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La cosa triste dell’intelligenza
artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza Jean Baudrillard
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 9 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Due giorni di guerriglia a Rosarno, in Calabria, tra i nuovi «schiavi» e la gente del paese. Un’altra sparatoria anche ieri sera
Benvenuti a Rosarntown
L’Italia del 2010 scopre il dramma dell’integrazione, ma la Lega continua con la vecchia linea della tolleranza zero. E intanto la Gelmini mette un tetto degli stranieri a scuola di Gennaro Malgieri
di Luisa Santolini
di Gabriella Mecucci
e intenzioni del ministro Gelmini sono condivisibili: evitare il formarsi di classi costituite esclusivamente da alunni stranieri è cosa buona e direi doverosa. Ma basterà una nota del ministero a risolvere l’integrazione?
avino Pezzotta non ha dubbi: «Per definire i fatti di Rosarno c’è una parola precisa: si tratta prima di tutto di sfruttamento. Di fronte a fenomeni di questo genere, bisogna prima di tutto fermarsi a capire».
li scontri di Rosarno hanno fatto emergere una realtà che i mezzi di comunicazione di massa, il mondo politico, gli analisti attentissimi alle dinamiche del potere hanno fin qui ignorato. La realtà, per quanto incredibile, ha un nome che evoca tragedie antiche: schiavitù. Già, perché non sono altro che schiavi (a voler chiamare le cose con il loro nome) gli immigrati che hanno reagito, come reagirono tempo fa altri “dannati” dopo la strage camorrista di Castelvolturno in Campania, al ferimento di due africani con colpi di armi da fuoco. Un’aggressione senza motivo, non provocata. Forse perpetrata per far capire senza ombra di dubbio ad una comunità abbandonata, ai margini della società, ma sfruttata, che la sua presenza non è gradita, dà fastidio, toglie briciole di lavoro malpagato ad altri disperati, ma calabresi, che comunque, a quel tipo di lavoro non sembrano interessati. Non soltanto razzismo, dunque, ma qualcosa di più, con quelle dodici, tredici, anche quattordici ore di lavoro nei campi.
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CONTRO LE AULE-GHETTO
PARLA SAVINO PEZZOTTA
L’integrazione regolata dalle quote?
«Quando gli sfruttati eravamo noi»
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La «pace possibile» vista dal celebre scrittore Amos Oz
La Palestina sognata da un israeliano «Arrivare a un compromesso non significa arrendersi ma incontrare gli altri. Ecco perché è il momento di dare un Paese ai palestinesi»
di Francesco Martino
Intervista con la candidata alla Regione Lazio
Biagio de Giovanni e l’impasse del Pd
Polverini: «Ricomincio dalla famiglia»
«Bersani spiazzato dalle Regionali»
di Francesco Capozza
di Riccardo Paradisi
ROMA. Sono giorni di fuoco per Renata Pol-
ROMA. Un partito travolto dalle circostanze.
verini, candidata alla presidenza del Lazio dal Pdl e appoggiata da una coalizione molto ampia che da ieri l’altro comprende anche l’Udc. Viene definita una “novità” nel panorama della politica italiana e quando le si fa notare che è una delle poche persone capaci di attirare a sé consensi bipartisan non si scompone: «Io punto alla realizzazione del mio programma per il bene di una Regione importante e me ne assumo la piena responsabilità di fronte ai cittadini». Quanto ai programmi, Polverini ha due priorità: il quoziente familiare e il riequilibrio degli investimenti nei settori dei trasporti e della sanità. «In questo, il mio modello è la Lombardia».
Ecco, in brutale sintesi appare così il Partito democratico allo sguardo di chi osserva il suo procedere ondivago, privo di una precisa strategia politica, ostaggio dell’ipoteca dipietrista, lacerato dalle frizioni interne, in stato confusionale sul ring delle regionali. In Puglia e nel Lazio in particolare, regioni importanti, decisive, il Pd sta subendo gli eventi senza guidarli. È l’opinione di Biagio de Giovanni che su questo tema ha scritto A tutta destra. Dove s’è persa la sinistra italiana (Marsilio). Per il politologo, da sempre spirito critico della sinistra, il problema di Bersani è non essere riuscito a governare la realtà. Fino a rimanerne travolto proprio in Puglia e nel Lazio.
omanziere, saggista, giornalista, attivista politico. Amos Oz è uno degli intellettuali più influenti e stimati in Israele e uno dei nomi più noti sulla scena letteraria mondiale. Più volte candidato al premio Nobel, Oz è autore di romanzi di grande successo, tra cui Una storia di amore e di tenebra e Conoscere una donna e di saggi come Contro il fanatismo. Impegnato in prima persona nel dibattito sulla questione israelo-palestinese, Oz è da sempre un sostenitore della necessità di una soluzione di compromesso, ed è stato tra i primi a supportare l’idea della creazione di due stati separati, Israele e Palestina. A Sofia Oz ha presentato la traduzione in bulgaro del suo La vita fa rima con la morte, ed è stato ospite d’onore della Fiera del Libro, tenuta a dicembre nella capitale bulgara. «Io sono cresciuto in un quartiere di Gerusalemme - dice - dove molti degli abitanti erano proprio ebrei provenienti dalla Bulgaria. La Bulgaria è per noi ebrei un posto particolare, e non dimenticheremo mai che grazie al governo, ma soprattutto al popolo bulgaro, gran parte della popolazione ebraica residente in questo paese venne salvata dall’Olocausto. La mia esperienza mi dice che la convivenza è necessaria e possivile: è tempo di dare uno Stato ai palestinesi. Quando cominciammo a prospettare questa soluzione, non erano in molti a supportarla, né da una parte né dall’altra. Io credo però che oggi la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi siano pronti ad intraprendere questo passo».
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segu1,00 e a pa(10,00 g in a 9 EURO
CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Rivolte. I fatti di Rosarno evocano una tragedia tutta meridionale che le istituzioni avevano scordato completamente
Il Paese dei nuovi schiavi Quella scoppiata in Calabria è un’emergenza che parla di malavita, di lavoro nero e di rabbia. Un dramma troppo a lungo dimenticato di Gennaro Malgieri li scontri di Rosarno hanno fatto emergere una realtà che i mezzi di comunicazione di massa, il mondo politico, gli analisti attentissimi alle dinamiche del potere hanno fin qui ignorato. La realtà, per quanto incredibile, ha un nome che evoca tragedie antiche: schiavitù. Già, perché non sono altro che schiavi (a voler chiamare le cose con il loro nome) gli immigrati che hanno reagito, come reagirono tempo fa altri “dannati” dopo la strage camorrista di Castelvolturno in Campania, al ferimento di due africani con colpi di armi da fuoco. Un’aggressione senza motivo, non provocata. Forse perpetrata per far capire senza ombra di dubbio ad una comunità abbandonata, ai margini della società, ma sfruttata, che la sua presenza non è gradita, dà fastidio, toglie briciole di lavoro malpagato ad altri disperati, ma calabresi, che comunque, a quel tipo di lavoro non sembrano interessati. Non soltanto razzismo, dunque, ma qualcosa di più.
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Dodici, tredici, anche quattordici ore di lavoro nei campi a raccogliere quel che le stagioni offrono; un’esistenza grama priva di affetti e consumata tra le minacce del caporalato ed il riparo notturno in baracche sconnesse, maleodoranti, disumane; soli, senza una donna, molti ammalati: è questa la condizione degli schiavi di Rosarno. I tremila, quattromila esseri umani (in alcuni perdiodi dell’anno si moltiplicano e si spostano in Puglia ed in Campania) provenienti dal Togo, dal Marocco, dalla Costa d’Avorio, dal Benin, dal Sudan, dalla Mauritania, dal Congo che non ignoravano le difficoltà in cui si sarebbero imbattuti sbarcando non si sa come sulle coste italiane, non immaginavano di doversi addirittura difendere dalla paura di essere ammazzati senza un perché. E dove poi? In una regione dalla rara ospitalità, la cui popolazione è per natura gentile ed accogliente, ma purtroppo “infiltrata” da delinquenti, sfruttatori, sedicenti imprenditori che pretendono manodopera a costi bassissimi. Vogliamo chiamarla ‘ndrangheta questo uni-
verso subumano che semina dolore e morte?
Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nel vertice di Reggio Calabria con il ministro dell’Interno Roberto Maroni, nel corso del quale è stata annunciata la costituzione di un’agenzia per la gestione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali, con sede nel capoluogo calabrese, ha detto che negli atti amministrativi e legislativi la dizione di “‘ndrangheta”, finora inesistente, farà la sua comparsa come mafia e camorra. Alla buonora. E poco importa che le iniziative siano state prese dopo l’attentato alla Procura della Repubblica di Reggio e mentre s’intensifica la pressione di poteri occulti e palesi sulle forze politiche in vista delle elezioni regionali. L’onorevo-
le Angela Napoli, già vice-presidente dell’Antimafia (non si sa perché non riconfermata in questa legislatura), appartenente al gruppo del Pdl, con il coraggio che la contraddistingue da sempre nel contrastare la criminalità calabrese, ha invitato i partiti a non candidare personaggi “chiacchierati”, a prendere le distanze da quel mondo di intrighi ed interessi che sta trascinando nell’abisso la regione. Chissà che fine farà l’appello.
Speriamo serva, come la “rivolta” di Rosarno e l’attentato di Reggio, a far aprire gli occhi allo Stato, all’opinione pubblica, alla grande stampa sull’abbandono in cui un’area tra le più disperate del Paese, eppure ricca di potenzialità produttive e creative, versa da tempo immemorabile.
Gli immigrati aggrediti e sfruttati, che hanno reagito istintivamente e dunque non hanno reso un buon servigio alla loro stessa causa, anche se chiunque gli riconoscerà l’attenuante della gravissima provocazione, si sono accorti che sono inermi. Come, del resto, la generalità dei calabresi che non attendono altro se non un deciso intervento dello Stato, non soltanto per vivere un po’ più sicuri, ma per ottenere ciò che una qualsiasi comunità civile deve pretendere: lavoro, ordine pubblico e sociale, opportunità di sviluppo. Sembra fa-
Maroni: «Troppa tolleranza con gli immigrati». Ed è polemica
E le sparatorie continuano ROSARNO (REGGIO CALABRIA). Caos e tensione nella città calabrese di Rosario dove da ormai due giorni è in corso una violenta protesta di immigrati africani. Dopo la guerriglia urbana e gli scontri dell’altra notte con le forze dell’ordine, gli immigrati sono tornati in strada per manifestare già da ieri mattina, chiamando a raccolta tutti gli immigrati della Piana di Gioia Tauro. In duemila circa, secondo i primi dati diffusi dalla polizia, si sono radunati davanti al comune di Rosarno, protestando, alcuni con spranghe e bastoni, e chiedendo di poter incontrare il commissario prefettizio del Comune. Dopo alcune ore e dopo aver parlato, come richiesto, con il commissario prefettizio al quale hanno chiesto migliori condizioni di vita e un maggiore controllo nelle strutture che li ospitano, gli immigrati si sono allontanati dal Comune per dirigersi verso il centro della città. «La situazione è grave, è pesante» ha detto il commissario del Comune che ha incontrato la delegazione di immigrati. In serata, poi un altro scontro con armi da fuoco tra immigrati e cittadini calabresi ha causato altri feriti. A far esplodere la protesta è stato il ferimento, ieri, di due immigrati con alcuni colpi sparati da sconosciuti con un fucile ad
aria compressa. Uno dei feriti è un immigrato del Togo con lo status di rifugiato politico e un regolare permesso di soggiorno, come molti degli extracomunitari che partecipano in queste ore alla protesta. Costretti a vivere in strutture fatiscenti e in condizioni igienico sanitarie inaccettabili, gli immigrati della zona sono perlopiù lavoratori stagionali agricoli, sfruttati dalla criminalit! organizzata. «Subiamo continuamente atti di intolleranza - ha dichiarato Sidiki uno degli immigrati - ma noi siamo lavoratori onesti che vengono qui solo per guadagnarsi il pane e non diamo fastidio a nessuno. Il bilancio degli scontri è di 34 feriti e sette extracomunitari arrestati.
Quanto alle reazioni politiche, ha suscitato molte polemiche una dichiarazione del ministro dell’Interno Maroni il quale ha sosteno che «a Rosarno la situazione è difficile, così come in altre realtà, perché in tutti questi anni è stata tollerata, senza fare nulla di efficace, una immigrazione clandestina che da un lato ha alimentato la criminalità e dall’altro ha generato situazioni di forte degrado». Immediato il commento di Bersani: «Maroni non ha perso l’occasione di fare lo scaricabarile».
cile, naturalmente. Ma non è certo con l’invio (se mai lo si disponesse) di ulteriori forze dell’ordine che la situazione migliorerebbe. C’è bisogno d’altro. E quest’altro è innanzitutto buona amministrazione, investigazione a tutto campo nel fitto intrigo tra affari e politica, giustizia rapida e pene certe. Ma come si fa a sperare ancora se sono stati i fatti di Rosarno ad innescare un minimo di interesse su una piaga, quella della schiavitù, che in tanti, quasi tutti, ritengono appartenere ad altri mondi lontani dal nostro? Nella cittadina calabrese c’è un luogo chiamato “Rognetta” (il nome è di per sé eloquente) – si tratta di un ex deposito alimentare, privo di un tetto – dove l’organizzazione Medici senza frontiere, che normalmente opera negli angoli più devastati del Pianeta, distribuisce quel che ha ai disperati che vivono (si fa per dire) in condizioni di disagio estremo. Sono numerosi i malati extracomunitari che si rivolgono ai medici volontari e non tutti possono il necessario per quanti sforzi vengano fatti. Anche questa è Calabria. Anche questa è Italia. Agli albori del secondo decennio del Ventunesimo secolo. Se poi si considera che una giornata di lavoro, quando capita naturalmente, ai nuovi schiavi frutta al massimo venti euro per quattordici ore a raccogliere arance e mandarini, il quadro della disumanità che schizza violento dalla innocente terra calabrese è raccapricciante. Almeno quanto l’impunità di cui godono i “caporali” che reclutano gli schiavi ed i loro padroni mafiosi o come altro li si vuole chiamare.
La Calabria è una questione nazionale. Sotto il profilo del mancato sviluppo, dello sperpero delle risorse e dell’occupazione della criminalità organizzata. La politica è stata assente. E quanto si è mostrata ha rivelato la sua impotenza nel governare i processi di modernizzazione che nella regione pure si sono affacciati negli ultimi decenni, in maniera spesso velleitaria, ma comunque tesi a dare un destino alla Calabria. Si cominciò tra la fine degli anni Sessanta e
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«Avola e Battipaglia, quarant’anni dopo» Pezzotta: «Sono battaglie contro lo sfruttamento, come quelle dei braccianti del 1968» di Gabriella Mecucci
ROMA. «Per definire i fatti di Rosarno c’è una parola precisa: si tratta prima di tutto di sfruttamento»: Savino Pezzotta, parlamentare Udc, scandisce la parola e invita, «di fronte a fenomeni di questo genere, a usare il criterio dell’analisi e della comprensione prima di emettere giudizi». Lo dice anche al ministro Maroni che ha puntato il ditto sulla presunta «eccessiva tollenza» nei confronti degli immigrati in questi anni. «Un modo per eludere il vero problerma: quello dello sfruttamento». Giudizio simile Pezzotta dà della decisione del ministro Gelmini di mettere un tetto alla presenza degli scolari stranieri nelle classi: «Guardo con diffidenza a queste scelte calate dall’alto». Onorevole, siamo di fronte ad un pericoloso scontro fra la popolazione residente e gli immigrati. Di questo cosa ne pensa? Secondo me a Rosarno siamo di fronte innanzitutto ad una questione di natura sociale, prima che di immigrati e di razzismo. Ci sono delle persone assunte dal caporalato, supersfruttate e che, a un certo punto, si sono ribellate. Guardi che anche gli italiani, se torniamo agli anni Cinquanta e Sessanta, hanno protestato con violenza. Che cosa le ricordano gli scontri di Rosarno? Mi riportano a epoche lontane, quando gli immigrati non c’erano, e nel Mezzogiorno d’Italia ci furono episodi di ribellione da parte dei lavoratori italiani. Che cosa sono stati i fatti di Avola e di Battipaglia se non questo? Ad Avola, in Sicilia, furono i braccianti, nel 1968, a ribellarsi; a Battipaglia, in Campania, toccò agli operai scendere in piazza. Erano infatti state chiuse due importanti aziende locali e in molti aveva-
gli inizi dei Settanta con il Quinto Centro siderurgico di Gioia Tauro. Pochi se ne ricordano. Fu la manna che le cosche attendevano per fare il grande salto. Venne distrutta una delle piane più fertili d’Italia per sacrificarla all’ambizione di un potere politico tanto incapace quanto corrotto. Dopo quarant’anni siamo an-
no perso il loro posto. In queste due cittadine ci fu rivolta e morte. Perchè i fatti di Rosarno le ricordano Battipaglia e Avola? Perché anche lì ci fu la ribellione di gente che era supersfruttata, che non aveva diritti, che non ne poteva più. La condizione che allora vivevano i lavoratori italiani di quelle aree somiglia molto a quella che vivono oggi gli immigrati. Non si tratta tanto di clandestinità, ma di sfruttamento. Ed è evidente che i lavoratori supersfruttati, qualche volta si ribellano. Questo non dovrebbe meravigliarci. Che cosa occorre fare per evitare che si arrivi allo scontro fra popo-
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Maroni sbaglia: il problema è ancora la tutela del lavoro. Non è una questione legata solo all’immigrazione clandestina
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lazione e immigrati? Occorre evitare che questi ultimi siano esasperati da comportamenti insopportabili. Prima di tutto è indispensabile che si facciano controlli sulla regolarità del lavoro. Perchè non ci sono state le ispezioni da parte dell’ispettorato del lavoro? Nei campi queste persone c’erano, la cosa era o no sotto gli occhi di tutti? La prima responsabilità è dunque di chi non ha controllato, di chi non ha fatto sino in fondo il proprio dovere. Adesso però la ribellione degli immigrati, è diventata un conflitto che ha coinvolto la popolazione di Rosarno..
cora qui, davanti ad uno scempio del territorio e ad un degrado morale e civile indescrivibile, a chiederci se la Calabria può avere ancora un futuro. Non è il caso di disperare, ci viene detto. Ce lo ripetono uomini e donne che si battono contro la delinquenza e che faticano a riconoscersi nella politica. Anche perché quando
Quando c’è la ribellione di lavoratori sfruttati, purtroppo uno dei corollari è il disordine, la lotta fra poveri. Nessuno di noi naturalmente ha intenzione di giustificare fatti di violenza come quelli che sono avvenuti a Rosarno. Ma la violenza non si cura, non esiste una terapia efficace. La violenza o la si previene o la si reprime. Ed è sempre meglio prevenirla. Quella di Rosarno è una questione di natura socioeconomia. E come tale andava affrontata, e ne andavano prevenute le conseguenze. Possibile che si tolleri ancora il reclutamento dei caporali? Certo, ci sono stati anche episodi di razzismo, non voglio negarli. La reazione - anche questo non va sottovaluto - è stata violenta. Del resto era già successo nelle periferie francesi. Tutti ora dovremo lavorare per attenuare il conflitto, per riportarlo dentro i binari della legalità. Ma se vogliamo essere seri, non possiamo tacere su che cosa è all’origine di questa esplosione di rabbia: dobbiamo batterci contro il lavoro nero. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni ha preferito concentrare la sua analisi sul fatto che si sono lasciati entrare troppi immigrati, che si è avuta in passato troppa tolleranza. Cosa ne pensa? Maroni quando fa quella dichiarazione elude la domanda vera che è questa: quelle persone lavoravano o no?
In queste pagine, alcune immagini degli scontri tra le forze dell’ordine e i lavoratori stranieri a Rosarno, in Calabria, tra l’altra notte e ieri
Se lavoravano, vuol dire che di loro c’era bisogno. Se lavoravano ed erano clandestini, vuol dire che non sono stati fatti controlli. Che ci sia poi una pressione migratoria molto forte questo è del tutto vero. Finché una parte del mondo sarà abbandonato alla fame e alla miseria, noi dobbiamo sapere che continuerà. Io non sono fra quelli che dicono di lasciar entrare tutti. Penso che questi flussi vadano governati, ma se chi arriva lavora in clandestinità, non è colpa sua.Vuol dire che c’è un mercato del lavoro clandestino, che nessuno vuol smantellare perché ci sono fortissimi interessi di mezzo. E questo non succede solo al Sud, ma anche al Nord. Il ministro Gelmini ha proposto di mettere un tetto alla presenza di immigrati nelle classi: non più del 30 per cento. Cosa ne pensa? Guardo con diffidenza a queste scelte calate dall’alto. È bene che a decidere siano le comunità locali: può accadere che in alcuni luoghi sia possibile superare il 30 per cento e in altri no. Il governo centrale dovrebbe invece fare le politiche di integrazione. E questo richiede impegno, idee, investimenti. La scuola è un luogo di integrazione,i bambini,i ragazzi riescono meglio degli adulti a stare insieme,a superare le diversità: il governo farebbe bene a considerare questecose. Le rigidità non servono e possono essere anche dannose.
poi qualcuno cerca di lanciare segnali di rinascita è fatale che venga azzittito, ricorrendo magari alla calunnia, alla diffamazione, alla denuncia destinata a cadere ne vuoto ma che comunque arresta il sia pur timido tentativo di far capire che soltanto dalla coesione sociale e sottraendosi al ricatto del cosche partitiche o
mafiose è possibile per la Calabria immaginare un domani privo di incubi, o quantomeno accettabile. Chi di dovere ha aperto gli occhi su questa tragedia italiana che faticosamente e raramente conquista le pagine dei giornali solitamente sguazzanti nel politicume di nessun interesse? Ce lo auguriamo.
