo fatto bene a dirci addio». Sull’altro fronte è evidente come Ottavio abbia ormai in pugno la situazione: con poche parole, lui che è stato definito il primo manager della politica occidentale, si arroga il controllo dell’esercito e, con la freddezza tipica dei calcolatori, porta a termine la battaglia superando allo stesso tempo le direttive di Antonio. Cassio si è suicidato, e così anche Bruto che, prima di morire, ha comunque riconosciuto la grandezza di Cesare. La sua salma sarà onorata da Marc’Antonio, che ne parla come dell’unico fra i congiurati che avesse ucciso Cesare non per invidia ma per l’aspi-

razione al pensiero del bene comune. E così viene comunque garantita una grandezza storica della vicenda che non assegna soltanto il “diritto dei vincitori”. Tanto più bisogna rilevare le impressionanti defezioni e cambiamenti di ruoli che avvengono all’ultimo istante. Fra schiavi che si liberano e altri che si uccidono, vi sono due personaggi che incarnano quello che oggi siamo abituati a chiamare trasformismo della società: è terribile ma è così. Messala e Lucilio si salvano soltanto in un modo: nelle ultimissime battute

Messala, fino a quel momento alleato di Bruto, passa senza battere ciglio dall’altra parte. Una realtà agghiacciante quanto in certo modo normale, umana, all’ordine del giorno. E questa è forse la più alta testimonianza del teatro politico occidentale, bisogna riconoscerlo.

L’uomo non cambia, il crudo realismo di Shakespeare non professa ideologie, ma descrive semplicemente l’uomo nella sua tragica quintessenza e natura. Nulla a che vedere con quella retorica brechtiana che ha fortemente influenzato, nel XX secolo, le aspettative degli artisti e degli intellettuali. Tutte grandi, importanti, ma anche ingenue illusioni: il mondo e l’uomo non cambiano, dobbiamo riconoscerlo. Possiamo peraltro rileggere e meditare attentamente sul Giulio Cesare, e forse capiremo meglio qualcosa di noi stessi. È sicuramente un passo avanti, una indicazione essenziale per la cultura e per la coscienza politica del secolo XXI.


cultura

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anculo amore, nuovo libro del giovane scrittore emiliano Pier Francesco Grasselli, è un lungo articolo di cronaca sulla vita di Francesco, giovane ragazzo aspirante scrittore, con una pila di manoscritti nel cassetto e nessun editore che lo vuole pubblicare. «Continuavo a seguire un sogno, sempre più arrabbiato, sempre più cocciuto, sempre più preoccupato, perché a ventisette anni la vita ti sta già un pochino con il fiato sul collo. Non ero più un ragazzo prodigio, il ribelle, l’eccentrico tutto genio e sregolatezza. Ero solo un lavativo senza lavoro», ci spiega lo stesso Francesco, sin dalle prime pagine del libro. Un giovane ragazzo come tanti in giro. Un ragazzo testardo, come lui si definisce, che non sa di che vivere e ha ben poco chiaro in mente cosa voglia fare della propria esistenza. Vive con i genitori che lo mantengono, cerca ogni tanto qualche lavoretto che non lo soddisfa per poi entrare in quel mondo del giornalismo spietato e pieno di regole che lo capovolge in una realtà nella quale saper scrivere bene non è necessario, basta raggiungere il giusto numero di battute e trovare un titolo.

che prima o poi “lei”può fare lo stesso con “lui”. Francesco è la fedele fotocopia dei ragazzi dei giorni nostri che hanno paura di crescere, hanno paura di andare avanti? Non sono irrequieti ma solamente spaventati dal mettersi in gioco davvero. Lui, come la maggior parte degli uomini e delle donne, scappa appena rischia di conoscere davvero l’altro, nonché prima di conoscere se stesso.

F

Poi c’è Sabrina. Ovviamente bellissima, ovviamente fuori portata, ovviamente una «che se la tira». «Mi passò accanto e qualcosa avvampò dentro di me. Feci una giravolta, seguendola con lo sguardo. Aveva un culo da standing ovation: alto, sodo e scolpito. C’era una sola cosa da fare: inginocchiarsi e venerarlo, inchinarsi dinnanzi alla Sua Magnificenza, prostrarsi come una tribù di selvaggi al cospetto del proprio idolo». E Francesco è cocciuto anche in questa circostanza, non molla, non demorde. E alla fine Sabrina se la prende, per poi gettarla via nel cestino come una delle tante lettere di rifiuto mandate dagli editori. «Capitava a tutti, e capitò anche a noi. Sei mesi prima restavo a guardarla negli occhioni per ore, pendevo dalle sue labbra, andavo dal barbiere due volte al mese, mi vestivo trendy (…). Ora mi sentivo stupido a guardarla negli occhi per più di cinque secondi, andavo dal barbiere ogni morte di papa, non facevo caso a come mi vestivo (…)». Quello che Grasselli vuole raccontarci è la delusione di Francesco riguardo all’amore, non riguardo Sabrina in particolare: tutte le storie fanno la stessa fine, ci dice. Finisce la poesia, il romanticismo, il corteggiamento, e si arriva a quella routine che uccide mente e corpo e che volge il pensiero alla ricerca di qualcosa che dia più stimoli: «Quello di cui avevo bisogno - anzi,

