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Da un sillogismo non si può cavare nulla che lo spirito non vi abbia messo in anticipo André Gide

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 7 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Preso nello Yemen il capo del network del terrore.Aumentano in tutto il mondo i controlli negli aeroporti internazionali

«Così si può battere al Qaeda» Mentre Obama annuncia la svolta nella guerra al terrorismo, in un inedito memoriale l’ex presidente pakistano Musharraf indica la strada per contenere il fondamentalismo di Pervez Musharraf

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Daniel Pipes

e debacle vengono ammesse, le teste non cadono ma il tono sembra quello deciso di un capo di Stato vero: «Inaccettabile e intollerabile». Il mea culpa annunciato del presidente Barack Obama è durato pochi minuti.

entre le mani sono esauste in seguito alla mancata tragedia sul volo della Northwest che stava per atterrare a Detroit, mi viene in mente una conversazione tenutasi all’aeroporto di Heathrow nell’86.

ggi come oggi, i nomi del mullah Omar e di Osama bin Laden sono i più tristemente noti del mondo. La maggior parte del mondo li considera terroristi; per quelli a cui solitamente ci si riferisce come radicali, sono eroi carismatici. Per quasi tutti, rappresentano un enigma. Il mondo non sa quasi niente sulla natura e la biografia del mullah Omar, l’uomo a capo del regime talebano e che, secondo me, continua a dirigere quello che rimane dei talebani oggi. Sulla storia della vita di Osama bin Laden si sa un po’di più, almeno fino a cinque anni fa. Da quel momento in poi, per la maggior parte del mondo Osama è sparito dalla circolazione. Grazie a contatti diretti e ai servizi segreti, ora sono in grado di riempire qualche vuoto riguardante i due uomini. È fin troppo noto che trarre «vantaggi a breve termine per pene a lungo termine» è temerario, però questo è esattamente ciò che è accaduto agli alleati nel jihad contro l’occupazione sovietica dell’ Afghanistan, non ultimi gli Stati Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita.

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LA STRATEGIA DI BARACK

SICUREZZA AEREA

Pochi fatti, troppe parole

Body Scanner? No, intelligenza

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Il premier agli eurodeputati azzurri: «La priorità resta la giustizia»

«Nel 2010 giù le tasse» Berlusconi promette di ridurre la pressione fiscale di Federico Romano

ROMA. «Il 2010 sarà l’anno delle riforme. Partiremo con quelle della giustizia, poi proseguiremo con la scuola e soprattutto con un programma di riforma fiscale per ridurre le tasse». Così Silvio Berlusconi ha spiegato la prossima agenda politica del Governo in un collegamento telefonico con gli europarlamentari riuniti a pranzo nell’hinterland torinese. «Andremo avanti

con determinazione e senza esitazioni», ha detto il presidente del Consiglio, ricordando agli esponenti del Pdl come l’appuntamento delle Regionali sia una prova decisiva «in questo momento difficile dove il terrorismo internazionale è tornato a farsi sentire. Dobbiamo essere il partito dell’amore che combatte contro chi diffonde odio». a pagina 9

segu1,00 e a pa(10,00 g in a 9 EURO

CON I QUADERNI)

Non sia solo un proclama di Marco Respinti Grazie, signor Presidente del Consiglio. Grazie per avere detto, annunciato e promesso che il governo da Lei presieduto abbasserà presto le tasse. Grazie per averlo detto e promesso poiché noi ci crediamo profondamente. a pagina 9

• ANNO XV •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

Le indecisioni in Puglia e nel Lazio allontanano l’Udc

Binetti: «Lascio il Pd se la Bonino verrà candidata» La deputata teodem lancia un segnale forte al suo partito, mentre a sinistra crescono le pressioni a favore dell’esponente radicale

L’INDECISIONE DEL PD

MINE VAGANTI

Dov’è il partito di governo?

Sono ostaggi di Nichi ed Emma

di Giancristiano Desiderio

di Riccardo Paradisi

orse Emma Bonino è stata ispirata da Nanni Moretti o magari la battuta le è uscita semplicemente così, naturale; sta di fatto che quanto ha detto ieri è la pura e semplice verità: «Mi sembra si siano infilati in un patetico dibattito interno». Chi sono? Quelli del Pd, è ovvio. A sinistra, ormai lo sanno proprio tutti, c’è sempre un dibattito in corso, anche quando è tempo di piantarla e di prendere una necessaria e sana decisione loro dibattono, mentre gli altri prendono decisioni politiche che, per forza di cose, prendono in contropiede. a pagina 10

e elezioni regionali del prossimo marzo rischiano di trasformarsi per il Pd in un labirinto. Un dedalo dove il partito di Pierluigi Bersani corre il pericolo di smarrire la sua identità riformista e moderata prima di averla formalizzata e conseguita. Mentre in Puglia a dare seriamente filo da torcere alla candidatura di Francesco Boccia c’è Nichi Vendola nel Lazio si assiste alla discesa in campo in grande stile di Emma Bonino. A dimostrazione che il pd oscilla tra candidati della sinistra radicale e candidati radicali di sinistra. a pagina 10

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• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Guerra al terrorismo. Anticipiamo un estratto dell’autobiografia del generale di Islamabad edita da Liberal edizioni

«Così si può battere al Qaeda» In un memoriale esclusivo, l’ex presidente pakistano Musharraf indica la strada per contenere il fondamentalismo islamico di Pervez Musharraf Pubblichiamo in queste pagine un’anticipazione del libro “Confini di fuoco” scritto dall’ex presidente pakistano Pervez Musharraf, edito in Italia da “Liberal edizioni”. ggi come oggi, i nomi del mullah Omar e di Osama bin Laden sono i più tristemente noti del mondo. La maggior parte del mondo li considera terroristi; per quelli a cui solitamente ci si riferisce come radicali, sono eroi carismatici. Per quasi tutti, rappresentano un enigma. Il mondo non sa quasi niente sulla natura e la biografia del mullah Omar, l’uomo a capo del regime talebano e che, secondo me, continua a dirigere quello che rimane dei talebani oggi. Sulla storia della vita di Osama bin Laden si sa un po’di più, almeno fino a cinque anni fa. Da quel momento in poi, per la maggior parte del mondo Osama è sparito dalla circolazione. Grazie a contatti diretti e ai servizi segreti, ora sono in grado di riempire qualche vuoto riguardante i due uomini. Durante il percorso, cercherò di chiarire alcune parti di quello che già sapevamo. È fin troppo noto che trarre «vantaggi a breve termine per pene a lungo termine» è temerario, però questo è esattamente ciò che è accaduto agli alleati nel jihad contro l’occupazione sovietica dell’ Afghanistan, non ultimi gli Stati Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita. Abbiamo contribuito a creare i mujaheddin, ad accenderne l’ardore religioso nelle scuole islamiche; li abbiamo armati, pagati, nutriti e mandati a combattere nel jihad contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, senza fermarci a pensare al modo di indirizzarli alla vita produttiva, dopo la vittoria del jihad. Questo errore, all’Afghanistan e al Pakistan è costato più caro che a qualsiasi altro Paese.

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Gli Stati Uniti non si rendevano nemmeno conto di quello che avrebbe potuto fare in se-

guito una persona ricca e colta come Osama bin Laden, servendosi dell’ organizzazione che tutti noi gli avevamo permesso di fondare. Quel che era peggio, gli Stati Uniti non avevano neanche preso in considerazione la ricostruzione e lo sviluppo dell’Afghanistan dopo il ritiro dei sovietici.

L’America aveva semplicemente abbandonato l’Afghanistan al suo destino, trascurando il fatto che un Paese disgraziatamente povero e instabile, armato fino ai denti con le armi più sofisticate e lacerato dai signori della guerra, sarebbe potuto diventare un paradiso ideale per i terroristi. Gli Stati Uniti ignoravano anche quello che sarebbe potuto accadere in

religioso o ideologico per realizzare i propri obiettivi, si deve prendere in considerazione il fatto che questi possano usarci per attuare i loro disegni e che stiano dalla nostra parte solo temporaneamente, per proprie ragioni tattiche. Nel caso del mullah Omar lo scopo era quello di raggiungere il potere in Afghanistan. A Osama bin Laden invece interessava ricevere il supporto dell’America, del Pakistan e dell’Arabia Saudita per fondare al Qaeda, ottenere fondi e armi e infine assicurarsi una base da cui operare. In situazioni simili, chi usa chi diventa poco chiaro. Noi – vale a dire Stati Uniti, Pakistan, Arabia Saudita e tutti quelli che si erano alleati con noi nel jihad afgano – avevamo creato il nostro mostro di Frankenstein. I talebani non erano un fenomeno nuovo, post-sovietico. Avevano avuto gli stessi maestri e avevano studiato nelle stesse scuole coraniche che avevano sfornato i mujahed-

jihad, si unì a un paio di organizzazioni di mujaheddin, una dopo l’altra. Si racconta che nel corso di una battaglia sia rimasto gravemente ferito a un occhio e che dopo esserselo tolto da solo con un coltello (senza anestesia), si sia ricucito la palpebra. Secondo altre fonti, sembra che sia stato curato in un ospedale di Peshawar e che l’occhio sia stato tolto chirurgicamente. Naturalmente molti preferiscono credere alla prima versione eroica, che ha contribuito alla leggenda del mullah Omar.

In seguito al ritiro dei sovietici nel 1989 e fino al 1994, il mullah Omar divenne l’imam di una moschea in un piccolo vildel distretto del laggio Maiwand, a ovest di Kandahar. È stato testimone del caos in cui si ritrovò l’Afghanistan dopo la presa di Kabul da parte dei mujaheddin, nell’aprile del 1992, con parecchi signori della guerra che controllavano diverse parti del Paese. La gente si

Gli Stati Uniti non si rendevano conto di quello che avrebbe potuto fare in seguito una persona ricca e colta come Osama bin Laden

Pakistan, ora che l’eroina dilagava nel Paese ed eravamo anche pieni zeppi di armi tra le più letali. Ancora peggio, l’America ci aveva imposto sanzioni economiche secondo l’Emendamento Pressler, negativamente influenzato nei nostri confronti, approvato nel 1985, che vietava sostegno economico e militare al Pakistan a meno che, di anno in anno, il presidente degli Stati Uniti non attestasse che il Pakistan non possedeva bombe. Non riesco a pensare a un modo migliore di perdere amici. Comunque io ritengo che il nostro sbaglio più grande sia stato di dimenticarci che quando si contribuisce a organizzare e a impiegare persone infervorate da uno straordinario ardore

din. Quando avevamo appoggiato i talebani, era stato per buoni motivi: prima di tutto, avrebbero dovuto portare la pace in Afghanistan riportando all’ordine i signori della guerra; in secondo luogo, l’affermazione dei talebani avrebbe implicato la sconfitta dell’Alleanza del Nord, anti-Pakistan. Non c’era niente di sbagliato nelle nostre intenzioni, a parte il fatto di non esserci resi conto che una volta che i talebani ci avessero usato per arrivare al potere, noi avremmo perso influenza su di loro.

Il mullah Muhammad Omar è nato nel villaggio di Nauda, presso Kandahar, a quanto si dice nel 1959. Ha quattro mogli e quattro figli – due maschi e due femmine. Nell’agosto del 1999, una delle figlie rimase uccisa nell’esplosione di una bomba. Il mullah Omar è stato in Pakistan per due settimane come comune soldato di fanteria, all’inizio del jihad afgano contro i sovietici. Durante il

sentiva poco protetta da omicidi, stupri, furti ed estorsioni. Il movimento talebano ebbe inizio nel Maiwand, nel giugno del 1994. Acquistò forza alquanto inaspettatamente, soprattutto per il fatto che in quella zona non esisteva una legislazione. Fu scatenato da un unico incidente: erano stati rapiti due ragazzi, poi violentati brutalmente e uccisi da un gangster afgano, rivelatosi comandante del posto di controllo fuori da Kandahar, e dai suoi colleghi. La gente, ormai disperata, iniziò naturalmente ad agitarsi, cominciando a protestare con forza. Allora, il mullah Omar e la sua esigua e sconosciuta banda di talebani si precipitò al posto di controllo, disarmò quei delinquenti e ne uccise alcuni. I talebani furono considerati come protettori degli indifesi contro signori della guerra violenti e ufficiali locali pericolosi. A quel punto cominciarono a ripulire diverse zone e la loro fama si diffuse rapidamente. Si unirono a loro molti

seguaci provenienti dallo stesso Afghanistan e da certe scuole islamiche del Pakistan, soprattutto dalla Provincia della Frontiera di Nord-Ovest, dal Balochistan e da Karachi. Il mullah Omar venne nominato amir – leader – dei talebani, nell’ottobre del 1994. Nel 1996, un’imponente assemblea, chiamata anche shoora, composta da 1.500 dotti religiosi, tenutasi a Kandahar, lo nominò amir-ulmomineem o «capo dei fedeli». In quell’epoca, dopo una pronta offensiva, i talebani occupavano già il 90 per cento dell’Afghanistan. L’arrivo sulla scena dei talebani, fu una reazione spontanea al disordine e alla mancanza di una legislazione in Afghanistan, una reazione causata dalle atrocità commesse dai precedenti capi mujaheddin, dai signori della guerra e da comandanti locali. Nonostante il movimento fosse iniziato in patria, il governo pakistano di Benazir Bhutto cercò di prendersi il merito di averlo fondato, sviluppato e lanciato, con la speranza che il rapido successo militare talebano arrecasse vantaggi politici al Pakistan. Il ministro degli Interni di Benazir Bhutto, il maggior generale Naseerullah Babur (in pensione), iniziò a chiamare candidamente i talebani «figli miei». Solo più avanti, quando i «suoi figli» diventarono disobbedienti, il governo di Benair Bhutto li rinnegò. La verità è che all’inizio, i talebani non chiesero né ricevettero aiuto dal Pakistan.

Ho il sospetto che gli Stati Uniti non disapprovassero il fenomeno talebano per lo stesso nostro motivo; gli americani avevano la speranza che i talebani potessero portare pace e stabilità in Afghanistan. Può darsi che il governo dell’Arabia Saudita e quello degli Emirati Arabi Uniti (Eau) abbiano aiutato, con discrezione, i talebani. Mentre i cittadini lo abbiano fatto apertamente attraverso donazioni. A causa dell’impasse tra le fazioni tribali belligeranti, le potenze occidentali in generale e gli Stati Uniti in particolare, accolsero l’urgenza di una «terza forza», sperando in un ritorno alla normalità. Poi, quando in seguito restarono delusi, fu facile per loro dissociarsi dai talebani.


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L’ex presidente pakistano Pervez Musharraf. Nella pagina a fianco, la copertina della sua autobiografia “Confini di fuoco”

Per noi non è stato così. I talebani erano tutti pukhtoon, provenienti da una zona al confine con la Frontiera di Nord-Ovest del Pakistan e dalle province del Balochistan che hanno anche una popolazione di etnia pukhtoon. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo forti legami etnici e familiari con i talebani. L’Alleanza del Nord, invece, si opponeva ai talebani; ne facevano parte i tagiki, gli uzbeki e gli hazara, spalleggiati da Russia, India e Iran. Il governo pakistano come avrebbe potuto essere favorevolmente incline all’Alleanza del Nord? Una posizione simile, per il Pakistan avrebbe potuto significare contrasti gravi e problemi di sicurezza interna.

Abbiamo invitato parecchie volte in Pakistan il mullah Omar dopo la sua ascesa al potere ma lui si è sempre rifiutato di venire, con la scusa che il suo Paese era in guerra. Gli abbiamo anche proposto di partecipare a un umra, un breve pellegrinaggio alla Mecca, ma lui ha declinato anche questa offerta. Ha sempre incontrato delegazioni dei nostri servizi segreti ma non ha mai consentito a nessuno dei suoi comandanti di interagire con noi; diceva che erano sempre impegnati in operazioni. Perciò i nostri rap-

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porti con i talebani non sono mai stati facili; di fatto, furono alquanto disagevoli. Noi non potevamo fare altro che stare a guardare con orrore mentre i talebani mettevano in atto gli abusi peggiori in Afghanistan, violando così i diritti umani, dietro il pretesto della loro particolare interpretazione dell’Islam, interpretazione che la maggior parte dei musulmani rifiuta e che attribuisce cattiva fama a una grande religione. Una volta, i giocatori di una squadra di calcio pakistana ospite furono arrestati dal governo talebano perché, durante la partita, avevano indossato pantaloncini corti; per punizione, gli fu rasata la testa. I talebani non permettevano alle donne di uscire di casa, neppure per recarsi al mercato e le ragazze non potevano frequentare la scuola. Torturavano gli adulteri e uccidevano i nemici. Una volta hanno rinchiuso svariati iraniani in un container, lasciandoli a morire di fame e a soffocare, poi, alla fine, gli hanno sparato con i kalashnikov attraverso le pareti del container. La prima volta che il Pakistan ha interagito ufficialmente con il mullah Omar è stato durante l’ultima settimana del mese di ottobre del 1994, in un posto chiamato Spin Boldak,

Il popolo pakistano ha forti legami etnici e familiari con i talebani. L’Alleanza del Nord, invece, si opponeva ad essi

sul confine tra Pakistan e Afghanistan. Lo scopo dell’incontro era di cercare un percorso sicuro per un convoglio umanitario pakistano. L’incontro ebbe luogo in uno spazio operativo, durante un combattimento contro alcuni comandanti mujaheddin. All’inizio Omar rifiutò apertamente, a causa della battaglia in atto lungo il tragitto ma verso il termine dell’incontro acconsentì con riluttanza. In seguito il convoglio venne dirottato, comunque non dai talebani.

Dopo l’arrivo di Osama bin Laden a Jalalabad, nel sud dell’Afghanistan, nel maggio 1996, gli arabi di diversi Paesi che erano partiti dopo il jihad afgano iniziarono a ritornare per unirsi a lui. Sapevano già chi era, dai giorni del jihad, e appoggiavano anche il movimento Talebano che si stava affermando rapidamente. Molto presto iniziarono ad arrivare in Afghanistan uzbeki, bengalesi, ceceni, uiguri cinesi e musulmani provenienti da India, Europa, America e perfino dall’Australia, per sostenere la causa talebana. La Al Rasheed Trust, con base in Pakistan, è stato uno dei supporti fondamentali del movimento talebano, fornendo aiuti logistici e mediatici da Karachi. Il 19 set-

tembre 1998, il nostro responsabile generale dell’Inter Services Intelligence e il principe Turki Al Faisal, che allora era il capo dei servizi segreti sauditi si è incontrato con il mullah Omar a Kandahar. L’incontro avvenne in seguito al bombardamento dell’ambasciata americana in Kenya e in Tanzania, per mano di al Qaeda.

Il principe informò il mullah Omar che Osama bin Laden era coinvolto nell’attentato e lo mise al corrente dei suoi piani, che fortunatamente erano stati scoperti e sventati, di far saltare in aria il consolato americano a Gedda. Inoltre, ricordò a Omar che tre mesi prima, nel giugno 1998, i talebani si erano impegnati fortemente con l’Arabia Saudita, attraverso il principe, a espellere dall’Afghanistan Osama bin Laden e a consegnarlo ai sauditi. Invece non avevano fatto niente. Il principe ricordò anche al mullah Omar che Osama bin Laden aveva promesso ai talebani che non avrebbe preso parte ad attività terroristiche mentre si trovava in Afghanistan. Tale promessa fu smentita durante una conferenza stampa a Khost nel 1998, dove Osama si vantò di ispirare la gente a compiere atti terroristici. Osama era stato anche la mente dell’agitazione in Arabia Saudita. Comunque i talebani non l’avevano ancora consegnato all’Arabia Saudita come invece si erano impegnati a fare. Il responsabile generale dei nostri servizi segreti fece anche notare al mullah Omar che sia il Pakistan che l’Arabia Saudita avevano appoggiato apertamente il jihad in Afghanistan contro i Sovietici. Il consiglio più sincero che potesse dargli era o di espellere Osama dall’Afghanistan, o consegnarlo al governo del suo Paese d’origine. Gli disse anche che i legami di Osama all’interno del Pakistan erano fonte di grande preoccupazione. Se i talebani si dissociavano da Osama, sarebbe stato più facile che altri Paesi riconoscessero la loro organizzazione. Il mullah Omar sorprese sia il principe che il nostro responsabile generale, rispondendo che lui non aveva fatto nessuna promessa all’Arabia Saudita, dando in questo modo del bugiardo al principe. Si lanciò in una litania di proprie lamentele, affermando che il suo governo era tremendamente sotto pressione, che nessun altro Paese avrebbe dato asilo a Osama e che doveva fronteggiare la minaccia dell’Iran che stava appoggiando l’Alleanza del Nord contro i talebani. Si lamentò anche del fatto che il governo saudita avrebbe dovuto dargli una mano in un simile frangente, invece di fargli pressione per Osama, contribuendo così a rincarare la dose.


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Le nuove misure di sicurezza sono degne dell’ispettore Clouseau

Ai nostri aeroporti oggi servono personalizzazione e intelligenza, non body scanner di Daniel Pipes

Fino a quel momento il principe era rimasto tranquillo. Ora iniziava a perdere la calma. Puntò il dito contro Osama e questo non andò giù molto bene al mullah Omar e ai talebani di guardia, una ventina circa, che si trovavano nella stanza. Il mullah Omar si alzò in piedi all’improvviso e uscì infuriato dalla stanza. Omar ritornò alcuni minuti dopo, con i capelli grondanti e la camicia inzuppata d’acqua. «Sono andato nell’altra stanza e mi sono buttato dell’acqua in testa per calmarmi», disse al principe. «Se lei non fosse stato mio ospite, le avrei fatto qualcosa di grave». Omar fece la proposta di formare un consiglio di dotti islamici provenienti dall’Afghanistan e dall’Arabia Saudita per decidere il destino di Osama. Era fermamente contrario alla presenza di truppe americane sul suolo saudita, di cui si lamentava anche Osama e asserì che tutti i musulmani avrebbero dovuto unirsi per liberare il regno. Disse anche che la generazione di sauditi più vecchia aveva una grande dignità e non avrebbe mai permesso l’entrata dell’America in terra sacra.

