La libertà non è una cosa
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che si possa dare; la libertà, uno se la prende, e ciascuno è libero quanto lo voglia essere
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James Baldwin di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 8 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il celebre scrittore, e leader di Charta ’77, guida un nuovo movimento di intellettuali per la difesa dei diritti umani in Cina
«Troppo silenzio su Pechino» Clamoroso gesto di protesta dell’ex presidente ceco Vaclav Havel che bussa all’ambasciata cinese di Praga perconsegnare un appello per la liberazione di Liu Xiaobo di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Continuano le polemiche sulle alleanze
Il Pd paga l’indecisione
Crescono ancora i malumori per l’incertezza di Bersani sulle candidature alle regionali. Dopo il mezzo (e assai contestato) impegno del partito per la Bonino, l’Udc sigla un patto con la Polverini LA STRATEGIA CENTRISTA
IL CAOS DEI DEMOCRATICI
Se contano i programmi
E i cattolici dicono no
La testimonianza del leader
Vaclav Havel piace combattere contro le dittature. Lo ha dimostrato con la sua pelle e la sua libertà durante la lunga lotta verso la libertà combattuta dai Paesi satelliti dell’Unione sovietica, e lo dimostra ancora oggi lottando contro l’ultimo monolite della repressione. La Cina comunista non deve piacergli molto e, dopo aver stretto legami fraterni con il Dalai Lama e la leader uighura Rebiya Kadeer, è sceso lancia in resta per cercare la liberazione di Liu Xiaobo. Dissidente e professore universitario, Liu è stato condannato il giorno di Natale a undici anni di galera con l’accusa di “aver fomentato la sovversione anti-statale”. La sua vera colpa è quella di aver scritto e firmato Charta ’08, un manifesto per la difesa dei diritti umani in Cina che si ispira, evidentemente, a quella Charta ’77 lanciata proprio da Havel. Che ha deciso di presentarsi insieme ad altri due oppositori del regime sovietico all’ambasciata cinese della capitale ceca per chiedere la liberazione di Liu. Havel era accompagnato dall’attore Pavel Landovsky e dal vescovo Vaclav Maly, due figure di spicco nel corso della rivolta anti-sovietica degli anni Ottanta. Ai giornalisti riuniti davanti all’ambasciata ha detto: «Siamo qui per chiedere al presidente e al governo cinese di non perseguitare coloro che combattono per i diritti umani. Diritti che, tra l’altro, sono sostenuti dai trattati internazionali siglati da Pechino». a pagina 2
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«Noi e il futuro della Cina» di Vaclav Havel el gennaio del 1977 un gruppo di cittadini cecoslovacchi, dei quali ho avuto il privilegio di fare parte, ha pubblicato un importante documento chiamato Charta ’77. a pagina 3
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L’appello dei dissidenti cinesi
Cosa chiediamo all’Europa di Du Daobing aro signor Havel, i diritti umani sono quelli condivisi da tutti i popoli del mondo. Non ci sono eccezioni e non possono esserci, né le nazioni né per gli individui. In tutto il mondo. a pagina 4
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Ma la maggioranza minaccia: «Senza accordo, processo breve»
2010, immunità bipartisan
di Giancristiano Desiderio
di Errico Novi
lla fine, il Pd paga le sue incertezze e l’Udc si allea con la Polverini: è lo sbocco naturale per i cattolici che si riconoscono nelle posizioni dell’Udc. «È un accordo con la Polverini e non con i partiti della sua coalizione» ha voluto precisare Lorenzo Cesa. Però, non si può fingere di non vedere che per l’Udc è stato molto più facile trovare un’intesa sui programmi con la candidata che viene dal’Ugl proprio perché c’è stata una pre-condizione positiva: un accordo su alcuni valori di fondo. Il resto è venuto da sé.
opo la presa di posiazione chiara ieri su liberal - di Paola Binetti contro l’eventuale appoggio del Pd alla candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio, cresce la polemica nei democratici ancora in cerca di una mediazione tra le varie anime del partito. Questa incertezza ha intanto prodotto la prima reazione importante: ieri Lorenzo Cesa ha annunciato di aver raggiunto un accordo con Renata Polverini («non i partiti della coalizione») per sostenerla nella corsa alla poltrona di governatore del Lazio.
di Marco Palombi
Alle stelle il fatturato di giochi e lotterie
ROMA. C’è voglia d’amore nella politica, non si sa bene perché, però c’è. Siamo a gennaio, ma a palazzo Chigi sentono già il risveglio di primavera, i deputati guardano rapiti lo spettacolo del cielo, in Senato i frutti bipartisan già appesantiscono l’albero delle proposte di legge. La pd Franca Chiaromonte e il pdl Luigi Compagna hanno presentato una proposta per introdurre una nuova forma di immunità.
L’Italia salvata dal gratta e vinci ROMA. Ci gioca più di mezza Italia, ha un fatturato pari a tre punti e mezzo di Pil: quando il presidente della Repubblica parla dei simboli di coesione nazionale di certo non fa riferimento al gioco, ma di sicuro è questa la passione più sentita dagli italiani. I numeri li fornisce l’Eurispes nel suo rapporto «L’Italia in gioco»: nel 2008 il mercato ha sfiorato i 47,5 miliardi di euro.
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CON I QUADERNI)
In Senato arriva una proposta firmata da Pdl e Pd
• ANNO XV •
NUMERO
4•
WWW.LIBERAL.IT
di Alessandro D’Amato
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Libertà. La condanna a 11 anni di galera emessa contro Liu Xiaobo, autore di Charta ’08, ha scatenato la rivolta occidentale
Se Praga sfida Pechino
A 30 anni di distanza dalla prima rivolta cecoslovacca, gli autori di Charta ’77 tornano in campo. Questa volta per aiutare la Cina di Vincenzo Faccioli Pintozzi Vaclav Havel piace combattere contro le dittature. Lo ha dimostrato con la sua pelle e la sua libertà durante la lunga lotta verso la libertà combattuta dai Paesi satelliti dell’Unione sovietica, e lo dimostra ancora oggi lottando contro l’ultimo monolite della repressione. La Cina comunista non deve piacergli molto e, dopo aver stretto legami fraterni con il Dalai Lama e la leader uighura Rebiya Kadeer, è sceso lancia in resta per cercare la liberazione di Liu Xiaobo. Dissidente e professore universitario, Liu è stato condannato il giorno di Natale a undici anni di galera con l’accusa di “aver fomentato la sovversione antistatale”. La sua vera colpa è quella di aver scritto e firmato Charta ’08, un manifesto per la difesa dei diritti umani in Cina che si ispira, evidentemente, a quella Charta ’77 lanciata proprio da Havel. Che ha deciso di presentarsi insieme ad altri due oppositori del regime sovietico all’ambasciata cinese della capitale ceca per chiedere la liberazione di Liu. Havel era accompagnato dall’attore Pavel Landovsky e dal vescovo Vaclav Maly, due figure di spicco nel corso della rivolta anti-sovietica degli anni Ottanta. Ai giornalisti riuniti davanti all’ambasciata ha detto: «Siamo qui per chiedere al presidente e al governo cinese di non perseguitare coloro che combattono per i diritti umani. Diritti che, tra l’altro, sono sostenuti dai trattati internazionali siglati da Pechino». Havel, presidente cecoslovacco (poi ceco) dal 1989 al 2003, è uno degli autori di Charta ‘77. Il documento, pubblicato esattamente 33 anni fa, chiedeva al regime sovietico al potere nel Paese europeo di rispettare i diritti umani della popolazione. Liu è uno degli estensori di Carta ’08, che si ispira proprio a Charta ’77 e do-
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Il testo integrale della lettera aperta inviata al presidente Hu Jintao
«Liberate tutti i dissidenti» di Vaclav Havel, Pavel Landovsky e Vaclav Maly ignor presidente, il 23 dicembre, la Corte intermedia del popolo di Pechino ha condannato Liu Xiaobo - noto intellettuale e attivista per i diritti umani - a undici anni di galera. Liu, che è stato in carcere per oltre un anno senza un processo, è stato ritenuto colpevole di “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. Signor presidente, vogliamo farle sapere che noi non consideriamo quello contro Liu un processo giusto, durante il quale lei o il suo governo non avete interferito. In effetti, la verità è esattamente il contrario. Questo processo è il risultato di un ordine politico, del quale lei detiene la responsabilità politica finale. Siamo convinti che questo processo e la dura sentenza che ha emesso abbia ritenuto colpevole un vostro rispettato, conosciuto ed eminente cittadino semplicemente di aver pensato, e aver liberamente criticato, diversi aspetti politici e sociali. È evidente che il processo vuole impedire che altri seguano la scia tracciata da Liu. Esattamente 33 ani fa, il 6 gennaio del 1977, noi siamo stati arrestati dalla polizia della nostra stessa
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nazione, all’epoca uno Stato comunista monopartitico, per aver “commesso” esattamente lo stesso “crimine”: aver scritto Charta ’77 e aver raccolto delle firme, con lo scopo di chiedere al nostro governo di rispettare la Costituzione nazionale, i trattati internazionali e i diritti civili e umani di base. Più tardi, alcuni di noi sono stati condannati a lunghe pene detentive durante processi ordinati dalla politica. Esattamente come ha fatto una Corte di Pechino che, coprendosi di vergogna, ha condannato Liu Xiaobo. Noi crediamo fermamente, e vogliamo ricordarlo a lei e al suo governo, che non c’è nulla di sovversivo o di pericoloso per la sicurezza statale quando artisti, scrittori o accademici esercitano la loro vocazione di fondo: pensare, ripensare, porre questioni, criticare, agire in maniera creativa e cercare di iniziare un dialogo aperto. Anzi, al contrario, il benessere presente e futuro di una società viene minato, quando i governi sopprimono il dibattito intellettuale. Non c’è nulla di sovversivo o di pericoloso per la prosperità futura quando i cittadini di un Paese agiscono guidati dalle loro volontà, secondo le proprie migliori conoscenze e coscienze, si riuniscono fra di loro per discutere ed esprimere pacificamente le proprie preoccupazioni e le visioni sullo sviluppo futuro della società.
Al contrario, il futuro materiale e spirituale di una nazione viene minato quando ai cittadini non viene permesso di agire, associarsi, pensare e parlare liberamente. Ecco perché chiediamo a lei e al suo governo di garantire un processo corretto e aperto a Liu Xiaobo, quando la Corte accetterà di dibatterne l’appello. Chiediamo inoltre a lei e al suo governo di far finire il regime di arresti domiciliari e di sorveglianza da parte della polizia per coloro che hanno firmato Charta ’08. Chiediamo a lei e al suo governo di interrompere la criminalizzazione della libertà di parola e liberare tutti i prigionieri di coscienza al momento rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza sparse per il Paese. Signor presidente, vogliamo farle sapere che noi continueremo a guarda con molta attenzione il trattamento riservato a Liu Xiaobo e agli altri firmatari di Charta ’08. Noi, insieme a tanti altri colleghi della Repubblica ceca e della Slovacchia che firmarono a tempo debito Charta ’77, compiremo ogni sforzo per tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica su questo argomento.
manda democrazia e rispetto per i diritti umani come base per un vero sviluppo integrale della Cina. Nella lettera indirizzata a Hu Jintao, il trio ceco definisce il processo contro Liu «il frutto di un ordine politico, un evidente avvertimento a tutti coloro che potrebbero aver voglia di seguire le sue tracce».
Havel chiede a Pechino di «assicurarsi che l’appello presentato da Liu venga gestito in maniera corretta. Chiediamo inoltre che vengano ritirati gli arresti domiciliari e la sorveglianza della polizia imposti a coloro che hanno firmato Carta 08. Si deve smettere di cri-
La richiesta presenta al presidente Hu è molto semplice: liberare tutti i prigionieri di coscienza e dare vera libertà di parola al Paese minalizzare la libertà di parola e liberare tutti i prigionieri di coscienza». L’ex dissidente, dicevamo, ha già irritato il governo cinese invitando a una conferenza il Dalai Lama e Rebiya Kadeer, la leader uiguri in esilio negli Stati Uniti. Dopo aver suonato diverse volte alla porta dell’ambasciata, senza ricevere risposta, Havel ha imbucato la lettera: «Non mi aspettavo che l’ambasciatore ci avrebbe ricevuto, ma almeno un usciere avrebbe potuto prendere la lettera». Questo è il metodo di Pechino, il modo di fare di una dittatura silenziosa: se a gridare sono i dissidenti, anche di altri Paesi, non risponde. Se invece a parlare sono i governi, in un attimo escono i bilanci aziendali e statali e le proteste - davanti al potere economico del dragone - svaniscono in un attimo. Semplicemente ammutoliscono, impauriti che infastidendo troppo l’imperatore si possano perdere commesse economico e sostegno in senso al Consiglio di Sicurezza Onu. Con il risultato che le cose, come nel Gattopardo, cambiano del tutto per non cambiare niente. Havel ha però una conoscenza profonda e personale dei totalitarismi e, per quanto ammodernizzato e potente, quello ci-
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L’ex presidente di Praga avverte: «La nostra lezione non vada perduta»
«Ecco perché sostengo la Charta della nuova Cina» Come nel 1977, i tempi sono maturi per un nuovo cambiamento. Questa volta il teatro sarà l’Oriente
Sopra Vaclav Havel, Pavel Landovsky e Vaclav Maly imbucano la lettera aperta a Hu Jintao (nella pagina a fianco). In basso l’ex presidente cecoslovacco e, a destra, alcuni manifestanti
di Vaclav Havel el gennaio del 1977 un gruppo di cittadini cecoslovacchi, dei quali ho avuto il privilegio di fare parte, ha pubblicato un documento chiamato Charta ’77. Quel testo era la nostra richiesta per una protezione migliore dei diritti civili e politici di base da parte dello Stato. Era anche un modo per articolare un nostro credo secondo cui, come cittadini, avevamo una certa responsabilità: lavorare con il governo per assicurare, tramite la nostra vigilanza, che tutto questo avvenisse. Con la pubblicazione di Charta ’77 volevamo creare non un’organizzazione di membri ma invece, come ho scritto, «una comunità libera e informale di persone con credi, convinzioni e professioni diverse unite però dalla volontà di combattere, insieme ma anche individualmente, per il rispetto dei diritti umani e civili nella nostra nazione e nel mondo intero». A oltre tre decenni da quegli avvenimenti, nel dicembre 2008 un gruppo di cittadini cinesi ha deciso di prendere il nostro modesto sforzo come proprio modello. Hanno
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che delle scienze politiche, delle arti, della cultura e dell’economia. La decisione di firmare un testo del genere non è sicuramente stata facile da prendere: per questo, le loro parole non possono e non devono essere bruscamente messe da parte. Da quando la Charta è stata pubblicata, oltre diecimila persone hanno aggiunto il loro nome in calce. La Cina del 2008 non è la Cecoslovachia del 1977. In molti modi, quella cinese è una popolazione più libera e più aperta di quanto non fosse il mio popolo trent’anni fa. Eppure, la risposta delle autorità cinesi al documento è in molti modi parallela a quello delle autorità ceche dell’epoca.
Invece di rispondere alla nostra richiesta di dialogo e dibattito, Praga decise per la repressione. Alcuni firmatari vennero arrestati, altri molestati e interrogati fino allo stremo. Il nostro movimento e i suoi scopi vennero falsamente presentati come “pericolosi”e “assetati di sangue”. Allo stesso modo, il governo cinese ha deciso di ignorare la richiesta di di-
Le molte migliaia di persone che hanno firmato il testo di Liu vengono da tutto il Paese e hanno vite diverse tra loro. Questo dimostra quanto sia estesa la protesta nese è ancora lontano dai picchi di crudeltà commessi dai sovietici. Quindi, nessuno meglio di Havel può svolgere il ruolo di coscienza critica di quell’Occidente che, davanti a Cina e Iran, sembra aver perso la voce dura e imperativa che contrapponeva alle urla del regime di Mosca.
Come ha scritto Ding Zilin, fondatrice e leader delle “Madri di Tiananmen”, «mostrando il suo denaro e usandolo per sottolineare la debolezza altrui, il regime cinese ha puntato il dito contro la crisi finanziaria internazionale per cercare di farla passare come il tallone d’Achille dell’Occidente. In altre parole, ha glorificato il “modello cinese” dal punto di vista economico per giustificare la repressione effettuata contro i valori universali dell’uomo. Ma in Cina non esistono libertà, diritti umani, uguaglianza, repubblica, de-
mocrazia o tanto meno governo costituzionale».
E una situazione del genere, scrive invece l’ex presidente cecoslovacco, «non può durare a lungo. In gioco in questa partita, infatti, non c’è soltanto la libertà d’espressione o la libertà personale dei cittadini cinesi. Qui a rischiare è l’intero sviluppo economico del dragone d’Oriente, che se continua a schiacciare la propria coscienza civica non riuscirà ad evolversi». Ogni giorno che passa, l’impatto e la forza morale espressi da Charta ’08 crescono più forti. Eppure, per quanto si possa cercare, non si trova neanche una persona che abbia ceduto alle pressioni e abbia ritirato il suo sostegno ai valori espressi nel testo. Questa è la più importante delle lezioni, data da un popolo in ginocchio. La lezione per un Occidente sempre meno dritto.
deciso di presentare una richiesta simile – per i diritti umani, per un buon governo e per il rispetto della responsabilità dei cittadini a vigilare sull’operato del proprio governo – per assicurarsi che il loro Stato assuma le regole di una moderna società aperta. Il documento che hanno pubblicato è impressionante. In esso, gli autori di Charta ’08 chiedono la protezione dei diritti umani, una maggiore indipendenza del sistema giudiziario e una democrazia legislativa. Ma non si fermano lì. Con il passare del tempo, abbiamo capito tutti quanti che una società libera e aperta significa molto di più che la protezione dei diritti primari. E, avendolo capito, gli autori e coloro che hanno firmato Charta ’08 chiedono una maggiore protezione dell’ambiente, un modo per superare la spaccatura fra società rurale e urbana, una migliore gestione della sicurezza sociale e un serio sforzo per riconciliarsi con quei pesantissimi abusi ai diritti umani commessi negli ultimi decenni.
I firmatari originali, più di 300 persone, vengono da ogni percorso di vita e da ogni parte della Cina: una testimonianza di come siano estese e ampie le idee contenute in Charta ‘08. Fra i firmatari del documento ci sono alcune fra le menti più brillanti del Paese: non soltanto della giurisprudenza, ma an-
scutere, con i firmatari di Charta ’08, le loro proposte nel merito. Invece, ne hanno arrestati i leader – Liu Xiaobo e Zhang Zuhua – che secondo Pechino hanno avuto un ruolo primario nell’organizzare la stesura del testo. Zhang è stato rilasciato; Liu, noto scrittore e intellettuale, condannato a undici anni di galera senza prove. Dozzine di altre persone sono state interrogate, e un numero non calcolabile vive sotto la stretta sorveglianza degli agenti della polizia segreta, che ne monitorano telefonate ed e-mail per riferire poi ai loro superiori. Poco dopo la pubblicazione di Charta ’77, sono stato arrestato con l’accusa di aver commesso “seri e gravi crimini contro i principi basilari della Repubblica”. Liu Xiaobo è stato processato e condannato per crimini di “sovversione contro i poteri statali”, un crimine arbitrario esattamente come il mio. Sono rattristato da questa svolta negli eventi e il mio pensiero va alla moglie di Xiaobo, Liu Xia, che non ha potuto neanche parlare con il marito. Il governo cinese dovrebbe imparare bene la lezione del movimento di Charta ’77: dovrebbe oramai aver capito che l’intimidazione, le campagne di propaganda e la repressione non possono sostituire il dialogo. Soltanto il rilascio immediato e incondizionato di Liu Xiaobo potrebbe dimostrare che, in Cina, la lezione che abbiamo pagato con il sangue è stata imparata.
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Dissidenza. Una lettera aperta all’ex presidente ceco Vaclav Havel, per chiedere un aiuto nella lotta verso la democrazia
Cosa vogliamo dall’Europa L’11/9 ha catalizzato l’attenzione del mondo, che ora è impegnato soltanto contro il terrorismo. Ma alla Cina servono prima i diritti di Du Daobing aro signor Havel, i diritti umani sono quelli condivisi da tutti i popoli del mondo. Non ci sono eccezioni e non possono esserci, né le nazioni né per gli individui. Oggi, nessuno potrebbe veramente mettere in discussione il valore universale di quei diritti. Proprio a causa di questa natura universale, quando un governo - non importa di dove esso sia - viola i diritti umani della propria popolazione, tutto il resto dell’umanità dovrebbe sentirsi colpita e condannare quelle violazioni. Rispetto ad altri periodi oscuri della storia, oggi molte popolazioni godono di libertà e dignità; eppure, le ombre delle dittature autocratiche non sono ancora svanite del tutto dal mondo. In alcune nazioni, come la Repubblica popolare cinese e la Corea del Nord, la distruzione della libertà personale e la violazione dei diritti umani non sono cambiate di un millimetro rispetto al nostro Medioevo. Sono cambiate soltanto le tecniche e la natura dell’autoritarismo, e scorre meno sangue. A ben vedere, le cose sono cambiate dopo l’11 settembre del 2001, quando il terrorismo del Medioriente ha catalizzato in un attimo l’attenzione del mondo. La cooperazione internazionale è stata dedicata in poco tempo alla lotta al terrore, e l’attenzione alla situazione dei diritti umani nelle varie nazioni si è indebolita. C’è stato un momento, negli anni Novanta, in cui l’autoritarismo era stato ridotto; ora però la Cina e le altre nazioni che seguono quella strada hanno approfittato dell’opportunità data dal terrorismo per riportare in vita il loro stile di governo.