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Quote. Gelmini: «Non è una norma contro la tolleranza». Per i bambini stranieri sono previsti anche nuovi corsi di italiano
La scuola dal tetto fragile Gli immigrati, anche di terza generazione, non potranno superare il 30% per classe. «Ma serve a non isolarli», spiega il ministro di Errico Novi
Le intenzioni sono condivisibili, ma la soluzione è troppo generica
ROMA. Coincidenza pericolosa. E, come la definisce la senatrice democratica Vittoria Franco, «inquietante». Proprio mentre in Calabria si consuma il secondo grave caso di conflitto etnico degli ultimi anni in Italia (un allarme simile si era registrato solo dopo l’agguato dei casalesi a Castelvolturno, se non si vuole risalire ai fatti della Chinatown milanese di qualche anno fa) arriva in tutte le scuole d’Italia una nota inviata dal ministero dell’Istruzione: «Dall’anno scolastico 2010-2011 verrà introdotto il limite del 30 per cento per le iscrizioni dei minori non italiani in tutte le classi». Una previsione secca, impietosa, che accoglie l’ennesima richiesta “segregazionista” del Carroccio: dopo il divieto di cambiare provincia imposto ai docenti e destinato soprattutto a impedire il trasferimento al Nord dei prof meridionali, arriva un’altra legnata sui diritti costituzionali. Seppure prodiga di inviti a “moltiplicare le classi”per fare in modo che il tetto di uno straniero ogni tre alunni venga rispettato anche nelle aree del Paese a più alta densità di immigrati, la direttiva di viale Trastevere lascia aperta infatti una lunga serie di interrogativi. Si parla di «accordi di rete tra le scuole e gli enti locali» per evitare eccessive concentrazioni di alunni immigrati. Ma è evidente che la bella teoria della pianificazione amministrativa non basta.
Cosa succederà infatti dove anche tali accorgimenti “distributivi” non saranno sufficienti? «Non si ammetteranno i bambini alle elementari?», si chiede la senatrice Franco. Tecnicamente potrebbe essere l’unica soluzione possibile, in casi estremi. Quello che colpisce infatti, nel documento ministeriale, è la perentorietà dei toni sulla percentuale limite: «Gli uffiici scolastici regionali potranno autonomamente definire quanti bambini stranieri per classe si potranno iscrivere alle scuole del proprio territorio», si legge, ma poi si ribadisce che «le iscrizioni di minori non italiani non dovranno superare il 30 per cento». Nessuna eccezione per gli alunni immigrati di seconda e terza generazione: al massimo i presidi potranno
Basterà un numero per evitare i ghetti? di Luisa Santolini i stanno riaprendo le scuole in tutta Italia dopo la pausa delle festività natalizie e puntualmente si ripresentano problemi, polemiche, annunci, ritardi, errori. L’ultima notizia è che il ministro Gelmini ha diramato una circolare secondo la quale dal prossimo anno scolastico sarà previsto un tetto del 30% per gli alunni stranieri nelle classi. Scopo del ministro è «favorire l’integrazione ed evitare la formazione di classi “ghetto”con soli alunni straneri». In ogni caso gli Uffici Scolastici regionali, di intesa con gli Enti Locali, potranno autonomamente definire il numero degli alunni che potranno iscriversi alle scuole del proprio territorio e il limite del 30% potrà essere innalzato o ridotto nella misura in cui ci siano in una zona maggiori o minori bambini stranieri e nella misura in cui la padronanza della lingua italiana sia più o meno adeguata per una migliore partecipazione alla attività didattica.
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Non ci sono dubbi che le intenzioni del ministro siano condivisibili: evitare il formarsi di classi costituite esclusivamente da alunni stranieri è cosa buona e direi doverosa. A Roma ed in molte altre città sono state spesso denunciate situazioni in cui le famiglie italiane non mandano più i loro figli in una certa scuola solo perché ad essere minoranza sono proprio loro, con tutti gli squilibri che questo comporta, primo fra i quali la quasi totale impossibilità della integrazione tra etnie, culture e religioni diverse. Purtroppo queste situazioni non sono così sporadiche e sono il frutto dell’incuria e della superficialità di tutti coloro che si sono occupati della scuola negli anni passati, quando il problema “stranieri” si stava affacciando e quando tutti gli esperti della materia prefiguravano situazioni difficili da gestire se non si fosse corsi ai ripari in tempo. E dunque cercare di affrontare il problema è necessario. Ma… come
spesso accade quando si parla di scuola ci sono dei “ma”. La prima obiezione è che, stando alla circolare di pochi giorni fa, non si comprende come sarà possibile applicarla alla lettera, dal momento che, come è noto, l’Italia, nella distribuzione degli stranieri sul territorio, è a macchia di leopardo e ci sono alcune zone del Paese dove la concentrazione degli stranieri è massima, a differenza di altre che quasi non sono toccate dal fenomeno immigrazione.
Come si potrà rispettare il tetto massimo del 30% se non costringendo i bambini e le loro famiglie a spostarsi tutti i giorni due volte al giorno in luoghi lontani da casa, solo per soddisfare una circolare diffusa dal Ministro? Come si potranno convincere le famiglie a fare questo sacrificio? E come saranno pensati i criteri per fare la selezioni di chi resta e di chi va? Come è noto la scuola funziona da luogo di aggregazione e di integrazione proprio perché è in grado di riunire bambini che gravitano nello sesso quartiere, che abitano vicino, che si ritrovano poi anche in altri luoghi accanto alla scuola e alle proprio abitazioni. Come sarà possibile separare bambini stranieri che abitano nello stesso palazzo o nella stessa strada e come si potrà poi riavvicinarli a casa? Sarà una sorta di “esilio temporaneo” o no? Il ministro Gelmini sa perfettamente che queste domande non sono peregrine, tanto è vero che apre la porta alle eccezioni e alle deroghe. E qui c’è l’altro “ma”. Se Uffici regionali, Scuole ed Enti Locali potranno fare a modo loro (e questo faranno, aggrappandosi agli appigli che la circolare offre), e se dunque la soluzione è affidata al buon senso di chi governa la scuola, la notizia del tetto del 30% suona come un annuncio per tenere buoni tutti coloro che non sopportano gli stranieri e che, se potessero, li vorrebbero lontani dai loro figli. È il caso di concludere con i migliori auguri, per questo 2010 appena iniziato, alla scuola italiana, al Ministro Gelmini, a tutte le componenti della scuola. A sentire il Governo un anno decisivo. Speriamo che sia un tempo per riportare la scuola al prestigio di un tempo e i ragazzi ad una vera formazione come è negli auspici di tutti.
sforare con la soglia fatale «a fronte della presenza di stranieri (come può frequentemente accadere nel caso di quelli nati in Italia) già in possesso delle competenze linguistiche».
Da parte della Cei non si esita a far notare che la natura del provvedimento è quanto meno ambivalente: «Da un lato si cerca di aiutare e dall’altro si creano nuove discriminazioni», come dice Bruno Schettino, che
Nuova forzatura voluta dai lumbàrd dopo il caso delle “gabbie” per i prof meridionali: una politica che rischia di costare caro allo Stato nella Conferenza episcopale è responsabile per i Migranti. «Bisogna essere equanimi e avere grande senso del rispetto, perché l’esperienza della fede ci insegna l’esperienza della cultura e la cultura è sempre accoglienza, che è guardare al volto del povero», commenta il monsignore con l’Ansa, e di fronte all’affermazione del governo secondo cui una misura del genere favorirebbe l’integrazione, Schettino risponde: «Si tratta di essere equilibrati, di non estremizzare le posizioni, non renderle crude». È esattamente quello che invece la nota sembra determinare con la nettezza delle sue previsioni. Un atteggiamento dietro il quale non è difficile intravedere la mano pesante dei leghisti: non a caso sono loro gli unici a esultare per la norma. A cominciare dal capogruppo alla Camera e candidato alla presidenza del Piemonte Roberto Cota: «Il ministro Gelmini ha sostanzialmente tradotto in pratica una delle due disposizioni contenute nella nostra mozione approvata a Montecitorio: se in una classe c’è una percentuale troppo alta di stranieri, l’integrazione non si può realizzare, si crea il ghetto, con la conseguenza che i nostri alunni non riescono ad apprendere e così anche gli alunni stranieri. Ne sanno qualcosa gli studenti e le famiglie di alcune città dove la situazione nelle classi si è fatta difficilissima».
Basta fare due calcoli per intuire quali tremende difficoltà
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Dai respingimenti dei clandestini alle quote nelle scuole
«Ora basta banalizzare l’immigrazione» Angela Napoli, Pdl: «Dietro agli scontri di Rosarno c’è la ’ndrangheta. Adesso dobbiamo passare ai fatti» di Valentina Sisti
ROMA. «Dietro ai fatti di Rosarno, intravedo un tentativo di depistaggio da parte della ‘ndrangheta, la volontà di spostare l’attenzione da sé, soprattutto dopo l’ordigno nella procura di Reggio Calabria». Angela Napoli, deputata del Pdl di area ex An, eletta in Calabria, preside di scuola superiore e membro della commissione Antimafia, commenta con molta preoccupazione gli scontri fra extracomunitari e polizia dell’altra notte, scaturiti, pare, dal ferimento di uno di loro. Condivide le dichiarazioni di Roberto Maroni su Rosarno? In parte sì, quando parla di eccessiva tolleranza dell’immigrazione clandestina che ha alimentato la criminalità, generando situazioni di forte degrado. Rimane però da chiarire di chi è la responsabilità. Fenomeni di questo tipo non si possono addebitare esclusivamente alla clandestinità. C’è una forte corresponsabilità della ‘ndrangheta dietro lo sfruttamento degli immigrati. È convinta che ci sia dell’altro dietro a questi episodi di violenza? Gli extracomunitari continuano ad aumentare, nonostante la Regione Calabria abbia tentato più volte d’intervenire. Il vero problema è quello del lavoro nero. Di certo c’è una situazione anomala, perché la reazione degli immigrati sembra essersi verificata dopo le intimidazioni da parte di alcuni giovani, legati probabilmente a organizzazioni malavitose. Non dimentichiamoci che in questo territorio, ben cinque amministrazioni comunali, compresa quella di Rosarno, sono state sciolte per mafia. L’opposizione è convinta che il linguag-
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gio politico della Lega contribuisca ad alimentare un clima di tensione… Credo che sia soprattutto un rischio che corre il Nord. La Lega deve stare attenta alle parole che usa e ai contrasti sociali che esse poi determinano. Ma anche la politica intransigente dei respingimenti rimane per ora più un proclama che una misura attuata. Al Sud il problema è di un’altra natura, il legame con la malavita che sfrutta la manodopera clandestina. Crede che la proposta del ministro Mariastella Gelmini d’introdurre un tetto del 30 per cento di studenti stranieri per classe possa favorire l’integrazione? Sono d’accordo con questa proposta. L’unica soluzione è creare classi miste e non ghetti, insegnando ai ragazzi immigrati la nostra lingua e la nostra cultura, ma senza dimenticare le loro. Ma non si corre il rischio che fissando dei limiti numerici alcuni studenti non vengano più accolti perché in eccesso? Non si può introdurre un tetto massimo senza prima aver garantito il diritto d’istruzione a tutti i cittadini, anche creando nuove classi, se occorre. Come giudica la politica della Lega, e del Viminale, contro i clandestini? La politica sull’immigrazione è molto più complessa. Non bastano i soli respingimenti o combattere la clandestinità facendo di tutta un’erba un fascio, senza distinguere, ad esempio, se ci sono rifugiati. Occorre una politica seria e non semplicistica, che preveda la cooperazione assistita, con progetti di finanziamento e lavoro nei Paesi di provenienza degli extracomunitari, che vengano accuratamente programmati e controllati.
La Lega deve stare attenta alle parole che usa e ai contrasti sociali che esse determinano. La politica intransigente rimane un proclama
Sopra, una classe con alcuni ragazzi immigrati. A destra, l’onorevole Angela Napoli. Nella pagina a fianco, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini stiano per abbattersi proprio sulle famiglie di immigrati: preoccupazione viene espressa per esempio dalla Cgil Lombardia, secondo cui il provvedimento «non può calzare: nella nostra regione ci sono realtà con grandi concentramenti, chiamiamole colonie di stranieri, e quindi il tetto verrà sfondato. Ma sarà difficile», fanno notare i rappresentanti locali del sindacato più a sinistra, «per i genitori in certi casi iscrivere i figli in altri Comuni. Basta pensare ai sikh in provincia di Mantova, ai marocchini che vi-
vono a Zingonia o a istituti superiori, anche a Milano città, dove la maggior parte degli studenti non è italiano». E sulle “classi di inserimento per soli stranieri”, una delle misure previste dalla Gelmini per facilitare l’integrazione degli immigrati, la Cgil obietta che «l’inserimento non può avvenire senza confronto, e in una classe di soli stranieri il confronto non c’è».
Non si intravedono spazi di ripensamento, dal tono con cui la norma viene giustificata: «Nelle ultime settimane si è di-
scusso molto della presenza crescente di alunni stranieri nelle scuole e classi italiane», si legge nel documento del ministero, «spesso all’interno di questo dibattito ci si è voluti dividere agitando una ingiustificata polemica di tipo ideologico», mentre, «la scuola deve essere il luogo dell’integrazione. I nostri istituti sono pronti ad accogliere tutte le culture e i bambini del mondo», ma «l’inserimento, ad esempio, dell’ educazione alla cittadinanza va proprio in questa direzione: insegnare il rispetto
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per le altre culture e affermare contemporaneamente l’importanza delle regole civili, della storia, delle leggi e della lingua italiana. Una indispensabile condizione questa per realizzare una vera integrazione». Tutto viene fatto passare in nome di un presunto innalzamento della qualità formativa per alunni italiani e stranieri, con un corollario di meccanismi-cuscinetto, dal «potenziamento della lingua italiana, indispensabile per poter andare di pari passo negli studi con i compagni di scuola italiani» a
un «accertamento delle competenze e dei livelli di preparazione dell’alunno per assegnarlo alla classe definitiva che potrà essere inferiore alla classe corrispondente all’età anagrafica», fino a fasi di «approfondimento della conoscenza linguistica finalizzata a un inserimento efficace dell’alunno nella classe». Nella migliore delle ipotesi si tratterà di meccanismi costosissimi se applicati con quella rigidità di cui parla la Cei. Nella peggiore, siamo a un passo dalla cancellazione dei diritti costituzionali.
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Conti. I dati del 2009 di Eurostat sono particolarmente allarmanti: la crisi sta passando ma continua a pesare sul lavoro
La disoccupazione dei record È ancora emergenza: ormai un giovane su quattro è senza lavoro ROMA. Nuovi record negativi per l’economia italiana. E l’Europa fa comunque male. Il tasso di disoccupazione italiano a novembre ha raggiunto l’8,3%, il dato più alto da aprile 2004. A novembre 2008 si era attestato al 7,1%. Le persone in cerca di occupazione nel mese erano 2.079.000, cioè 313.000 in più rispetto ad un anno prima e 30.000 in più rispetto ad ottobre. L’occupazione a novembre è ulteriormente diminuita di 44 mila unità, ed è di 389 mila unità inferiore a quella di un anno fa, un calo dell’1,7%. Il calo degli occupati nei primi nove mesi del 2009 è stato di 237 mila uomini e di 96 mila donne, per un totale di 335mila persone. Le persone in cerca di occupazione sono invece aumentate nei primi nove mesi dell’anno di 320 mila unità, 191 mila uomini e 129 mila donne. Ma è tutto il Vecchio Continente ad essere attanagliato dal problema: la disoccupazione nell’Eurozona a novembre ha toccato quota 10% rispetto al 9,9% di ottobre. E’ il dato destagionalizzato diffuso dall’ufficio statistico dell’Unione Europea, che precisa come si tratti del tasso più elevato da agosto 1998. Nel novembre 2008 il dato era pari all’8%. I dati sono stati diffusi da Eurostat, secondo cui i disoccupati nell’Eurozona sono 15,712 milioni nell’area euro a novembre (+185 mila da ottobre) e 22,899 milioni nell’Ue (+102 mila).
Ma l’analisi più approfondita dei dati italiani fa capire che la situazione è di vera
di Alessandro D’Amato
soltanto all’estensione della platea dei beneficiari, mentre invece questo fatto spiega solo in parte l’esplosione della cassa integrazione, che è invece dovuta alla crisi economica. Ma a parte questo, occorre riflettere sul fatto che 918 milioni di ore significano, all’incirca, 500 mila lavoratori su base annua, anche se il dato va depurato del tasso di non utilizzo delle ore richieste. Anche così, siamo ad una platea di circa 350 mila lavoratori a zero ore in un anno. Che si aggiungono a quelli che hanno
In un anno sono stati persi 389mila posti. E in Europa il tasso è salito al 10%, 2 punti in più rispetto ai mesi prima della recessione emergenza. Oltre ai dati sul lavoro, occorre infatti tenere conto dei tantissimi operai ed impiegati in cassa integrazione, che da un punto di vista statistico risultano occupati. Il dato diffuso dall’Inps segnala che nel 2009 le ore di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga) sono aumentate del 311,4% rispetto all’anno precedente passando da 223 a 918 milioni. Strana, al proposito, l’interpretazione dei dati del Presidente dell’Inps Antonio Mastropasqua, che sostiene che la causa di quest’aumento sarebbe dovuta
ufficialmente perso il posto.
E per i quali spargere ottimismo potrebbe essere deleterio. Anche perché fino ad ora la crisi si è scaricata solo in parte sul mercato del lavoro, grazie alla cassa integrazione. Ma nessuno può prevedere se questi lavoratori in futuro torneranno tutti, o quasi, al loro posto: lo spostamento delle richieste da Cassa integrazione Ordinaria (crisi congiuntale) a Straordinaria (crisi strutturale) non promette niente di buono. E tutti, governo incluso, prevedono un 2010 dove i
Un sondaggio di Confesercenti sulla crisi
La ripresa è lontana ROMA. Per 15 milioni di italiani ci vorranno almeno 6/12 mesi per uscire dalla crisi. Lo dice un sondaggio Confesercenti-Swg che specifica tuttavia un miglioramento delle condizioni del Paese per il 2010. Il 31% degli italiani intervistati, che corrisponde ad oltre 15 milioni della popolazione adulta, risponde che per l’uscita dalla crisi serviranno 6/12 mesi risponde. In particolare, si legge in una nota, il 7% ritiene che per uscire dalla crisi si dovrà ”soffrire” ancora per sei mesi, il 24% un poco più prudente, ”vede” materializzarsi ripresa nella seconda metà dell’anno appena iniziato. Ma ci sono anche oltre 18 milioni di persone, vale a dire il 36%, che spostano la ripresa oltre il 2010. Uno su cinque teme che bisognerà aspettare il 2011, mentre la pattuglia dei più pessimisti che è l’11%, sposta la ripresa al 2012. Invece il giudizio sullo scena-
rio economico generale per il 2010 del campione nel sondaggio Confesercenti-Swg appare più fiducioso per le sorti del Paese. Anzi vanno meglio le prospettive economiche generali che quelle legate alla propria condizione personale o di famiglia sulla quale si è visibilmente più incerti. Ecco allora che sale di otto punti, dal 14% del 2009 al 22% per il 2010, il numero di coloro che intravedono un miglioramento in generale dell’economia e parallelamente scende di ben 14 punti la schiera di quelli che invece ritengono più verosimile un peggioramento. Italiani più cauti invece quando si tratta di parlare della loro condizione: in questo caso il miglioramento previsto scende leggermente dal 15% del 2009 al 13% per quest’anno, anche se cala in modo più evidente la percentuale di chi paventa un peggioramento (dal 32% al 20%).
livelli occupazionali peggioreranno ancora. I soldi per finanziare gli ammortizzatori sociali, dice il governo, ci sono. Forse, ma intanto non coprono tutti, come da tempo dicono gran parte degli esperti: il punto debole della strategia di difesa dei posti di lavoro seguita fino a questo momento, cioè difendere solo i posti di lavoro “fissi” di chi ce l’ha già da anni, penalizza i giovani ed ingessa il mercato del lavoro. E comunque non si possono prorogare all’infinito questi strumenti. Come segnala l’Istat, nei primi nove mesi del 2009, il rapporto deficit/pil, è quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno prima: nei primi tre trimestri del 2009 l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al pil è stato del 5,2%, contro il 2,8% di gennaio-settembre del 2008 (era 6,1% al termine del secondo trimestre del 2009). Nel terzo trimestre del 2009 il saldo primario è stato positivo e pari a 2,244 miliardi, con un’incidenza positiva sul pil dello 0,6%, mentre era +3,9% a luglio-settembre dell’anno prima. Nei primi nove mesi del 2009, il saldo primario rispetto al pil è negativo e pari allo 0,8%, contro il +2,3% dello stesso periodo del 2008. Il rischio è quindi che il pesante deterioramento dei conti pubblici riduca sempre più i margini di manovra del governo.
E le previsioni future allarmano ancora di più: «È un dato scontato, che ci si aspettava», ha detto il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, commentando i dati dell’Istat sull’occupazione. «Penso che ci saranno ancora altri 200 mila posti di lavoro a rischio per quest’anno, rispetto a quelli persi nel 2009», ha aggiunto a margine di una iniziativa al Cnel. «Tutti si augurano che l’occupazione non scenda più, ma tra l’augurio e la realtà c’è una certa differenza. Le probabilità che la disoccupazione aumenti anche nel 2010 sono abbastanza elevate», ha concluso il numero uno della Uil. Il calo degli occupati nei primi nove mesi del 2009 è stato di 237 mila uomini e di 96 mila donne, per un totale di 335mila persone. Le persone in cerca di occupazione sono invece aumentate nei primi nove mesi dell’anno di 320 mila unità, 191 mila uomini e 129 mila donne.