Accusò l’Arabia Saudita e il Pakistan di dargli soltanto l’uno per cento di contributo in quella che lui chiamava «la crisi Osama». Sostenne di essere in possesso di una promessa scritta da parte di bin Laden di non violare la fiducia dei talebani, quindi di non impegnarsi in nessuna attività di militanza sul suolo afghano. Il principe si infastidì ancora di più e accusò Omar di aver offeso il popolo saudita, i religiosi dotti sauditi e la famiglia reale. Disse che non avrebbe tollerato un ulteriore disonore. Se i talebani fossero mai entrati in Arabia Saudita con intenzioni nefaste, lui sarebbe stato il primo a combatterli. A quel punto si alzò in piedi, salutò dicendo

entre le mani sono esauste in seguito alla mancata tragedia sul volo della Northwest Airlines che stava per atterrare a Detroit, mi viene in mente una conversazione tenutasi all’aeroporto londinese di Heathrow nel 1986. In quell’occasione un agente addetto alla sicurezza della El Al pose delle domande a una certa Ann-Marie Doreen Murphy, una 32enne da poco arrivata a Londra da Sallynoggin, in Irlanda. Mentre lavorava come cameriera all’Hilton Hotel in Park Lane, la Murphy conobbe Nizar al-Hindawi, un palestinese di estrema sinistra che la mise incinta. Dopo averle ordinato di “sbarazzarsi della cosa” l’uomo cambiò improvvisamente tono e insistette perché si sposassero subito in “Terra Santa”. Egli pretese altresì che viaggiassero separati. La Murphy, in seguito descritta dall’avvocato dell’accusa come una «una ragazza irlandese sempliciotta, spontanea e cattolica» accettò fiduciosamente i piani di Hindawi perché lei si recasse in Israele su un volo della El Al del 17 aprile. Ella accettò anche di portare con sé una valigia con le ruote dota-

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wa salaam, e se ne andò. Stavolta era il mullah Omar a essere sbalordito. Lui stava cercando di guadagnarsi il favore della massa, con le sue guardie e con gli altri talebani che gli stavano intorno.

Domandò cosa fosse accaduto. Il responsabile generale dei nostri servizi segreti gli spiegò che sembrava che il principe non volesse più continuare la discussione e quindi se n’era andato, dirigendosi all’aeroporto. Il mullah Omar però non aveva ancora capito che si era fatto nemico uno dei pochi popoli che avrebbe potuto veramente aiutare i talebani a districarsi dalla situazione complicata creatasi con la presenza di Osama bin Laden in Afghanistan.

Effettivamente, il mondo intero aveva commesso l’errore di non aver riconosciuto il regime talebano e di aver stabilito le ambasciate a Kabul. Io avevo proposto un approccio diverso, chiedendo a diversi importanti leader mondiali di riconoscere i talebani. In questo modo, avremmo potuto esercitare una pressione collettiva su di loro per farli cambiare. Se settanta o ottanta Paesi avessero stabilito le loro ambasciate a Kabul, forse saremmo riusciti a esercitare una certa influenza su di loro. Ho prospettato questa possibilità al presidente Bill Clinton e all’allora principe della Corona (ora re) dell’Arabia Saudita Abdullah bin Abdul Aziz e allo sceicco degli Emirati Arabi Uniti Zayed bin Sultan Al Nahyan. Il principe Abdullah si

ta di doppiofondo e contenente circa 2 chilogrammi di Semtex, un potente esplosivo al plastico, facendosi istruire dall’uomo su come avrebbe dovuto rispondere alle domande poste dalla sicurezza dell’aeroporto. La Murphy riuscì a superare con successo i normali controlli di sicurezza dell’aeroporto di Heathrow e raggiunse il cancello d’imbarco con la sua valigia, e lì venne sottoposta a delle domande da un addetto alla sicurezza della compagnia aerea El Al. Come ricostruito da Neil C. Livingstone e da David Hailey nel magazine Washingtonian, l’uomo iniziò a chiederle se avesse preparato personalmente i bagagli. La Murphy rispose di no. Poi le chiese quanto segue: «Qual è lo scopo del suo viaggio in Israele?» Ricordandosi delle istruzioni ricevute da Hindawi, la ragazza rispose: «Per una vacanza». «Lei è sposata, signorina Murphy?» «No». «Viaggia da sola?» «Sì».

«È il suo primo viaggio all’estero?»«Sì». «Ha parenti in Israele?» «No». «Deve incontrare qualcuno in Israele?» «No». «Ha organizzato la sua vacanza da

pessimo servizio a quella religione a cui teneva tanto. Siamo liberi di dire che l’Islam non è affatto così, che in realtà è una religione molto progressista, moderata e tollerante. Ma perché la gente del mondo dovrebbe prendersi il disturbo di abbandonare il proprio percorso e impiegare il proprio tempo prezioso per esplorare le fonti autentiche dell’Islam? Le persone giudicheranno l’Islam in base alle espressioni e alle azioni dei musulmani, specialmente quelle che condizioneranno direttamente la loro vita e non dalle proteste di accademici e moderati, per quanto possano essere motivate.

Dopo l’11 settembre avevo ben chiaro in mente che l’unico modo per evitare che gli Stati

Perché il governo del Pakistan ruppe con i talebani del mullah Omar

Lo shock dell’11 settembre Come si possono fare trattative con un uomo del genere? Era (e lo è ancora) troppo ancorato alle deformazioni dell’epoca, distaccato dalla realtà. Noi non potevamo abbandonare l’Afghanistan nelle mani dei talebani, ritrattando il riconoscimento e chiudendo la nostra ambasciata a Kabul. Dio sa se i talebani ci hanno provocato: una volta hanno dato fuoco alla nostra ambasciata e picchiato l’ambasciatore che dovette essere riportato in aereo in Pakistan, in barella. Una delle cose peggiori che hanno fatto i talebani è stata quella di far saltare in aria due gigantesche statue storiche di Buddha, che da secoli si trovavano in una località chiamata Bamiyan. La prima volta che Omar minacciò di farlo, il mondo non potè fare altro che rivolgersi al Pakistan perché cercasse di convincerlo a cambiare idea.

dimostrò molto critico verso il mullah Omar. Mi disse: «Non potrò mai unirmi a un bugiardo, io odio i bugiardi».

Così il compito di convincere il mullah Omar a non distruggere le statue fu lasciato a noi. Quando ci muovemmo da soli per trattare con lui nell’interesse mondiale, scoprimmo che era su un’altra lunghezza d’onda. Ci spiegò che Dio voleva che facesse esplodere le statue di Buddha perché negli anni aveva mandato tanta pioggia che aveva scavato grossi buchi alla base delle statue, per poterci collocare la dinamite. Questo era un segno dell’Onnipotente e le statue dovevano essere distrutte. Il mullah Omar non ci dette retta e – purtroppo – distrusse le statue. Anche questo episodio servì a mostrare un’immagine dell’Islam come di una religione egoista e insensibile. In realtà il mullah Omar aveva reso un

Uniti riversassero tutta la loro ira sull’Afghanistan e sui talebani, era portare in qualche modo allo scoperto Osama bin Laden e i suoi seguaci. Sicuramente, la mia preoccupazione principale era quale conseguenza diretta, provocata dall’intervento militare degli Stati Uniti contro i talebani, avrebbe subito il Pakistan. La soluzione per l’Afghanistan stava nel trattare la resa o l’estradizione di Osama. Iniziammo subito un dialogo, con la consapevolezza di disporre di un’opportunità veramente minima. Ora gli Stati Uniti e il mondo si rendevano conto di quanto fossero utili i rapporti diplomatici che esistevano tra il Pakistan e i talebani. In quel momento, la mia precedente strategia di mantenere rapporti diplomatici con i talebani per tentare di farli cambiare dall’interno, era ampiamente giustificata. Forse avremmo potuto avere succes-


prima pagina tempo?» «No». «Dove dimorerà durante il soggiorno in Israele?» «Al Tel Aviv Hilton». «Quanto denaro ha con sé?» «Cinquanta sterline». Il prezzo di una camera all’Hilton in quel periodo era di 70 sterline a notte. L’addetto alla sicurezza le chiese: «Ha con sé una carta di credito?» «Oh, sì», ella rispose, mostrandogli un identificativo per incassare assegni.

Fatto questo, l’uomo fece fare un ulteriore controllo al suo bagaglio e così venne scoperto l’esplosivo. Se l’El Al non avesse seguito le ordinarie procedure di sicurezza occidentali, 375 vite sarebbero state di certo spezzate da qualche parte nei cieli sopra l’Austria. In altre parole, se il complotto è stato scoperto lo si deve a un intervento non dovuto alla tecnologia, ma grazie a una conversazione, alla percezione, al buonsenso e (sì proprio così) al profiling. L’agente addetto alla sicurezza ha focalizzato la sua attenzione sul passeggero, e non sulle armi. Il controterrorismo israeliano tiene conto delle identità dei passeggeri; di conseguenza gli arabi vengono sottoposti a un controllo particolarmente severo. «In Israele, la sicurezza viene prima di tutto», spiega David Harris dell’American Jewish Committee. È ovvio che l’eccessiva fiducia, la correttezza politica e la responsa-

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bilità giuridica rendono un simile approccio impossibile in qualsiasi altro Paese occidentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, un mese dopo l’11 settembre il Dipartimento dei Trasporti ha diffuso delle linee-guida che vietavano al proprio personale di generalizzare sulla «propensione dei membri di qualunque gruppo appartenente a qualsiasi razza, etnia, religione o nazione di dedicarsi ad attività illegali». (Consiglio in tono semischerzoso alle donne che vogliono eludere un secondario controllo di sicurezza aeroportuale di indossare un hijab). Peggio ancora, prendiamo in considerazione l’impressionabile stupido bianco e le imbarazzanti misure prese dalla Transportation Security Administration (TSA), l’agenzia americana per la sicurezza dei trasporti aerei, ore dopo il fallito attentato di Detroit: niente più annunci da parte dell’equipaggio “riguardo alla rotta stabilita o alla posizione sulle città o i punti di riferimento” e disattivazione di tutti i servizi di comunicazione ai passeggeri.

Nell’ultima ora di volo, i passeggeri dovranno rimanere seduti, non potranno accedere al bagaglio a mano, né potranno “tenere in grembo coperte, cuscini od oggetti personali”. Alcuni equipaggi vanno ancora oltre, tenendo le luci della cabina accese per tutta

so nel caso in cui ci fossero state parecchie ambasciate a Kabul e se quindi si fosse esercitata una pressione collettiva sul mullah Omar. L’impatto dell’11 settembre non ha toccato minimamente né il mullah Omar, né i talebani. «È stata una punizione di Dio per le ingiustizie subite dai musulmani», fu il commento del mullah Omar. Dio era dalla loro parte e Osama bin Laden era un superuomo. Per questo, trattare con il mullah Omar risultò più difficile di quanto si potesse immaginare. Era come sbattere la testa contro il muro, visto che abbiamo una visione del mondo completamente opposta. Mentre io ritengo che si debba tentare di tutto per evitare la guerra con la morte e la distruzione che essa comporta, Omar pensa che morte e distruzione siano dettagli irrilevanti in una guerra giusta.

Come coloro che credono a una vita nell’aldilà e considerano transitoria l’esistenza temporale, gli estremisti religiosi come i talebani e al Qaeda ritengono che la morte, la morte «giusta», sia solo una conseguenza di poco conto. Allora morire diventa un martirio e il Paradiso è assicurato. La questione è su come mettersi d’accordo su quando una guerra si debba ritenere giusta e santa. Per le persone come me, è fondamentale che il primo dovere di un leader sia quello di proteggere il suo Paese, insieme alla vita e al decoro del suo popolo. Quelli come il mullah Omar ritengono che i beni terreni, compresa la vita stessa, siano secondari ai principi e alle tradizioni. Una di quelle tradizioni prevede la protezione di chi viene considerato ospite. Osama bin Laden e i suoi seguaci erano ospiti del mullah Omar e dei talebani, perciò la difficoltà stava in questo. Nonostante i tentativi, non riuscimmo a convincere il mullah Omar a con-

la notte e interrompendo i trattenimenti offerti durante il volo, vietando tutti i dispositivi elettronici e chiedendo ai passeggeri, durante l’ultima ora di volo, di tenere ben visibili le mani, senza bere né mangiare. Le cose vanno così male, come riporta l’Associated Press: «Una richiesta da parte di un assistente di volo che non si poteva leggere nulla (..) ha suscitato rantoli di incredulità e fragorose risate».

Ampiamente criticata per queste misure da ispettore Clouseau, la TSA ha deciso infine di aggiungere “dei controlli più severi” per quei viaggiatori in scalo o provenienti da 14 “Paesi [considerati] d’interesse”, come se la scelta di un individuo dell’aeroporto di partenza stia a indicare una sua propensione a lanciare attacchi suicidi. La TSA si lancia nel “teatro della sicurezza”, raffazzonando delle pseudo-misure che trattano tutti i passeggeri allo stesso modo piuttosto che rischiare di offendere chiunque concentrandosi sulla religione. L’approccio alternativo è l’israelizzazione, definita dal quotidiano Toronto’s Star come «un sistema che salvaguardia la vita e l’incolumità fisica senza infastidirvi a morte». Cosa vogliamo: teatralità o sicurezza?

segnare Osama alla scadenza imposta dal presidente Bush, il 7 ottobre 2001. Lo avvertimmo che il suo Paese sarebbe stato annientato ma lui non voleva capire. Secondo lui, i contingenti americani potevano essere battuti e in questo fu tratto in inganno dallo stesso Osama e da altri sconsiderati pensatori religiosi, anche in Pakistan.

Gli Stati Uniti iniziarono a bombardare massicciamente a tappeto l’Afghanistan il 7 ottobre. Contemporaneamente, l’Alleanza del Nord lanciava un’offensiva di terra. Dopo una breve resistenza organizzata, i comandanti talebani fuggirono verso la campagna e le montagne, da dove avrebbero condot-

Sono sicuro che il leader talebano si trovi nei dintorni della sua base originaria a Kandahar, nel sud dell’Afghanistan

to la guerriglia. Durante la prima settimana di dicembre del 2001, il mullah Omar, avendo intuito la sconfitta, fuggì su una moto Honda, in cerca di un posto dove nascondersi. Una volta, quando il primo ministro del Giappone Koizumi mi ha chiesto notizie del mullah Omar, gli ho risposto che era scappato su una moto Honda. Ho aggiunto scherzando che la migliore pubblicità per la Honda sarebbe stata una campagna che mostrava il mullah Omar che fuggiva su una delle loro moto, con vestiti e barba al vento. Da allora il mullah Omar non si è più sentito. Sono sicuro che si trovi nei dintorni della sua base originaria a Kandahar, nel sud dell’Afghanistan e lo dico con ragionevole certezza per due ragioni. In

primo luogo, da quando iniziò a fare la sua comparsa nel 1994, non è voluto venire in visita in Pakistan neanche una volta. Perciò, come potrebbe sentirsi a suo agio nel nostro Paese? In secondo luogo, oggi le roccaforti dei talebani sono le province del sud dell’Afghanistan. Tutte le aree rurali e la maggior parte delle città di tali province si trovano sotto l’influenza dei talebani che si spostano soprattutto di notte per non farsi localizzare. Non c’è dubbio che per il mullah Omar sia più comodo e più sicuro vivere e nascondersi con i suoi seguaci, in quella zona che conosce tanto bene e dove la sua presenza è gradita alla popolazione locale. La vecchia leadership afghana ha suggerito che possa trovarsi in Pakistan, a Quetta per la precisione. Una simile insinuazione è ridicola, se non addirittura malevola.

Se si fosse trovato a Quetta, sarebbe già stato catturato da tempo, come molti altri ex comandanti talebani. Comunque, con il progredire della guerra e la pressione delle forze della coalizione americana e quelle dell’Alleanza del Nord sui talebani e su al Qaeda, molti fuggirono e attraversarono il confine per rifugiarsi nelle regioni tribali del Pakistan e nelle città, causandoci non pochi problemi. Il fatto che il mullah Omar sia ancora vivo e libero e che i talebani non siano affatto finiti, ha scatenato l’idea, tra certi romantici, che lui abbia ispirato la sua gente rifiutandosi di piegarsi all’America. È facile pensarla così quando si ha la pancia piena, il conforto di una famiglia e una casa dove vivere, ma se si dovesse chiedere a un afghano di scegliere tra la propria famiglia, una casa e il cuore da una parte e la propria autostima dall’altra, sono sicuro che sceglierebbe la prima.


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Naturalmente l’altro fuggitivo famoso dalle montagne di Tora Bora è Osama bin Laden. Anche se il mondo sa molto di più di Osama che di Omar, vale la pena di parlare di alcuni dettagli della sua vita. Dopo l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, i musulmani di tutto il mondo vennero incoraggiati dagli Stati Uniti e dai sui alleati a ritrovarsi in Pakistan per unirsi ai mujaheddin afghani nel jihad contro l’Unione Sovietica. Nel 1982, un palestinese - Abdullah Azzam - insieme a un gruppo di leader spirituali, fondò un’organizzazione chiamata Maktaba al Khidmat, a Peshawar, in Pakistan.

Osama bin Laden era il braccio destro di Azzam. L’organizzazione aveva il compito di fornire sostegni finanziari, logistici e contributi di altro genere ai mujaheddin. Il grosso dei finanziamenti proveniva da Osama bin Laden, che apparteneva a una famiglia molto ricca. Naturalmente tutto questo non accadeva a vuoto; non si trattava neppure di un’iniziativa di pochi arabi. La Cia e i servizi segreti pakistani davano il loro contributo, incoraggiando la causa. Tuttavia, a metà degli anni Ottanta Osama bin Laden cominciò a pensarla diversamente dal suo mentore, Azzam. Non gli bastava più essere soltanto un finanziatore della causa; voleva anche combattere e diventare un mujahid. Invece di unirsi al gruppo dei mujaheddin afghani, mise insieme una sua formazione araba di poche centinaia di combattenti. Tutti quelli coinvolti nel jihad la chiamavano comunemente «brigata araba». Secondo Osama i combattenti afghani erano troppo pragmatici, del tipo che avrebbero abbandonato la battaglia se avessero subodorato la sconfitta, per poi tornare a combattere un altro giorno. I combattenti di Osama erano spinti da un ardore più profondo. Erano arrivati fin lì per combattere per Dio e per questo erano pronti al martirio. D’altra parte, era più probabile che gli afgani tornassero ai loro villaggi per seminare o mietere, per sposarsi, per partecipare a matrimoni o a funerali. Gli arabi non avevano nessun posto dove andare. Io però ho il sospetto che, oltre a questo motivo, Osama bin Laden volesse crearsi una propria identità, ben separata e distinta dai leader dei mujaheddin afghani. Nel 1986, Osama istituì la sua base vicino a un presidio sovietico in Afghanistan orientale, vicino al villaggio di Jaji, a circa sedici chilometri dal Pakistan. In una rara mostra di sé,

la chiamò Masada – «Tana del Leone» – penso per via del suo nome, dato che Osama significa leone. Nella primavera del 1987, Osama bin Laden affrontò una battaglia campale contro le forze sovietiche a Jaji. Se ne parlò in tutto il mondo e molti la esaltarono. È stato il primo incontro di Osama con la fama e deve essergli anche piaciuto. In questa battaglia avevano combattuto insieme a lui anche due militanti egiziani, Abu Hafs e Abu Ubaidah. In seguito fece presto amicizia con un medico egiziano, Ayman al Zawahiri, che lavorava a Peshawar e che iniziò a curare le ferite dei mujaheddin.

Il nome al Qaeda, «la base», venne usato per la prima volta dal Dr. Abdullah Azzam nell’aprile del 1988, in un articolo apparso sulla rivista Jihad. La sua idea era quella di fondare un’organizzazione che offrisse servizi sociali ai musulmani e funzionasse da base per il «risveglio musulmano». Lui non aveva mai intenso al Qaeda come base nell’ accezione milita-

sciando perdere «al Sulbah». Un anno dopo, il 24 novembre 1989, Abdullah Azzam venne assassinato. Si sospetta che dietro l’omicidio del suo mentore ci fosse Osama. Nel febbraio 1998, nove anni dopo la nascita di al Qaeda, Osama bin Laden costituì un’organizzazione minore che chiamò Fronte islamico universale, con lo scopo di combattere contro l’occupazione israeliana della Palestina. D’altra parte, al Qaeda è un’organizzazione estremista multinazionale di cui fanno parte membri provenienti da svariati Paesi, in particolar modo dall’Egitto. Vanta una presenza su scala mondiale, con i seguenti obiettivi: 1) Radicalizzare i gruppi islamici esistenti e crearne di nuovi dove non ce ne sono; 2) Fare proseliti; 3) Mandar via i soldati americani dai Paesi musulmani; 4) Contrastare i piani di Israele e degli Stati Uniti in Medio Oriente; 5) Appoggiare ovunque la lotta per la libertà

Africa, Europa, Stati Uniti, Regno Unito e Canada. Gli interventi sono decentrati e gli uomini, addestrati con intransigenza, tenuti in sospeso fino al momento opportuno di colpire. Oggi, dopo i tanti spostamenti che al Qaeda ha affrontato soprattutto in Pakistan, si dice sempre più che la sua nuova base e campo d’addestramento si trovino nella regione di Sahel, che si estende attraverso il cen-

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan, i musulmani di tutto il mondo vennero incoraggiati dagli Usa a ritrovarsi in Pakistan

tro dell’Africa, da est verso ovest. Al Qaeda sta assumendo una nuova forma dopo l’uccisione o la cattura dei suoi massimi leader. Alla base del suo rinnovamento c’è un’attività costante, tranne che al livello più alto. Da parte nostra abbiamo fatto

Riuscire a catturare il leader terrorista in fuga è ormai solo questione di tempo

mistero che noi, più di chiunque altro, siamo ansiosi di risolvere. Durante gli interrogatori sono venute fuori indicazioni circa la posizione di Osama. Ramzi bin al Shibh, considerato il ventesimo dirottatore dell’11 settembre, è fuggito illeso da Tora Bora ed è stato arrestato da noi in seguito a una sparatoria a Karachi, insieme a due cittadini birmani: Sayyid Amin e Abu Badr. Sotto interrogatorio, Amin ci disse di aver incontrato Osama bin Laden intorno al mese di giugno 2002, in una località sconosciuta.