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Sin dalla fine del 2002, il governo cinese ha iniziato ad intensificare il proprio attacco contro i dissidenti politici. L’ultimo mese di quell’anno sono finiti in galera 40 dissidenti. Come se niente fosse. Fra questi c’era Liu Di: 23enne all’epoca dei fatti (nel 2003), la giovane studentessa di psicologia commentava su Internet fatti politici e di ogni giorno. Una notte, nel silenzio totale, la polizia segreta di Pechino l’ha arrestata all’interno del campus dell’università Normale. Nes-
suno si è preoccupato di mostrare un mandato, di dichiarare quali fossero le accuse o dove sarebbe finita la giovane commentatrice. Nel mirino, sostengono i suoi amici, ci sarebbero dieci commenti sul sito illegale “Democrazia e LIbertà”, nei quali avrebbe preso in giro il Partito comunista per le sue violazioni ai diritti umani del
dato la giusta attenzione alle azioni del governo cinese contro i diritti umani. I media sembrano riuscire a vedere soltanto il cosiddetto “miracolo economico” del nostro Paese. Nessuno condanna più chi viola i principi base degli esseri umani. Il popolo cinese non ha paura di cacciarsi nei problemi. Il sangue versato in piazza
di coscienza. Speravamo che, tramite la persuasione, avremmo convinto Pechino ad adottare nuove strade e correggere gli errori. Nonostante questo, però, il regime autocratico ha mantenuto la sua fede cieca nella violenza; considerano il suono della pace privo di significato, e non danno alcuna attenzione a petizioni o prote-
nano. Se si chiede a Pechino democrazia e libertà, li si vedrà chiudersi nel panico e ordinare nuove repressioni: è in questo modo che si sentono sicuri. Quando la popolazione ceca ha rovesciato il proprio governo autocratico e si è messa in marcia verso democrazia e libertà, molti intellettuali cinesi hanno espresso sincera
ste. I leader cinesi disprezzano del tutto i diritti umani, le convenzioni internazionali e l’opinione pubblica. Ad oggi, molti dissidenti non hanno subito il processo o sono in galera con accuse costruite. Dal punto di vista della violenza, il Partito comunista è una tigre; dal punto di vista della cultura, è un
felicità e augurato successo. La stessa strada, in questo Paese, presenta numerosi ostacoli: ogni volta che ne appare uno, noi dobbiamo contare esclusivamente sulle nostre forze. Per quanto riguarda Liu Xiaobo, che ha scritto e firmato Charta ’08, speravamo che il regime avrebbe agito con be-
La libertà di parola è prevista e garantita nella nostra Costituzione, fonte primaria del diritto, e dai Trattati internazionali firmati da Pechino resto della popolazione. Ma cosa ha fatto, la studentessa? Ha esercitato il suo diritto di parola e, cosa fondamentale, non ha infranto le leggi della Repubblica popolare cinese. La libertà di parola è prevista e garantita nella nostra Costituzione, fonte primaria del diritto, e dai Trattati internazionali firmati da Pechino. In ogni altra nazione civilizzata, Liu Di non soltanto non sarebbe stata perseguita dalla giustizia, ma sarebbe stata protetta dalla polizia. Con molto timore e preoccupazione, abbiamo dovuto rilevare che la comunità internazionale non ha più
Tiananmen, nel 1989, prova quanto dico. Non ci manca il coraggio per lanciare l’attacco all’equivalente cinese della Pastiglia, la prigione di Qincheng. E questo non perché noi siamo degli eroi, ma perché nel passato è stato versato talmente tanto sangue che abbiamo imparato una lezione: è inutile contrapporre la carne ai proiettili, e la violenza genera soltanto altra violenza. Negli anni passati, abbiamo deciso di usare metodi pacifici con la speranza di poter arrivare a un compromesso con il governo cinese, per convincerlo a rilasciare i prigionieri politici e
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Sono passati tre decenni, ma il mondo continua ad aver bisogno di diritti e democrazia
1977-2008: le Carte della libertà di Simone Carla l nome scelto dai dissidenti cinesi per il documento che chiede a Pechino vere riforme è un riferimento, e un omaggio, alla Charta ’77 diffusa dai dissidenti anti-sovietici della Cecoslovacchia comunista. La prima stesura aveva in calce 300 firme: fra queste, alcuni fra i più noti critici del regime cinese. Il documento è composto da 3 parti. La prima contiene un’introduzione che percorre gli ultimi cento anni della storia della Cina, dalla prima costituzione, fino ai giorni nostri in cui molti cinesi «vedono con chiarezza che libertà, uguaglianza, e diritti umani sono valori universale dell’umanità e che la democrazia e un governo costituzionale sono la struttura fondamentale per proteggere questi valori». I firmatari puntano il dito sul governo cinese che ha preferito costruire una “modernizzazione” definita “disastrosa”, allontanandosi da questi valori «privando la gente dei loro diritti, distruggen-
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La famosa foto simbolo della protesta di piazza Tiananmen. In basso, Liu Xiaobo
nevolenza. Così non è stato, e non sappiamo per quanto altro tempo dovrà pagare. Siamo costretti a rivolgerci alla comunità internazionale: speriamo che un appello comune e condiviso possa portare al suo rilascio. E, come prima cosa, abbiamo pensato a lei. Gli intellettuali cinesi hanno moltissima stima in Vaclav Havel: lei è un guerriero e sa cosa vuol dire finire in galera per colpa di un regime. Lei non è cinese, ma la galera inflitta a Liu Xiaobo non offende soltanto noi, ma tutto il villaggio globale. Quando ho deciso di scriverle, mi sono sentito ridicolo: sono soltanto uno scrittore ordinario, neanche molto conosciuto. Scrivere a lei - che si è guadagnato onore e gloria per la sua azione contro i totalitarismi sovietici della Vecchia Europa - potrebbe sembrare troppo. Ma preferisco il ridicolo al silenzio, se questo può aiutare a ribaltare un’accusa e una condanna ingiusta.
In Cina, se un cinese parla a un cittadino di un’altra nazione della situazione interna al Paese, può essere condannato per aver “minato l’onore dello Stato”; e questo per noi è il peggiore dei crimini. Molti di noi preferirebbero essere condannati dalla propria famiglia, piuttosto che far vergognare la propria nazione. Io invece mi considero un liberal, e credo che i diritti umani trascendano dalla sovranità nazionale. Per quanto mi riguarda, penso di essere un buon cittadino: ma credo anche che i miei diritti dovrebbero essere inviolabili, in Cina come nel resto del mondo. Certo, abbiamo stili di vita e trascorsi diversi; ma io mi ritengo fortunato, perché vivo nel suo stesso periodo ed ho potuto vedere le sue gesta. Noi siamo identici da un unico punto di vista, che però è quello veramente importante: siamo entrambi esseri umani, e dovremmo essere ugualmente liberi.
do la loro dignità, corrompendo i normali rapporti umani». Essi domandano: «Dove si dirige la Cina del 21° secolo? Continuerà con una ‘modernizzazione’ con stile autoritario, o abbraccerà i valori umani universali, ricongiungendosi con le nazioni civilizzate, e costruendo un sistema democratico?». La seconda parte del documento tratta dei “principi fondamentali” che l’ispira e che dovrebbero essere assunti dal governo del Paese. Fra tutti viene sottolineato che «la libertà è al cuore dei valori umani universali» e che senza di essa «la Cina sarà sempre lontana dagli ideali di civiltà». Un altro punto qualificante del documento è l’affermazione che «i diritti umani non sono concessi dallo Stato»; che «ogni persona nasce con inerenti diritti alla dignità e alla libertà»; che «il governo esiste per la protezione dei diritti umani dei suoi cittadini»; che «l’esercizio del potere dello Stato deve essere autorizzato dal popolo». La terza parte del documento elenca infine i
I due documenti sono simili per richieste e per il presupposto sul quale poggiano: l’uomo nasce libero e con dei diritti certi
passi necessari per trasformare la Cina in un Paese non più autoritario, ma che difenda i diritti umani e garantisca lo sviluppo sociale. I firmatari“raccomandano” al governo cinese di stilare una nuova Costituzione, separando i poteri legislativo, giudiziario e esecutivo e rendendo elettiva ogni carica. Questo dovrebbe garantire una giustizia indipendente dal Partito comunista e il controllo pubblico di tutte le cariche e dell’esercito. Attualmente i giudici confessano di dover emettere sentenze sempre favorevoli al Partito, a cui risponde anche l’esercito. Si chiede che venga garantita la libertà di formare gruppi, la libertà di espressione, la libertà religiosa. A questo proposito il documento afferma che ci deve essere «separazione fra religione e Stato. Non ci deve essere interferenza del governo sulle attività religiose pacifiche. Si dovrebbe abolire ogni legge, regolamento o regole locali che limitano o sopprimono la libertà religiosa dei cittadini.Va soppresso anche l’attuale sistema che richiede ai gruppi religiosi di ottenere una previa approvazione ufficiale». Il sistema attuale che discrimina fra comunità registrate e comunità non registrate (considerate illegali) - va sostituito con «un sistema in cui la registrazione è facoltativa e, per coloro che la scelgono, automatica».
Professore universitario e dissidente, ha iniziato a sfidare Pechino fin da piazza Tiananmen
Liu Xiaobo, il “Mandela” cinese di Massimo Fazzi l 25 dicembre, il Tribunale intermedio del popolo di Pechino ha condannato a undici anni di reclusione Liu Xiaobo, professore universitario e autore di Carta 08, manifesto a difesa dei diritti umani in Cina. Il dissidente, che ha già passato alcuni anni in galera per il suo sostegno al movimento democratico represso in piazza Tiananmen il 4 giugno del 1989, ha annunciato che presenterà ricorso contro la sentenza ma ha aggiunto di “non credere in una revisione della pena”. Un noto blogger cinese, commentando la vicenda, ha scritto: «A Natale è nato il Nelson Mandela della Cina». Liu Xiaobo è nato il 28 dicembre del 1955 a Changchun, nella provincia di Jilin. Dopo essersi diplomato in letteratura presso l’università provinciale, ha studiato alla Normale di Pechino: qui ha conseguito un master nel 1984 e l’abilitazione all’insegnamento universitario quattro anni dopo. Nel corso della sua carriera accademica, è stato “professore in visita”presso diverse università non cinesi, fra cui la Columbia University. Proprio nell’ambiente universitario si avvicina alle proteste studentesche e al movimento democratico nato dopo la morte del segretario del Partito comunista Hu Yaobang. Per protestare contro la feroce repressione delle manifestazioni di protesta, ordinate da Li Peng, decide di lanciare uno sciope-
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ro della fame: per questo, nel gennaio del 1991, verrà arrestato la prima volta. Accusato di “fomentare propaganda contro-rivoluzionaria”, viene condannato a un anno e otto mesi di galera. Nell’ottobre del 1996 inizia la sua opera di denuncia, via internet, dei crimini commessi dal governo comunista cinese: per i suoi articoli di denuncia - con l’accusa di “disturbo dell’ordine pubblico” - viene mandato per tre anni in un campo di “ri-educazione tramite il lavoro”. Al suo ritorno dai campi di lavoro, Liu scopre Internet e le sue potenzialità. Come scrive lui stesso, in un articolo apparso sul britannico Times, «tornato dalla prigionia ho trovato un computer sulla mia scrivania. All’inizio ero molto titubante, pensavo che non sarei mai stato capace di scrivere senza la mia stilografica. Con l’aiuto dei miei amici, ho iniziato a capire e usare la Rete». Il dissidente rimane affascinato: «La censura non permette di pubblicare i miei scritti in Cina, ma poterli mandare nel resto del mondo mi dà le dimensioni della libertà che con-
sentono questi nuovi strumenti. Internet ha reso più facile ottenere informazioni, contattare il mondo e fare qualcosa di nuovo. È come un super-motore, che aiuta tutto e tutti: è un canale di informazione che la dittatura cinese non potrà mai controllare del tutto. Lo considero un regalo di Dio al mondo». Questa ultima frase viene spiegata dallo stesso Liu poche righe dopo: «I cristiani cinesi dicono che, nonostante il nostro popolo manchi di senso religioso, non verrà abbandonato da Dio. Io penso che Internet sia la migliore conferma di questa affermazione, il dono che ci è stato fatto proprio da Lui. È lo strumento migliore che potessimo immaginare per la popolazione cinese nella lotta contro la schiavitù e nella battaglia per la libertà». Il 10 dicembre del 2008, in occasione del sessantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Liu ha preparato e firmato un manifesto in difesa dei diritti umani noto come Charta 08.
La sua lotta contro il regime inizia durante le rivolte del 1989, quando vede morire gli studenti per le strade di Pechino
diario
pagina 6 • 8 gennaio 2010
Inchiesta. La crisi ha aumentato in modo notevolissimo le giocate: ormai molti esercenti dipendono dall’azzardo
L’Italia salvata dalle lotterie
Continua a crescere il fatturato totale delle scommesse di Stato ROMA. Ci gioca più di mezza Italia, ha un fatturato pari a tre punti e mezzo di Pil: quando il presidente della Repubblica parla dei simboli di coesione nazionale di certo non fa riferimento al gioco, ma di sicuro è questa la passione più sentita dagli italiani. I numeri per svelarla li fornisce l’Eurispes nel suo rapporto «L’Italia in gioco»: nel 2008 il mercato ha sfiorato i 47,5 miliardi di euro e la previsione per la fine del 2010 è che possa toccare i 58 miliardi di euro. Con 35 milioni di italiani coinvolti, una spesa complessiva, negli ultimi sei anni, di 194 miliardi di euro, ormai ha raggiunto proporzioni tali da poter essere considerata una vera e propria industria.Che si riflette soprattutto nel cosiddetto indotto. I negozi che mettono a disposizione il gioco pubblico, tra rivendite tradizionali e nuovi punti vendita risultano così distribuiti: 14.000 punti vendita (agenzie e corner) destinati alla raccolta delle scommesse ippiche e sportive, dove sono installate 31.000 slot (il bando di gara Bersani ne prevede 17.000); 228 sale bingo, che detengono circa 1.000 slot; oltre 100.000 esercizi pubblici, diversi dai punti vendita menzionati, collegati da più tecnologie (Gprs, Adi e Rtg) per la rilevazione dei dati sul funzionamento delle slot. La rete distributiva delle slot comprende 59.000 bar (169.000 macchine), 1.500 sale giochi (29.000, oltre a slot senza vincita in denaro), 2.200 ristoranti (5.600
li, sarebbe stato l’abbinamento televisivo. Dopo che nell’edizione precedente era stata Raffaella Carrà, con il suo Carramba che fortuna, a far volare la vendita dei tagliandi, quest’anno Max Giusti con Affari Tuoi speciale per due non è riuscito nell’impresa di emulare la showgirl emiliana e non ha funzionato nemmeno l’abbinamento con UnoMattina. Tanto che Mauro Mazza, direttore della rete, ha già annun-
I tagliandi per l’estrazione dell’Epifania sono stati in calo, mentre il Superenalotto e il “Gratta e vinci” sono sempre richiestissimi macchine), 4.000 circoli privati (12.200), 464 alberghi (1.000), 65 stabilimenti balneari (150); 515 banchi lotto.
E poi ci sono le lotterie nazionali, che non se la passano benissimo. Dopo 3 anni di crescita, secondo le stime dell’agenzia specializzata Agicos, nell’edizione 2009-2010 la vendita dei biglietti nella Lotteria Italia è calata del 32%, soprattutto a causa dei cali negli acquisti del Mezzogiorno. Nell’edizione incorso sono stati infatti venduti circa 11,5 milioni di tagliandi contro i 18,5 milioni venduti dalla Lotteria Italia 2008-2009. A non aver funzionato, secondo fonti istituziona-
Viceversa hanno ”tenuto”le regioni del centro nord, e in particolare è da segnalare il 22,1% fatto registrare dal Trentino Alto Adige.
di Alessandro D’Amato
ciato che per il prossimo anno ci saranno grossi cambiamenti, con l’obiettivo di coinvolgere di più il pubblico da casa. In ogni caso, la sola Lotteria Italia, con 58,1 milioni di euro, rappresenta il 92,9% della raccolta complessiva. La Lotteria di Sanremo ha incassato 2,6 milioni, mentre quella del Centenario del Giro d’Italia 1,7 milioni. Il crollo delle vendite al Sud è confermato anche dai dati regionali. Le uniche sei regioni a far registrare un calo superiore al 40% si trovano tutte nel Meridione. Eccole nel dettaglio: Campania (-42,9%), Calabria (-43,4%), Sardegna (45,3%), Sicilia (-46,2%), Puglia (-48,8%) e Basilicata (-49,7%).
Ricerca del Censis sui conti delle famiglie
Risparmio in discesa ROMA. Le spese per consumi dei nuclei familiari italiani si sono mantenute stabile per il 44,2% dei casi e sono cresciuti nel 30,1%, mentre appena il 25,7% delle famiglie ha diminuito le proprie spese. Il dato emerge dalla ricerca «Educare alla pianificazione finanziaria» condotta dalla fondazione Censis per il consorzio PattiChiari. Diminuisce, invece, la capacità delle famiglie di accantonare quote di reddito per il futuro. «Se per il 6,1% degli intervistati il risparmio aumenta - evidenzia la ricerca - per il 60,6% diminuisce, mentre rimane invariato per il restante 33,3%. La crisi sta facendo crescere una generazione di persone più attente e capaci di reagire, Basti pensare che, mentre in passato di fronte a situazioni di incertezza economica analoghe chi non faceva nulla in particolare, aspettando che qualcun altro si muovesse per lui, era pari al
34,7%, attualmente questa componente di passivi è scesa al 9%. Le persone interpellate sembrano aver maturato una capacità maggiore nella progettualità e nella gestione delle proprie risorse, a differenza del passato, quando a prevalere erano atteggiamenti inermi di chi non faceva nulla di particolare (34,7%)».
Significativa poi la percezione dell’andamento generale della vita per gli italiani, che, rispetto agli ultimi sei mesi, ritengono che, nell’ambito della propria famiglia, le cose siano rimaste invariate per il 62,2% del campione, migliorate per il 5% e peggiorate per il 32,8%. Al di fuori della famiglia, sale invece la percezione di peggioramento riguardo all’andamento generale della vita: se si considera l’ambito regionale negli ultimi sei mesi, le cose sono peggiorate per il 64,7% degli intervistati.
Ma se si guarda ai numeri generali, la sensazione cambia. Nel 2008, la raccolta derivante dall’insieme delle lotterie ha raggiunto 9,27 miliardi di euro, il 16,6% in più rispetto ai 7,9 miliardi del 2007. La raccolta è determinata per la larghissima parte dalle lotterie istantanee (9,1 miliardi), a cui si aggiungono quelle tradizionali con 97 milioni di euro e quelle telematiche, in costante ascesa con 69 milioni di euro. Le entrate erariali derivanti dalle lotterie hanno raggiunto 1,6 miliardi di euro, con una crescita dell’8,7%. Le quattro lotterie nazionali hanno venduto un totale di 19.300.310 biglietti per un importo di 96.501.550,00. In particolare, la Lotteria Italia, la più popolare tra le lotterie, ha venduto 18.536.180 biglietti per un importo di 92.680.900 euro. In netta crescita rispetto agli 81,5 milioni di euro dell’edizione 2007/2008, è la cifra più alta degli ultimi 15 anni, grazie anche all’abbinamento con un tagliando del Gratta e Vinci. Invece, l’edizione peggiore è stata quella del 2005/2006 con un incasso di 45,6 milioni di euro. Sempre nel 2008, la Giornata del bambino africano ha venduto 305.070 biglietti per 1.525.350 euro); la lotteria di Viareggio ha venduto 249.750 per 1.248.750 euro; il Gran Premio di Merano ha venduto 209.310 biglietti venduti per 1.046.550 euro. Dal punto di vista territoriale, come riporta l’Eurispes, oltre il 50% della raccolta dei giochi in Italia si concentra in quattro regioni. Il primato spetta alla Lombardia (19,9% del totale), al Lazio (11% del totale) e alla Campania (4,2 10,1% del totale), mentre tutte le altre regioni hanno totalizzato nel 2007 una raccolta inferiore ai 4 miliardi di euro, con valori compresi tra i circa 3,3 miliardi di euro dell’Emilia Romagna (7,8%) e i 90 milioni di euro della Valle d’Aosta (0,2%). Come provider nel 2008, si afferma Snai con una raccolta pari a 1,44 miliardi di euro, corrispondenti al 37% del mercato. Secondo è Better-Lottomatica (553,7 milioni di euro, 14,1%), terzo Match Point (420,1 milioni di euro, 10,7%).
diario
8 gennaio 2010 • pagina 7
Per il rientro dalle Feste, la verde vola a più di 1,35 euro
A Reggio Emilia la festa di compleanno del Tricolore
I dubbi dell’Antitrust sugli aumenti della benzina
Napolitano e Schifani difendono la Costituzione
ROMA. I prezzi della benzina,
REGGIO EMILIA. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio al Sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, in occasione delle celebrazioni della Giornata Nazionale della Bandiera. Nel messaggio, il presidente ha espresso apprezzamento per il ricco e articolato calendario di iniziative promosse per celebrare il 213° anniversario del primo Tricolore, dicendo: «È importante che evento centrale della manifestazione sia la consegna da parte del Presidente del Senato della bandiera nazionale ed europea, insieme al testo della nostra Carta fondamentale, ai rappresentanti di tre istituti scolastici. Questo momento di
«che scendono con la velocità della piuma e salgono con quella del razzo, hanno qualcosa di distorto». È l’opinione del presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, che ammette però di non essere «riuscito a dimostrare il contrario di quello che dimostrano le aziende con studi alti quanto un bambino di 19 anni, quindi circa due metri». Catricalà ha ricordato che sul tema del prezzo della benzina l’Antitrust «ha aperto un’istruttoria e l’ha chiusa con degli impegni delle aziende, perché non siamo riusciti a trovare la prova dell’intesa dei petrolieri». Sulla cosiddetta doppia velocità dei prezzi, ha continuato, le aziende «sono riuscite a dare una prova da un punto di vista scientifico della bontà delle loro azioni. Da punto vista razionale, comunque, non riesco a capire, ma da punto di vista tecnico, giuridico ed economico non ho la prova che questo sia un illecito». Quanto a possibili azioni da mettere in campo per far abbassare i prezzi, Catricalà ha detto: «Mi pare ci sia un’iniziativa ministeriale buona e cioè che si voglia distinguere la distribuzione dalle case produttrici: questo dovrebbe comportare un aumento delle pompe bianche, che hanno dieci punti
Attentati a Reggio, vertice in prefettura Incontro sull’emergenza criminale con Maroni e Alfano di Ruggiero Capone
REGGIO CALABRIA. Nella sede della Prefettura di Reggio Calabria, il ministro dell’Interno Roberto Maroni, della Giustizia Angelino Alfano, ed i sottosegretari del Viminale Alfredo Mantovano e Nitto Francesco Palma hanno, in buona compagnia dei vertici delle forze dell’ordine, svolto il vertice sull’emergenza criminale in Calabria. Una riunione necessaria, alla luce dell’ultimo attentato dinamitardo alla procura e degli ordigni che, quotidianamente, vengono rinvenuti. Così nel pomeriggio di ieri il capo della Polizia Antonio Manganelli, il generale Leonardo Gallitelli (Comandante dell’Arma) ed il generale Cosimo D’Arrigo (comandante della GdF) hanno fatto il punto della situazione col governo.