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Inchiesta su uno scambio tra favori e permessi
I due romeni giudicati colpevoli dal tribunale di Tivoli
Bari: arrestato il capo dei vigili del fuoco per corruzione
Condannati a sedici anni gli stupratori di Guidonia
BARI. Il comandante dei vigili
ROMA. Dovranno scontare 16 anni di carcere i quattro romeni accusati di avere stuprato a Guidonia in provincia di Roma, una ventunenne e picchiato il fidanzato, di 24. La condanna è stata inflitta dal gup del Tribunale di Tivoli, Elvira Tamburelli al termine del rito abbreviato, nei confronti di Mirel Huma, Cristinel Coada e ai fratelli Ciprian e Lucian Trinca. I quattro devono rispondere di violenza sessuale di gruppo, rapina aggravata, lesioni personali gravi, sequestro di persona. Sarà invece giudicato con il rito ordinario a giugno per favoreggiamento Goia Mugurer. L’altro romeno Anton Barbu, accusato sempre di favoreggiamento, sarà invece giudicato con rito ordinario.
del fuoco di Bari, Giovanni Micunco, è stato arrestato dai militari della guardia di Finanza, su ordine del gip Michele Parisi. Insieme a Micunco, che si trova ai domiciliari, sono finiti in manette anche due funzionari Giuseppe Cippone e Rocco Mercurio. Per tutti l’accusa è di peculato e di concussione ambientale. L’inchiesta condotta dal pm Francesca Pirrelli, riguarda tangenti sulle certificazioni anticendio. Gli «amici» del comandante Micunco sarebbero stati assunti dai titolari di grossi centri commerciali, come ricompensa per aver accelerato il rilascio della certificazione antincendio. Si concentra anche su questo aspetto l’ inchiesta coordinata dai pm Giuseppe Carabba e Francesca Romana Pirrelli, che hanno già iscritto nel registro degli indagati cinque persone: oltre al comandante dei vigili del fuoco di Bari, Micunco, al responsabile del rilascio delle certificazioni, l’ingegner Luigi Cippone, sarebbero accusati di falso
e corruzione altri tre professionisti, coinvolti nel sistema di «do ut des».
Secondo le indagini svolte finora dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza, alcuni imprenditori baresi avrebbero ottenuto più rapidamente di altri e senza gli opportuni controlli le certificazioni, grazie ad un accordo con Micunco. In cambio, il comandante avrebbe avuto denaro ma anche favori di vario tipo: tra questi, proprio l’assunzione in noti centri commerciali di persone da lui sponsorizzate. Avrebbe anche utilizzato risorse e mezzi del suo ufficio per fini privati: da questo nasce l’ altra accusa, quella di peculato. E dopo le perquisizioni condotte negli uffici del comando, le acquisizioni di carte negli alberghi Scandic e Sheraton e nella sede dell’ Ikea, gli inquirenti stanno valutando se iscrivere altri nomi nel registro degli indagati.
Fini, Berlusconi e il manuale Cencelli Torna il sereno tra i due “litiganti” del centrodestra? di Ruggiero Capone
ROMA. A dispetto dei fortunali di stagione, pare sia tornato il sereno tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. A darne notizia è lo stesso strumento della belligeranza (al secolo Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale). E come se non bastasse, il presidente della Camera (Fini) si dimostra nuovamente coerente nella sua linea di alta omertosità istituzionale, smentendo tutto e tutti ha pure smentito d’aver preteso che Italo Bocchino s’avvicendasse ad Ignazio La Russa al coordinamento del Pdl. E che Fini abbia fatto tesoro delle strategie della prima Repubblica emerge dalle parole di Massimiliano Cencelli. «Sono rimasto strabiliato da quanto sto vedendo per le candidature alle regionali - afferma Cencelli ai microfoni del Gr Rai - È la prima volta, dopo 55 anni d’esperienza, che vedo una candidatura esplorativa per la candidatura alla presidenza d’una Regione: per vari motivi, il manuale che porta il mio nome è rimasto sempre in vigore». E Cencelli si lascia sfuggire una plauso alla componente di Fini. Il discorso fila perfettamente, in base al manuale Cencelli i finiani hanno ottenuto proprie candidature presidenziali nel Lazio ed in Calabria, ed ora potrebbero anche incassare la Puglia. I finiani fono andati meglio dei leghisti, oggi sono in netto vantaggio anche rispetto agli ex Forza Italia. A questo punto la tanto ventilata scissione finiana dal Pdl è bella che archiviata. Nei giorni passati in molti s’erano chiesti che motivo avesse mai d’abbandonare il Pdl.
gretario alla presidenza del Consiglio), intervenendo a Rainews24, ha escluso che il presidente della Camera Gianfranco Fini possa lasciare il Pdl. Poi, secondo non poche voci di corridoio sarebbe stato lo stesso Fini a chiedere un forte dialogo col Pd sulla cosiddetta “Bozza Violante”. «Il punto di partenza per le riforme? Prendiamo la bozza Violante per partire» ha affermato infatti Bonaiuti. Ne deriva che ogni pettegolezzo sui maldipancia di Fini deriverebbe dai “fuorionda”decollati dopo l’ultimo pranzo tra il presidente della Camera e Donna Assunta Almirante.
«Il Pdl è un partito senz’anima e io mi auguro che Fini se ne renda conto e torni indietro ha detto Donna Assunta a Il Fatto quotidiano - Deve avere il coraggio di farlo, tanto è chiaro che non potrà essere il successore di Berlusconi e che non avrà mai voce in capitolo. Gianfranco ha sbagliato a chiudere il partito. Almirante gli ha lasciato un partito vero, ricco di valori morali ed economicamente solido. La gente lo voterebbe eccome il ritorno di An». I suggerimenti di Donna Assunta vengono immediatamente bacchettati da Maurizio Gasparri (presidente senatori Pdl): «Fondazioni, siti web, giornali - chiosa sornione Gasparri - fanno polemica fine a se stessa, anzi hanno scelto la tattica del fuoco amico, rispondendo ad una logica di mercato». Di fatto Berlusconi ha accontentato i finiani, e poi c’è anche aria di mediazione tra Pd e Pdl sulla giustizia. Martedì al Senato entrerà nel vivo la legge sul processo breve, e già si parla di aggiustamenti ed ammorbidimenti al provvedimento che da Pd appellano come «grado di ragionevolezza della maggioranza». Ragionevolezza ed ammorbidimenti auspicati da Fini e graditi alla componente più riformista del Pd. Gli aggiustamenti hanno già un nome,“lodo Morando”. Dal nome del senatore del Pd che ha suggerito l’immunità temporanea per parlamentari, premier e ministri. Misura che non farebbe scadere i tempi di prescizioni, che rimarrebbero sospesi fino a fine del mandato.
«È stata una sentenza esemplare. Temevamo una Caffarella bis, invece è stata fatta giustizia», ha dichiarato l’avvocato Ludovica Ludovici, il legale di parte civile che assiste i due fidanzatini di Guidonia. Al momento della lettura della sentenza, in aula era presente solo il fidanzato che ha partecipato a tutte le udienze. L’aggressione era avvenuta nei confronti di due fidanzati che si erano appartati dentro l’auto in una stradina di campagna, il 22 gennaio dello scorso anno. I
Ma l’ex leader di An, nelle candidature alle Regionali, ha ottenuto più uomini degli “azzurri” e della Lega Nord
Soprattutto ora che, a pochi mesi dalle consultazioni regionali, sembra che il Pdl abbia totalmente recepito tutti i “consigli” del presidente della Camera. Fini oggi non ha più validi motivi per rompere col Cavaliere. Silvio Berlusconi ha aperto un fronte di dialogo sulle riforme col Pd di Bersani, ha ufficializzato Renata Polverini come candidata del Pdl alla presidenza della Regione Lazio e, soprattutto, il Cavaliere ha dimostrato d’essere gradito nei sondaggi al 70 per cento degli italiani. «Pensare che uno dei co-fondatori voglia andare via? Io non ci credo», così Paolo Bonaiuti (sottose-
quattro dopo aver picchiato il ragazzo e averlo chiuso nel bagagliaio della sua macchina avevano violentato più volte e a turno la ragazza. Gli stupratori di Guidonia erano stati arrestati, dopo essere caduti nella trappola per colpa di una telefonata fatta con il cellulare della ragazza. I quattro romeni hanno tra i 20 e i 23 anni, e al momento della violenza erano sbarcati in Italia da poche settimane. Il più giovane di loro è stato il primo a confessare. Gli altri sono stati incastrati dalla comparazione tra il loro Dna e quello ricavato dalle tracce biologiche lasciate sull’auto della ragazza e del suo fidanzato, che era stato picchiato e legato nel bagagliaio della macchina.
politica
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L’Intervista. Parla la candidata alla Regione Lazio del Pdl: «Parte dal programma l’accordo che ho siglato con i centristi»
«Ricomincio dalla famiglia» Renata Polverini: «Dalla sanità ai trasporti, il mio modello sarà la Lombardia» di Francesco Capozza
ROMA. Sono giorni di fuoco per Renata Polverini, candidata alla presidenza del Lazio con il sostegno di una coalizione amplissima che va da La Destra di Storace all’Udc. Quando ci parli, ti rendi conto di avere di fronte una donna calma, seria, preparata, con la risposta sempre pronta e senza lacune. Polverini viene definita una “novità” nel panorama della politica italiana e quando le si fa notare che è una delle poche persone capaci di attirare a sé consensi bipartisan non si scompone: «Io punto alla realizzazione del mio programma per il bene di una regione importante e me ne assumo la piena responsabilità di fronte ai cittadini». Due giorni fa ha siglato l’accordo elettorale con l’Udc. Casini e Cesa hanno però specificato che è un accordo “sulla persona” e non con il Pdl. Le farà piacere, immagino. Quanto affermato dal presidente Casini mi sembra coerente con la linea che fin dall’inizio aveva
reso nota in merito agli accordi per le prossime regionali: valutazione dei singoli candidati e dei loro programmi. Sull’apprezzamento personale che sia Casini sia Cesa hanno espresso per la mia persona non posso che essere molto gratificata. D’altronde con l’Udc abbiamo alle spalle un
zioni contrapposte. Non faccio fatica a credere che l’Udc sia più vicino alle mie che alle sue. Secondo alcuni sondaggisti però la Bonino è più conosciuta di lei. Questo la preoccupa? Certamente ha una storia personale nell’impegno pubblico
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Emma Bonino ha una storia nell’impegno pubblico molto più lunga e più conosciuta della mia, tuttavia credo che in una campagna elettorale come questa, siano più importanti i programmi lavoro comune, parlamentare e non, su molti temi, in particolar modo sul quoziente familiare. Pensa che a dare un’accelerata a questo accordo sia stata la probabile candidatura di Emma Bonino contro di lei? Stimo molto Emma, ma è fuori discussione che su molti temi, in particolare sulle questioni etiche e sulla vita abbiamo posi-
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molto più lunga e più conosciuta della mia, tuttavia credo che in una campagna elettorale come questa siano più importanti i programmi. Gli elettori in casi come questo scelgono il candidato che li rassicura di più per contenuti programmatici piuttosto che per notorietà. Della sua campagna elettorale si sa già molto. Un fatto che ha destato molta
curiosità è stata la scelta del suo staff, tra cui spicca l’ex dalemiano Velardi. Vede, si parla sempre di meritocrazia e professionalità ma poi troppo spesso si rispettano logiche diverse. Io per essere affiancata in questa campagna elettorale ho scelto le persone che giudico migliori. Dopo l’accordo con l’Udc non è mancato chi ha fat-
to notare l’estrema eterogeneità della coalizione che la appoggia. Da La Destra di Storace ai centristi di Casini, appunto. Ci aveva pensato? Certamente. Ma sia io sia i partiti che mi appoggiano corriamo per vincere e un accordo così ampio è stato possibile sulla base di una piattaforma programmatica condivisa da tutti.
L’analisi di Biagio De Giovanni sullo stato confusionale del Partito democratico
«Bersani spiazzato dalle regionali» di Riccardo Paradisi n partito travolto dalle circostanze. Ecco, in brutale sintesi, appare così il Partito democratico allo sguardo di chi osserva il suo procedere ondivago, privo di una precisa strategia politica, ostaggio dell’ipoteca dipietrista, lacerato dalle frizioni interne, in stato confusionale sul ring delle regionali. In Puglia e nel Lazio in particolare, regioni importanti, decisive, il Pd sta subendo gli eventi senza guidarli. Ma come ci sono finiti i democrats di Bersani in questo pericoloso labirinto? Dove s’è persa la sinistra italiana?
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Una domanda che viene naturale porre a Biagio de Giovanni che su questo tema ha scritto A tutta destra. Dove s’è persa la sinistra italiana (Marsilio). De Giovanni, filosofo della politica, inizia la sua analisi con liberal dal giudizio che ha maturato sulla segreteria Bersani, lui che bersaniano non è mai stato.
De Giovanni avrebbe preferito infatti l’idea di partito maggioritario che era di Franceschini all’ipotesi di una riedizione di alleanze vaste prefigurata dal nuovo segretario del Pd. Eppure, dice de Giovanni, «avevo apprezzato qualche cosa della prima parte della gestione Bersani, quella sua intenzione sincera di mettere un freno all’influenza dell’ala dipietrista del Pd e avevo sperato che quegli accenni alla possibilità di riforme condivise fossero davvero il movimento preliminare all’apertura concreta di un confronto politico serio sulle riforme da fare per superare lo stallo del Paese. Avevo anche apprezzato lo sforzo di elaborazione di un’identità centrata sulla tradizione ma capace di pragmatismo. Ora invece sono particolarmente colpito dalla debolezza che la sua direzione sta dimostrando». Il Pd è travolto dalle circostanze che si verificano di regione in regione, asso-
miglia a un pugile suonato a bordo ring. Il caso del Lazio appare a De Giovanni il più emblematico: «Dopo tutto quello che è accaduto con il caso Marrazzo il Pd aveva bisogno di dare al proprio elettorato l’impressione di una volontà di rinnovamento chiara con una politica di alleanze definita. Non so come andrà a finire, ma se verrà scelta la candidatura di Emma Bonino, come ormai appare inevitabile, significherà sancire una propria impotenza. Perché è evidente che per il Pd Emma Bonino rappresenta una candidatura inevitabile. Sarebbe stato diverso se il Pd avesse preso l’iniziativa, invece questa candidatura, forte e autorevole, il Pd l’ha subita per assenza di altri candidati dopo avere peraltro cincischiato con archeologici mandati esplorativi e ora rischiando di infilarsi in quel pasticciaccio brutto che sono le primarie». A proposito di primarie, secondo De Giovanni andrebbero semplicemente
abolite: «Sono state foriere solo di confusioni e di disastri». Insomma da questa partita pre-regionali l’immagine del segretario del Pd appare molto indebolita: «dà l’impressione di un segretario incapace di guidare gli eventi, di gestire le circostanze. Voglio vedere il Pd tornare indietro sulla Bonino ora nel Lazio. Dopo che l’Udc ha scelto, dopo
politica
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So bene che mi candido a gestire un bilancio che fa spavento, ma non accuso chi mi ha preceduto, piuttosto preferisco farmene carico in prima persona. Io, come tutta la classe dirigente che mi appoggia in questa campagna. Alla sanità guardo con grande attenzione, tant’è che ho già messo in piedi un comitato tecnico-scientifico di altissimo livello che mi aiuterà a rispettare il programma che ci siamo posti. È quella che io chiamo la “grande rivoluzione” della sanità regionale. Il mio obiettivo è quello di eliminare quel divario tra i cittadini che si curano in strutture private e quelli che, non avendone la possibilità, non hanno altra scelta che andare in quelle pubbliche. Voglio portare gli ospedali al livello delle cliniche private perché non accetto che ci siano cittadini di serie A e cittadini di serie B. Per far questo guardo anche alle altre esperienze regionali, come per esempio agli otti-
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servizi più efficienti, di una pubblica sicurezza più presente sul territorio. Trasporto pubblico: un’altra nota dolente. E i cittadini, specialmente a Roma, se ne lamentano molto. Lo so benissimo, ed è per questo che abbiamo pensato di investire molto sul potenziamento dei trasporti. Solo chi ha fatto il pendolare, chi ha dei figli che vanno a scuola con i mezzi pubblici o chi ci va a lavoro può sapere quali siano - e sono tanti - i difetti della rete di trasporto pubblico. Ho dato uno sguardo ai bilanci del Lazio e di altre regioni: qui fino ad oggi si è investito lo 0,13% dell’intero bilancio regionale, altrove si è superato lo 0,50%. Credo si possa raggiungere quei livelli senza alcun problema. Il ministro Gelmini vuole mettere un tetto del 30% alle presenze di extracomunitari nelle classi. Questo mi dà lo spunto per
Mi candido a gestire un deficit sanitario che fa spavento, ma non accuso chi mi ha preceduto, piuttosto preferisco farmene carico in prima persona. Come tutta la classe dirigente che mi appoggia
Più forze ci sono in campo e su maggiori apporti positivi può contare la campagna elettorale. Dottoressa, lei si candida a gestire un’eredità molto pesante e controversa. L’ex governatore Marrazzo non ha lasciato piazzale dei Navigatori sotto una buona luce, coinvolgendo oltre a sé anche l’istituzione. Cosa farà per riconquista-
re la fiducia dei cittadini? Voglio parlare di cose concrete, c’è un’istituzione da riavvicinare ai cittadini. Non commento le vicende di cui siamo stati informati dai media nei mesi scorsi, ma guardo all’oggettiva lontananza che oggi c’è tra la gente e l’amministrazione regionale. Per fare questo ho deciso di fare una campagna elettorale tutta incentrata sul terri-
che il centrodestra ha lanciato una candidatura importante, di alto profilo come quella di Renata Polverini». E d’altra parte è stato un errore clamoroso arrivare così tardi all’appuntamento con la candidatura: «Bersani ha addirittura detto che di tempo ce n’è fino a febbraio per decidere con calma. Una sciocchezza grande come una casa la candidatura del Pd doveva essere pronta da dicembre».
Ecco il Pd paga il prezzo salato di un’assenza di iniziativa politica. Anche la situazione pugliese è stata gestita in modo disastroso: «Anche qui il Pd si è infilato in un vicolo cieco. Le primarie le stravince di nuovo Vendola e del resto su Boccia si è puntato troppo tardi, come una specie di candidato di ripiego». Il Pd non è un partito unitario. È un partito nato male. L’amalgama tra componenti socialista e cattolica non è riuscita, sostiene de Giovanni nel suo libro. «Si sono messi insieme i resti di due culture di innovazione che non possono essere la ricetta per il domani: pezzi di sinistra Dc e di postcomunisti nell’assenza di cattolici liberali e di liberal-socialisti. Il Pd risulta così la sintesi degli aspetti più conservatori della politica italiana.
torio: voglio incontrare la gente, ascoltarla, apprezzarne le proposte e registrarne le richieste. Il mio obiettivo è riconquistarne la fiducia. L’eredità che lei vuol gestire è gravosa anche in termini di conti: si dice ci sia un buco enorme nella sanità, per esempio. Qual è il suo progetto per risanare il deficit?
Non mi ha mai sorpreso dunque il fallimento del Pd. Non è un caso che continui a vincere un centrodestra che prometteva innovazione, si rivolge a ceti prodduttivi del nord, entra nei ceti produttivi del centro, ha dato alla plebe meridionale l’idea o il miraggio di un riscatto alla luce di un criterio innovativo. Nel centrosinistra si è continuata a sancire l’intocccabilità di tutto: dalla Costituzione alle politiche economiche. La realtà è che la sinistra non riesce a ripensare il proprio ruolo nella storia d’Italia dopo la crisi epocale degli anni Novanta, e si è dotato di un identità declinabile in tre quattro punti, per il
mi risultati conseguiti in tal senso in Lombardia. Cosa farà per la famiglia, il punto che le ha fatto conquistare l’appoggio dei cattolici? Innanzi tutto voglio trasportare il quoziente familiare su base regionale. Ma poi tutto ruota attorno alla famiglia, quindi anche il potenziamento del trasporto pubblico, la garanzia di
dership. Bersani ha vinto qualche mese fa ma appena dice qualcosa si scatena l’ira dei franceschiniani. Veltroni dice che non ci si può sedere a un tavolo di riforme condivise con il centrodestra, lui che era il capo della tesi del riconoscimento reciproco».
Casini individua nella Puglia il possibile laboratorio per la nascita di una sinistra riformista. Dove si vedrà – dice il leader dell’Udc – se il Pd sarà capace di essere autonomo dalle spinte massimaliste. «È da molto tempo che sento dire che la Puglia è il laboratorio di una novità. Ma per parlare di un
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se si chiudesse la candidatura della Poli Bortone altro che contraddizioni. Il Pdl è tutt’altro che un partito di plastica, sta individuando candidature serie ovunque: Scopellitti in calabria, Poli Bortone in Puglia, Polverina nel Lazio per dire delle regioni più in discussione». Anche sulle alleanze il Pdl secondo De Giovannni è in una posizione migliore del Pd: «Si può pensare quello che si vuole sulla Lega ma la Lega è un grande elemento di innovazione della politica italiana, con un radicamento impressionante. L’Idv di Di Pietro è l’invadenza della giustizia sulla politica, un residuo degli anni Novanta».