Khalid Sheikh Mohammad (Ksm), il terzo rappresentante di grado più elevato di al Qaeda, che avevamo catturato a Peshawar, negò di aver incontrato Osama dopo l’11 settembre ma ci disse che Osama era vivo e in salute e che erano stati in contatto. L’ultima lettera che aveva ricevuto da Osama era arrivata per mezzo di un corriere. Disse anche che Osama, prima dell’Operazione Anaconda per trasferirsi da Tora Bora nel Waziristan, era stato aiutato da Jalal ul Din Haqqani; da due afgani, Mohammad Rahim e Amin ul Haq e dall’iraniano balochi Ahmed Al-Kuwaiti. Il 4 marzo 2003, Ksm riteneva che Osama fosse a Konar, in Afghanistan. Abu Faraj Al Libbi, il sostituto di Ksm, dopo il suo arresto, non più tardi del maggio 2005, ci ha raccontato di essere stato in contatto con Osama mediante un corriere e che l’ultima lettera che aveva ricevuto da Osama risaliva press’a poco a dicembre 2004. Noi, da parte nostra, ci impegniamo a continuare a intercettare i corrieri. Quando siamo andati sulle montagne del Waziristan e abbiamo interrotto la rete di comunicazioni di al Qaeda in Pakistan, abbiamo scoperto che il sistema di corrieri era fatto molto bene. È formato da quattro livelli, con settori distinti per le l’amministrazione, operazioni, il supporto dei media e la gerarchia più alta. I primi tre possono mandare e ricevere; il sistema dell’alto comando di al Qaeda invece è a senso unico, deciso dall’alto. La rete di corrieri amministrativi si occupa della comunicazione riguardante il movimento e il trasferimento delle famiglie e altre attività amministrative, oltre al flusso di informazioni dalle famiglie ai finanziatori e viceversa. Questa rete è gestita da una combinazione di corrieri afgani e pakistani.

Dove si nasconde Osama bin Laden re del termine. Infatti il nome per intero che Azzam aveva usato era al Qaeda al Sulbah, «la base sicura». Per Abdullah Azzam il jihad doveva servire a scacciare chi occupava i territori musulmani. Osama però voleva anche rovesciare i governi nei Paesi musulmani che lui considerava «apostati» e questo avrebbe provocato conflitti tra musulmani. Azzam non voleva averci niente a che fare, quindi si arrivò a una scissione tra i due. Osama bin Laden adottò il nome proposto da Azzam e fondò al Qaeda, la-

dei musulmani; 6) Mettere insieme tutte le risorse musulmane per la causa comune del jihad.

Al Qaeda comprende un consiglio consultivo o shoora da cui dipendono quattro commissioni: militare, mediatica, finanziaria e per questioni religiose. Si ritiene che disponga di cellule operative in circa quaranta Paesi, compresi gli Stati Uniti e il Canada. Le operazioni si concentrano principalmente in Afghanistan, Iraq, Arabia Saudita, Pakistan, Turchia, nel Sud-Est asiatico, Nord

di tutto per scovare Osama bin Laden ma lui ci è sfuggito.

Ultimamente, per mantenere i contatti, fa uso di corrieri invece di impiegare i mezzi elettronici di comunicazione. Chiaramente con questo sistema ci vuole molto più tempo per ricevere o mandare messaggi sulle montagne lungo il confine tra Pakistan e Afghanistan, occorrono infatti circa trenta giorni. Noi siamo riusciti a intercettare alcuni corrieri. La localizzazione di Osama e dei suoi complici più stretti è un

La rete di corrieri operativi, ha il compito di comunicare le istruzioni operative. In questo


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Il presidente americano denuncia “errori imperdonabili” nella lotta al terrore. Ma non fa nulla

Troppe parole, Mr Obama di Vincenzo Faccioli Pintozzi

e débacle vengono ammesse, le teste non cadono ma il tono sembra quello deciso di un capo di Stato vero: «Inaccettabile e intollerabile». Il mea culpa annunciato del presidente Barack Obama è durato pochi minuti, ma nel condannare con un duro comunicato le inefficienze dell’intelligence Usa, il presidente americano ha dato voce al malumore della base americana. Che si è risvegliata il giorno di Natale con l’incubo del terrorismo una volta di più sulle porte di casa. Il leader della Casa Bianca non ha calato però la mannaia, non ha chiesto la rimozione di alcuni fra i “considerati colpevoli” di quanto stava per avvenire sul volo Delta. Tuttavia oggi la stampa Usa

L

caso i corrieri vengono scelti con particolare attenzione. Tale procedimento garantisce la massima sicurezza, usando un sistema di parole d’ordine e di dispositivi; vale a dire che corrieri inconsapevoli vengono messi al posto di persone bene informate ogni volta che è possibile. La rete di corrieri per il

non reclama questo provvedimento, anzi la vicenda è quasi in secondo piano. Eppure l’amministrazione e il suo comportamento sono stati criticati sia dai repubblicani che da alcuni democratici.

L’opposizione repubblicana chiede la rimozione del segretario per la Sicurezza Interna Janet Napolitano, l’ex governatrice dell’Arizona. Obama ha anticipato una svolta nel sistema di sicurezza, ma nel suo annuncio si è limitato a qualche indicazione. In sostanza si tratta di aumentare i controlli su chi è sospettato di avere legami con l’estremismo islamico; gli aeroporti saranno dotati di strumenti più sofisticati (per esempio i famosi/famigerati “body scanner”). Tante parole dure, sin dalla sua elezione, ma troppi pochi fatti. Scuro in volto come poche volte in passato, Obama al termine del maxivertice di sicurezza ha ammesso di fronte alle telecamere che il sistema americano «ha fallito in maniera disastrosa» il giorno di Natale, quando il giovane estremista nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, noto ai servizi di sicurezza, si è imbarcato da Amsterdam verso Detroit e una nuova strage terroristica è stata evitata per un soffio su quel volo Delta Airlines. L’intelligence Usa aveva a disposizione tutti gli elementi per riconoscere il pericolo: «Non è stato un errore dettato dalla mancanza di informazioni, ma dal fatto che non siamo stati in grado di collegare gli elementi», ha detto Obama. Ma tutto questo non ha scosso più del necessario l’apparato governativo e, soprattutto, l’impegno americano in quella che rimane prepotentemente il vero problema del mondo: il terrorismo. Sicuramente, sono molto pochi coloro che possono dire di conoscere quale sia la politica anti-terrorismo di questa amministrazione. Lo scorso agosto, il capo della sezione dedicata alla prevenzione del terrore del governo Obama – John Brennan – ha attaccato la presidenza Bush colpevole a suo dire di «aver dato vita a una retorica tesa a infiammare, a un’iperbole e una debolezza intellettuale che ha spesso caratterizzato il dibattito sulle politiche di sicurezza nazionale del presidente». Brennan non ha mai, inoltre, evitato di criticare la gestione dell’anti-terrorismo durante gli otto anni successivi all’11 settembre. Eppure, più di un terzo di tutti gli attentati post-11 settembre sono avvenuti nel 2009: e questo nonostante si sia cercato in tutti i modi di condannare l’idea di “guerra al terrorismo” e aver teso più di una mano al mondo musulmano. Se guardiamo ai fatti, comunque, bisogna riconoscere che al momento attuale sia presente una sorta

supporto dei media viene usata per la propaganda e le motivazioni. Questi messaggi sono soprattutto sotto forma di cd, opuscoli, video, ecc., che spesso vengono recapitati alla rete televisiva Al Jazeera. Il quarto livello della rete di corrieri viene usato soltanto dai massimi leader di al Qaeda,

di schizofrenia da parte di Washington. Da una parte, la Casa Bianca ha condannato i protocolli di Bush ma li ha adottati: sono ancora attivi il Patriot Act, le intercettazioni, i rapimenti anche fuori dai confini nazionali, i tribunali speciali, gli attacchi con i Predator e le guerre in Iraq e Afghanistan. Dall’altra parte, però, Obama ha cercato di promuovere un vuoto simbolismo: ha promesso di chiudere Guantanamo, ha creato eufemismi come “operazioni contingenti oltre-mare” (un modo per non parlare di “guerra al terrore” e si è lanciata in crociate legali come quella contro la Cia. Per non parlare della prevenzione vera e propria: nel caso di Hasan e in quello di Abdul Mutallab, l’amministrazione ha mostrato una pericolosa confusione iniziale riguardo la natura del pericolo e dei limiti del sistema di sicurezza. L’annuncio dell’aumento delle truppe in Afghanistan e, in contemporanea, quello del ritiro dal Paese non hanno migliorato l’aspetto confusionario del tutto. Sembra che il governo di Obama abbia iniziato la sua corsa pensando che l’idea di “guerra al terrore” fosse arcaica; probabilmente, l’hanno ritenuta la scusa di Bush e Cheney per dividere la nazione con scopi politici. Dato il lungo periodo di calma dopo il l’11 settembre, la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, Obama ha preferito impegnarsi in politica interna e non sulla sicurezza nazionale. Pensava di poter limitare i danni con il carisma, l’appello al mondo islamico e la demonizzazione del suo predecessore.

Janet Napolitano resta al suo posto, insieme ai responsabili della sicurezza del volo Delta. Questo modo di fare non può durare

che evitano di passare messaggi scritti, tranne quando non possono farne a meno, come nel caso delle lettere a Ksm e a Libbi. Di solito, i leader fanno memorizzare i messaggi della gerarchia operativa di al Qaeda ai corrieri migliori e più affidabili, che poi li riferiscono parola per parola.

A sue spese, però, è stato costretto a scoprire che esistono veramente delle minacce da parte dell’islam radicale e che i sette anni record di pace ottenuti da Bush non erano soltanto casuali. Inoltre, si è dovuto accorgere che la “guerra buona”, quella afgana, sta peggiorando. La Casa Bianca ha intrapreso la strada giusta, imitando le operazioni di sicurezza interna ed esterna volute da Bush, ma sta mascherando il tutto con dichiarazioni di facciata che calmino la base liberal dell’elettorato. Tutto questo può essere però lo stesso pericoloso: il mondo islamico, sempre molto attento a dichiarazioni di forma e sostanza, potrebbe vedere in questa discrasia una crepa fondamentale nell’atteggiamento statunitense. Gli errori nei sistemi di sicurezza e il rilassamento nelle procedure di controllo faranno il resto. Nonostante l’arresto ieri di Mohammed al-Hanq, il leader di al Qaeda nello Yemen ormai nuova frontiera della guerra, è sempre più evidente che i terroristi islamici continuano ad avere il coltello dalla parte del manico. Un coltello che mette a rischio gli uomini della coalizione internazionale in Afghanistan, i civili di tutto il mondo occidentale e tutti coloro che - come i cristiani - vengono nel mondo arabo accostati agli Stati Uniti. Servono più che bei proclami, per riprendersi questo coltello: Obama sembra accorgersene con una punta di lentezza, ma se a questa dovesse seguire una svolta, sarebbe un prezzo tollerabile. Ma ogni giorno che passa, aumenta.

Riuscire a catturare bin Laden è solo questione di tempo. Non è ben accolto da nessuna delle tribù che vivono nell’area tribale del Pakistan e non raccoglie neanche simpatie in quella zona. Secondo me, non fa che spostarsi avanti e indietro da qualche parte lungo il confine tra Pakistan e Afghanistan. Il

fatto che nella zona di Konar ci siano così tanti sauditi, potrebbe far pensare che il nascondiglio di Osama bin Laden sia da quelle parti ma non possiamo esserne certi. Ho affermato, quasi per scherzo, che spero che non venga catturato in Pakistan, da soldati pakistani.


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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Grasso, Frittella e la libreria della discordia ldo Grasso e Marco Frittella se le danno di santa ragione. Il primo è il critico televisivo del Corriere della Sera, il secondo è un giornalista del Tg1 che un tempo “scriveva” la nota politica del telegiornale - forse lo farà ancora o no, non ve lo so dire, guardo poco il Tg1 - e ora cura la rubrica di libri che si chiama “Billy”. E qui nasce il busillis. Già, perché il critico televisivo è intervenuto due volte sul suo giornale prima chiedendosi perché il nuovo direttore del Tg1 - Augusto Minzolini, detto Minzo ha cambiato il nome della rubrica che prima si chiama “Benjamin” e ora “Billy” e poi, in un successivo articolo, ha scoperto che il nome “Billy” è un riferimento alla libreria della Ikea.

A

Dunque, se prima la rubrica si chiamava “Benjamin” e il riferimento era al filosofo tedesco e la rubrica, condotta dall’ex direttore del telegiornale Riotta aveva anche, ma non solo, un intento di critica libraria se non letteraria, ora la rubrica con il suo nuovo nome “Billy” ha una funzione un po’ più modesta perché non valuta e critica ma si limita a segnalare dei libri, dà dei consigli, anche se Grasso aggiunge che consiglia soprattutto libri di colleghi e altri giornalisti (la cosa potrebbe essere verosimile, non la posso confermare perché non ho mai visto “Billy”, la rubrica, non la libreria: mi sembra, infatti, di averla vista, la libreria, una volta a casa di mio fratello). La cosa potrebbe anche finire qua. Sennonché Frittella ha fatto la frittata. È andato in video e prima di consigliare i libri del momento ha fatto una lezioncina a Grasso, lo ha chiamato parruccone e gli ha dato anche dello snob, ma non lo ha mai chiamato con il suo nome: Aldo Grasso. Era abbastanza arrabbiato Frittella mentre spiegava la filosofia di fondo che c’è nel nome “Billy”. Naturalmente, non ho visto la inviperita critica di Frittella in diretta - mi è davvero dispiaciuto non vederla perché sarebbe stato più divertente - e sono riuscito a gustarmela solo sul sito del Corriere della Sera. A presentarla è proprio quello “snob parruccone” di Grasso, il quale da parte sua cita sì Frittella, ma lo chiama così: «Questo uomo, che si chiama Marco Frittella…» e via così. Il critico del Corriere, che giustamente si meraviglia del grande clamore dei suoi articoli e della risposta del Frittella in diretta sul Tg1, è consapevole che tutta la polemica non vale la candela e che ognuno è libero di chiamare una rubrica libraria come cavolo vuole, anche, volendo, “Giuseppe” o “Mario”; tuttavia, anche per fare un dispettuccio al Frittella si rivolge direttamente al direttore Minzo e al direttore generale della Rai e chiede: ma non sarebbe meglio non fare pubblicità con il Tg1? A questo punto, aspettiamo la risposta di “Billy” che forse sarà data direttamente dal direttore, mentre Frittella rimpiange il tempo in cui imbastiva i suoi più innocui pastoni politici davanti Palazzo Chigi con il sole o con la pioggia (sotto l’ombrello).

AAA: cercasi via d’uscita dal «Lombardo-ter» Si fa sempre più assurda (e dannosa) la situazione in Sicilia di Alfonso Lo Sardo a strana ammucchiata che ha portato alla formazione in Sicilia del Lombardo-ter comincia a prendere forma e sostanza e a nutrirsi di quell’unico ingrediente che è dato dal più bieco trasformismo e dalla mera gestione del potere. Il fronte unico dell’Mpa, partito del governatore, del Pdl Sicilia di Miccichè e Dell’Utri e del Pd di Cracolici e Lumia si compatta, ma è anche vero che a compattarsi è il fronte avversario e che la tanto annunciata trasmigrazione di deputati e amministratori dei vari enti locali in direzione di Lombardo e di Miccichè non si è materializzata. L’Udc infatti, che tutti i sondaggi danno in crescita nell’Isola, rimane l’unica forza di opposizione, in compagnia del Pdl ufficiale, ossia quello di Alfano e Schifani e la minaccia che viene riesumata a intervalli regolari dal sottosegretario Miccichè di costituire il Partito del Sud, non solo non fa più paura a nessuno ma ha finito col diventare poco più di una barzelletta, utile a giustificare la decomposizione in atto del Pdl in Sicilia che lui stesso ha condotto, ed è per questo che probabilmente in Sicilia il dopo Berlusconi è iniziato prima che in altre parti del Paese.

L

sta», e che non tiene conto delle diverse soluzioni e programmi di cui i diversi partiti sono espressione e portatori. Ma tant’è: la priorità è che Lombardo rimanga Presidente della Regione anche e soprattutto in assenza di una maggioranza legittimata dal voto degli elettori, ed è oltremodo importante che venga preservato il sistema di potere che Lombardo ha sapientemente costruito, disinteressandosi delle vere emergenze dell’Isola.

Da quella del sistema rifiuti al collasso al blocco della spesa comunitaria, dalla riforma sempre annunciata della formazione professionale ai mancati aiuti alle famiglie ed alle piccole e medie imprese, con una realtà economica di recessione e con settori produttivi come quello dell’agricoltura, dell’artigianato e del terziario letteralmente in ginocchio. L’onorevole Saverio Romano, segretario Udc Sicilia e responsabile nazionale Organizzativo lo va ripetendo da diverso tempo: «Se il Partito democratico intende sostenere l’attuale governo solo al fine di varare le necessarie riforme, dica subito quali sono gli obiettivi da conseguire e un minuto dopo si vada alle urne perché la Sicilia non può permettersi un presidente della regione come Lombardo, che ha già prodotto diversi danni e che per questo deve andarsene prima possibile». Ma negli ultimi giorni l’alleanza di potere tra le tre anime del governo si consolida, checché ne dica il fronte interno al Pd costituito da Rita Borsellino, da Enzo Bianco e da quei deputati regionali che non vogliono avere nulla a che fare con Lombardo, Miccichè e Dell’Utri, e che già ora non sanno che cosa rispondere ai propri elettori che non ci capiscono più niente. Ma per capire l’assurdità del quadro politico che si è venuto a creare in Sicilia, possono essere utili le parole del presidente dell’Assemblea regionale Francesco Cascio, autorevole esponente Pdl, che sottolinea come «il fatto che Berlusconi non si sia pronunciato sul caso Sicilia può significare due cose, o che non se vuole interessare o - come ritengo io - che avalla l’attuale evoluzione». E se nemmeno Silvio Berlusconi intende esprimersi sulla spaccatura in due del proprio partito in Sicilia, vuol dire che teme di rimanere inascoltato o di alienarsi le simpatie di quella fazione cui dovrebbe dar torto.

Continua il caos nella Regione, dovuto alle solite logiche di potere volute dal governatore. Il tutto, nel silenzio di Berlusconi...

Qui infatti ci sono molti big che si contendono la leadership del partito. Ma stiamo ai fatti e allora ricordiamo che il neonato governo Lombardo-ter nasce con la complicità del Pd, visto che in aula non vi era più una maggioranza in favore del governatore e si è giustamente gridato allo scandalo o al ribaltone: una forza di opposizione infatti, il Pd, dichiarava che avrebbe assicurato ai 30 deputati su 90 su cui poteva già contare Lombardo, il proprio sostegno. Un vero e proprio ribaltone. E non è un caso che il vescovo di Palermo, monsignor Paolo Romeo abbia condannato l’operazione politica e stigmatizzato l’immobilismo di Lombardo e della sua giunta di fronte ai gravi problemi siciliani, non ultimo quello della Sicilfiat di Termini Imerese vicina alla definitiva chiusura. A condire il tutto l’asse che già si era realizzato tra il ribelle Miccichè e il presidente della Regione. Una operazione politica la cui portata solo il lessico forbito del leghista Calderoli può esprimere e che infatti ha tutta la connotazione di una «porcata». Passa quindi il principio ribadito più volte da Raffaele Lombardo del «governo con chi ci


panorama

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Berlusconi torna a promettere l’abbassamento della pressione fiscale per il 2010. «Ma la priorità resta la giustiza»

Il premier rilancia: «Meno tasse per tutti» «Speriamo che l’opposizione collabori, altrimenti andremo avanti da soli nelle riforme» di Federico Romano l 2010 sarà l’anno delle riforme. Partiremo con quelle della giustizia, poi proseguiremo con la scuola e soprattutto con un programma di riforma fiscale per ridurre le tasse». Così Silvio Berlusconi ha spiegato la prossima agenda politica del Governo in un collegamento telefonico con gli europarlamentari riuniti a pranzo nell’hinterland torinese . «Andremo avanti con determinazione e senza esitazioni», ha detto il presidente del Consiglio, ricordando agli esponenti del Pdl come l’appuntamento delle Regionali sia una prova decisiva «in questo momento difficile dove il terrorismo internazionale è tornato a farsi sentire. Noi dobbiamo essere uniti e fare da esempio. Dobbiamo essere il partito dell’amore che combatte contro chi diffonde odio».

«I

Berlusconi ha spiegato agli europarlamentari di trovarsi in Provenza, a casa di sua figlia Marina. «Ho dei figli eccezionali tutti noi dobbiamo coltivare ideali di vicinanza alla famiglia». Berlusconi si è detto pronto al rientro. «Sono stanco di così tanto riposo...», ha scherzato il premier. Il pranzo

Caro Presidente, non sia solo l’ennesimo annuncio razie, signor Presidente del Consiglio. Grazie per avere detto, annunciato e promesso che il governo da Lei presieduto abbasserà presto le tasse. Grazie per averlo detto e promesso poiché noi ci crediamo profondamente, e ci crediamo perché di quella benedetta e sacrosanta riduzione ne abbiamo davvero bisogno, persone, famiglie e business. Grazie per averlo detto e promesso giacché non abbiamo alcun motivo per dubitarne, di pensare cioè che la Sua sia solo una promessa da marinaio, una frase di circostanza pronunciata per carpire qualche voto in più alla prossima tornata elettorale, un irritante specchietto per le allodole. Grazie per averlo detto e promesso poiché la drastica riduzione di quella pressione fiscale che tutti ci funesta l’aspettiamo da un pezzo, l’attendiamo dal “magico”1994 della sua discesa in campo, la vogliamo e ancora non è giunta. Grazie per averlo detto e promesso giacché Lei sa bene che è possibilissimo alleggerire le imposte che gravano sui cittadini senz’affatto mandare in malora un Paese, anzi l’esatto contrario, lanciarlo in una spirale virtuosa di sviluppo e di benessere per tutti, come alla grande dimostrò nel 1981, compiendo un gesto storico, il presidente degli Stati Uniti Ronald W. Reagan (lo cito perché so che il “giro mentale”di quel formidabile leader non le è estraneo), e pensi che per certuni Reagan avrebbe persino potuto fare di più. Grazie di averlo detto e promesso poiché lei sa bene che chi di riduzione delle tasse ferisce di riduzione mancata delle tasse perisce, fu questo infatti il triste Marco Respinti caso di George Bush sr.