Libri. I giovani d’oggi, tutti alcool e sesso, secondo Grasselli e il suo “Fanculo amore”

Un Federico Moccia in versione trash di Bianca Penna quello che in fondo volevo con tutto me stesso - era una vita movimentata, una vita da scrivere senza annoiare mai. Probabilmente il mio destino era di rimanere single a vita». E ancora: «Fuggire l’amore per cercare l’amore. Ancora non lo sapevo, ma sarebbe diventata la storia della mia vita. Una gara

Sopra, la copertina del libro “Fanculo amore” di Pier Francesco Grasselli (in alto a destra). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

che sembra senza senso, e che però un senso ce l’ha, finalizzata com’è al mantenimento degli stimoli, al non adagiarsi mai».

Inizia così, a seguito della fine della storia con quella Sabrina che lo aveva stregato e poi stancato, il racconto di Francesco con le altre donne, tutte da prendere e gettare via, fino alla sorpresa finale, quella in cui il nostro protagonista inizia a realizzarsi sul piano professionale. Seppure le più di duecento pagine di Fanculo amore si leggano facilmente e strappino qualche sorriso di tanto in tanto, il personaggio principale è del tutto statico, manca di dinamicità. Attraverso tutto il racconto il nostro giovane protagonista non impara niente, e l’unica cosa che cambia sono le donne. Francesco segue uno schema preciso nei suoi approcci, e all’inizio crede sempre di essere innamorato. Eppure difficilmente nel libro si può leggere la descrizione di una ragazza che vada al di là di quella del seno e del fondoschiena. Non vengono descritte relazioni sentimenta-

Nel libro, solo racconti banali e vuoti di qualche notte bollente, donne perfette o troppo grasse, coma etilici e vite poco soddisfacenti li, come si vuol far credere, ma solo relazioni sessuali, dalla prima all’ultima pagina. Scrive Grasselli: «Era la solita solfa. Ti mettevi con una ragazza e per i primi due o tre mesi non potevate fare a meno di uscire tutte le sere. Poi, un bel giorno, ti stancavi…» e giù una sequela di gratuite volgarità, che con l’eros hanno davvero ben poco in comune. Ecco lo specchio dell’uomo e della donna che appaiono nel libro. Per Francesco poi si ripresentano con tutte le donne sempre gli stessi problemi: gelosia fino all’esasperazione, possessività e insicurezza. Forse perché gelosia e possessività rientrano nella consapevolezza della donna oggetto, mentre l’insicurezza arriva quando ci si rende conto

La morale che ci viene propinata è che in fondo l’unica cosa che davvero importa è la gratificazione personale. Non ci sono valori, non ci sono ideali, non ci sono sentimenti. C’è il racconto banale e vuoto di qualche notte (e giornata) di sesso, di donne perfette o troppo grasse, di coma etilici, di una vita poco soddisfacente, del non accontentarsi mai, e allo stesso tempo del non cercare di migliorare la propria esistenza ma gettare la spugna e ricominciare tutto dall’inizio. Francesco è annoiato, ma è annoiato da se stesso. Fanculo amore, in fin dei conti abbastanza piacevole, ricorda un Federico Moccia rivisitato con l’aggiunta di sesso e ruvidità, ma il risultato rimane sempre lo stesso: si tratta di un racconto su quella grande fetta di giovani d’oggi che godono nel leggere la propria storia e si crogiolano nella loro vita priva di significato. Purtroppo, la verità è che oggi è questo il genere che vende. Vende una copertina con un sedere con una coulotte nera di pizzo, una mano sopra che lo palpeggia e uno stacco di gambe non indifferente. Vende un titolo provocatorio. Vende una storia come tante altre con tanto sesso e tanto alcool. Vende raccontare ai giovani d’oggi che l’amore non esiste, che è molto più da duri parlare di questo che di qualsiasi altra cosa.Vende raccontare che esistono due tipi di uomini: «Quelli che cercano la tranquillità, che si mettono con una donna e che senza si sentono persi. E quelli che non smettono mai di cercare l’ebbrezza, il brivido dei primi incontri, l’emozione della scoperta, e che se rimangono con la stessa donna per troppo tempo si lasciano andare, perdono motivazione». Insomma, un libro da leggere a cuor leggero. Una volta chiuso lascia ben poco e può essere abbandonato proprio lì, sulla mensola più nascosta e polverosa della vostra libreria.