Se verrà confermata la candidatura di Emma Bonino, come ormai appare inevitabile, per la nuova segreteria del Pd significherà sancire la propria impotenza riguardo la guida dei processi decisionali e politici blocco alternativo di sinistra è impossibile declinare qualcosa. È difficile individuare un’ identità. Per questo quella della destra è un’egemonia di lunga durata». Queste sono le ragioni di fondo della debolezza del Pd, le ragioni politiche De Giovanni le spiega col fattore della divisione interna che produce una continua emorragia di forza nella lea-
laboratorio politico non è sufficiente il fatto che c’è stato un confronto tra Casini e D’Alema. Questo può essere il punto di partenza di una riflessione ma non si riesce bene a capire quali sono gli elementi veri. La messa in angolo di Vendola? Ma Vendola era stato a sua volta un’eccezione. Si parla di contraddizioni del centrodestra? Ma
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chiederle cosa farà, se dovesse vincere le elezioni, per l’immigrazione. L’immigrazione regolare è una risorsa su cui dobbiamo investire. Il nostro è un Paese di accoglienza e sono certa che mettendo in campo servizi e percorsi formativi per gli stranieri che vogliono realmente integrarsi, si otterranno risultati positivi sia per noi che per loro.
A De Giovanni non convince troppo nemmeno la prospettiva del superamento del bipolarismo: «Il bipolarismo italiano – un bipolarismo maldestro e aggressivo – non si spezza con un ritorno al proporzionale: il rischio è quello di una regressione. Certo c’è l’argomento serio delle ali estreme e riconosco a Casini il merito di fare un preciso ragionamento politico. Ma in assenza di partiti veri un ritorno al proporzionale potrebbe rivitalizzare il vizio partitocratico della politica italiana».
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panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Quell’Italia che ignora la propria storia oglio rendere omaggio a uno studioso della mia terra - il Sannio - che è morto giorni fa. Ma lo voglio fare a modo mio. Si chiamava Werner Johannowsky. Chi era costui? Non è un arbitrio usare la celebre formula retorica manzoniana sostituendo Carneade con il nome importante eppur non molto conosciuto dell’archeologo che dedicò una vita ai Sanniti. Il suo nome fa pensare alla Polonia e all’Europa dell’est e, invece, era italiano e napoletano. Tuttavia, si potrebbe fare lo stesso “gioco” con altri nomi. Uno a caso. E. T. Salmon, chi era costui? A parte la ristrettissima cerchia di studiosi e appassionati, c’è qualcuno che sappia rispondere non in trenta secondi, ma in cinque minuti (senza utilizzare Google)? Ne nasce un apparentemente falso problema: i maggiori studiosi del Sannio e dei Sanniti non sono italiani. Perché?
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Papa Ratzinger promuove Paolucci Allo storico dell’arte la tutela dei monumenti artistici vaticani
E.T. Salmon è l’autore del fondamentale libro Il Sannio e i Sanniti, uscito da Einaudi nell’ormai lontano 1967. Nella prefazione a quell’appassionante saggio, lo studioso canadese esordiva così: «Sono trascorsi quasi cinquant’anni da quando Ulrich von Wilamowitz affermava che era assolutamente necessario uno studio dei popoli italiaci». Questa necessità che un filologo e storico non italiano come Wilamowitz avvertiva è stata in parte affrontata. Da chi? Da studiosi in larga parte di lingua anglosassone. Infatti, lo stesso Salmon già rispondeva citando alcuni testi e autori: Roman Revolution di Ronald Syme; Roman Citizenship di Adrian Nicholas Sherwin-White; Hannibal’s Legacy di Arnold J. Toynbee. Dunque, è un fatto: la conoscenza dell’Italia non romana - ma si potrebbe parlare anche di quella romana - si deve ad autori non italiani e il fatto che Werner Johannowsky fosse italiano ma avesse nome e cognome polacchi è una ironia o addirittura una presa in giro della sorte.
na buona notizia (e un po’ di rincrescimento, per la nostra disastrata Italia). Il Vaticano comunica che Antonio Paolucci, valente storico dell’arte e già direttore dei Musei Vaticani, è stato chiamato dal Papa a presiedere la tutela dei monumenti storici e artistici della Santa Sede, in sostituzione del Cardinal Francesco Marchisano, che nel luglio aveva rinunciato al suo incarico, per raggiunti limiti di età. A dimostrazione, da un lato, che ilVaticano riesce ancora a resistere alla tentazione delle soluzioni “politiche” interne, scegliendo un laico esperto, e non necessariamente un prelato, per la difesa del suo patrimonio monumentale. Mentre ancora una volta l’Italia (volendo sottolineare questa distinzione di libera Chiesa in libero Stato) dimostra tristemente d’aver perduto nel tempo un’occasione rara, d’avvalersi d’una preziosa competenza nel campo della civica amministrazione delle cose dell’arte, regalando ad un “concorrente” astuto e ben“armato”, come ilVaticano, una personalità completa quale il nostro “ex” “soprintendente-ministro”. Così, come, con umiltà non celebrativa, si racconta, nella sua viva autobiografia, uscita da Sillabe nel ’96, intitolata appunto Museo Italia. Diario di un soprindente-ministro, prima la funzione vera, poi la carica ufficiale. Perché più che un cerimonioso diplomatico della politica, Paolucci è stato un ottimo esperto della materia.
Naturalmente, ci sono delle importanti eccezioni, ma l’eccezione - come si sa - serve a confermare la regola. Come se all’Italia - non ai singoli studiosi - importasse molto poco dei popoli che fecero l’Italia prima dell’Italia o che abitarono l’Italia quando l’Italia non c’era. Dipenderà anche da questa “italica smemoratezza” se i nostri importanti siti archeologici sono più un fastidio che una risorsa. Deve dipendere senz’altro da questa lacuna della nostra memoria nazionale se gli italiani, tra gli europei, sono i più ignoranti non solo in matematica e in inglese - come spesso ci dicono indagini e ricerche Pisa - ma anche in storia e in particolare sanno poco o nulla della loro storia vicina e lontana. Siccome siamo italiani ci sentiamo quasi in diritto di non conoscere la nostra storia e persino la nostra geografia. Non è forse tutta italiana la strana figura dello studioso a volte noto, ma più spesso ignoto ai più e conosciuto soltanto localmente? Come Werner Johannowsky morto a 84 anni tra i suoi amati libri.
Elemento o quisquiglia che, come si sa, alla nostra Italia politicizzata non interessa, tanto è vero che dopo quella fulminea apparizione come ministro nel governo Dini, è stato posto a riposo nel 2006, per sopraggiunti limiti di età! Ed è significativo che, dopo una non protratta trattativa, abbia perduto la sua battaglia, come ipotetico supervisore della situazione museale italiana, nei confronti del discusso ex-manager della Cirio e Macdonald, oggi insediato nel suo ruolo, quale“responsabile della gestione e dello sviluppo”dell’industria museale italiana, secondo la formula“vincente”del giacimento da sfruttare o mungere (più che non da conservare o incrementare). Leggiamo dal sito del Ministero: «Occorreva pertanto una figura che ritenesse centrale di valorizzare il ruolo dei beni artistici per quello che riguarda la promozione del pae-
di Marco Vallora
U
se, in una visione più strategica del marketing, piuttoso che un tecnico estremo ma non proiettato sull’esterno del sistema».
Definizione che come si evince calza a pennello per il nostro “estremista”non esterno (?) Paolucci, avocatoci appunto dal Papa. Nulla di“estremo”, in questo ex-allievo di Longhi, nato nel ’36, che alla posizione rischiosa di epigono di quella scrittura ineguagliabile, ha preferito una concisione invidiabile di stile nel penetrare la religiosità dell’arte e una concretezza, forse non manageriale ma quasi “anglosassone”, nell’amministrazione dei beni culurali e nello“sfuttamento”intellettuale delle opere d’arte. Con saggi, mostre e acquisti significativi di opere d’arte badando alla collettività. Un “giacimento petrolifero” lui stesso, di sapienza intellettuale e di capacità di comunicarla e spiegarla, come ben sa dimostrare in purtroppo sporadici interventi sui mezzi di comunicazione radio-televisivi. Ma come è noto la Rai preferisce, per queste urgenze, modalità di racconto assai più narcisistiche e jazzate, estroverse e spettacolari. Eppure basta ascoltare anche solo una volta la sua capacità d’eloquio e di sintesi, per capire quale straordinario comunicatore mediatico d’arte potrebbe essere. Ma è inutile parlarne come d’un “perduto”dell’Italia, un cervello in fuga. Perché per fortuna Paolucci, con la sua invenzione delle mostre (basterebbe ricordare le sue ultime, da Marco Palmezzano a Canova), la saggia amministrazione vaticana delle opere da prestare nelle occasioni più mediatiche, e la sua attentissima attività di saggista e di giornalista(Sole24ore e Avvenire), rimarrà presente comunque nel nostro tessuto nazionale. Magari con le sue monografie, spesso dedicate al mondo del restauro oppure ad alcuni monumenti del Rinascimento, come il Battistero di Firenze oppure Michelangelo o Piero della Francesca. Toscano sì, nelle corde (è stato insignito anche del prestigioso premio dell’Accademia del Disegno fiorentino ed è stato un non dimenticabile Soprintendente ai musei della città) ma non possiamo dimenticare la sua origine riminese, la dolce Rimini della pittura giottesca periferica, che piaceva anche al suo maestro Longhi e che risuona nella delicatezza del suo eloquio pacato, rotondo. Dimostrazione che l’arte italiana non è solo centralismo burocratico, ma anche tenace vittoria delle realtà satellitari, eccentriche.
Già direttore dei Musei della Santa sede, sostituirà il Cardinal Francesco Marchisano
panorama
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«Nessuno cerchi di sfuggire alle proprie responsabilità: enti centrali o locali, elettori che hanno scelto amministratori incapaci»
Bertolaso, un addio al vetriolo Commiato polemico dalla Campania del direttore della Protezione civile di Lucio Rossi
NAPOLI. «Che nessuno cerchi di addossare ad altri colpe e responsabilità di una delle peggiori pagine della nostra storia moderna. I cittadini campani sono stati le prime vittime di tale catastrofe ma è anche vero che nessuno può considerarsi del tutto estraneo a quel che è accaduto. Nessuno lo è, né gli enti centrali, né gli enti locali, né tanto meno coloro i quali, in questi 15 anni passati, nel segreto dell’urna hanno scelto quelli che tale emergenza non sono stati capace di risolvere». Questo il commiato (al vetriolo) di Guido Bertolaso alla Campania affidata a una lettera pubblicata dal Mattino nei giorni in cui termina, per decreto legge, lo stato di emergenza in una regione ancora alle prese con il difficile sudoku delle candidature al dopo-Bassolino.
ridurre i trasferimenti dallo Stato fino alla concorrenza di quanto dovuto.
Poi c’è il nodo della tassa sui rifiuti che, per decreto, passa alle province nonostante la protesta dei comuni toccati direttamente nelle tasche ma che nel caso dovessero rifiutare il nuovo regime rischiano misure drastiche come la rimozione. Sorte toccata, per altre ragioni, a due amministrazioni comunali, quelle di Casal Di Principe e Castelvolturno sciolti dal ministro del-
l’Interno, su richiesta di Bertolaso, per gravi e reiterate inadempienze nella gestione dei rifiuti. Tremano anche altri comuni finiti nella versione allargata della lista nera del sottosegretario che ha suscitato più di un maldipancia tra i parlamentari di maggioranza e opposizione eletti in Campania che dalla prossima settimana avranno sottomano il decreto varato prima della pausa natalizia dal Consiglio dei ministri. A Bertolaso non verranno fatti sconti, nonostante la soluzione di un’emergenza lunga un’intera stagione politica, la rimozione da giugno 2008 di quasi 4 milioni di tonnellate di rifiuti, l’apertura di nuove discariche che consentono alla regione un’autonomia di media durata e la costruzione di un termovalorizzatore che potrà inghiottire 600mila tonnellate di rifiuti all’anno, quasi un quarto della produzione regionale.
Le manifestazIoni contro le discariche non sono finite: infatti 250 militari resteranno a presidiare i siti
Un’accusa esplicita alla classe dirigente locale (oltre che ai cittadini che l’hanno scelta) che aveva chiesto a Bertolaso di accordare un’ulteriore proroga (l’ennesima) dell’emergenza e che – incassato un “no” secco – in queste ore è alle prese con una resa dei conti letterale. Come quella sui debiti prodotti da 15 anni di emergenza che una struttura stralcio del sottosegretario, che rimarrà in Campania per tutto il 2010, dovrà certificare. Il nodo dei debiti è fondamentale per il consenso elettorale della amministrazioni locali morose che si vedranno
Nel mirino il saldo che dovrà essere corrisposto a Impregilo per l’impianto che verrà pagato con fondi Fas nazionali o regionali, il già citato ridimensionamento dei comuni, ma anche il nuovo ruolo delle province a cui spetta un compito difficile: il presidente della provincia di Napoli, Luigi Cesaro, ha fatto sapere di non voler firmare cambiali in bianco e che, a fronte delle nuove responsabilità, chiederà almeno la modifica del patto di stabi-
lità. Il perché è presto detto: la sola questione dei lavoratori del settore dei rifiuti che sono confluiti nella mega società consortile provinciale che abbraccia in un unico corpaccione Napoli e Caserta investe in tutto oltre duemila persone di cui 700 destinate agli esuberi con gli ammortizzatori sociali.
Insomma tutti scontenti. O quasi: il presidente della provincia di Salerno per esempio si è visto attribuire tutte le competenze sulla costruzione del termovalorizzatore della città. Progetto a cui era affezionato “il sindaco del fare” Vincenzo De Luca che era stato nominato addirittura commissario ad hoc per la realizzazione dell’opera e che non potrà annoverare questa ulteriore conquista per la città in vista di una sua possibile candidatura alla regione Campania. E le proteste? Quelle contro le discariche ci sono ancora e non a caso per tutto il 2010 è stata autorizzata la permanenza in Campania di un contingente di 250 uomini dell’esercito per presidiare i siti esistenti. Ma nessuno è pronto a scommettere che fin d’ora le amministrazioni locali saranno in grado di gestire la programmazione degli invasi: pare in questo senso significativa del clima rilassato del post emergenza l’ultima conferenza dei servizi prima della fine dell’anno che ha depennato la realizzazione della discarica di Terzigno per la quale si erano registrate proteste tutt’altro che clamorose.
Commercio. Record di esportazioni per le aziende di Pechino: battuta anche la Germania
Il trionfo del Made in China di Alessandro D’Amato n piena crisi è arrivato il sorpasso. La Cina supera la Germania nel ruolo di maggiore esportatrice mondiale, e a renderlo noto è un testimone insospettabile di partigianeria nei confronti del paese della Grande Muraglia: l’ufficio di statistica tedesco. Nei primi 11 mesi del 2009 da gennaio a novembre, le esportazioni cinesi hanno raggiunto un totale di 748 miliardi di euro (1.070 miliardi di dollari), mentre quelle tedesche si sono attestate a 734,6 miliardi (1.050 miliardi di dollari). È dal 2003 che la Germania guidava la classifica degli esportatori globali. Per i tedeschi c’è comunque ben poco da rammaricarsi, visto che anche con la crisi continuano a crescere.
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A novembre il surplus commerciale tedesco è salito a 17,2 miliardi di euro, ai massimi da 17 mesi, dai 13,6 miliardi di euro di ottobre. L’export è aumentato dell’1,6% mensile e del 12% annuale a 70,6 miliardi di euro e l’import cala del 5,9% mensile a
53,4 miliardi di euro. Per la Cina, invece, continua il periodo dei sorpassi. Dall’inizio delle riforme economiche alla fine del 1978, l’ha portata oggi a superare il prodotto interno lordo (Pil) giapponese, mettendo di fatto fine a circa un secolo di primato economico e politico del paese del Sol Levante in Asia. Nel 2009, grazie allo sviluppo del suo Pil probabilmente oltre il 9% in
Il gigante asiatico ormai è al vertice mondiale del commercio: un record che ripropone il nodo della sottovalutazione dello yuan contrasto con la recessione altrui, la Cina avrà prodotto circa la metà della crescita economica globale. Infine, ci sono i dati delle riserve monetarie, prime in assoluto. Agli oltre 2.150 miliardi di dollari di riserve di Pechino vanno sommati i circa 500 miliardi di riserve di Hong Kong. Il totale
complessivo è di circa 2.700 miliardi, che ne fanno il maggiore creditore al mondo, e il più grande acquirente di debito americano. Ecco quindi che torna a farsi preponderante la questione del cambio.
La sottovalutazione dello yuan è una questione «tecnicamente difficile» e resta da provare, ha detto proprio ieri il direttore generale della Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in un’intervista a France Culture, sottolineando la necessità di esaminare la questione sul lungo termine e ritenendo comunque preferibile, in termini generali, per l’Europa «avere una moneta forte piuttosto che una moneta debole», nella misura è estremamente dipendente dalle importazioni di energia. La richiesta più pressante sembra quindi destinata a non essere soddisfatta, o ad esserlo solo in parte.
il paginone
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n cima alle preoccupazioni di Obama è tornato il terrorismo. E, subito dopo, viene Guantamano. I seguaci di bin Laden nello Yemen – al momento fra i più pericolosi – sono stati reclutati, armati e addestrati da due uomini usciti nel 2007 dal supercarcere che il neopresidente aveva promesso di chiudere rapidamente. Adesso, negli Usa, il consenso a questa proposta, accolta in campagna elettorale con entusiasmo, va scemando. Ormai in tanti cominciano a pensare che l’idea di Bush di tenere i terroristi in quell’inferno cubano sarà pur stata criticabile (e lo è), ma era sicuramente un modo per non far girare per il mondo qualche centinaio di attentatori pronti a tutto. Insomma, il tentativo di far saltare l’aereo per Detroit ha avuto come prima conseguenza quella di restituire lunga vita a Guantanamo. Del resto, già da prima, gli americani stavano riflettendo criticamente sull’eventualità della chiusura.
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Obama si era dato molto da fare e aveva cercato luoghi diversi dove piazzare i terroristi: aveva anche pensato ad una prigione ad hoc nei pressi di Chicago, dove gioca in casa. Ma adesso, nemmeno a parlarne. Nessuno vuol far girare li-
ferisce parlarne a bassa voce. Per non dire di mezzo partito democratico che Guantanamo preferirebbe tenerlo aperto ancora a lungo. Pressioni che hanno fatto muovere Obama con grande cautela in materia di rilascio dei prigionieri: ne ha fatti uscire in tutto solo 44, mentre ne restano dentro 198, di cui metà yemeniti.
Obama aveva promesso di sbarazzarsi del supercarcere entro il 2
Insomma, sembrava che la grana più grossa per il neopresidente fosse riuscire a far passare la riforma sanitaria e invece si è dimostrata poca cosa rispetto alla nuova impennata terroristica e alla questione Guantanamo. I radical americani, dopo questo lungo stop alla chiusura, potrebbero mollare definitivamente Obama che ormai paragonano a Bush, considerato da questi signori peggio della peste. Ma perchè il carcere cubano è diventato tanto importante? Che cosa rappresenta per i garantisti di tutto il mondo e in particolare per quelli americani? Quali i motivi di polemica e di scontro? Innazitutto, la denuncia di reiterate torture sui prigionieri per scioglier loro la lingua. Per fargli raccontare chi organizza gli attentati, dove sono nascosti Osama bin Laden e altri capi di al Qaeda, per svelare, insomma, gli inquietanti
Il re Guanta
Alla fine del secondo mandato di Bush, la maggioranza degli americani era favorevole alla chiusura di “Gitmo”. Dopo gli ultimi allarmi terroristici, però, la corrente sembra cambiata beramente gente tanto pericolosa. Intanto il giorno fatidico si avvicina: il presidente infatti aveva promesso che avrebbe messo i sigilli al supercarcere cubano entro il 22 gennaio del 2010. Alla Casa Bianca non si fa più cenno a quella data e già circola la voce che – se si farà – la chiusura non avverrà prima di metà del 2011. Ma nessuno promette più niente e si pre-
piani del terrorismo internazionale. Si è, a partire dal 2008, lungamente parlato di “waterboarding” e si è discusso se potesse essere considerata una tortura vera e propria o un comportamento “border line”. Lo scrittore britannico Christopher Hitchens aveva definito in un suo articolo questa pratica come “interrogatorio estremo”. Contro di lui erano insorti liberal e radical di tutti i tipi, ma anche seri conservatori garantisti. A questo punto ha deciso di sottoporsi al trattamento per comprendere bene, a sue spese di cosa si trattasse. Fatto l’esperimento, ha rivisto il suo giudizio: «Credetemi – ha detto – mi sono sbagliato, quella è una vera e propria tortura». E in effetti il “water boarding” è proprio una brutta faccenda: ti mettono acqua in bocca e nelle narici, ti tolgono cioè completamente la capacità di respirare. In queste condizioni ti interrogano, quando sei disposto a
Volevano chiuderlo, ora hanno cambiato idea: perché gli Usa non riescono a uscire dal pantano di Gabriella Mecucci rispondere, ti consentono di prendere fiato. La sensazione è terribile, ti senti affogare, all’ultimo momento gli addetti ti salvano.Ti tolgono l’acqua e non ti lasciano morire. Ma non è questa la sola tortura di cui si è parlato. Il New York Times ha riportato le testimonianze di agenti di custodia al supercarcere e di prigioneri che fanno accapponare la pelle.