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è stato organizzato dal capo della delegazione del Pdl, nel Ppe, Mario Mauro. Il premier ha lodato Mauro per le battaglie che sta portando avanti il partito: «Ora - ha detto ancora il Cavaliere agli europarlamentari - dovete impegnarvi tutti in campagna elettorale. Anch’io sono pronto per le Regionali». Il premier infine ha negato frizioni nel Pdl che secondo lui semplicemente non ci sarebbero. La Sicilia? «Non è una situazione preoccupante - ha risposto Berlusconi ad una domanda - comunque ci metterò la testa nei prossimi giorni». Immediata la replica di Antonio Di Pietro: «Il Presidente del Consiglio sostiene di voler riformare innanzi tutto la giustizia per poi intervenire sulla scuola e sul fisco. In un paese normale e in un momento di

Il Cavaliere ha parlato di una riforma del fisco, senza specificare se per abbassare le imposte o razionalizzare le norme vigenti profonda crisi economica come quella che sta attraversando l’Italia, le priorità dovrebbero essere invertite». Nello specifico della telefonata agli europarlamentari alcune fonti riportano che il premier avrebbe detto che l’obiettivo è quello di far pagare meno tasse ai cittadini. Secondo altre, invece, si sarebbe limitato a citare una generica riforma del fisco, senza aggiungere se per abbassare le imposte o per razionalizzare le norme in vigore.

Appare certo invece, almeno stando alle ricostruzioni fornite, che il premier ha molto insistito sulla riforma della giustizia: é la prima cosa da fare, è stato il suo ragionamento. Sul metodo Belrusconi ha rilanciato il leit motive del partito dell’amore che deve combattere contro i seminatori dell’odio. Ma a proposito delle riforme ha detto: «Spero che gli altri collaborino a fare le riforme altrimenti andremo comunque avanti da soli».

Faide interne. Il sempre più duro duello tra i giustizialisti di De Magistris e la fazione dei dipietristi

Italia dei valori alla resa dei conti di Ruggiero Capone l sito di De Magistris pare non faccia festa nemmeno il giorno della Befana. Sono ormai quotidiani gli strali che l’esponente di punta del giustizialismo lancia verso Quirinale, Palazzo Chigi e componenti moderate del Pd. De Magistris si rivolge al capo dello Stato con tono duro: «Ma quante ombre e omissioni... Signor Presidente, nel Suo discorso. Lei parla di potere legislativo, potere esecutivo e di istituzioni di garanzia.Troppo poco, troppe sono le istituzioni di garanzia. La magistratura se non la si vuole considerare un potere, secondo l’accezione della rivoluzione francese, è un ordine dotato di autonomia ed indipendenza assoluta. Non può essere ridotta ad un’istituzione di garanzia come tante altre». È lecito pensare che gli italiani tutti credano nell’indipendenza e nell’autonomia della magistratura, ma che l’ordine giudiziario possa vivere il suo stato in senso assoluto e nell’accezione giacobina del termine forse rimane aspirazione della sola Idv. È evidente che De Magistris auspicherebbe una Repubblica retta da magistrati riuniti in un “Direttorio girondino” (pardon Girotondino).

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Tutti pm parlamentari che gestirebbero l’Italia sotto il severo sguardo d’un redivivo Robespierre. Così Di Pietro, De Magistris, Flores d’Arcais e Pancho Pardi dovranno decidere chi tra loro sia eticamente degno di guidare il direttorio. L’Idv, per quanto politicamente nerboruta, deve sopravvivere alla propria voracità interna.

compagni di viaggio scelti da Di Pietro. Infatti De Magistris e Pardi intendono dare l’impronta di partito-sindacato della corrente più oltranzista delle procure. A Francesco Pardi è stata affidata dai giustizialisti la mozione di sfiducia contro Di Pietro accusato di «conflitti di interesse e incompatibilità». Obiettivo sarebbe una assise congressuale veloce e violenta, in grado di liquidare per sempre le pulsioni centriste nell’Idv, ad animarla i fan di De Magistris. Così mentre i moderati Pisicchio, Misiti e Astore hanno abbandonato Di Pietro, nell’Idv è entrato Cè, con l’ala giustizialista fuoriuscita dalla Lega. Lo scontro per ora è tra i giustizialisti di De Magistris e i dipietristi. I filosofi (Flores d’Arcais e Barbato) stanno alla finestra, sperando di papparsi tutta l’ldv.

Mentre si consuma lo scontro dentro al partito, l’altra ala di “filosofi” (Flores d’Arcais e Barbato) rimangono alla finestra, in attesa di prendersi tutta l’ldv Non è un mistero che la fazione ultra-giustizialista sia in lotta contro i dipietristi moderati di Di Pietro. Per giunta c’è anche la fazione dei“filosofi rivoluzionari”di Paolo Flores d’Arcais. La cosa non è sfuggita agli ex Dc dell’Idv che, un tempo vicini a Di Pietro, oggi fuggono verso l’Udc e l’Api. Proprio nel Molise, patria dell’Idv, sta emergendo il malcontento verso i


politica

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Squilibri. Con Emma Bonino nel Lazio i democratici ripetono lo stesso errore che rischiano di fare in Puglia con Vendola

Se il Pd perde il centro Con le candidature ”radicali” sembra sfumare il progetto di un centrosinistra moderato di Riccardo Paradisi e elezioni regionali del prossimo marzo rischiano di trasformarsi per il Pd in un labirinto. Un dedalo dove il partito di Pierluigi Bersani corre il pericolo di smarrire la sua identità riformista e moderata prima di averla formalizzata e conseguita. Mentre in Puglia a dare seriamente filo da torcere alla candidatura di Francesco Boccia c’è Nichi Vendola – sostenuto da buona parte del Pd anche per avversione alla segreteria Bersani e alla sponda d’alemiana – nel Lazio si assiste alla discesa in campo in grande stile dell’esponente radicale Emma Bonino. A dimostrazione che il pd oscilla tra candidati della sinistra radicale e candidati radicali di sinistra. Offerte politiche che certamente non spostano al centro l’asse politico programmatico del nuovo Pd. Intendiamoci: Emma Bonino «è una persona autorevole, credibile, con un pedigree perfetto per il ruolo al quale si candida». Come dice il parlamentare del Pd Furio Colombo, «una candidatura perfettamente autonoma e riconoscibile in sé stessa». Più difficile sostenere, come fa Colombo, che «la candidatura dell’esponente radicale offra una grossa opportunità alla immobilità e alla afasia del Pd».

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La candidatura Bonino, infatti, per le caratteristiche dell’esponente radicale, allontana dalla coalizione di centrosinistra che dovrebbe sostenerla proprio il centro, che invece si era reso disponibile alla candidatura di Nicola Zingaretti, investito di un semplice mandato esplorativo. «Se i candidati sono Bonino e Polverini - ha detto il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini - noi siamo con Renata Polverini». Casini ha spiegato la sua stima per la candidata del Pdl, sia per il lavoro svolto all’Ugl sia per «la sua grande battaglia a favore del quoziente familiare. In Puglia - ha sottolineato ancora il leader dell’Udc, che ha dato da martedì il suo benestare alla candidatura di Francesco Boccia – abbiamo scelto un moderato. Nel Lazio la patata bollente è nelle mani

Le croniche indecisioni del Partito democratico di Bersani

Un treno in ritardo che non passa mai di Giancristiano Desiderio orse Emma Bonino è stata ispirata da Nanni Moretti o magari la battuta le è uscita semplicemente così, naturale; sta di fatto che quanto ha detto ieri è la pura e semplice verità: «Mi sembra si siano infilati in un patetico dibattito interno». Chi sono? Beh, quelli del Pd, è ovvio, no? A sinistra, ormai lo sanno proprio tutti, c’è sempre un dibattito in corso, anche quando è tempo di piantarla e di prendere una necessaria e sana decisione loro dibattono, mentre gli altri prendono decisioni politiche che, per forza di cose, prendono in contropiede la sinistra che è eternamente in ritardo. La sinistra è un treno in ritardo che non passa mai.

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Il ciclone Marrazzo è stato quello che è stato. Una mazzata sulla schiena che ancora la sentono. Tuttavia, dovrebbe avere anche dei vantaggi. Se è vero che la candidata del Pdl, quella Polverini vicina a Fini, è vincente, è anche vero che dopo aver toccato il fondo non si può fare altro che risalire. Insomma, per paradosso le cose dovrebbero essere più facili proprio quando sono più difficili, quasi disperate. Invece, anche con Pier Luigi Bersani, uomo politico dotato di senso della realtà, il Pd tarda a ingranare la marcia giusta e il suo treno è ancora in ritardo. Ora e solo ora che Emma Bonino è la candidata radicale per il Lazio è stato dato il “mandato esplorativo” al presidente della Provincia Nicola Zingaretti. Casini e l’Udc aspettano, attendono, temporeggiano, ma non si può aspettare vita natural durante, perché la vita natural durante non è infinita. Se

poi si aggiunge che il Pd va in ordine sparso praticamente ovunque, dal Lazio alla Campania, dalla Calabria alla Puglia, si capisce che l’eterno ritardo è figlio di contrasti interni e di una confusione mentale che non lascia ben sperare neanche per il futuro prossimo. Lo hanno definito “il partito dei depressi”.

Il giudizio è di quelli cattivi, ma qualcosa di vero ci dovrà pur essere se da quelle parti non si ride mai se non a denti stretti. Zingaretti ha un handicap: il tempo. Andava bene ieri l’altro, quando non c’era ancora la Bonino in campo. Ma ora? Si ipotizza: andranno tutti con Emma. Tutti sì, ma senza i cattolici. Insomma, è un pasticcio che fa capire una cosa che hanno capito un po’ tutti e che giustamente preoccupa una come Enrico Letta: il Pd non riesce a fare alleanza. Si può vivere anche senza alleati, ma se aspiri a governare un Paese come l’Italia e sei minoranza da sempre il problema te lo devi pur porre. Allora, riepilogando: il problema che ha davanti a sé oggi il Pd non è quello di vincere, bensì quello di perdere bene. Per perdere bene Bersani e D’Alema, al di là delle tattiche e della candidature, devono mettere in conto anche di investire su nomi importanti di livello nazionale o su giovani che diano il senso di una scelta e di una presenza viva e futura dei - come si dice riformisti. Casini e l’Udc, come dimostra il caso della Puglia, sono lì a fare la loro parte, ma se il Pd se ne sta in disparte a leccarsi le ferite della lotta congressuale non è difficile, è impossibile creare un’alleanza riformista.

del nostro segretario Lorenzo Cesa, che vedrà come dipanarla». Casini ha anche risposto alle accuse di Silvio Berlusconi sulle “alleanze variabili” dell’Udc: «La nostra scelta di alleanze variabili serve ad uscire da questo schema di una politi-

sono i valori della grande famiglia del Partito Popolare Europeo». Ma non solo da destra si investe sull’incompatibilità tra la candidatura Bonino e la partecipazione dell’Udc a una coalizione di centrosinistra che dovrebbe evidentemente sostene-

Se i candidati per il Lazio sono Polverini e Bonino l’Udc non ha dubbi. Casini ha spiegato la sua stima per la candidata del Pdl, per «la sua grande battaglia a favore del quoziente familiare» ca bipartitica finta e fittizia in cui i grandi partiti litigano su tutto al loro interno». Ma appunto la candidatura Bonino non funziona nel momento di fare sintesi programmatica con un area moderata con cui invece i settori più pragmatici del Pd sono sempre riusciti a interloquire. Uno scacco che il Pdl coglie al volo e enfatizza per rilanciare l’alleanza tra destra e centro a livello nazionale: «Dicendo che tra la Bonino e la Polverini, l’Udc sceglie la candidata del Pdl, Casini ha sgomberato il campo da ogni dubbio e si è schierato con una coalizione che si riconosce nei valori cattolici e della famiglia. Siamo sicuri che Berlusconi, Fini e Casini, ritroveranno nel Lazio, un’alleanza sospesa durante le ultime elezioni politiche e che in futuro potranno ritrovarsi, perché il collante che li unisce

re l’esponente radicale nella sua corsa al governatorato. «La Bonino è una candidatura potenzialmente molto forte, che andrebbe sottoposta dal centrosinistra al percorso delle primarie. E alle primarie non escludo che potrei sostenere la Bonino», dice Claudio Mancini, influente assessore regionale del Lazio, che è stato sostenitore della mozione Bersani. «In questo momento abbiamo bisogno di una coalizione larga, sostenuta da un’ampia partecipazione diretta dei cittadini. Noi ci rivolgiamo all’Udc che esclude la partecipazione a consultazioni primarie. È chiaro che in una situazione in cui l’Udc non facesse parte della coalizione di centrosinistra, non ci sarebbero difficoltà a fare le primarie».

Sull’ipotesi di un accordo con l’Udc che prevedesse lo scam-


politica

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Paola Binetti: con l’opzione laicista ci sarà un’emorragia

«Scelta che non accetto a questo punto vado via» di Errico Novi

ROMA. «Mi chiamo fuori». E non solo dalla

bio tra Regione e Provincia con la candidatura di Zingaretti, Mancini ha risposto: «Non si è mai parlato di patti per la provincia con l’Udc. La coalizione larga attorno ad un candidato come Zingaretti ha come condizione la partecipazione dell’Udc alla coalizione stessa e l’accordo per la presidenza della provincia. Queste due cose al momento non ci sono. Mi auguro che Nicola Zingaretti, persona capace, intelligente e politico esperto consideri con molta attenzione il fatto che quella di Emma Bonino sia una candidatura rilevante di una persona di grande prestigio e che è assolutamente in grado di attrarre moltissimi voti del centro sinistra. Non penso che si possa svolgere una valutazione sul Lazio prescindendo dalla candidatura di Emma Bonino». Un avvertimento sulla pericolosità della candidatura Bonino arriva anche dall’ex governatore del Lazio Francesco Storace: «È lo Statuto della Regione a dover far riflettere. Ogni legge o delibera approvata in contrasto con lo Statuto - a meno che non si voglia addirittura modificare una Carta entrata in vigore nel 2004 e non nel 1948 rischia di provocare tempi lunghissimi per gli inevitabili contenziosi». Ed allora è bene – sostiene Storace - che qualcuno prepari un memo alla Bonino. «L’articolo 5 dello Statuto -

spiega Storace -, quello dedicato a Roma Capitale, prevede che la Regione contribuisce a valorizzare Roma, capitale della Repubblica e simbolo dell’unità d’Italia, centro del Cattolicesimo e del dialogo fra i cristiani, luogo di incontro fra culture diverse e patrimonio storico e culturale universale: occorre avere ben chiaro, in questo caso, il contesto istituzionale nel quale si è chiamati ad operare. L’articolo 6, conoscendo la cultura politica della Bonino, è ancora più spinoso. Afferma testualmente, al secondo comma, che la Regione riconosce il primato della persona e della vita. Diciamo - conclude Storace - che risulterebbero francamente incompatibili con lo Statuto le iniziative abortiste di cui si è resa protagonista la leader radicale nel corso della sua battaglia politica».

Ancora, nello stesso articolo, Storace segnala il comma 10: la Regione «collabora con la Chiesa cattolica, nel rispetto delle previsioni del quadro concordatario nonché con le confessioni religiose con le quali lo Stato stipula intese, al fine di tutelare la dignità della persona e perseguire il bene della comunità, in conformità ai principi della Costituzione». Difficile pensare che una forza cristiana liberale e popolare possa sostenere una candidatura con queste implicazioni.

campagna elettorale. «Un sostegno del Pd alla candidatura della Bonino sarebbe per me una ragione forte per andare via. Non potrei mai sostenere questa scelta né una linea di questo tipo». Intorpidita nelle sue indecisioni, la segreteria di Pier Luigi Bersani è richiamata bruscamente alla delicatezza della situazione anche da questa posizione decisa di Paola Binetti, principale esponente con Luigi Bobba dell’ala teodem. Secondo la parlamentare l’opzione laicista provocherebbe «una vera e propria emorragia: ma pensiamo davvero che la componente popolare, ad esempio, potrebbe mai far accettare al proprio elettorato la candidatura di un personaggio dal profilo senza dubbio internazionale, forte, ma anche così scolpito da essere in antitesi con tutta una serie di valori? Diciamo che la leader radicale ha deciso di lanciare una forte provocazione, che probabilmente sarà chiarificatrice rispetto a quello che il Pd vuole veramente essere». Forse la chiarezza è necessaria, «perché l’instabilità non può durare all’infinito, e mi riferisco alle contraddizioni che attraversano sia il Pd che il Pdl. Davanti a una scelta radicale dei democratici credo sia meglio capire cosa possa fare questo grande Centro di Casini e Rutelli». Ripartiamo dal metodo: non è sorprendente, più di tutto, che la seconda forza politica italiana non riesca ad essere padrona delle proprie scelte? Diciamo che gli ultimi otto mesi per il Pd sono stati abbastanza faticosi. Siamo passati per una campagna congressuale vera, con tre opzioni nettamente diverse. D’accordo, ma questo non spiega l’inerzia di fronte alle candidature e agli alleati. Be’, io credo che la tendenza a bilanciare la scelta moderata della Puglia con quella radicale del Lazio sia un po’ il riflesso di quel dibattito così impegnativo. Però resta il fatto che non si arriva mai a decisioni davvero integrate: una volta si va in un senso, una volta in quello opposto. E come se il Pd dicesse: si è individuata una figura come Francesco Boccia in Puglia, adesso non è che possiamo apparire troppo moderati, e allora ecco che nel Lazio si profila la deriva laicista. Un sostegno democratico alla Bonino potrebbe passare anche come un atto di realpolitik. Allora: l’Udc non sosterrà mai la leader radicale, così una parte significativa del mondo cattolico. Con tutto il rispetto per la persona, quel mondo e la storia radicale della Bonino sono incompatibili. Sostenerla vuol dire consegnare il Lazio alla Polverini, vuol dire aver deciso che si è già perso, magari con onore, ma senza possibilità. Più rinuncia che cinismo, insomma. Emma Bonino può rappresentare una compo-

nente importante, quell’area radicale che poi in certe occasioni, come nelle Europee di qualche anno fa, dimostra di saper attrarre percentuali assai più alte rispetto a quelle abituali. Ma non si può consegnare il Lazio a una cultura di questo tipo. Ovvio che mi chiamo fuori. Scusi, ma può avvenire in un grande partito che sue componenti si dissociano e dicono “no, questo candidato non lo votiamo”? Ci troviamo in una situazione particolare, perché i due partiti maggiori, Pd e Pdl, hanno al proprio interno visioni profondamente diverse sulle politiche economiche come sull’immigrazione o la bioetica. E allora sa che le dico? Che capisco il valore provocatorio dell’iniziativa di Emma Bonino, ben vengano provocazioni esplicite come le sue, perché nel momento in cui il Pd la assume come candidato già dà una risposta su quello che vuole essere. Finalmente si fa chiarezza. E se le cose si chiariscono lei che fa? Direi “che vadano dove vogliono andare davvero”. Quindi lei è pronta a uscire dal partito. Per me sarebbe sicuramente una ragione forte: non potrei mai sostenere la Bonino né una linea di questo tipo. Ma immagina che si possa arrivare a una separazione tra le componenti fondative? Ci sono tre grandi famiglie nel Pd: quella che interpreta una continuità dal Pci, passando per il Pds e i Ds, poi c’è quella popolare, e mi chiedo se potrebbe far digerire al proprio elettorato un candidato come la Bonino che ha condotto battaglie sull’aborto, sulle coppie di fatto, da ultimo sulla sospensione di nutrizione e alimentazione per i pazienti in stato vegetativo, con disegni di legge sull’eutanasia: come può, un elettorato cattolico, sostenere una linea di questo tipo? Comunque c’è un dato: che stavolta lei non esiterebbe a prendere una strada diversa. Ripeto, non è tanto importante quello che faccio io, è che ci sarebbe un’emorragia. Sa, la Polverini è simpatica, competente, da tutti riconosciuta come intelligente e forte, come una che farebbe le cose che servono davvero. La sua avversaria ha un profilo anche più forte, più internazionale, più politico, ma è scolpita e determinata da una storia inconciliabile con i valori cattolici. Lei, personalmente, arriverebbe a votare per la Polverini? Vediamo quali saranno davvero gli altri candidati, ma potrebbe anche essere: è chiaro che il mio non sarebbe un voto alla destra, sono attratta casomai da politiche di centro. E per questo comincio a credere che se si arrivasse a una scelta chiarificatrice come il sostegno del Pd alla Bonino, si dovrà davvero vedere cosa possa fare il grande Centro a cui lavorano Casini e Rutelli.

Vediamo gli altri nomi, ma non escludo di votare la Polverini. Sono interessata al Centro di Casini e Rutelli


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enite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».

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È la Genesi che con la Torre di Babele racconta il secondo peccato originale dell’uomo, non quello individuale ma quello socio-politico. Da quello derivò la condanna dell’uomo alla divisione, la cui manifestazione concreta è l’incomprensione derivante dalla diversità delle lingue. Che dal punto di vista religioso sarà sanata con la Pentecoste, quando gli Apostoli illuminati dallo Spirito Santo sono compresi da tutti. Ma lo sforzo di superare l’incomprensione linguistica nella speranza di superare le divisioni ha anche una sua storia laica. Una storia lunga, complessa e persino controversa, che in età moderna ha varie espressioni ma simbolicamente ha soprattutto un nome: Esperanto. Però esistono anche altre vie, e soprattutto c’è chi vorrebbe andare in direzione opposta, tutelando non solo le lingue ma persino i dialetti, e non senza ragioni. Anche perché di lingue ne sono già scomparse molte, e oggi sono a rischio circa la metà delle 6.700 esistenti. Il 15 dicembre si è celebrato il 150° anniversario della nascita dell’inventore dell’Esperanto, l’ebreo polacco Ludwik Lejzer Zamenof. Quella data è stata

proclamata Giornata Mondiale dell’Esperanto, e persino Google ha dedicato il suo logo a questa utopica lingua universale. L’Esperanto è una lingua artificiale universale che si pone l’obiettivo di diventare il linguaggio unico di tutta l’umanità, in modo da azzerare le incomprensioni. Gli apostoli dell’Esperanto fanno di tutto per promuoverlo, compreso corsi di lingua non solo online ma persino via mail. I cultori di questa lingua sono un paio di milioni in tutto il mondo, diffusi in circa 120 Paesi. Capaci di collezionare anche qualche soddisfazione. Tanto più che proprio quando l’esperimento sembrava fallito e destinato a rimanere delle bizzarrie della storia, ecco che l’informatica gli ha regalato una seconda giovinezza. Ethnologue afferma inoltre che tra 200 e 2000 persone parlano l’esperanto come madrelingua.