«Allo stato attuale non c’é alcuna possibilità di riconoscimento fisico delle due persone che hanno compiuto l’attentato contro la Procura generale di Reggio Calabria», con queste laconiche parole i carabinieri del Reparto operativo reggino ammettono i profondi limiti dello stato nella lotta ad un crimine organizzato che ormai invuluppa, a mo’ di bottiglia d’olio infranta, tutto un territorio, dalle fondamenta delle case alle radici di secolari alberi. Le bombe in Calabria vengono minacciate quotidianamente, fatte ritrovare inesplose un decina di volte al mese, ed una decina brillano ogni anno.Tradizione pirotecnica a cui vanno aggiunti i giornalieri episodi di “minaccia a mano armata”, generalmente con pistole, mitra e fucili da caccia. L’omicidio per mano di organizzazioni criminali si consuma quotidianamente. Attualmente la Calabria è stata inisgnita dall’Unione europea di ben due maglie nere: quella della regione che detiene il primato nell’Ue per decessi nella sanità pubblica e, vecchio primato, quello del territorio con più casi d’usura. In Europa ancora stentano a comprendere come mai, oltre a procure e caserme, la criminalità metta ordigni esplosivi nei nosocomi. Ogni anno vengono ritrovate bombe in sedi di Usl, cliniche ed ospedali.
Nel 2006 destò mistero l’inusuale indagine della procura sugli ordigni a basso potenziale fatti esplodere negli ospedali di Locri e Siderno. Nessuno è riuscito ancor oggi a dimostrare eventuali collegamenti tra gli ordigni e le minacce ricevute qualche tempo dopo dai familiari di Francesco Fortugno (vice-presidente del Consiglio regionale della Calabria assassinato nell’ ottobre 2005). Unica coincidenza è che l’ordigno all’ospedale di Locri venne ritrovato in un bagno, a pochi metri dall’ufficio in cui lavorava (come vice direttore sanitario) Maria Grazia Laganà (vedova Fortugno poi diventata parlamentare). Nemmeno i sindacati, come del resto i partiti, possono dichiararsi immuni dal pericolo d’attentati: le sedi provinciali di tutte le sigle sindacali denunciano periodicamente bombe messe da mani ignote. Le minacce di bombe e pistolettate hanno regolarmente raggiunto i sindacalisti che avevano spinto la gente a denunciare gli usurai della cosca Muto di Cetraro, i particolari erano emersi con l’operazione “Cartesio”, eseguita dai Carabinieri di Scalea (Cosenza) e dalla GdF. Ma del livello più alto, emerso solo in parte nel processo Azimut, nessuno nel parla. «Si dice che nelle banche popolari calabresi siano soci dei ricchi maghi - sostiene un signore di Catanzaro (che «tiene famiglia») - telefonano al direttore della banca, e dicono che il finanziamento lo stanno facendo nel loro studio: si parla di tassi fra il 20 e il 40% al mese».
La Calabria maglia nera dell’Unione europea per decessi nella sanità pubblica e territorio con più casi d’usura
di meno del costo della benzina per litro e l’effetto potrebbe estendersi».
Le dichiarazioni del presidente dell’Antitrust arrivano proprio mente i prezzi della benzina fanno registrare un nuovo salto in alto. Dopo gli aumenti decisi dall’Agip martedì scorso, dal monitoraggio diffuso da quotidianoenergia.it emerge che i prezzi di riferimento per benzina e gasolio sono aumentati per tutte le compagnie: la verde ha in molti casi sfondato quota 1,35 euro al litro mentre il gasolio sfiora 1,20. Al livello più alto di prezzo la Shell (+0,015 a 1,352 euro) mentre la Esso vende il carburante a 1,336 euro al litro (+0,012).
La Guardia di Finanza si stringe nel più stretto riserbo, e pare che da oltre un decennio si svolgano (con le dovute cautele) indagini su gente che non ha mai presentato nella propria vita alcuna dichiarazione dei redditi, pur possedendo case (studi di magia) nelle maggiori province del Sud e quote in locali banche popolari. L’usura è evidente e le indagini hanno le mani legate. E la bomba alla procura di Reggio? Gli investigatori parlano di «gesto dimostrativo, a prescindere dalla reale pericolosità dell’azione, per lanciare un preciso messaggio all’ufficio di Procura generale in relazione ad alcuni procedimenti pendenti».
educazione civile trasmette alle giovani generazioni il senso storico e il significato del Tricolore, simbolo dell’unità e indivisibilità della Repubblica e dei valori di democrazia e di solidarietà solennemente sanciti dalla nostra Costituzione repubblicana. Al tempo stesso, la consegna della bandiera a dodici stelle ribadisce, in modo emblematico, il carattere irrinunciabile del processo di integrazione politica avviato dai Padri dell’Europa, con lungimiranza e passione, nei difficili anni seguiti al secondo conflitto mondiale. Le due bandiere, quella italiana e quella europea, rappresentano per tutti, e in particolare per i giovani, la testimonianza di un impegno che deve essere fattivamente e costantemente proseguito e il simbolo di una duplice cittadinanza, fondata sui comuni principi di libertà, democrazia, giustizia e coesione sociale».
A Reggio Emilia, poi, il presidente del Senato Renato Schifani ha detto: «Quando sentite parlare di modifiche della Costituzione, non pensiate che la Costituizione sia obsoleta e sia da archiviare. Si parla di una modifica della parte della Carta costituzione relativa ad un aspetto: quello della modernizzazione del Paese».
politica
pagina 8 • 8 gennaio 2010
Contropiede. Carra: «Conseguenze inevitabili se passa l’intesa con i Radicali». Bobba: «Una candidatura così divide»
Il costo dell’incertezza Nel Pd cresce il no cattolico alla Bonino e l’Udc sceglie l’accordo con la Polverini La strategia centrista
Quando contano i programmi segue dalla prima La stessa cosa, evidentemente, non è avvenuta sul versante opposto. Anzi, lo stallo del Pd ha prodotto l’uscita a sorpresa della candidatura radicale di Emma Bonino che rappresenta l’esatto opposto della posizione Udc. A sinistra l’accordo pur non essendo impossibile - come dimostrano le altre scelte in altre regioni - è meno praticabile proprio perché non c’è un comune linguaggio che venga prima dell’esistenza dei partiti. Insomma, se a destra i partiti sono la conseguenza dei valori, a sinistra i valori sono la conseguenza dei partiti e l’intesa diventa più faticosa o artificiale. Per capirlo o trovare una conferma si può anche immaginare un elettore dell’Udc che per consuetudine sicuramente per tradizione finora ha votato per un’area di centro e di destra e che ora, invece, dovrebbe spostarsi sul versante opposto: sarebbe un sacrificio. C’è poi il programma. La Polverini ha alcune priorità che sono la famiglia, la sanità, il lavoro. Soprattutto sulla famiglia l’intesa è stata facile, c’è già un lavoro comune. Sugli altri punti, dal momento che c’è molto da fare, non è stato difficile ritrovarsi. Ma sul programma, poi, ciò che conta è soprattutto il lavoro pratico, ossia la paziente e perseverante realizzazione. Insomma, la candidatura della Polverini con l’appoggio dell’Udc rimette in campo su scala regionale ma di una regione importante - un centrodestra in versione classica, ma con un metodo nuovo. (Giancristiano Desiderio)
di Errico Novi
ROMA. Dopo giorni di temeraria assenza Pier Luigi Bersani esibisce un understatement da uomo delle rincorse difficili: «Abituatevi anche ai miei silenzi, non mi sentirete tanto spesso partecipare al coro delle chiacchiere». E va bene. Ma nel frattempo il Pd è nel pieno della tempesta, e il segretario non convince quasi nessuno quando afferma il contrario: «Non è vero che siamo in balia degli eventi, il nostro filo logico è rendere più competitivo il Pd». Doppio eccesso di ottimismo: gli eventi sospingono il cigolante vascello democratico in una rotta senza orizzonte, visto che dopo i primi due contropiede – la candidatura di Emma Bonino nel Lazio e l’aut aut di Pier Ferdinando Casini per la Puglia – ieri è arrivato il terzo, con la stipula dell’accordo tra Renata Polverini e Lorenzo Cesa, celebrata nella sede nazionale dell’Udc; e poi il filo logico davvero non si vede, certo non lo vedono i molti cattolici del Pd più che pelplessi dal possibile apparentamento con i Radicali a Roma.
Lo stridore del dissenso raggiunge tonalità forse troppo alte perché il vertice del Nazareno possa elaborare una risposta credibile. Dopo la netta posizione assunta da Paola Binet-
«È una giornata importante per me», dice la leader Ugl. «L’appoggio è a lei, non alla coalizione», chiariscono i centristi. Che vanno verso la corsa solitaria in Umbria, dove naufraga l’ipotesi moderata ti nell’intervista pubblicata ieri da liberal, arriva il monito di un altro teodem, solo in apparenza meno severo: «Bersani ci pensi bene prima di varare la candidatura Bonino nel Lazio», dice Enzo Carra, «con la leader radicale non si allargherà il consenso, piuttosto si trasformerà il confronto elettorale in uno scontro ideologico che avrà inevitabili riflessi all’interno del Pd». Come a dire: alle prevedibili contestazioni di Pdl e Udc su temi bioetici e politiche familiari potrebbero corrispon-
dere traumatiche dissociazioni dal Partito democratico. È la stessa previsione fatta dalla Binetti, solo in formula più dolce. A ulteriore conferma dello scenario che si creerebbe con il sostegno democratico alla Bonino intervengono le dichiarazioni della stessa vicepresidente del Senato su coppie di fatto, pillola abortiva e quoziente familiare: «Ognuno organizza i suoi affetti come può e spesso non come vuole», dice a Repubblica tv, «non dare un riconoscimento alle coppie di fatto
significa non voler riconoscere i diritti delle persone». La Ru486? «La procedura è chiusa con decenni di ritardo, sarà commercializzata anche in Italia». Affermazioni se non altro sincere anche sul quoziente familiare: «Non ne sono entusiasta, sarebbe un rinchiodare ancora di più le donne a casa».
È sul merito delle questioni che rischiano di prodursi le lacerazioni maggiori: «Forse sarebbe il caso di ricordare che in Francia, dove il quoziente familiare esiste da cinquant’anni, l’occupazione femminile è 10 punti percentuali più su che in Italia. Prima di fare certe sparate ideologiche sarebbe il caso di verificare almeno cosa succede nei Paesi
«Polverini è partita prima, Bonino è più conosciuta»: parlano Crespi, Pagnoncelli e Mannheimer
Se si sfidassero Emma e Renata... di Francesco Capozza
ROMA. Mancano più di due mesi all’appuntamento elettorale per le Regionali e in molti casi, come nel Lazio, il Pd non ha ancora dipanato la matassa dei possibili candidati, tuttavia qualche nome più o meno ufficiale gira da qualche tempo. Dopo la rinuncia definitiva del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti (il “mandato esplorativo”affidatogli da Bersani non sembra aver dato buon esito), si fa sempre più probabile l’appoggio dei Democrat ad Emma Bonino, auto-candidatasi alla poltrona di Piazzale dei Navigatori contro Renata Polverini. Sullo scontro tra le due donne circolano già i primi sondaggi. Come quello reso noto ieri sul suo blog da Luigi Crespi. «Questo primo sondaggio riguarda ovviamente i probabili nomi dei candidati governatori. Anche se, per avere un quadro più completo, dovremo attendere la dislocazione in campo delle liste», precisa il presidente dell’omonima società demoscopia, «anche se io non credo che sia sufficiente fare le somme delle liste
per sapere chi vincerà. La natura di queste candidature sembra fatta apposta per valorizzare il voto disgiunto. Emma Bonino, però, aspetta le decisioni del Pd per tentare di ribaltare quello che fino a ieri appariva un risultato scontato».
«Il ruolo della Bonino in questa corsa è speculare a quello di un’altra donna, questa volta nel campo avverso: Adriana Poli Bortone, che attende l’investitura del Pdl per correre in Puglia. Entrambe però con la loro presenza in campo, da un lato possono incrementare le chance di vittoria del centro destra in Puglia e del centro sinistra nel Lazio, mentre se lasciate correre da sole ne determineranno la sconfitta certa». Stando ai dati di Crespi, la vice presidente del Senato batterebbe Renata Polverini di poco, conquistando però la maggioranza assoluta dell’elettorato. Queste percentuali non stupiscono più di tanto l’amministratore delegato di Ipsos,
politica Il dissenso monta con rapidità: «Un eventuale appoggio alla Bonino nel Lazio pone un problema anche a livello nazionale», dice un altro rappresentante cattolico del Pd a Montecitorio, Enrico Farinone. Bersani replica in modo indiretto e laconico: «Dopo la scelta dell’Udc di sostenere la Polverini, che non condivido ma rispetto, restano due possibilità: appoggiare la Bonino o individuare un nome interno». Il segretario non abbandona del tutto la speranza di convincere il suo vice Enrico Letta, che però a questo punto rischierebbe di pagare a prezzo altissimo il fatale ritardo con cui il suo partito è intervenuto nella vicenda laziale. Attraversata peraltro da moltissimi malumori a livello locale: si pensi al vicecapogruppo in Regione Claudio Moscardelli (in passato dirigente dei Giovani democristiani e proveniente dalla Margherita), che definisce «improponibile» l’ipotesi Bonino.
vicini a noi», replica i a stretto giro Luigi Bobba. Il deputato democratico che ha inventato la stessa espressione “teodem” si rimmarica per l’incapacità del Pd di «realizzare la propria identità di partito guida del centrosinistra: dovremmo essere noi a esprimere i candidati e non essere costretti a inseguire i partiti più piccoli». Considerazione che, dice il senatore ed ex presidente delle Acli, «prescinde da qualsiasi pregiudizio personale: anche se è chiaro che la missione di un partito come il nostro dovrebbe essere quella di individuare figure capaci di rappresentare una coalizione ampia, e quelli segnati da una caratura ideologica marcata non sono i più adatti allo scopo».
Dall’altra parte c’è una Polverini che incrocia perfettamente le aspettative dell’Udc, come osserva compiacito il coordinatore regionale dei centristi Luciano Ciocchetti: «La nostra è un’intesa con il candidato e non con la coalizione di destra, ed è costruita su punti chiari: famiglia, riduzione del numero delle Asl, allontanamento dei partiti dalla sanità». A sua volta la segretaria Ugl parla di «seconda giornata più importante» per la sua corsa alla presidenza del Lazio, «l’appoggio dell’Udc corona il mio percorso di idee e valori ed è coerente con il sostegno dato alla mia battaglia per il quoziente familiare». Con un Pd così spaesato si allontana anche l’accordo in Umbria, dove l’Udc vede profilarsi una riedizione del governo Lorenzetti: «Non ci interessa, andremo da soli», chiosa Maurizio Ronconi di fronte all’ennesimo pasticcio democratico.
Nando Pagnoncelli, che vede in Bonino «un candidato autorevole e certamente più conosciuto di Polverini. Di più non posso dire, perché non ho dati alla mano». È fuor di dubbio che Emma Bonino abbia alle spalle una storia ultraventennale da politico in prima linea, ma è anche vero che negli ultimi tempi l’ormai ex segretaria generale dell’Ugl ha goduto di una sovraesposizione mediatica (ospite pressoché fissa a Ballarò, spesso in studio da Vespa e da Santoro) di gran lunga superiore alla storica leader radicale. Quindi, in sintesi, anche la Polverini è oggi molto conosciuta al grande pubblico.
E questa è la tesi che si sente di sposare anche Renato Mannheimer, presidente di Ispo e sondaggista di riferimento di varie trasmissioni televisive, tra cui Porta a Porta. Per Mannheimer, infatti, «sono entrambe due candidate molto conosciute ed entrambe hanno una caratteristica: posso “attingere”ad un elettorato trasversale. Certo, la Bonino paga lo scotto di non essere molto amata tra i cattolici, ma al contrario lo è molto tra i giovanissimi, anche di centrodestra». «Tuttavia – prosegue il presidente dell’Ispo – se i dati di Crespi sono quelli che mi sta dicendo (51% Bonino – 49% Polverini) per noi“addetti ai lavori”è una situazione di sostanziale parità. La partita è aperta e la sindacalista ha un vantaggio in termini di tempistica sulla campagna elettorale».
8 gennaio 2010 • pagina 9
I ritardi democratici potrebbero consegnare la regione al Carroccio
Anche in Veneto si rischia di perdere un’occasione di Valentina Sisti uscita di scena di Giancarlo Galan sembra rendere inarrestabile l’avanzata di Luca Zaia, con l’effetto di spiazzare il Pd veneto. Che non riesce a trovare la quadra sul candidato da contrapporre al ministro delle Politiche agricole, candidato unico del centrodestra. L’investitura da parte del sindaco di Venezia Massimo Cacciari di Giuseppe Bortolussi, sessantunenne direttore della potente Cgia di Mestre, nonché assessore comunale a Venezia non sembra raccogliere il consenso della segretaria regionale del Pd, Rosanna Filippin, che preferirebbe la candidatura di Laura Puppato, sindaco di Montebelluna o di Vicenzo Milanesi, ex rettore dell’università di Padova.
L’
«Ci sto, se me lo chiedono, ma a determinate condizioni. La prima è che rispettino le mie convinzioni», precisa Bortolussi, che però dichiara con rassegnato realismo che l’obiettivo del Pd non è tanto quello di battere Zaia ma di arginare l’ascesa del Carroccio. «Bortolussi è il candidato di Cacciari non del Pd», spiega il portavoce nazionale dell’Udc Antonio De Poli, mentre il vero nodo per il centrosinistra resta proprio l’alleanza con il partito di Pier Ferdinando Casini, che in Veneto, però, a questo punto, sembra voler correre da solo. «Noi andremo avanti con il nostro programma - continua De Poli -. Rivolgiamo un appello al Veneto e ai veneti democratici. La prossima settimana vedremo se ci potranno essere convergenze con il Pd, però prima bisognerà vedere di quale Pd si parla». Come a dire che la partita è tutt’altro che facile e che l’Udc resta disposto a fare un passo indietro solo se si troverà un accordo su un nome forte. Un nome sul quale costruire un’alleanza per il Veneto (e anti-Lega) anche rinunciando ai rispettivi simboli di partito, sul modello delle liste civiche venete, tutte di impostazione centrista e moderata. «In una competizione ci sono mille variabili spiega ancora De Poli -. Potremmo anche farcela se riusciremmo a far convergere su di noi il consenso anche di quei leghisti che non riconoscono interamente nella linea intransigente della Lega e proprio per questa rischiano di venire cacciati». Se Cacciari al posto di puntare su altri nomi mettesse a disposizione il suo, forse l’operazione sarebbe alla portata. Ma dal momento che il sindaco di Venezia si è tirato fuori, l’ipotesi più probabile è quella di un’alleanza di centro senza l’Italia dei valori e la Sinistra, con candidato unico proprio De Poli: lunedì, dopo l’ufficializzazione dell’Udc anche il Pd sarà chiamato a pronunciarsi. L’incertezza contagia anche Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Socialismo
2000, che potrebbero correre uniti in un unico cartello, ma a loro volta non riescono a trovare una convergenza sul candidato. Nel Pdl veneto, intanto, è già partita la corsa a salvare la poltrona. «Hanno incassato il colpo ammette una fonte vicino al governatore - . Gli azzurri hanno chiesto otto assessori, quattro andrebbero alla Lega, ma la partita è ancora aperta». E per la vicepresidenza, circola il nome dell’assessore regionale alle Politiche della mobilità e infrastrutture Renato Chisso, ritenuto l’uomo in grado di traghettare il Pdl veneto nel nuovo, e sofferto, accordo con la Lega. Un Pdl però che disegna una mutazione genetica, che potrebbe portare a contraccolpi elettorali. A gestire il passaggio ancora una volta, da ufficiale di collegamento, è il sottosegretario veronese Aldo Brancher: è stato lui a fare
Cacciari pensa a Bortolussi, direttore della Cgia di Mestre, il partito preferisce Laura Puppato, sindaco di Montebelluna o Vicenzo Milanesi, ex rettore di Padova gli onori di casa alla cena della Befana, sulle Dolomiti bellunesi, con Giulio Tremonti e Roberto Calderoli.
Mentre il governatore ancora in carica Giancarlo Galan ha dovuto masticare amaro, scegliendo sempre il Bellunese, trascorrendo però vacanze separate, con i vecchi amici fedeli del suo partito. Finora quello che ha intascato è stata solo una rassicurazione su un suo imminente ingresso nel governo. Ma questa strada sembra possibile solo con un rimpasto, escludendo il ministero delle Politiche agricole che ha già incontrato il suo rifiuto («Non andrò al ministero delle mozzarelle») e il neo-costituito ministero della Salute, su cui si è appena seduto Ferruccio Fazio, mentre il ministero del Nordest sembra profilarsi solo un’utopia che potrebbe presto infrangersi contro il vento del Sud. «Galan non è ingenuo - dice una fonte vicina al presidente veneto -. Conosce benissimo la differenza tra una vaga promessa e una vera e propria garanzia. E da qui a dopo le elezioni ce n’è ancora di tempo. Ma diciamo che gli conviene in ogni caso credere a Berlusconi». O forse è costretto.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ma l’anno delle riforme non arriva mai ilvio Berlusconi - presidente del Consiglio in carica, non si sa mai, è sempre meglio rinfrescare la memoria - ha annunciato che il 2010 sarà l’anno delle riforme: scuola, fisco, giustizia. Questa dell’«anno delle riforme» l’ho già sentita altre volte e, se non sbaglio, in passato è stato proprio il Cavaliere ad annunciare delle imminenti e risolutive riforme. Si sa: per far ripartire l’Italia c’è sempre bisogno di riforme. È senz’altro vero, verissimo. Le riforme, però, pur invocate non arrivano mai e quando arrivano o sono delle mezze riforme o sono delle riforme che cambiano i nomi delle cose ma lasciano invariate le cose o sono talmente in ritardo sui tempi che, appena fatte, già è tempo di rifarle. Dunque, qualcosa non va.