Alcune persone in servizio a Guantanamo hanno raccontato ad esempio che chi non collaborava durante gli interrogatori, veniva spogliato, lasciato in mutande, fatto sedere su una sedia con una mano e un piede fissati con una catena al pavimento, costretti ad ascoltare musica rock a volume altissimo, da spaccarti i timpani, con l’aria condizionata al massimo che rendeva il luogo freddo. Secondo fonti militari, che il New York Times sosteneva di aver interpellato, questa tecnica creava un profondo malessere nel detenuto, abituato alle
alte temperature sia in cella che nel suo Paese d’origine. Una tale procedura poteva durare sino a 14 ore.
Brutte storie queste, difficili da digerire, anche se occorre riconoscere che riuscire a strappare una confessione potrebbe significare prevenire un attentato, e magari salvare la vita a centinaia di vittime designate. È doveroso poi tener conto che queste tecniche di interrogatorio non sono state usate in modo generalizzato, ma concentrate su un gruppo di prigionieri che venivano chiamati “la sporca trentina”, gente che aveva notizie - secondo l’intelligence – sulle attività terroristiche di al Qaeda. Eppure, la faccenda ha scosso ad un certo punto la coscienza degli americani. Amnesty International ha riferito, nel suo rapporto del 2006, anche di violenze fisiche. Nel supercarcere – sempre secondo l’organizzazione – si sono verificati numerosi suicidi e molti scioperi del-
la fame di protesta contro i maltrattamenti. I detenuti non sanno nulla della loro sorte: vengono spostati da un luogo all’altro senza processo e senza sapere nulla del loro destino. Stanno dentro gabbie, all’aperto, con le manette ai polsi e alle gambe. Si racconta anche delle loro reazioni. È successo che abbiano tirato manciate di escrementi contro gli agenti di guardia e che queste abbiano organizzato brutti dispetti contro i prigionieri. Le famiglie di questi non sanno nulla: non possono vederli. I loro congiunti sono per loro letteralmente spariti: le notizie filtrano col contagocce. Colpì la lettera inviata da un bambino inglese a Blair per avere qualche informazione di suo padre. Il premier però non rispose.
Molte delle cose che accadono all’interno di Guantanamo rappresentano indubitabilmente una violazione della convenzione di Ginevra sui prigionieri. Nonostante la ripulsa per la tor-
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22 gennaio 2010. Ma l’opinione pubblica lo ha costretto a frenare
ebus anamo tura, però, la “guerra” scatenata da Al Qaeda fa dire a molti americani – oggi più che mai i commentatori lo scrivono – che occorrerebbe lasciare una “maggior margine di manovra”. Insomma, chiudere almeno mezzo occhio sulla convenzione di Ginevra che il generale Alberto R. Gonzales, consigliere della Casa Bianca all’epoca di Bush, in un suo memorandum ha definito “antiquata”. In sostanza, negli Stati Uniti ad un certo momento si è aperto il dibattito se accettare – pur con mille distinguo – alcune forme di tortura nella lotta contro il
terrorismo: tortura, ovviamente, usata su gruppi molto ristretti e pericolosi, e in situazioni del tutto speciali. Un dibattito tanto delicato per quanto terribile, ma che ha avuto il pregio di squarciare il velo dell’ipocrisia.
Un altro punto – forse il più importante dal punto di vista teorico – che numerosi giuristi hanno sollevato per Guantanamo è il riconoscimento dell’“habeas corpus”. Questa è una formulazione, considerata fondante in tutte le democrazie, alla quale il diritto anglosassone tiene in modo partico-
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Quale? Molti – il Pentagono lo sapeva – erano terroristi, ma non esistevano prove. Quindi, nel rispetto dell’“habeas corpus”, dovevano essere rilasciati e rimpatriati nei loro rispettivi paesi. Ma se ciò accadeva, era largamente probabile che almeno una parte dei prigionieri riprendessero loro attività di attentatori, come dimostra la recente vicenda dello Yemen. Un problema quasi irresolubile. Bush rilasciò circa 500 prigionieri di Guantanamo, ma ne trattenne 250. Per questo gli Usa vennero accusati di infliggere un vulnus irrecuperabile al diritto. E questo è assolutamente vero. Ma è altrettanto assolutamente vero che l’uomo messo in libertà nel 2007
Già prima del fallito attentato sull’aereo per Detroit, gli Stati Uniti stavano riflettendo criticamente sul problema. E adesso la Casa Bianca deve affrontare la rivolta della sinistra “radical”
lare. Di cosa si tratta? Del fatto che una persona non può essere tenuta agli arresti senza che – entro un ragionevole lasso di tempo – venga portata davanti ad un giudice e gli venga comunicato il suo capo d’imputazione. Ed è proprio questo il difficile. A Guantanamo all’inizio c’erano molti detenuti, catturati durante il conflitto in Iraq e in Afghanistan, terminate le operazioni belliche in questi due paesi, essi perdevano la qualifica di “prigionieri di guerra” e quindi occorreva formulare contro di loro un qualche capo d’imputazione.
ha addestrato l’attentatore nigeriano di Natale e altri ne sta preparando. Un bel rompicapo che gli Usa sperarono di risolvere cambiando la definizione dei detenuti del supercarcere da “prigionieri di guerra” a “combattenti nemici illegali”. Una nuova forma giuridica che dava la possibilità di aggirare l’“habeas corpus”e che consentiva di destinarli in carceri speciali, di prevedere tribunali speciali, leggi speciali, procedure speciali, tutte e sotto il controllo dell’esecutivo. Ma anche questa definizione è stata pesantemente criticata e soprattutto sconfessata da più di una sentenza della Corte Suprema americana. La strada diveniva sempre più stretta dal punto di vista della legalità, ma i problemi di sicurezza restavano tutti in piedi. Diveniva sempre più forte – verso la fine del mandato di Bush – la corrente d’opinione che non voleva rendere illiberali le proprie istituzioni, anche se la ragione di tale deriva aveva come ragione la difesa dagli attentati terroristici.
Dopo la vittoria di Obama, gli States – a partire dal marzo del 2009 – hanno cancellato la definizione di “combattenti nemici”che tanto era stata osteggiata, e hanno assicurato che Guantanamo sarebbe stata sigillata entro il 22 gennaio. Ironia della sorte, quando la “baia dei dannati” stava per essere definitivamente chiusa, sono accaduti alcuni fatti che hanno di nuovo profondamente mutato l’orientamento dell’opinione pubblica americana. Obama si è fermato e nessuno, o comunque pochi, a livello internazionale, almeno per il momento, hanno pensato di attaccarlo per questo. È finito invece nel mirino dei radical di casa sua che ormai lo considerano un uomo di destra, una sorta di Bush meno chiaro e meno “tosto”. Ormai la chiamano “la maledizione di Guantanamo”. Eppure il problema esiste ed è serio. E non sarà la faciloneria antiamericana, che già sta scaldando i motori in mezzo mondo, a risolverlo.
mondo
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L’intervista. Lo scrittore israeliano, a Sofia per presentare la sua nuova opera, traccia la linea per il Medioriente
Lo Stato di Oz «È arrivato il momento di dividere la terra e dare un Paese ai palestinesi» di Francesco Martino omanziere, saggista, giornalista, attivista politico. Amos Oz è uno degli intellettuali più influenti e stimati in Israele e uno dei nomi più noti sulla scena letteraria mondiale. Più volte candidato al premio Nobel, Oz è autore di romanzi di grande successo, tra cui Una storia di amore e di tenebra e Conoscere una donna e di saggi come Contro il fanatismo. Impegnato in prima persona nel dibattito sulla questione israelo-palestinese, Oz è da sempre un sostenitore della necessità di una soluzione di compromesso, ed è stato tra i primi a supportare l’idea della creazione di due stati separati, Israele e Palestina. A Sofia Oz ha presentato la traduzione in bulgaro del suo La vita fa rima con la morte, ed è stato ospite d’onore della Fiera del Libro, tenuta a dicembre nella capitale bulgara. Lei è per la prima volta in Bulgaria, ma ha dichiarato di averla già visitata più volte «nei miei sogni». Co-
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sa intendeva dire? Io sono cresciuto in un quartiere di Gerusalemme dove molti degli abitanti erano proprio ebrei provenienti dalla Bulgaria. La Bulgaria è per noi ebrei un posto particolare, e non dimenticheremo mai che grazie al governo, ma soprattutto al popolo bulgaro, gran parte della popolazione ebraica residente in questo paese venne salva-
Lei viene da una terra segnata dal conflitto, ed è stato uno dei primi e più convinti sostenitori della necessità di una soluzione di compromesso tra israeliani e palestinesi, con la creazione di due stati distinti. Crede che oggi ci siano le condizioni perché questo possa essere raggiunto?
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“Compromesso” non significa arrendersi o porgere l’altra guancia, ma riuscire a incontrare gli altri a mezza via. L’opposto del compromesso non è l’idealismo ma il fanatismo, ovvero la morte ta dall’Olocausto. Anche prima degli eventi della Seconda guerra mondiale, poi, la comunità ebraica godeva in Bulgaria di una condizione particolarmente positiva. In uno dei miei libri, Lo stesso mare, molti dei personaggi sono appunto ebrei provenienti dalla Bulgaria.
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Quando cominciammo a prospettare questa soluzione, non erano in molti a supportarla, né da una parte né dall’altra. Io credo però che oggi la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi siano pronti ad intraprendere questo passo. Non dico che siano entusiasti. Quando
e se saranno creati due Stati separati non ci saranno feste né danze per le strade. Ma sono convinto che ormai la consapevolezza che questa sia l’unica via d’uscita sia maggioritaria. È arrivata l’ora, per così dire, di dividere la casa in due appartamenti più piccoli. Quali sono gli ostacoli che i impediscono che questa strada venga percorsa? Userò una metafora presa dal mondo della medicina. Israeliani e palestinesi sono come un malato che si è ormai convinto che per guarire sia necessario sottoporsi ad un’operazione,
per quanto dolorosa questa possa essere. Il problema è che i medici che dovrebbero operare, e cioè le loro rispettive leadership, sono troppo paurose per entrare in sala operatoria. C’è poi il problema dei fanatici, che da entrambe le parti lottano affinché non si possa arrivare ad un compromesso. Compromesso è una parola che ricorre spesso nel suo discorso politico. Cosa significa per lei “compromesso”? Il concetto di compromesso non è particolarmente in voga, soprattutto tra i giovani ideali-
La guerra interna tra Hamas e Fatah ha messo nel mirino anche i giornalisti e i media in lingua araba
Quando la verità è la prima vittima di Pierre Chiartano n ogni conflitto la prima cosa a cui si deve rinunciare è la verità.Vale per le guerre, vale per il confronto tra Israele e i movimenti palestinesi. Ma funziona anche nello scontro tra Hamas e Fatah. Se dopo l’operazione Cast lead i miliziani di Hamas giravano per gli ospedali di Gaza per finire a colpi di Kalashnikov i membri di Fatah, accusati di aver fatto la spia per Tsahal, l’esercito israeliano che era entrato nella Striscia, cosa ci potevano aspettare fosse il trattamento verso chi cerca di fare della semplice informazione? L’apparato di sicurezza nel West Bank sembra voler marcare ogni giornalista sospettato di vicinanza con Hamas. Il diverso atteggiamento nella gestione dell’informazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e di Fatah in Cisgiordania e che quest’ultima garantisce una certa libertà ai giornalisti vicini al Movimento di resistenza islamico e si lascia coinvolgere nel dibattito dei media, anche di quelli stranieri. Le due fazioni cercano però di non farsi coinvolgere in polemiche dirette. Ricordiamo che nella tradizione mediorientale il nerbo di quello che potrebbe assomigliare a
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una libera stampa – altrimenti asservita o in divisa – è formato principalmente da giornalisti libanesi e palestinesi. Khalil Shahin, esperto di media ha affermato ha recentemente dichiarato sulle colonne di Asharq Alawsat (quotidiano il lingua araba moderato e conservatore, pubblicato a Londra e vicino alla famiglia saudita Aziz) che «è stato proprio il tentativo di utilizzare i media come strumento per diffamare e istigare le due parti in campo – Hamas e Fatah – a mettere a rischio la libera informazione».
La Commissione indipendente per i diritti umani ha dichiarato che le violazioni nei territori sono senza precedenti, riflettono la profonda divisioni fra islamisti e laici e ciò mette a rischio ogni libertà fondamentale. Il Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà Media (Mada) ha individuato 257 violazioni della libertà di stampa nei territori palestinesi nel 2008; 110 sarebbero state attuate dalle forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. I giornalisti sarebbero oggetto di arresti illegali e di vere persecuzioni, alcune testate non vengono pubbli-
cate e distribuite. In entrambi i campi diventa sempre più difficile trattare notizie su arresti di giornalisti e su casi di corruzione pubblica. Quattro mesi fa è stata chiusa la sede di Al Jazeera nel West Bank: aveva mandato in onda le accuse che, un leader di Fatah, Farouq al Qaddoumi, aveva mosso contro il presidente Mahmoud Abbas. Lo scorso anno, nei territori, sono stati arrestati 60 operatori dell’informazione. E lo scontro sui media è arrivato a un tale livello che gli apparati di sicurezza, sia di Hamas che di Fatah, vorrebbero orientare le idee di molti giornalisti. «Possiamo criticare il presidente Abbas, ma non possiamo parlare dei casi più gravi di corruzione… rischieremmo la vita» spiega Yahya Nafi, reporter per Watan TV e Radio Ajyal. E dopo poco scatta il fenomeno «dell’auto-censura», come sottolinea Shahin «i media sono occupati anche da interessi politici ed economici, da apparati di potere o legati ai movimenti». Niente di tutto questo aiuta la costruzione di una cultura che creda nell’importanza della libertà. E non solo nei territori potremmo aggiungere.
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Tel Aviv: pronta una nuova difesa missilistica
Una Cupola contro Hezbollah di Michael Sfaradi ell’ottobre del 2007 Ehud Barak, allora ministro della difesa del governo Olmert, promise che in tempi brevissimi sarebbe stato sviluppato un sistema di difesa in grado di neutralizzare sia i razzi Kassam, usati da Hamas per portare i continui attacchi dalla striscia di Gaza, sia le diverse versioni di Katiuscia in possesso di Hetzbollah, che minacciano le città e i villaggi situati nei pressi del confine con il Libano. Proprio due giorni fa, a meno di due anni e mezzo di distanza dalla messa in cantiere del progetto, la I.M.I. (Israel Militar Industries) e la Tassia Aviri (l’azienda aeronautica nazionale), che hanno sviluppato il progetto in collaborazione, hanno annunciato, in un vero tempo da record, che il sistema di difesa denominato “Kipà Barzel” (Cupola d’Acciaio) ha superato gli ultimi test e che entro i prossimi sei mesi diventerà operativo. “Cupola d’Acciaio” è un prodotto frutto della combinazione fra l’ingegneria militare e l’informatica israeliana ed è composto di una struttura, trasportabile via terra, divisa in tre parti. La prima, denominata ricognitiva è un radar o un aereo senza pilota o un satellite, che tiene sotto stretto controllo la parte di territorio dal quale si presume possa essere lanciato un attacco. La seconda parte, denominata studio dei dati, è quella squisitamente informatica. Una volta acquisiti i dati di volo e la parabola del missile lanciato dal nemico, il computer, basandosi sulla mappa della zona da difendere preventivamente inserita in memoria, calcola se l’ordigno colpirà una zona abitata oppure no.
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sti. Questo perché viene avvertito come un accordo amorale, come un venir meno a principi puri e assoluti. Per me però il compromesso è sinonimo di vita. “Compromesso” non significa arrendersi o porgere l’altra guancia, ma riuscire a incontrare gli altri a mezza via. L’opposto del compromesso non è l’idealismo, ma il fanatismo, che è uguale a morte. Al fanatismo lei ha dedicato molte pagine, e un libro [Contro il fanatismo, 2004, edito in Italia da Feltrinelli]. Dove crede che affondi le radici il fanatismo nel mondo moderno? Il fanatismo trae oggi la sua forza soprattutto dall’estrema complessità del mondo in cui viviamo. In questo mondo complicato, i fanatici hanno delle risposte semplici, immediate, spesso fatte di una sola frase o di uno slogan, risposte che possono attrarre determinate cate-
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sto processo? È difficile da dire. I cambiamenti avvengono spesso in modo misterioso, ed è impossibile prevedere chi può cambiare il mondo. Chi in Francia avrebbe mai creduto che sarebbe stato proprio De Gaulle a portare il Paese fuori dall’Algeria? E chi tra noi avrebbe creduto che Sadat sarebbe venuto a Gerusalemme per firmare la pace tra Egitto ed Israele? Al momento non ho alcun indizio su chi sarà in grado di porre fine al conflitto tra israeliani e palestinesi, ma di una cosa sono certo, chiunque riuscirà a farlo entrerà di diritto nei libri di storia. Lei sostiene che uno dei dei ruoli fondamentali della cultura sia oggi quello di preservare la memoria. Non teme che ci siano anche memorie “cattive”, che possono rendere più difficile la soluzione dei conflitti?
Nel conflitto l’Europa ha una grande responsabilità, che non significa dover prendere le parti dell’uno o dell’altro contendente. Ma aiutare entrambi a trovare una vera via per la pace gorie di persone. Il fanatico, per usare una metafora letteraria, è un punto esclamativo che cammina in mezzo a noi. Io credo che il XXI secolo non sarà tanto uno scontro di civiltà, quanto una lotta contro ogni forma di fanatismo, sia questo islamico, ebraico o cristiano. Se gli attuali leader non hanno il coraggio sufficiente per risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi, lei vede all’orizzonte una possibile leadership alternativa, in grado di portare avanti que-
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Credo che oggi sia in atto uno scontro di dimensioni mondiali tra la cultura e un’enorme macchina economica, che tenta letteralmente di lavarci il cervello. Dalla mattina alla sera siamo inondati di messaggi che ci vogliono convincere a buttare quello che abbiamo, perché ciò che conta veramente è soltanto quello che non abbiamo ancora comprato. Il passato quindi, non avrebbe alcun valore, e deve essere gettato via. Io credo che il ruolo della cultura, in qualche modo, sia proprio quello di farci ricordare quanto
tentiamo di dimenticare. Riguardo al ruolo dei ricordi nei conflitti, credo che il problema non sia quello di dimenticare o meno i traumi e le sofferenze, anche questi hanno valore e non bisogna temerli. L’importante, però, è non divenirne schiavi. Lei ha spesso sottolineato la speciale responsabilità dell’Europa nella soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da cosa nasce questa convinzione? Il conflitto tra israeliani e palestinesi ha le sue radici in Europa, di cui entrambi i popoli sono stati vittime. Gli uni hanno subito una storia di discriminazioni culminata nella tragedia dell’Olocausto. Gli altri portano memoria dell’oppressione e del colonialismo europeo. Spesso succede che due fratelli cresciuti in una famiglia violenta non si amino affatto, perché tendono a vedere nell’altro un riflesso del loro antico oppressore, ed è proprio quello che succede oggi tra i nostri popoli. Per questo l’Europa ha una grande responsabilità, che non significa dover prendere le parti dell’uno o dell’altro contendente, ma di aiutare entrambi a trovare la via della pace. I conflitti si nutrono anche di simboli, e i simboli possono diventare causa di conflitti. In queste settimane in Europa si è discusso animatamente del referendum che in Svizzera ha proibito la costruzione dei minareti. Cosa ne pensa? Credo che il risultato del referendum in Svizzera sia terribile. Il motivo è semplice: sono convinto che chiunque abbia il diritto di costruire quante moschee, chiese o sinagoghe voglia. © Osservatorio Balcani e Caucaso – www. Osservatoriobalcani.org
Nel primo caso mette in moto il lanciamissili, che compone la terza parte del sistema, e un razzo teleguidato viene diretto verso la minaccia e la abbatte prima che arrivi a bersaglio. Nella seconda ipotesi, nel caso in cui un Kassam o un Katiuscia fosse diretto verso una
zona disabitata, il sistema non entra in azione.“Cupola d’acciaio” è il primo apparato di difesa attiva in dotazione a un esercito, ed è la prima volta che un ritrovato militare viene studiato e messo al servizio della protezione della popolazione civile e, molto probabilmente, caratterizzerà le guerre nel decennio appena cominciato.
Il suo tallone d’Achille sono però i costi d’impiego. Infatti, per contrastare un Kassam o un Katiuscia, che valgono in media poche centinaia di dollari, bisogna utilizzare un razzo ”intelligente” che costa intorno ai
La struttura, divisa in tre parti, è composta dal radar e da un sistema di analisi dei dati 12.000 dollari, costo che comunque dovrebbe dimezzarsi nel momento in cui questo tipo di armamento dovesse entrare in produzione seriale. L’investimento che il governo dello Stato di Israele ha impegnato nella realizzazione del progetto non è stato ancora rivelato, si tratta comunque di diversi milioni di dollari, ma il suo sviluppo potrebbe avere altre applicazioni, soprattutto la parte informatica potrebbe rientrare nella realizzazione del famoso ombrello protettivo statunitense.