Ludwik Lejzer Zamenhof il 26 luglio 1887 pubblicò l’Unua Libro, il primo libro dell’esperanto. Il nome esperanto deriva da uno dei suoi pseudonimi, Doktoro Esperanto. Zamenhof,

Il 26 luglio del 1877, l’ebreo polacco Ludwik Lejzer Zamenof scriv

Le lingue. Una, ne Si è da poco celebrato il 150° anniversario (Unua Libro) come Lingvo Internacia (“lingua internazionale”), che poi prese in seguito il nome esperanto (“colui che spera”) dallo pseudonimo utilizzato dal suo creatore. Nato per essere utilizzato come seconda lingua e non per sostituire gli idiomi etnici, l’esperanto fu creato da Zamenhof con una semplicità fonetica, morfosintattica e lessicale che ne permettesse un rapido apprendimento e un facile impiego. L’esperanto possiede 23 consonanti e 5 vocali. A ogni suono corrisponde una sola lettera e a ciascuna lettera un solo suono. Non esistono consonanti doppie, non esiste differenza tra vocali aperte e chiuse, l’accento cade sempre sulla penultima sil-

I cultori di questo linguaggio “artificiale” sono un paio di milioni in tutto il mondo, diffusi in circa 120 Paesi. Si stima che tra le 200 e le 2000 persone lo utilizzano come madrelingua ebreo lituano della Polonia sottoposta all’impero russo zarista, visse con sofferenza le divisioni della regione e della sua città di Byalistok, dove si contrapponevano vigorosamente russi ortodossi, polacchi cattolici ed ebrei yiddish. Immaginò perciò un mondo dove una cultura e una lingua comune unissero le persone. Tra il 1872 e il 1887 Zamenhof si dedicò a creare questa lingua artificiale presentata nel Primo Libro

laba, le regole grammaticali sono appena 16 e senza eccezioni. Le regole della grammatica dell’esperanto sono state scelte da quelle di varie lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica. Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, prima le europee ma adesso con immissioni anche dalle lingue asiatiche.

L’esperanto è dunque una lingua artificiale, con le critiche e i dubbi che questo comporta, ma è comunque più viva di quanto si pensi. Un catalogo degli esempi risulta interessante e divertente. Intanto a dimostrare che non si tratta di una lingua cristallizzata ci sono non tanto le composizioni letterarie vantate dagli esperantisti quanto l’arricchimento continuo della lingua, e specialmente l’ingresso delle parolacce, che gli intellettuali terrebbero volentieri fuori dalle loro creazioni. L’esperanto poi è stato una delle nove lingue ufficiali alle Olimpiadi di Pechino del 2008. La Chiesa Cattolica ha tradotto il messale anche in esperanto e inoltre da anni i papi danno gli auguri di Natale e Pasqua in esperanto, come penultima lingua prima del latino. Dagli anni Novanta l’Unione europea discute della possibilità di introdurre l’esperanto come lingua ufficiale, in modo da minimizzare i costi delle tra-

di Osvaldo


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ve “Unua libro”, ovvero il primo libro del linguaggio “artificiale”

essuna, centomila della nascita dell’inventore dell’Esperanto

o Baldacci

duzioni, diminuire le interpretazioni ambigue e allo stesso tempo di non discriminare i Paesi più piccoli a vantaggio delle lingue maggiori. L’ultimo dei rapporti economici a proposito è dell’economista François Grin, docente all’Accademia di Ginevra, che quantifica in 25 miliardi di euro il risparmio annuale se l’esperanto fosse usato come lingua di lavoro. A gennaio 2009 l’europarlamentare slovena Ljudmila Novak ha presentato una proposta di legge che ha richiesto l’introduzione dell’esperanto quale lingua comune.

Anche in Italia l’esperanto è più di casa di quanto si creda. L’esperanto è presente nei totem per prenotare il turno di accesso agli sportelli della Agenzia delle Entrate. Anche il sistema dell’istruzione è coinvolto: dal 1993 al 1995 lavorò una Commissione per l’esperanto nelle scuole italiane, che sostenne l’utilità di questo studio. In particolari circostanze la Rai trasmette in esperanto su onde corte, via satellite e via internet. Ed è proprio internet una grande alleata dell’esperanto, cui la rete a distanza di cento anni ha offerto una seconda possibilità. Sono oltre 4.000 i video di Youtube che parlano in e di esperanto, ma parlano esperanto anche social network come Twitter e Facebook, e soprattutto Wikipedia, dove L’esperanto è tra le prime lingue per quantità di voci tradotte. Il 15 dicembre Google ha ricordato la Giornata mondiale dell’esperanto personalizzando con la bandiera del movimento esperantista il proprio logo. Al posto della L compariva la “verda stelo” (stella verde), la bandiera formata da un fondo verde che sull’angolo superiore sinistro presenta un riquadro bianco nel quale sta una stella verde a 5 punte. La stella a cinque punte rappresenta i cinque continenti abitati, il colore verde la speranza di un futuro migliore, mentre il bianco rappresenta la neutralità e la pace.

Ma non è così automatico che il futuro sia dell’esperanto. Deve infatti confrontarsi con situazioni molto diverse che sono direttamente concorrenti. La prima e più forte realtà che porta a una diversa semplificazione linguistica è infatti quella dell’uniformazione naturale. Proprio quello che l’esperanto voleva evitare. Ma è logico che

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le lingue più diffuse tendano a prevalere e ad imporsi sulle altre, tanto più nelle comunicazioni internazionali. E anche in questo caso la globalizzazione dei mezzi di comunicazione e la rete web sono potenti veicoli che favoriscono l’imporsi delle lingue più forti sulle minori. Basti pensare che la metà degli abitanti della Terra utilizza solo 11 lingue madri: cinese mandarino, inglese, spagnolo, hindi, portoghese, bengali, russo, giapponese, francese, tedesco, italiano. È facile comprendere come ad esempio l’inglese si avvantaggi di internet più di quanto lo faccia l’esperanto. Con la nascita di vere e proprie lingue nuove, una specie di koinè come fu il greco di età ellenistica, ben diverso dai tanti veri linguaggi greci che si parlavano nelle poleis di età classica. Resta il fatto però che questa tendenza all’unificazione linguistica comporta anche delle grandi semplificazioni e una riduzione dei lemmi, per cui è tutto da vedere se questi nuovi linguaggi universali siano una conquista o non piuttosto un impoverimento.

È noto infatti che la lingua esprime il pensiero, e se la lingua è troppo elementare non potrà che rispecchiarsi in un pensiero elementare. Esprime inoltre una cultura, in tutte le sue sfumature, e con la perdita di quel linguaggio scompare anche la relativa cultura. Questo è un punto cruciale oggi. L’esperanto nascendo come seconda lingua universale voleva evitare proprio questa scomparsa delle lingue etniche, ma la critica che molti gli rivolgono è proprio quella di contri-

cultura che le ha espresse. È una lotta impari, ma molti studiosi stanno cercando di arginare il fenomeno, aiutati ancora una volta dall’informatica e da internet. Vogliono salvare più dati possibili su tutte le lingue. Uno dei progetti di archivio di questo tipo è il Rosetta Project, dell’americana Long Now Foundation, che si è data lì obiettivo di preservare più di 1400 idiomi in via di estinzione in un dischetto in nichel della dimensione di tre pollici. Il disco contiene liste di vocaboli, fonemi, scritture, grammatiche, suoni nonché i primi capitoli della Genesi tradotta mille volte nelle lingue morenti. Con altrettanta se non maggiore fatica altri studiosi si occupano invece di far rivivere le lingue morte, dalle civiltà mesopotamiche a quelle mediterranee fino a quelle precolombiane. Altri ancora, più goliardicamente, si dilettano a codificare lingue di fantasia, da quella degli elfi a quella dei klingon di Star Trek.

C’è poi chi si è inventata metodi più creativi e tradizionali per salvare la propria lingua. In Senegal di fronte alle difficoltà dell’antica e prestigiosa lingua diola, Fatou Kandé, artista poliedrica ha riportato in vita (e filmato) l’antico rito del bukutt, la cerimonia d’ingresso nel bosco sacro per attrarre il favore delle divinità. Ha perso invece la sua battaglia Marie Smith, di Anchorage, Alaska, ultima nativa e madrelingua Eyak, attivista impegnata nella lotta per la difesa delle lingue native. Con la sua scomparsa a 87 anni è sparita anche una delle lingue eschimesi, che non è riuscita a trasmettere neanche ai propri figli.

Delle 6700 lingue attualmente esistenti, si calcola che in un secolo circa tremila scompariranno. Molte di queste non hanno una tradizione scritta, per cui non ne rimarrà traccia buire a un’omologazione irrispettosa delle diversità culturali. Anche perché i più estremisti tra i sostenitori della lingua unica portano alle ultime conseguenze il ragionamento per il quale le differenze sono causa di discordie e perciò in fondo vogliono proprio eliminare le differenze, anche quelle di lingua e di cultura. Ma molti più invece si preoccupano del contrario, cioè della scomparsa delle lingue, e ce n’è davvero motivo. Secondo gli esperti infatti ogni quindici giorni muore una lingua. E attualmente esisterebbero al mondo almeno 50 persone che non possono dialogare con nessuno perché sono gli ultimi a parlare la propria lingua. Delle 6700 lingue attualmente esistenti al mondo, si calcola che in un secolo circa tremila scompariranno. Molte di queste non hanno una tradizione scritta, per cui non rimarrà alcuna traccia di esse né della

C’è poi il problema dei dialetti. Oggi non solo in Italia si tende a cercare di proteggere la tradizione dialettale e regionale. E in effetti a volte è difficile tracciare il confine tra lingua e dialetti, e anche questi ultimi sono strettamente legati a culture e saggezze da non perdere. Ma certo l’idea di tornare ai dialetti in reazione alla diffusione delle lingue globali appare bizzarra e controproducente. Essi infatti esprimono un mondo limitato di villaggio e campagne che non esiste più, e il loro linguaggio è quindi limitato e inadatto a esprimere la complessità del mondo attuale. Ragazzi che oggi imparassero i dialetti al posto delle lingue si troverebbero con strumenti inadeguati anche nella formazione del pensiero. Esperanto o no, quindi, difficile ma necessario trovare un compromesso tra linguaggi sempre più universali e tutela delle specificità culturali.


mondo

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Iran. Si stringe il cerchio del regime sui manifestanti. Intanto a Oslo si dimette il console (ma Teheran nega)

L’Onda agli arresti Incarcerati più di 180 dissidenti e oscurati tutti i siti che hanno fomentato le proteste di Antonio Picasso e cifre che giungono da Teheran in Europa sul bilancio delle repressioni del regime degli Ayatollah sono poco chiare. Si parla di oltre 180 persone arrestate, tra attivisti e giornalisti. Altre fonti, comunque schierate con i riformisti dell’Onda Verde, dimezzano il numero. Nello specifico si tratta di studenti universitari, collaboratori di Mir Hossein Moussavi, giornalisti ed esponenti di organizzazioni locali impegnate per la difesa dei diritti umani e delle libertà personali. La lista comprende inoltre alcuni oppositori di differente confessione religiosa. Nella fattispecie si tratta dei Bahai, una setta votata al sincretismo molto influente in tutta l’Asia, dalle coste del Mediterraneo orientale all’Estremo oriente. È la prima volta che Teheran coinvolge nel vortice repressivo chi non aderisce alla fede sciita. Volendo ampliare il raggio di calcoli, dalle elezioni presidenziali di giugno, i cui brogli hanno acceso la miccia della contestazione, si può parlare or-

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mai di migliaia di persone fermate dalla polizia e sulle cui testa ora grava il peso di essersi opposti al regime khomenista del Velayat-e-Faqih. L’instabilità interna del Paese incide sensibilmente sulla posizione del governo iraniano nell’ambito internazionale e potrebbe compromettere in modo quasi defi-

Secondo il sito riformista Rahesabz sarebbero stati imprigionati 99 studenti, 10 fedeli di Moussavi, 17 giornalisti, 7 attivisti, 18 dirigenti di partito, 12 religiosi e 9 attivisti per i diritti delle donne nitivo le sue ambizioni nucleari, se contro di esse di esercitasse una concertazione fra tutti i governi stranieri interessati.

Ovviamente Teheran sta cercando di minimizzare i casi di violenza a episodi incidentali. Adesso gioca però in suo sfavore anche il caso delle dimissioni presentate ieri dal suo console a Oslo, Mohammed Reza Heydari. Il ministero degli Esteri iraniano ha smentito subito la notizia. Tuttavia i particolari dell’accaduto che giungono dalla Norvegia rivelano un evidente sintomo di disagio, da parte del corpo diplomatico

iraniano presso i governi occidentali, per quanto sta avvenendo in patria. Il caso di Heydari mette in luce come i rappresentanti consolari dell’Iran odierno, che sono l’estrazione di una borghesia colta e fedele alle istituzioni nazionali ma non all’identità teocratica del regime, stiano cominciando a nutrire un esplicito senso di intolleranza verso una politica repressiva, sanguinaria e comunque improduttiva. L’Onda Verde quindi pare che stia coinvolgendo anche l’establishment politico. È un movimento riformista che trova forza nelle piazze come pure in seno alle

classi sociali laiche e culturalmente più aperte. È una realtà rivoluzionaria vera e propria.

La debolezza crescente dei seguaci della Guida Suprema, Ali Khamenei, potrebbe apparire come un’opportunità propizia per la comunità internazionale. Il cosiddetto “5+1”, composto dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con l’aggiunta del governo tedesco, potrebbero premere l’acceleratore proprio ora, affinché l’Iran venga messo con le spalle al muro e si giunga a una conclusione definitiva del capitolo nucleare. Di questa forza a disposizione sembrano essersene accorti i Paese occidentali. Non è un caso che, proprio mentre la Casa Bianca è internamente concentrata in questa nuova insorgenza di al Qaeda e nel “problema

Nicola Pedde: «Il Paese sta implodendo, non c’è ricambio nel clero al potere ed è lotta tra fazioni interne»

Tutti gli errori del governo sciita di Pierre Chiartano

ROMA. Per protesta contro la repressione nel suo Paese, un diplomatico iraniano a Oslo si è dimesso ieri. Un altro segnale di una tensione che non cala a Teheran. Se è in atto una mutazione del regime, come affermava Sergio Romano da queste colonne, serve sapere quali attori si muovono dietro le quinte di una protesta popolare, dove ogni fazione ha le sue piazze. Si tratta di una rivoluzione o di una implosione del regime? Lo abbiamo chiesto a Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies ed esperto di questioni iraniane. È possibile che gli ayatollah stiano uscendo dalla scena politica iraniana?

L’Iran è un paese a dir poco complesso. Ci sono tanti fattori nella dinamica di questa crisi continua. Uno è generazionale, il vecchio clero combattente, quello che ha fatto la rivoluzione khomeinista, o sta scomparendo fisicamente o sta uscendo dalla scena politica. È un sistema che non ha prodotto eredi, non è stata formata una seconda generazione clericale di comando. La leadership di rincalzo è costituita dall’ala militare, cioè dai pasdaran. Coloro che appena dopo la rivoluzione sono andati a difendere il Paese contro l’Iraq e che hanno fatto carriera nei ranghi militari. Questo è il quadro visto dal satellite. Guardando da una quota più bassa ve-

diamo una spaccatura, non una rivoluzione. È un’implosione del sistema. Ogni componente del potere iraniano è entrata in conflitto con le altre. Ma esiste una fazione vincente? Occorre scomporre i fattori della funzione iraniana per capire meglio. Quello religioso, militare, sociale, politico e vedere all’interno di ognuno. Il minimo comune denominatore è che ognuna di queste componenti è a sua volta spaccata. Partiamo dal quadro religioso. Il comando è formato o da gente anziana o da chi non ha partecipato al sistema politico. La rivoluzione fu fatta da quadri intermedi, non dai vertici, di conseguenza la parte apicale della chiesa sciita

non è mai entrata attivamente nel processo politico. Perché sostanzialmente lo sciismo divide drasticamente l’attività religiosa da quella politica. Da un punto di vista prettamente teologico l’esperienza di Khomeini è stata un’eresia. Era ciò che affermava Montazeri, il religioso recentemente scomparso Esatto, anche se ha cambiato idea tante volte. Oggi, all’Occidente fa gioco reputarlo come esponente dell’opposizione a un sistema che ha ampiamente contribuito a costruire. Poi se ne è dissociato.


mondo

Yemen”, il Dipartimento di Stato Usa sia tornato a fare la voce grossa sulla questione. È di questi ultimi giorni la richiesta del capo della diplomazia di Washington, Hillary Clinton, di intervenire nel modo più severo possibile contro Teheran e definire un drastico regime di sanzioni. Anzi, il bersaglio di Foggy Bottom è ancora più minuzioso. «Il nostro obiettivo è fare pressioni direttamente sui Pasdaran», ha dichiarato la Clinton, lasciando intendere chi sia il vero nemico da eliminare. Le Guardie Rivoluzionarie rappresentano la forza militare e di pressione politica che maggiormente ambisce al nucleare. Al tempo stesso sono anche il primo destinatario delle proteste da parte dell’Onda Verde. Colpire loro vorrebbe dire eliminare l’ala estrema del regime, senza la quale il clero

resterebbe privo di una forza armata ciecamente fedele.

È chiaro che gli Usa si siano resi conto di poter picchiare sul fianco scoperto di Teheran, il quale non può permettersi di gestire nello stesso momento una crisi interna e un’altra internazionale. Per fare questo però ha bisogno della collaborazione dei suoi partner presso l’Onu. Ha bisogno di una concertazione diplomatica. L’Unione Europea ha cercato di seguire questa tattica. Nella spartizioni dei ruoli tra “poliziotto buono e poliziotto cattivo”, Bruxelles avrebbe dovuto ricalibrare l’intransigenza dell’alleato Usa inviando una sua delegazione in visita nella capitale iraniana. L’incontro era stato voluto fortemente da Berlino e Londra, alle quale Parigi e Roma si erano positivamente ade-

Ora c’è un nutrito gruppo di religiosi che ha ben compreso che se dovesse succedere qualcosa per il clero non ci sarà un futuro in Iran - visto anche il processo di secolarizzazione della società - e si sta raggruppando diversamente rispetto alle attuali leve di comando. Significa che è equamente diviso tra le varie fazioni? Sì, lo trovi tra i riformisti, nella cosiddetta Onda verde, tra gli ultraconservatori, tra i pragmatici. Non è il clero che comanda, ma una sua componente. Non sono i pasdaran che sostengono il regime, ma una sua componente. Allora chi comanda adesso in Iran? Chi sostiene il presidente e il regime sono una componente dei vertici dell’ala militare che al suo interno è spaccata. Non tutte le unità dei pasdaran sono d’accordo nel sostenere Ahmadinejad. Anzi ci sono fior di pasdaran che gli sono fortemente ostili, parlo dell’ex comandante Rezaiae e dell’attuale sindaco di Teheran Qalibaf. La complessità del quadro è quindi data dalla sua frammenta-

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Tra i nomi spiccano Alireza Beheshti (figlio dello scomparso ayatollah), Ebrahim Yazdi (ex ministro degli Esteri), Emadoddin-e Baqi (giornalista), e Mohammad Taheri (figlio del grande teologo) guate. Il viaggio tuttavia è stato procrastinato a data da stabilirsi per volontà del governo di Ahmadinejad. Decisione prevedibile, questa.Teheran non vuole scoprire ulteriormente le proprie ferite, in quanto correrebbe il rischio di dimostrarsi ancora più debole di quanto si creda in Occidente. A remare contro gli Usa sono invece la Cina e la Russia. Pechino ha replicato alla Clinton sottolineando che non è ancora tempo di prendere l’Iran per la gola e isolarlo dal resto del mondo. Il messaggio è inequivocabile: se nel Consiglio di Sicurezza gli Stati Uniti presentassero una

zione. Come l’Onda verde è un insieme di movimenti ostili al governo. Non sono né Moussavi o Karroubi a dirigerli. La loro forza è la capacità di coordinamento di iniziative attraverso internet. Ma non hanno un piano comune su cui stanno la-

risoluzione contraria a Teheran, la Cina la bloccherebbe con il suo veto. Mosca da parte sua è stata ancora più concreta.

Proprio il 31 dicembre il ministro dell’Energia russo, Sergei Shmatko, e il suo omologo iraniano, Masoud Mir-Kazemi, si sono incontrati a Teheran e hanno firmato un accordo per la creazione di una società mista volta alla realizzazione di 15 nuovi progetti nel settore energetico, alla costruzione di una raffineria vicino al Mar Caspio e allo scambio di gas metano. La Sibur russa e l’Ente Petrolchimico Iraniano sono an-

un’unica forza in occasione delle grandi manifestazioni, utilizzando il web. È alla portata del regime la tecnologia per attuare una ulteriore censura su internet? No, altrimenti avrebbero già bloccato

C’è un enorme caos nella catena di comando e nella diramazione degli ordini. Le direttive della Guida suprema sono confuse, non ha il coraggio di decretare la legge marziale vorando. E fuori dal Paese non ci sono gruppi o lobby - un governo in esilio - che rappresentino interessi iraniani. Su internet è avvenuto l’attacco di un fantomatico Iranian cyber army a Twitter e a Teheran è operativa una nuova polizia che lavora sul web È l’unico sistema per dar fastidio al movimento di protesta. La forza dei movimenti è di essere tutti scollegati fra loro, ma con la capacità di diventare

tutto, invece siamo al corrente di tutto ciò che succede. Esiste Skype e molti altri mezzi. Non puoi più isolare ermeticamente un Paese. Che cosa succederà nel medio periodo? Quello in atto è un meccanismo di lotta di potere particolare. Se guardi bene agli attori della protesta e a come si distribuisce geograficamente, vedi che è sostanzialmente una rivolta della media borghesia, contro lo strapotere del pro-

che orientate a intervenire nel South Pars, il mega-giacimento dove peraltro Gazprom è già operativa. La scelta russa non solo spacca il “5+1”, ma rischia di far arrivare nelle pipeline dirette in Europa gli idrocarburi iraniani, arricchendo sia Mosca sia Teheran. Da ciò ne trarrebbe vantaggio la partnership diplomatica ma soprattutto la palese cooperazione nucleare fra i due Paesi.Tutto questo a spese dei consumatori europei. Con l’auspicio che dalle piazze del Vecchio continente emerga una rivalsa di protesta, per oggi pomeriggio è fissata una manifestazione di fronte all’ambasciata iraniana a Roma, in via Nomentana. L’obiettivo è far sapere ai contestatori dell’Onda che non sono soli e che l’Ue ha muscoli abbastanza tonici per respingere le astuzie del tandem Mosca-Teheran.

letariato urbano e rurale che negli ultimi trent’anni si è appropriato delle istituzioni. Durante le proteste di cui sono stato testimone ho potuto constatare che la mappa delle manifestazioni ha sempre seguito una direttrice importante della capitale iraniana: la via Vali Asr. Una direttrice che divide in due Teheran ed è la strada del commercio. Mancano gli elementi tipici di una rivoluzione, è il sistema che crolla dall’interno. Prossime mosse del regime e dell’Onda? Il regime non sta spingendo sul pedale della repressione come potrebbe. C’è un enorme caos nella catena di comando e nella diramazione degli ordini. Dalla Guida suprema partono direttive confuse e frammentarie. Non ha il coraggio di decretare la legge marziale. Khamenei è sempre più isolato, come avvenne per lo Scià. È un semplice mediatore che si barcamena tra vari interessi. Appena ha smesso di mediare e si è schierato con Ahmadinejad è venuta giù la struttura di quel potere.