S
Dopo l’annuncio di Berlusconi è arrivata la rettifica (o precisazione) di Paolo Boniauti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, portavoce del capo del governo e angelo custode tuttofare del Cavaliere. Che cosa ha detto? Bonaiuti ha voluto precisare che ci sarà la riforma del fisco - insomma, giù le tasse - ma con calma, non subito, se ne dovrà riparlare verso la fine del 2010, quasi nel 2011. Tanto che, dopo la precisazione di Bonaiuti, ci si chiede se veramente questo sarà l’anno delle riforme. Sul tema delle tasse, in particolare, il governo e soprattutto Berlusconi sono in drammatico ritardo con la storia e con gli elettori ai quali ripetutamente ha detto che le tasse sono esagerate - e questo gli elettori lo sanno anche da soli - e quindi è assolutamente necessario tirarle giù. Purtroppo, però, ad ogni annuncio di Berlusconi sulla riforma del sistema tributario non ha mai fatto seguito la riforma reale del fisco che, anzi, è diventato ancora più esoso. Sembra quasi che Berlusconi non voglia fare la riforma del fisco per poter ancora una volta fare la solenne promessa agli italiani, magari in diretta televisiva da Bruno Vespa dove - lo ricorderete senz’altro - firmò in pompa magna su di un’apposita scrivania il celebre contratto con gli italiani. Inoltre, dopo aver sentito la precisazione di Bonaiuti gli italiani, anche senza contratto, potranno essere sicuri: anche per l’anno 2010 non ci sarà alcuna riforma fiscale. Buone tasse a tutti. Però, si dirà, ci sono le altre riforme. Infatti, certamente andrà in porto la riforma della scuola. Il ministro Gelmini è seriamente intenzionata a condurre in porto la riforma delle scuola secondaria superiore. È una buona cosa, peccato che non sia una vera riforma ma semplicemente un giro di vite e una sistemazione dell’attuale sistema che, minacciando di cadere sulle sue stesse gambe per il troppo peso, si cerca di tenere in piedi con degli accorgimenti e degli accorpamenti e anche delle modifiche nominali. Anche la riforma delle scuola, dunque, può tranquillamente attendere e buona scuola a tutti. Cosa resta in piedi? La giustizia. Leggete il pezzo qui accanto e scoprirete perché questa sarà l’unica riforma che andrà in porto. Sempre una buona cosa è, peccato che coincida anche con i grattacapi del capo del governo.
Ritorna l’immunità Una proposta di Pd e Pdl Legge bipartisan di Franca Chiaromonte e Luigi Compagna di Marco Palombi
ROMA. C’è voglia d’amore nella politica italiana, non si sa bene perché, però c’è. Siamo a gennaio, ma a palazzo Chigi sentono già il risveglio di primavera, i deputati guardano rapiti lo spettacolo del cielo, in Senato i frutti bipartisan già appesantiscono l’albero delle proposte di legge. Quest’amore - liberato nell’aria dal gesto di Massimo Tartaglia come, pare, dal letame nascono i fiori - è peraltro cieco (e un tantino ipocrita) come si conviene: non si vede come possa sopravvivere, esile com’è, eppure lui, tenace, spiana le montagne. Accade quindi che il Pdl, per bocca dei suoi più acuti pensatori, parli di riformare l’assetto dello Stato e che i più accorti timonieri del Pd, di concerto, si dicano bendisposti assai e indichino persino, in gioiose interviste o dichiarazioni à la carte, una possibile road map (senza leggi ad personam, per carità) e nessuno che dica con chiarezza che finché Silvio Berlusconi, dio dell’amore già presidente del Consiglio, non avrà portato a casa lo stop ai processi Mills e diritti tv (tutti e due) non c’è verso che si inizi a riformare alcunché. Ancora ieri Pierluigi Bersani ha scandito: «Ribadisco con tutta la nettezza e forza possibile che siamo disponibili e intenzionati a una discussione immediata sulle riforme istituzionali, ma se la destra invade il Parlamento con uno tsunami di iniziative per mettere al riparo il premier se ne prenda la responsabilità. Berlusconi dimostri adesso se mette davanti se stesso o i problemi del paese».
fermava il principio di responsabilità delle toghe con l’istituto dell’azione disciplinare obbligatoria da parte di un procuratore generale scelto dal Senato federale». Leggi ad personam invece - non c’è neanche da dirlo - giammai. Inciuci? Orrore. Nonostante tutto, però, l’amore è nell’aria. L’ha sentito anche Gaetano Quagliariello che infatti parla ormai con labbra di miele: se va avanti la proposta Chiaromonte-Compagna «potremmo valutare superflua la costituzionalizzazione del Lodo Alfano». Si vedrà, comunque tempo ce n’è visti «i 18 mesi di tregua che ci dà il legittimo impedimento». Che poi, sia detto per chiarezza, è una legge ad personam in purezza (che ha il pregio, se non altro, di non distruggere l’intero sistema giustizia per impedire i processi del Cavaliere).
In nome dell’amore si può dare almeno per accantonato il processo breve? Non ancora. Quello è una sorta di contratto prematrimoniale, la pistola che la maggioranza terrà sul tavolo finché la faccenda non si risolve. «Al Senato lo approveremo nella forma originaria», spiega una fonte qualificata. In realtà in una forma ancora peggiore: varrà anche per i reati sopra i 10 anni di pena e anche per i recidivi, magari con una diversa scansione dei tempi. Se il sentimento reciproco reggerà allo scorrere del tempo, tipo fino a dopo le Regionali, allora alla Camera verrà trasformato in una non meglio precisata norma interpretativa della legge Pinto, quella che regola i risarcimenti per la lunghezza ingiustificata dei processi. Miracoli dell’amore. Intanto Quagliariello, forte della consulenza dell’ex magistrato senatore Roberto Centaro, continua pure a lavorare intorno al Lodo Alfano “definitivo” - fidarsi è bene eccetera – per cancellarne gli aspetti più plasticamente incostituzionali: secondo indiscrezioni, il lodone sarà reiterabile in caso di cambio di carica (fra le quattro coperte ovviamente) e automatico (Fini non potrà più fare il bel gesto di rinunciarci). Antonio Di Pietro, l’antagonista in questo minuetto, avendo capito che si tratta di intrecci amorosi ha usato un linguaggio adeguato: se il Pd si mette a fare «ammiccamenti» sulla giustizia, il legame con l’Idv «è finito». Passata la fase dell’innamoramento, comunque, si spera che qualcuno voglia spiegare al Paese cos’è successo: dopo l’amore, si sa, due chiacchiere sono quasi d’obbligo.
Ma la maggioranza continua ad alzare la voce: senza accordo, “processo breve” subito
A stare alle parole sembrerebbe che la corrispondenza d’amorosi sensi appena iniziata sia destinata a schiantarsi contro il muro degli interessi divergenti. Eppure non è così.Tra i parlamentari, per quanto ancora in ferie, s’avverte un fervore di spirito costruttivo: in Senato ad esempio la democratica Franca Chiaromonte - mozione Bersani - e il berlusconiano Luigi Compagna hanno presentato una proposta di legge per introdurre una nuova forma di immunità per gli eletti (niente autorizzazione a procedere, ma stop ai processi fino alla fine del mandato), a cui Enrico Morando – mozione Franceschini - ha amministrato pubblica benedizione. Di più, il nostro ha rilanciato pure «la bozza Boato del 1997, un testo che tutelava l’autonomia della magistratura, separava le funzioni di giudici e pm anche attraverso due sezioni del Csm, e af-
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L’ipotesi di inserire nel rimpasto governativo l’ex esponente della destra fa saltare di nuovo i nervi ai “fedelissimi”
Santanchè fa ancora arrabbiare Fini Donna Assunta Almirante agli ex An: «Inutile fare la fronda nel Pdl. Rifondatevi» lla lunga storia di tensioni tra i finiani del Pdl e la maggioranza berlusconiana si aggiungono due nuovi capitoli. L’accusa lanciata dal Giornale a Fini di aver messo in sicurezza i beni di An per riservarsi la possibilità di far resuscitare il disciolto partito e l’ipotesi di rimpasto che potrebbe vedere coinvolta Daniela Santanché nella nuova compagine governativa. Alla sottosegreteria agli Interni per alcune fonti, a quella del welfare per altre. Due capitoli che hanno riattizzato il fuoco del dissenso interno e che stanno riproponendo l’ipotesi di una rottura tra finiani e Pdl. Il Secolo d’italia mercoledì titolava: «Pdl ci sono ancora le condizioni?».
A
di Riccardo Paradisi che ha portato alla formazione del governo?» Una fibrillazione talmente acuta quella che sta percorrendo in queste ore il Pdl da poter far far saltare l’equilibrio interno al Pdl e portare realmente a una rottura. E alla creazione di gruppi parlamentari autonomi finiani alla Camera e al Senato, che potrebbero essere la cellula germinativa di un nuovo partito. Che poi sarebbe in fondo la stessa Al-
leanza nazionale. Un’ipotesi caldeggiata anche da Donna Assunta, la vedova Almirante, tra gli ex missini considerata una specie di icona tutelare della destra italiana tradizionalmente votata al culto delle memorie. Donna Assunta definisce il Pdl(”un partito senz’anima”) e invita apertamente alla scissione gli ex di An: «Gianfranco avrebbe fatto meglio a restare a casa sua, in via della Scrofa 39, nel suo partito. Che cosa c’ha guadagnato a svendere il partito a Berlusconi? Nulla, solo di diventare suo subalterno». E ancora: «Mi auguro che Gianfranco se ne renda conto e torni indietro. Deve avere il coraggio di farlo, tanto è chiaro che non potrà essere il successore di Berlusconi e che non avrà mai voce in capitolo; lui è un monarca, comanda solo lui. Gianfranco ha sbagliato a chiudere il partito, doveva fare come la Lega, dare l’appoggio esterno, e questo non gli avrebbe certo impedito di fare il presidente della Camera».
Per la vedova dello storico leader missino, il Cavaliere «è un monarca, comanda solo lui»
E Carmelo Briguglio, finiano di sicura fede, polemizzava con i vertici del Pdl per non aver consultato gli organismi direttivi in merito all’allargamento della coalizione alla Destra e al coinvolgimento della Santanché nel governo: «Problematiche di questa natura che hanno una rilevanza politica notevole, possono essere decise nel Pdl monocraticamente? Oppure il ricorso agli organi di partito serve solo strumentalmente quando si tratta di censurare Gianfranco Fini? Da cofondatore del Pdl almeno Fini ha diritto o no di essere consultato sulla modifica della struttura di governo e suelle alleanze del pdl a maggior ragione se non rispettano lo schieramento elettorale
Un allarme quello della scissione in seno al Pdl che è stato lanciato più volte e che è sempre puntualmente rientrato con riappacificazioni più o
meno sincere tra Fini e Berlusconi, ma che stavolta non viene sottovalutato anche all’interno del Pdl. Tanto che il capogruppo dei senatori Pdl Maurizio Gasparri sente la necessità di intervenire sul merito della polemica: «La nomina di due nuovi sottosegretari deve essere un momento unificante, non di divisione. Se ci sono scelte che rischiano di creare spaccature è meglio aspettare, non ne vedo l’urgenza».
Altro che uscita di Gianfranco Fini e da suoi dal Pdl per dar vita a una formazione di moderati dunque. Dal Pdl, semmai, dicono i finiani della fondazione Fare Futuro esca Vittorio Feltri «per rifondare una forza politica di destra estrema dice invece la newsletter Ffwebmagazine. Quel che non si capisce onestamente però – prosegue il magazine finiano – è come sia possibile che leader politici di lungo corso e di tradizione consolidata come, giusto per fare qualche nome, Giulio Tremonti, Claudio Scajola, Franco Frattini, accettino ancora tutto questo. Accettino senza fiatare che un caudillo detti la linea di un grande partito europeo». A gettare acqua sul fuoco è ancora Gasparri che distribuisce i torti equamente: «Fondazioni, siti web e giornali che fanno polemica fine a se stessa, che hanno scelto la tattica del fuoco amico rispondono ad una logica di mercato. Chi governa un Paese ha l’obbligo di ottenere la fiducia di chi lo ha votato, non l’applauso di chi non lo ha fatto».
Querelle. Enac chiarisce la polemica con la compagnia irlandese sui documenti di riconoscimento
Alla fine Ryanair si scusò con l’Italia di Alessandro D’Amato
ROMA. La montagna ha partorito il topolino. O, per meglio dire, Ryanair ha piegato la testa. Accordo raggiunto tra Ryanair ed Enac sulla querelle che si era aperta nelle scorse settimane sulla questione relativa ai documenti di identità necessari per l’imbarco a bordo. Ad annunciarlo è stato il presidente dell’Ente Vito Riggio che, questa mattina, ha incontrato i rappresentanti della compagnia irlandese. «Ryanair - ha riferito Riggio - ha porto le sue scuse all’Italia per il fraintendimento che si è verificato a proposito della sicurezza. La compagnia non intendeva parlare della sicurezza degli aeroporti italiani ma si riferiva a problemi di natura operativa. Ryanair, inoltre, si è impegnata ad accettare tutti i documenti riconosciuti dalle autorità italiane e ripristinerà tutti i voli». La compagnia irlandese ha chiesto però un periodo di approfondimento per le patenti di guida. «Ci hanno chiesto tempo - ha detto Riggio - per poter approfondire questa questione legata ai due tipi di patenti esistenti». Con l’accordo rag-
giunto ieri, Ryanair accetterà, dunque, per l’imbarco, passaporti, carte d’identità, e documenti rilasciati da autorità statali ma non ancora le patenti di guida. A manifestare il proprio apprezzamento per l’accordo, che consente il ripristino dei voli della compagnia irlandese, sono stati i ministri dell’Interno e delle Infrastrutture e Trasporti Roberto
Negli aeroporti - ha sottolineato Maroni - la sicurezza è ai massimi livelli e il contributo che presto daranno i body scanner è assolutamente importante».
Finisce così nel migliore dei modi la querelle iniziata un paio di settimane con l’annuncio shock di Ryanair, che si diceva pronta a lasciare l’Italia dopo la decisione dell’Enac di imporle l’utilizzo del sistema di riconoscimento usato anche dalle altre compagnie. L’annuncio degli irlandesi aveva portato a una sollevazione degli ambienti liberali, che avevano parlato di decisione presa per favorire Alitalia. Ora è tutto finito, e la compagnia di O’Leary ci ha guadagnato un po’ di pubblicità gratuita. Forse proprio quello che stava cercando.
Revocato il blocco dei voli minacciato dall team low cost che non voleva accettare le sole carte d’identità e soprattutto le patenti del nostro Paese Maroni e Altero Matteoli. «Mi complimento ha detto Matteoli - per la mediazione raggiunta che ripristina i voli della compagnia». Per Maroni, «importante è che Ryanair abbia chiarito il fraintendimento che c’era stato sulla questione della sicurezza e che abbia riconosciuto che non ci sono problemi, al riguardo, negli aeroporti italiani. Sono contento che sia stato chiarito questo malinteso.
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artito come anno del secolo dalla nascita di Indro Montanelli, il 2009 è terminato come anno del settantenario non solo di quell’attacco tedesco alla Polonia che diede inizio alla Seconda Guerra Mondiale, ma anche di quella Guerra d’Inverno tra Unione Sovietica e Finlandia che venne a ruota. In Italia fu l’allora trentenne Indro Montanelli che ne fece un’epopea popolare, e dai risvolti sottilmente anti-regime. Ed è allora forse giusto iniziare dal modo singolare in cui la vicenda umana del grande giornalista si inserì nel dramma del popolo finnico. Al principio c’era una bionda ragazza tedesca, che Montanelli aveva seguito ad Amburgo per conquistarla. C’era appena riuscito, quando arrivò la notizia che la Germania era entrata in guerra con inglesi e francesi. Il professionale Indro salutò la bionda, si precipitò a Berlino, e riuscì a essere il primo a spedire una corrispondenza dalla capitale tedesca il 3 settembre 1939.
P
Ma poi nei giorni successivi si mise a sottolineare troppo il valore dei polacchi di fronte all’invasione, e gli arrivò un ordine di espulsione. Disse allora al direttore del Corriere della Sera Borelli che doveva tornare in Italia, ma questo lo bloccò: «No, in Italia no. La Germania e l’Italia sono alleate, guai se qui si sapesse che i tedeschi vi hanno cacciato. Andate dove volete, state un po’ alla larga». Ricordandosi dell’altra volta che lo avevano cacciato dall’Ordine dei Giornalisti per alcune corrispondenze non allineata dalla Guerra Civile Spagnola e di come allora avesse aspettato il
dagli occhi color acqua di scoglio fa con impareggiabile grazia gli onori di casa e fornisce le ultime informazioni. Cortese, oggettiva, diligente, col petto decorato dal distintivo della Lotta Svärd, essa è venuta a occupare il posto del fratello richiamato alle armi».
La Finlandia è diventata indipendente allo sfasciarsi dell’Impero Russo, in contemporanea con Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania. Dopo quello che è appena successo agli altri quattro Paesi non si fa troppe illusioni su quello che l’aspetta, ma è decisa a vendere cara la pelle. Come spiega Montanelli, «con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato. Mentre non è stata nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza. E, fatti con molta oggettività tutti i calcoli, la situazione risulta come segue. La Finlandia può disporre d’un esercito di 35.000 o 40.000 uomini bene armati e bene equipaggiati e sorretti da una gloriosa tradizione militare (sia incorporato nelle armate svedesi che in quelle russe, il finnico è sempre stato un soldato di punta, tiratore infallibile e attaccante arditissimo)». È vero che Mosca potrebbe mettere
«Sia incorporato nelle armate svedesi che in quelle russe, il finnico è sempre stato un soldato di punta, tiratore infallibile e attaccante arditissimo», scrive il giornalista sul Corriere passare della tempesta facendo il Lettore universitario di Italiano a Tallinn, si diresse allora verso l’Estonia, via Lituania. E arrivò a Kaunas il 29 settembre; stesso giorno in cui in esecuzione al Patto Moltov-Ribbentrop l’Unione Sovietica manda un ultimatum al governo lituano. Di nuovo, il Corriere della Sera è l’unico giornale al mondo ad avere una corrispondenza dal luogo stesso dell’evento. Ma il 10 ottobre è firmato il trattato con cui il governo lituano accetta l’occupazione di 20.000 militari sovietici: preludio all’annessione poi effettivamente avvenuta il 15 giugno del 1940. Nuovo ordine di espulsione, e Montanelli riprende il suo viaggio per Tallinn. Anche lì arriva però mentre le truppe sovietiche stanno entrando, a quel punto il posto più vicino dove poter andare è la Finlandia, e il 14 ottobre del 1939 sul Corriere della Sera esce la sua prima corrispondenza da lì. «All’aerodromo di Helsinki una ragazza
in campo soldati a milioni, ma «non avrebbero per manovra che lo spazio molto limitato dei 250 chilometri del confine careliano, che si stende quasi alle porte di Lenigrado, sull’istmo fra il Golfo di Finlandia e il lago Ladoga. L’altro confine, quello orientale, che si lancia verso nord, l’inverno incombente lo ha già sbarrato di lastroni di ghiaccio. Pista assai scomoda per un esercito che abbia il suo punto di forza nella motorizzazione». In effetti, le trattative sono già iniziate il 12 ottobre, ma il tenore delle richieste sovietiche non viene reso pubblico che con la riunione del Soviet Supremo del 31 ottobre. Smentendo che l’Urss abbia mire sulla Finlandia, il ministro degli Esteri Molotov spiega però che essendo Leningrado a una trentina di chilometri dal confine potrebbe essere bombardata con facilità. Chiede dunque al governo di Helsinki «una piccola zona di poche dozzine di chilometri a nord-
Dopo il reportage “anti-tedesco” dalla Polonia, Montanelli non può t
La prima guerra Settant’anni fa l’Unione Sovietica invadeva la
di Maurizio ovest di Leningrado, in cambio della quale siamo disposti a cedere un territorio grande il doppio». Ma la cessione obbligherebbero a smantellare le linee difensive che sono state lì sistemate: la Linea Mannehreim, dal nome del 72enne maresciallo Carl Gustaf Emil Mannerheim. Barone di origine tedesco-svedese, prode reduce dell’esercito zarista, eroe della guerra d’Indipendenza e comandante in capo delle Forze Armate.
I finlandesi rispondono appellandosi al Patto di Non Aggressione esistente tra loro e Mosca, e il 15 ottobre la corrispondenza di Montanelli descrive la folla accorsa alla stazione di Helsinki, ad attendere la delegazione di ritorno da Mosca. Dopo oltre un mese in cui entrambi le parti hanno procedito alla mobilitazione, il 26 novembre un’esplosione fa saltare un posto confinario sovietico presso il villaggio di Mainila, provocando la morte di quattro militari e il ferimento di altri nove. Decenni dopo gli storici stabiliranno che si è trattato di una provocazione dell’Nkvd: insomma, un doppione di quell“incidente di Gleiwitz” con cui il 31 agosto 1939 le Ss avevano inventato il pretesto per l’invasione tedesca in Polonia, con un fittizio attacco polacco a una stazione radio tedesca. Mosca dice infatti che è stato un cannone finlandese a sparare, e pur suggerendo in tono indulgente che può esssrsi trattato di un errore, intima all’esercito di Helsinki di arretrare di 20 Km dal confine. «Sì, se arretrate anche voi di una distanza analoga», è la risposta. «Ci consideriamo liberi dagli obblighi derivanti dal Patto di Non aggressione», sentenzia Molotov. «Di prima mattina, alle ore 9,30 (le 9,30 qui sono le prime ore del mattino) l’allarme aereo ha anunciato ciò che la diplomazia e la stampa ancora non sapevano: che cioè la guerra era in atto”, racconta Montanelli il 30 novembre. «Nove apparecchi sono apparsi nel cielo insolitamente e maldettamente azzurro. Cinque bombe sono cadute sull’aerodro-
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tornare in Italia. Il destino lo porta a Helsinki poco prima dell’attacco
a fredda di Indro Finlandia, davanti a un testimone eccezionale
o Stefanini mo della città. Nessuna vittima». Le incursioni continuano nei giorni successivi, non facendo in principio grandi danni, ma precipitando un fuggi fuggi dalla capitale. All’Hotel Kämp abbandonato, Montanelli resta a aspettare la catastrofe con l’americana Martha Gelhorn, in futuro terza moglie di Hemingway, che ha preparato una cena fastosa con tutto quello che ha ritrovato in cucina. La notte passerà insonne a bere champagne, a sentire musica classica e a leggere la Bibbia. Intanto, 140.000 soldati sovietici con 1000 carri armati irrompono nell’istmo di Carelia. Ma i 13.000 finlandesi delle truppe di copertura, con un centinaio di carri, si ritirano passo passo, in modo da smorzare gradatamente l’urto. Quando infine i sovietici arrivano a contatto con i 70.000 difensori attestati sulla Linea Mannerheim hanno perso il fiato, e l’avanzata si arresta dopo appena 20 Km. È il 6 dicembre. «Ho visto tre prigionieri russi, internati qui e offerti alla curiosità di qualche giornalista», scrive Montanelli l’8 dicembre. «Siamo d’accordo che tre uomini sono un campione inadeguato per giudicare d’un popolo e d’un esercito, ma certo essi non mi hanno ispirato ottimistiche opinioni sull’Armata russa».