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Africa. Per l’Onu, il Paese rappresenta “la peggiore crisi in corso” 140 morti che si sono registrati negli scontri di questi ultimi giorni, nella regione meridionale del Sudan, sono la dimostrazione dell’ennesimo allarme lanciato dagli osservatori internazionali, ma che è rimasto inascoltato. Quella che è avvenuta fra un gruppo di miliziani di una tribù dei Nuer e altri appartenenti all’etnia Dinka è stata una vera e propria guerra. Le previsioni quindi si stanno avverando. Ciò che forse non era stato calcolato è la tipologia di conflitto che rischia di dilagare nella regione. L’episodio che ha portato a un numero di vittime così elevato è legato al contenzioso sullo sfruttamento di un pascolo da parte di un clan piuttosto che di un altro. Un casus belli di portata assolutamente ridotta. Da questo sta lievitando una rivalità tribale, fra Nuer e Dinka, che è stata tenuta sempre sotto controllo dai rispettivi capi, in quanto entrambi i gruppi ambirebbero all’indipendenza del Sud Sudan dal governo centrale di Karthoum. Il contesto generale sudanese resta estremamente instabile. Nel 2004 l’Onu definì il Paese come “la situazione umanitaria più grave esistente”. La realtà odierna non sembra distaccarsi molto dalla dichiarazione di sei anni fa. L’area meridionale sudanese costituisce un nodo strategico sia in ambito politico sia economico per il governo di Karthoum. È la zona con la maggiore concentrazione di risorse petrolifere, l’85% su scala nazionale. Risulta quindi di grande interesse per le compagnie straniere. Quelle cinesi, malesi e indonesiani, in particolare, sono titolari di tre quarti delle concessioni locali. Dal distretto di Giuba inoltre si vorrebbe far partire un oleodotto diretto a Port Sudan, nel Mar Rosso, per rifor-
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Sangue in Sudan, sparano le etnie Interessi economici, odii tribali e rivalità fomentano un massacro di civili infinito di Antonio Picasso
musulmano e le regioni subequatoriali del continente prevalentemente animistiche. Si tratta quindi di un punto di incontro fra culture opposte, interessi politicoeconomici discordanti e antichi rancori fra etnie e tribù. L’esempio dei Nuer musulmani che si scontrano con i Dinka animisti e cristiani, pur abitando sullo stesso ter-
Quella meridionale è la zona con la maggiore concentrazione di risorse petrolifere, l’85 per cento del totale. Quindi fa gola a molti nire le petroliere dirette in Estremo Oriente. In contrasto con la ricchezza del sottosuolo, la popolazione locale è vessata da una povertà stagnante, dovuta ai periodi di siccità del terreno. Le immense risorse idriche messe a disposizione dal Nilo non riescono a essere sfruttate per la mancanza delle infrastrutture. Un ulteriore elemento destabilizzante riguarda la posizione geografica dell’area. Essa costituisce l’intersezione fra il Nord Africa islamico, il Corno d’Africa cristiano e oggi anche
ritorio, indica la disomogeneità e la frammentazione di questo angolo del continente. A questo si aggiunge la ancestrale rivalità tra etnie stanziali e quelle nomadi che si contendono i pascoli a disposizione. Si tratta di un “cocktail letale” quindi, per usare di nuovo un’espressione che circola nelle sedi delle Nazioni Unite in riferimento al Sudan. Questo scontro esclusivamente localistico Nuer-Dinka assume i caratteri di una questione nazionale dal momento in cui la regione è terreno di conqui-
Il conflitto civile nasce da una bomba nel sud
Una guerra di 30 anni Il Sudan è uno dei tanti esempi di Paesi africani che, dopo l’indipendenza, non hanno mai trovato pace. Dopo il ritiro delle autorità britanniche nel 1956, Karthoum è stata sempre soggetta a regimi militari, favorevoli prevalentemente all’islam, confessione sì di maggioranza della popolazione, ma non della sua totalità. Dei 41 milioni di sudanesi, il 70% è musulmano, il 25% è di religione animista e il restante 5% è cristiano. L’incubo sudanese inizia nel 1983, con lo scoppio della guerra civile tra il nord e il sud. Durante il conflitto si intrecciano disastri naturali, quali siccità ed esondazioni del Nilo. Nel 2003 inoltre, esplode il dramma del Darfur, che sostenuto dal confinante Ciad, chiede l’indipendenza. Nel 2005, viene firmato il Comprehensive Peace Agreement (Cpa) fra il governo
centrale e i rappresentanti dell’Splm. La carta riconosce l’autonomia amministrativa del sud Sudan e pone in agenda il referendum per la futura indipendenza della stessa regione. Il voto è stato fissato nel 2011. Il prezzo del Cpa è costato 2 milioni di morti e oltre 4 milioni di rifugiati.Tre anni fa, le Nazioni Unite e l’Unione Africana hanno creato una missione internazionale di peacekeeping nel Darfur (Unamid), impegnando un contingente di 20 mila uomini. L’Unmis, a sua volta, è la seconda missione di peacekeeping, presente nel Paese con 10 mila unità e dislocata a sud. Sulla base del numero delle vittime della guerra, che rappresentano un vero genocidio, il Tribunale internazionale dell’Aja nel 2009 ha spiccato un mandato di arresto contro il Presidente sudanese al-Bashir.
sta dell’industria petrolifera asiatica. Inoltre non si possono dimenticare i due importanti appuntamenti elettorali dell’agenda sudanese. In aprile sono fissate le elezioni politiche, le prime dal 1986. Tre anni dopo l’attuale presidente sudanese, Omar al-Bashir, avrebbe assunto il potere con un colpo di Stato. Per l’anno prossimo invece è previsto il referendum sull’indipendenza del sud Sudan appunto. L’appuntamento elettorale è stato voluto dal Sudan People’s Liberation Movement (Splm). Va ricordato comunque che la regione gode già di un’amministrazione autonoma. Sulla base di questa sommatoria di presupposti, il governo di Karthoum mira a conservare l’integrità territoriale del Paese.
Bashir, sostenuto dal suo National Congress Party (Ncp), è conscio che dal referendum del 2011 non si può scappare. Se il voto saltasse, verrebbe meno l’accordo di pace del 2005. Ne conseguirebbe un’ulteriore punto a sfavore della sua figura già compromessa di fronte alla comunità internazionale, nonché la ripresa della guerra civile. Ciò non toglie che, nei calcoli di Bahir, si possa pregiudicare il voto aumentando il livello di tensione nell’area. Questo è possibile facendo passare lo scontro fra Nuer e Dinka come una guerra tribale, che necessita l’intervento di Karthoum. In questo modo Bashir si sentirebbe libero di usare la mano pesante nella regione. In realtà siamo di fronte a un problema ancora più esteso. Nei prossimi due anni, la maggioranza dei Paesi africani affronterà elezioni interne che potrebbero ribaltare i quadri politici attuali. Il primo della lista è appunto il Sudan. Da un lato la forza politica di Bashir non è fonte di discussione a Karthoum. Dall’altro, nel sud del Paese il Presidente è visto come il nemico “numero 1”. Tuttavia un referendum in questa regione rischia di costituire un precedente sulla base del quale altri movimenti autonomistici – in Uganda, Corno d’Africa, Congo e anche in Nigeria – potrebbero far riferimento per ottenere la propria emancipazione territoriale. Ne conseguirebbe la frammentazione politica di proporzioni continentali. Se non viene presa in tempo, la crisi del sud Sudan rischia di costituire il focolaio di nuovi e incontrollabili drammi africani. A farne le spese sarebbero i popoli locali come pure gli interessi economici delle grandi potenze straniere.
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Ieri l’incontro con i presidenti Barroso e Van Rompuy
Solidarietà del Vaticano ai copti dopo le uccisioni in Egitto
Madrid alla guida dell’Unione europea
Strage di cristiani: arrestati gli esecutori
MADRID. Il premier spagnolo
IL CAIRO. I tre esecutori della strage di cristiani avvenuta mercoledì notte a Qana, in Egitto, sono stati arrestati dalla polizia. Lo riferisce la tv satellitare al-Arabiya. Secondo l’emittente araba i tre si sarebbero consegnati nelle mani degli agenti della polizia, che da due giorni erano sulle loro tracce. Gli inquirenti avevano infatti ritrovato la loro auto e avevano individuato la loro identità. I tre sono accusati di aver aperto il fuoco contro la chiesa copta di Naja Hamadi durante la messa del Natale ortodosso, uccidendo sei persone. Da parte sua, il Vaticano ha espresso tutta la vicinanza alla comunità copta in Egitto. «Tutti i cristiani devono re-
Josè Luis Zapatero, presidente di turno dell’Ue chiede più dialogo con la Bce e un rafforzamento dell’Eurogruppo. «Io sono un difensore della politica monetaria della Bce», ha spiegato il primo ministro spagnolo illustrando il programma della presidenza Ue, iniziata formalmente ieri. «Ma voglio - ha aggiunto - che il Consiglio europeo possa dialogare maggiormente con la Bce, discutere di più sulle scelte da prendere».
«E questo - ha proseguito può comportare alcuni cambiamenti per quel che riguarda l’Eurogruppo, come ad esempio quello che porta alcune volte a riunirsi a livello di capi di stato e di governo». Per Zapatero, comunque, quello di una nuova impennata inflazionistica e di un conseguente rialzo dei tassi di interesse da parte della Bce «non appare uno scenario immediato, che possa prodursi in tempi brevi. Non credo che sia uno scenario che riguardi il 2010». L’incarico è stato preso ufficialmente dopo una cerimonia, che si è svolta nel Teatro reale di Madrid. Secondo le indiscrezioni, Zapatero è intenzionato a presentare un piano di lavoro più “internazionale”che “europeo”. Il leader socialista ha poi definito una
Minsk e Mosca alla guerra del gas Lukashenko accusa il Cremlino: illegali i vostri dazi di Fernando Orlandi ncora una volta questo capodanno ha portato con sé una disputa fra la Russia e un vicino sulle questioni energetiche. Questa volta la contesa è stata con la Bielorussia di Alyaksandr Lukashenka. Tutto è iniziato il 10 dicembre, quando sono iniziate le trattative per la rinegoziazione annuale dell’acquisto del petrolio russo. L’accordo non è stato raggiunto il 31 dicembre e così l’1 gennaio, immancabilmente, è stata bloccata la fornitura (ripresa un paio di giorni dopo), con grande costernazione e preoccupazione dell’Unione europea, che ha temuto la ripetizione della guerra del gas con l’Ucraina. Pur non avendo risolto il contenzioso il transito è ripreso, mentre Minsk alzava la voce con Belenergo che minacciava di interrompere la fornitura di energia elettrica all’enclave russa di Kaliningrad. La disputa ha radici lontane. Nel 1995 i due Stati si accordarono: la Russia non avrebbe imposto dazi sul petrolio esportato in Bielorussia e in cambio avrebbe ricevuto l’85% dei ricavi sui quantitativi rivenduti all’estero. Nel 2001 Minsk annullò unilateralmente l’intesa e Mosca proseguì nelle forniture. Ne approfittarono anche diverse compagnie russe che, per beneficiare della mancanza di dazi, trasferirono attività in Bielorussia. Alla fine del 2006 Mosca alzò il prezzo del greggio e Minsk rispose elevando la tariffa del trasporto, che i russi rifiutarono di pagare. Nel gennaio dell’anno successivo si raggiunse un nuovo accordo, molto caro per i bielorussi: la cessione a Gazprom del 50% di Beltransgaz, l’operatore dei gasdotti. Minsk acquista annualmente 20 milioni di tonnellate di greggio, ma ne consuma internamente meno del 30%. Il resto viene raffinato e esportato con grandi profitti, il che permette al paese di sopravvivere senza alcun tipo di riforme. I dazi introdotti da Mosca sul petrolio esportato (ma non su quello consumato internamente) si tradurrebbero in una “perdita”di 5 miliardi di dollari, vale a dire il 10% del prodotto nazionale lordo del Paese (grosso modo 50 miliardi). Le esportazioni del settore petrolifero pesano per ben il 37% del totale e i nuovi
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dazi metterebbero in una crisi grave la Bielorussia, la cui bilancia dei pagamenti nei primi 11 mesi del 2009 ha accumulato un deficit di 6,3 miliardi di dollari.
Attraverso la Bielorussia transitano, nell’oleodotto “Druzhba”(amicizia), un milione di barili di greggio al giorno: il 75% del petrolio consumato dalla Polonia, all’incirca il 15% di quello tedesco, metà del consumo della Repubblica Ceca e praticamente tutto il fabbisogno di Slovacchia e Ungheria. A Mosca il prezzo dei prodotti energetici è condizionato da variabili politiche. Le passate concessioni sui dazi a Minsk hanno permesso di mantenere in piedi quel regime, uno dei più fedeli al Cremlino. Ma ultimamente Lukashenka ha ammiccato troppo all’Ue e con sorpresa di molti e a dispetto delle esplicite e reiterate richieste di Mosca, la Bielorussia non ha riconosciuto né Abkhazia né Ossetia del sud, distaccate dalla Georgia dopo la guerra dell’agosto 2008. L’argomento che Minsk oppone al pagamento dei dazi introdotti da Mosca non è comunque di poco conto. Lo scorso 27 novembre Bielorussia, Kazakhstan e Russia hanno firmato i documenti che il primo gennaio hanno fatto entrare in vigore l’unione doganale fra i tre Paesi: per Minsk non si possono applicare dazi all’interno di una unione doganale. In questo contesto, l’imposizione dei dazi assume una colorazione punitiva. E il fedele Lukashenka ha accusato Mosca di voler soggiogare il suo Paese, sottoponendolo a “pressioni senza precedenti”. L’obiettivo immediato forse è mettere le mani sulle raffinerie Naftan e Mozyr, proprio come era stato fatto tre anni prima con i gasdotti. In piena guerra fredda, Ronald Reagan temette che l’Europa divenisse troppo dipendente dalle forniture energetiche dell’Urss e condusse una sua battaglia contro Mosca, ma né Leonid Brezhnev né Yurii Andropov utilizzarono mai la leva energetica contro i loro avversari. La facilità con cui invece viene impiegata dagli attuali dirigenti russi dovrebbe fare riflettere l’Ue e condurla ad adottare una coerente e decisa politica della sicurezza energetica.
Dalla Bielorussia transitano un milione di barili di greggio al giorno: vanno tutti in Europa, che ora teme ripercussioni
priorità l’ingresso dei Paesi balcanici all’interno dell’Unione dei 27. Secondo la Spagna, «va stimolato lo sviluppo dei rapporti con l’est, unica strada per garantirne la stabilità economica». Polemica la stampa americana, che ieri si chiedeva “quanti presidenti servissero per guidare l’Unione europea”. E in effetti, dopo l’adozione e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ieri erano presenti tre presidenti: oltre a Zapatero, infatti, c’erano quello della Commissione Barroso e quello del blocco dei Ventisetti, il belga Van Rompuy. Il New York Times, parafrasando la celebre battuta di Kissinger, si chiede: «A chi dobbiamo telefonare per parlare con l’Europa?».
stare uniti di fronte all’oppressione e cercare insieme la pace che solo Cristo può dare», si legge in una lettera diffusa oggi dalla Sala stampa della Santa Sede e indirizzata dal cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, «a Sua Santità Shenouda III, capo dei cristiani copti d’Egitto, per esprimergli la sua vicinanza, in seguito agli attacchi ai cristiani copti dopo la liturgia di Natale a Nag Hamadi in Egitto».
Dopo aver ricordato di aver appresso «le tragiche notizie relative alla morte e al ferimento di diversi copti», il cardinale si unisce «in questo momento in preghiera con Sua Santità e con la comunità copta». Quindi Kasper conferma la condivisione del dolore e della preghiera per la pace, la guarigione dei feriti e la giustizia. Continuano, intanto, gli scontri tra cristiani copti e musulmani anche in altre città egiziane, come Nagaa Hamadi. Testimoni riferiscono che giovedì pomeriggio un gruppo di abitanti di fede musulmana si è riunito nel centro abitato per esprimere indignazione, dopo che centinaia di cristiani copti avevano «lanciato pietre e bastoni verso le moschee della città».
cultura
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Riedizioni. Le pellicole del “trittico francese” sono disponibili in tre nuovi dvd, curati rispettivamente dalle edizioni da San Paolo, General Video, Cecchi Gori
Ritorno a Scola “Il mondo nuovo”, “Capitan Fracassa” e “Ballando ballando” La lezione cinematografica (e teatrale) del regista italiano di Orio Caldiron el mercato sotto il ponte di Saint Michel la folla assiste alla nuova attrazione dei girovaghi italiani, appena approdati sulle rive della Senna. La cassetta del Mondo Nuovo, che incarna la metafora essenziale del teatro, mette in scena il rapporto con la storia, in cui le consapevolezze del presente rimbalzano negli interrogativi del passato. Ma è anche lo spazio chiuso della diligenza in cui i protagonisti di Il mondo nuovo di Ettore Scola riflettono sul momento storico in cui sono immersi, rappresentando le diverse prospettive della dama di corte, la contessa austriaca Sophie de la Borde, dello scrittore inglese Thomas Paine, dell’industriale Vendel, della vedova Adelaide Gagnon, della cantante lirica Virginia Capacelli e del magistrato De Florange che l’accompagna, mentre Jacob, il parrucchiere della contessa, flirta con il postiglione e lo studente Emile e la cameriera Maddalena amoreggiano tra i bagagli.
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Lo stimolo della curiosità e l’insaziabilità del voyeur - ma non è l’identikit dell’autore cinematografico? - si incarnano in modo esemplare nello straordinario personaggio di Nicolas Edme Restif de la Bretonne che corre da una parte all’altra del film, incalzato dall’ossessione di essere sul posto e di cogliere l’attualità in fieri. Sin dalla sua prima apparizione, fiuta il mistero degli affannosi andirivieni e dei furtivi tramestii che durante la notte avrebbero sconvolto la routine di palazzo reale. I sovrani sarebbero in fuga, confermando le voci che corrono da più di un mese? L’inquietudine mercuriale, il gusto per l’intrigo misterioso, il senso dell’avventura sono i tratti dello scrittore detective che in modo particolarmente suggestivo, quasi da giallo, avviano il meccanismo del viaggio mentre predispongono l’incontro
con Giacomo Casanova, braccato dagli emissari del conte di Waldstein decisi a riportarlo nel castello in Boemia per fargli riprendere le sue mansioni di bibliotecario buffone di corte. L’incontro “impossibile”anima alcuni dei momenti più significativi dell’intero film. Quando ospita Restif nel suo cabriolet, Casanova, che viaggia in incognito e si presenta come il cavaliere di Seingalt, si scuote dal dormiveglia solo al sopraggiungere della diligenza. Non intende assolutamente mangiare la polvere e, allacciate le cinture, costringe il postiglione a lanciarsi in un sorpasso spericolato, in cui, finalmente di buon umore, sembra dimenticare gli acciacchi dell’età e ritrovare le energie perdute. Il cabriolet giunge finalmente alla stazione di posta. Il cavaliere si affretta con il suo nécéssaire da viaggio verso lo stanzino di decenza. Mentre Restif intervista lo stalliere per ricostruire il passaggio della berlina misteriosa, «grande, grandissima, mai vista una carrozza così», Giacomo dispone sulle ginocchia vasi, vasetti, pennelli e piumini per darsi una
ripassata al trucco. Si dipinge di rosso le labbra come una bagascia e si dà il bianco alla faccia. Si guarda allo specchio inforcando un paio di spessi occhialetti mentre rinforza il bistro sugli occhi. Quando si toglie la parrucca per incipriarla, scopre i radi capelli scomposti che mette in ordine con le mani. La
nuvola di polvere di riso lascia intravedere un vecchio quasi calvo dallo sguardo smarrito. Si direbbe che i conversari amorosi lasciati a mezzo nella diligenza, la digressione mozartiana e l’elogio del passato di poco prima siano altrettanti, progressivi avvicinamenti allo scambio di battute tra Giacomo e la contessa Sophie, che sul ciglio della strada scorge fra i resti di un frettoloso déjeuner sur l’herbe un fazzoletto con lo stemma della famiglia reale. La contessa austriaca gli confessa che, vistolo a corte quando aveva quindici anni, è stato il primo amore della sua vita. Ma anche questa allettante provocazione, come più tardi quella più esplicita della vedova Gagnon, non scuote lo sguardo assente del vecchio gentiluomo, chiuso nel suo cerimonioso declino. Sospesa tra passato e presente, tra ritrovamento e addio, è quasi una tragedia in due battute, una scena madre
«Una giornata particolare». Sotto Ettore Scola e la locandina del «Viaggio di Capitan Fracassa» con Massimo Troisi. Nella pagina accanto, dall’alto, «C’eravamo tanto amati», «Brutti, sporchi e cattivi» e «Le Bal»
che, invece di esplodere, implode in se stessa, deflagra silenziosamente nelle segrete intermittenze del cuore.