spettacoli

5 gennaio 2010 • pagina 21

Musica. Il nuovo album del bluesman e cantautore romano: romantico, semplice, riflessivo e dal sapore di rivincita

E Britti ricomincia da “.23” di Matteo Poddi

A fianco e in basso, il bluesman e cantautore romano Alex Britti. L’artista è tornato sotto i riflettori con il suo nuovo album “.23”, pubblicato da Sugar Music. Un disco tutto all’insegna della semplicità, della riflessione, e soprattutto dal sapore di rivincita, in cui Britti dimostra di avere la maturità e il coraggio di ricominciare tutto da zero unto e accapo. Oppure punto 23 anzi “.23”come il titolo del nuovo album di inediti di Alex Britti nonché della traccia numero undici della tracklist. Il 2009 è appena trascorso ed è tempo di bilanci. Anche per gli artisti. E a volte, dopo un’accurata analisi dell’anno andato, appare evidente la necessità di una svolta. «C’è una voce dentro me che dice sempre punta su di te» recita il testo di .23. Ha inizio così un cambiamento che può riguardare tanto la vita artistica quanto quella privata.

P

All’inizio è difficile. E infatti Piove. Prevale, ad esempio, la nostalgia di un’estate che non tornerà più: «Agosto sembra ormai lontano ma io sono vicino a dove t’incontravo. Semplice.Vestita in modo semplice. Sei diventata complice e non ti scordo più». Ma poi, una volta preso il via, non ci si ferma più e tutto sembra più semplice. E la semplicità è, per Alex Britti, un vero e proprio filo rosso che lega le 13 tracce di questo suo nuovo lavoro pubblicato da Sugar Music. Semplice è soprattutto l’arrangiamento dei singoli brani tutti caratterizzati dalle acrobazie che Alex compie con la sua fedele chitarra. Una compagna di viaggio che non l’ha mai tradito. A differenza delle donne. In Buona fortuna però non c’è tanto l’accusa dell’uomo che è stato lasciato piuttosto l’esigenza di mantenere rapporti amichevoli con una persona speciale con la quale si sono condivisi bei momenti. «Se tra noi era qualcosa di vero non si può mica sciogliere adesso» recita il testo che rappresenta un accorato invito a restare

vicini nonostante la fine di una storia vissuta intensamente. «Dimmi almeno buona fortuna e che non ci sarà rancore, amore». E questo fa riflettere. Perché tentare di cancellare con un colpo solo momenti che, in qualche modo, hanno lasciato un segno indelebile? Meglio continuare a volersi bene in un altro modo «perché tra noi è speciale. Noi due stavamo bene anche se stavamo male». Ed è L’attimo per sempre ad approfondire il discorso sulle relazioni sentimentali. Britti si rivolge alla donna che ha

amato alla quale dice «non mi fai riprendere più il volo perché tu sei quell’attimo per sempre». Ed è così «che la mia gioia si confonde ancora con il pianto se stai con me». Musica struggente e parole intense. Una ballata da ascoltare ad occhi chiusi. Blues e riff di chitarra, invece, per Esci piano. E qui esce fuori tutto il talento del Britti musicista. Un vero artigiano dei suoni. Uno dei migliori bluesman italiani. Il blues scorre nelle vene di Britti che si trova pienamente a suo agio nel range musicale delimitato dai suoni e dagli atteggiamenti tipici del genere. Ed è profondamente blues, concettualmente oltre

spazio per tutto in questo disco. Anche per la denuncia. In Venite tutti a Roma, infatti, l’amore per la propria città natale diventa monito verso chi la governa che ignora i pericoli del sovraffollamento e della disorganizzazione. «Venite tutti a Roma nel 2046. Moderna, tra Stoccolma e Bombay, così affollata e trasformata ma comunque sempre ancora lei». Un artista avverte ancora meglio i cambiamenti della realtà che lo circonda e in effetti il volto di Roma è cambiato troppo negli ultimi tempi. E i problemi sono sempre gli stessi. Mobilità, criminalità, traffico. E l’insofferenza arriva al punto di far dire a Britti: «Ci sono nato ma invidio quel turista che ci passerà» e che, probabilmente, sarà in grado di godersi le bellezze della città senza preoccuparsi dei suoi problemi. Dopo l’impegno c’è anche il tempo dell’evasione con Lasciatemi sognare e quello del realismo con Meno di zero per poi lasciare spazio alla cover Estate e alla poetica Quando il cielo piange.