Bloccata la loro 7ª Armata al Sud, i sovietici lanciano l’8ª Armata a nord dell’Istmo, nella speranza di poter trovare attraverso un labirinto di 60.000 laghi il percorso per prendere la Linea Mannerheim alle spalle. Intanto la 9ª Armata punta sul Golfo di Botnia per isolare la Finlandia dal confine svedese, e la 14ª dirige verso il porto di Petsamo, per interrompere anche le comunicazioni con la Norvegia. Ma la 104ª divisione è fermata da un battagione di cacciatori, mentre la 122ª e la 88ª in marcia lungo la ferrovia Salla-Kemi sono bloccate da un reggimento della riserva.“Tattica Motti”, «fune per il legname», ha ribattezzato Mannerheim quel sistema con cui i sissit, formidabili fanti sciatori, si muovono silenziosamente appresso alle colonne sovietiche. Le tormentano col fuo-
co di cecchini, e poi attaccano poi all’improvviso durante le crisi di spostamento, nei momenti più bui della notte e nei punti più accidenti in quel caos di foreste, nevi, rocce e acque ghicciate. Per mettere fuori uso i carri, hanno inventato una bottiglia piena di benzina che poi i sovietici copieranno e esportaranno nel resto del mondo, col nome del ministro degli Esteri che ha dato origine a questa guerra: la Bottiglia Molotov. «Quando noi ci fermavamo anche loro si fermavano. Noi ci fermammo qualche volta a lungo sperando che venissero ad attaccarci perché noi eravamo una ventina e loro erano due soli, ma loro non venivano», racconterà a Montanelli un sovietico che i due sciatori, assieme ai 29 compagni, hanno
tica diventa insostenibile. Tra il 26 e il 27 cadono le isole fortificate e il porto di Keivisto. Il primo marzo i sovietici entrano a Viipuri. Ormai è la fine. Il 6 marzo il premier finlandese Risto Ryti va a Mosca a trattare, ma le condizioni di Stalin sono durissime: cessione di Viipuri e di tutto l’istmo, della rive nord del Ladoga, delle isole del Golfo di Finlandia, del porto di Hanko, di ampie zone anche a Nord, della Pensola dei Pescatori nell’Artico. Ryti dice di no e torna a Helsinki: c’è ancora la speranza dell’aiuto che Francia e Inghilterra hanno promesso. Ma per mandare un porto di spedizione Londra e Parigi vorrebbero che la Norvegia metta a disposizione il porto di Narvik, la Germania minaccia rappresaglie, e il governo di Oslo rifiuta. Non senza risparmiarsi l’invasione che effettivamente arriverà di lì a poco, il 9 aprile. Ryti deve dunque tornare a Mosca, dove il 12 marzo firma l’armistizio. «Le note ieratiche, tristissime dell’inno
Il 6 marzo 1940 il premier finlandese Risto Ryti va a Mosca a trattare. Le condizioni di Stalin sono durissime, ma senza l’aiuto di Londra e Parigi il 12 marzo è costretto a firmare l’armistizio poi fatto progioniero senza sparare un colpo, prendendolo per freddo e fame.
La 14ª divisione non oserà neanche muoversi; la 163ª e la 44ª sono addirittura distrutte; la 139ª e la 75ª si trovano di fronte a un contrattacco, che le riduce a mal partito. A gennaio, mese in cui il gelo e la penombra arrivano al massimo, la guerra si ferma. Ma i comandi sovietici stanno intando studiando la lezione. Ritirate le forze dagli impossibili fronti della tundra artica e dei 60.000 laghi, inviata in rinforzo la 13ª Armata, il primo febbraio ritengono infine che il tempo sia migliorato al punto da arrischiare un’offensiva in massa sull’Istmo, accompagnato da massicci bombardamenti. «Quella fu la prima volta da quando la guerra è cominciata che l’artiglieria sovietica ha seguitato a sparare sullo stesso ritmo del giorno, così come la mattina dell’indomani fu la prima che i russi attaccarono all’alba coi carri armati e con le slitte corazzate», racconterà a Montanelli un ufficiale finlandese.Tra il 5 e l’11 l’offensiva sovie-
nazionale risuonarono», scrive Montanelli il 13 marzo, raccontando dell’annuncio alla radio. «Curva la testa, con le guance rigate di lacrime, questi finni che non vidi commossi il primo giorno di guerra ascoltarono sull’attenti l’inno della Patria mutilata. È questo l’animo con cui la Finlandia ha accolto la pace, dopo cento giorni di lotta terminata senza nessuna Waterloo, contro un numico quarantacinque volte più forte».
Nell’immediato, la finale vittoria sovietica non dissiperà l’ironia che a livello mondiale si è scatenata sull’inefficienza dell’Armata Rossa. Le storie sui carri armati caduti in trappole da selvaggina, su intere armate messe in fuga da cacciatori di scoiattoli, su fanterie all’assalto con tecniche da falange tebana e su automezzi inutilizzabili per
l’allentamento di bulloni distraggono però da un lato sulle peculiarità del teatro di guerra finlandese; dall’altro sulla capacità di adattamento che i comandi sovietici hanno comunque avuto. Hitler ne avrà l’idea che la Russia può essere un boccone facile, facendo un errore micidiale. Mutatis mutandis: lo stesso errore che farà Saddam Hussein, nel giudicare la capacità militare americana un bluff dall’esperienza del Vietnam. All’Operazione Barbarossa la Finlandia si aggregerà per recuperare i territori perduti, ma con condizioni peculiari: mantenendo un regime democratico, e continuando a rispettare la comunità ebraica locale. Infatti la Germania sarà definita “compagna d’armi” piuttosto che “alleata”, e comunque sarà lo stesso maresciallo Mannerheim che, presidente tra 1944 e 1946, gestirà il finale cambio di fronte a favore degli Alleati. Il modo in cui i due contendenti avevano avuto occasione di incutersi rispetto a vicenda spiega comunque il perché dopo il 1945 la stessa Finlandia sia scampata al destino di satellizzazione imposto agli altri Paesi dell’Est: ci sarà semplicemente quel regime di buoni rapporti passato alla storia come “Finlandizzazione”. Paradossalmente, le riparazioni imposte dall’Unione Sovietiche permisero anzi a quelle imprese che si impegnarono a fornirle l’occasione di affermarsi nel mercato sovietico. Tra queste, una ex-falegnameria del fiume Nokia, nel frattempo passata alla gomma e ai cavi. Costretta di nuovo a riconvertirsi dopo il collasso dell’Urss, la Nokia sarebbe infine diventata un gigante dei telefonini. E lanciato dalla Guerra d’Inverno fu anche Indro Montanelli, che divenne il giornalista più letto d’Italia. «La mia abilità», spiegherà in seguito, «fu di capire immediatamente da quale parte stava il pubblico italiano». E il tifo di massa per la Finlandia aggredita da un’Urss alleata dell’alleata Germania sarebbe state anch’essa una lezione da meditare, da parte del regime di Mussolini. Ma anch’essa fu una lezione non capita.
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Yemen. Dietro il terrorista nigeriano la mano dell’imam radicale al Awlaki, l’ispiratore della strage di Fort Hood negli Usa
L’autogol di Sana’a Il governo smentisce la cattura del leader di al Qaeda: «ci è scappato» Osvaldo Baldacci utogol del governo yemenita nella lotta ad al Qaeda. Nella fretta di voler dimostrare di sapersela cavare da sola e di essere all’altezza di qualunque sfida, garantendo così di non essere una minaccia per la sicurezza internazionale, il governo di Sana’a ha compiuto un passo falso che può provocare l’effetto contrario. L’annuncio mercoledì della cattura di un capo locale di al Qaeda suona beffardo ora che le autorità sono state costrette a rendere una pubblica smentita e ad ammettere che Mohammed al-Hanq è invece in fuga. E come sempre le smentite non fanno che rafforzare chi esce vincitore dal confronto, dando un duro colpo alla credibilità delle autorità yemenite e alimentano la presa del fuggitivo e della sua organizzazione sull’immaginario di una pubblica opinione che già non gli è del tutto ostile.
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Al Hanq era riuscito a sfuggire ai militari nel corso di un’operazione lanciata da Sana’a dopo le minacce alle rappresentanze diplomatiche statunitense e britannica. L’esercito era riuscito a uccidere due delle guardie del corpo dell’esponente di al-Qaeda nella Penisola arabica. Poi fonti dei ser-
vizi segreti yemeniti avevano vantato l’arresto in ospedale di al-Hank. Ma ieri il ministro yemenita degli Interni Rashad alHalimi ha dovuto negare di aver conseguito tale successo. Il ministro e fonti della sicurezza yemenite si sono anche affannate a cercare di tagliare quanti più collegamenti possibili fra lo Yemen e il tentato attentato sull’aereo per Detroit.
Infatti l’arruolamento da parte di al-Qaeda del nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab sarebbe avvenuto durante la sua permanenza a Londra e non nel suo viaggio studio in Yemen. Le fonti sostengono inoltre che secondo gli investigatori olandesi il materiale esplosivo utilizzato dal terrorista sarebbe arrivato dalla Nigeria e non dallo Yemen, anche se la cellula yemenita di al Qaeda ha rivendicato la scorsa settimana il fallito attentato. Lo stesso ministro della Difesa al-Halimi però ha riferito che Abdulmutallab durante il suo soggiorno in Yemen ha incontrato l’imam radicale Anwar alAulaqi, figura di spicco dell’arruolamento di terroristi via Internet, divenuto referente spirituale anche del maggiore dell’esercito americano, Nidal Malik Hasan, che aprì il fuoco sui
commilitoni a Fort Hood, in Texas, nel novembre scorso, uccidendo 13 persone. Anwar al Aulaqi è considerato l’Osama bin Laden di Internet, colui che, attraverso la sua rete di blog, convince schiere di apprendisti mujaheddin a immolarsi nel nome di Allah. Cittadino americano (nato nel New Mexico nel 1971), Aulaqi era già nelle liste dei sospettati dell’Fbi poco dopo gli attentati dell’11 settembre.
Laureato negli Usa in ingegneria civile, docente universitario e imam, Aulaqi è un grande conoscitore di Internet. I suoi sermoni in inglese, pubblicati anche su You Tube, avreb-
Nella fretta di voler dimostrare di essere capace di cavarsela da solo e che la repubblica non rappresenta una minaccia internazionale, il presidente yemenita ha ottenuto l’effetto contrario bero motivato tre degli attentatori dell’11 settembre. Nonostante tutto ciò, Aulaqi è riuscito a fuggire nelloYemen e a tornare varie volte negli Usa senza che nessuno riuscisse a bloccarlo. L’Fbi, fino a un paio di anni fa, non era riuscita a trovare prove sufficienti per un’incriminazione.
Ruolo quello di Aulaqi che se da una parte mostra ancora una volta la globalizzazione del terrorismo (potrebbe mandare online i suoi sermoni da qualunque parte del globo), allo stesso tempo però manifesta come non sia un caso che loYemen venga scelto come un paese opportuno per nascondere estremisti. D’altro
canto la penisola araba resta il cuore storico e ideale del fondamentalismo qaedista, e il gruppo di «al Qaeda nella penisola araba» è ormai a trazione yemenita ed è guidato non da un personaggio qualsiasi bensì dall’ex braccio destro di Osama bin Laden, lo yemenita Nasser alWuhayshi.
Il gruppo nella sua forma attuale, su base regionale, è stato riformato nel gennaio del 2009 dalla fusione di due cellule del network del terrore che operavano traYemen e Arabia Saudita. Il
Dura da trent’anni la collaborazione tra Cia e il Gid, l’intelligence giordana, oggi in crisi per l’attentato in Afghanistan
Il regno ashemita e la guerra delle ombre a bomba esplosa nella base della Cia di Khost in Afghanistan potrebbe aver incrinato l’immagine di un’alleanza ultradecennale tra Amman e Washington. Forse solo l’immagine, non la sostanza. Il regno Ashemita da sempre ha dovuto difendersi dai nemici interni, barcamenandosi tra interessi del mondo arabo e gli amici occidentali che ne finanziavano l’inesistente economia. Un trono al centro di mille trame e intrighi, interni ed internazionali. Prima furono i fedayyn palestinesi, ospitati in Giordania e subito pronti a organizzare un golpe contro l’allora re Hussein. Furono massacrati dalla Legione araba. Era il 16 settembre del 1970. Così nacque l’organizzazione terroristica Settembre nero. Da allora il potere giordano ha dovuto sempre muoversi con attenzione. Ora un ufficiale dell’intelligence giordana è l’ottava vittima dell’attacco suicida che la scorsa settimana aveva distrutto una base segreta della Cia in Afghanistan. Ma
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di Pierre Chiartano ciò che stona è che avesse introdotto un collaboratore poi rivelatosi un kamikaze. L’ufficiale era un capitano in servizio presso il General intelligence department (Gid) del regno di Giordania. L’agenzia stampa ufficiale di Amman l’aveva identificato come Ali bin Zeid, affermando che era stato ucciso «mercoledì sera come un martire mentre adempiva al sacro dovere nelle Forze armate giordane in Afghanistan».
Poi la notizia che il kamikaze che si è fatto esplodere era un qaedista arruolato che aveva fatto il triplo goco. Un medico, giordano anche lui, Humam Khalil Abu-Mulal al-Balawi, avrebbe dovuto servire come esca per arrivare ad Al Zawahiri il vice di bin Laden. L’attentato è costato la vita anche ad altri sette agenti operativi dei servizi americani che ormai si fidavano
dei giordani. È stato così colpito non solo un luogo segreto, ma anche una partnership storica tra Washington e Amman nella lotta al terrorismo internazionale. Secondo i servizi l’attentato sarebbe stato inoltre organizzato grazie al clan degli Haqqani, il principale movimento armato talebano in Pakistan: circostanza che non farà che acuire i contrasti tra Washington e Islmabad, che ha finora ignorato le richieste statunitensi di colpire le principali basi delle milizie. Si tratta di un colpo molto duro inferto alla Cia: tra le vittime vi sono infatti alcuni dei massimi esperti su al Qaida dei servizi statunitensi, le cui capacità «sono insostituibili a breve termine», come sottolineato dagli esperti. Come scriveva il Washington Post, il rapporto che si era creato e consolidato tra Cia e Gid era «una rara occasione di collaborazione» tra l’intelligence statunitense e i servizi giordani, in cui il Paese arabo sta giocando un ruolo sempre più attivo nella lotta contro al Qaeda
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Un’infinità di leggerezze hanno permesso che l’uomo salisse a bordo
Rapporto shock su volo per Detroit Uno shock, o meglio «un certo schock». È quello che gli americani (e non solo loro, diciamolo) dovrebbero aver provato nel leggere il rapporto sugli errori commessi dai servizi di sicurezza Usa che hanno portato un giovane nigeriano ad un soffio dal compiere un attentato kamikaze sul volo Amsterdam-Detroit il giorno di Natale. Lo ha detto ieri James Jones, uno dei consiglieri per la sicurezza del presidente Barack Obama, in un’intervista a Usa Today. Il presidente è «legittimamente e correttamente allarmato perché non si è agito su quanto era disponibile, sui brandelli di informazione disponibili e su indicazioni di comportamento a disposizione», ha detto Jones. La Casa Bianca, nel tardo pomeriggio di ieri (ora americana) ha infatti reso pubblico un rapporto sull’incidente per far conoscere ai cittadini gli errori compiuti ai vari livelli di sicurezza. Il 23enne Umar Farouk Abdulmutallab era stato addestrato in Yemen da un gruppo affiliato ad al Qaeda. Ieri è stato incriminato di sei capi di imputazione, tra cui il tentativo di utilizzare armi di distruzione di massa. Se condannato, la sua pena potrebbe essere l’ergastolo. Il pa-
La penisola araba resta il cuore storico e ideale del fondamentalismo e i qaedisti dell’area, ormai a trazione yemenita, sono guidati dall’ex braccio destro di bin Laden: al-Wuhayshi gruppo terrorista ha rivendicato l’anno scorso una serie di attentati nei due Paesi. In Yemen al Qaeda è radicata soprattutto nei terreni aspri dell’est, e ottiene consenso tra le fasce più povere ed emarginate della popolazione. Ma ciò che più conta è che al Qaeda si insinua tra le insoddisfazioni delle tante opposizioni
al governo centrale, trovando così connivenze e bacino di reclutamento tanto al sud quanto persino nel nord sciita. Non è un caso che i ribelli zaiditi del nord offrano ora una tregua al governo, un’occasione per loro ma anche per il governo di Sana’a che rischia di veder saldate le trope minacce che gli stanno di fronte.
Con un’ulteriore aggravante: la situazione dello Yemen non è mai del tutto isolabile dal contesto più ampio del Mar Rosso. Le crisi del Corno d’Africa e dello Yemen sono legate, facendo spesso da specchio l’una all’altra. Soprattutto quando in ballo è l’islam estremista, un potente collante che lega le filiere di ribelli sull’una e l’altra sponda del Golfo di Aden. Non a caso gli Shebab, i miliziani somali vicini ad al-Qaeda che stanno vincendo la competizione armata nel loro Paese, si sono detti pronti a portare aiuto militare
dre di Abdulmutallab aveva avvisato l’ambasciata americana in Nigeria delle sue preoccupazione per il figlio che stava diventando estremista. Nonostante questo ad Abdulmutallab non è stato negato un visto d’accesso negli Stati Uniti e non è stato messo sulla “no fly” list. «Sappiamo quello che è successo, sappiamo quello che non è successo e sappiamo come rimediare», ha detto Jones. «Questo dovrebbe essere incoraggiante. Non dobbiamo inventarci niente di nuovo per fare in modo che questo non accada più». Quello che nel frattempo emerge, è che che gli agenti della Customs and Border Protection hanno seguito le normali procedure preparandosi all’arrivo dell’aereo decollato da Amsterdam verificando che uno dei passeggeri era inserito nel database del Terrorist Identities Datamart Environment. Ma anche se l’avessero individuato prima, non si sarebbe potuto impedire a AbdulMutallab di volare perché il suo nome non era inserito in una “no fly list” oppure in una “terror watch list”, ma solo in quella molto generica in cui vi sono mezzo milione di nomi
ad al-Qaeda sulla riva opposta. In questo contesto hanno senz’altro senso gli avvertimenti lanciati ieri dalle autorità yemenite contro un eventuale intervento armato diretto degli Stati Uniti nel loro Paese. Tali operazioni militari aumenterebbero il risentimento nella popolazione e rischiano di portare acqua al mulino di al Qaeda, come avviene ad esempio in Pakistan.
Tali operazioni militari possono funzionare solo in due circostanze: se sono molto mirate
e i gruppi del terrorismo ultrafondamentalista. Gli agenti giordani sono particolarmente apprezzati per le tecniche d’interrogatorio e per il modo in cui arruolano e mantengono i rapporti con gli informatori. In questo caso c’è stata una falla, ma nel gioco delle ombre può succedere anche questo. Avrebbero raggiunto un livello d’esperienza e capacità che ne fanno degli esperti senza rivali nel campo «dei gruppi con militanti radicali e nella cultura sciita e sunnita», afferma sempre dalla colonne del quotidiano Usa - Jamie Smith, un ex agente di Langley che ha lavorato nelle regioni di confine, subito dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’alleanza occidentale.
località molto frequentate dal turismo internazionale. Le barbe finte giordane avrebbero anche fornito numerose intercettazioni telefoniche nell’estate del 2001 che parlavano della minaccia di attacchi imminenti sul territorio statunitense, sempre secondo il Post. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, lo Stato di Giordania aveva accettato di firmare un accordo che avrebbe previsto delle operazioni in partnership tra i due Paesi. Compresa la creazione di un centro gestito dalla Cia e dal Gid per l’escussione dei prigionieri catturati dall’agenzia Usa. Nel documento si prevedeva anche l’invio di terroristi in Giordania per mezzo dei voli poi diventati tristemente noti come extraordinary rendition, per essere interrogati dagli esperti del Gid. I giordani avevano arrestato al Balawi nel 2007, per le sue attività di propaganda sui siti web jihadisti, spingendolo a collaborare. La voce che circola nel Gid è che dopo aver aiutato la Cia a colpire molti membri dello stato maggiore di al Qaeda, il medico trentaduenne abbia avuto un ripensamento a causa delle vittime civili che i raid causavano. Ora c’è sicuramente imbarazzo, ma la fame di informazioni dal campo è altissima e il lavoro di reclutamento continuerà, come la collaborazione tra Amman e Washington.
L’imbarazzo ora è alto, ma la fame di informazioni dal campo è altissima e il lavoro di reclutamento continuerà, come gli stretti rapporti tra Amman e Washington
«Loro conoscono bene la cultura… di quei “pessimi soggetti”, i loro legami e sanno molto sui network cui appartengono» ha spiegato l’ex operativo della Cia. Sia ex appartenenti ai servizi Usa che funzionari attualmente in servizio concordano che la collaborazione con l’intelligence giordana sia una faccenda che dura da più di trent’anni. E negli ultimi tempi i rapporti sono diventati molto stretti.Tanto basati sulla fiducia che il responsabile di Langley nella capitale Amman può avere libero accesso senza “accompagnatori”nella
sede del Gid. Un fiducia ricambiata tanto che l’informatore arrivato con il capitano Zeid non è stato neanche perquisito. Un fatto piuttosto inusuale. Una relazione molto stretta che ha permesso di sventare numerosi complotti, compresa la cosiddetta cospirazione del «millennium» che prevedeva una serie di attentati in
(ben mirate) e possibilmente segrete, oppure se si è pronti a condurre vaste operazioni militari vere e proprie. Gettare un cerino ed andarsene servirebbe solo a innescare un incendio, che probabilmente andrebbe dallo Yemen alla Somalia fino in Etiopia, con rischi di ripercussioni anche in Arabia Saudita ed Eritrea, e chissà che altro con effetto domino di una catena di Paesi in Asia e Africa tutti troppo instabili e con una minacciosa presenza di conflitti etnici e religiosi e di fondamentalismo difficilmente isolabile.