Nel trittico francese che va da Il mondo nuovo (1982) a Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), Ballando ballando (1983) - ora reperibili in dvd nelle edizioni San Paolo, euro 20.90; General Video, euro 16.90; Cecchi Gori, euro 15.90 - rappresenta una sorta di intermezzo. Ettore Scola vi re-
cupera il gusto del disegnatore satirico, coltivato sin dalla stagione dei giornali umoristici, moltiplicando i personaggi che si animano e acquistano spessore a partire dai tratti appena sbozzati della raffigurazione caricaturale, in cui i tic fisici, comportamentali, psicologici di ciascuno tendono al grottesco. Si tratta di un film scommessa che, desunto dallo spettacolo del Théâtre du Campagnol di Jean Claude Penchenat, rinuncia al parlato del tradizionale film narrativo per affidarsi esclusivamente alla musica e al gesto di un gruppo di personaggi maschere, incaricati di ripercorrere cinquant’anni di storia francese, in cui si riflettono gli avvenimenti dell’Europa e del mondo. La memoria, sospesa tra passato e futuro, è ancora una volta al centro degli interessi del regista, che continua a interrogarsi sul tempo e la storia, fino a farne lo scenario privilegiato della sua indagine, così attenta alle emozioni, ai sentimenti, ai cortocircuiti tra pubblico e privato. La scelta del luogo chiuso è fondamentale anche in Ballando ballando in cui la sala da ballo è il teatro dell’azione, intesa ancora una volta come scatola magica che, grazie agli andirivieni dei flashback e ai sinuosi movimenti di macchina, si apre al viaggio dentro il passato, attraverso le sedimentazioni dell’immaginario popolare. Il centro strategico del film è il corpo che nel ballo sembra trovare una sorta di continuo ampliamento e di riduzione all’essenziale. Come in un gioco di specchi, a cui non è estraneo il senso del teatro,
cultura
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no sopraffatti dalla dialettica tra realtà e rappresentazione, tra vero e falso, si agitano e si ribellano alla loro condizione per ritornare a riconoscersi alla fine nella maschere che hanno indossato per tutta la vita, condannati a condividerne in qualche modo le scelte e i destini. Se nessuno si sottrae
della coazione a ripetere, si apre ai soprassalti del tempo e della storia, in cui filtra il caldo soffio della vita. L’irruzione della temporalità - sospesa tra la vita e la morte, la scoperta dell’amore e la delusione sentimentale - implica un’articolazione strutturale più sofisticata e complessa, attenta al gioco del doppio, alla scansione dei flashback, al ritmo insinuante dei movimenti di macchina che, nelle elaborate traiettorie del teatro nel teatro,
La memoria è al centro dei suoi interessi. E si interroga sul tempo e la storia, fino a farne lo scenario privilegiato della sua lunga indagine
tra l’azzardo dell’improvvisazione e la fedeltà al testo, i corpi dei ballerini vengono trascrivendo le impervie modalità del discorso amoroso, fissando nel pentagramma altrettanti punti di non ritorno, in cui, tra avvicinamenti e allontanamenti, si inscrive la loro vocazione alla solitudine.
Senza cedere alla nostalgia o alla massificazione, perché le articolazioni interne e le scansioni strutturali riescono a contemperare la visione d’insieme, l’incalzare del tempo inesorabile e vorace, con le folgorazioni individuali, gli assolo dei singoli, colti nella loro irriducibile vulnerabilità. Quando verso la fine risuonano le note di Que reste t’il de nos amours di Charles Trenet è difficile sfuggire alla sofferta lacerazione dei ricordi personali. Il viaggio di Capitan Fracassa accentua il rapporto con
il teatro che, attraverso la mediazione del precinema, era fondamentale anche in Il mondo nuovo. La struttura teatrale è dichiarata esplicitamente fin dall’inizio del film che comincia con un carrello in avanti verso il palcoscenico che si apre e finisce simmetricamente con il palcoscenico che si chiude, suggellando il viaggio verso Parigi. Se la diligenza di Il mondo nuovo riprende il modello fordiano di Ombre rosse - chiamato a storicizzare il paradigma della varia umanità in viaggio nella compresenza delle diverse prospettive se non delle componenti sociali del contesto storico - il carro dei comici è tutto immerso nella metafora teatrale per cui i protagonisti della vicenda coincidono con i personaggi a cui danno vita sulla scena. So-
al gioco illusionistico della scena, la forza mitopoietica del teatro fa del carro dei comici una sorta di casa viaggiante della vita, in cui le persone e i sentimenti nascono e muoiono per continuare a nascere di nuovo, a cambiare, a trasformarsi.
Lo spazio chiuso della scena teatrale, che sembra muoversi in una realtà di cartone, tra le quinte logore e immutabili
allargano lo spazio della visione fin quasi a farlo uscire dal quadro. La dialettica tra servo e padrone, che si istaura sin dall’inizio tra Pulcinella e il giovane barone di Sigognac, è uno dei fili conduttori dell’intero film che, grazie alla partecipe interpretazione di Massimo Troisi, diventa un irresistibile tormentone. Pulcinella ce la mette tutta perché Pietro, affidandogli tutti i suoi risparmi, gli assicura che, giunti a Parigi, avrebbero potuto contare sulla gratitudine di Luigi XIII. Il vecchio barone aveva salvato la vita al padre del re, ricevendone in dono la spada che è l’unica ricchezza rimasta ai Sigognac: reintegrati nel titolo e negli averi, sarebbero tornati agli antichi splendori. La bella favola contagia subito tutti i comici. Pulcinella diventa una sorta di servo padrone per insegnare a Sigognac a comportarsi da padrone: «Se io devo essere il vostro servitore ubbidiente voi dovete essere un padrone autorevole. Perché mi date questo voi? Il tu mi dove-
te dare, io sono un servo. Tu, tu, tu fai questo, tu fai quello, tu aiutami a salire, ti faccio vedere come si fa. Che ci vuole? Prima cosa: sguardo fiero, spalle dritte, state su. Camminate tutto così su ‘sto cavallo. Con un servitore come me farete invidia a cani e porci. E a me che mi darete in cambio? Mangiare, dormire, bere, vestiti». Servitore di un padrone che non sa fare il padrone, Pulcinella non esita a ispirarsi ai servi delle farse interpretate sul palcoscenico. Quando, irritato per il comportamento del duca di Vallombrosa invaghitosi di Isabella, Sigognac lo tratta male, crede di aver raggiunto lo scopo: «Ma quanto siete bello, barone. Come mi trattate male, cioè bene. Voi siete un vero padrone incazzoso, autoritario e fesso come tutti i padroni». Il rapporto è diventato in realtà più complesso, passando attraverso le varie fasi di un progressivo avvicinamento umano e sentimentale, in cui, nella condivisione della vita in comune, si compiace delle sue prime imprese amorose e del suo cambiamento d’umore, prima sempre cupo mentre ora è allegro, sorridente, scatenato. Se cerca di impedirgli di calcare la scena, diventando uno zompafossi, uno zingaro come tutti gli attori, alla fine gli presta la sua maschera di cuoio in un atto decisivo di affiliazione. Quando nella sequenza d’inizio Pulcinella, avvolto in una coperta come in uno scialle, è in trepidazione per la salute del giovane come fosse suo figlio, si direbbe che il papà è diventato mamma, una umanissima madre apprensiva e iperprotettiva, in cui si ritrova la dimensione androgina, panica, saturnina della grande maschera napoletana.
Il viaggio è stato un percorso di iniziazione attraverso fame, miseria, malattia, in un paesaggio spoglio, autunnale, disertificato. Nell’atmosfera plumbea, malinconica, cimiteriale non c’è posto per l’utopia di Il mondo nuovo, ma a tratti si accende la vivacità creativa dell’illusione, lo scintillìo pirotecnico della rappresentazione, l’esplosione dei colori, in cui l’antico gioco delle maschere ripropone il senso profondo della vita, il tempo finalmente ritrovato dei rapporti tra gli uomini. Se il viaggio della compagnia dei commedianti è metaforicamente il viaggio del cinema italiano dalle conquiste del passato recente al difficile snodo dell’inizio anni Novanta, il film di Scola è anche un atto di fiducia nel cinema, nelle sue possibilità di rappresentazione di un mezzo espressivo ancora vitale, nelle sue capacità di salvaguardare la memoria di tutti e di ognuno, continuando a dialogare con il tempo e con la storia.
spettacoli
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ROMA. «Dopo anni di forzata latitanza a causa di una ben consolidata indifferenza e ignoranza da parte delle istituzioni e dei teatri locali, nell’aprile del 2008, io e la compagnia Sud Costa Occidentale, con le nostre sole risorse, abbiamo messo radici a Palermo in uno scantinato di via Polito, dietro gli ex cantieri culturali della Zisa. La nostra casa si chiama “la Vicaria”ed era un ex fabbrica di scarpe». Con la concretezza di queste parole, Emma Dante si presenta al suo pubblico dalle pagine del suo sito personale e spiega, in maniera diretta e incisiva, un pezzo della sua strada, un frammento di quel percorso artistico che, portato avanti con inestinguibile energia insieme agli attori della sua compagnia, la Sud Costa Occidentale, l’ha condotta alla regia dell’opera d’apertura della stagione del Teatro alla Scala lo scorso dicembre.
Ora, dopo l’esperienza scaligera e una lunga tournée in giro per l’Europa, la Dante è a Roma con una retrospettiva che viaggia a ritroso nella sua storia professionale. Il Teatro Valle, infatti, ha aperto ieri sera una “monografia di scena” che parte dall’ultima produzione di questa regista siciliana, Le Pulle, operetta amorale (8-24 gennaio), per tornare poi alle origini di Vita Mia (11 e 18 gennaio) e chiudere il 25 gennaio con Acquasanta, studio sui personaggi e non sulla storia, ultimo copione da scrivere con e sugli attori. Con Le Pulle, una produzione del 2009, la Dante è tornata a condividere il palcoscenico con i suoi attori. In una folle successione di scene di una petulante volgarità, la registaattrice canta, recita e salta; «un’operetta stonata, scassata» come la chiama lei, per raccontare la storia di Rosy, Sara, Ata e Moira, un gruppo di travestiti, e del trans Stellina. Sebbene il grande pubblico abbia imparato a conoscerla solo di recente attraverso la sua controversa regia della Carmen di Bizet, Emma Dante, che qualcuno si ostina ancora a chiamare artista emergente, è in realtà uno dei più significativi autori teatrali italiani degli ultimi dieci anni. Il suo lavoro è figlio del “nuovo teatro” novecentesco, e ad esso assimilabile in molti suoi aspetti, e, prima di approdare alla Scala, era per lo più considerato adatto ad un pubblico di “nicchia”, amante di quell’universo teatrale che viene comunemente definito “di ricerca”. Nata a Palermo nel 1967, la Dante se ne allontana per la prima volta a vent’anni per entrare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, dove si diploma nel 1990. Avviata ad una carriera attoriale, rimane distante dalla sua città fino al 1999, quando, in un momento di inquietudine per-
A fianco e nella foto piccola in basso, due immagini dello spettacolo teatrale “Le Pulle”. Nella foto in bianco e nero, uno scatto della pièce “Vita mia”. Qui sotto, l’autrice teatrale palermitana Emma Dante
Teatro. Viaggio nella vita e nelle retrospettive della grande autrice siciliana
Il dolce (e amaro) stil novo della Dante di Diana Del Monte sonale e professionale, decide di tornare ad immergersi nella realtà siciliana. Ritrovatasi sola a Palermo, suo nido familiare e rifugio, fonda la compagnia Sud Costa Occidentale, trasformando la sua città natale e le sue origini nel soggetto del suo teatro e raccogliendo consensi di critica e premi prestigiosi sin dal suo spettacolo d‘esordio, mPalermu, presentato per la prima volta a Parma nel 2001 e premiato con il “Premio Scenario”.
Ignorata a lungo dalla sua città, la Dante è, invece, da sempre adorata dal pubblico francese. Le Monde l’ha defini-
al mondo. Lei, invece, pur ammettendo l’aggressività del suo linguaggio artistico, marca con decisione il carattere riflessivo delle sue scelte, curate con
cicatrici, come segni fisici d’identità imposti dal luogo natio. «I fantasmi che evochiamo abitano dalle parti di Ballarò, al Capo, alla Cala o a Piazza
Sebbene il grande pubblico abbia imparato a conoscerla soltanto di recente attraverso la sua controversa regia della “Carmen” di Bizet, è in realtà uno dei più significativi registi teatrali italiani degli ultimi dieci anni
ta la donna vulcano, un essere quasi mitologico che rimugina la sua collera e la sua indignazione per poi gettarla in faccia
morbosa precisione e pazienza artigianale. I suoi spettacoli nascono l’uno dentro l’altro, senza un apparente filo conduttore. Chiaro, tuttavia. in tutti i suoi lavori da mPalermu alla regia della Carmen, l’intento universale nella geografia del Sud. Una geografia scritta nei corpi, nei gesti, di cui il linguaggio è l’espressione sonora, che espone sul palcoscenico una mappatura delle
Sant’Oliva o alla Magione […] È importante, necessario per noi vivergli accanto, sentirli, osservarli… Per questo motivo non ce ne possiamo andare. Rimaniamo qui, dentro Palermo, città che non ci vuole. Tutti i giorni ci chiudiamo alla Vicaria per allenarci, per studiare».
Quando la gestualità si fa più asciutta, poi, la Dante riesce a trasformare i singoli ge-
sti in momenti di poesia fisica, come nella performance del 2007 per l’anniversario della morte di Borsellino e della sua scorta, dove d’improvviso, nel silenzio dei gesti corali, si sente la voce della Sicilia: «Perché non è solo Palermo, è il Sud del mondo a essere una condizione dell’anima».
La Mafia, la religione, la violenza sessuale, l’incesto, la regista siciliana ha affrontato tutti i temi archetipici ed i tabù della vita dell’animale uomo e della cultura del Sud in particolare. Sul suo palco, la potenza del simbolo diventa un pugno nello stomaco dello spettatore, un coltello con cui incidere la carne della società seduta di fronte al suo teatro. Richiamandosi al percorso aperto dal teatro della crudeltà di Artaud, per Emma Dante il teatro deve operare un cambiamento profondo nello spettatore e nel microcosmo familiare trova, sin da subito, il terreno più fertile per attuare il suo progetto. La famiglia è per la regista il «ventre numero due», il nucleo che racchiude la bolla dell’infanzia: «Il pubblico a teatro deve tornare bambino», rientrare nella piccola stanza dell’infanzia dove tutto riaffiora e dove tutto, dunque, può essere ancora cambiato. La famiglia siciliana viene posta dalla Dante al centro di una trilogia, composta da mPalermu, Carnezzeria e Vita mia, e pubblicata nel 2007 con il titolo Carnezzeria accompagnata dalla sentita prefazione di Andrea Camilleri, conterraneo e grande estimatore del suo teatro: «Questo teatro dell’impossibile, che fa di Palermo una sorta di rappresentazione simbolica dell’anima del mondo, incessantemente indaffarata e incessantemente morente, è la nostra commedia».
sport
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Fantasisti. Giovane per l’anagrafe civile, meno per quella sportiva, Alex Del Piero scalda una panchina riflettendo sul domani...
L’insostenibile pesantezza dell’età di Francesco Napoli i aveva fatto un pensierino, e forse più d’uno, l’altro giorno poco prima di Parma. Ora Ciro vedrà bene come fare e mi schiererà finalmente dal primo minuto. Basta panchina, è roba da vecchi al parco del Valentino, penso sia proprio il caso di giocare. Non mi era mai capitato di stare così poco in campo, neppure quando ero infortunato, ed ero ben più giovane. Niente da fare, invece, per Alex Del Piero, ancora panchina, e chissà domani per il matchclou con Milan. Ora, visto che proprio a Torino l’Istituto di Medicina dello Sport tiene d’occhio gli anziani e ha appena pubblicato i risultati del monitoraggio, non vorrei che mi
C
chiamassero e mi mettessero nel novero degli osservati. Lo so bene anch’io che, in linea generale, l’esercizio fisico costante e coordinato da medici dello sport riduce il naturale e progressivo processo di del invecchiamento corpo e che lo sport genera un consistente miglioramento di mobilità articolare, flessibilità, forza muscolare e densità ossea. Ma Ciro mi tiene qui seduto e, sebbene abbia quell’acqua dalla mia, mi pare ovvio che sono preoccupato.
A osservar bene Del Piero in panchina si nota invero una certa malinconia nello sguardo, come se davanti gli scorresse tutta la carriera: i primi calci all’oratorio, il Padova e poi nella grande Juve voluto da Boniperti e l’esordio
Stati Uniti, con la maglia dei Cosmos, imitato da tanti altri big sul viale del tramonto come Beckenbauer, Chinaglia, Neeskens. Anche se, a onor di risultati, la campanella era già suonata per tutti.
contro il Foggia in serie A, sì il Foggia di Zeman che chissà cosa avrà pensato di quel giovinetto appena diciannovenne, e poi gli scudetti e i gol “alla Del Piero” in Coppacampioni fino alla serie B e la resurrezione guidata da capitano. Ma ora? Duro invecchiare e nello sport anche di più perché l’anagrafe cittadina comune ti dà nel fiore degli anni mentre quella della cronaca e della ribalta agonistica ti condanna. Molti hanno pensato di contrastare l’avanzamento dell’età sportiva tornando, vedi Schumacher, o il suo gemello stando alla vulgata di Luca Cordero di Montezemolo, che arriva a tradire la sua Ferrari pur di rimettere il casco in testa e assaporare così l’odo-
E la splendida Katarina Witt, plurimedagliata alle Olimpiadi di Sarajevo (1984) e a Calgary (1988)? Avvertì la nostalgia dello stridere di lame sulle piste ghiacciate e tornò alle gare ai Giochi di Lillehammer ben sei anni dopo, in Norvegia, mantenendo intatta quell’antica grazia che ai tempi della Ddr le aveva fatto guadagnare il soprannome di “faccia più bella del socialismo reale”. Il tennis è pieno di grandi ritorni: quello
re di benzina e olio emulando Alain Prost. O come George Foreman primo e unico pugile a riconquistare (a 45 anni e 9 mesi) un titolo mondiale vent’anni dopo averlo perso. E anche il più grande rivale di Foreman, Muhammad Ali, al secolo Cassius Clay, tornò sul ring dopo averlo abbandonato. Un rientro tristissimo, culminato con la sconfitta contro Larry Holmes, suo ex sparring-partner. È sceso nuovamente in campo anche una leggenda del baIn questa pagina, alcuni curiosi scatti dell’attaccante juventino Alex Del Piero. Ultimamente, il suo allenatore Ciro Ferrara lo ha tenuto in panchina invece di schierarlo in campo
A osservarlo bene, si nota una certa dose di malinconia nello sguardo. Come se davanti gli stesse scorrendo, inesorabile, tutta la carriera passata sket quale Michael Jordan dopo 17 mesi di stop e un’esperienza da dilettante nel baseball: il vero super-fenomeno di ogni tempo della Nba smise nel 1993, dopo aver vinto il terzo anello con i Bulls, ma al ritorno si prese il lusso di accaparrarsi altri tre titoli consecutivi a Chicago. Lasciò ancora ma il tabellone e il canestro l’aveva nel sangue. Pensò bene di riaffacciarsi nel 2001, a 38 anni, per giocare due stagioni con i Washington Wizards. E nel calcio? Che dire. Il re della pelota ci ha provato: Pelé, fermatosi a 34 anni, riprese a correre dietro quella maledetta sfera, negli
di Bjorn Borg rimase clamoroso, come clamoroso fu il tonfo. In campo femminile si ricordano Martina Navratilova, tornata a “combattere” dopo avere vinto 18 titoli e alla veneranda età di 50 anni; e più di recente hanno rifatto il loro ingresso sul court le due belghe Justine Henin e Kim Clijsters. Quest’ultima, ex n.1 del mondo, al suo riapparire dopo 22 mesi di stop ha subito vinto gli Us Open. Nel ciclismo c’è il caso Lance Armstrong, che nel 2010, alla guida di una nuova squadra costruita tutta attorno a lui, tenterà di vincere l’ennesimo Tour. Insomma. Non è mai troppo tardi, per dirla con il maestro Manzi, e Alex Del Piero sembra non digerire benissimo la sua collocazione un po’ ai margini. Attenzione: nessun borbottìo o malumore dalle sue labbra, però… «Il male non è che fuori si invecchia, è che molti non rimangono giovani dentro» diceva Oscar Wilde, e così non resta che bere tanta acqua, anche per mandar giù bocconi e favorirne la digestione.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Business Week” dell’08/01/10
Impiegati «usa e getta» di Peter Coy, Michelle Conlin e Moira Herbst lavoratori americani non se la passano per niente bene. Navigano in cattive acque in quanto a basse retribuzioni (almeno per gli standard Usa, ndr) e impieghi pur privi dei tanto famosi benefit, sono ormai considerati una fortuna. Chi è senza pensione, senza assicurazione sanitaria, privo di ammortizzatori sociali, ma lavora, può ben dirsi fortunato. Una situazione che non sembra voler cambiare sul breve periodo. È come se le onde della tempesta divemtassero sempre più alte per i poveri dipendenti.
I
Molti economisti prevedono che ci vorranno anni, non mesi, prima che la forza lavoro statunitense possa riguadagnare le posizioni di privilegio di un tempo e una parvenza di potere contrattuale. L’insolita «ferocia» dell’attuale crisi ha purtroppo accentuato certe dinamiche negative, come la dislocazione all’estero di servizi e produzione, l’automazione, il minor peso che hanno i sindacati, le nuove tecniche gestionali e le modifiche normative. Un insieme di fattori che stanno erodendo le basi economiche dei lavoratori dipendenti. E nei prossimi dieci anni le prospettive non sembrano voler cambiare in maniera positiva. Guadagni in discesa, così come le condizioni di lavoro e quelle della sicurezza. In aumento i contratti a tempo determinato e le collaborazioni da free lance. Anche molte posizioni a tempo indeterminato saranno a rischio. «Quando sento parlare la gente contro i lavori temporanei e favore di quelli fissi, mi metto a ridere» afferma Barry Asin, capo analista della Staffing industry analyst, azienda di Palo Alto in California. «L’idea che ogni tipo di impiego possa essere considerato permanente si è rivelata
falsa» sottolinea Carl Camdem un altro esperto del settore. La brutalità della recessione ha costretto molte aziende a organizzare la propria forza lavoro su di un modello just-in-time come ha rivelato uno studio della Warthon school della Pennsylvania University. In modo che gli impieghi possano essere aperti e chiusi come si trattasse di un rubinetto. «I datori di lavoro cercano di sbarazzarsi di tutti i costi fissi» afferma Peter Cappelli, direttore del Centro studi sulle Risorse umane della Pennsylvania University. «Prima lo si faceva contraendo i benefit, ora lo si fa con gli stessi impieghi. Tutto è diventata una variabile». Ciò significa che sono le aziende ad avere il potere assoluto e «tutti i rischi sono sulle spalle dei dipendenti».