È proprio la semplicità il filo rosso che lega le 13 tracce del suo nuovo lavoro, pubblicato da Sugar Music. Il tutto accompagnato dalla fedele chitarra di una vita che musicalmente, un pezzo come Amico mio. Testo minimalista e accompagnamento privo di fronzoli e virtuosismi. «Amico mio per sempre ti ringrazio per tutte le parole che un giorno ti dirò, amico lontanissimo che stai vicino a me». Britti individua con precisione ciò che veramente conta nella vita e lo esalta con la sua musica disimpegnata ma riflessiva. E ci invita a fermarci un attimo e a prendere le distanze da quello che stiamo vivendo per analizzarlo meglio. Presi dal trambusto del quotidiano spesso diamo per scontato un sacco di cose. Come l’amicizia vera appunto. Vieni qui è una canzone triste, un brano all’insegna del “vorrei ma non posso”. Il cantante vorrebbe chiamare la donna che ama e dirle tutto quello che prova per lei ma riesce ad esprimersi a pieno solo con questa canzone e non quando è a tu per tu con lei. E allora canta «vieni qui questa sera, ti amerò come vuoi tu.Vieni qui che c’è il mare e tutto il resto non c’è più». Semplice, romantico, vero. Questo è Britti. Con i suoi pregi ma anche coi i suoi difetti. E c’è

Con questo album Britti sembra prendersi una rivincita. È un disco in cui dimostra di avere la maturità e il coraggio di ricominciare da zero. Non solo. Questo lavoro mette in luce la vera natura di Alex: quella del blues man. Perché frenare le proprie naturali inclinazioni e sacrificare tutto sull’altare della pop music? Dopotutto si può vendere anche così. E chi lo sa che tra qualche anno Britti non possa diventare il vessillo del blues all’italiana. Se questo disco è l’antipasto siamo impazienti di assaggiare le altre portate. In fondo, citando il titolo di una delle canzoni dell’album, è bello sentirsi dire: mi piaci Come sei. Ed è bello ascoltare la ghost track dell’album: un live acustico in cui si distingue chiaramente il sound, inconfondibile, della fedele chitarra di Britti.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Times online” del 04/01/10

Barbe finte a braccetto un ufficiale dell’intelligence giordana l’ottava vittima dell’attacco suicida che la scorsa settimana aveva distrutto una base segreta della Cia in Afghanistan. Si trattava di un capitano in servizio presso il General intelligence department (Gid) del regno di Giordania. L’agenzia stampa ufficiale di Amman ha identificato l’agente come Ali bin Zeid, affermando che era stato ucciso «mercoledì sera come un martire, mentre adempiva al sacro dovere nelle Forze armate giordane in Afghanistan». Il lancio giornalistico non dava altre informazioni sulla morte del militare nell’attentato che è costato la vita anche ad altri sette agenti operativi dei servizi americani. È stato così colpito non solo un luogo segreto, ma anche una partnership storica tra Washington e Amman nella lotta al terrorismo internazionale. Come scrive il Washington Post, il rapporto che si è creato e consolidato è «una rara occasione di collaborazione» tra l’intelligence statunitense e i servizi giordani, in cui il Paese arabo sta giocando un ruolo sempre più attivo nella lotta contro al Qaeda e i gruppi del terrorismo ultrafondamentalista.

È

Gli agenti giordani sono particolarmente apprezzati per le tecniche d’interrogatorio e per il modo in cui arruolano e mantengono i rapporti con gli informatori. In un modo in cui è stato dimostrato che non basta la sorveglianza elettronica e i satelliti per vincere la battaglia contro il terrore, ma anche le capacità humint ( human intelligence) in cui i servizi giordani hanno dato prova di eccellere. Avrebbero raggiunto un livello d’esperienza e capacità che ne fanno degli esperti senza rivali nel campo «dei gruppi con militanti radicali e nella cultura sciita e sunnita», afferma – sempre dalla colonne del

quotidiano Usa – Jamie Smith, un ex agente di Langley che ha lavorato nelle regioni di confine, subito dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’alleanza occidentale. Un riconsoimento di valore per le attitudini alla mediazione culturale che non tutte le agenzie d’intelligence possiedono.

«Loro conoscono bene la cultura… di quei “pessimi soggetti”, i loro legami e sanno molto sui network cui appartengono» ha spiegato l’ex operativo della Cia. Sia appartenenti allo spionaggio Usa attualmente in servizio che ex funzionari concordano che la collaborazione con l’intelligence giordana sia una faccenda di carattere storico. Dura da più di trent’anni. E negli ultimi tempi i rapporti sono diventati molto stretti. Basati così tanto sulla fiducia che il responsabile di Langley nella capitale Amman può avere libero accesso senza “accompagnatori”nel quartier generale del Gid. Un fatto piuttosto inusuale tra servizi. Una relazione molto stretta che ha permesso di sventare numerosi complotti, compresa la cosiddetta cospirazione del «millennium» che prevedeva una serie di attentati in posti di grido nell’agenda del truismo internazionale, si legge sempre nell’articolo. E che avrebbe avuto una eco mondiale notevole. Le barbe finte giordane avrebbero anche fornito numerose intercettazioni telefoniche, nell’estate del 2001, che parlavano della minaccia

di attacchi imminenti sul territorio statunitense, sempre secondo quanto afferma il Post. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, lo Stato di Giordania aveva accettato di firmare un accordo che avrebbe previsto delle operazioni in partnership tra i due Paesi. Compresa la creazione di un centro gestito dalla Cia e dal Gid per l’escussione dei prigionieri catturati dall’agenzia Usa.