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Egitto. La mattanza all’uscita della messa nel villaggio di Nagaa Hamadi a presenza della micristianonoranza copta in Egitto rappresenta da sempre un motivo di apprensione per il governo del Cairo. La difficile convivenza con la maggioranza musulmana è sfociata spesso in scontri diretti. L’ultimo risale alla notte tra il 6 e il 7 gennaio scorsi. Notte che, secondo il calendario copto, corrisponde a quella di Natale. In questo caso si è trattato di un drammatico scontro a fuoco che ha provocato la morte di nove persone, otto cristiani e un poliziotto musulmano coinvolto nel tentativo di porre fine alla sparatoria, insieme a una decina di feriti. La tragedia è avvenuta fuori da una chiesa, alla fine delle celebrazioni natalizie, nel piccolo villaggio dell’Alto Egitto di Anba Basava. Secondo la ricostruzione dell’accaduto, si è trattato di una vendetta condotta da alcuni musulmani in seguito al rapimento e allo stupro di una bambina della loro comunità. Crimine di cui erano accusati alcuni fedeli cristiani. Alla aggressione dell’altra notte, è seguita una violenta manifestazione di protesta da parte dei cristiani di fronte alla centrale di Polizia locale, accusata di non essere intervenuta per tempo nell’evitare la tragedia. Tutto questo avveniva mentre al Cairo Gamal Mubarak, figlio del presidente egiziano e in sua rappresentanza, prendeva parte alla Messa solenne celebrata dal Papa copto Shenuda III.
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Una volta giunta la notizia in Europa, non si sono fatte attendere le dichiarazioni di critica e preoccupazione per quanto successo. Il governo italiano, per voce del ministro Frattini ha condannato l’episodio e ha espresso la sua preoccupazione per i ri-
Strage di cristiani alla vigilia di Natale Bilancio nerissimo per la comunità copta: 9 morti e 10 feriti. Sconcerto internazionale di Antonio Picasso
si di omicidio e scontri a fuoco di maggiore portata. Spesso esponenti di gruppi musulmani dichiaratamente radicali si sono scagliati contro questa minoranza cristiana, cercando di emarginarla il più possibile volendo metterne in discussione la sua stessa presenza nel Paese. Di fronte a questo le autorità sono state accusate di
Secondo le prime ricostruzioni, a sparare contro due gruppi di fedeli diversi sarebbero state tre persone a bordo di un’unica auto schi in cui incorrono quotidianamente i cittadini egiziani di fede cristiana. La discriminazione, unicamente sociale, dei copti rispetto al resto del mondo egiziano ha le caratteristiche di un fenomeno carsico che sta attraversando in questo momento una fase di maggiore criticità e conseguentemente di piena visibilità. Negli ultimi mesi infatti gli scontri sono diventati più frequenti. Dagli episodi sporadici di regolamenti di conti a livello locale e nello stesso villaggio, si è passati a ca-
inoperosità e di compiacenza con i civili musulmani autori di questi “raid punitivi”. L’episodio di Natale è solo il più recente e sanguinoso tra i casi di violenza negli ultimi mesi. All’inizio di maggio 2009 inoltre aveva suscitato molte polemiche la decisione delle autorità sanitarie egiziane di chiudere tutti gli allevamenti suini dei copti, per il rischio di pandemia dell’influenza A. Ne era seguita una vera propria mattanza dei maiali allevati dai cristiani. L’operazione ebbe le immediate ripercussioni
Le origini della chiesa sono legate ai Francescani
Una confessione nel mirino L’esempio della Chiesa copta è forse il più indicativo di come il cristianesimo in Medio Oriente sia frammentato e non riesca a trovare un’unità interna che gli permetterebbe di conservare la sua identità nel mondo islamico, attutendo le discriminazioni ed evitando nuove diaspore. La Chiesa copta si ramifica in ortodossa da una parte e cattolica dall’altra. La prima è guidata dal Patriarca di Alessandria d’Egitto, Shenuda III, considerato il 117 esimo Papa di questa congregazione. La sua comunità rappresenta il blocco demograficamente più numeroso nel cristianesimo egiziano: 8 milioni di fedeli. La sua storia è legata al monachesimo e all’ascetismo che si propagarono in Egitto nel I secolo d.C. La Chiesa copta cattolica invece è in comunione con il Vescovo di
Roma e lo riconosce come suo Pontefice. Le sue origini sono legate alle missioni dei Frati francescani minori, poi dei Cappuccini e infine dei Gesuiti. Anche in questo caso la guida spirituale ricopre il titolo di Patriarca di Alessandria. La loro presenza nel Paese è però minore numericamente rispetto a quella ortodossa, in quanto si tratta di qualche decina di migliaia di fedeli.Tuttavia il rito è seguito anche presso alcune comunità del Sudan. Un ulteriore terzo ramo del cristianesimo copto si rintraccia in Etiopia, la cui Chiesa unitaria (Tawahedo) appartiene al rito ortodosso orientale e faceva riferimento a quella Diocesi copta di Alessandria fino al 1959. Da allora si è proclamata autocefala e ha un suo Patriarcato con sede in (a.p.) Addis Abeba.
negative sull’economia di questa minoranza, prevalentemente impegnata nel settore dell’agricoltura. Del resto molte erano state le critiche indirizzate alle istituzioni cairote che, secondo alcuni, avevano agito in questo modo più per motivi di ordine pubblico che di igiene sanitario collettivo. Eliminare un animale “impuro”, come è il maiale secondo il precetto coranico, avrebbe tenuto sotto controllo le frange più estreme dell’Islam nazionale, che non possono concepire la presenza di allevamenti suini gestiti da cristiani in Egitto. Inoltre avrebbe fatto da sprone affinché la comunità copta cominciasse a valutare l’idea di abbandonare il Paese.
Queste supposizioni - in malafede, per quanto fino a un certo punto - sono state fugate dalla partecipazione di Gamal Mubarak alla funzione natalizia dell’altra notte. La rappresentanza della presidenza egiziana di fronte alla massima autorità ecclesiastica copta risulta come un gesto di conciliazione nonché di riconoscimento della presenza cristiana in Egitto. Hosni Mubarak, attraverso suo figlio, ha voluto garantire la sua personale protezione a Shenuda III e ai suoi fedeli. La Chiesa copta d’Egitto infatti si sente scarsamente protetta e vede la sua comunità scappare da un Paese divenuto ormai inospitale. Il problema di questa minoranza è essenzialmente demografico e sociale. Tuttavia non sono disponibili cifre attendibili sul numero di cristiani presenti nel Paese. Un rapporto del 2009 della George Washington University (Washington Dc) parla di circa 8 milioni di cristiani copti con passaporto egiziano. Si tratta del 10% della popolazione totale del Paese, una minoranza comunque di alto livello, la quale costituisce un centro di potere e di pressione politica da non sottovalutare. Da qui l’interesse di Mubarak a non creare frizioni con il clero copto. Il problema per il Cairo però è che nel 2011 sono fissate le elezioni presidenziali. Se il rais intenderà mantenere il potere, o trasmetterlo al figlio senza creare strappi nei delicati equilibri sociali del Paese, sarà costretto da oggi in poi a effettuare pazienti lavori di bilanciamento, onde evitare di offendere la comunità copta e quindi perderne il sostegno, come pure riuscire a non compromettere la sua immagine di fronte all’elettorato musulmano.
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Più alto il numero di chi se ne va rispetto a quelli che arrivano
Al via i negoziati dopo la disputa petrolifera di Fakka
In Irlanda si torna nuovamente a emigrare
Iran e Iraq cercano di stabilire la linea di confine
DUBLINO. I “figli della tigre” se
BAGHDAD. A quasi un mese dal-
ne stanno andando. I giovani irlandesi, cresciuti al sole del boom economico, abituati alla luce calda del benessere, sono i più sconcertati dall’ombra scura che la crisi ha fatto scendere sull’isola. Il gelo della recessione ha colpito loro più di tutti: la disoccupazione è raddoppiata al 12,5%, ma il 90% dei posti di lavoro perduti si è concentrato nella fascia di età sotto i 30 anni. Per questo l’Irlanda, per quindici anni calamita d’Europa, autoproclamata “Tigre celtica” che ha accolto stranieri da paesi vicini e lontani offrendo la certezza di un lavoro, oggi è tornata a essere un paese di emigranti in cerca di impiego.
l’inizio della disputa petrolifera frontaliera tra Iran e Iraq, i due Paesi hanno annunciato ieri la formazione di tre comitati congiunti incaricati di «risolvere i problemi di confine», lungo circa 1.500 km, mentre i due ministri degli Esteri hanno rilasciato dichiarazioni contrastanti sull’attuale posizione del manipolo di soldati iraniani nei pressi del campo di Fakka/Fakkeh. In una conferenza stampa a Baghdad, il ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari e il suo collega iraniano Manushehr Mottaki (nella foto) hanno affermato che il primo comitato congiunto è già al lavoro, mentre «entro una settimana inizierà il lavoro del comitato tecnico, con una serie di riunioni
Quest’anno per la prima volta il numero di irlandesi che hanno deciso di emigrare ha superato il numero degli immigrati. Le pagine più tristi della dolorosa storia d’Irlanda sembrano riscriversi da sole. Nell’arco di 12 mesi, 40mila irlandesi sono partiti alla ricerca di una nuova vita. L’anno prima erano stati solo 7.800. Le mete tradizionali, Gran Bretagna e Stati Uniti, sono ora trascurate perché colpite dalla crisi. Il boom delle partenze è verso Canada e Australia, paesi altrettanto anglofoni ma ora più stabili e quindi più invitanti. L’Irlanda, primo pae-
Razzi su Israele risale la tensione Mitchell pronto a una nuova missione per sbloccare l’impasse di Luisa Arezzo sraele ha chiuso il valico con Gaza di Kerem Shalom dopo che ieri mattina sette razzi sono stati sparati dalla Striscia. Tre missili sono caduti nel deserto del Negev, altri tre presso il valico ed un terzo è esploso all’interno della Striscia. Nessuno ha causato vittime, ma il lancio è stato rivendicato dal braccio armato dei comitati di Resistenza Popolare, le brigate Salah al-Din. Nemmeno un’ora dopo la chiusura, aerei dell’aviazione militare israeliana lanciavano sulla popolazione della Striscia migliaia di volantini con l’avvertimento di non avvicinarsi alla linea di confine per non incorrere nel fuoco israeliano. Una “nevicata” di carta in grande stile che inaugura una sorta di risposta preventiva politically correct, atta a fugare le critiche nel caso la situazione non rientrasse subito sotto controllo. Il tutto, mentre l’inviato di Barack Obama per il Medioriente, George Mitchell, si prepara a una nuova missione in Israele e nei Territori per tentare di sbloccare l’impasse e riavviare un negoziato di pace. Da quel momento, da quando israeliani e palestinesi si siederanno intorno a un tavolo, secondo Mitchell, serviranno «non più di due anni, o forse anche meno» per raggiungere un accordo.
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in sintonia con Gerusalemme e il potenziale di una piccola burrasca nei rapporti bilaterali è dunque alto. Certo, non va mai dimenticato che i legami tra i due paesi sono profondi e duraturi e che hanno superato senza danni permanenti ben altre tensioni. Tuttavia i guai all’orizzonte non mancano, e nonostante le ultime posizioni del presidente Usa sull’Iran (molto più dure che in passato, almeno a parole), lo smacco del Rapporto Goldstone è ancora caldo per Israele e non è da escludere che questa visita possa inavvertitamente accendere la miccia.
Andiamo per ordine. Israele non è contrario a dialogare con la Siria né si oppone a un accordo di pace con il vicino settentrionale. Lo ha fatto durante ogni governo dal 1990 a oggi, con alti e bassi. Tuttavia, la valutazione israeliana sul tema si è modificata rispetto agli anni Novanta a causa dei diversi equilibri strategici intervenuti dopo lo sviluppo della minaccia missilistica proveniente sia da Siria che dal Libano di Hezbollah, dalla scoperta di un programma nucleare clandestino siriano e in generale della progressiva subordinazione di Damasco a Teheran. Per Israele oggi mantenere il controllo del Golan è molto più importante che in passato e in più la teoria secondo cui Damasco sia pronto a divincolarsi dall’abbraccio iraniano è naufragata ulteriormente dopo la dichiarazione di Ahmadinejad di ieri in cui preannuncia un’alleanza di ferro con la Siria. Sul tema Iran - tema che sicuramente Israele solleverà durante la visita di Mitchell - esiste il potenziale di uno scontro durissimo. Senza dimenticare che Israele vorrà una disponibilità americana di principio a permettere un raid israeliano nei prossimi mesi se i negoziati naufragassero o se l’intelligence mostrasse sviluppi irreversibili nel programma nucleare iraniano. Sul processo di pace infine Israele deduce dal frammentato e rissoso panorama palestinese che non ci sia spazio per sconti o scorciatoie a una nuova roadmap. Il condizionale all’ottimismo di Mitchell, è dunque d’obbligo.
Abu Mazen non intende avviare alcun negoziato di pace finché Netanyahu non bloccherà gli insediamenti
se dell’Eurozona a entrare in recessione, è ancora in crisi. Tecnicamente l’economia è uscita dalla recessione, dato che nel terzo trimestre il Pil è cresciuto dello 0,3%, ma è pressoché certo il ritorno in territorio negativo nel quarto trimestre. Su base annua il calo del Pil è del 7,5 per cento. Inoltre nel caso dell’Irlanda il dato più significativo è il prodotto nazionale lordo (Pnl), che esclude l’apporto delle multinazionali e che nel terzo trimestre è sceso dell’1,4%, accelerando il declino rispetto al -0,5% registrato nel secondo. Se le multinazionali, specie quelle in settori anti-ciclici come il farmaceutico, vanno bene, le imprese locali continuano ad annaspare.
La diplomazia è al lavoro per tentare di trovare un punto di mediazione, ma al termine dell’incontro di lunedì scorso a Sharm el-Sheikh tra il presidente palestinese, Abu Mazen, e l’egiziano Hosni Mubarak, è arrivata l’ennesima doccia fredda. Abu Mazen ha ribadito che non sarà possibile avviare un negoziato di pace, finché Israele non bloccherà definitivamente la costruzione di nuovi edifici in Cisgiordania e a Gerusalemme est, la città che i palestinesi vorrebbero come futura capitale del loro Stato. La visita, al di là delle parole di Mitchell, non promette però nessuna grande svolta. Piuttosto servirà a mettere a fuoco ulteriormente il futuro corso dei rapporti tra Israele e Stati Uniti. È evidente infatti che sui tre fronti più caldi per Israele - Iran, Siria e processo di pace - l’Amministrazione non è
che si terranno lungo la frontiera tra tecnici ed esperti dei due Paesi». Un terzo comitato, incaricato di risolvere il dossier delle acque dello Shatt al Arab comincerà i lavori fra tre settimane. Mottaki ha poi affermato che ai soldati iraniani, che a metà dicembre si erano introdotti nel conteso campo petrolifero di Fakka/Fakkeh, è stato ordinato di ritirarsi «verso le loro posizioni originarie», Zebari si è limitato a dire che «le truppe iraniane hanno ammainato la loro bandiera (da Fakka) ma si sono ritirate a una certa distanza».
«Ci sono quasi 1.500 km di frontiera tra Iran e Iraq», ha ricordato Mottaki, che ha assicurato che per Teheran si tratta di un «confine di buona volontà, amore e pace verso il popolo iracheno». A metà dicembre, una decina di soldati iraniani aveva preso possesso del campo petrolifero di Fakka, nel settore meridionale della frontiera. Baghdad aveva protestato definendo l’azione una violazione della sua sovranità, mentre Teheran aveva, prima negato e poi rivendicato i propri diritti sul giacimento iraniano di Fakkeh. La disputa era stata formalmente dichiarata chiusa lo scorso 21 dicembre dallo stesso ministro iraniano Mottaki, che aveva già annunciato l’avvio di comitati congiunti per risolvere le questioni frontaliere.
cultura
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In libreria. Da “Mimmo Rotella: Roma, Parigi New York” a “Ritratti”, da “Architettura del Rinascimento Italiano” a “Marinetti e la Russia”
Per un anno d’arte Viaggio letterario nel mondo dell’estetica creativa tra cataloghi, monografie, saggi e “volumi-spettacolo” di Marco Vallora are le strenne», oltre all’utile sforzo di porsi nella testa del lettore impegnato nell’ipotesi-dono, è anche un buon modo per tastare il polso all’editoria d’arte, sempre fervida ma acciaccata, dietro il variare continuo delle mode. Certo, la prima cosa che salta agli occhi, salvo omissioni, e a petto dell’enorme pletora di cataloghi occasionali e inutili, perché preparati in fretta e nella più improvvisata incompetenza, è la penuria ormai di vere monografie d’artisti, indipendentemente dalla voga d’istant-mostre, più che deludenti. Fa in parte eccezione, per l’arte moderna, il volume Skira, dedicato a Mimmo Rotella: Roma, Parigi New York. Non solo l’artista nativo di Catanzaro, dunque, ma anche i compagni di strada, Burri, Manzoni, Klein, Spoerri, Twombly, ovvero gli ultimi fuochi del Nouveau Realisme, bei tempi davvero!
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Il volume-spettacolo è come una spensierata passeggiata tra i suoi manifesti strappati, e non soltanto: lettere, documenti, film, fotografie, feste e collusioni internazionali. Tra i venerati maestri, anche Kurt Schwitters, che si merita un bel numero unico della rivista La Città di Riga, a cura di Elio Grazioli: l’epopea del Merzbaum, il manifesto dell’Arte Proletaria, la forza dell’astrazione-collage. Impegno e nichilismo intrecciati insieme. Se, in fondo, il centenario del Futurismo non ha portato grandi novità nutritive nel campo delle mostre (e conseguenti cataloghi) esiste però una saggistica su alcuni artisti fondatori e pensatori-satelliti, che non è trascurabile. Per esempio, legato al Mart di Rovereto, che da tempo collabora e sostiene una bella collana parallela, pubblicata in collaborazione con Skira (dalle arti applicate di Depero, alla danza di Giannina Censi) ecco uno stimolante volume di Vladimir Pavlovic Lapsin, che porta a Rovereto quel senso della Storia, che è in fondo mancato alla grande, discussa mostra rias-
suntiva, tentata al Museo. Studioso di Serov e degli Ambulanti, Lapsin dedica questo regesto-antologia all’importanza, quasi leggendaria, del viaggio di Marinetti in Russia, nel 1914, coinvolgendo i più diversi
Purtroppo, la prima cosa che salta all’occhio, è la penuria di autentiche monografie d’artisti, oramai sempre più inutili e deludenti Majakovskij, Larionov, la Goncharova, ma e persino un teorico del futuro realismo sovietico quale Lunacharskij. Marinetti e la Russia, documentato dossier che studia quel rilevante periodo, anche per l’arte che poi sarebbe diventata sovietica, attraversandolo, quasi fosse un viaggio di rallentata velocità. A risentire di quella visita dirompente, non ci
sono soltanto letterati come Burliuk e Kruceneich, ma anche pittori come Malevic, musicisti quali Skrjabin e Stravinskij, impresari come Diaghilev e registi, decisivi, quali Stanislavskij. Alla figura, romanzata, del solo “impresario”-factotum milanese nato in realtà ad Alessandria d’Egitto, Filippo Tommaso Marinetti, Caffeina d’Europa, si dedica invece lo
storico Giordano Bruno Guerri, per un incendiato racconto, molto immedesimato e adrenalinico, dentro la sua esistenza movimentata e le Invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario, molto sui generis (Mondadori). Dal “preannunzio sciroccale” dell’Egitto, che poi sarà di Pea e di Ungaretti, alla senescenza accademica. Dalla Parigi decadente e Belle Epoque di Sarah Bernardt e del verso libero di Kahn, alla Milano industrial-energetica delle “uova al burro alla Bakunine”: tra socialisti e anarchici, sino al prillare scenografico della deflagrazione futurista. Troppo poco conosciute, in fondo, le muse collaterali e protagoniste in proprio, che furon le donne-artiste Futuriste, e ce ne furono, dalla stessa Benedetta Cappa, signora Marinetti (siciliana e aeropittri-
ce) a romanziere come Rosa Rosà, scultrici quali Regina, fotografe come Wanda Wulz, pensatrici eccentriche, tipo Enif Robert, Maria Ginanni, Maria Goretti e Valentine de SaintPoint, che nel 1912 lanciò il Manifesto della Donna Futurista. Accanto al bel volume di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli,
A destra, Bomarzo. Sotto, “Marinetti e la Russia” di Vladimir Oavlovic Lapsin; “Filippo Tommaso Marinetti” di Giordano Bruno Guerri; “Rotella Roma, Parigi New York”. Nella pagina a fianco, la copertina de “Il giardino più romantico del mondo” curato da Charles Quest-Riston; il volume “Architettura del Rinascimento Italiano” e Donatello, Raffaello, Giulio Romano, Brunelleschi e Palladio
dedicato alle Futuriste italiane nelle arti visive (De Luca), lo studioso Giancarlo Carpi, specializzato nel rapporto tra letteratura e pittura, ha progettato questo volumoso tomo Castelvecchi, in cui tenta finalmente un censimento dettagliato di tutte quelle esperienze dimentacate e sorprendenti. Nel clima jazz che coinvolse pure i dadaisti e la poesia di Cendrars, lo stile “diplomatico” di Morand e il cinema di Lèger, gli spettacoli di Josephine Baker e la Revue nègre (sono gli anni del passaggio dal muto al sonoro, proprio con il Cantante jazz di Al Jones) rovesciando lo stereotipo colonialista tipo faccetta nera all’epoca della guerra d’Etiopia (e anticipando le operazioni-choc di Michael Jackson, per acquisire una pelle bianca) Farfa, protagonista del Secondo Futurismo Torinese, progetta, nel 1935, un
curioso poemetto grafico (dalla sintassi visiva singhiozzata e jam session) che si chiama, pour cause, Poema del candore negro. Di cui Viennepierre ripropone una singolare ristampa anastatica (con prefazione di Pier Luigi Ferro).