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L’attentato. La Repubblica vicino alla Cecenia fa parte della Russia entre Putin si preparava a festeggiare il Natale ortodosso (che cade oggi) e Medvedev era a sciare a Krasnaia Poliana, non lontano da Soci (Russia meridionale) per visionare gli impianti sportivi destinati alle Olimpiadi invernali del 2014, alle 8 del mattino, 700 chilometri più a est, in quel di Makhachkalà, capitale del Daghestan, un kamikaze a bordo di un’auto Nivà carica di 100 chili di tritolo ha cercato di sfondare il posto di blocco della caserma della polizia. Il tentativo è andato a vuoto per la pronta risposta dagli agenti di guardia, ed è stato allora che l’attentatore suicida ha messo in atto il suo piano b. Attivata la bomba, si è fatto saltare in aria con la sua auto. Bilancio provvisorio: 6 morti, almeno 19 feriti (molti gravi), una voragine nel terreno profonda un metro e larga due e la rottura delle finestre di tutti gli edifici nel raggio di 300 metri. Poco dopo, una telefonata annunciava un imminente attentato a un treno lungo la linea ferroviaria Baku-Mosca. Gli artificieri, però, sono riusciti a rintracciare l’ordigno depositato sui binari non lontano dalla capitale daghestana (con un potenza pari a dieci chili di tritolo) e a disinnescarlo prima che il treno vi transitasse sopra.

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Il Daghestan, incuneato tra Caucaso e mar Caspio e confinante con la Cecenia, fa parte della Federazione russa ed è, insieme all’Inguscezia (a fatta naturalmente eccezione della Cecenia), la repubblica a maggior rischio di terrorismo e violenza. Povertà, disoccupazione, corruzione e crisi economica rischiano di farla esplodere. Fi-

Kamikaze e bombe affossano il Daghestan Strage nella capitale: 6 morti e 19 feriti Disinnescato un ordigno sui binari di Luisa Arezzo

seguaci dell’Islam più integralista (e il il wahabismo è fuorilegge dal 1999). Ma le massicce operazioni militari per stanarli, con l’aiuto di Mosca, tengono ormai la repubblica in ostaggio di posti di blocco e zone vietate. La repubblica, che è la più vasta della Federazione russa, si

Due milioni di abitanti divisi in 81 nazionalità, 30 etnie e altrettante lingue. Tanto da meritarsi un soprannome: Bosnia del Caucaso nito il regime antiterrorismo in Cecenia (ed è ovviamente un eufemismo), l’instabilità si è trasferita qui. Sono quotidiani gli attentati dinamitardi e gli scontri a fuoco contro truppe federali, autorità filorusse e polizia locale da parte dei ribelli. Centinaia di morti nell’ultimo anno. A giugno nella capitale, Makhachkala, la violenza ha raggiunto in pieno giorno il ministro degli Interni, Adilgirey Magomedtagirov: freddato da cecchini a un matrimonio. A novembre, esplosioni hanno colpito un importante gasdotto e 2 treni. Per il governo locale è opera di non più di 150 wahabiti, separatisti

trova in mezzo allo strategico corridoio tra Asia ed Europa. E ha alle spalle una inesausta storia di invasioni.

Col risultato che gli oltre due milioni di abitanti sono suddivisi in 81 nazionalità, 30 gruppi etnici e altrettante lingue.Tanto da guadagnarsi il soprannome di “Bosnia del Caucaso”. Una polveriera alle prese con un’imminente scadenza elettorale: a febbraio scadrà infatti il mandato del presidente Mukhu Aliev, uomo di Edinaja Rossija (il partito filorusso) e in vista di quella data si stanno intensificando gli scontri fra le diverse fazioni politiche e

Ieri mirava alla Roma, oggi alla presidenza

L’oligarca Kerimov ersonaggio venuto dal nulla, ora ricchissimo, legato a Putin e con mire alla presidenza del Daghestan, è da sempre molto chiacchierato: per i suoi soldi e per la sua vita privata. In Italia ha fatto parlare di se sia come pretendente al pacchetto di controllo della Roma, sia perché qualche tempo fa si schiantò a Nizza con una Ferrari assieme a Tina Kandelaki, famosissima conduttrice tv. Sulejman Kerimov ha 42 anni ed è uno dei giovani finanzieri rampanti, i cosiddetti raiders che si impadroniscono di società e poi le rivendono facendoci quattrini a palate. È nato nella cittadina daghestana di Derbent. Il padre, un giurista, è di etnia lezgina, la maggioritaria nel Daghestan. La madre lavorava come ragioniere alla Sberbank, la banca di Stato. Il giovane Sulejman si laurea in economia nel 1989, a 23 anni, e

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subito va a lavorare allo stabilimento industriale Eltav (componenti elettronici). Nel 1995 lo troviamo già a Mosca, direttore generale della società finanziaria Soyuzfinanz. Nel 1999 Kerimov ha già fatto parecchi soldi e, ancora del tutto sconosciuto, entra tra i primi dieci nella lista del Ldpr, il partito ultranazionalista di Zhirinovskij che, notoriamente, vende candidature sicure a imprenditori desiderosi di assicurarsi l’immunità parlamentare. Eletto, si dichiara indipendente. Ha una passione sfrenata per il judo (come Putin), il sollevamento pesi e, sembra, le bionde. I primi soldi seri li avrebbe fatti con la compagnia aerea Vnukovo. Poi sarebbe arrivato alla Nafta Moskva, una società che in passato si occupava di export di petrolio e gas ma che ora è diventata una semplice finanziaria, specializzata in compravendita di società.

religiose. Le tensioni si sviluppano lungo determinate linee: politica, nazionalista, etnica, religiosa e una linea connessa con la criminalità organizzata. La violenza è favorita anche da usi locali, come la faida e le legge del taglione. Non solo: l’avversione alla presenza russa è testimoniata, in particolare, dall’uccisione del generale Valerij Lipinskij, le tensioni politiche hanno condotto all’assassinio del locale ministro degli interni Adilgerej Magomedtagirov e quelle religiose, fra islam tradizionale (sufico o confraternale) ed estremismo wahhabita, sono all’origine dell’omicidio del vice-muftì del Daghestan Ahmed Tagaev. Senza considerare le centinaia di morti “invisibili”e le decine di giornalisti uccisi.

A capodanno, quattro ribelli islamici, tra cui Umalat Magomedov, leader indipendentista daghestano noto come “l’emiro del Daghestan”sono stati uccisi in uno scontro a fuoco dalla polizia russa al confine con la Cecenia. Segnando uno dei rari successi delle forze russe nella repubblica caucasica e probabilmente dando il movente agli attentati di ieri. Ma è il conflitto religioso a preoccupare maggiormente. L’islam locale è di carattere piuttosto tollerante e moderato, ma sempre di più è scosso e risente dell’islamizzazione di impronta qaedista. Esso si articola in un sistema di scuole sufiche (tariqah) di origine centroasiatica o mediorientale, imperniate sul rapporto di sottomissione mursid/murid (maestro/discepolo) che si presta a farne centri di attività politica. Il wahhabismo, proveniente da una dottrina sviluppatasi nell’odierna Arabia Saudita, osteggia le forme religiose tradizionali appoggiando un islam intollerante sul tipo di quello dei taliban afghani. Per fini politici vengono sfruttati anche “miracoli” che avrebbero luogo nella comunità. La concorrenza, in vista delle elezioni di febbraio, ha anche dei risvolti economici. Uno dei possibili candidati è l’oligarca Sulejman Kerimov, uno degli uomini più ricchi della Russia, attivo soprattutto nel settore del petrolio. Le recenti elezioni del sindaco di Derbent, “capitale storica” e seconda città del Daghestan, hanno dimostrato quanto sia difficile svolgere votazioni oneste e pulite. Le elezioni sono state vinte dall’attuale titolare Feliks Kaziahmedov (anch’egli di Edinaja Rossija) in un’atmosfera caratterizzata da brogli e intimidazioni.


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I servizi segreti raddoppiano la protezione al ministro

Tsutomu Yamaguchi, 93 anni, aveva visto entrambe le esplosioni

Israele:Barak minacciato di morte. Shin Bet in allerta

Muore l’uomo sopravvissuto a Hiroshima e Nagasaki

GERUSALEMME. La minaccia, sempre latente in Israele, di un nuovo assassinio politico dopo quello del premier Yitzhak Rabin nel 1995 per mano dell’ebreo ultranazionalista Yigal Amir, nelle ultime settimane è diventata più concreta e immediata: lo Shin-Bet, il servizio di protezione dei ministri, è infatti in allarme dopo numerose lettere minacciose inviate al ministro della difesa, Ehud Barak, al capo della polizia David Cohen e a funzionari dell’amministrazione israeliana in Cisgiordania, e ha raddoppiato le sue misure di protezione. La minaccia è apparentemente una diretta conseguenza della decisione del governo di congelare per dieci mesi tutti i progetti di edilizia a uso abitativo negli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dell’ordine dato dal ministro della difesa di imporre sul terreno il rispetto della decisione. Barak, inoltre, si è pure messo in urto con influenti rabbini dell’estrema destra nazional-religiosa dopo aver ordinato alle forze armate la rottura di tutti i rapporti con una yeshiva (collegio rabbinico), il cui responsabile aveva espressamente esortato i suoi discepoli in uniforme a rifiutarsi di partecipare a eventuali operazioni di sgombero di insediamenti. Al ministro, secondo quanto riferito ieri dalla stampa israeliana, sono giunte numerose lettere anonime contenenti minacce più o meno esplicite. In una di queste lettere l’autore così scrive a Barak: «Se pensi di distruggere gli insediamenti per farti bello agli occhi degli americani, ti sbagli. Io ti ucciderò. Stai attento, colpirò te o i tuoi figli. Se non ora, quando non sarai più ministro e non sarai più protetto».

TOKYO. L’ultimo rimpianto è

Scricchiolii democrats: lasciano due senatori A rischio la maggioranza di Obama alle elezioni di novembre

stato di non aver potuto lavorare insieme, fianco a fianco, con il presidente Usa, Barack Obama, alla costruzione di un mondo di pace e senza armi nucleari. Aveva apprezzato il suo discorso di Praga dello scorso aprile contro la proliferazione, ma il cancro allo stomaco ormai non lasciava più alcuna speranza. Né tempo. Tsutomu Yamaguchi, l’unico sopravvissuto al doppio olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, in base al riconoscimento ufficiale delle autorità nipponiche, è morto lunedì 4 gennaio, all’età di 93 anni, piegato dal male che lo aveva col-

di Aldo Bacci certi livelli il miraggio è sempre quello di sedersi alla scrivania dello Studio Ovale. Ma se le porte della Casa Bianca sono sbarrate, tanto vale dedicarsi a impegni meno stressanti e più remunerativi rispetto all’eterna rincorsa all’incarico politico più importante del mondo. Forse è questo quello che è successo anche a Christopher Dodd, uno dei leader dei Democratici al Congresso Usa, che ieri ha annunciato che non si ricandiderà alle elezioni di Mid Term di novembre. Il senatore però deve farsi da parte anche a causa del suo crollo di popolarità, con i sondaggi che lo vedevano indietro di 11 punti nella ipotetica sfida con il deputato repubblicano Rob Simmons nel suo seggio del Connecticut. Un evento enorme e molto significativo rispetto ai trend politici americani: il Connecticut infatti è un seggio democratico da ben 49 anni con cinque lunghi mandati di Chris Dodd, mentre anche il padre Thomas Dodd era stato senatore nello stesso Stato. Dietro la rinuncia ci sarebbero anche pressioni del partito per cercare di ribaltare premesse sfavorevoli impedendo che le elezioni di novembre finiscano per essere un referendum pro o contro il 65enne patriarca democratico, la cui immagine è stata devastata da uno scandalo di mutui molto agevolati. Il Partito Democratico guarda con un po’ di timore alle elezioni di novembre, sa infatti di aver già raggiunto il massimo, e teme che le sue prospettive di governo corrispondano a una parabola in declino. Obama e i suoi hanno creato una soglia di aspettativa altissima e il bilancio dopo un anno di governo non poteva essere che di incipienti delusioni, cresciute dai tentennamenti del presidente e dalle sue politiche minate dai vani tentativi di accontentare tutti. E nelle prossime elezioni potrebbero pagarne lo scotto. Eppure il loro obiettivo dichiarato è quello di mantenere al Congresso quella larga maggioranza che gli permetta di vanificare ogni ostruzionismo, vale a dire al Senato 60 seggi su 100. E quindi ecco le pressioni su Dodd per lasciar spazio a nuove speranze, come il procuratore generale del Connecticut Richard Blumenthal. E qualcosa di simile deve essere avvenuto anche in North Dakota, altro seggio senatoriale tradizionalmente blu, dove

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quasi in contemporanea a Dodd ha annunciato il suo ritiro il senatore uscente Byron Dorgan. Un rinnovamento quello democratico che punta a mantenere posizioni di predominio, ma che colpendo proprio i seggi fino a qualche tempo fa sicuri mostra quanto sia divenuta precaria la preponderanza dei democratici. Se infatti tra i Repubblicani stenta ancora ad emergere un vero leader di partito e un possibile sfidante per Obama, a livello locale non manca una schiera di personaggi che incalza i democratici.

Così che da mesi tremano i parlamentari “dem”dei seggi storicamente in bilico. E si è visto ad ogni passaggio della riforma della sanità, ad esempio. Riforma rispetto alla quale Chris Dodd era stato uno dei grandi mediatori. Ma di recente il suo maggior impegno si era concentrato sui temi economici e finanziari, essendo presidente della Commissione del Senato per gli affari. E Dodd ha lavorato a braccetto con il corrispettivo repubblicano Shelby per appianare le distanze sulla riforma delle regole della finanza. I due affermano di essere impegnati in“serie negoziazioni”, lasciando sperare in un accordo bipartisan. Dodd però sul tema non ha le stesse posizioni di Obama: la Casa bianca vorrebbe affidare alla Banca centrale forti poteri di regolamentazione, mentre Dodd e una parte dei democratici puntano alla creazione di una nuova authority dedita alla supervisione degli istituti di credito e delle loro holding. Inoltre Dodd si è già attirato una bella serie di critiche da lati opposti. C’è chi attacca l’eccessiva durezza del suo documento iniziale, rinfacciandogli senza mezzi termini di essere così duro solo per ripulirsi dello scandalo che lo ha coinvolto, accettando un mutuo a condizioni di favore dal Countrywide. Dallo schieramento opposto invece dicono che le dure parole nascondono appena una serie di escamotage del tutto favorevoli a quel mondo degli affari ritenuto responsabile della crisi e da cui Dodd non è troppo lontano.Vita dura dunque per l’ex candidato sconfitto alle primarie per la Casa Bianca, visto come un peso del suo partito e almeno per qualche anno senza serie prospettive di diventare il numero uno di Washington.

Due politici di lungo corso, Chris Dodd del Connecticut e Byron Dorgan del Nord Dakota, hanno deciso di non ricandidarsi

pito da alcuni mesi e che è spesso è stata la causa di decesso tra quanti sono stati testimoni della tragedia atomica. Ne è prova anche la scomparsa del secondo figlio di Yamaguchi, scampato anche lui alla bomba quando era poco più che bambino, e deceduto di cancro pochi anni fa, nel 2005: un evento triste, ma che aveva dato al minuto ingegnere navale della Mitsubishi Heavy Industries, più forza e determinazione per raccontare l’orrore cui aveva assistito. Per ben due volte.

Nato a Nagasaki nel 1916,Yamaguchi aveva subito il 6 agosto del 1945 il bombardamento di Hiroshima durante un viaggio di lavoro nella città portuale all’epoca ricca di cantieri navali e, tornato a casa tre giorni dopo, aveva assistito pure a quello della sua città, a sud dell’arcipelago. Lo status di doppio “hibakusha” (persona colpita da radiazioni) è stato riconosciuto appena lo scorso marzo, quando alla posizione di sopravvissuto alla bomba di Nagasaki, si è aggiunta anche quella di reduce di Hiroshima. «Dopo aver sperimentato i bombardamenti atomici, il mio destino è di parlarne ai giovani», spiegava Yamaguchi, protagonista di un film-documentario del 2006, Niju Hibaku (Doppia irradiazione), proiettato anche all’Onu di New York.


cultura

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Novità. Prende sempre più piede, in Italia, la tendenza ad affidare il benessere a strutture di vecchi borghi lontani dalla modernità

Quel dolce dormir antico Viaggio nella quiete degli “alberghi diffusi”, dove il riposo si unisce alla tradizione del passato di Lucia Colafranceschi utto resta com’era nel passato: muri anneriti dal tempo, segni di fuliggine in ogni dove, scrostature secolari sulle pareti, letti in ferro battuto, lenzuola di lino. Sono gli elementi basilari del “dormire antico”. Si tratta di una nuova tendenza, nata pochissimi anni fa, partorita dalla geniale mente dell’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren che intuì le conseguenze positive che avrebbero potuto avere sul territorio e sul turismo il restauro conservativo e la destinazione ad “albergo diffuso” di alcuni edifici del borgo di una cittadina abbandonati e in cattive condizioni.

gi. L’unica eccezione consentita all’opera di restauro, per ovvi motivi igienici, è la realizzazione del bagno, che per il fatto di non esistere nelle dimore popolari di una volta, rappresenta l’unica deroga alla volontà di far rivivere fedelmente il passato e possiede il comfort e il design della modernità. Insomma, un po’ casa, un po’ albergo: questa è in sostanza la nuova forma di ospitalità che prende il nome di “albergo diffuso”. Ma vediamo nel dettaglio che cosa racchiude questo termine. Come lo stesso imprenditore Daniele Kihlgren descrive (da alcune interviste rilasciate a quotidiani e a riviste specializzate nel turismo italiano) e come si legge dai portali dei migliori Tra gli esempi eccelesempi ad oggi in attività sul lenti di questa nuova territorio nazionale (Il Castello tendenza, Santo Stefadi Sismano in Umbria o La lono di Sessanio, un borcanda del Ditirambo in Ciociago medievale nel Parco ria) «…le sue componenti sono Nazionale del Gran Sasso dislocate in immobili diversi, e dei Monti della Laga, in che si trovano all’interno dello provincia de L’Aquila, dallo stesso nucleo urbano. L’aggettistesso Kihlgren definito come vo “diffuso” denota dunque una «il luogo ideale in cui fare base montato. Anche la colazione struttura orizzontale e non verper le escursioni e nello stesso racchiude in sé antiche usanze: ticale come quella degli albertempo trovarsi al centro di ci si siede sulle sedie impaglia- ghi tradizionali, che spesso asun’esperienza culturale e sen- te intorno a semplici tavoli fatti somigliano ai condomini. L’alsoriale unica». Una “full immer- rivivere da mani esperte e si bergo diffuso si rivolge a una sion nel passato”, così si po- gustano marmellate, crostate domanda interessata a soggiortrebbe definire questa sorta di fatte in casa o saporiti formag- nare in un contesto urbano di tendenza che miete pregio, a vivere a conproseliti in diverse zone tatto con i residenti, dell’Italia, esclusivapiù che con gli altri tumente incentrata sul reristi e ad usufruire di L’associazione culturale “Identità e Territorio” di Giucupero dei valori e dei normali servizi alberliano di Roma, un borgo medievale che fa da spartiaccostumi del passato. Il ghieri, come la colazioque tra le valli del fiume Sacco e dell’Amaseno, ha prorigore filologico, la pasne in camera o il servimosso a fine dicembre un interessante convegno sulle sione e la meticolosa zio ristorante. L’alberpotenzialità di sviluppo turistico di quecura con cui vengono go diffuso si rista parte di Ciociaria, con l’obiettivo di condotte le operazioni vela pertanto alimentare il dibattito in materia. Il di restauro delle antiparticolarmenconvegno, intitolato “Sviluppo turistico che palazzine dei borte adatto a vadella Valle dell’Amaseno”, organizzato ghi consentono di far lorizzare borin collaborazione con la “True blue riemergere l’architettughi e paesi con Italy” dell’imprenditore romano Riccarra, l’artigianato e gli usi centri storici di do Abet, è stato patrocinato dall’Ammidel borgo stesso, ma sointeresse artinistrazione provinciale e ha visto la preprattutto la volontà, da stico o archisenza di autorevoli ospiti delle autorità parte di chi in un certo tettonico, che locali. Il convegno aveva lo scopo di disenso lo aveva “abbancosì possono scutere le condizioni di possibilità di un donato”, di riapprorecuperare e turismo nella Valle dell’Amaseno. Tra priarsene. Tutto resta valorizzare gli interventi più significativi, quello di Beatrice Gazzelcome era nel passato: vecchie strutture chiuloni, che con “La Locanda del Ditirambo” a Castro dei case di intonaco grezse e non utilizzate e al Volsci ha aperto il 1° albergo diffuso della Ciociaria. Il zo, scale in legno, camitempo stesso possono suo intervento potrebbe essere considerato come uno ni in pietra, muri anneevitare di risolvere i sprone o meglio una sfida a far rivivere il passato nei riti dalla fuliggine, letti problemi della ricettiborghi ciociari nel solco di una lunga tradizione che la in ferro battuto restauvità turistica con nuoterra orgogliosamente conserva e tramanda. rati dalle mani di abili ve costruzioni». Basta artigiani, pavimenti in cliccare sul sito inter-

T

cotto o in pietra, coperte in lana tinta con colori vegetali, tessute al telaio, insomma piccole ma preziose eredità del passato, che così torna a rivivere. Anche il mangiare fa “respirare” l’antico: piatti estremamente semplici, di carne, verdure, formaggi, questi ultimi preferibilmente realizzati dagli ultimi, volenterosi, pastori presenti in zona, tutte pietanze che riportano ad umili civiltà contadine e fanno riemergere un passato mai tra-

il convegno

net dell’Adi, l’Associazione nazionale degli alberghi diffusi, e ci si può fare un’idea chiara di che tipo di successo sta ad oggi riscuotendo questa originale e allo stesso tempo antica tendenza alberghiera. Ci si imbatte in diversi commenti di altrettanti turisti che raccontano di come nel soggiorno abbiano potuto assaporare l’antico dormire in un borgo impreziosito dalla volontà di ritorno al passato, dal semplice riposare in un letto in ferro battuto, al calore emanato nella piccola stanza dal camino in pietra, alla bontà dei prodotti culinari assaporati, frutto di una cucina ricercata e squisita. Insomma, piccole e gradite attenzioni che possono rendere magica la bellezza di un borgo.