Nel documento si prevedeva anche l’invio di terroristi in Giordania per mezzo dei voli poi diventati tristemente noti come extraordinary rendition, per essere interrogati dagli esperti giordani del Gid. Un fatto che evitava a Washington di attenersi a norme giuridiche troppo stringenti rispetto alle garanzie dei prigionieri e che nel Paese arabo dovevvano essere un po’ meno ”vincolanti” che negli Sati Uniti.

L’IMMAGINE

Popolo delle libertà al capolinea Udc vera alternativa alla sinistra La vicenda modenese, che ha visto ben tre consiglieri comunali del Pdl uscire dal proprio gruppo per approdare in quello della Lega, non fa che confermare ancora una volta l’evidente fallimento del bipartitismo forzato, che sta impedendo al nostro Paese di avere quella necessaria spinta riformatrice di cui ha bisogno. È da tempo che noi sosteniamo che Pd e Pdl non sono due veri partiti ma solo due grossi contenitori, incapaci di dare risposte di governo. Dove conquistano il potere sono costretti a sottostare ai diktat dei loro alleati più estremi, Lega Nord e Italia dei valori. Dove, invece, non sopraggiunge la vittoria elettorale, si manifesta una sostanziale incapacità a svolgere il ruolo di opposizione, tanto che, in poco tempo le divisioni interne riaffiorano spaccando la classe dirigente. In Emilia Romagna, l’unica alternativa credibile alla sinistra è rappresentata dall’Udc, una forza moderata, che ha come faro il bene comune, capace di esprimere contenuti programmatici in linea con i bisogni dei cittadini.

Davide Torrini e Fabio Licenzi

DI PIETRO E INTERNET Se Di Pietro avesse consultato internet avrebbe visto che Moratti non è la prima ad intestargli una strada. Non sarà il comune di Milano il primo ad intestare una via, una piazza o un giardino a Bettino Craxi. Se Antonio Di Pietro e i suoi consultassero un qualunque stradario su internet, troverebbero che altre amministrazioni hanno avuto la stessa idea felice del sindaco Moratti. Milano comunque era la città di Craxi. A Milano ebbero inizio le persecuzioni nei suoi confronti. È doveroso ricordarne lì la figura di statista e di grande leader politico. Queste le strade che risultano da una ricerca in internet: via Bettino Craxi, Valmontone (Rm); via Bettino Craxi, Foggia; via Bettino

Craxi, Lecce; via Bettino Craxi, Botrugno (Le); via Bettino Craxi, Marano Marchesato (Cs); via Bettino Craxi, Scalea (Cs); piazza Bettino Craxi, Grosseto.

Francesco Comellini

INGIUSTIFICATO DIVARIO REDDITUALE FRA GIURISTI La sperequazione reddituale esiste anche fra giuristi - privilegiati e svantaggiati, epuloni e sobri. Vivono o sguazzano nell’area del potere e del privilegio i baroni universitari, i magistrati e gli alti burocrati pubblici (categorie sostanzialmente illicenziabili), nonché i politici. Fra gli sfortunati vanno inclusi gli insegnanti di diritto nelle scuole secondarie superiori e molti avvocati (a reddito incerto). L’eccessivo divario red-

Taglia e cuci Chissà cosa direbbe guardando questa sutura Lanfranco da Milano, medico italiano vissuto nel Medioevo (1250-1306), da molti considerato uno dei “padri” della chirurgia. Sarebbe stato lui secondo la tradizione, a inventare il “nodo dritto”, uno dei nodi chirurgici più usati ancora oggi in sala operatoria. Nella foto al microscopio: un taglio di 5 giorni chiuso da una sutura

dituale fra i due gruppi è ingiusto, perché non riflette un’analoga differenza di merito. La fortuna dei primi deriva da vittoria in pubblici concorsi, dove non si escludono patologie antimeritocratiche: soggettività di giudizi, raccomandazioni e protezioni di partiti, congreghe e “scuole”. I politici eletti sono tali per designazione oligarchica, non preferen-

ze di votanti. Le categorie iniquamente favorite possono condurre vita grassa, a dispetto della crisi; gli sfavoriti sono forzatamente spartani.

Gianfranco Nìbale

LA FINE DEGLI ERRORI L’Iran in fiamme spaventa e affascina nello stesso tempo, ma solo per l’inviolabilità che nel tempo

si era creato uno Stato e un regime che sembrava starsene isolato totalmente dal resto del pianeta, e che ora cade, inesorabilmente e lentamente, non per la mancanza di democrazia e libertà, bensì per le scelte fallaci del capo di governo, che non ha saputo fare né politica interna né politica internazionale.