Periodo ormai poco frequentato, quello del primo Espressionismo tedesco, soppiantato semmai da quello Astratto Americano (a cui la stessa studiosa, Maria Passaro, svizzera di nascita, salernitana di docenza, ha già dedicato altri studi) o da più à la page movimenti d’avanguardia. Educato manuale sul periodo che corre tra la fondazione 1905 a Dresda del Die Bruecke, poi del Blaue Reiter nell’11, prima del passaggio di Kandinskij al Bauhaus e della morte in guerra di Marc, nel 1916, quest’agile volumetto L’arte Espressioni-
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d’un anglosassone, Charles Quest-Riston. Che per vent’anni s’è dedicato a questo decadente giardino, non lontano da Roma e da Bomarzo, Ninfa, feudo dei Caetani di Sermoneta, e che documenta qui le specie botaniche, le architetture rustiche e segrete, ma soprattutto il mood di quell’incantato luogo crepuscolare. Al mistero di Bomarzo, Sacro Bosco, Electa dedica un intrigante volume a cura di Sabine Frommel, che s’avventura nel parco ermetico-mostruoso del nobile Orsini, amico di Sansovino e Annibal Caro, prototipo di fantasie surrealiste. Magnificenza pura, invece, Botanica Magnifica di Kress e Hachadourian, con foto sontuose di Jonathan M. Singer (Jaca Book): un atlantone entro la quieta follia grafica e il mistico mistero dei fiori, «le migliori opere d’arte del creato», come riteneva il Gautier. Horti dei Papi. I giardini vaticani di Alberta Campitelli, direttore delle ville e dei parchi storici di Roma, responsabile del restauro di Villa Torlonia e del Museo Bilotti, premio Giardini Hambury, ci rivela la storia segreta dei magici, occultati “orti” pontifici, che solo in questo
sta. Teoria e storia (Einaudi) studia soprattutto i rapporti con le fonti mistiche (lo spiritualismo di Kandinskij e la “costruzione interiore” di Marc, ben poco amata dal fedele amico-corrispondente Macke) il rapporto musica-pittura (tra Schoenberg e Kandinskij), il legame con l’arte popolare ed il primitivismo di Gabriele Muenter, Jawlensky e la Werefkin (curioso s’ignori invece il rapporto filosofico con lo zio di Kandinskij, Kojève, studioso hegeliano, di cui son state ritrovate recentemente notevoli testimonianze epistolari).
Come sempre, brilla invece l’editoria nobile dedicata all’architettura. Incredibile, che scrigno di novità costruttive e spreco di genialità e convivenza d’autorevolezze, in dolce competizione, il momento rinascimentale dell’architettura italiana, che rivede e integra i dettami di Vitruvio, tra il 1377 della nascita di Brunelleschi e la data di morte di Michelangelo, nel 1564. Con l’appendice del Vignola, che si spegne nel ’73, dopo aver concluso l’avventura magnifica della Villa di Caprarola e il Palazzo Farnese di Piacen-
za. Un vero studioso quale Christoph Luitpold Frommel (docente a Berkeley e Princeton, direttore della Biblioteca Hertziana di Roma) ci porta letteralmente per mano, con semplicità e sapienza, a scoprire i segreti dell’Architettura del Rinascimento Italiano (Skira). Incredibile elenco: Brunelleschi, Donatello, Michelozzo, Leon Battista Alberti, Rossellino, Giuliano e Antonio da Sangallo, Laurana, Francesco di Giorgio, Bramante, Codussi, Raffaello, Giulio Romano, Genga, Peruzzi, Serlio, Sanmicheli, Sansovino e Palladio! Può bastare: con 308 illuvolutamente non strazioni, troppo scenografiche, ma didatticamente utilissime. L’editore Christian Marinotti, nella raccomandabile collana di Gianni Contessi, con un bel saggio di Daniele Vitale, ha tradotto di Eugenia Lopez Reus Ernesto Nathan Rogers, Continuità e contemporaneità, dedicato a questo grande pensatore “etico” del costruire, celebrato nel suo centenario. «Dentro di me il caos, fuori di me il caos». Difficile non consigliare quella gemma geniale e commovente che sono le sue Lettere di Ernesto a Ernesto e viceversa, riproposte da Ar-
chinto, drammatico cortocircuito d’un ragazzo ebreo isolato, che a causa delle leggi raziali è costretto, per sopravvivere moralmente, a dialogare epistolarmente con se stesso! Sempre Archinto, propone un ricco volume, che parrebbe stolto pensare soltanto di fotografia.
È la storia delle mille Vite di Lee Miller, ex modella di Vogue, amica di Eluard e Picasso, attrice per Cocteau, com’è noto la prima donna a documentare la tragedia di Dachau e dei campi di concentramento e ad auto-fotografarsi nel bagno espugnato di Hitler. Donna-simbolo, musa di Man Ray e moglie del pittore surrealista Penrose, la sua viva biografia è scritta dal figlio, Antony. Grande commistione tra fotografia e architettura, il mondo segreto dei giardini. Lo evidenzia già il titolo: Il giardino più romantico del mondo (Allemandi) a cura ovviamente
documentatissimo volume si posson visitare con tanto agio. Una storia complessa, che guarda il Vaticano non dalla parte di Piazza San Pietro, ma dal di qua: statue, emblemi, grotte, rarità botaniche. Per la fotografia, un libro-viaggio Skira, che va al di là del “ritratto”richiesto dal committente Joseph Oughourlian, ovvero di «catturare la bellezza segreta dei paesaggi, la loro purezza e persino l’anima di quel popolo, così legato alla sua fede da rischiare più volte la sua scomparsa». Armenia di Graziella Vigo, fashion editor redenta dal legame con Mapplethorpe, racconta di solitarie chiese rupestri, di steli cri-
stiane e laghi innevati, di devozioni popolari e grattacieli nati poveri e bacati, in quel crocervia incredibile di mondi, tra Roma, Persia Russia e Arabia Ottomana, precoce nell’adottare il Cristianesimo come religione di Stato, nel 301 d. C. e inventare un nuovo alfabeto, per rendere fruibili le Scritture. Paesaggi, sorrisi, rughe, zufoli, tutto pare di pietra. Sarebbe un errore considerarli banalmente dei graffitisti, sono gli artefici, oggi molto alla moda, della Street Art, colti qui alla loro origine più genuina: dipingono, filmano, fotografano. Una casa editrice specializzata, la Drago Arts & Communication (romana ma in lingua inglese) dedica loro alcuni volumi suggestivi: From Style Writing to Art, oppure Young, Sleek and full of Hell.
Per chi ama, più tradizionalmente, le Parole Figurate, Skira propone un libro-catalogo, che s’avventura dentro i Libri illustrati dei Cento Amici del Libro, che ha avuto origine nel 1939 con Ojetti, Bino Sanminiatelli e Alberto Falk, e ha coinvolto nel tempo scrittori del presente e del passato, da Tasso e Svevo, da Gozzano e Marco Aurelio, dall’Alberti a Palazzeschi, coinvolgendo gli artisti più diversi, da Annigoni a Paladino, da Guttuso a Maccari, a Pericoli. Per rimanere a Tullio Pericoli, forse il volume più consigliabile e ghiotto, di quelli da regalare anche a se Ritratti, stessi è Adelphi. Si rischia (meglio, si è felici) di rimanere impigliati, arenati, per ore, entro queste elementari ma vivacissime linee geometriche, che danzano, si scambiano baci incestuosi, si combattono, pettegolano, conversano e disputano, come in un dialogo platonico d’essenze rimescolate. E ogni volta, come in una cine-biblioteca d’animazione, quelle linee ricompongono un volto riconoscibile o misconosciuto, Eisenstein o Norbert Elias, con quegli occhiali cianchicati, Lorca imbrillantato di nei o Garboli, dalla beltà imbolsita, Eliot, Auden con gli atomi delle sue rughe in rotazione o Chesterton, intabarrato di malumori. E ti vien voglia di scoprire che faccia avran mai Don de Lillo, oppure Daumal, d’Arzo o Banville, Alarcon o Morselli: Pericoli, più convicente e illuminante d’un bravo recensore. Già li conosciamo, alcuni di questi volti d’ermenuetica critica, ma molti son nuovi e inediti. Ed è meraviglioso vedere come ogni volta l’artista scelga i tratti taglienti della graffite, oppure la pasta densa dell’olio o l’impalpabile e irritata nube di cipria del pastello, per dar vita miracolosa alla voce e alla verità d’un autore.
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uando qualche anno fa Sacha Naspini pubblicò I sassi, sostenni che di questo scrittore singolare non si sarebbero perse le tracce. In quel noir dai fortissimi accenti esistenziali Naspini dimostrò di prediligere un’idea insuperabile del narrare novecentesco, che oscura la mediocrità minimalista delle attuali mode letterarie. Per un autore nato nel 1976, questo non è poco. Adesso che esce I Cariolanti (Elliot edizioni, pagine 158, 16 euro), possiamo sicuramente affermare che Naspini ha approfondito quella premessa originale, facendola divenire un’idea consolidata.
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L’autore crea le atmosfere del grande romanzo, chiamando in causa scrittori come Kafka, Dostoevskij e i nichilisti russi. Al centro di questa nuova storia c’è la cattiveria bestiale del genere umano che non riesce a fare a meno del male che circola dentro le cose. Bisogna avere paura dei Cariolanti che si aggirano per il mondo, tirandosi dietro un carrettino sgangherato, sopra c’è un lenzuolo che una volta era bianco ma che adesso è tutto zozzo e logoro, pieno di patacche schifose. Naspini parte dalla descrizione di queste belve umane per raccontare la storia di Bastiano e della sua famiglia. Tutto ha inizio nella primavera del 1918. Siamo nella campagna toscana. Per non partire soldato nella prima guerra mondiale un uomo nasconde suo figlio e sua moglie in un pertugio scavato sottoterra nel bosco. Bastiano comincia a raccontare le difficoltà disumane di una vita trascorsa nel sottosuolo e della cattiveria bestiale cui è costretto il padre per garantire la minima sopravvivenza del suo nucleo familiare. Accade di tutto in quegli anni di disperazione. Il cibo non si trova, si scava dappertutto per trovare la luce, ma la lotta per la sopravvivenza porta davvero a vivere situazioni estreme, come quella di assassinare i propri simili per mangiarli. Da quest’esperienza il giovane Bastiano rimarrà segnato per tutta la vita. Anche quando si innamorerà di Sara, la giovane figlia del suo padrone, non sarà in grado di tenere a freno la sua bestialità malvagia e finirà per ucciderla in una grotta sperduta nel bosco. Anche in seguito, quando cercherà di affrontare la vita in superficie, Bastiano non rinuncerà mai alla sua cattiveria che sembra entrata nel suo Dna. Nei tredici capitoli del libro Sacha Naspini affida la parola a Bastiano che racconta la sua favola nera. La vita animalesca del giovane sarà segnata da una serie di crimini. Bastiano non riuscirà mai a liberarsi di quella cattiveria alla quale è stato educato dal padre che lo
Libri. La bestiale cattiveria del genere umano nel nuovo romanzo “I cariolanti”
I fiori del male di Sacha Naspini di Nicola Vacca ha recluso nella buca del bosco. Diventerà egli stesso un Cariolante che seminerà morte. Nella sua fuga in cerca di una dimensione non riuscirà mai a lasciare il fango. Ucciderà, si sporcherà spesso le mani di sangue umano, come se fosse costretto a farlo sempre perché braccato da quell’istinto di so-
Un racconto crudele e realistico, in cui lo scrittore non concede tregua alla ferocia quando tesse la trama di questa storia dalle atmosfere cupe
Sopra, un’immagine dello scrittore Sacha Naspini e la copertina del suo nuovo romanzo “I cariolanti”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
pravvivenza che lo aveva fatto nascere e crescere di traverso. Alla età di 52 anni ritorna nella tana del bosco, dove è iniziata la sua vita.
Si ritira nel buco da cui è uscito perché stanco del genere umano. «Sicché eccomi di nuovo qui, tanto lo sapevo che io
non ero tagliato per andarmene in giro per il mondo, con la cattiveria che c’è appena superi la porta di casa».
La rabbia, l’orrore e la cattiveria sono gli ingredienti di questo romanzo di deformazione. Naspini non concede tregua alla ferocia, quando tesse la tra-
ma di questa storia dalle atmosfere cupe. Un racconto crudele e realistico sulla bestialità di cui è capace l’uomo che sa essere l’arma letale di se stesso. L’autore, con ritmo incalzante, costruisce un racconto che sulla pagina divora le parole. La sua scrittura, insieme alla bestialità malvagia e gratuita di Bastiano, travolge tutto, toglie il fiato, persino al lettore che alla fine chiude il libro e si interroga senza trovare una risposta certa sul fascino sinistro che il male esercita sulla vita. Dopo aver letto questo libro diventa difficile non rendersi conto dell’universalità del male. Naspini indaga la sua natura che si impossessa dell’uomo attraverso gli istinti brutali della sua stessa cattiveria. Ci mostra la sua crudeltà e oscurità, e ci dice con le parole di Franz Kafka che il male sa che c’è il bene, ma il bene non sa del male. Una volta accolto in noi, il male non chiede più che gli si creda. Dal momento che è impossibile ignorarlo, bisogna senza tregua interrogarlo, per capire chi siamo e da dove veniamo. Quello che fa Bastiano, quando si accorge che anche per lui il nichilismo è il più inquietante degli ospiti con cui dovrà terribilmente fare i conti per tutta la sua vita.
Perché l’uomo arriva a essere lupo dell’altro uomo? Questa è la domanda che tormenta Naspini, quando meticolosamente mette in scena la natura bestiale di Bastiano per soffermarsi metaforicamente a riflettere su quella dell’uomo stesso. L’uomo non trova la pace dell’anima, perché non esiste un sommo bene capace di appagarlo. Di fronte al male che avanza non possiamo niente, perché il male vuole il niente. C’è il caos, l’efferatezza, la distruzione per la distruzione nella coscienza dell’uomo che consuma la propria caduta nel tempo. Queste pagine invitano a un viaggio avventuroso nel cuore della tenebra. Naspini guarda il mondo dal buco nero dell’esistenza, vi si immerge a tal punto da toccare con mano l’assenza di ogni significato. Diventa difficile trovare le risposte davanti alla crudeltà che si manifesta attraverso l’uomo come una perfetta scienza diabolica che tende a rendere tutto inutile. Ma di fronte agli elementi del disastro è saggio scomodare la ragione e il cuore per chiedersi perché non perdiamo, come esseri umani, mai l’occasione per mettere a rischio la nostra specie. Fino a quando i Cariolanti, che sono peggio delle bestie cattive, continueranno a tirarsi dietro il loro carrettino di orrori? Queste creature disumane non smetteranno mai di tormentarci perché sono fatti della stessa natura del male. E purtroppo la storia ci insegna che il male ha sempre fame.
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Tv. Dietro l’addio alle telecamere della star televisiva più apprezzata d’America, si cela una lezione di vita di rara generosità
L’esempio di Oprah Winfrey di Anna Camaiti
uando pochi mesi fa Oprah Winfrey, la star televisiva nera più pagata d’America, annunciò in diretta che avrebbe lasciato nel settembre 2011 il suo show quotidiano, la sua voce era carica di emozione e i suoi occhi pieni di lacrime. Dopo 25 anni dall’inizio del primo Oprah Winfrey Show, che per 23 anni consecutivi è stato il talk show con l’audience più alta di tutti gli Stati Uniti (circa 7.000.000 di spettatori al giorno), il talk show è trasmesso su tutto il territorio nazionale e in 145 paesi del mondo, è stato eletto nel 1998 da Time Magazine come lo show migliore del XX secolo e nel 2002 da TV Guide tra i migliori 50 spettacoli di tutti i tempi.
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Winfrey ha informato direttamente il suo pubblico della decisione di terminare il suo programma. Le sue parole sono state commoventi, ma senza esitazioni. «Dopo molto pregare e mesi di riflessione profonda ho deciso che la prossima stagione, la mia 25esima, sarà l’ultima. Nei prossimi giorni di certo ascolterete molte speculazioni da parte della stampa sul perché di questa scelta e nella maggior parte dei casi saranno semplici congetture. Per questo ho voluto che ascoltaste direttamente da me il motivo di… 24 anni fa, l’8 settembre 1986, per la prima volta andò in onda, a livello nazionale, il primo Oprah Winfrey Show. Ero fuori di me dalla gioia ed ero anche molto nervosa. Capii allora quale meravigliosa opportunità mi era capitata, ma certo non potevo immaginare la fortuna che sarebbe seguita da quel primo show in poi fino a questo momento che ho il privilegio di passare insieme a voi. Questi anni con voi, i nostri telespettatori, hanno arricchito la mia vita al di là di ogni immaginazione: mi avete graziosamente accolto nei vostri salotti, nelle vostre cucine, nelle vostre vite… E così adesso, giunti a metà della 24esima edizione, mi accorgo che significa ancora tanto per me passare un’ora con voi esattamente come lo fu nel 1986. E allora perché andarsene? La vera ragione è che io amo questo show. Questo show è stato la mia vita. E lo amo così tanto
Alcune immagini della star televisiva Oprah Winfrey, che recentemente ha annunciato il suo addio al talk show che conduce da 25 anni da sapere quando è il momento di andarsene. Sento che questi 25 anni sono abbastanza. Lo sento nelle ossa e nello spirito. È il numero perfetto. L’esatto momento… Così spero che passerete questi18 mesi che restano con me fino all’ultimo spettacolo». La fine di questo show significherà molto di più che una lotta per rimpiazzare la star che ha fornito alle stazioni che hanno trasmesso il suo programma opportunità d’oro e uno share da capogiro. Segnerà infatti un inesorabile declino per i programmi trasmessi a livello nazionale, i cosiddet-
ti “syndicated” talk show che, cominciati con il Phil Donahuhe Show 40 anni fa, hanno trovato con Winfrey il loro apogeo. In quegli anni infatti non solo erano pochissime le donne che avevano i loro talk show, ma certamente nessuna era di colore. «Winfrey è apparsa in un momento in cui tutti i programmi nazionali erano in mano a uomini e per di più bianchi. I rapporti razziali stavano di certo migliorando, ma ancora esistevano forti. Oprah Winfrey ha incarnato queste tensioni nelle sue relazioni personali e nelle sue continue battaglie con il peso… I telespettatori l’hanno vista crescere e trasformarsi nell’incredibile figura pubblica che è divenuta col passare del tempo con tutte le sue debolezze e idiosincrasie. E questo è stato il
denze, l’anoressia ed altre disfunzioni connesse all’immagine, del proprio corpo. Un tema quello del corpo particolarmente caro alla star nera che per esperienza personale sia di abusi sessuali durante l’adolescenza sia di diete in cui a dimagrimenti estremi si alternavano recuperi consistenti di peso, l’hanno portata a raccontarsi in pubblico. La sua vita e la sua carriera sono state un insieme di trionfi e avversità, di talento e ambizione di migliorarsi mischiati all’acume di brillante donna d’affari e alla fantastica abilità di far sentire i milioni di fan talmente vicini
za di collaborare con quanto la star abbia intenzione di creare, è quanto meno sconcertante il proposito di lasciare quando si è sulla cresta dell’onda. Ma la mossa risulta particolarmente intelligente non solo perché raggiungere il successo massimo coincide con il momento di andarsene, in quanto l’affetto verso la propria creatura porta necessariamente a preservarne intatta la memoria («io amo questo show così tanto da saper quando andarmene» afferma Winfrey), ma anche perché dopo molto tempo un programma televisivo ha bisogno di un nuovo format. Winfrey ha inoltre sentito il bisogno di un rinnovamento senza gettare alle ortiche l’esperienza vissuta, ma mettendola a disposizione dei nuovi talenti. Un proposito molto lontano da certi personaggi televisivi, che, a cominciare da Maurizio Costanzo, hanno dichiarato che non riescono a capire la mossa di Winfrey e che, nonostante il fatto che siano in tv da più anni rispetto alla star nera, non hanno nessuna intenzione di andarsene.
Quella di Winfrey è invece una consuetudine assai frequente negli Stati Uniti e poco praticata in Italia. La star infatti ha dedicato gli ultimi anni di trasmissioni non solo ad aiutare i meno abbienti e a compiere opere durevoli di carità, ma a creare una mentalità secondo cui rendere quello che si è ricevuto non solo è un dovere civico nell’interesse comune, ma un piacere di cui gode chi ha ottenuto il successo. Chi lascia quando è sulla cresta dell’onda - ha ripetuto più volte la star - e mette a disposizione delle nuove generazioni il proprio sapere, il proprio successo e il proprio denaro, rende alla collettività di cui fa parte una parte di quello che ha ricevuto. È questo in America lo spirito delle grandi donazioni di privati alle università o alle fondazioni che ne dispongono, sia per creare borse di studio, sia per la ricerca. Possa la lezione di Winfrey essere seguita dai molti personaggi pubblici di casa nostra i quali, pur dovendo rinunciare a molto meno di quanto abbia la star nera, imparino davvero il significato dei grandi gesti di generosità, che trovano le proprie radici in quell’amore per la res publica insegnato al mondo proprio dalla società romana!