E ciò che rende particolarmente speciale l’albergo diffuso è il fatto che per realizzarlo non sono necessarie costruzioni, non occorre il solito cementificio che cancella le già esili tracce del passato: non bisogna posare un solo mattone, il tutto è già stato costruito secoli fa, è necessario soltanto farlo “rivi-

vere”. L’albergo diffuso lo si potrebbe pertanto definire ad oggi una realtà turistica di nicchia ma in forte ascesa. Un’idea, come detto, brevettata in Italia, ma conosciuta ormai in tutto il mondo. Questa tendenza di successo prende spunto da tante formule ricettive ma a differenza delle altre porta in grembo la volontà di non scollarsi dal passato, ma anzi di fare dell’antico una virtù. La gestione solitamente è imprenditoriale. I clienti vivono in una realtà tranquilla, fatta di tradizioni e prodotti locali, anche se non del tutto “fuori dal mondo”. Nei borghi che ospitano l’albergo diffuso infatti non possono di certo mancare una farmacia, un bar, o un’edicola il minimo indispensabile perché la struttura possa rimanere aperta tutto l’anno e possa garantire il necessario ai turisti ospitati. Ormai sviluppata in tutta Italia, questa nuova tendenza prende piede soprattutto nell’Italia del Centro e del Sud. Basti pensare addirittura alla Puglia dove, secondo un sondaggio effettuato dal Sole 24 ore, il “dormire antico” starebbe conquistando il


cultura

7 gennaio 2010 • pagina 19

La struttura da lui progettata è il fiore all’occhiello del progetto culturale

«Un modello di sviluppo per il nostro Meridione» A tu per tu con l’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren, “padre” dell’albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio ROMA. Nel nostro viaggio alla scoperta del

primato di scelta turistica presso gli anglosassoni e i nordeuropei in genere che preferiscono un’esperienza in un trullo del ‘600 o in un casale restaurato piuttosto che soggiornare in un five stars hotel.

Grazie all’albergo diffuso, il restauro conservativo di antiche ma preziose strutture di borgo consente al turista di lasciarsi andare in una dimensione spazio-temporale fuori dal comune. Un’esperienza che si potrà capire perfettamente soltanto vivendola da “ospiti”.

“dormire antico” non potevamo esimerci dall’intervistare “il padre” di quello che è ad oggi è considerato un esempio di eccellenza tra gli alberghi diffusi, l’imprenditore italosvedese, Daniele Kihlgren, presidente della Sextantio Spa, che in pochissimi anni è riuscito, animato da tanta passione, intelligenza e volontà d’animo, a trasformare il borgo di Santo Stefano di Sessanio, nel comprensorio del Gran Sasso aquilano, in un vero e proprio modello di sviluppo turistico. Come è nata in lei l’idea dell’albergo diffuso, quali sono le fondamenta sulle quali ha basato il suo ambizioso progetto, e soprattutto quali obiettivi vuole raggiungere? Quello che potremmo definire il “dormire antico” rappresenta per me un vero e proprio “progetto culturale” che si propone come “modello di sviluppo” per determinati territori del nostro Meridione. L’esempio compiuto di Santo Stefano di Sessanio, insieme a quello di altri borghi della montagna abruzzese, non è che il modello lampante di come si possa far rivivere e riqualificare un antico borgo partendo proprio dalle sue origini e valorizzandone appunto la sua antichità. L’Italia e in particolare il Sud del nostro Paese sulle cime dei colli lungo tutta la dorsale appenninica ha una notevole quantità di borghi storici, molti dei quali costituitisi in pieno Medioevo, nel periodo dell’incastellamento, il cui valore culturale ed estetico è costituito dal loro integro rapporto col territorio circostante, un paesaggio tanto seduttivo nel suo immaginario quanto nella realtà sempre più sulla via dell’estinzione. Su questo giudizio di valore si articola un progetto di ridestinazione economica avendo quale obiettivo la tutela dell’identità territoriale in tutte le sue molteplici declinazioni, dalla conservazione del rapporto storiapaesaggio circostante fino alla riproposizione in maniera diligentemente filologica delle culture materiali, dalle sagne pelose (cibo) alle coperte di lana con i colori di origine vegetali (artigianato domestico), ancora rintracciabili presso una generazione sulla via del tramonto. Quale, a suo avviso, dovrebbe essere il supporto, anche economico, che le istituzioni, a volte “pigre”, sarebbero chiamate a porre in essere nei confronti di

A destra, l’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren. Sopra, sotto e nella pagina a sinistra, alcune suggestive immagini dell’albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio (provincia de L’Aquila) e del centro Giuliano di Roma (provincia di Frosinone)

chi, come lei, si cimenta in un progetto come quello dell’albergo diffuso? La richiesta che questo progetto farebbe agli enti territoriali è esclusivamente di tipo vincolistico: impedire, cioè, per una volta, che la ridestinazione turistica non si porti dietro tonnellate di cemento travestite da baite tirolesi o cottage svizzeri. Quali sono gli elementi da tenere in considerazione prima di avventurarsi in un progetto così ambizioso e perché l’albergo diffuso potrebbe essere secondo lei un’idea vincente? Vede, sono diversi i borghi storici abbandonati, in particolare nella montagna appenninica del nostro meridione, dove si è conservata, in alcuni casi quasi intatta, la straordinaria identità, sia nel rapporto con il paesaggio, per la mancanza in alcuni luoghi delle invasive e “moderne” urbanizzazioni degli ultimi 50 anni, conseguenza del generale spopolamento, sia antropologicamente, perché l’elemento umano residuo ha mantenuto maggiori rapporti con la ritualità e l’immobilità delle antiche culture rurali. È questo che io considero un vero e proprio patrimonio da conservare e valorizzare: da quest’idea ne conseguono una specifica progettualità e infine un modello di sviluppo proprio. La prima con esplicito riferimento agli interventi privati e disciplinari da concordare con gli enti territoriali; il secondo come un modello di sviluppo che possa dare rispetto e dignità alle originali identità di questi territori e che sia parimenti una concreta possibilità di sviluppo produttivo per l’intero territorio e i suoi abitanti. Una scommessa complessa pertanto… Certo, più di quanto si riesca a spiegare con semplici parole. Cominciando dall’aspetto normativo: si può auspicare, ad esempio, che alcune semplici regole in ambito pubblico di tutela di queste identità siano disciplinabili soprattutto poiché non in conflitto con più proficui modelli di sviluppo. Nel nostro Paese non c’è stata, molto probabilmente per motivi culturali, grande attenzione al patrimonio storico “minore” e a un paesaggio di rara suggestione. Mi chiedo: l’albergo diffuso può essere considerato come la “panacea” per quelle aree che sono rimaste integre per la mancanza assoluta di modelli di sviluppo e, più in generale, di economie trainanti di (l.c.) alcun genere o specie?

L’Italia e in particolare il Sud ha una notevole quantità di borghi storici da far rivivere e riqualificare, per farci tornare alle origini abbandonando le “moderne” urbanizzazioni


cultura

pagina 20 • 7 gennaio 2010

In questa pagina, alcune delle fotografie dell’artista Christopher Makos, attualmente in mostra, fino al prossimo 15 gennaio, al Photology di Milano

i sono grattacieli che graffiano le nuvole, facce sgualcite di chi ha ballato fino all’alba allo Studio 54, primi piani di corpi nudi, fustini Pop di detersivo, filari di palme a Los Angeles, il traffico caotico di New York sbirciato dall’alto, le Twin Towers laggiù in fondo, due rossi guantoni da boxe. E poi gente. Un mucchio di gente che peregrinava alla corte di Andy Warhol: Lou Reed mentre fa le boccacce, Diana Ross in chiaroscuro, Steven Tyler degli Aerosmith, Patti Smith con un bizzarro copricapo, O. J. Simpson che impugna la pistola, Debbie Harry dei Blondie che sussurra qualcosa all’orecchio di Chris Stein…

C

Storie degli anni Settanta e Ottanta vissuti spericolatamente, sull’onda sonora del punk e della discomusic, racchiuse in duecento Polaroid. Un’accurata selezione è in mostra fino al 15 gennaio da Photology, a Milano.Tutte insieme, le potete invece ammirare nello splendido volume Polaroids (Edizioni Photology, 200 pagine, testo introduttivo dello stilista Calvin Klein, 65 Euro). Le ha scattate Christopher Makos e sono inedite: «Le avevo chiuse in una scatola e dimenticate», spiega il fotografo sessantunenne nato a Lowell, nel Massachusetts. «È stato Davide Faccioli, titolare

Mostre. Al Photology di Milano, fino al 15 gennaio, gli scatti di Christopher Makos

Vent’anni di arte in una Polaroid di Stefano Bianchi

«Le immagini dice l’artista - le avevo chiuse in una scatola e dimenticate. Sono il succo dell’istante, l’imprevisto, il qui e ora»

della galleria, a recuperarle quasi un anno fa nel mio studio. Non hanno mai visto la luce, né sono state danneggiate e tantomeno hanno preso acqua. Sono il succo dell’istante, l’immediatezza, l’imprevisto, il “qui e adesso”. All’epoca, scattare con la Polaroid non solo significava “essere alla moda”ma conservare qualcosa di più intimo da condividere con gli amici più cari, non col mondo intero. Oggi, al contrario, tutto ciò che hai fotografato finisci per ritrovarlo su YouTube, Facebook, Twitter… E non è la stessa cosa». Christopher Makos, presente con le sue fotografie nelle collezioni permanenti di cento e più musei internazionali (dal Whitney Museum of American Art di New York, al Reina Sofia di Madrid e all’Instituto Valenciano de Arte Moderno) è colui che ha immortalato Andy Warhol e John Lennon in un

vedevano posare accanto alla “musa” Edie Sedgwick. Sfoggiavano gli stessi capelli argentei, la stessa t-shirt a righe, gli stessi occhiali da sole per evidenziare quanto fossero esteticamente e caratterialmente simili. Mi è sempre piaciuta l’idea della Factory come laboratorio creativo, ma non ho mai fotografato Andy mentre dipingeva là dentro. Né mi sono mai considerato un suo fan, o un assiduo frequentatore di quel circo Pop, al contrario di Joe Dallesandro, Ingrid Superstar, Holly Woodlawn e altri nomi che gli ruotavano attorno». Per Makos, le foto perfette non esistono. Andrebbero definite, semmai, te-

memorabile scatto: «Era il giorno di San Valentino del 1979. Lennon venne a trovarci alla redazione di Interview e c’era anche Liza Minnelli. All’improvviso, Andy schioccò un bacio sulla guancia di John, poi si fece baciare sulla bocca da Liza. Sfruttai l’attimo fuggente e li fotografai. Tutto qui».

Fuori da Interview, pulsava New York dove tutt’ora vive e lavora: nel West Village, in Perry Street, vicino di casa di Calvin Klein e della fotografa Annie Leibovitz. Padre greco, madre di Grosseto, Makos ha vissuto da adolescente a Punta Ala e in California. I segreti dell’obbiettivo li ha appresi da Man Ray, genio dadaista: «Fu Luciano Anselmino, il suo gallerista, a farmelo conoscere a Fregene. Ed è stato là, nel ’75, che gli ho scattato un paio di Polaroid. Sotto l’ombrellone. Un anno prima che morisse». Le sue prime foto, visualizzando il grattacielo newyorkese

della Pan Am, mettono invece a frutto gli studi di architettura a Parigi: «Se li osservate bene, tutti i miei scatti hanno connotazioni architettoniche: siano essi paesaggi urbani, umani, floreali… Nel mio caso, l’occhio dell’architetto ha sempre coinciso con l’occhio del fotografo. Quando vado a Bilbao, la prima cosa che colpisce la mia attenzione è la forma del Guggenheim Museum di Frank Gehry. E se volo a Pechino, lo sguardo inevitabilmente si posa sui grattacieli. Tutto ciò ha influito sul mio modo di inquadrare i soggetti, di organizzarne gli spazi». Nelle Polaroid e in molte immagini in bianco e nero, c’è Andy Warhol che l’ha definito «il più moderno fotografo d’America». Lui, in effetti, è stato molte cose per il re della Pop Art americana: amico, assistente personale, fotografo per la rivista Interview, inseparabile compagno di viaggio a Pechino, Parigi, Aspen, Londra e fino a Milano, nell’87, per l’ultima mostra che rivisitava L’Ultima Cena leonardesca. Andy, in certe istantanee, si nasconde dietro una copia della sua Philosophy (from A to B and Back Again), fa lo svampi-

stimonianze di storie che altrimenti si ridurrebbero a ricordi sfuocati. «Non trovo nulla che mi piaccia, nei nuovi fotografi», puntualizza, «perché sono tristi, artefatti e non si sono minimamente preoccupati di studiare i grandi maestri dell’obbiettivo. L’unica cosa che riescono a fare è costruirsi un’identità con marchi tipo Gucci o Prada. Per ora, purtroppo, non vedo nuove Cindy Sherman all’orizzonte».

Per quanto lo riguarda, inve-

to con un pennarello fra le dita fingendo che sia un “cigarillo”, posa con una Polaroid nella mano sinistra e una Konica nella destra.

«L’ho incontrato per la prima volta nel ‘71 a una retrospettiva al Whitney Museum, dopo averlo scoperto negli anni Sessanta attraverso gli scatti che lo

ce, è iperattivo. Vuol continuare a fotografare (divertendosi, sperimentando) ed è ben lieto che il Summit Global Group, nuovo licenziatario del Polamarchio roid, stia per lanciare sul mercato la nuova versione della macchina fotografica istantanea. «A Barcellona, entro il 2010, ci sarà una mia grande mostra. Ed è anche previsto un nuovo libro: si intitolerà Lady Warhol. A chi mi domanda se Andy mi manca rispondo di no, perché lo sento sempre vicino e intorno a noi. Spesso, quando mi soffermo a ripensarlo, sono felice d’aver condiviso con lui il cattolicesimo. Ed essere uomini di fede, ci ha permesso di intendere e “fotografare” allo stesso modo la vita».


spettacoli

7 gennaio 2010 • pagina 21

Cartolina da Berlino. Dall’11 al 21 febbraio, la sessantesima edizione del Festival del Cinema. Tra attese, conferme e novità...

Si apre la caccia all’Orso d’oro di Andrea D’Addio

BERLINO. È senza dubbio The Ghost writer di Roman Polanski la pellicola più attesa, nonché film d’apertura, del prossimo Festival Internazionale del cinema di Berlino (dall’11 al 21 febbraio 2010). La curiosità è riposta non tanto sul film in sé, quanto nel capire come il regista polacco potrà promuovere la sua ultima opera. Se c’è un membro del cast che non può mancare mai quando un proprio film viene presentato ad un festival, quello è il regista. In questi giorni in cui per Polanski si sono mobilitate persone di ogni dove per impedire l’estradizione negli Stati Uniti, quanto tempo potrà dedicare il regista di Rosemary’s baby a conferenze stampa, interviste, première sul tappeto rosso e quant’altro? E, soprattutto, potrà recarsi davvero a Berlino? Dopo la sua assenza alla premiazione dell’Oscar che vinse nel 2003 per Il pianista, rischierà di dover mandare un videomessaggio di ringraziamento anche questa volta nel caso il suo film conquistasse l’Orso d’oro? Interrogativi su cui avrà certamente pensato Dieter Kosslick, direttore della Berlinale, prima di invitare il film di Polanski alla manifestazione. Il festival, che festeggia quest’anno la sua sessantesima edizione, ha trovato così il modo di attirare l’attenzione mediatica di tutto il mondo. Il film di Polanski farà parlare di sé anche per la sua storia di fantapolitica che tanto richiama la situazione geopolitica internazionale di oggi. The ghost writer, infatti, è tratto dall’omonimo best seller di Robert Harris e ha come protagonisti un fantomatico ex premier inglese (che ricorda tanto Tony Blair) ed uno scrittore assunto affinché ne scriva la biografia. Nel corso della loro conoscenza, dai racconti del leader cominciano ad emergere inquietanti scenari. Perché l’Inghilterra si è fatta trascinare dagli Stati Uniti nelle guerre in Medioriente nonostante sapesse che le prove per un attacco non fossero vere? Cosa lega davvero i premier delle due potenti nazioni? Quali altri interessi erano, e sono, in gioco nei conflitti in Iraq e Afghanistan?

Il film uscirà in Italia il 9 aprile con il titolo L’uomo nell’ombra. Nel cast Ewan McGregor e Pierce Brosnan. Polanski ci teneva così tanto ad una pronta uscita del suo film che, per accelerarne il montaggio finale, vi ha lavorato anche durante i giorni di reclusione nel carcere svizzero. Chissà che non possa essere il suo ultimo lavoro prima di un’incarcerazione ben più restrittiva. Altro grande nome atteso nella capitale tedesca è quello di Martin Scorsese. Con Shutter Island, thriller dalle atmosfere più che mai cupe ambientato negli anni Cinquanta (se ne parla come di un nuovo Cape fear-Il promontorio della paura), il regista newyorkese ritrova per la quarta volta consecutiva Leonardo Di Caprio (e una quinta è dietro l’angolo

Si aprirà ufficialmente il prossimo 11 febbraio il Festival del Cinema di Berlino. In basso, il direttore della kermesse Dieter Kosslick e la regista Claudia Llosa, Orso d’oro lo scorso anno con la pellicola “La teta asustada”

con la biografia di Theodore Roosevelt). Con lui Max Von Sydow e Ben Kingsley. Tra i dieci film che la direzione artistica del festival ha già anticipato (il programma completo sarà svelato a metà gennaio), c’è da segnalare il ritorno della bosniaca Jasmila Zbanic (Orso d’oro nel 2006 fa con Grbavica) che con On the path continua ad indagare sul tormentato rapporto tra Erzegowina e Serbia, mentre l’iraniano Rafi Pittis porterà sul grande schermo un film d’azione mediorientale con The Hunter. Un occhio di riguardo è destinato anche al sempre più popolare, anche in Europa,

che essere due. A riceverli saranno l’attrice Hanna Schygulla e lo sceneggiatore Wolfgang Kohlhaase. La prima fu musa di Rainer Fassbinder, con cui lavorò per ventitre film e con il quale contribuì alla cosiddetta “rinascita” negli anni Settanta del cinema della Germania federale.

Il settantottenne berlinese “dell’Est” Wolfgang Kohlhaase fu invece uno dei pochi autori capaci di raccontare con realismo, ma allo stesso tempo senza cadere nelle morse della censura, la vita quotidiana nella Ddr. Lo fece nel

Sotto i riflettori, la pellicola di Polanski “The Ghost writer”, ma anche “Shutter Island” di Scorsese e “On the path” della Zbanic. Ancora silenzio sulla partecipazione dell’Italia 1957, con Berlin, Ecke Schönhause. Lavorò poi con i celebri registi orientali Gerhard Klein, Konrad Wolf e Frank Beyer diventando uno dei pilastri della Defa, la società statale della Germania dell’Est che influenzò l’intera produzione cinematografica al di là del muro, fino al 1992, anno del suo scioglimento. La sua carriera è continuata

cinema indiano che, con My name is Khan, celebra uno dei più acclamati attori di Bollywood, Shahrukh Khan. Nell’anno del ventennale della riunificazione tedesca, gli Orsi d’oro alla carriera non potevano

con successo, caso più unico che raro per i cineasti dell’ex Ddr, anche in questi ultimi vent’anni con una serie di pellicole apprezzate sia dal pubblico che dalla critica, come Il silenzio dopo lo sparo, uscito in Italia nel 2002. Un autore che, a detta del direttore creativo del festival Rainer Rother, si è rivelato «un vero colpo di fortuna per il cinema tedesco». A premiare Schygulla e Wolfgang Kohlhaase sarà il grande regista tedesco Werner Herzog nelle vesti di Presidente di giuria. È stato un anno particolarmente ricco di eventi e partecipazioni per lo schivo autore di Aguirre. Dopo i due film presentati a Venezia (Il cattivo tenente, Ultima chiamata New Orleans e My Son, My Son, What Have Ye Done) e la realizzazione di un breve documentario dedicato a La bohème, ora è la volta di Berlino.