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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Amo molto il Brabante e non solo... Quando Mauve vide i miei studi, mi disse subito: «State troppo vicino al modello». In molti casi la vicinanza eccessiva rende pressoché impossibile prendere le necessarie misure per la proporzione, e quindi devo provvedere ad ovviare a questo inconveniente. Spero di poter affittare un grande locale o anche un granaio, e forse non mi costerà troppo. Da queste parti una casetta da contadino non costa più di 30 scellini l’anno, e penso quindi che un locale grande il doppio mi verrà a costare sui 60 scellini, il che non è superiore alle mie possibilità. Ho già visto un granaio, ma ha molti svantaggi, specialmente nella stagione invernale. Tuttavia, potrei andarci a lavorare non appena la temperatura si farà più mite. E penso che se qui dovessero sorgere delle difficoltà, potrei trovare modelli non soltanto a Etten, ma anche in altri villaggi del Brabante. Sebbene ami molto il Brabante, so anche apprezzare altre figure non tipiche di questa regione. Ad esempio, considero sempre Scheveningen bellissima. Ma ora sono qui e posso vivere in maggior economia, anche se ho promesso a Mauve che avrei fatto del mio meglio per procurarmi uno studio più adatto. Inoltre, ora devo incominciare a usare carta e colori migliori. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

UNA LEGGE ELETTORALE PER TUTTI GLI ITALIANI Una riforma condivisa della legge elettorale deve garantire la rappresentanza delle minoranze e restituire ai cittadini la scelta dei candidati. L’attuale sistema elettorale si è rivelato antidemocratico, perché ha cancellato i partiti di minoranza e ha trasferito il potere elettivo dai cittadini alle segreterie dei partiti. È necessario che le forze politiche agiscano, in maniera responsabile, per dare a tutti gli italiani la possibilità di essere rappresentati in Parlamento. Quanto al sistema elettorale è preferibile un sistema maggioritario corretto con una quota proporzionale, in modo da rispecchiare la reale volontà degli elettori e garantire stabilità al Paese. È giusta una soglia di sbarramento non superiore al 2%, perché uno sbarramento più alto non rispecchierebbe tutti gli stati d’animo presenti nel Paese. Una riforma si rende necessaria anche per restituire agli italiani il diritto di scegliere i candidati col voto di preferenza, senza accontentarsi dei nomi imposti dalle segreterie di partito.

Domenico

LE BANCHE INGANNANO I CORRENTISTI. CHE FA BANKITALIA? L’Antitrust, con un comunicato diffuso su una loro segnalazione a Governo, Parlamento e Bankitalia, conferma ciò che stiamo denunciando da mesi: sulle commissioni di massimo scoperto ridefinite dall’art.2bis della legge 2/2009 (valide solo quando il cliente ha un fido e lo scoperto dura più di 30 giorni) le

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

5 gennaio 1944 Il Daily Mail diventa il primo quotidiano transoceanico 1945 L’Unione Sovietica riconosce il nuovo governo filo-sovietico della Polonia 1946 A Norimberga comincia il processo contro 23 exmedici che operarono nei campi di concentramento accusati di crimini contro l’umanità 1956 Elvis Presley registra Heartbreak Hotel 1960 Il diretto Sondrio-Milano deraglia presso Arcore a causa della nebbia e di lavori sulla linea. Il bilancio è di 17 morti e 139 feriti 1964 Papa Paolo VI incontra il Patriarca greco Atenagora I a Gerusalemme, è il primo incontro tra i capi della chiesa Cattolica e di quella Ortodossa dal 1439 1968 Alexander Dubcek sale al potere, in Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga 1972 Il presidente Nixon ordina lo sviluppo del programma Space Shuttle 1973 I Paesi Bassi riconoscono la Germania Est 1976 La Cambogia diviene Campuchea Democratica

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

banche hanno fatto carte false; a fine giugno sono entrate in vigore le nuove commissioni che, cambiando solo nome, non solo hanno confermato le vecchie, ma sono diventate più onerose, fino a quindici volte in più. Questo fino all’entrata in vigore della legge 3/8/2009 n.108, in base alla quale l’ammontare del corrispettivo omnicomprensivo per il servizio di messa a disposizione delle somme non può superare lo 0,50% per trimestre dellimporto dell’affidamento. A suo tempo avevamo chiesto, ignorati, l’intervento del ministero dell’Economia, sino allo scorso settembre in cui avevamo inviato una lettera a Bankitalia denunciando iniquità e esosità, nonche carenze e violazioni dal punto di vista giuridico: l’art. 118 del Testo unico bancario - cui le banche hanno fatto riferimento per introdurre le nuove clausole - non legittima una modificabilità indiscriminata dei contratti bancari. Stiamo ancora aspettando una risposta da Bankitalia e la segnalazione dell’Antitrust potrebbe essere buona occasione perché l’istituto diretto da Mario Draghi colga l’occasione per fare chiarezza su quanto segnalato e denunciato. Allo stato dei fatti, intanto, prendiamo atto di non essere soli a denunciare il comportamento illecito e illegale delle banche, che ingannano i correntisti e, in mala fede, profittano di ogni occasione, anche quelle che dovrebbero essere migliorative per chi fruisce dei loro servizi, per mostrare la loro natura strutturale di sanguisughe.