Attraverso il suo talk show è entrata nelle case (e nei cuori) di milioni di telespettatori statunitensi, diffondendo un nuovo modo di sentire comune e collettivo motivo del suo successo», ha dichiarato al Chicago Tribune Adam Gallinski, psicologo sociale della Kellog School di Management alla Northwestern University di Chicago. Il suo programma infatti è stato il cornerstone di un impero multimediale che ha trasformato libri, regimi dietetici e ginnici in successi di pubblico e ha creato personaggi come Dr. Phil o Dr. Oz, che oggi hanno programmi televisivi con grandi audience. Ha inoltre aperto il dibattito su temi scabrosi come gli abusi sessuali, le dipen-
da poter scambiare con loro piccole confidenze quotidiane e ricette di cucina. Questa è stata la formula della sua popolarità. Ed è proprio per questo che sorprende il fatto che una donna nel pieno della sua carriera e della sua vita (55 anni) decida di lasciare un programma così di successo. E se anche si vocifera che la star stia creando un suo canale via cavo (Own, Oprah Winfrey Network) e per questo debba lasciare Cbs, che per altro ha fatto dichiarazioni lusinghiere nei suoi confronti nella speran-
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Asharq Alawsat” del 05/01/10
Chi vuol esser giornalista? di Kifah Ziboun ’apparato di sicurezza nel West Bank sembra voler marcare stretto ogni giornalista sospettato di vicinanza con Hamas o con i suoi media. La differenza di atteggiamento nella gestione dell’informazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e Fatah in Cisgiordania è che quest’ultima garantisce una certa libertà di movimento ai giornalisti di Hamas e si lascia coinvolgere nel dibattito dei media, anche quelli stranieri. Entrambi cercano però di non farsi coinvolgere in polemiche dirette con la stampa dell’altra fazione. In ogni caso i giornalisti sono diventato l’obiettivo primario di molti conflitti interni.
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Khalil Shahin, esperto di stampa comunicazione ha affermato che «è stato proprio il tentativo di utilizzare i media come strumento per diffamare e istigare le due parti in campo, Hamas e Fatah, a mettere a rischio la libera informazione nei territori palestinesi». La Commissione indipendente per i diritti umani ha affermato che le violazioni attuate nei territori sono senza precedenti – riflettono la profonda divisioni fra islamisti e laici – e ciò mette a rischio la difesa di ogni libertà fondamentale. Il Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà dei Media (Mada) ha individuato 257 violazioni della libertà di stampa nei territori palestinesi nel 2008; 147 sarebbero stati commessi dalle forze di occupazione israeliane e coloni, e 110 sarebbero state attuate dall’apparato di sicurezza palestinese e da gruppi armati palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Shahin ha dichiarato che i giornalisti sono oggetto di arresti illegali e di vere persecuzioni, alcuni quotidiani non possono essere pubblicati e distribuiti, le istituzioni della stampa so-
no sotto un fuoco incrociato, molte azioni legali sono state promosse con sentenze emesse contro giornalisti accusati di diffamazione e istigazione. Siti giornalistici online sono stati bloccati per ordine del procuratore generale dell’Autorità palestinese che ha vietato anche i raduni e gli incontri pubblici e che ci sia una copertura stampa di altri eventi di natura interna. Inoltre, i media arabi sono stati stato accusati di non essere neutrali e conseguentemente sono state revocate molte autorizzazioni per agenzie stampa e canali news, per non parlare della perquisizione di numerose sedi di testate. Hamas afferma che l’Autorità palestinese ha minacciato i diritti civili nel West Bank. Recentemente, il Ministero dell’Informazione del governo di Hamas ha rilasciato una dichiarazione accusando la milizia Abbas di minacciare l’attività di molti giornalisti, con arresti e processi illegittimi. L’Autorità palestinese avrebbe preso provvedimenti anche nei confronti dei media arabi. In entrambi i campi diventa sempre più difficile pubblicare notizie sugli arresti di giornalisti e su casi di corruzione della pubblica amministrazione. Sia a Gaza che in Cisgiordania la pubblica informazione è a rischio. I reporter del canale Al Aqsa sono stati arrestati numerose volte senza poi subire un processo. «Gli arresti sono avvenuti perché trasportavano armi, non per i loro lavoro nei media» la risposta di un ufficiale di polizia a Nablus. Quattro mesi fa è stata chiusa la sede di Al Jazeera nel West Bank, perché aveva mandato in onda le accuse che un leader di Fatah, Farouq al Qaddoumi aveva mosso contro il presidente Mahmoud Abbas. Lo scorso anno in entrambi i territori palestinesi sono stati
arrestati 60 operatori dell’informazione. E lo scontro sui media è arrivato a un tale livello che gli apparati di sicurezza palestinesi, sia di Hamas che di Fatah stanno cercando di esercitare pressioni anche solo per orientare le idee di molti reporter.
«Possiamo criticare il presidente Abbas, ma non possiamo parlare dei casi più gravi di corruzione… rischieremmo la vita» spiega Yahya Nafi, corrispondente per Watan TV e Radio Ajyal. E poi scatta il fenomeno «dell’auto-censura» come sottolinea Shahin: «i media sono occupati anche da interessi politici ed economici, da apparati di potere o legati a movimenti». Niente di tutto questo aiuta la costruzione di una cultura che crede nell’importanza della libertà. E non solo nei territori potremmo aggiungere.
L’IMMAGINE
Consiglio per il presidente Obama: legga Giulio Cesare:“tanti nemici, tanta gloria” Onorevoli analisti e mille profeti affermano che il 2010 sarà un anno nero per Obama, e in realtà certo non si può dire che sia iniziato bene. Dallo Yemen è venuto fuori che l’America rappresenta un nemico da sconfiggere dall’interno, utilizzando quelle falle nella propria rete difensiva di intelligence, che determina comunque il primo game di sconfitta. Eppure lo stesso Barack affermava di aver scelto un entourage di tutto rilievo. Il giovane presidente deve leggere un pò di testi romani, soprattutto quelli di Giulio Cesare, noto per avere tanti nemici accanto quante persone che lo osannavano per le sue grandi vittorie. Nemici che forse sono coloro che non vogliono che Obama rappresenti il primo presidente della democrazia rappresentativa americana che per ciò che attiene la difficile politica internazionale, rischia di essere lontano sia dai democratici che dai repubblicani. Se non saprà gestire al meglio il suo incarico, ciò gli si ritorcerà contro.
Gennaro Napoli
COME FREGARE 20 EURO ALLA VECCHIETTA Grazie all’inefficacia sostanziale delle istituzioni, miete vittime un quiz tv fasullo, in onda su Canale Italia: Quiz-mania, una trasmissione già denunciata quasi un mese fa all’Antitrust che continua ad andare in onda. Simulando un quiz, si invita a chiamare un numero 899 (un euro a telefonata), dissimulando la sua reale natura: una televendita di loghi, suonerie o altre prodotti multimediali. È da anni che quiz tv fasulli o altre promozioni ingannevoli di servizi (maghi e numeri del lotto) collegati ai numeri a valore aggiunto fanno danni, nonostante sanzioni irrorate dalle Autorita’ di controllo sia alle emittenti televisive, sia alle societa’ che organizzano lo pseudo quiz. Le multe sono troppo basse e non
dissuadono. Ai vari soggetti coinvolti conviene pagarle, ma incamerare i lauti incassi derivanti dalla sostanziale truffa perpetrata a danni dei soggetto meno tutelati: anziani o bambini. Il Parlamento innalzi immediatamente le sanzioni, attualmente la massima è di 500mila euro, occorre aumentarla ad almeno 10 milioni.
Domenico Murrone
“NINA MORIC... DALLE STELLE AL PAJARO” Nei giorni scorsi c’è stata l’ennesima sfilata di cadaveri animali organizzata a Cortina dallo stilista Pajaro (che in dialetto veneto significa pagliaio). Testimonial Nina Moric. Evidentemente è destino che tutte le donne di Fabrizio Corona abbiano a che fare con la moda sanguinaria delle
Trionfo di luci Questi gruppetti di galassie in collisione (raccolti per l’occasione in una foto composita) fanno tutta un’altra scena! Grande studioso di queste “luminarie” celesti fu William Herschel (1738-1822), un musicista tedesco appassionato di astronomia che elaborò i primi tentativi di spiegazione scientifica della forma della Via Lattea
pellicce, dopo Belen ecco l’ex Nina Moric, in palese declino, prestarsi alle sfilate del pellicciaro padovano, che è uno dei pellicciari più crudeli e senza scrupoli in assoluto. Lo “stilista”, infatti, produce anche pellicce per bambini, oltre che per donne adulte. I nostri attivisti non potevano stare a guardare, e così si sono recati nuovamente a Cortina presso
la pellicceria di Vinicio Pajaro, affiggendo uno striscione sulle vetrine del suo negozio “Nina Moric... dalle stelle al pajaro”.
100%animalisti
A PROPOSITO DI LAVORO I fatti che stanno avvenendo nel lavoro, con le recenti prese di posizione della Fiat, non aiutano a vedere in questa azienda il polo
di progresso spinto oltre oceano. Sappiamo che da quelle parti il licenziamento non è tabù come da noi, ma non si tratta di due Paesi sorretti dalle stesse sicurezze politiche, sociali e imprenditoriali. Occorre confidare che il nostro valente governo, ingiustamente criticato proprio nella materia lavoro, conosca ciò.
Bruna Rosso
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Scrivimi una lettera con la mano della mamma Caro Delio, ho saputo che vai a scuola, che sei alto ben 1 metro e 8 centimetri e che pesi 18 chili. Così penso che tu sei già molto grande e che tra poco tempo mi scriverai delle lettere. In attesa di ciò, puoi già oggi fare scrivere alla mamma, sotto la tua dettatura, delle lettere, come facevi scrivere a me, a Roma, i pimpò per la nonna. Così mi dirai se a scuola ti piacciono gli altri bambini e cosa impari e come ti piace giocare. So che costruisci aereoplani e treni e partecipi attivamente all’industrializzazione del paese, ma poi questi aereoplani volano davvero e questi treni corrono? Se ci fossi io, almeno metterei la sigaretta nella ciminiera, in modo che si vedesse un po’ di fumo. Poi mi devi scrivere qualche cosa di Giuliano. Che te ne pare? Ti aiuta nei tuoi lavori? È anch’egli un costruttore, oppure è ancora troppo piccolo, per meritarsi questa qualifica? Insomma io voglio sapere un mucchio di cose e poiché tu sei così grande, e, mi hanno detto, anche un po’ chiacchierino, sono sicuro che mi scriverai, con la mano della mamma, per adesso, una lettera, con tutte queste notizie e altre ancora. E io ti darò notizie di una rosa che ho piantato e di una lucertola che voglio educare. Bacia la mamma e Giuliano e tutti quanti di casa. Antonio Gramsci a Delio
ACCADDE OGGI
RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE CONTRO INEFFICIENZA STATALISTA L’individualismo non è egoismo: si oppone a collettivismo. Gli esseri umani sono unici e irripetibili (Giovanni Paolo II), fini e non mezzi (Immanuel Kant). L’individualista corretto ha civismo; si assume pesi, doveri e responsabilità; conduce lealmente la gara della vita; e concilia l’interesse personale col bene comune. Inoltre, rispetta e approva lo Stato snello, trasparente, efficiente, liberale e democratico, nonché la politica, intesa come servizio (non mangiatoia). Ma lo «Stato italiano è largo e generoso, crea nuovi enti (anche inutili), ha preso la malattia dell’entite e non si ferma più» (don Luigi Sturzo). Lo statalismo italiano rischia di cumulare inefficienza, invadenza, ipertrofia, sperpero, burocratizzazione; e inoltre, opacità, lentocrazia, parassitismo e oppressione tributaria; come pure soffocamento di libertà e iniziativa individuale. La pressione fiscale italiana ha raggiunto nel 2008 un’aliquota molto elevata: il 43,3%. Ben superiore al 28,3% degli Usa.
Gianfranco Nìbale
CON BOSSI E ROTONDI PER LA COSTITUENTE Non ha importanza il colore del gatto purché prenda il topo, diceva Deng. Allora non ha importanza se ci si allea con Bossi o con Rotondi, perché non conta il colore politico ma il risultato: fare le riforme che servono all’Italia. La strada migliore è quella dell’Assemblea costituente, eletta col proporzio-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
8 gennaio 1959 Fidel Castro entra a L’Avana dopo l’abbandono del paese da parte del generale Batista 1962 La Monna Lisa di Leonardo da Vinci viene esibita negli Usa per la prima volta allaNational Gallery of Art di Washington 1964 Il presidente Lyndon B. Johnson dichiara una guerra alla povertà negli Usa 1973 Scandalo Watergate: Inizia il processo di sette uomini accusati di aver piazzato cimici negli uffici del Partito democratico 1980 Gli agenti di polizia Antonio Cestari, Rocco Santoro, Michelle Tatulli vengono uccisi in un agguato dalle Brigate Rosse 1992George H. W. Bush si ammala mentre è in visita in Giappone e vomita sul primo ministro giapponese 1993 Beppe Alfano viene ucciso per mano della mafia 1998 Saul Perlmutter del Berkeley Lab annuncia che i dati sulle supernova Ia indicano un’universo in accelerazione, che si espanderà per sempre
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
nale puro. Tutte le altre strade non darebbero voce alla tradizionale ricchezza di orientamento politico degli italiani. Rischierebbero, inoltre, di impantanarsi, come ci insegna l’esperienza, nello scontro tra gli schieramenti e le fazioni di maggioranza e di opposizione. Nel frattempo il governo sarebbe libero di continuare a fare il suo lavoro, quello per cui è stato votato dalla maggioranza degli italiani. E meglio ancora se alla fine dei lavori della Costituente si approvasse anche una nuova legge elettorale. Così forse potrebbe nascere finalmente la Seconda Repubblica.
Riccardo
QUOZIENTE CITTÀ A MISURA DI FAMIGLIA L’inserimento della logica del quoziente familiare nel sistema delle tariffe e delle imposte locali, annunciato dal sindaco di Roma Gianni Alemanno, è un passo fondamentale per un nuovo welfare impostato sulla sussidiarietà e sulla centralità della famiglia come soggetto attivo delle politiche sociali. Credo che la spinta riformatrice che proviene dal “basso”, ovvero dagli enti locali, possa servire da laboratorio di sperimentazione di una maggiore equità fiscale e giustizia sociale. Con questo importante progetto, Roma si avvia a compiere una svolta sociale e culturale di grandissima rilevanza. Finalmente la famiglia viene riconosciuta come risorsa centrale per la propria comunità e come destinatario economico e sociale privilegiato.
Barbara
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
PARLAMENTO SÌ, PARLAMENTO NO! Quando si studia il diritto pubblico, si impara fra le prime cose che i poteri dello Stato sono quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale. Tutti e tre i poteri hanno pari importanza e dignità, e tutti e tre insieme alla Corte costituzionale e al presidente della Repubblica esplicano un controllo costituzionale, per evitare gli abusi che porterebbero la nostra democrazia ad avere seri problemi. Tuttavia, in questi ultimi tempi, abbiamo assistito a dichiarazioni da parte della sinistra che afferma il predominio dell’esecutivo sul Parlamento e, da parte della destra che considera il Parlamento strumentalizzato dalla Magistratura. In ambedue i casi, chi ci rimette è il Parlamento italiano, che qualcuno reputa inutile, o soltanto un mezzo per soddisfare delle voraci ambizioni. Ma di chi è la responsabilità? Chi ha creato questa situazione che sembra delegittimare la nostra democrazia? Sarebbe facile puntare il dito verso gli esponenti di spicco della destra o della sinistra, ma così non è. Il Parlamento sta annientando se stesso. Quando si votò la legge elettorale che sopprimeva le preferenze, si stabilì che i parlamentari non fossero più dei soggetti, bensì degli oggetti numerati che, dietro uno status di enorme privilegio, devono soltanto confermare la volontà del proprio leader. In quest’ottica è legittimo, anche se preoccupante, la dichiarazione del Cavaliere, che vedrebbe il Parlamento alleggerito da tutti i problemi di discussione e di votazione, affidando questi compiti ai capogruppo di ogni partito. Inoltre, le leggi possono essere fatte dal governo con i decreti legge, che poi vengono presentati alle Camere che pongono la fiducia. Se ciò avverrà, la responsabilità principale sarà dei deputati e dei senatori, che accettano tali compromessi, e sopratutto dall’elettorato che permette che tutto ciò avvenga. La democrazia è «governo del popolo», ma davvero il popolo vuole questo? Se così fosse, sarebbe molto triste, ma sopratutto si vanificherebbero tutti i sacrifici fatti dai nostri genitori e dai nostri nonni, che vedevano nella libertà e nella democrazia dei valori irrinunciabili. È ora che l’elettorato si riappropri del proprio diritto di designare le persone più idonee a governare, altrimenti saranno inutili le proteste di piazza quando le cose andranno male. È necessario che il singolo cittadino capisca che ha in mano un potere eccezionale, quello del proprio voto, che può far sì che i propri figli possano vivere in una democrazia parlamentare o far precipitare il Paese in una spirale pericolosa. Italo Sciarrino C O O R D I N A T O R E CI R C O L I LI B E R A L D E L FV G
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PAGINAVENTIQUATTRO Stranezze. Dialogo surreale realmente avvenuto nella Sicilia di vent’anni fa
Tutto quello che si nasconde dietro a un di Sergio Belardinelli a scena si svolge in Sicilia, in un palazzo qualsiasi. Sprofondato in un divano, un po’ annoiato e distratto, stavo aspettando che iniziasse una riunione, quando, al di là di una vetrata che avevo di fronte, compaiono due ombre: una di un uomo alto e magro, l’altra di un uomo basso e grasso. I due parlottano animatamente, con quelle cadenze che solo il dialetto siciliano possiede. Dopo un attimo di sbalordimento, mi rendo conto all’improvviso di avere a che fare con un “pezzo di teatro” di rara bellezza; prendo a trascrivere quasi furiosamente ciò che le due “ombre” si stanno dicendo al di là del vetro. Avrei voluto che non andasse perduta nemmeno una parola. Ecco la trascrizione di quel dialogo tra A, il signore alto, e B, il bassotto.
L
ne un altro, e magari ci costa pure più caro. (Bonario) Dai retta e me: ritocchiamo un poco gli ingranaggi che conosciamo e lasciamo perdere tutto il resto. (pausa). Giocattolai che riparano giocattoli se ne trovano sempre meno. B (sempre concitato e alzando la voce) Qui sta il punto! A me sono proprio i giocattolai che mi scassano la minchia. Sempre nascosti; non si sa mai chi sono e dove sono. Ecco - vedi? - sono loro la testa del nostro giocattolo.
bassa a guardarlo vicino negli occhi). E dopo il giocattolo non lo rompiamo!!! Su questa battuta le due “ombre” aprono un’enorme porta a vetri e se ne escono a braccetto. A distanza di quasi vent’anni continuo a farmi le domande di allora: chi erano quei due? Come è possibile che sul pianerottolo di un ufficio, sul punto di uscire per andare a pranzo, ci si possa fermare a imbastire un di-
GIOCATTOLO
B (concitato) Tu capisci. Se non lo rompiamo questo giocattolo... A (con un certo distacco) E rompiamolo, rompiamolo. B Ma bisogna romperlo tutto, fino negli ingranaggi più piccoli, minchia! A Certamente, certamente. Tu incomincia a rompere, che poi noi ti veniamo tutti dietro. B Che incomincio! Che incomincio! Si tratta di un giocattolo complicato e robusto. Non saprei dove mettere le mani! A Allora te lo dico io: incomincia dalla testa!
(sento che sorride). Se la trovi. Ma che credi? Credi che sia un giocattolo con la testa? (breve pausa). Ci sono solo gli ingranaggi, ci sono. B (un po’ arrabbiato) minchia! Queste sono tutte fesserie! Io ti parlo del giocattolo e tu mi cominci a tirar fuori la testa, i piedi, la minchia. La realtà è che non te ne frega niente. A Mi frega. E come se mi frega! Ma perché credi che stia qui a parlare con te? Questo giocattolo non piace neanche a me. Solo che io ci gioco lo stesso, tu invece adesso mi dici che ti sei stancato, che non giochi più, che vuoi romperlo... (platealmente). E rompiamolo! (come preoccupato) Ma poi? Poi bisogna procurarce-
A Senti un po’... Ma tu volevi rompere il giocattolo o il giocattolaio? Possibile che devi sgusciare sempre di qua e di là? Una volta mi parli di giocattoli, un’altra di giocattolai. Ma che cazzo di minchia vai cercando? B Adesso non vorrai mica farmi credere che il
scorso di tale ambiguità e - perché no? - perfezione? Privo com’era di qualsiasi coordinata empirica, poteva essere un discorso in prossimità del cielo, ma anche dell’inferno. A dire il vero, trovandomi in Sicilia, la prima impressione che ne ebbi fu che si trattasse di un discorso mafioso, o comunque di un discorso cifrato di quelli che si fanno per nascondere il vero oggetto di cui si parla. Un alludere senza dire e, proprio per questo, un dire esoterico, per iniziati, una sorta di gnosticismo perfetto. Ep-
Il concitato colloquio tra i due personaggi si rivelò un “pezzo di teatro” di rara bellezza. Una sorta di rappresentazione improvvisata di quel che Baudelaire sapientemente definì «tendenza metafisica a vedere l’anima» del balocco
giocattolo col quale abbiamo giocato in questi anni s’è fatto da solo? Se c’è un giocattolo, c’è pure un giocattolaio. E a me non piace più né l’uno né l’altro. A Neanche a me. (Ridendo) Ma è il mondo che è un giocattolo!!! E tu vorresti rompere il mondo? Andiamo, non fare il bambino! Gioca, divertiti e ridiamoci sopra. B (sbottando quasi) È una vita che giochiamo! Mi sono scassato la minchia di giocare! Voglio fare sul serio! A (come per calmare B) E allora? Per fare sul serio c’è proprio bisogno di rompere il giocattolo? B (come rassegnato) No. C’è bisogno di rompere la testa a quelli come te. A Mo’ vuoi vedere che sono io il giocattolaio!? Ma perché non lasci perdere? Che poi ti rovini anche il pranzo! (prende B sotto braccio, si ab-
pure, ripensandoci, e in questi anni mi è capitato spesso di farlo, sono convinto che si trattasse di qualcos’altro. Ciò che mi sembrava ermetico, mi appare oggi di un’evidenza cristallina; l’estrema irrealtà del contesto mi sembra realissima quanto il pavimento sotto i miei piedi; quanto ai due disputanti, me li immagino semplicemente come due burloni, capaci di esorcizzare con metafore straordinarie una vita che è la stessa per tutti. E comunque di tutto questo mi interessa poco o punto. Mi interessa invece una sensazione che, per quanto vaga, è per me bellissima e indelebile: la sensazione di aver toccato con mano, sorprendentemente e immeritatamente, quella «tendenza metafisica a vedere l’anima del giocattolo», che per Baudelaire rappresenta il più grande privilegio dell’innocenza dei bambini, ma che qualche volta capita pure ai grandi.