L’era dell’impiegato «usa e getta» ha delle grandi implicazioni, sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per i primi le previsioni indicano che la cronica mancanza di lavoro e la sottoccupazione causeranno dei danni permanenti. Aumenteranno i pre-pensionamenti e le carriere delle giovani generazioni andranno incontro a improvvise interruzioni. Anche per chi ha ricevuto una formazione superiore ci sarà un certo ridimensionamento del reddito. Con la diminuzione della sicurezza del posto, aumenterà il divario tra le retribuzioni minime e quelle massime.
Per i più istruiti continuerà la possibilità di saltare da un impiego all’altro migliorando la busta paga o i compensi forfettari; mentre per la fascia bassa dei lavoratori meno qualificati sarà sempre più dura – con offerte al ribasso – a meno che non possiedano grandi capacità commerciali. La flessibilità premia senz’latro le aziende, ma con un pericolo: il rischio dell’alienazione e della demotivazione della forza lavoro. Un recente sondaggio della Conferente board (una istituzione no-profit che da oltre 90 anni si occupa di cultura manageriale, ndr) ha rivelato che circa il 45 per cento degli intervistati non è soddisfatto del proprio impiego. È il valore più basso degli ultimi 22 anni.
Il morale basso può essere devastante per le prestazioni di lavoro. Dopo aver subito lo tsunami della crisi dei subprime, la Ubs, il Credit Suisse e l’American Express hanno deciso di arruolare decine di psicologi per rimotivare gli impiegati rimasti. Tutti i dipendenti avevano smesso di funzionare.
L’IMMAGINE
Un piano di lavoro comune alle Associazioni per rendere efficace la Class Action Serve un piano di lavoro comune fra tutti i soggetti rappresentativi delle istanze dei consumatori e dei contribuenti per rendere efficace la legge sulla class action, proponendo un miglioramento normativo della stessa, ma anche e soprattutto per coordinare le azioni da intraprendere nei confronti di quei soggetti che non rispettano le norme di tutela dei consumatori. Bisogna evitare il rischio di duplicare azioni nei confronti degli stessi soggetti, rafforzando le iniziative processuali con azioni collettive unitarie fra tutte le associazioni. Per questo proponiamo la costituzione di un coordinamento nazionale che si occupi di verificare e coordinare le azioni da intraprendere. Questa proposta potrà essere una soluzione positiva che rafforzerà i cittadini nei confronti dei poteri forti, evitando che ogni associazione faccia a gara per promuovere più class action rispetto alle altre. Il coordinamento dovrà lavorare alle modifiche normative sulla class action nei confronti della pubblica amministrazione.
Federcontribuenti
VACCINO E INFLUENZA A. FAZIO LO SCIUPONE «Fazio, Fazio, rendici i nostri soldi», così potremmo, appellarci al ministro della Salute,parafrasando la celebre frase di Augusto: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni», dopo il massacro di ben tre legioni nella foresta di Teutoburgo ad opera delle popolazioni locali che vinsero grazie anche all’incapacità del generale romano, Publio Quintilio Varo. I numeri, a inizio anno, parlano chiaro: somministrate 852.707 dosi di vaccino, acquistate 24 milioni di dosi, la percentuale morti/influenzati è dello 0,004 per cento. Abbiamo schiacciato un moscerino con la zampa dell’elefante, solo che mettere in moto l’elefante è costato un mucchio di soldi. Al contribuente, natu-
ralmente. Potremmo chiamare il neo ministro della Salute Fazio lo Sciupone.
Primo Mastrantoni
CLASS ACTION Il testo di legge sulla class action è farraginoso. Quello che dovrebbe essere un testo che ha come obiettivo la tutela dei cittadini consumatori, svilisce e stravolge il suo intento. La legge sulla class action, così come è entrata in vigore, è anche economicamente onerosa, completamente sbilanciata, in quanto va a favore dell’azienda. In sostanza è una norma spettacolo in quanto l’azione collettiva è di fatto inutilizzabile. Una cosa è annunciare che sia stata depositata un’azione collettiva, e un’altra è annunciare di
Cinguettii di mare Pieni di graffi ma ancora tutti interi. Questi beluga l’hanno scampata bella, sono appena sopravvissuti all’attacco di un orso polare. Saranno stati i loro strilli a salvarli? I beluga, cetacei diffusi nei mari artici, sono tra i mammiferi marini più chiacchieroni, comunicano con acuti vocalizzi simili a un cinguettio, tanto da essere soprannominati ”canarini del mare”
aver dato mandato ai legali di studiare una class action. In questo modo si tende a creare delle aspettative nell’opinione pubblica per uno strumento che è di per sé inutilizzabile. Le aspettative saranno disattese a causa della farraginosità delle procedure e per la scarsissima tutela realizzata con questa legge, che sarebbe meglio cancellare. Pertanto, invi-
to ad una chiara e trasparente informazione nei confronti dei cittadini affinché vengano a conoscenza dei limiti relativi alla class action italiana.
Monia Napoletano
BENE GATTUSO È positivo che un personaggio pubblico come Gennaro Gattuso, anche testimonial della promozio-
ne turistica della Calabria, individui nel federalismo, e nel federalismo fiscale, lo strumento per il rilancio della sua regione e del Mezzogiorno in generale. In passato, il federalismo veniva falsamente accusato di poter penalizzare il Mezzogiorno; oggi, invece, viene individuato come un essenziale strumento di rilancio.
Fabrizio Carcano
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
“La città delle donne”: che strano film! Roma, 20 dicembre 1978 Caro Simenon, nel mio piccolo film, Prova d’orchestra, ci sono e succedono tante cose; quello che invece mi sembrava di non averci messo e di non aver mai avuto l’intenzione di metterci sono i significati, gli spunti, la simbologia, che stanno scatenando in questi giorni accese polemiche alimentate da uomini politici, ministri, giornalisti, sociologhi, sindacalisti, persino la Confindustria e forse, tra poco, anche la Sme!... un trambusto che mi trova impreparato, mi disorienta, mi intimidisce e dal quale finisco per scappare rintanandomi nuovamente a Cinecittà, dove ho ricominciato a preparare La città delle donne, un film che era già in preparazione fin dall’anno scorso e poi si era fermato proprio in questo stesso periodo natalizio. Adesso tento svogliatamente di riprenderne la preparazione. Che strano film! O meglio: come è strano quello che mi stava succedendo con questo film! È la prima volta che mi capita di sentirmi così inerte, vuoto, estraneo nei confronti di un progetto che devo realizzare. E anche il film mi dimostra di essere altrettanto indifferente e irragiungibile, chiuso com’è in una sua compatta opacità. Ci disistimiamo reciprocamente. Federico Fellini a Georges Simenon
ACCADDE OGGI
DIVIETO DI FAR POLITICA Egregio Novi, nominando le «anime bellicose» che fanno ostacolo al clima sereno, necessario alla realizzazione di quelle riforme condivise auspicate da Napolitano, lei fa bene a dire: «…innanzitutto Di Pietro», sia pur nominandolo dopo Feltri. Desidero farle cortesemente osservare che la furbizia della sinistra che, quando l’arrangia, consiste a mettere tutti sullo stesso piano non inganna più nessuno. Il cerchiobottismo di comodo che vuol equiparare le critiche a Fini e a Casini formulate da Feltri, reo solo di mettere in chiaro il voltafaccia dei due Giovin Signori, insoddisfatti per la tenuta di Berlusconi, a un politico come Di Pietro, privo di qualsiasi disegno politico, unicamente animato da odio totale verso il Cavaliere e il suo governo. Che Feltri voglia togliersi qualche sassolino dalle scarpe, rimproverando ai due Giovin Signori le loro abiure, i loro rinnegamenti, può piacere o meno (a lei sembra che dispiaccia molto) ma rientra nel libero e franco dibattito politico. Non vedo in che cosa questi
Su delibera del Consiglio Nazionale del 29/12/2009 è convocato il IV Congresso Nazionale del Centro Cristiano Democratico per il giorno 29/01/2010 alle ore 10.00 in Roma, via Torino n.146, presso il salone delle Confcooperative, per discutere e deliberare in ordine allo scioglimento del Centro Cristiano Democratico e la conseguente nomina del liquidatore.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
9 gennaio 1900 Fondazione della società sportiva Lazio
1912 I Marines invadono l’Honduras
1916 Vengono ritirate le ultime truppe dell’Intesa lasciando l’Impero Ottomano vittorioso 1923 Juan de la Cierva esegue il primo volo su un autogiro 1945 Gli Stati Uniti invadono Luzón nelle Filippine 1947 Il Regno Unito riconosce l’indipendenza della Birmania 1950 Eccidio delle Fonderie Riunite a Modena: 6 manifestanti morti e oltre 200 feriti 1951 Inaugurazione a New York della sede ufficiale delle Nazioni Unite 1957 Comincia ad operare la base permanente Amundsen-Scott South Pole Station 1960 In Egitto inizia la costruzione della Diga di Assuan 1972 La Rms Queen Elizabeth viene distrutta dal fuoco nel porto di Hong Kong 1991 I sovietici occupano Vilnius per fermare l’indipendenza lituana
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
«continui attacchi» di Feltri ai leader della maggioranza possano prestare il fianco all’accusa di voler impedire l’avvio di riforme condivise. Altra cosa, invece, sono le prese di posizione oltranziste, estremiste e anarcoidi del commissario di polizia Di Pietro che con la sua demagogia riesce a tenere in ostaggio i moderati del Pd. Mi consenta, non intendo offenderla, ma quando afferma che «nel ricostruire la nazione e le condizioni di agibilità per la sua democrazia, bisognerà tenere conto anche dello stato di abbandono in cui una parte del Paese si trova» lei dà l’impressione di tenere un sermone degno del più modesto prete di campagna, ma indegno di un osservatore politico avvertito. Infine lei cita Fini che dice «l’affermazione della democrazia dell’alternanza e la fine delle contrapposizioni ideologiche ripropongono l’esigenza di valori unificanti e condivisi, ». Le chiedo: quali possibilità ci sono che un discorso come questo possa essere accolto da una sinistra che, in buona parte, vive ancora con la testa rivolta all’indietro, paurosa di ogni novità, sospettosa di ogni iniziativa che non le appartenga, invidiosa del successo altrui, rancorosa e insofferente verso chi, facendo ipso facto prova di fascismo strisciante, non condivide i suoi sentimenti (non si può parlare di idee) e, per finire, alleata ad un demagogo della peggior razza, furbo e senza scrupoli, che la tiene in ostaggio? Con simpatia.
Carlo Signore
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
SANITÀ IN BASILICATA: PREVENZIONE PRIMA DI TUTTO La Basilicata: la regione più malata d’Italia. I dati censiti su talune patologie, come l’obesità, il diabete, il cancro, la collocano all’ultimo posto della graduatoria nazionale. Non ci piace fare questi riferimenti ma l’approssimazione con cui si gestisce a livello politico questo settore la dice lunga.Da anni osserviamo criticamente che l’ospedalizzazione, con le sue spese obbligatorie, condiziona la nuova politica della sanità moderna, che punta tutte le sue attenzioni sulla prevenzione che in Basilicata avviene in modo approssimativo.Entrando nelle pieghe delle sofferenze croniche dei cittadini della Basilicata, si scopre che sono primi in Italia per le malattie croniche del cuore, perché 5 è il dato regionale, a fronte di una media nazionale di 3,6 e di una media per il Sud di 3,4 (che e la stessa che si registra in Puglia). Terribile anche il primato relativo al diabete: 7,2 in Basilicata, a fronte di una media-Paese di 4,8 (nel Mezzogiorno e 5,5 e in Puglia 6,4). Entrambi i casi potrebbero, forse, essere in relazione con un altro primato lucano, quello che li vuole i più «ciccioni» d’Italia. Infatti, dai dati medici diffusi due mesi fa nell’ambito dell’Obesity Day 2009, emerge che gli obesi in Italia sono il 17% degli uomini e il 21% delle donne tra i 35 e i 74 anni; mentre in Basilicata si arriva al 34% per gli uomini a al 42% per le donne. E il rapporto obesità-diabete-problemi cardiaci è ormai una tale evidenza epidemiologica che la comunità scientifica ha coniato, e usa abitualmente, il termine «diabesità». Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A (risponde Errico Novi) Egregio signor Carlo, nell’articolo a cui lei si riferisce, come in altri che liberal ha pubblicato negli ultimi tempi, non c’era alcun intento censorio nei confronti di Vittorio Feltri. Come tutti il direttore del Giornale è libero di scrivere quello che pensa, ovviamente nei limiti del rispetto che si deve a ogni persona. Casomai è in discussione il contribuito che dalle cannonate di Feltri può arrivare al rasserenamento del clima. Non sarà facile discutere di riforme con il quotidiano di proprietà del premier che tiene sotto tiro tutte le parti in causa. Io non mi dispiaccio di quanto pubblica il Giornale, piuttosto lei pare irritato dal fatto che qualcun altro, oltre a Berlusconi, in questo Paese si permetta di fare politica. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, a suo giudizio, sarebbero “giovin signori”colpevoli sostanzialmente di impostura. E no: visto che nel Pdl non si discute di nulla, tutto si riduce a una corte di ossequiose comparse – eccezion fatta per Tremonti – vorrà consentire pure ad altri di fare politica. Sarà pure possibile sollevare allarmi, chiedere attenzione per la famiglia, impedire che i pochi punti all’ordine del giorno, quando non li stabilisce Tremonti, li detti la Lega, eccetera. Vogliamo consentirlo, o fare politica al di fuori della cerchia cortigiana che circonda Berlusconi è reato di lesa maestà? O secondo lei bisogna per forza stare nel Pdl ad aspettare mesi prima di poter discutere d’altro che non siano le leggi sulla giustizia? Da ultimo, a proposito dell’accostamento ai preti di campagna (categoria rispettabile), terrei a dirle che sono orgogliosamente e dolorosamente napoletano. E non posso sopportare certe cose: né che persino in una commemorazione con il presidente della Repubblica vada via la luce, né che dopo ventinove anni (ventinove!) dallo spegnimento dell’ultimo altoforno, l’ex area Italsider, unica vera (e potenzialmente meravigliosa) spiaggia della cosiddetta città più bella del mondo non sia stata ancora bonificata. Saluti.
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PAGINAVENTIQUATTRO Risorse. Dai delfini sminatori ai leoni marini anti-crimine, ecco la nuova “arma” della Marina militare Usa
Super-cuccioli in missione di Marco Ferrari roblemi di sicurezza? Ci salveranno gli animali tra falchi spia, bassotti col fiuto fine, beluga antisottomarini e cammelli del deserto. Ultima risorsa conosciuta: i leoni marini. Un team della Marina Militare Usa, di stanza a San Diego, ha infatti preparato i mammiferi acquatici a svolgere compiti di difesa e di controllo sottomarino. Gus, Gremlin, Joe e Nick sono apparsi dei veri poliziotti subacquei nelle esercitazioni eseguite in Italia. Oltre a essere animali simpatici, scendono rapidamente sino a 330 metri sotto il livello del mare, individuano oggetti e uomini sul fondo e sono persino capaci di agganciarli e tirarli in superficie grazie ad un anello che legano alla schiena e che si aggancia di fronte alla bocca. Insomma la miglior squadra di controllo portuale in condizione di scovare qualsiasi ordigno esplosivo, rifiuto tossico, mina o arma chimica.
prie azioni militari senza alcun problema, sostituendo i veicoli sottomarini autonomi (Auv) dotati di sensori avanzati nel recupero di oggetti sul fondale. Salutano alzando una pinna, come fossero arditi incursori, e si lanciano dal gommone per raggiungere l’obiettivo della missione. La loro funzionalità non è a solo scopo militare: Jean Benoît del museo di storia naturale di Parigi e Mark Hindell dell’università della Tasmania hanno usato i mammiferi marini come “stazioni mobili”di monitoraggio per studiare le più remote e inaccessibili acque del
P
ne in una casa di Fallujah, in Iraq e trova, non un covo di ribelli, ma un minuscolo cucciolo a cui viene posto in nome di Lava. Ovviamente Lava diventa un soldato leale e sicuro, una protezione perfetta per il buon Jay Kapelman. Ma mentre i cani randagi scodinzolano da una parte all’altra dei confini, per un soldato è un vero guaio cercare di portarsi via dall’Iraq un cagnetto. Alla fine Kopelman riuscirà nel suo intento e, raggiunta l’agognata pensione nel sud della California, si sposerà con una donna che, guarda caso, ha un cane della stessa età di Lava. Come ci insegna il caso di Lava, l’uso degli animali a scopo di difesa è sempre più diffuso. L’unità cinofila ”Aoukitis” dell’esercito israeliano addestra da tempo cani-soldato con cintura dotata di pulsori elettronici che emettono vibrazioni programmate. I cani vengono utilizzati per compiti di perlustrazione, di ricerca e di attacco del nemico e ca-
SPECIALE
La squadra anticrimine sottomarina ha al suo interno delle specificità: pare che Gremlin abbia un fiuto speciale per subacquei e sottomarini sospetti mentre nessuno come Gus sa afferrare oggetti sul fondo. Così, mentre Gremlin, risale rapidamente su un battello per ricevere in premio una lauta razione di pesce, il subacqueo catturato scorre inevitabilmente verso la superficie tramite la sagola collegata al gancio attaccato al corpo dell’animale. I 4 esemplari hanno un’età molto diversa tra loro, da 1 a 28 anni. Di solito pesano sui 60 chili e divorano da 7 a 9 chili di pesce il giorno. Al centro US Navy di San Diego si allenano tutto il giorno, passano gran parte del tempo sulla terraferma, apprendono a indossare sensori e telecamere e scendono là dove nessun essere umano può spingersi. Gli istruttori, che sono anche i loro migliori amici, indossano magliette con la scritta a “You deploy ’em, we destroy ’em”. La Marina statunitense dispone già di 30 esemplari inquadrati come veri soldati, sotto l’etichetta Marine Mammal Fleet System Mk5. Sono stati adoperati in vere e pro-
mondo. «Il risultato positivo di queste esperienze offre nuove opzioni che gli altri Paesi potranno tenere in considerazione nei loro piani per la protezione dell’ambiente marittimo» ha sottolineato nel corso di una conferenza stampa all’i-
Già in passato ci si era spesso affidati a falchi-spia o a bassotti dal fiuto fine. Ma c’è chi, come la Lav, contrasta l’operazione in difesa degli animali sola d’Elba il nuovo direttore del Nurc (Nato Undersea Research Center), il francese Francois Regis Martin-Lauzer. I leoni marini e i loro addestratori, uniti nella sigla “Sistema MK5”, hanno raggiunto l’Italia con un velivolo speciale dallo Space and Naval Warfare System Center Pacific d’intesa proprio con il Nurc, impegnato a progettare sistemi non letali per la protezione di porti e navi. Ma gli ambientalisti sono contrari a queste esperienze: «Gli esperimenti bellici che coinvolgono leoni marini nell’ambito del progetto Catharsis2 sono un ulteriore, drammatico esempio, di sfruttamento animale» sostiene Michela Kuan, biologa, responsabile del settore vivisezione della Lav. Tutto questo mentre nel nord del Cile sono morti un migliaio di esemplari di cucciolo di leone marino a causa forse della mancanza di cibo derivante dal fenomeno del Nino. Non è la prima volta che la US Navy addestra e utilizza cetacei, tra cui orche e delfini, per la scoperta di ordigni esplosivi. L’esordio fu nella guerra del Vietnam, poi per lo sminamemto del porto iracheno di Umm Qasr, la città a 50 chilometri a sud di Bassora, definita operazione “war dolph”, dove venne impegnata una squadra di delfini. Meno sofistica e più collaudata è esperienza che viene narrata nel libro “Un marine, la guerra e un cane di nome Lava” di Jay Kopelman, edito da Mursia.Vi si racconta di un squadra di marines che fa irruzio-
piscono solo ordini impartiti in lingua ebraica. I pakistani hanno a disposizione un’ottima flotta di falchi-spia con antenna incorporata che invade regolarmente il territorio indiano. I topi del Gambia, invece, se la cavano bene con le mine anti-uomo inesplose sui campi di battaglia, anche a costo di rimetterci la pelle. Il mitico plotone di mammiferi marini (delfini, leoni marini, beluga) addestrati dall’ ex Unione Sovietica in una base della Crimea e resi celebri dal caso di “Palla di neve”, che nel ’94 divenne protagonista di un film di Maurizio Nichetti, è stato invece smantellato.
I 27 esemplari rimasti nella base militare russa sono stati venduti all’ Iran e trasferiti nel Golfo Persico, impiegati per sorvegliare le acque dello stretto di Hormuz. Dalle ceneri della storia emergono poi tanti eroi animali: gli elefanti di Annibale, i topi lanciati per spargere malattie nelle città medioevali assediate, i cavalli della carica dei Seicento a Balaclava, i cammelli di Lawrence d’Arabia, i muli nella prima guerra mondiale, i cani-mina dell’Unione Sovietica, i gatti-bomba, i pipistrelli che sganciavano ordigni di notte contro i giapponesi, i delfini usati nella seconda guerra mondiale con cariche esplosive magnetiche da attaccare alla chiglia delle navi, i piccioni viaggiatori che collegavano i battaglioni americani in avanzamento verso al Germania. Anche per gli animali impegnati nelle operazioni belliche c’è il meritato riconoscimento: a Londra è nato il primo cimitero per gli “eroi di guerra”con coda, pelo, ali e pinne. Si tratta del Animals War Memorial Found in Park Line. La mascotte è il soldato 2709: un eroico piccione, che sacrificò la propria vita per la corona nella prima guerra mondiale.