Vincenzo Donvito

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

TURISMO: SETTORE STRATEGICO MA SOTTOVALUTATO (I PARTE) Basilicata tra presente e futuro: una mia nuova pubblicazione sulle politiche del turismo in Basilicata. Un lavoro che analizza e presenta gli itinerari di sviluppo del terzo settore dell’economia locale nella futura programmazione regionale. Il saggio asserisce che il turismo, a differenza dell’agricoltura e industria, è un settore atipico e proprio per essere tale ha bisogno di alcune spiegazioni a monte che ne giustifichino la diversità. Non ha bisogno per crescere di impostazioni esasperatamente dirigistiche e prescrittive, vive, invece, di umori e sentimenti che sono riconducibili allo stato di animo e alla condizione economica delle persone. Nella storia sociale di ogni paese, il turismo è stato visto come un’esigenza esistenziale di nicchia, che ha interessato una minoranza di persone; oggi, che la cultura e le condizioni economiche sono cambiate, è diventato un settore trainante che interessa tanto la politica come l’economia, al punto che queste due componenti dettano in modo invasivo il ritmo e le condizioni di come fare turismo, trascurando, cosa che non accadeva in passato, la componente culturale che rappresenta da sempre la chiave di volta del successo di ogni operazione avviata in questo campo. Va ricordato che il Grand Tour dell’’800 non è stato progettato dalla politica, è un’invenzione di un abate francese Jean Claude Richard di Saint-Non che, a tavolino, ideò una moda culturale che ha spinto, nel tempo, le generazioni europee a scoprire la Magna Grecia venendo nell’Italia meridionale, allora come oggi sconosciuta. Le vacanze in montagna sono state ideate, nella seconda metà del ’500, dal teologo di Zurigo Josias Simler, che studiò l’ambiente alpino, riscattando questa realtà da una forma di pregiudizio che la relegava in una dimensione culturale secondaria. L’epopea del sole, come potremmo chiamarla, nacque con il mito dell’abbronzatura e la spiaggia assunse un ruolo centrale nel turismo balneare. Chi inventò questa moda, nel 1569, fu un medico inglese, William Turner, che per motivi terapeutici incoraggiò la borghesia a frequentare i centri balneari sul mare del Nord o sul mar Baltico; in Inghilterra ci si spostò verso un mare altrettanto freddo e su coste considerate igieniche. Anche nei territori tedeschi la creazione delle località balneari venne preceduta dalla diffusione dei dettami medici sul ruolo dell’acqua fredda e dell’aria di mare per la cura di numerose malattie. Come gli inglesi erano stati i precursori delle vacanze al mare e delle terme, così gli americani furono gli inventori di un altro tipo di vacanza, quella dei parchi naturali. Il diffondersi di tale concezione romantica e pittoresca della natura fu alla base della valorizzazione della montagna e in generale stimolò la ricerca di mete alternative, così che territori impervi e inospitali divennero mete ambite e ricercate. Nel 1832 Georges Catlin, americano, propose al governo federale di conservare la bellezza selvaggia di alcuni territori attraverso la istituzione dei parchi. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

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PAGINAVENTIQUATTRO Spionaggio. Continua la caccia di Cia e Mossad ai padri e ai tecnici della bomba nucleare iraniana

Pellegrinaggio all’ombra di Pierre Chiartano haram non è uno dei ragazzi di via Panisperna, come Ettore Majorana, ma potrebbe diventare un caso molto simile. Da sempre i fisici nucleari hanno goduto delle attenzioni di governi e della scrupolosa sorveglianza delle ”barbe finte”. Sharam Amiri è uno scienziato coinvolto nel programma nucleare iraniano e non si trova più. È sfuggito alla presa del regime dei mullah sciiti. E ha trasformato la sua scomparsa in un giallo dai viraggi da affaire spionistico, dove verità e disinformazione formano un’amalgama unica.