Il rapporto di Herzog con la propria patria sembra vivere un momento positivo, dopo il recente trasferimento del regista negli Stati Uniti d’America. È infatti notizia di poche settimane fa la sua donazione alla Cinemateca tedesca e della televisione, della completa collezione di sceneggiature, foto, poster e materiali produttivi di tutti i film a cui ha lavorato fino ad oggi. A giovarsene sarà il Museo del cinema e della televisione che ha sede a Postdamer Platz, proprio a due passi da dove la Berlinale ha il suo epicentro. Chiusura dedicata all’Italia: nell’attesa di sapere quanti e quali film del Paese ci rap(l’anno presenteranno scorso nessuno, e fu polemica), a rappresentare il nostro cinema ci sarà sicuramente l’attore Michele Riondino, in lizza con altri sei giovani talenti per il premio di stella emergente del cinema europeo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The Indipendent” del 03/01/10

«Terre rare» rarissime di Cahal Milmo ’Inghilterra e molti altri Paesi rischiano di vedere le proprie scorte di metalli rari assottigliarsi. Si tratta di minerali essenziali per lo sviluppo delle tecnologie legata alla green economy. I timori si stanno trasformando in certezze visto che Pechino ha drasticamente ridotto l’esportazione di una risorsa di cui detiene il monopolio mondiale. Nella tavola degli elementi di Mendeleev si chiamano «terre rare» (tra queste il neodynium) ed è molto difficile che in breve si riesca a sostituire le esportazioni che la Cina ha tolto dal mercato internazionale. Gli effetti sarebbero diretti e immediati sull’industria delle tecnologie anti gas-serra che fa affidamento su questi 17 metalli per costruire delle componenti vitali per la produzione di energia verde. Parliamo, ad esempio, delle turbine per l’eolico e delle lampadine a basso consumo.

L

La Cina, sul cui territorio ci sono le miniere che producono il 97 per cento di questi minerali, si vuole assicurare che la trasformazione della materia prima in prodotti per l’industria ecologica venga fatta all’interno dei propri confini. Negli ultimi sette anni Pechino ha ridotto del 40 per cento le esportazioni di terre rare e fonti dell’Indipendent , legate all’industria, affermano che le autorità cinesi nel prossimo anno potrebbero bloccare l’export di altri due elementi. Si pensa che per il 2012 voglia utilizzare tutto il materiale estratto per soddisfare il previsto boom nella domanda interna. Questo creerà sicuramente una crisi nei mercati occidentali, dove si scatenerà la corsa a fonti di produzione alternative. Già ora molte società stanno aprendo miniere in Sud Africa e in Groenlandia per soddisfare la domanda presente e futura. Si sospetta anche che Pechino voglia utilizzare il monopo-

lio come strumento di politica estera. Le autorità britanniche tengono sotto osservazione il mercato, per vedere se esistono delle violazioni alle leggi sul libero commercio da parte della Cina. Jack Lifton un esperto del settore afferma che «siamo vicini a una vera crisi. Negli Usa come in Inghilterra non c’è ancora la consapevolezza di quanto sia urgente trovare una soluzione rapida per nuovi approvigionamenti alternativi a quelli cinesi di terre rare. La Cina è passata dall’esportazione del 75 per cento del prodotto delle proprie miniere ad appena il 25 per cento e non si sente assolutamente responsabile rispetto alle necessità e alle esigenze del mercato internazionale. In Occidente si sono create nuove miniere, ma ci vorranno dai cinque ai dieci anni perché diventino pienamente produttive». Solo recentemente questi elementi naturali sono diventati importanti per l’industria, specialmente con il boom degli IPhone e degli strumenti a raggi X di cui sono una componente essenziale. La domanda globale negli ultimi dieci anni è triplicata, passando da 40 mila a 120mila tonnellate annue. Pechino ha annunciato di aver programmato per i prossimi sei anni un livello d’esportazione bloccato sulle 35mila tonnellate all’anno. Una quantità appena sufficiente a soddisfare la domanda giapponese. Ad esempio la Toyata quest’anno produrrà circa un milione di autovetture Prius a propulsione ibrida. In ogni vettura

sono presenti circa 16 chilogrammi di terre rare. Si prevede che per il 2014 la domanda dovrebbe salire a 200mila tonnellate annue, se la green economy dovesse mantenere lo sviluppo previsto. L’industria mondiale che fa affidamento sulle qualità di questi elementi “rari”è piuttosto vasta, va dalla produzione di sofisticati sistemi guida per missili a quella di fibre ottiche. Un giro d’affari stimato intorno al 5 per cento del pil mondiale. La quasi totalità della produzione cinese proviene dalla miniera di Baotou nella Mongolia interna. Il resto è fornito da piccole miniere, spesso illegali, nel sud del Paese.

L’elemento più diffuso è il neodynium che è una componente essenziale nei magneti presenti nei motori di ultimissima generazione. Per ogni turbina eolica ne servono due tonnellate. È giunto il momento di correre ai ripari. Un’azienda come la Toyota si è assicurata una propria miniera in Vietnam per garantirsi l’autosufficenza.

L’IMMAGINE

La maggior parte degli italiani ha vissuto il periodo più felice solo nel dopoguerra Una grande indagine storica e sociale fatta dagli istituti di statistica ha determinato che gli italiani sono stati felici nel dopoguerra, quando l’Italia si preparava ad entrare nel periodo del boom economico. In realtà le gioie vengono solo quando è ben poco ciò che si può perdere, mentre è tanto ciò che si può conquistare con serietà e continuità. Gli italiani con la guerra hanno perso molto,perché si è venuta a trasfigurare la sua unità, costruita con tanto sangue, e anche perché una certa cultura di sinistra ha voluto raffigurare un Paese diviso e nettamente stravolto. È successo così che si è affossata totalmente la cultura della destra, che oggi si sta cercando di recuperare. La destra è stata all’avanguardia dei pricipi della libertà e dell’azione umanitaria nei confronti di quei popoli, assoggettati atavicamente a un monarca repressivo. Oggi la sinistra non ha la forza per opporsi a quanto sta succedendo in Iran, e nei confronti della brutalità con la quale in Cina più che negli Usa si esercita ancora la pena di morte.

Bruno Russo

LO SCIACALLAGIO SUI PAPÀ Come saprete in quanto responsabile del portale paternità ed infanzia ricevo quotidianamente storie di papà e figli in difficoltà, questa però è un dovere raccontarla, brevemente, senza commenti. Lorenzo (nome di fantasia, papà trentenne) da circa due anni e mezzo convive con una donna alla quale ha donato tutto, tanto amore, ed una figlia; anche la sua casa e tutto il resto condivide con lei. Tempo fa però lei lo tradisce e chiede la separazione. Lorenzo non può che accettare.. e propone pacificamente di continuare a condividere la figlia insieme, prim’ancora che per la nuova legge 54/06, per il semplice fatto che sino ad oggi hanno sempre curato la bambina allo stesso pari (se

non quasi più lui). Ma non solo.. decide per cercare di arrivare ad una soluzione bonaria che eviti le nocive e lunghe battaglie giudiziarie di lasciare per 18 mesi la sua casa alla ex. compagna che lo ha tradito (un gesto di grande maturità!) con accordo, garanzie e tutto. Ma lei rifiuta tutte le proposte, forte della prassi giudiziaria che come in un LETARGO DELLA MENTE si è dimenticata delle nuove normative ma anche della Costituzione Italiana che da ai figli due genitori con eguale dignità. Lei inizia a dire frasi tipo -“I figli sono delle madri!”- come fosse stata sempre fino a quel punto l’unico genitore. I fatti le danno ragione. Pochi giorni dopo arriva la sentenza. Con la piccola, LEI 22 giorni LUI 8. Alla faccia dell’AF-

L’isola nell’isola Siete in cerca di un paradiso terrestre? Maupiti Island, l’isola con la “piscina incorporata”, potrebbe fare al caso vostro. L’atollo, poco più di 13 chilometri quadrati in pieno sud Pacifico (Polinesia francese), è infatti famoso per avere una specie di altro isolotto al suo interno: il vulcano spento Teurafaatiu

FIDO CONDIVISO, alla faccia delle “PRECEDENTI ABITUDINI DEL MINORE”. In virtù di questo lei guadagna la casa e circa 300 euro di assegno (lavorano entrambi con circa lo stesso stipendio sui 1000 euro e qualcosa). La notifica avverrà il 5 gennaio 2010, Lorenzo ora ha pochi giorni per

lasciare casa sua, dal 5 Gennaio avrà 10 giorni per fare appello e opporsi. Ma oggi arriva la ciliegina. Degna del miglior SCROOGE nel canto di Natale di Dickens. In questi giorni di festa natalizia l’avvocata di lei chiama l’avvocata di lui, dicendo: “allora, il tuo assistito pagherà gli alimenti, ha in-

tenzione di comportarsi bene?” poi continua accanendosi anche sui pochi giorni rimasti.. - “perché altrimenti ti notifico la sentenza oggi, in modo che i 10 giorni decorrano da oggi”. L’avvocata di lui si appella alla deontologia professionale, senza alcun risultato.

F. Barzagli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Rieccomi qui da cento anni Carissimi, avete ancora salutato a lungo i miei due boccioli di rosa? Siete stati tutti così cari con me, ci ho potuto ripensare per tutto il viaggio in treno; ora questo campo, con la sua miseria davvero enorme di deportazioni in arrivo, e in partenza, mi ha completamente inghiottita un’altra volta. Rieccomi qui da cento anni. Il viaggio in treno è stato abbastanza piacevole. C’è un simpatico spirito cameratesco fra noi. I miei colleghi mi hanno presa ben bene in giro, ma me ne sono accorta soltanto alla fine. Hanno cominciato a dire che da Assen fino al campo dovevamo farla a piedi, con bagagli e tutto quanto: mi è sembrato che la cosa potesse ancora andare. Ma quando sono arrivati a dirmi che nel campo era stato aperto un piccolo negozio di torroni, che nell’area dell’orfanotrofio si era svolta una sfilata floreale e che ora vi si giocava a polo, mi si sono aperti gli occhietti. A Assen ci aspettava un autocarro in cui entrava l’acqua, e diluviava. Siamo arrivati piuttosto bagnati. Ci hanno condotti in uno stanzone, dove i nostri zaini e le nostre valigie sono stati ispezionati. Ho aperto la valigetta di giunco con il Corano e il Talmud, ma non hanno visto il mio zaino grande come una casa, e così ho potuto stare tranquilla. Etty Hillesum a Han Wegerif e altri

ACCADDE OGGI

ALLEVIANO IL MAL DI VIVERE MA CAUSANO DANNI PEGGIORI Non sono un esperto di salute mentale, ma ho una certa dimestichezza con i numeri e le statistiche. Le recenti aggressioni a Berlusconi e al Papa mi hanno indotto a riflettere su alcuni fatti, circa gli effetti degli psicofarmaci, che vorrei sottoporre alla sua attenzione. I protagonisti di entrambi gli episodi (e di numerosissimi altri, occorsi però a gente non famosa) erano da tempo in cura per disturbi mentali. Questo induce molti a ritenere la loro malattia come responsabile di questi comportamenti violenti: un’analisi più attenta svela però un’altra verità. Non passa giorno senza che un luminare ci metta in guardia contro i disturbi mentali che, si dice, affliggerebbero una fetta di popolazione molto maggiore di quanto non si creda, arrivando addirittura a colpire oltre il 15%. Di questa vastissima moltitudine di svitati (depressi, schizofrenici, maniaci e quant’altro), solo una piccola parte meno di un terzo - verrebbe correttamente diagnosticata e curata. Come mai solo questi ultimi sono responsabili per la maggior parte degli atti di violenza? Nella migliore delle ipotesi (se cioè le cure psicofarmacologiche non facessero niente - come fossero dei placebo), dovremmo aspettarci il doppio di atti irrazionali e violenti da parte di persone “sane”rispetto a quelle in cura. Se invece le cure fossero efficaci, questo rapporto dovrebbe addirittura salire, in seguito al fatto che i “malati” sono ora curati e riescono a

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

7 gennaio 1927 Prima telefonata transatlantica tra New York e Londra 1935 Benito Mussolini e il ministro degli esteri francese Pierre Laval firmano gli accordi Italo-Francesi 1954 La prima dimostrazione di un sistema di traduzione automatica viene tenuta a New York alla Ibm 1959 Gli Stati Uniti riconoscono il nuovo governo cubano di Fidel Castro 1975 L’Opec accetta di alzare il prezzo del petrolio del 10% 1979 Pol Pot e i Khmer Rossi vengono rovesciati dalle truppe vietnamite 1984 Il Brunei diventa il sesto membro dell’Asean 1989 Akihito diventa Imperatore del Giappone 1990 Per motivi di sicurezza viene chiusa al pubblico la Torre di Pisa 1992 Eccidio di Podrute, un elicottero dell’Ale in missione per il controllo e il rispetto del cessate il fuoco viene abbattuto da un Mig21 jugoslavo 1999 Inizia il processo per l’impeachment di Bill Clinton

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

controllarsi meglio. Invece si assiste all’esatto opposto: la stragrande maggioranza di atti irrazionali e violenti viene commessa da persone in cura, dimostrando che questi farmaci non solo sono dannosi per il fisico, ma peggiorativi della salute mentale! Incuriosito, ho cercato un po’ di dati sul web. Quello che ho trovato mi sconcerta: 1. i foglietti illustrativi inseriti nelle confezioni di molti degli psicofarmaci più venduti, riferiscono tra gli effetti collaterali la possibilità di comportamenti violenti, distruttivi e autodistruttivi. Non solo, le agenzie di farmacovigilanza di molti paesi hanno da tempo obbligato le case produttrici a mettere in risalto queste informazioni su dei riquadri neri ben visibili anche sulla confezione (come si fa da noi per le sigarette); 2. molti di questi farmaci danno dipendenza e/o assuefazione; 3. la vendita degli stessi aumenta vertiginosamente ogni anno. La lettura dei bugiardini mi ha anche insinuato il dubbio che questi farmaci possano avere un ruolo persino negli incidenti stradali o sul lavoro. Le autorità di solito verificano il tasso alcolemico, ma nessuno si preoccupa di verificare se nel sangue siano presenti altre sostanze dagli effetti ben più forti. Mi domando se questi farmaci (in inglese drug) non possano essere considerati come delle droghe vere e proprie che, modificando l’umore di una persona, artificialmente alleviano il “mal di vivere”, causando però danni ben peggiori.

Alberto Brugnettini - Milano

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LE ROYALTIES DEL PETROLIO PER LO SVILUPPO DELLA CITTA’ DI POTENZA I benefit delle royalties del petrolio in Basilicata devono essere trasferiti anche alla città di Potenza, per la mole di servizi che la città, capoluogo di regione, eroga quotidianamente al suo hinterland e all’intera comunità lucana. Potenza, ha svolto per anni e deve continuare a svolgere un ruolo centrale e di raccordo con l’intera regione. E ha tutte le potenzialità necessarie per continuare ad offrire all’intera comunità regionale servizi primari di eccellenza, che andrebbero però migliorati. Tutto ciò è ancor più vero all’indomani della concretizzazione dell’ambizioso progetto del piano strutturale metropolitano, mediante la definizione di un confine di città connessa al suo hinterland che includerà anche i comuni di Anzi, Avigliano, Brindisi di Montagna, Picerno, Pietragalla, Pignola, Ruoti, Tito, Vaglio, per giungere a divenire una grande area riconoscibile come luogo di servizi avanzati. Non si tratta di riproporre il vecchio slogan “città-regione” o di attuare una forma di rivendicazionismo territoriale, quanto di valorizzare un nuovo protagonismo del capoluogo anche rispetto alle priorità della programmazione regionale e rimuovere tutte quelle questioni e strozzature allo sviluppo ancora persistenti. I Circoli Liberal di Basilicata (Udc), fuori da ogni intento campanilistico rilanciano la centralità e l’importanza strategica della città come volano di crescita per lo sviluppo dell’intera regione e intendono sottoporre al dibattito delle forze politiche, amministrative, culturali e imprenditoriali la necessità che la regione Basilicata impegni cospicue risorse provenienti dalle royalties del petrolio per contribuire a superare problemi ancora aperti della città che, se risolti, produrranno ricadute positive sui centri dell’hinterland e sulla istituenda Area metropolitana. Si tratta di comprendere che dalla risorsa petrolio è necessario ricavare un percorso di trasformazione dei cicli produttivi e industriali, ovvero, sfruttare questa importante ricchezza per sostenere processi di riconversione industriale, investendo nei settori delle nuove tecnologie e nelle fonti alternative. I Circoli Liberal ritengono che la Regione debba contribuire direttamente nella risoluzione di: 1) questione rifiuti con impiantistica dedicata; 2) vendita a costi agevolati di energia per la mobilità urbana; 3) acquisto di auto ecologiche in dotazione del parco mezzi comunale; 4) riqualificazione Bucaletto, con interventi di edilizia sociale e progetti comunitari o nazionali; 5) costruzione aeroporto civile; 6) dislocamento della centrale Enel di via del Gallitello e della Sider Potenza; 8) investimenti nel campo imprenditoriale delle innovazioni tecnologiche, dell’energia rinnovabile e del fotovoltaico attraverso l’istituzione di una Agenzia per lo sviluppo; 9) rafforzamento del polo ospedaliero; 10) vantaggi fiscali per le aziende e le imprese che intendono aprire le loro attività nel capoluogo di regione. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L D I PO T E N Z A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Eroi. Un’amicizia consolidata nel 1850 alla Staten Island di New York

Quando Garibaldi e Meucci fabbricavano di Velia Majo ue amici vanno a pesca insieme costeggiando Staten Island, l’isolotto della baia di New York, uno dei cinque distretti dello Stato di New York, raggiungibile da Manhattan con trenta minuti di traghetto. L’anno è il 1850 e la barca è dipinta, non a caso, con i colori della bandiera italiana: bianco, rosso e verde. Ai due piace pescare, andare a caccia e “sperimentare” cose nuove per make a living, per tirare a campare, niente di più semplice e naturale, se non fosse per il fatto che i due “pescatori”siano rispettivamente Giuseppe Garibaldi e Antonio Meucci. Spinti dalla stessa smania di conoscenza ed accomunati dalla sofferenza di esuli italiani in terra d’America, Garibaldi e Meucci arrivano a New York nello stesso anno, se pur provenendo da differenti paesi. Accompagnato dalla moglie Ester, il fiorentino Antonio Meucci aveva appena lasciato il 23 aprile 1850 Cuba, dove aveva lavorato come meccanico teatrale, per imbarcarsi poi sulla nave che lo porterà a New York il primo maggio 1850. Dopo varie dimore in Harlem, Hoboken e Long Island, Meucci e la moglie, su indicazione di Lorenzo Salvi, un famoso tenore italiano anch’egli esule in America, si stabiliscono in un cottage a Staten Island. Pochi mesi più tardi a bordo della nave “Waterloo” arriverà a New York anche il generale Giuseppe Garibaldi, provato dalla morte della moglie Anita ed addolorato per la caduta della Repubblica Romana, era stato esplicitamente “invitato” dal governo piemontese a lasciare l’Italia ed andarsene in esilio. Al suo arrivo Garibaldi fu accolto come un eroe dalla comunità tedesca, francese ma soprattutto da quella italiana residente a New York.

D

Ed è a questo punto che l’amicizia trai due si consolida, tanto che Meucci e la moglie Ester, invitano Garibaldi a trasferirsi per vivere nel loro cottage, nel quartiere di Rosebank a Staten Island. La situazione finanziaria di Garibaldi era del tutto precaria. Il generale era arrivato in America con poco denaro e Meucci aveva già cominciato a spendere la fortuna che aveva

accumulato durante la sua permanenza a Cuba. Con l’aiuto anche del maggiore Paolo Bovi Campeggi, che aveva accompagnato Garibaldi in America, i due pensarono bene di aprire una fabbrica di salsicce e salami, ma il commercio non riscosse molto successo, così decisero di mettere fine all’attività.

Ma il vulcanico Meucci aveva già pronta una nuova idea: quella di fabbricare candele steariche. Nasce così la “The New York Paraffine Company”. L’intento di questa attività è quello di dare lavoro a tanti esiliati italiani. Garibaldi lavora nella fabbrica di candele ed è proprio nel cottage dei Meucci che inizia a

noscenza del fatto che Alexander Graham Bell gli ruberà il brevetto per l’invenzione del telefono. «Il telefono che come tu sai io ho inventato, mi è stato rubato!». Affascinato dai fenomeni elettrici, Meucci aveva lavorato per circa vent’anni al suo progetto di “teletrofono”. Ma non ebbe mai a disposizione mezzi economici sufficienti a sviluppare le sue idee. Quando la moglie si ammalò di una grave artrite, fu allora che perfezionò il suo “teletrofono”tanto da sentire la voce della moglie Ester, ormai paralizzata nella sua stanza, fino alla vicina fabbrica di candele. A questa disgrazia ne seguì un’altra: un grave incidente durante il quale Meucci rimase coinvolto.

CANDELE scrivere le sue Memorie autobiografiche e di quel periodo trascorso a Staten Island avrà un vivido ricordo: «…Lavorai per circa sei mesi nella fabbrica di candele - scriverà Garibaldi con Meucci che mi trattò come uno di famiglia, con molta amorevolezza, ma un giorno spinto

I due abitarono insieme per anni nel cottage della famiglia dell’inventore. Dal 1962 la casa è diventata un Museo, sotto la tutela di “The Sons of Italy Foundation” da irrequietezza naturale, uscì di casa con l’intento di cambiar mestiere». Garibaldi lascia il cottage dei Meucci a Staten Island, saluta l’amico fiorentino, ma i due restano in contatto. Ed è proprio a Garibaldi che Meucci scrive quando viene a co-

Durante questo periodo la moglie Ester decise di vendere ad un rigattiere per pochi dollari il teletrofono. Una volta guarito Meucci tentò di ottenere un brevetto temporaneo. Fece causa alla Bell Company, ma nel processo tenutosi nel 1885, il giudice gli diede torto. Solo nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto la paternità di Meucci nell’invenzione del telefono. Il cottage di Staten Island dove Meucci visse con la moglie Ester e dove soggiornò Garibaldi, è stato trasformato nel Garibaldi-Meucci Museum.

Dal 1962 è sotto la tutela di The Sons of Italy Foundation. Custodisce suppellettili appartenuti all’inventore fiorentino, strumenti del suo teletrofono, fotografie ed altri oggetti che Garibaldi in partenza da Staten Island, lasciò come ricordo al geniale amico. Il Museum ospita mostre d’arte e corsi di lingua italiana. Nel cortile, durante i mesi estivi vengono organizzati concerti all’aperto. La casa-museo è a testimonianza e a conferma delle vicissitudini di due spiriti eletti che, per amore della libertà e della verità, con coraggio, furono disposti ad avventurare la vita.


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