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Lo scienziato nucleare iraniano avrebbe fatto perdere le sue tracce a maggio (ma c’è chi afferma sia stato in luglio) durante un pellegrinaggio (omra) in Arabia saudita. Ai primi di dicembre, Teheran per voce del capo della diplomazia Manoushehr Mottaki aveva dichiarato che Amiri fosse stato «rapito» dagli americani e che l’Arabia saudita doveva «esserne considerata responsabile». Immediata, naturalmente, la reazione di Riad che respingeva in blocco le accuse dell’Iran. Poi, l’8 dicembre, il nuovo attacco in un comunicato dell’agenzia Mehr, dove si affermava che Amiri fosse stato «consegnato da Riad agli Stati Uniti». Il lancio riportava le dichiarazioni del portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehmanparast, che ammetteva per la prima volta che il ricercatore lavorasse in campo nucleare. Un chiaro segno della “sconfitta”degli uomini delVevak, l’intelligence degli ayatollah, che ormai giravano a vuoto. Anche perché non sono rari i casi di scomparsa durante questo pellegrinaggio – un modo per molti iraniani di uscire dal Paese e diventare uccel di bosco – mai il ministero degli Esteri però si era sognato di intervenire in forma ufficiale e con questi toni. In un intervento sul quotidiano saudita Asharq al Awsat, stampato in Inghilterra, Osama Nougali, direttore del dipartimento dell’Informazione al ministero degli Esteri di Riad, si era detto «sconvolto dalle dichiarazioni e dalle illazioni» di Teheran.

Le defezione degli scienziati Amiri, Ardebili e del viceminsitro della Difesa di Teheran Asgari, sono alcuni dei successi dell’intelligence americana e israeliana degli ultimi anni. Grazie ai quali, da tempo, si sapeva del sito nucleare segreto di Qom

Il dipartimento di Stato americano, interpellato, sempre l’8 dicembre, non aveva rilasciato dichiarazioni sulla vicenda. E fin qui nulla di strano, sia nel caso fosse stato prelevato durante una delle cosiddette extraordinary rendition o se Amiri avesse consapevolmente scelto di fare il salto della quaglia. La vicenda nucleare iraniana non sta coinvolgendo solo le diplomazie internazionali, ma ha scatenato una vera guerra segreta, in cui agenti reclutatori e d’influenza sono stati sguinzagliati a caccia dei padri della “possibile”atomica sciita. Si tratta di capire dove si trovi ora lo scienziato, se in qualche residence californiano o in un bordello di qualche altro Paese, interessato a bloccare il programma iraniano o comunque a carpire informazioni riservate sullo stato d’avanzamento della bomba di Teheran. I russi non considerano gli scienziati che parlano in farsi all’altezza del progetto. Dopo 25 anni non avrebbero prodotto che poco materiale fissile. «Sono dei pasticcioni» asseriscono negli ambienti dell’Fsb, l’intelligence moscovita. A Foggy Bottom la pensano diversamente e l’attenzione è più alta. L’altro nome che emerge per un caso simile è

quello di Amir Hossein Ardebili, cittadino iraniano, pizzicato in Georgia dalla polizia locale e trasferito subito a Washington col suo prezioso laptop. Nel portatile c’erano tutte le prove sui traffici d’armi che lo avevano fatto entrare nel collimatore dei “cavernicoli” americani. E che hanno spinto Ardebili a saltare il fosso, dopo essersi dichiarato colpevole, in seguito all’arresto. L’intelligence Usa è riuscita così ad aver molte altre informazioni, oltre quelle contenute nel pc. Questo è un episodio che era stato a lungo tenuto nascosto, perché Ardebili era spiato già dal 2004. Ma non è ancora chiara in che forma si sia esplicata la sua appartenenza al programma nucleare di Teheran. Forse anche il destino di Amiri verrà reso noto in un prossimo futuro. Dossier del genere sono stati aperti nei confronti di parecchi iraniani e amici del regime sciita. Comunque secondo Nougali, «le autorità saudite, dopo essere state informate della sua scomparsa dalla delegazione iraniana (alla Mecca), hanno condotto intense ricerche a Medina e in tutti gli ospedali e alberghi

DELL’ATOMICA della regione della Mecca» ma invano. «Le circostanze della sua scomparsa dalle sede della delegazione iraniana al pellegrinaggio avevano suscitato molti interrogativi», ha detto ancora. «L’Arabia saudita accoglie un milione di pellegrini iraniani ogni anno per il pellegrinaggio e la omra (effettuata al di fuori delle date dell’Haji), e come i cittadini di altra provenienza, sono sottoposti alla supervisione delle delegazioni dei loro Paesi», ha poi spiegato.

Comunque c’è già chi ipotizza – come fa il quotidiano israeliano Haaretz – che sia stato Amiri a permettere la recente scoperta dell’impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio vicino alla città sacra di Qom. Se dovessero risultare vere le defezioni di Amiri e Ardebili, in favore dell’Occidente, diventerebbe uno dei migliori colpi messi a segno da Cia e Mossad, dopo l’esfiltrazione di Ali Reza Asgari, già viceministro della Difesa e membro dei Guardiani della rivoluzione, avvenuta nel 2007 in Turchia. A noi piace pensare che Sharam stia provando un ferro cinque, tentando di scollinare nell’impervio percorso del campo da golf di Lake Chabot, in California.


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